anno IV numero 36 aprile 2007

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anno IV numero 36 aprile 2007
anno IV
numero 36
aprile 2007
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Qualche tempo fa il mio amico Raffaele è venuto da noi in masseria. Ha portato con sé un piano a coda. Per un giorno il
piano e la sua musica erano lì, al centro di tutto. Intorno la nostra vita e al centro il pianoforte. Raffaele è un barzellettiere
nato ma quel giorno mentre suonava qualcuno di noi ha pianto. Come se il pianoforte fosse la voce nascosta, quella
romantica, malinconica, struggente. Come se gli estremi fossero lì a portata di dita e con loro tutte le sfumature. Dal
pianissimo al fortissimo, tutte le corde toccate sembrano avere risonanza da qualche parte dentro. Il pianoforte è forse il
prolungamento più completo di ciò che vibra (è percosso, accarezzato) e che le parole non sanno spiegare. Una volta ho
suonato Keith Jarret sulla sua schiena, è le ho detto tutto senza dover dire niente. Sembra che la gente se ne sia accorta,
che il bianco e il nero di una tastiera bastino, emozionino di nuovo così come più di un secolo fa. Lontano dal nostro
ascoltare ma vicino al nostro sentire. Sarà l’età, la vita, ma ci scopriamo diversi, sensibili al fascino di alcune cose. Il 12
aprile abbiamo invitato un pianista che ci ha conquistato senza fare rumore. È Giovanni Allevi, a cui abbiamo dedicato la
copertina di questo numero di Coolclub.it. Ed è anche per questo che abbiamo dedicato il numero di aprile del giornale
a un solo strumento, al piano solo. Moda, fenomeno, poco importa. Il piano va forte. Einaudi, Allevi, Bollani, e una serie di
pianisti italiani e non, regalano la musica “colta” alle masse. Momento importante che vale la pena di raccontare. Forse
un momento per guardarsi un po’ in soggettiva, senza contorno, a nudo. Così ci siamo sentiti, piacevolmente a nostro
agio. Segno che ce n’era bisogno, come prendersi una pausa di riflessione. Sarà stato il caso, ma ci piace pensare il fato,
la fortuna a far coincidere tutti i pezzi che alla fine compongono le pagine di questo giornale. Pianissimo, fortissimo, come
il titolo del nuovo album dei Perturbazione, che abbiamo intervistato. Nato, cresciuto, e chiuso sotto l’egida della melodia.
Sarà la primavera, il pianoforte sullo sfondo, ma tutto è dolce come una discesa. C’è gioia (Joy) per questo numero, nelle
sue parti sempre uguali ma sempre nuove, nei dischi, nei libri e nei film che ci hanno emozionato. Quasi un invito a fermarsi,
a concedersi un momento, un pomeriggio, un giorno, quello che serve a farsi del bene. Perché alla fine è ciò che conta di
più. Una serie di interviste per incuriosirvi, input sparsi in punta di dita. Il resto è nelle prossime pagine. A voi scoprirlo.
Buona lettura.
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
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Anno IV Numero 36
aprile 2007
Iscritto al registro della stampa
del tribunale di Lecce il
15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Hanno collaborato a questo
numero: Vito Lomartire,
Ilario Galati, Giovanni Ottini,
Valentina Cataldo, Dino
Amenduni, Emanuele Flandoli,
Gennaro Azzollini, Enrico
Martello, Giancarlo Bruno,
Luca Greco, Nicola Pace,
Federico Baglivi, Marcello
Zappatore, Rossano Astremo,
Stefania Ricchiuto, Ludovico
Fontana, Emiliano Cito, Mauro
Marino, Sabrina Manna, Willy
De Giorgi, Roberto Cesano
Ringraziamo le redazioni
di Musicaround.net,
Blackmailmag.com,
Primavera Radio di Taranto
e Lecce, Controradio di
Bari, Mondoradio di Tricase
(Le), Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
QuiSalento, Pugliadinotte.net,
Rete Otto e SuperTele.
4 Giovanni
Allevi
5 Ludovico
Einaudi
7 Solo Piano
9 Keep Cool
14 Piani Rosa
21 Avion Travel
20 Nicola
Andrioli
22 Perturbazione
24 Salto
nell’indie
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Danilo Scalera
25 Coolibrì
35 Appuntamenti
Stampa
Martano Editrice - Lecce
31 Be Cool
38 Fumetto
Chiuso per scherzo....
L’abbonamento al giornale
varia dai 10 ai 100 euro. Per
informazioni 3394313397,
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A circa sei mesi dall’uscita il suo ultimo disco Joy ha già superato
quota 50 mila copie, le sue esibizioni live conquistano sempre e
comunque il tutto esaurito: il compositore e pianista marchigiano
Giovanni Allevi è una delle sorprese più importanti della musica
italiana degli ultimi anni. Ad aprile tornerà in Puglia (dopo i fortunati
concerti di Bari e Taranto) per due spettacoli imperdibili a Barletta
(mercoledì 11) e al Teatro Politeama Greco di Lecce (giovedì 12).
Il 21 maggio si esibirà per la terza volta al Blue Note di New York
Questo numero del nostro mensile è dedicato ai pianisti. Grazie
ad artisti come te, Einaudi, Bollani (solo per fare alcuni esempi)
credi sia cambiato il vostro ruolo?
Io non credo di avere un ruolo, tanto meno un ruolo sociale. Il
mio unico compito, che coincide con la mia passione viscerale, è
quello di avere una dedizione assoluta nei confronti della musica.
I cambiamenti che essa crea nelle persone e nella società sono
così inspiegabili che umilmente scelgo di non considerarli.
Il tuo non è solo un fenomeno musicale ma anche mediatico.
Sei un musicista, sostanzialmente classico, eppure hai un seguito
da artista pop. Come ti spieghi tutta questa attenzione nei tuoi
confronti?
Posso solo avanzare delle ipotesi: credo che la mia musica
abbia un impatto emotivo “violento” sulle persone che scelgono
spontaneamente di rendersi ad essa vulnerabili. Mai come in
questo periodo i ragazzi cercano di entrare in contatto con le
proprie emozioni più profonde, le proprie, senza proiettarsi in
quelle altrui. Mi sono ritrovato ad essere, con mia grande sorpresa,
un “trascinatore di folle” prima ancora di avere una visibilità
mediatica.
Riempi teatri in mezzo mondo, sei stato in Cina e negli Stati Uniti.
Quali sono le differenze nel pubblico?
Non ce ne sono. ’essere umano, nella sua profondità, è sempre lo
stesso ed è sempre diverso. Non riesco a pensare al pubblico in
termini numerici perché ogni individuo è unico ed irripetibile.
Non credi che in Italia ci si accorga sempre tardi e di riflesso dei
fenomeni, o semplicemente delle cose belle?
Se faccio riferimento alla mia esperienza, devo dire che il pubblico
italiano si è accorto di me ad una velocità vertiginosa. Si parla
sempre degli italiani come disattenti, esterofili, che dedicano
poca attenzione alla musica e alla cultura. Sciocchezze! L’Italia è
detentrice di una spiritualità culturale che tutto il mondo ci invidia,
e sarà il volano di un risveglio delle arti per il prossimo futuro.
Com’è stata l’esperienza di aprire i concerti di Jovanotti? Gli stadi
sono cosa ben diversa dagli austeri teatri...
I teatri mi sono sembrati tutt’altro che austeri! Tornando agli stadi,
ricordo un’emozione talmente grande da rimanere quasi in
apnea. La cosa che non posso dimenticare è stato il silenzio, quasi
irreale, che i ragazzi mi hanno regalato durante l’esecuzione. Per
non parlare dell’applauso finale, simile ad un goal!
Nel tuo spettacolo racconti gli episodi che hanno caratterizzato la
nascita dei brani. È un modo per esorcizzare la paura?
Sì. Solo poche parole, che non hanno alcun obiettivo didascalico
o didattico. Mi occorrono per trovare un contatto umano col
pubblico, per non provare la sensazione di dover dare, ma di condividere.
è vero che in casa non hai un pianoforte e che componi i brani
mentalmente?
Sì, è vero. Per necessità, perché il mio bilocale a Milano è
troppo piccolo, ma soprattutto per scelta. Non voglio che il
mio linguaggio musicale sia condizionato dalla manualità, che
rischierebbe di finire sempre sugli stessi percorsi. È importante che
la mente sia lasciata totalmente libera di assecondare la Musica
senza limiti fisici. Nei miei dieci anni di studio della composizione
sono diventato un abilissimo “contrappuntista”, figura “in voga”
nel Medioevo, e trovo molta soddisfazione a sovrapporre più
linee melodiche in una scrittura più orchestrale che pianistica.
Parlaci un po’ di questo tuo “inno alla gioia”...
Da quando ho deciso di abbandonare la sicurezza, la mia vita
si è trasformata in una avventura, all’insegna della mia passione
travolgente, la musica. Ora sono più stressato, ansioso, tutto può
accadere, e tutto mi sta accadendo. Vivo da sognatore. Ho
scelto di lasciare le redini del controllo sulle cose, ho scelto di
appartenere a quell’umanità dispersa, gettata nell’esistenza. Ma
sono felice!
Quanto del minimalismo americano e quanto invece della
tradizione classica è nella tua musica?
Considero il minimalismo americano una “contro spallata”
alla dodecafonia europea. Da un eccesso (l’incomprensibilità
dodecafonica) si è caduto nell’altro (l’estrema comprensibilità
minimalista). Ora è giunto il momento di abbandonare le
definizioni, le correnti, le tecniche compositive, e di ricominciare
a fare musica, così come facevano i grandi compositori del
passato, i giganti della tradizione classica europea, elaborando
un linguaggio che abbia la stessa forza strutturale, ma che sia
vicino al nostro tempo.
Il rapporto con la musica quanto è testa e quanto è cuore?
Quando le due dimensioni trovano un equilibrio collaborativo, la
miscela che se ne ottiene è esplosiva. In particolare, nella musica
classica, più che in qualunque altro ambito, i due elementi sono
compresenti. C’è un piacere emotivo nel ricevere un contenuto
musicale puntuale, ma c’è anche un piacere intellettuale nel
seguire le costruzioni più complesse.
Cosa ascolti? Cosa leggi?
Ascolto poche cose, e sempre quelle. Musica classica soprattutto,
perché è fondamentale confrontarsi continuamente con i grandi
del passato. C’è poi la musica che suona ininterrottamente nella
mia testa, che chiede di essere plasmata in un pentagramma
scritto, e che spesso può crearmi qualche problema di
attenzione.
Pierpaolo Lala
CoolClub.it
La musica di Ludovico Einaudi è stata descritta spesso come
minimalista, classica, ambientale, contemporanea.Ma si andrebbe
incontro a sicure difficoltà qualora si decidesse di assegnare una
definizione al suo genere compositivo. La formazione di Einaudi
è indiscutibilmente classica, esordisce come compositore agli
inizi degli anni ’80, scrivendo musica per orchestra e da camera,
per il teatro e la danza, poi intraprende un suo cammino, alla
ricerca di un linguaggio più libero, che sia in grado di assorbire
culture ed influenze musicali diverse, tra cui il rock, riprendendone
l’immediatezza, la carica emotiva e l’impatto sonoro. Negli ultimi
quindici anni ha pubblicato numerosi cd tra i quali Stanze (1992),
Le Onde (1996), I giorni (2001), Una mattina (2004). Nel 2005 è
pubblicato un altro suo profondo lavoro, Diario Mali, con Ballaké
Sissoko alla kora, strumento musicale africano. Einaudi è inoltre
autore di numerose colonne sonore per film. Nell’ottobre 2006,
esce Divenire, il nuovo album contenente 12 nuove tracce. Il 27
marzo si è esibito al Teatro Team di Bari.
Com’è stato concepito questo nuovo lavoro?
Il progetto è nato in un arco di tempo abbastanza ampio perché
ho cominciato a scrivere le prime cose nel 2002, nel frattempo
ho fatto un altro album, che è Una Mattina. Divenire è nato da
alcuni brani che avevo scritto in occasione del Festival “I Suoni
delle Dolomiti”, per piano, due arpe e orchestra d’archi. Se
dovessi fare un paragone, potrei dire che questo lavoro è stato
concepito come un quadro, in parte ispirandomi ai paesaggi di
Paolo Segantini, ma soprattutto cercando di dipingere con la
musica alcuni elementi della natura come le montagne, i fiumi,
le pianure, ad esempio come quei quadri del Settecento in cui
ad una lato era rappresentata la notte, dall’altro il giorno, o
il mare da una parte ed un pastore col suo gregge di pecore
dall’altra, e in lontananza i segnali di una battaglia in corso oltre
una collina. Ma non parlerei di musica descrittiva, piuttosto di
una serie di immagini che nell’insieme rappresentano un quadro
musicale: con l’ascolto si ha la percezione completa del discorso
musicale costituito da tanti elementi che convivono, nessun
brano dell’album è lì per caso, fanno tutti parte di un mosaico
che ho pian piano composto. In alcuni punti ci sono picchi di
suono più forti, in particolare quando c’è l’orchestra, passando
per momenti musicali più delicati con il pianoforte solo o con l’uso
dell’elettronica che ho fatto, quindi convivono qui tutte le mie
esperienze, diverse sonorità che fanno parte del mio universo di
questo periodo che va dal 2002 a oggi.
Divenire non fa che confermare il successo nei teatri di una serie di
pianisti, spesso autori e compositori delle proprie musiche, come
spieghi questo fenomeno italiano?
Penso che probabilmente in Italia, vista la scarsa cultura musicale
che c’è, la musica, in quanto non fa parte della vita normale delle
persone, bisogna cercarsela un po’ per conto proprio: non c’è
una educazione musicale che permetta la produzione di una
cultura italiana vera della musica. Nonostante questo gravissimo
fatto, dato che l’Italia sotto questo punto di vista è in ritardo
rispetto ad altri Paesi musicalmente progrediti, diciamo che sta
nascendo certa curiosità ad ascoltare qualcosa che vada al di
fuori delle canzoni. Col tempo, parlo perlomeno dell’arco di 1015 anni in cui faccio concerti, si è creata un’ attenzione anche
verso forme diverse di musica che non contengono il cantato,
più difficili da ascoltare rispetto ad una canzone, dovuta ad una
serie di canali alternativi grazie ai quali questa musica si è fatta
sentire, parlo dei concerti ma anche del cinema, grosso veicolo
di diffusione di musiche che difficilmente è possibile ascoltare in
una radio privata.
È evidente nella sua produzione una certa attenzione alla musica
etnica, in particolare quella africana, come le collaborazioni con
Toumani Diabate o Ballake Sissoko, ma anche quella armena,
cito il celeberrimo suonatore di duduk Djivan Gasparijan…
È di mio interesse approfondire la conoscenze delle varie musiche
che ci sono nel mondo, ciò mi spinge ad avere curiosità verso altre
culture musicali: ho avuto la fortuna di stare due volte nel Mali,
una volta in Armenia, viaggi che mi hanno permesso di seguire
più da vicino i discorsi che mi interessavano. A volte un artista
trova delle sintonie che magari sente in altre parti del mondo ed è
interessante andare a vedere in loco che succede.
Dopo questo tour, a quali progetti lavorerà?
Adesso c’è un progetto che ho fatto con i fratelli Lippok, si tratta di
registrazioni dal vivo fatte a Berlino durante uno dei concerti che
abbiamo tenuto insieme fin dall’autunno scorso: appena avrò il
tempo riascolterò queste registrazioni e ci lavorerò su. Inoltre tra
poco uscirà in Inghilterra il film This is England di Shane Meadows
(grazie al quale Einaudi ha ricevuto la nomination per la colonna
sonora al British Indipendent Film Awards, ndr) e ho ricevuto altre
proposte dall’Inghilterra che sto valutando.
Ci interesserebbe sapere quali sono i cd che girano nel suo lettore
e quali libri sta leggendo in questo periodo.
Ultimamente mi son portato dietro nella tournee inglese il disco
dei Tinariwen, un gruppo del Mali; ho ascoltato The Eraser, il
disco solista di Tom Yorke. Recentemente ho ascoltato anche un
bellissimo disco di Josè Gonzalez, un cantautore folk sudamericano
residente in Svezia. Per quanto riguarda le letture, devo dire
che in viaggio mi riesce molto difficile leggere dei libri dall’inizio
alla fine quindi preferisco avere con me testi di rapida lettura,
come le pubblicazioni di Olafur Eliasson, un artista danese che
fa esperimenti con la luce, ha fatto una bellissima istallazione a
Londra chiamata Weather Project (nel 2003, al Tate Modern, ndr).
Leggo piuttosto frammenti di saggi, che mi fanno riflettere su delle
idee, che mi danno degli stimoli di pensiero, non è un momento
questo in cui riesco a concentrarmi sui romanzi.
Vito Lomartire
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Per quanto si faccia fatica a considerare il pianoforte lo strumento
cardine del secolo appena trascorso – o perlomeno il più
rappresentativo -, sono molti i dischi di solo piano fondamentali
per l’evoluzione della musica, capaci in alcuni casi di creare una
vera rottura rispetto alla tradizione. Chiaramente sono i jazzisti a
utilizzare lo strumento in chiave maggiormente innovativa, basti
pensare al rag-time, la cui novità sostanziale rispetto al passato
è esplicitata sin dalla denominazione (tempo a brandelli). È
Jelly Roll Morton, virtuoso dei tasti bianchi e neri, white man ed
egocentrico al punto da presentarsi, nel 1902, con dei bigliettini
da visita che riportavano sotto il suo nome la dicitura “Inventore
del Jazz”, a recitare insieme a Scott Joplin la parte dell’innovatore.
Certo è che Jelly con il suo pianismo eccentrico, dalla giovinezza
passata a Storyville sino alla consacrazione ottenuta grazie
a temi celebri prima della grande depressione, mostra che il
pianoforte è uno strumento affatto immobile ma capace di
adattarsi ai nuovi linguaggi della musica afro-americana. Joplin
da parte sua è da considerarsi il pioniere del nuovo utilizzo dello
strumento, autore di pezzi memorabili come Maple Leaf Rag e
The Entertainer. Inizialmente considerata musica da bordello, dal
rag attingeranno anche i grandi compositori colti del secolo, da
Debussy a Satie. Saltando in avanti di qualche decennio, un altro
pianista destinato a scrivere una delle pagine più affascinanti del
jazz e al contempo capace di apportare innovazioni al metodo
pianistico è Lennie Tristano. Italo-americano cieco e misantropo
sino a sfiorare l’anacoretismo, Tristano è universalmente
riconosciuto come il primo musicista ad utilizzare la registrazione
su più tracce remixate in fase finale. La composizione è Turkish
Mambo, presente in Lennie Tristano del 1955, disco che ospitava
anche il celeberrimo Requiem. Pietra miliare per i musicisti che
verranno, la musica di Tristano è capace di una forza dolorosa
e opprimente e dischi di solo pianoforte quali The
New Tristano e Descent Into The Maelstrom portano
lo strumento a limiti fino a quel momento inesplorati,
gettando così i semi per l’era del free. In Italia il
decano del pianoforte è senz’altro Giorgio Gaslini,
figura chiave del nostro jazz, nonché uno dei musicisti
del bel paese più conosciuto all’estero, ideologo
della “musica totale”, figura esemplare di musicista
che persegue innovazione e impegno (due aspetti
che nel jazz sono andati spesso a braccetto).
Per quanto le pietre miliari del compositore siano
suonate in banda (il celeberrimo Tempo e Relazione
è per ottetto, l’altrettanto celebre New Feelings è in ensamble
con Gato Barbieri, Don Cherry e Steve Lacy), mi piace ricordare
in questa sede il disco di solo piano Gaslini Play Monk, che il
compositore milanese dedicò alla musica di Thelonious Monk nel
1981. Tralasciando altri grandi titani dello strumento, i cui momenti
memorabili sono raggiunti però in nutrite formazioni (Cecyl
Taylor, il simbolo della musica sudafricana Abdullah Ibrahim e
naturalmente lo stesso Monk che con le sue note sbagliate e la
diteggiatura ineducata ha insegnato molto a tutti i musicisti che
lo hanno seguito), facciamo un altro salto in avanti nel tempo:
provate a chiedere in giro ad appassionati di musica il titolo di
almeno un disco di solo-piano. Io l’ho fatto e la risposta nella
stragrande maggioranza dei casa è stata The Koln Concert.
Il concerto che Keith Jarrett tenne davanti alla gigantesca
cattedrale di Colonia il 24 gennaio del 1975 e che pochi mesi
dopo divenne un disco della Ecm è un must del genere: al di là
delle leggende - per problemi di organizzazione a Jarrett venne
dato uno strumento non revisionato che lo porterà a variare
l’esecuzione dei quattro movimenti, tralasciando le ottave più
alte e quelle più basse - il concerto di Colonia è un disco che
si proietta oltre i generi codificati. Melodia e improvvisazione,
romanticismo sfrenato e rigore accademico: per dire una
banalità, cultura alta e bassa in comunicazione evidente e
proficua. A dire il vero Jarrett in quel periodo aveva inciso altri
validi dischi di piano-solo, ma è il concerto di Colonia a restare,
saccheggiato a piene mani da cinema e televisione. A questo
proposito, esemplare è l’utilizzo che ne fa Moretti in Caro Diario,
durante la visita al luogo in cui fu ucciso Pasolini (in Aprile il regista
filmerà una scena identica, su una spiaggia del brindisino, dopo
l’affondamento della Kater I Rades, che si portò sul fondo del
Mediterraneo più di cento albanesi, nel ’97 scegliendo ancora
una volta un pianista, Ludovico Einaudi). È anche vero che
questo disco incarna tutta una serie di stereotipi legati proprio
alle composizioni di solo piano.
Tornando in Italia, è innegabile che gli ultimi anni abbiano visto
una produzione di dischi di confine per pianoforte mai registrata
prima. Dischi che in alcuni casi hanno venduto anche parecchio
riuscendo ad ottenere una platea molto più vasta di quella
riservata di solito a quella nicchia. Musicisti peraltro diversissimi
che noi ci divertiamo a mettere insieme solo per comodità e
per essere coerenti con l’incoerenza di
questo pezzo. In effetti i consensi ottenuti da
Stefano Bollani, Giovanni Allevi, Ludovico
Einaudi e co sono sorprendenti. Si va dal
ludico ma rigoroso approccio del primo al
minimalismo nymaniano del terzo passando
per il romanticismo pop del secondo. Inutile
negare che anche in questo caso il veicolo
pubblicitario ha “spinto” nelle classifiche
musiche che altrimenti avrebbero ottenuto
numeri ben diversi.
Ilario Galati
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
!!!
Myth Takes
Warp/Self
Punk-Funk/****½
Due indizi, come i nuovi lavori di Rapture
e LCD Soundsystem, ne forniscono già
una prova convincente. Ma se dovesse
mai servire un altro disco a dimostrare
che punk e funk non sono solo due
parole che faceva figo mettere insieme
qualche anno fa, ecco il nuovo album
dei !!!. Forse il fenomeno ha esaurito il
suo appeal mediatico, e magari oggi
nessuno chiamerà più i Rapture a
suonare su una passerella a Milano, ma
la sostanza dell’azzeccato connubio tra
musica da ballo e sonorità rock resta
e ritrova, in queste 10 canzoni, nuove
ragioni d’essere. Gli otto musicisti che si
celano dietro al nome che neanche il
Prince più enigmatico (si pronuncia chk
chk chk), sfornano un disco denso e
complesso, ma allo stesso tempo, forte
di una vivace immediatezza. E mentre
James ‘LCD’ Murphy lavora di stile sui
loop più fortunati del suo precedente
lavoro e i Rapture smussano i loro spigoli
punk più graffianti, tutti e due a favore
del dancefloor, i !!! fanno un reale passo
in avanti innescando una specie di
processo inverso. All’impeto della cassa
funk, che pestava quasi sempre dritta
nel loro precedente Louden Up Now, si
aggiungono ora nuovi sapori dub, trame
new wave e tanto impatto rock. Delle
lunghe jam session in bagno lisergico
a cui ci avevano abituati, rimangono il
condensato melodico di canzoni come
la titletrack d’apertura, due minuti e
mezzo di fuga di basso alla Soul Coughing
a braccetto di cupe chitarre western.
Segue il fragore della batteria scalpitante
di All My Heroes Are Weirdos, ed è subito
festa. Indentico l’inizio della scaletta del
loro pirotecnico show lo scorso 22 marzo
a Londra. Già alla seconda canzone
il bellissimo teatro dello Shepherd Bush
Empire si trasforma in una discoteca
labirinto, e si inizia a sudare. Mira dritto
allo stomaco il bel singolo Heart of Hearts
con la sua forte spinta ‘chemical’ che
fa quasi rave, e la bellissima Must Be
The Moon alterna un sincopato rapping
old school ad un ritornello uscito da
qualche misconosciuto pezzo soul-disco
di trent’anni fa che farebbe l’invidia
delle Scissor Sisters. I rimandi e riferimenti
a gruppi ed epoche diverse si perdono
e si incastrano a più livelli per tutta la
durata del disco. Il funk di Parliament e Sly
Stone che prende casa nella Manchester
di New Order e Happy Mondays (Break
In Case Of Anything), spunti dal sapore
country su incedere marziale in pezzi
come Yadnus. Sparsi poi vari innesti Sonic
Youth e Clash sulla pianta madre Talking
Heads. Una baraonda di influenze e
sonorità mescolate con naturalezza, una
disciplinata anarchia di stili, energica e
irresistibile, alla quale è difficile rimanere
indifferenti o restare fermi.
Giovanni Ottini
KeepCool
10
Brett Anderson
Brett Anderson
V2
pop / ***
Arcade Fire
Neon Bible
Merge records
rock-folk / ****
Dopo
Jarvis
Cocker
è
il
turno
di
un
altro front man
d’eccezione.
Dopo il disco
solista
dell’ex
leader dei pulp
tocca a quello
dei Suede: Brett
Anderson.
Per
la serie come
liberarsi dei miti
in poche e semplici mosse. Negli anni 90
gente come questa mi faceva impazzire;
ho sempre voluto avere il ciuffo di Brett
Andersono, la sua voce, il suo carisma
da erede di Bowie, quel suo essere
dandy, efebico, impalpabile. Dietro di
lui i Suede incarnavano il mio sogno new
romantico, le loro canzoni distillavano gli
anni che vivevamo, erano rock, eleganti,
decadenti, ambigue, innamorate. Spirito
che Brett non ha perso, quando canta
che l’amore è morto avvolto dai violini. Lo
avevamo lasciato al suo ultimo progetto
The Tears al fianco di del grande Bernard
Butler e oggi lo ritroviamo solo in 11 tracce
tutte a sua firma. Dopo aver cantato
di una generazione Brett ha deciso di
raccontare se stesso e di farlo con il suo
stile inconfondibile.
Osvaldo Piliego
Timbaland
Gli Arcade Fire sono considerati la più grande band della storia da loro illustri colleghi
(Bowie e Mr Coldplay in primis), cantano per pochi intimi sul palco della più bella
chiesa barocca londinese (ora sala da concerti di musica classica) e propongono
un assurdo miscuglio di rock intenso e sonorità inequivocabilmente folk condito da
studiati effetti elettronici. Neanche a dirlo, dunque. Non sono una band per tutti e
non tutti li apprezzano. Loro, d’altra parte, non si sforzano minimamente di ottenere
consensi a tutti i costi: “Il rock è libertà e rottura” hanno affermato in un’intervista.
Il loro primo vero album uscì circa tre anni fa e si intitolava Funeral: intenso diverso
malinconico. Con questo nuovo Neon Bible la band di Montréal parla di specchi
neri, bibbie al neon e oceani di rumore, chi li ha visti dal vivo giura che quei sette lì
sul palco non possono non impressionare. Meritevole, a mio avviso, la title track, una
ninnananna dai suoni profondi e intriganti per augurare una buona lunga notte di
musica.
Valentina Cataldo
Ry Cooder
My name is buddy
Nonesuch
blues / ****
Uomini come Ry Cooder percorrono
una strada, una missione personale che
nel suo realizzarsi coinvolge un sacco di
persone. Un lavoro di ricerca, il suo, fuori
dagli schemi, rigorosa e allo stesso tempo
vagabonda, libera. Molti lo ricorderanno
per aver riesumato i Buena Vista Social
club, alcuni per il suo bellissimo Chavez
Ravine, gli uni e gli altri continueranno ad
amarlo per questo My name is buddy. Presi
alla lontana dischi come questi potrebbero
sembrare roba per nostalgici, ma a ben
guardare la musica di Cooder, il suo lavoro,
è ricognizione e mappatura di quello che
siamo stati e siamo. Con questo nuovo
album Cooder esplora l’America degli
anni trenta, lo fa affidandosi al folk delle
orgini, al blues, al bluegrass, al rock grezzo
e a tre personaggi che ne raccontano il
clima. Si sentono echi di Irlanda, il country
in salsa tex mex con un pizzico di jug. E poi
la sua chitarra che mette insieme tutti e
tutto. Un altro disco da mettere accanto al
manuale di storia contemporanea.
Osvaldo Piliego
Shock Value
Interscope
pop / ***
Signori, ecco a
voi il dottore. Dica
33, verrebbe da
dire, vi diremo in
che condizioni è la
musica. Timbaland
è il produttore del
momento, capace
di trasformare Nelly
Furtado
in
una
credibile diva pop e Justin Timberlake in
una star internazionale. Produrrà Bjork ed
è oramai quasi ufficiale che metterà le
sue vellutate manine (ma avete visto che
bicipiti..) sul prossimo album di Madonna.
E voi sapete quanto Madonna tenga ai
suoi produttori. Il dottore è potente, e ci
riserva questo esercizio di stile sicuramente
non indispensabile, ma per certi versi
“doveroso”. Nelly e Justin impreziosiscono
il primo singolo, Give it to me, Release, che
segue nella scaletta (con il solo Justin) è
una gran bella canzone, si arriva fino al 2
man show finale, in cui il nostro duetta con
Elton John. Tutto il pop riassunto in poco più
di un’ora, e un’unica lampante morale:
Timbaland non è più un rapper, è un artista
a tutto tondo. Paradossale ma sistematico
infatti l’effetto che si ha, ascoltando Shock
Value: più cerca di muoversi in territori rap,
meno è efficace, più spazia, più si sente il
suo, oramai inconfondibile tocco. Di classe,
senza dubbio.
Dino Amenduni
KeepCool
Bill Callahan
Woke on a Whaleheart
Drag City
folk d’autore / ****
Quando si fatica a trovare il cantore di
un’epoca, di uno stato d’animo spesso ci
si dimentica di Bill Callahan, ed è un errore
grave. Per anni nascosto dall’alias Smog
,il nome di Callahan è uno di quelli che
non sfigura accanto a quello di Leonard
Cohen o Lou Reed. Vicino a loro per lo
spessore vocale, per sobrietà e profondità,
uomo a cui basta il minimo per trasmettere
emozioni indelebili. Come se il fumo, la
patina che prima lo copriva e impolverava
sia stata lavata via e ci restituisca l’uomo
più che mai. La maturità lo vede scoprire
nuove lande musicali, certo lontane dagli
esordi low-fi e più vicine piuttosto a Jonnhy
Cash o un Nick Cave prima del riflusso
garage (sentite l’ingresso di From the rivers
to the Ocean). Un poeta decadente degli
anni novanta, schivo, chiuso come la sua
musica che dopo la frammentarietà si
consacra in questo ultimo episodio alla
forma canzone più classica. Diamond
dancer sembra un Bowie da camera,
The Wheel pesca nel classico e colpisce
al centro. Le storie di Callahan lasciano il
segno pur parlando del quotidiano, forse
perché sono disarmanti o forse perché al
cospetto di artisti come questi è inutile farsi
delle domande. (O.P.)
11
AA.VV.
Let it bee
My honey records
twee pop / ****
Non si può restare indifferenti di fronte alla
dolcezza di progetti come questi. La My
honey records produce dischi preziosi e
belli nella veste, nel contenuto e nel miele.
Associazione bizzarra quanto naturale,
unita dal filo della qualità, dalla filosofia
del do it yourself, poco importa. Ciò che
conta è il risultato. Sulla bontà del miele
non possiamo pronunciarci (non abbiamo
ancora avuto il piacere) ma sulla musica
possiamo sottoscrivere e consigliare a tutti
i buon gustai di indie. Let it bee è la prima
compilation della My Honey records, tutta
incentrata sul tema del miele, delle api
e dell’apicoltura. Come il miele, l’indie e
il pop sono leccornia in ogni angolo del
pianeta e il campionario di paesi presenti
in questo album lo dimostra (Svezia,
Spagna, Brasile, Italia...). Lo spirito giocoso
e gioioso (twee) che anima l’esperimento
si articola in 20 tracce di pop che oscillano
tra elettrico, elettronico e acustico. Senza
prendersi troppo sul serio ma con amore e
gusto, così nascono le cose migliori, così è
nato Let it bee. (O.P.)
Keren Ann
Keren Ann
Capitol
rock / ***
Una di quelle voci capaci di smuovere
dentro. Quei tuffi al cuore di grandi donne
come Marianne Faithfull e Francoise Hardy.
Sporche, sensuali, graffiate dalla vita.
Voce che ha conosciuto il male di vivere
ma anche gli amori travolgenti. Sognante
come la Nico dei Velvet Undergorund, la
voce dell’israeliana olandese Keren Ann si
posa su tappeti musicali minimi, sorretti a
volte da note lunghe come le emozioni che
Jamie T
Panic Prevention
Pacemaker Records/Virgin
Lo-fi indie-reggae-punk-rap ****
Uno di quei dischi che quando li devi
recensire ti mandano nel panico. E ora
al lettore come glielo spiego come
suona Panic Prevention? La tentazione
è quella di cercare riferimenti in altri
gruppi, che diano un’idea di cosa passi
per la testa del ventiduenne londinese
Jamie T: Clash, The Streets. Beck,
Beastie Boys, Arctic Monkeys, per citare
giusto quelli famosi... No, così non ci si
capisce niente. Proviamo a partire dalla
strumentazione. Una drum machine dai
suoni neanche troppo realistici. Un basso
(acustico) passato attraverso un paio di
compressori e mixato in evidenza. E poi
una chitarra suonata svogliatamente,
con un minimo di distorsione, e una
tastiera di quelle economiche. Su questo
minestrone sonoro registrato e mixato
con evidente gusto lo-fi, la voce di Jamie
T, con quel timbro nasale, strascicato
e talvolta stridulo, e quel tanto di
stonatura made in the UK. Ed un fiume di
parole, inanellate in strofe che oscillano
perennemente fra il raggamuffin,
l’indie-rock, il rap. Un tipo strano, questo
Jamie T. Non capisci mai se faccia sul
serio o ti prenda in giro, se suoni così
perché meglio non sa fare o perché
meglio non vuole fare, se sia disperato,
svogliato, stolidamente allegro, geniale
o semplicemente ubriaco.
Emanuele Flandoli
racconta, altre volte da blues sporco, altre
ancora da ninna nanne. È quando la voce
sale e quasi si strozza, si strugge sottile e
sembra appesa a un filo, che tutto sembra
fermarsi per un istante. Perché quando
è il sentimento a prevalere sul volume, la
delicatezza sul rumore, cuore e orecchie
trovano pace ed è bellissimo. In alcuni
episodi i toni si alzano un po’ rovinando
l’intimità raggiunta. Una sorta di Carla Bruni
con molto, molto più senso. (O.P.)
Nurse & Soldier
Marginalia
Brah/Jagjaguwar
psych-pop / ***
Perdonate la mancanza,
ma
davvero
non
sapevo dell’esistenza di
questo duo capitanato
da Robertson Thacher
(voi direte: e chi cazzo
è? È Bobby Matador
degli Oneida). Ecco,
è già da molto tempo
che il duo (l’altra è Erica Fletcher) del
Massachusetts suona insieme, fin da
quando erano teen-agers dicono, e nel
2001 avevano realizzato anche un primo
album, Ancient History. Ora la Brah rec.,
una sussidiaria della Jagjaguwar, stampa
questo loro secondo disco, Marginalia, e
devo dire che non è proprio niente male.
I due polistrumentisti, aiutati anche dall’altro
membro degli Oneida Kid Millions e altri vari
compari, realizzano questa serie di piccole
gemme psich-pop (durata media di un
minuto e trenta) affidando, con successo,
l’apertura ad una suadente ed elegante
Green Tea: 5 minuti di ipnotiche e pulsanti
tastiere, una voce che bisbiglia da lontano
e distorsioni elettroniche che sanno subito
conquistarti, davvero una cool-ata.
Difficile non considerare somiglianze e
differenze con gli Oneida: devo dire che,
seppur si tratti di un prodotto ben distante
dalla psicotica e angosciante dimensione
del gruppo principale, non è possibile non
notare come lo spirito più melodic-soft
che sta emergendo nei loro ultimi album
qui viene lasciato completamente libero
di esprimersi, chiaramente aiutato dalle
presenza della Fletcher, il cui cantato a
tratti mi ricorda certi vocalizzi di Nico (North
of Bartimore). In generale poi, la matrice
psych viene sostanzialmente mantenuta.
Ad ogni modo, ancora un tipico album
indie americano, che ben si posiziona nel
catalogo Jagjaguwar.
Gennaro Azzollini
KeepCool
12
Julie Doiron
Woke Myself Up
Jagjaguwar
folk / ****
Canadese, trentaquattrenne J.D. è giunta
al suo settimo lavoro ufficiale escludendo
una lunga serie di ep promozionali con gli
Eric’s Trip. L’esperienza con questa band
resta viva nell’attuale collaborazione con
il fondatore Rick White, con il quale realizza
a quattro mani una buona parte dei brani
sia nella composizione
che nell’esecuzione. Il
lavoro è ben elaborato
nell’alternanza
di
brani
suonati
in
sordina (You Look So
Alive, Swan Poun) e
quelli lievemente spinti
ma che preservano
comunque
un
carattere discreto dovuto alla voce
sospirata (Don’t Wanna Be/Liked By You).
L’ intero lavoro ha tutte le carte in regola per
emozionare i nostalgici amanti dei classici
di Joan Baez o di Janis Joplin (soprattutto
in Dark Horse). Bellissimi gli arrangiamenti,
molto scarni ma dalle grandi atmosfere
che spesso sfociano in sprazzi di indie (The
Wrong Guy). In definitiva un disco intimo e
pacato in cui le note si susseguono leggere
e naturali come un ruscello che fa il suo
corso. Dieci tracce tanto brevi quanto
intense, come dei piccoli libri, ma che
racchiudono grandi storie.
Enrico Martello
Cocorosie
The Adventures of Ghosthorse &
Stillborn
Touch and go
indie folk / ***
Joss Stone
Introducing Joss Stone
Virgin
Soul – R’n’B / ***
Terzo album per la ex bimba (ora ventenne) prodigio del soul, la ragazza bianca con
la voce da nera. Questo lavoro è intitolato Introducing Joss Stone proprio perché
rappresenta per la prima volta la vera Joss Stone, quello che l’artista stessa vuole
esprimere senza il condizionamento dei produttori, e con la volontà di voler dire
qualcosa di naturale in modo personale…e per la verità si sente… l’album, rispetto ai
precedenti, è più povero di contenuti e talvolta eccede nei vocalizzi che rimandano
in alcuni pezzi alla Christina Aguilera più ispirata. Naturalmente Virgin le ha affiancato
musicisti di prim’ordine, alla chitarra troviamo lo strepitoso Chalmers “Spanky” Alford
già chitarrista della RH Factor, senza contare che la produzione è affidata a Raphael
Saadiq e che tra le collaborazione troviamo quella della divina Lauryn Hill e dello
stimatissimo rapper Common. Un album godibile, suonato e arrangiato bene, ma
difficilmente rimarrà alla storia.
Zanca
Il velo di mistero che ha sempre aleggiato
intorno alle sorelle Cassidy comincia a
dipanarsi. È passato qualche anno, due
album e il loro connubio artistico comincia
a definire i tratti che La maison de mon Reve
e Noah’s ark avevano solo accennato.
Perse in un gioco di citazioni, tra giocattoli
dell’infanzia usati come strumenti musicali,
in un tragicomico divertimento le Cocorosie
riescono come sempre a trascinarti,
dolcemente suadenti, in un mondo che
è solo loro. Un mondo in cui il blues del
delta incontra l’hip hop, l’operetta da
club parigino e Bjork tutto associato con
una leggerezza quasi fanciullesca. Un
mondo glaciale e struggente, divertente
e irriverente orchestrato con equilibrio e
attenzione per le piccole cose. Il glitch più
impercettibile, un piano che suona lontano
come le melodie che rievoca, le due
voci che giocano a stridere a coccolarsi
e a coccolarti. Questo The Adventures
of Ghosthorse & Stillborn è un disco più
maturo non solo nel concept di partenza
(più completo e coeso dei precedenti)
ma anche nel suono affidato a Valgeir
Sigurdsson. Tra chi sostiene che siano
incantevoli e chi invece è sicuro che siano
un bluff io sento di essere semplicemente
catturato dai dischi delle Cocorosie, di
perdere per poco più di quaranta minuti il
contatto con il mio circostante e di scoprire
il loro, le loro stanze, i loro oggetti, sentirle
vicinissime.
Osvaldo Piliego
Lucinda Williams
West
Lost Highway
folk / ***
Like a rose fa parte della colonna sonora
di Transamerica - nella scena principale
di questo gran bel film - ed è un pezzo
meraviglioso. Così ho scoperto Lucinda
Williams, folk-singer americana vincitrice
di tre grammies e considerata nel 2002 la
miglior
songwriter
d’America dal Time
Magazine. Una lunga
carriera alle spalle
e un altrettanto
lunga strada da
percorrere davanti
a lei, la cantante,
nata nella Louisiana
e figlia di un poeta,
porta
dentro
sé
tutta la potenza dei
paesaggi
naturali
che ha visto e vissuto, la sua è musica
country, semplice e diretta. Questo nuovo
album, uscito il mese scorso, è frutto e
conseguenza di esperienze dolorose e forti
(vedi ad esempio Mama You Sweet), per
tale motivo il dolore, si sa, rende le persone
speciali e creative- è un album intenso,
triste, tagliente. La sua voce, un po’ roca
un po’ cruda, fa da filo conduttore tra le
tredici tracce, per un totale di circa un’ora
di musica. I pezzi possono risultare monotono, data la semplicità degli arrangiamenti
non particolarmente elaborati. All’interno
di questo West non ho ancora trovato la
mia Like a rose, ma continuerò a cercarla.
Valentina Cataldo
KeepCool
Tracey Thorn
Out of The Woods
Virgin
pop / ****
Vi piace il pop
degli ultimi anni?
Acquistate
a
scatola chiusa il
secondo
album
solista di Tracey
Thorn - quasi un
nuovo esordio: il
primo risale al 1982!
Il perché? Fa tutto
ciò che ascoltiamo
dalle nuove pseudo-star internazionali, ma
meglio. In fondo, se ti puoi permettere di
guardare dall’alto verso il basso le nuove
leve britanniche a metà anni ‘90, con
i tuoi (mai troppo rimpianti) Everything
But The Girl e permettendoti di aprire la
stagione del Trip-Hop cantando Protection
dei Massive Attack, perché le cose non
dovrebbero potersi ripetere? Belli i The
Knife? Superateli con It’s all true, il primo
singolo. Madonna è una diva ma non sa
cantare? Get around to it sarà il sottofondo
dei vostri pre-serata. Nella musica da club
non ci sono grandi voci? La panacea è
ancora in quest’album, alla voce Grand
Canyon. Ma nemmeno i confronti rendono
giustizia, vista la sua fulgida carriera, alla
quale tributa ancora morbide sonorità
jazzy (i fan degli EBTG grideranno al
miracolo) per un prodotto completo e
furbo (per le modaiole citazioni agli anni
‘80). Sconsigliato a chi ama le chitarre, ma
caldamente suggerito a tutti gli altri.
Dino Amenduni
13
che vede inoltre la collaborazione
vocale del cantautore M. Ward, e
l’intima Thinking about you, scritta nel
1999 con Ilhan Ersahin, leader dei Wax
Poetic; crescono le sue ambizioni, mentre
cerca di scrollarsi di dosso l’immagine
stereotipata da cosiddetta “regina del
jazz”. Nei due precedenti album ( Come
Away With Me e Feels Like Home) Norah
Jones aveva dedicato ampio spazio alle
leggere melodie suonate al piano; tre
anni dopo è invece la chitarra a prendere
il sopravvento sui tredici nuovi brani.
La Jones è in grado di sublimare storie
semplici grazie a una calibrata delicatezza
e a una sapiente eleganza. Not too late,
oltre ad essere costruito intorno a brani
essenziali, deve la sua particolarità, alle
raffinate e accattivanti interpretazioni
della dolcemente ingegnosa cantante
americana.
Zanca
Un album intimo, spontaneo, maturo e
disinvolto: tutto questo è Not too late, il
nuovo lavoro di Norah Jones. Un disco
quasi interamente scritto di suo pugno,
eccetto Sinkin’ soon del produttore Lee
Alexander, suo bassista da molto tempo,
keep reachin’up
Timmion reacords/Goodfellas
Soul / *****
+
AA.VV.
Movers!
Vampi soul/Goodfellas
Soul / ****
Au Revoir Simone
The Bird of Music
Rough Trade/Cooperative
dance / ***
Norah Jones
Not Too Late
Blue Note
folk-jazz / ***½
Nicole Willis & the Soul
Investigators
Le Au Revoir Simone sono tre giovani
donne provenienti da Brooklyn amanti
dei synth e dalle voci piacevoli e allegre.
Il loro primo lavoro s’intitolava Verses
of Comfort, Assurance and Salvation e
uscì nel 2005 per la Moshi Moshi records.
Adesso, a distanza di due anni, esce il
primo vero e proprio full lenght. Le voci
allegre rimangono, il gusto per tastiere e
drum machine vintage anche ed ecco
che The Bird of Music è un album - undici
tracce per un totale di quarantacinque
minuti di musica - dance orecchiabile
affascinante. Tastiere in primo piano, e
le voci di Erika, Annie e Heather che si
alternano e si sovrappongono in pezzi
spesso pacati e soft, a volte più vivaci
come in Sad Song (a dispetto del titolo).
Le tre hanno suonato dal vivo alle sfilate di
Robert Normand, hanno aperto l’incontro
di lettura al Barnes & Noble con David
Lynch che le adora e sono venute sinora
una sola volta in Italia, qualche settimana
fa, come band supporter dei Nouvelle
Vague al Transilvania live di Milano.
Saranno in giro per gli States tutta l’estate
dividendo il palco con Peter, Bjorn and
John, Voxtrot e Frida Hyvonen e a Luglio
andranno a finire perfino in Giappone.
Non c’è che augurare loro buon viaggio,
e buona meritata fortuna.
Valentina Cataldo
Questi dischi rappresentano due approcci
diversi alla stessa matrice musicale.
Mentre Movers si propone di scoprire
vecchi gioielli, riportando alla luce ritmi
sommersi dalla polvere, Keep Reachin Up
di Nicole Willis (registrato alla fine del 2006
in Finlandia) cerca di reinventare quei
suoni restando fortemente ancorato alle
radici. Si può dire quindi che il comune
denominatore sia l’amore sconfinato nei
confronti della soul music.
L’ossatura di Keep reachin up è molto
urbana, con un suono vicino alla mitica
etichetta Motown o anche a cose più
recenti tipo Sharon Jones & the Dap-Kings.
Una delle più belle rivelazioni del 2006
per gli amanti del rare groove soul funk.
Un album puro, robusto e abrasivo dove
la scintillante voce di Nicole Willis ricorda
quella vellutata di Aretha Franklin.
Un disco consigliato per gli amanti
dell’armonia sgraziata.
Vampisoul propone Movers. L’etichetta
spagnola, artefice in questi anni di un
grandissimo lavoro di recupero ma anche
di scoperta di tesori nascosti, continua
ad offrire musica per palati sopraffini.
Per coloro che rimpiangono i meters e la
Detroit degli anni 60 Movers è un orgasmo
continuo e appassionante dove possiamo
trovare alcune perle come Think di James
Brown, eseguita dai Soul Seachers, o
alcune ballate latin del grande Willy Bobo.
Due dischi impeccabili ricchi di piccoli
tesori da dancefloor.
Postman Ultrachic
Da quale banalità iniziare…Dalla maggiore sensibilità femminile?
Dalle manine più piccole e delicate? Dal tocco più vellutato
sui tasti del piano? Lungi da me, queste righe hanno l’intento di
raccontare e descrivere uno spaccato dell’universo pianistico e
omaggiare alcune donne che hanno donato al mondo arte e
bellezza. Se si ama il pianoforte lo si fa sia quando è accarezzato
da Art Tatum sia quando scosso da Tori Amos, il resto è gusto,
predisposizione uditiva.
A onor del vero le donne pianiste passate alle luci della ribalta sono
state sempre meno numerose dei loro colleghi uomini e questa
fintamente velata forma di maschilismo è palese soprattutto nel
panorama classico, dove strepitose pianiste come la lettone Dina
Yoffe o l’argentina Martha Argerich restano mosche bianche ed
esempi estremamente isolati di un sistema quasi completamente
maschile.
Un ambito in cui il gentil sesso con fatica si è guadagnato
lo spazio meritato è quello
jazzistico passato, presente e si
spera futuro; volendo toccare
i punti fondamentali risulta
imprescindibile la figura di Nina
Simone, americana dalla vita
travagliata,
mille
battaglie,
mille delusioni, mille ferite e mille
rinascite che si avvertono nella
sua voce e sul suo piano, fatto
di pochi virtuosismi, lontano
da inutili decorazioni, diretto,
schietto e lacerante; la Simone,
amica di Malcom X e Martin
Luther King, abbandonò gli USA
e girò il mondo per fermarsi infine
nelle isole Barbados dove sposò
il primo ministro; fino al 2003
(anno della sua scomparsa)
ha rappresentato la forza
dell’orgoglio
afroamericano
combattivo, così come lo
ha rappresentato, in modo
sicuramente
più
discreto,
Alice Coltrane, figura mistica e
pianista, nonché arpista, eterea,
inevitabilmente oscurata, ma al
tempo stesso resa più famosa,
dalla gigantesca figura del marito
John, sono memorabili infatti le
ultime sessioni di registrazione di
Coltrane che vedono al pianoforte,
al posto del grande McCoy Tyner,
proprio Alice che ha contribuito
enormemente alla svolta spirituale
del sassofonista e portato alla
creazione di capolavori come
Expression e Stellar Regions.
Un pianismo più frizzante e solare
è quello di Diana Krall, bionda,
bellissima e delicata canadese;
sostenuta dal grande pubblico
dopo l’improvviso amore per
lo swing dei nuovi crooner, ha
scalato le classifiche mondiali con
album a metà strada tra il jazz più
tecnicamente rigoroso, struggenti
ballads architettate da vecchie
volpi del mercato discografico
e divertentissimi gioielli musicali
schioccadita. Un po’ più in giù,
a New York, troviamo un’altra
macinaclassifiche, Norah Jones,
figlia di Ravi Shankar (il maestro di
sitar del Beatle George Harrison) e
della cantante soul Sue Jones; con
una personalità discreta ma decisa
ha creato un dolce sound tendente
al folk di altissima classe; decisa in
egual modo ma sicuramente più eccentrica è la giapponese
Hiromi Uehara impressionante pianista dalla eccezionale tecnica
che unisce i linguaggi jazzistici (il suo mentore è stato il pianista
Ahmad Jamal che ha ispirato tra gli altri il jazz modale utilizzato
da un certo Miles Davis in Kind Of Blue) con l’utilizzo di synth
prettamente techno…assolutamente da sentire ma soprattutto
da vedere (durante Umbria Jazz 2004 è stata capace di oscurare
uno dei più blasonati quintetti di Herbie Hancock).
Si potrebbe continuare col nominare altre grandi pianiste (come
l’italiana Rita Marcotulli) ma poi non sarebbe altro che una fredda
rassegna di accenni e di piccole storie per un argomento e una
distinzione che non dovrebbero nemmeno esistere; mi piace
continuare a pensare alla musica con passione, rabbia, ansia,
noia, malinconia, gioia, profondità e spensieratezza senza sesso,
senza senso e senza età.
Zanca
KeepCool
15
Mace & Blodi B
Explosions in the sky
Due tra gli artisti più talentuosi
della
scena
hip-hop
milanese, Mace (produttore,
nel curriculum una serie di
collaborazioni con i migliori
MC della penisola) e Blodi B
(MC proveniente dal gruppo
Banhana Sapiens), in società
per un disco che dà una bella
spallata ai cliché dell’hip-hop tradizionale.
Diversamente dalle produzioni hip-hop a
cui siamo abituati, a farla da padrone non
è il rap, bensì la musica di Mace, un ottimo
impasto di sample funk e soul sporcati con
perizia da sciabolate di synth, saltuarie
chitarre elettriche ed un uso diffuso di delay.
Il tutto all’insegna di un groove profondo e
potente. Il rap risulta invece meno incisivo,
l’uso di metriche spezzate è interessante
ma tende a stancare, e i testi sono spesso
sconnessi o incomprensibili. I risultati della
combinazione sono altalenanti, ma il lavoro
è assolutamente interessante nell’insieme,
e può aprire all’hip-hop italiano scenari di
sviluppo diversi da quelli che hanno invaso
le radio nell’ultimo anno.
Emanuele Flandoli
Sono il gruppo postrock strumentale par
excellence. Chitarre
l’una
sull’altra,
bacchette
che
volano, corde che
si spezzano e al loro
posto altre corde.
Noise, silenzio, alti e
bassi, colori intensi poi
solo bianco, poi nero. Nessuna parola:
solo strumenti, arrabbiati, che piangono,
che gridano, che tacciono. Una corsa
all’aria aperta e un respiro che fa male alle
narici; forse, meglio, un volo in aereo nel
cielo nuvoloso. E poi la pioggia. Vengono
da Austin, Texas e sono gli Explosions in the
sky. Chi li ascolta si aspetta di trovare poco
equilibrio melodico e una travolgente
ondata di ritmi strumentali. All of a sudden
I miss everyone, sei pezzi, e le aspettative
non vengono certo deluse. Anche se c’è
chi, paragonando quest’ultimo lavoro agli
altri tre, crede che i precedenti siano stati
più -come dire- esplosivi. Come se nei pezzi
di quest’album si arrivi sempre lì lì al limite, e
proprio quando ci si aspetta il boom il pezzo
finisce. In ogni caso, rimangono dei pezzi
estremamente intensi, evocativi, violenti
nella loro dolcezza (l’intro di piano di So
long, lonesome, ad esempio…). La band
sarà in Europa in giro per i festival estivi, in
Italia il 28 Maggio al Covo di Bologna. Chi
volesse far un salto non esiti a chiamarmi.
Valentina Cataldo
Tilt
First Class Music / Universal
hip-hop / ***
Hyvonen Frida
Until Death Comes
Secretly Canadian
piano punk / ***1/2
Ancora
un
altro
gioiellino dalla mia
amata
Secretly
Canadian.
Questa
volta si tratta di una
piccola
gemma
svedese. A vederla
sembra una piccola
peste, una di quelle
ragazzine
punk
stile londra ’77. Capelli arruffati, vestitini
bislacchi, una vocina dispettosa e un
modo giocherellone di strippellare il
pianoforte. È stata accostata da molti alle
figure storiche del cantautorato femminile,
mai io sento ma proprio in questo suo
spirito “birichino” si sente un segno di
originalità che la distingue anche in quei
brani più classici e melanconici. In questi
il piano è scarno e a volte addirittura
solenne, tuttavia non sempre efficace. Al
contrario è nei pezzi più svelti che il disco
diventa davvero accattivante e fresco: il
piano è picchiato in modo elementare,
fanciullesco, piacevolmente stupido, punk
insomma. La voce, poi, è camaleontica:
ora fuggente ora pressante, ora delicata
ora impertinente, ora intensamente
struggente ora sbruffona. Da quello che
dice ne deve aver passate di cotte e di
crude; un senso di innocenza spezzata
pervade tutto l’album, ma da queste
esperienze Frida ha saputo tirar fuori la
giusta forza per dar vita a canzoni che
sanno lasciarti qualcosa dentro. Non tutti
quelli che hanno qualcosa da esprimere
sanno esprimerlo bene, e non tutti quelli
che dicono qualcosa hanno qualcosa di
buono da dire…
Gennaro Azzollini
All of a sudden I miss everyone
Temporary residence
post-rock / ****
David Karsten Daniels
Sharp teeth
Fat cat/Audioglobe
folk ****
Si parte dal folk del sud degli Stati Uniti,
come una traccia su cui sviluppare un tema
più articolato. Giusto per dare un indizio si
potrebbe pensare a un Devendra Banhart
con molti più amici e più psichedelico.
Questo Sharp teeth è un disco ispirato,
orchestrale, lirico, mistico. La passione per
la musica colta, il background di tutto
rispetto, sposano il pop, l’indie (a tratti
sembra esserci un che di Built to Spill un
po’ più edulcorato), l’ecletticità di Sufian
Stevens. Un disco ricco che ci presenta
un artista complesso in cui il gioco e
contrasto degli opposti genera scenari
musicali veramente interessanti (ascoltate
gli episodi strumentali). Su tutto sembra
aleggiare lo spirito protettivo di Bonnie
“Prince” Billy. Che le nostre emozioni
abbiano questo suono?
Osvaldo Piliego
Bobby Conn
King for a day
Thrill jockey
pop / ***
Molti lo considerano, e a ragione, il nuovo Ziggy Stardust, ciò
che forse Bowie avrebbe dovuto diventare se avesse saputo
raccogliere le nuove tensioni degli anni ’90 e riconsiderare il
proprio passato senza troppo autocelebrazione ma con un
pizzico in più di leggerezza e ironia che proprio l’etica glam
rivendicava. Ma per quanto mi riguarda, nulla mi toglierà
dalla testa l’idea che si tratti in realtà della versione indie di
Robbie Williams. Fateci caso: entrambi sono pesantemente
indebitati con i ’60 ma soprattutto i ’70 inglesi, entrambi
amano l’ambiguità sessuale, la stravaganza estetica, i
barocchismi musicali. Ciò che Jeffrey Stafford (questo il
suo nome all’anagrafe) ha in più semmai è proprio quella libertà creativa che per
l’appunto distingue (o dovrebbe distinguere) l’indie dal mainstream. Ad ogni modo,
con un po’ di ritardo, mi accingo a recensire questo nuovo lavoro che già da molti è
stato premiato come il suo ennesimo capolavoro dopo Rise Up e The Golden Age. Ed
in effetti il nostro colpisce ancora nel segno. Il disco, a partire dalla suite prog sinfonica
che poi esplode in riff hard-rock aggressivi, è tutto un pout-pourri di citazioni, bizzarie
e divagazioni: dalla eleganza stilistica di When the money’s gone e della title track
(di gusto pulpiano) ai coretti scopiazzati dai Queen in Love let me down, dal souljazz ruffiano di Twenty-one allo speed-pop ricamato di math-rock di Anybody, dalle
chitarre aliene di (I’m through with) My ego agli assoli di Mr. Lucky (una delle migliori,
che parte come se fosse una canzoncina mielo-pop con tanto di falsetti femminili
e poi si evolve in un crescendo di wah wah che ricordano un’estate dei primi anni
settanta). Trionfa su tutte la pacchianeria isterica della strumentale Sinking Ship. Alla
fine il disco risulta tanto tremendo quanto irresistibile. Se il suo obiettivo è lasciare
disarmato l’ascoltatore, allora il lavoro è perfettamente riuscito.
Gennaro Azzolini
KeepCool
16
Simone Cristicchi
Dall’altra parte del cancello
Ariola
pop, cantautorato / *** ½
Tantissima carne sul
fuoco, tanto arrosto,
un po’ di fumo. Questo
è Simone Cristicchi e
tutto sommato è un
buon segno, segno di
un potenziale che ha
bisogno solo di essere
affinato. Il successo
meritato di Sanremo permetterà all’intero
stivale di conoscere il vero Simone, attento,
critico, soprattutto ironico. Chi si aspettava
un Gaber in miniatura potrebbe rimanerci
male, ma potrebbe anche pensare che
va bene così, che Cristicchi racconta il
suo mondo, il nostro mondo. Fotografie
vivide, come L’Italia di Piero, Non ti
preoccupare Giulio, Laureata Precaria
(ideale proseguimento di Studentessa
Universitaria), ci raccontano delle paure
dei giovani, ma racchiudono anche la
voglia di esserci, di gridare. Nostra Signora
dei Navigli è anch’essa un racconto, ma
della storia musicale italiana, da Branduardi
a Caparezza: tentativo interessante nelle
intenzioni, meno nella pratica. È infatti
nei momenti in cui la creatività diventa
confusione che l’album stenta. Mentre
laddove la forma canzone è semplice e
allo stesso tempo matura (Legato a te, La
risposta, la sanremese Ti regalerò una rosa),
Cristicchi ci dimostra che le aspettative nei
suoi confronti non sono mal riposte.
Dino Amenduni
PFM
Stati di immaginazione
Sony & BMG
rock-progressivo / *****
Avevano
promesso
che
sarebbero
tornati e soprattutto
che
ci
avrebbero
regalato un grande
rock-progressivo.
Dopo il mai troppo
osannato
Dracula,
una solenne opera rock carica di estesi
e notevoli momenti progressivi, la PFM, in
concomitanza con il trentacinquesimo
anno di carriera, ha mantenuto la
promessa in modo, assolutamente, non
retorico ed usuale. Il nuovo ed originale
Daniele Silvestri
Il Latitante
Sony Bmg
di tutto un po’ / ****
Il segreto del successo e il miglior
pregio combaciano, secondo me,
con il peggior difetto: Daniele Silvestri
è difficilmente catalogabile. Ogni suo
disco, dall’omonimo d’esordio a questo Il
latitante, passando per Prima di essere un
uomo, Il dado e Uno due, è ricco di ritmi e
spunti, di parole impegnate e filastrocche
stupide e orecchiabili, di samba ed
elettronica, di puro rock e di arpeggi
delicati. Il cantautore romano sembra
giocare con la sua duttilità e per qualcuno
questo è un male. Anche a Sanremo (dove
è stato protagonista più di una volta) ha
spaziato tra l’orchestrazione della prima
apparizione al picchettaggio dell’Uomo
col megafono ma è anche stato serio con
Aria e divertente con Salirò e la recente La
Paranza. Insomma ascoltato un disco gli hai ascoltati tutti, dicono i maligni, eppure
ogni volta io sono “costretto” ad entrare in negozio e comprare la sua ultima uscita. Il
latitante è la solita enciclopedia musicale: intensa Mi persi, dilatata Faccia di velluto,
divertente La paranza, giocosa Il suo nome, riflessiva Sulle rive dell’Arrone, rassicurante
Io fortunatamente, dance Gino e l’Alfetta, simpaticamente melensa Ninetta Nanna
(Se tu m’amassi / senza interessi / mi capiresti / mica lo so), mazurka Che bella faccia
(dedicata al Presidente Silvio Berlusconi), jazzata Prima era prima. Tra gli ospiti Max
Gazzè (al basso acustico in alcuni brani), il Bove (voce degli Ohm), Mauro Pagani
(violino in Love is in the air) e Jorge Coulon degli Inti Illimani (in Ancora importante).
La chiusura è riservata ad una ghost track un po’ ambient.
Pierpaolo Lala
progetto è nato da un’idea del manager
della band, il quale dopo aver realizzato
otto cortometraggi ha chiesto alla PFM
di musicarli. Il risultato creativo, in parte
composto in seguito a sperimentazioni
progressive eseguite dal vivo, è Stati di
Immaginazione un lavoro in cui il gruppo ha
ritrovato appieno le proprie radici artistiche,
terminando un percorso iniziato quindici
anni prima (periodo del loro rinnovato
sodalizio). Negli otto brani non vi è nessuna
linea vocale, infatti l’intenzione era quella
di dare totale attenzione alla musica,
responsabile e complice assieme alla
visione dei cortometraggi di un’eventuale
stato d’immaginazione, infatti, il CD
è corredato da un Dvd contenente i
cortometraggi con lo scopo di migliorare e
completare, successivamente all’ascolto,
lo stato di immaginazione. Buon viaggio
prog-immaginativo a tutti.
Nicola Pace
Luca Gemma
Tecniche di illuminazione
Ponderosa / Edel
rock italiano / ***
Saluti da Venus, il suo esordio solista di circa
tre anni fa mi aveva colpito. Tecniche
di illuminazione, il secondo capitolo
della “nuova” carriera di Luca Gemma,
mantiene tutti i buoni propositi. Dopo una
lunga militanza in numerose formazioni,
tra le quali i Rosso Maltese in compagnia
KeepCool
di Pacifico, la via del musicista romano
(ma con un piede nel Salento) è sempre
più lineare e convincente. Tredici brani
che disegnano una quotidianità fatta di
personaggi, episodi, luoghi, sensazioni e
riecheggiano Beck, Lucio Battisti, Pearl
Jam, Mario Venuti, Alberto Fortis, David
Byrne e molto altro. Testi raramente banali,
con una costruzione scorrevole e narrativa,
arrangiamenti preziosi e produzione
affidata a Paolo Lafelice, già tecnico del
suono di Fabrizio De Andrè, Mauro Pagani,
Eugenio Finardi, Daniele Silvestri e Vinicio
Capossela. La mia preferita è la leggerezza
di Al pop del giorno preferisco il soul.
Pierpaolo Lala
Kama
Ho detto a tua mamma che fumi
Eclectic Circus/V2
Ironia d’autore / ***½
Dopo una lunga esperienza come
batterista degli Scigad, il trentenne
milanese Alessandro Camattini ha deciso di
mettersi in proprio. Ho detto a tua mamma
che fumi è il suo esordio (che segue un ep
di alcuni anni fa), targato Eclectic Circus,
firmato con lo pseudonimo Kama. Undici
canzoni che denotano ironia e intelligenza
nei testi e poliedricità nelle musiche. Nei
suoi racconti senti gli anni sessanta dei
Giganti o dell’Equipe 84, nuove e vecchie
generazioni della musica d’autore (Rino
Gaetano, Moltheni, Bugo e Amerigo
Verardi), i Beatles, Jeff Buckley, Badly
Brawn Boy e Beck. Ma soprattutto Kama
riesce a tenere assieme un cd che si lascia
ascoltare tutto d’un fiato e che propone
alcuni episodi di assoluto valore come
Icaro, Oggi ho vinto a Risiko, Principessa
alle sei, Lulù, Ostello Comunale. Completa
17
l’opera la cover de I poeti di Pierangelo
Bertoli. Un sound allegro e scanzonato
impreziosito da alcuni episodi intensi e seri,
sempre con l’ironia che scorre nelle vene:
“Passami un po’ di vita e insieme / anche
il pane per / raccogliere gli avanzi dei miei
sogni / dentro al piatto del passato / E so
che mi guarirai tu / Perchè sei un dottore /
O il mio amore...”. Davvero notevole.
Gazza
Piotta
Multi Culti
Universal
Hip-hop / **½
Mariposa
Best Company
Trovarobato
pop / ***½
Il titolo del nuovo disco di quel “settimino
multietnico” che sono i Mariposa ripesca
addirittura il logo più ambito dagli
adolescenti della fine degli ’80, quel Best
Company che chiarisce subito l’operazione
“nostalgia” attuata da Michele Orvieti &
co. Infatti il nuovo lavoro del gruppo di
“musica componibile” raccoglie le cover
registrate nei nove anni di attività per
progetti estemporanei quali compilation
e tributi. Al solito a farla da padrone sono
i suoni situazionisti e gli arrangiamenti un
po’ folli della compagine bolognese, che
dai Beatles (magnifica Ob-la-di Ob-la-da
con un campione tratto dalla colonna
sonora di un celebre film di Bud Spencer
e Terence Hill…divertitevi a indovinarlo)
ai Gong, passando per Jannacci e
Gaber, Stormy Six e Afterhours, omaggia,
trasfigura, fa a pezzetti, musica cara a
noi e loro in un percorso assolutamente
incoerente, con una verve, una creatività
e un’ironia da far invidia. Già che ci siete
recuperatevi anche il precedente doppio
Proffiti Now! Vero e proprio manifesto di
musica componibile e vetta artistica della
band.
Ilario Galati
Leggendo un paio di recensioni
entusiastiche ed ascoltando il singolo di
lancio, la divertentissima Troppo avanti,
ero convinto che, una volta scartato il
cellophane, avrei ascoltato il capolavoro
del Piotta. E invece. I pezzi davvero validi
di questo Multi Culti sono appena un
paio, e la multiculturalità sbandierata
dal titolo si riduce a (pochi) featuring
di MC stranieri (e quasi esclusivamente
francofoni). La ricerca “multiculturale”
che si poteva fare sulle sonorità è stata
invece completamente omessa, e anzi i
beat sono generalmente scadenti, quasi
dilettantistici. Gli unici momenti di rilievo
sono il già citato singolo, ottimo esempio
dello stile ironicamente trash che ha reso
famoso il Piotta, ed il miscuglio di lingue
della title-track. Per il resto il Piotta si
limita ad una ordinaria amministrazione,
in cui non mancano spunti interessanti
(L’incontro, La rue, Senti che pezza) ma
neanche cadute di stile decisamente
evitabili (Questa è la tua notte, Non
fermateci)
Emanuele Flandoli
KeepCool
18
4 Hero
The Besnard Lakes
Silver Mt. Zion e Jonathan Cummins
di
Bionic/Doughboys.
Un’ennesima
conferma dell’onda positiva che la scena
canadese sta cavalcando con successo.
Gennaro Azzollini
Conoscete
i
4
Hero?
Dovreste.
Hanno inventato il
drum’n’bass,
nel
1994.
Nel 1998
sono stati definiti
“i migliori remixers
del mondo”, dai
loro stessi colleghi.
Eppure, sono un
gruppo di nicchia.
Molti di voi hanno già ascoltato una loro
canzone, tra pubblicità, discoteche,
compilation, eppure non lo sapete. È ora
di rimediare e di onorare questo favoloso
duo londinese, che dopo tanta grazia,
si permette il lusso di fare il cd che ha
sempre sognato. Play With the Changes
è un tributo ai loro miti e alla loro stessa
storia. C’è una cover di Superwoman
di Stevie Wonder a dir poco rispettosa
dell’originale: qualcosa vorrà dire. Eppure,
è dove i 4 Hero non citano, ma creano, a
far esaltare. Non fatevi scoraggiare da una
scaletta strutturata in modo poco invitante,
con una parte centrale quasi noiosa e un
finale emozionante: il climax è infatti la
penultima traccia, Bed of Roses, in cui c’è
tutto quello a cui i 4 Hero ci hanno abituato.
La prima canzone dell’album, Morning
Child è il singolo, molto radio-friendly. Bella,
ma chi sono questi 4 Hero? Tappezzeria,
della miglior specie. E molto, molto di più.
Dino Amenduni
Secondo appuntamento
con i canadesi Besnard
Lakes scoperti dalla
Jagjaguwar
al
Pop
festival di Montreal.
Ancora un ottimo disco
che si spera possa avere
maggior fortuna del
precedente. Sì perché,
nonostante l’attitudine psych-noise la loro
musica è marchiata da una evidente
matrice pop da stadio (come lo è stata
quella dei Pink Floyd, per intederci) che
potrebbe permetter loro di guadagnarsi
una certa visibilità in ambito indie almeno
quanto bands del calibro di Piano Magic,
Low, Spiritualized (tanto per citare artisti
affini). In particolare il loro stile narcopsichedelico richiama in modo forse troppo
evidente proprio i Low, ma le similitudini non
finiscono qui: dalla ricchezza compositiva
dei Beach Boys, alla psichedelica trionfale
degli Arcade Fire; dalla ruvidità delle
chitarre di scuola shoegazer al minimalismo
elettronico del kraut rock, alla leggerezza
pop dei ‘60; la band insomma attinge idee
da vari ambiti della storia del rock per dar
vita con abilità a un vortice di chitarre,
cori, corni e sintetizzatori, glockenspiel,
organi e violini. Ampio il numero di
partecipanti, tra i quali citiamo George
Donoso III dei The Dears, Chris Seligman
degli Stars, Sophie Trudeau dei Godspeed/
La Monte
Play With the Changes
Raw Canvas
soul / ***½
The Besnard Lakes Are The Dark
Horse
Jagjaguwar
psych-pop / ***
Efterklang
Under Giant trees
Leaf
post / ***1/2
Dopo il disco d’esordio su Leaf, Tripper,
ecco il nuovo ep di questo ensamble
danese (ne sono un sacco: 5+3 + 7
ospiti) il cui nome sta per riverbero
(letteralmente “dopo il rumore”): 5 nuovi
lunghi brani di post rock nordico in stile
Constellation racchiusi in un ben curato
artwork ad edizione limitata (4500 cd,
1200 vinili).
Le canzoni nascono dal precedente
tour di Tripper, poi la loro buona riuscita
li ha convinti a registrarle un lavoro
inevitabilmente corale, orchestrale,
dal suono ricco di fiati, piano e archi.
soundtracks, glitch, folktronica stile
The Books; poi, a dirla tutta, un po’
troppa similitudine con i Godspeed
you black emperor e con le litanie
sofferte dell’ultimo Richard Youngs.
Anzi se vogliamo definire questo disco
potremmo proprio pensare al lamentoso
folk mitteleuropeo del nuovo Youngs che
si mixa con l’elettronica minimale del
vecchio Youngs, o altrimenti dei Gsybe
in versione digitale.
Bisogna dire però che questo disco
arriva un po’ troppo fuori tempo
limite. Non per niente proprio l’attuale
allargamento di orizzonti da parte della
Constellation esprime un tentativo
di fuga da un genere ormai in fase
Here Comes The Skinny Roller
Arab Sheep Records
elettro punk / *****
Il
nome
di
Steve Nardini
risponde ad una
carriera tanto
lunga quanto
poliedrica
che lo ha visto
protagonista
in
progetti
quali i Jitterbugs e i Railway Humanoids,
calcando ambientazioni che partivano
dall’hard punk e giungevano alla new
wave, ma con una costante componente
elettronica. Dopo una serie di lavori autoprodotti con l’ausilio del suo fedele sinth ed
una drum machine, giunge il momento dei
La Monte, nuova band formata con Teho
Teardo (basso) e Mirco Muner (chitarra e
campionamenti). La chiave di espressione
di Here Comes The Skinny Roller rimane
sempre e comunque un punk rock nervoso
che spesso e volentieri sfocia in sonorità
elettroniche e a sprazzi psichedeliche. Ciò
nonostante, è peculiare l’importanza che
viene data ad una melodia diretta ed
espressiva, poiché “è sempre di canzoni
che si sta parlando” citando le parole della
band. Le composizioni comunque non
mancano della giusta dose di aggressività
che richiama le loro radici post-punk,
quindi ritmi e chitarre veloci, ma avvolte
dalla magica atmosfera targata Nardini.
Un ottimo lavoro nato grazie al giusto
connubio tra sistematicità espressiva e
parentesi di puro delirio. Imperdibile.
Enrico Martello
Plastica
Plastica
Sferica
elettronica / **
di irreversibile decadimento: come
sempre, dopo il momento di massima
espressività e originalità, si degenera nel
manierismo (e questo vale ancor di più
per un genere che, quando se ne parlò
per la prima volta, fu subito inquadrato
come una sorta di neo-prog, ossia il
genere virtuosistico per antonomasia).
è quello che sta accadendo proprio
in questi anni, ma ciò non toglie che si
possa ancora scontrarsi con qualche bel
lavoro come questo.
Gennaro Azzollini
I gruppi che fanno proseliti sono pericolosi,
li trovi dappertutto, palesati o più nascosti.
Sembra quasi, che la formula “squadra
vincente non si cambia” funzioni per la
musica come per lo sport. Ma ci sono
tempi e condizioni in cui un fenomeno
musicale esplode e si impone. Ascoltando
questo disco dei Plastica non si può non
sentire pesante e onnipresente l’ombra
dei Subsonica. Formula azzeccatissima
quella di unire pop, rock, ed elettronica,
di avvicinare la sala concerti e la
discoteca. I Plastica percorrono questo
filone aggiungendo l’esperienza di ottimi
strumentisti ma peccando in freschezza
ed originalità. Rispetto alla citata formula
Subsonica aggiungono suoni che pescano
all’elettronica europea, altri che sembrano
rimpiangere certi Bluvertigo. L’obiettivo
della band sembra la classifica, i suoni sono
contenuti e tagliati ad hoc per passare in
radio. Sicuramente tra la manciata di brani
qualche potenziale singolo, ma alla fine
poco rimane. (O.P.)
KeepCool
AA.VV.
Soma Compilation
Soma Records
techno / ***
19
Ad ogni modo, da avere e tirare fuori in
occasione del party che faremo quando
avremo casa e testa libera.
Federico Baglivi
Octogen
2fiveonine
Soma Records
techno / ****
Festeggiamenti per la Soma records
quest’anno, 15 anni di attività e 200
single releases raggiunte nel 2006. La
label di Glasgow ha festeggiato con una
compilation che vede la partecipazione
degli artisti di punta del suo catalogo e
non, tra i tanti Alex Smoke (nella foto), My
Robot Friend, Octogen, Repeat Repeat.
Ritornano a produrre bit sonori anche i
Black Dog, presenti con una track sulla
compilation. Per quindici anni è stata un
punto di rifermento per la scena club in
tutto il mondo, si conferma tale con questa
nuova compilation che raccoglie un
poco tutti i generi che la Soma records ha
portato avanti in questi anni, dalla minimal
techno alla deep. Undici tracce da ballare
e cacciare via gli spiriti cattivi.
Federico Baglivi
Tarik1
Il dischetto rosso di Tarick1
Green Fog records
elettronica / ***
Andrea
Calcagno,
in arte Tarick1 viene
da Genova; prima di
essere Tarick1 ha avuto
un passato musicale
nel Laghisecchi e nei
Numero6. Esce con
questo primo album per
la Green Fog records
dopo anni di attività live, Il dischetto rosso
di Tarick1. In questo lavoro di 12 tracce,
Tarick da sfogo alla sua verve compositiva
elettronica passando da atmosfere
dancey, sfiorando i Daft Punk con battute
secche e voci vocoderizzate, fino ad
arrivare ad atmosfere glitch e dilatate
da ambientazioni più nord-oriented. A
volte i Daft Punk, a volte la tranquillità,
molto spesso l’house, qualche melodia da
tastierina giocattolo, ogni tanto un synth
che ricorda gli anni ottanta e le converse,
un alternarsi di sensazioni ed emozioni
diverse compongono questo lavoro. Non
tutte le tracce possono piacere, date
la varietà dei generi elettronici trattati.
Spettacolare, un bellissimo album. Bello
perchè me lo aspettavo diverso, me lo
aspettavo più anonimo, più minimal, più
“Soma Records”, me lo aspettavo poco
variabile, mi aspettavo di non riuscire
subito a capire la differenza tra una
traccia e l’altra, mi aspettavo di non
riconoscerle e distinguerle. Invece queste
tracce si fanno riconoscere e come. Pur
avendo un’impostazione prettamente
techno, contiene al suo interno anime
differenti. A volte è come ascoltare
gli Air leggermente più nervosi, a volte
capita di scambiarlo con un ennesimo
album degli Autechre. Sfiorando i Boards
of Canada e passando per Aphex Twin,
Marco Bernardi (in arte Octogen) ci
trasporta dalle atomosfere di Ligrgirl alle
disconnessioni testuali di Acieob, alle
battute più dure e danzabili di Scionide.
Ricompaiono i glitch, e vengono
elaborati nuovi break beat, e, pur non
essendo totalmente invasivi, ogni tanto
fanno la comparsa anche gli 8bit di
scuola Nintendo, come del resto in molti
altri lavori elettronici di questi anni. C’è
gusto e bravura in queste tracce, pronte
a imprimere un’altra orma italiana nella
storia dell’electronic music.
Federico Baglivi
Vivianne Viveur
The Art Of Arrangin Flowers
Goodfellas
art rock / ****
Ci troviamo di fronte ad un altro spiacevole
caso di un talento che, per poter
emergere, è costretto ad uscire dai confini
italiani. Nati nel 2000, i V.V. realizzano 2 ep
promozionali (Dominique Paints Only In
China, Funeral For a Cloud) grazie ai quali
ottengono numerosi consensi durante
le esibizioni nei maggiori locali londinesi.
Dopo sette anni di gavetta il loro lavoro
viene finalmente finalizzato dall’uscita del
primo album ufficiale, The Art Of Arranging
Flowers. Il disco mostra una struttura lineare,
coinvolgente, da un groove caratteristico
che riesce ad incastonare tra loro elementi
di new wave, punk, alternative e dark
come fossero i frammenti di un mosaico.
La track list scorre con estrema semplicità e
con il giusto equilibrio tra brani accattivanti
(Angel Grave, Virgin, Elise and the bad
moon) e quelli più riflessivi (Verlaine,
The Art Of Arranging Flowers), che si
succedono in modo da destabilizzare le
impressioni dell’ascoltatore costretto in un
vortice di ansie e carezze. Il sound cattura
l’attenzione grazie ad una voce squillante,
leggermente nasale, ma caratteristica,
accompagnata da un costante arpeggio
di chitarra che sfocia in frames ripetitivi,
a tratti minimalisti, e ritmiche distorte
puramente punk. La sezione ritmica ci
regala una batteria curata ed efficace
che crea dei pregevoli intarsi con un basso
presente e geometrico. Nel complesso è
un lavoro pari ad una fattura artigianale
capace di trasportarci verso ambientazioni
oscure ma serene, è il ritratto di un paese
deserto e silenzioso che spesso viene
colpito da tempeste di fulmini e vibrazioni
ben articolate. Chi sceglie di visitare questo
posto conoscerà il linguaggio dei fiori.
Enrico Martello
Maledicta
Eruption from inside
Autoprodotto/Halderabaram
sperimental estreme metal / ***
La band dei Maledicta nasce nel 2001 ad
opera di tre ragazzi
perugini. Dopo un
breve
periodo di
prova,
nel
2002
registrano
il
primo
demo dal titolo Epoca,
seguito qualche mese
più tardi dal secondo
Dark emersion. Grazie
alle recensioni positive
di magazines e webzines il gruppo riesce ad
esibirsi in numerosi concerti sparsi per l’Italia
e sul finire del 2006 esce il primo full lenght
Eruption from insides, un lavoro complesso
da criticare, da ascoltare ed oserei dire
ostico da riproporre live. La loro personale
tecnica compositiva vede confluire
melodic-death
metal,
ambientazioni
gotiche e decadenti, soluzioni tecnoelettroniche, in strutture multi-tematiche
ed eterogenee, legate ad una coerenza
caratteriale e stilistica di fondo che rende
la proposta, personale e coinvolgente.
Tutti i pezzi, ad eccezione di due episodi
più scarni e diretti, costruiscono la loro
formula elaborativa intorno ad un mix di
ritmi sostenuti intervallati da atmosfere
più malinconiche dove la melodia è
determinante; per non parlare degli incisivi
interventi pianistici, in contrappunto, dalla
forte espressività neo-romantica. Insomma,
un’ottima prova ad opera di questi ragazzi,
o decisamente eccellente se si considera
di essere al cospetto della loro vera e
completa prima opera.
Nicola Pace
KeepCool
20
Il panorama jazzistico salentino è in
salute. Sarebbe difficile fare l’elenco dei
nuovi musicisti che si sono affacciati sulla
scena negli ultimi anni. Merito anche del
lavoro della Dodicilune records che è
diventata punto di riferimento per molti.
Uno dei migliori pianisti in circolazione è
senza dubbio Nicola Andrioli, brindisino di
nascita e, ormai, parigino di adozione che
ha da poco pubblicato (sempre per la
Dodicilune) Alba.
Come mai hai scelto la formula del trio?
È stata una scelta dettata dai brani in
scaletta o, più in generale, ti rappresenta
di più rispetto ad altre formazioni?
Ben detto, la formula del trio è stata
dettata dai brani che ho composto, anche
se alcuni non erano stati pensati in origine
specificatamente per trio (come Chianti).
Osservando i tuoi trascorsi saltano subito
all’occhio eccellenti risultati nell’ambito
della musica classica. Quanto influiscono
sulla tua espressione musicale? Cosa ti ha
fatto avvicinare al jazz?
Il mio cammino musicale è cominciato
in modo assolutamente spontaneo. Ho
respirato musica fin da piccolo in casa
(mio padre è un sassofonista, mio zio un
batterista/pianista, e mio nonno era un
contrabbassista) e questo approccio
naturale verso la musica mi ha fatto
conoscere da subito l’improvvisazione,
come maniera di “giocare” con i suoni:
suonavo, senza avere nessuna conoscenza
tecnica e teorica, fino al momento in
cui mio padre decise di farmi studiare la
musica e iniziare un percorso conoscitivo e
professionale. Così mi sono avvicinato alla
musica classica e allo studio dei grandi
compositori, e allo stesso tempo coltivavo
la musica che sentivo dentro di me. Spesso,
durante lo studio di opere classiche mi
veniva spontaneo cambiare qualcosa
dello spartito, o semplicemente rivoltare
gli accordi o aggiungere qualche piccola
estensione per colorare e personalizzare la
pagina musicale (concedendomi a volte
troppe licenze). Non ho scelto di fare jazz,
ma ho fatto sempre musica attraverso una
certa filosofia jazzistica, di personalizzazione
e di liberazione.
Hai collaborato e studiato con grandissimi
nomi della scena musicale: da quali hai
tratto maggiori benefici dal punto di vista
umano e musicale?
Ogni grande artista ha qualcosa di
personale, ed è questo che lo rende
“grande”. Ultimamente ho avuto la
fortuna di suonare con Billy Hart e Dave
Liebman e da loro ho imparato come si
possono rompere le barriere che noi stessi
ci costruiamo: attraverso la loro profonda
conoscenza musicale giungono facilmente
al di là della musica stessa, intesa come arte
dei suoni: essa è la strumento per vedere
se stessi, in unione all’esistenza globale.
Suonare con loro significa esprimersi con
A proposito di pianisti...
Irene Scardia
Sabato 4 maggio il Teatro Antoniano
di Lecce, nell’ambito della rassegna
Suoni a Sud, ospita il concerto del
direttore artistico Irene Scardia, con una
produzione che ruota esclusivamente
intorno alla magia delle sue note.
Accompagnata da un ensemble di
nove elementi, la pianista salentina
alterna nuove composizioni a brani
tratti dal suo repertorio; arrangiamenti
originali di autori contemporanei
quali: Pat Metheny, Yann Tiersen e
Meredith Monk a brani della tradizione
salentina.
Lo stile è quello a cui ci ha da sempre
abituati, indefinibile nella sua originalità,
fatto di sonorità morbide e raffinate in
cui si rivela una forte matrice jazzistica
in
combinazione
con
elementi
mutuati dalla musica impressionistica
e riferimenti al pianismo moderno
contemporaneo.
Per questa nuova tappa della sua
ricerca
musicale,
Irene
Scardia
(pianoforte)
ha
scelto,
come
compagni di viaggio, Vincenzo Presta
(sassofono), Gianpaolo Laurentaci
(contrabbasso),
Ovidio
Venturoso
(batteria e percussioni), Erica Rizzo
(fisarmonica e percussioni a cornice)
e un quartetto vocale composto da
Carolina Bubbico, Antonella Mucelli,
Grazia Sibilla e Simona Vespucci.
tutto te stesso , al di là dell barriere (sia dal
punto di vista tecnico che da quello sociale)
e donare. La società attuale ci insegna
la competizione, il successo, la sfiducia, il
giudizio: questi sono tutti elementi che non
devono esistere durante una creazione
artistica, soprattutto in una creazione
collettiva come il jazz. I grandi ci insegnano
questo: guardare se stessi attraverso una
visione globale, di comunità.
Stai
sperimentando
alternativamente
due realtà antitetiche: Brindisi (la tua
città nativa e di “crescita musicale”’) e
Parigi (nella quale stai frequentando il
corso di perfezionamento di jazz presso
il Conservatorio Nazionale Superiore). Ci
puoi descrivere i pro e i contro delle due
città, dal punto di vista di un musicista
jazz?
Brindisi è la mia città natale, dove ho fatto
le prime esperienze di vita: la famiglia, gli
amici, le persone importanti, le esperienze
di “strada”, il mare ed il sole. Questo è
stato il primo approccio alla vita, i primi
suoni che ho udito, quelli che restano
dentro come una dolce eco. Parigi è
invece la città della conoscenza e della
specializzazione artistica: alte scuole di
jazz, enormi biblioteche e discoteche,
la possibilità di frequentare Masterclass
con i grandi della storia del jazz. Insomma
Brindisi non può competere con Parigi per
quanto riguarda le strutture e le quotidiane
esperienze artistiche che la città offre, ma
allo stesso tempo Parigi non ha il mare,
o la nostra luce, o la nostra semplicità (e
credo che la politica abbia l’obbligo di
tutelare la nostra terra). Credo che un
artista non debba mai finire di chiedersi,
non sotto un aspetto meramente settoriale
e tecnico-razionale, ma inteso come
domanda/scoperta. In questo modo la
profonda conoscenza dell’arte andrà al di
là dell’arte stessa.
Per chiudere, in quanto chitarrista, mi
permetto di chiederti di parlare della tua
predilezione per le composizioni di Pat
Metheny, e allo stesso tempo di indicarci
una rosa di tuoi musicisti preferiti.
Il mio primo musicista preferito è stato Pat
Metheny, il primo che ho amato. Con lui
ho conosciuto la Fusion, successivamente
distaccandomi da questo genere e
dall’approccio che Pat mi ha insegnato.
Ora ascolto di tutto e non solo jazz: amo
la musica africana, la musica classica del
900, il jazz degli anni 60 e 70, Miles Davis e
Coltrane.
Marcello Zappatore
Doveva essere una sola canzone, Il
giudizio di Paride scritta appositamente
dall’avvocato Paolo Conte per gli
Avion Travel. Dopo due anni dal primo
incontro, mediato dal grande lavoro della
discografica Caterina Caselli, esce Danson
Metropoli, un cd che contiene undici brani
del cantautore piemontese riarrangiate
dagli Avion. L’istrionico leader del gruppo
Peppe Servillo ci ha raccontato un po’ la
genesi e la realizzazione di questo lavoro, i
progetti futuri e i punti di riferimento.
Come nasce l’idea di questo Danson
Metropoli?
Il progetto è partito un po’ per caso un paio
di anni fa. Noi chiedemmo una canzone a
Paolo Conte e trovammo da parte sua una
grande disponibilità. Da questa prima idea
è nata la voglia di fare un disco. Paolo ci
conosceva da molto tempo, era un nostro
estimatore ed è divenuto abbastanza
naturale procedere.
I brani non sono tra i più celebri di Conte.
Come mai avete scelto questi pezzi?
Siamo partiti da una prima scaletta di una
trentina di brani. In seguito si è lavorato
ai primi arrangiamenti. Non voleva essere
un omaggio rituale, per questo alla fine
abbiamo scelto di mettere in evidenza
brani, diciamo così, di seconda fila ai quali
Paolo era più affezionato.
In Elisir ci sono due ospiti: Gianna Nannini e
lo stesso Paolo Conte...
Devo dire che il ritornello del brano
sembrava fatto apposta per l’energia di
Gianna Nannini. È stato un piacere ospitarla
anche perché collabora già da molto
tempo con Fausto Mesolella. Quanto a
Paolo, ha seguito in maniera diretta tutto il
lavoro sul disco, lo ha condiviso con noi, si è
fatto custode della scrittura, della melodia,
delle armonie ma senza essere chiuso a
novità, anzi ci ha invitato a stravolgere
i brani, a suonarli alla nostra maniera. Il
risultato, come detto, è un omaggio non
rituale.
Vi eravate già cimentati in alcune cover
nel cd Storie d’amore. Vi divertite molto a
reinterpretare...
Credo che il ruolo dell’interprete debba
portare alla condivisione della scrittura
di altri. Se fatta in un certo modo
l’interpretazione di brani altrui è un
momento importante che qualifica il lavoro
della musica pop.
La novità del cd è il cambio di formazione.
Quali sono i benefici di un ensemble ridotto,
quali gli scompensi?
In effetti ci siamo presi tutto il rischio di
questa decisione. Alla fine dei conti
questo coraggio credo ci abbia ripagato.
Abbiamo perso il titolo di “piccola
orchestra”, ma abbiamo guadagnato una
centralità della chitarra e uno spazio nuovo
attorno ai solismi che valorizza la scrittura.
Nel cd inoltre suona Vittorio Remino, il
nostro vecchio bassista elettrico (al posto
di Ferruccio Spinetti ndr). Dirlo adesso che
è uscito il disco sembra facile, ma il gruppo
in questo modo è veramente rinato e
rifondare qualcosa dopo oltre venticinque
anni di carriera non era semplice.
In tanti anni di carriera tu e Fausto avete
sperimentato vari linguaggi, transitando
per il teatro, il cinema e portando avanti
progetti alternativi agli Avion. È un voglia
di scoprire nuove forme di arte?
Intanto ti ringrazio per il complimento.
Non mi sento però un artista. Il nostro è
soprattutto un mestiere che si nutre di
curiosità, quella curiosità che ti porta a
scoprire persone nuove e a intraprendere
nuovi percorsi.
Tra i vostri progetti c’è anche Uomini in
frac (che ha coinvolto anche Lindo Ferretti,
Javier Girotto, Danilo Rea e molti altri) un
omaggio al grande Domenico Modugno.
In che modo ritieni che Mister Volare abbia
rinnovato la canzone italiana?
Io ritengo che sia un autore che vada
approfondito. Per noi è sempre stato
un autore molto importante e non ci
arroghiamo certo in questo modo il diritto
di farlo conoscere ma di suonarlo, proporlo.
Spero molto che l’esperienza fatta insieme
a tanti altri musicisti si possa ripetere. Credo
che Modugno sia stato il primo cantautore
che si è servito del patrimonio musicale
popolare senza svilirlo. Modugno è stato
un grande interprete delle sue canzoni, il
primo cantautore, ma anche un artista a
tutto tondo, un grande attore. In un parola
sola è stato un caposcuola.
Prossimi progetti?
Intanto prosegue il nostro tour che ci
porterà in giro tutta l’estate anche fuori
dall’Italia e negli Stati Uniti. Inoltre è prevista
a breve l’uscita del cd in Francia, Belgio e
Olanda.
Pierpaolo Lala
22
I Perturbazione sono una della band italiane che meglio riesce a
conciliare musica d’autore e rock, le atmosfere di Gino Paoli e la
malinconia di Nick Drake. Esce in questi giorni il loro nuovo album
Pianissimo Fortissimo, pubblicato da Capitol/Emi. Ne abbiamo
parlato con Stefano Milano (basso).
La prima domanda d’obbligo è sul passaggio in casa Emi, una
multinazionale si concilia con una proposta come la vostra?
Questo ha influito sul disco, ne avete sentito la responsabilità?
In realtà fa più clamore la notizia che il passaggio in sé. Noi
abbiamo vissuto la cosa come una crescita naturale. Siamo partiti
da Santeria, passati a Mescal e oggi a Emi. Tutto è successo molto
in fretta, non ha avuto ripercussioni sul nostro modo di lavorare,
certo abbiamo dovuto un po’ riorganizzare le cose ma non
sentiamo il peso della major.
Per questo disco avete fatto le cose in grande, ce ne parli?
Abbiamo avuto la possibilità di registrare nel nostro studio, questa
era una cosa che volevamo, sentirci a casa, in un clima rilassato.
Rispetto ai budget non abbiamo avuto a disposizione capitali
ma il necessario per realizzare quello che volevamo. Nel corso
delle registrazioni sono venuti a farci visita degli amici che hanno
collaborato in alcuni brani. Questo è avvenuto in modo molto
casuale, casi della vita, amicizie in comune, gente di passaggio.
È successo così con Manuel Agnelli che si trovava a Torino,
KeepCool
ascoltando un brano ci sembrava che la sua voce fosse perfetta,
lo abbiamo invitato, lui ha accettato ed ecco Nel mio scrigno.
Anche Davide Rossi che suona con band come i Goldfrapp e
i Coldplay si trovava a passare da queste parti e ha inciso due
quartetti d’archi.
È sempre difficile mantenersi sul filo che da tempo percorrete,
da una parte il pop, dall’altro quella che chiamano musica
d’autore...
È una strana alchimia, quando scriviamo canzoni ci viene naturale
farlo in un certo modo. Dopo tanti anni ci sono degli automatismi,
delle cose che sono tipicamente Perturbazione che escono
fuori da subito. Dopo un po’ riascoltiamo le cose e cerchiamo di
passare oltre.
Pianissimo, fortissimo rappresenta un po’ la vostra musica, le sue
atmosfere a tratti soffuse e l’intensità che allo stesso tempo la
popola - nei testi ad esempio -... Oppure cosa?
Ha varie interpretazioni. È un contrasto ma anche i due estremi
che comprendono una vasta gamma di cose. Pianissimo fortissimo
può essere inteso dal punto di vista sonoro, emotivo, ma anche
come una varietà di storie. Durante la realizzazione di questo
disco c’è stato anche molto dibattito tra di noi, tante le opinioni.
Credo che la parola che meglio descrive il disco sia “varietà”. C’è
anche eterogeneità, tante sfumature. Non è un disco lungo. C’è
stato lavoro di scrematura, cura negli arrangiamenti, un lavoro
canzone per canzone che è durato sei mesi.
Sullo sfondo della vostra musica e delle vostre vite c’è sempre
Torino, una città e una scena musicale articolata...
Non credo si possa parlare di scena. Scena è quando tutte le parti
fanno sistema, in questo senso a Torino non c’è una vera e propria
scena. Ci sono tante realtà da tanti anni e ogni anno ci sono cose
nuove. Certo ci si conosce, magari si entra in contatto, si hanno
amici in comune.
Ho letto da qualche parte che partecipereste volentieri a Sanremo,
credete quindi nel valore popolare della canzone?
Il discorso è semplice. Scriviamo canzoni, in italiano. Sanremo è il
Festival della canzone italiana, non vedo perché non dovremmo
partecipare. C’è da parte nostra anche una certa curiosità. Ci
sono esempi di band come i Subsonica che hanno partecipato a
Sanremo senza per questo svendersi, anzi. Se la tua strada scorre
da un’altra parte anche dopo Sanremo sarà così...va bene.
Abbiamo avuto la fortuna di vedervi in Salento qualche tempo
fa, avete un rapporto molto fisico con il live, energico anche, una
chiave rock...Come sarà il vostro nuovo show?
Attualmente stiamo riarrangiando i brani, Elena (violoncello)
non ci sarà per un po’ a causa di motivi personali, quindi stiamo
provando con un nuovo elemento e non è semplice. Nel live i
brani del nuovo disco si alterneranno a quelli vecchi. Speriamo di
tornare presto dalle vostre parti.
C’è tutta una nuova leva di giovani cantanti e band che cercano
di scrivere la nuova canzone italiana o di trovarne nuove strade...
Cosa ne pensi, chi riconosci e stimi in questo periodo?
Andando in tour capita di conoscere un sacco di gente, un
sacco di gruppi. Molti ci danno i loro dischi e noi li ascoltiamo e
rispondiamo a tutti. E poi ascoltiamo e seguiamo molto i dischi
prodotti da “I dischi dell’amico immaginario”, piccola etichetta
del nostro chitarrista.
Osvaldo Piliego
Se vogliamo considerare la prima effettiva esperienza discografica
di Will Oldham (una partecipazione nella colonna sonora
nell’oscuro film di John Sayles Matewan, in cui si presta anche
come attore) allora quest’anno il nostro dovrebbe festeggiare il
suo ventennale di carriera. Tuttavia sarebbe più onesto aspettare
qualche anno. È infatti nel 1990 che registra un vero e proprio
album, Fearful Symmetry, dei Box Of Chocolates (band per altro
in cui militerà solo per qualche mese). Seguirà poi un 7” EP, Goat
Songs, con i Sundowners. Ma sarà nel 1993 che comparirà per
la prima volta la ragione sociale di Palace Brothers, sua prima
vera creatura, nella compilation Hey Drag City. Tuttavia la sua
notorietà non iniziò con le sue canzoni, né con le sue partecipazioni
cinematografiche (che continuano saltuariamente ancora oggi),
bensì con un indimenticabile scatto fotografico oggi considerato
un’istantanea fondamentale di quel tempo che fu, forse la più
significativa icona della grande avventura del post rock, quella
immagine posta in copertina su Spiderland degli Slint. Proprio
con uno dei membri di questa band, Brian McMahon, con il
fratello Ned, e con Rich Schuler dei King Kong (oggi sarebbero
considerati un super-gruppo del post rock di Louiseville) Will dà
vita al suo primo personale progetto, i Palace Flophouse, subito
dopo ribattezzatisi Palace Brothers. Il primo album vero e proprio
fu There Is No One What Will Take Care Of You (Drag City, 1993),
e già qui si rivelava quell’inedita miscela di attitudine Lo-Fi, mal
celato attaccamento alla tradizione country-folk e una inevitabile
influenza della scena in cui stava muovendo i suoi primi passi
(continui i rapporti con i personaggi storici del movimento postrock e in generale della musica di quegli anni: oltre ai già citati
menzioniamo David Grubbs, Steve Albini, Alan Licht, Darin Gray
e Kevin Drumm dei Brise-Glace, Jason Loewenstein dei Sebadoh,
Jason Molina, Bill Callahan, Sean O’Hagan, Jim O’Rourke). Da
allora seguirono una quantità innumerevole di albums, singoli,
Ep, collaborazioni, partecipazioni (la più bella forse quella in
Whatever, Mortal di Papa M aka David Pajo), splits, colonne
sonore (la discografia completa e molto altro su http://users.bart.
nl/~ljmeijer/oldham/), con continui cambi di denominazione che
in qualche modo segnavano i tempi del suo sviluppo: Palace
Brothers, Palace Songs, Palace, Palace Music e tanti altri. Con
queste prime uscite il nome di Will si impose come l’inauguratore
di una rinascita folk che ancora oggi rimane viva e anzi si è
diffusa bel oltre i limiti della sua terra d’origine (innumerevoli sono
i personaggi europei che ripropongono in uno stile rivisitato o no
temi classici della tradizione americana). Ma la sua figura divenne
nota anche per qualcos’altro, di più sottile ma anche più incisivo:
una scrittura nichilista di una drammaticità disarmante. Storie
tragiche di disperazione, dolore e rassegnazione. Le atmosfere
che riproduce provocano un senso di nausea e impotenza,
di incertezza e castrazione. Come riferisce Scaruffi “Oldham
precipita in abissi di pessimismo raramente lambiti dalla musica
popolare”. D’altra parte, questa prima fase, così prolifica ma non
del tutto curata dal punto di vista compositivo, sembra esprimere
più che altro una personale esigenza, un po’ adolescenziale, di
gridare la propria insoddisfazione (e per questo è accomunato a
quella generazione di losers cantata da Beck). Ma al tempo stesso
è evidente che il ragazzino lamentoso ha stoffa e ambizione.
Dopo la parentesi con l’album Joya, nel ’97, per il quale si concede
l’uso del suo vero nome, l’anno successivo inventa quella nuova
maschera che tutt’oggi porta addosso: con il singolo One with the
birds nasce il principe Bonnie Billy. I see a Darkness è l’album della
maturità, forse il primo veramente riuscito sotto ogni punto di vista.
E diventa subito un classico. Seguiranno ancora innumerevoli
prodotti, alcuni indimenticabili, altri interlocutori, di cui occorre
per lo meno ricordare il successivo Ease Down The Road (Usa:
Drag City 2001), Master And Everyone (Drag City, 2003), e il nuovo
arrivato The Letting Go (Domino / Self, settembre 2006). Ok,
anche il disco a nome Superwolf, forse un’opera minore ma per
me tra le sue più riuscite. La sua consacrazione a nuova stella del
firmamento musicale statunitense la raggiunse, credo, quando
duettò con Johnny Cash nel rifacimento, da parte del maestro,
della sua I see a darkness. Una sorta di cambio della guardia.
Venerdì 27 aprile sarà al Fortino di Bari per la rassegna Planet of
Sound, non lasciatevelo sfuggire.
Gennaro Azzolini
24
Più di dieci anni di storia per Lizard Records. Nata dalla volontà di
Loris Furlan con fascinazione e passione avant prog oggi la Lizard è
molto di più. Una giovane e talentuosa band salentina entra a far
parte di questa numerosa famiglia. Abbiamo parlato con i Muzak,
dal profondo sud, musica spaziale. Ascolate il loro In case of loss,
please return to.
La prima volta che ho ascoltato il vostro album sono rimasto
sorpreso, vi avevo visto fare i primi passi qualche Arezzo Wave fa e
ora vi ritrovo più grandi, cosa è cambiato in questi anni?
Giuseppe – Il fatto che Gigi sia entrato nel frattempo a far parte
del gruppo è stato un passaggio fondamentale per la nostra
sopraggiunta maturità. Il suo stile di batterista ha dato nervo,
portato idee ritmiche e aperto scenari inaspettati al nostro suono.
Poi abbiamo conosciuto Fabio Magistrali e poco dopo abbiamo
pubblicato il nostro disco d’esordio con Lizard. La cosa più bella
che ci è capitata, in fondo, è stata proprio questa: lavorare
insieme a persone, come Fabio e Loris Furlan, artisticamente libere
e scevre da qualsiasi condizionamento e sovrastruttura. Da subito
il Salento, terra che amiamo incondizionatamente, ha cominciato
a starci un po’ stretto. Abbiamo molto da imparare in questo senso
da queste parti.
Enrico – Quello era proprio un periodo nero. La nostra musica era
fin troppo matura per essere figlia di diciannovenni imberbi. Il fatto
è che facevamo tutti i giorni cattive conoscenze. Ecco com’è che
siamo più grandi. Scommetto che anche voi al club siete cresciuti!
Nevvero Osvaldo?
Il vostro album è sicuramente fuori da molti canoni della musica
odierna, anche di quella indipendente qual è il vostro rapporto con
il passato e la sua musica e il presente, quello che vi circonda?
G. – Siamo consapevoli, eccome, di aver realizzato un disco con un
suono “unico” e siamo profondamente soddisfatti per questo. Per
il resto, siamo tutti dei voraci ascoltatori di musica di ogni genere
ma questo non influenza in alcun modo il nostro approccio alla
composizione e le nostre scelte. Le poche persone che amiamo
e che ci sono vicine sono la nostra reale e inesauribile fonte
d’ispirazione.
Non credo abbiate una direzione quando scrivete musica, riuscite
a spaziare tra generi, a essere intimi e corali. Quanti di voi mettono
le mani sulle canzoni, quante teste ci sono dietro i Muzak?
E.- Cerchiamo sempre di tenere ben lontane le teste dal luogo
dove suoniamo perché ci fanno ingombro. Questo è l’unico
metodo che può darti la speranza (almeno quella) di creare
qualcosa di intelligente.
G.– Lavoriamo quasi sempre tutti insieme in sala prove e il più
KeepCool
KeepCool
delle volte partiamo da un’idea
microscopica che può essere
un breve giro di chitarra o di
pianoforte, un pattern ritmico,
un frammento di suono o dei
semplici rumori.
È eccitante, poi, osservare come
il tutto prende forma ed è stato
entusiasmante vedere come
quei piccoli detriti, arrivati chissà
da dove, si siano trasformati col
tempo in In Case Of Loss….
Sud è isolamento ma anche libertà, vantaggi e svantaggi di una
band che viene dal tacco d’Italia.
G. – Il vantaggio non ha nulla a che fare con la musica; il
Salento è di per sé straordinario. Musicalmente, invece, siamo
completamente svincolati da qualsiasi “sistema”, non conosciamo
nessuno e non abbiamo mai fatto assolutamente nulla per inserirci
in quelle piccole e maleodoranti “lobby” che trovo francamente
dannose, limitanti. Siamo solo delle persone fortunate: abbiamo
registrato un disco e il resto è venuto da sé. Non abbiamo mai
cercato nessuno e in questo senso ci sentiamo orgogliosamente
“indipendenti”.
E. – Oggi
il
concetto di “ isolamento” non
postula
necessariamente la frustrazione e la solitudine. Quando abbiamo
voluto abbiamo fatto volare la nostra musica da Montesardo a
Montreal. L’isolamento è stato una fortuna per noi, che abbiamo
vissuto il Tacco del Tacco; è stato uno strumento per scappare
dai “vantaggi” e raggiungere una indipendenza-di-fatto senza
rimanere intrappolati in quella falsa indipendenza (o IndieDipendenza) che in molti con le chitarre al collo sbandierano
illegittimamente .
Nel disco ci sono collaborazioni e ospiti di tutto rispetto, ce ne
parli?
G. – Nel pezzo d’apertura dell’album il violoncello è suonato da
Paul de Jong dei Books. La collaborazione con Paul è stata per
noi un’esperienza entusiasmante perché crediamo che i Books
siano uno dei pochi gruppi al mondo ad aver raggiunto simili vette
stilistiche coniugando con intelligenza la tradizione da una parte
e le nuove frontiere dell’avanguardia dall’altra. Poi c’è Majirelle
che prima non conoscevo e che mi è capitato di vedere per
caso in concerto a Galatone tre anni fa. La sua voce a la Suzanne
Vega mi ha conquistato fin da subito ed ho pensato che fosse
perfetta per l’interpretazione di Sad Hydrogen and Small Hard
Tack Fish. Giuseppe De Marco, salentino come noi, ha arrangiato i
fiati di If Me You Fly I Am Your Wings e suona il trombone in un altro
paio di brani. Sempre in If Me You Fly… il maestro Sergio Filippo ha
arrangiato e diretto il coro. Ma ci sono tanti altri amici e amiche
che hanno dato il loro fondamentale apporto per la realizzazione
di In Case Of Loss…. Ringraziamo tutti.
Quali gruppi della scena salentina e italiana vi piacciono?
G. – Ma quindi esiste davvero questa presunta “scena salentina”?
Comunque, a parte Otakatroi e Shank (raffinati e sofisticatamente
avvolgenti i primi; potenti e granitici i secondi) non c’è nient’altro
che mi entusiasmi o anche solo stuzzichi il mio interesse nel Salento.
A livello nazionale, invece, trovo che i nostri (ormai ex) compagni
di etichetta Morkobot siano un gran bel gruppo. E poi, Airportman
(altra interessante uscita Lizard) e X-Mary. Questi ultimi andate
assolutamente a vederli dal vivo. Geniali e devastanti!
Osvaldo Piliego
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Everyman
Philp Roth
Einaudi
Bisogna tenere i piedi per terra e considerare
tutto quello che questo uomo ha potuto
partorire in una vita dedicata interamente
alla scrittura. Bisogna non considerare che
parliamo di uno dei più grandi scrittori in
prosa di lingua inglese, l’autore di pagine
altissime di letteratura di fine 900. Bisogna
recuperare quel minimo di oggettività che
dopo la lettura di Everyman rischia di
andare a farsi benedire. Il ventisettesimo
romanzo di Roth è distante anni luce dalle
pulsioni incontenibili di Portnoy, dallo sfrenato
amore per la vita di Mickey Sabbath e da
tutti quei personaggi memorabili che hanno
abitato nelle sue storie. Nonostante questo
Everyman è sin dalle prime battute in tutto e
per tutto Roth. Solo che, per citare il bravo
Giuseppe Genna, l’ultima fatica dell’autore
di Pastorale Americana, è “il negativo del
motivo per cui il suo racconto vitalista ha
conquistato lettori carnali e desiderosi di
una libido letteraria che facesse fremere la
carne fuori dalla letteratura stessa”.
Anche Everyman, il cui titolo è mutuato da
un’anonima rappresentazione allegorica
quattrocentesca, è una storia che parla
di carne. Ma la carne questa volta è
in decomposizione, e il dolore è dietro
l’angolo. Il tutto senza che lo scrittore cada in
insostenibili trappole consolatorie: “Sapeva
con certezza che Dio era un’invenzione e
che questa era l’unica vita che avrebbe
mai conosciuto”.
Everyman narra la storia di un pubblicitario
(senza nome perché la sua è una storia che
li racchiude tutti), delle sue tre ex-mogli,
dei due figli maggiori che lo disprezzano,
di una figlia che lo adora, di un fratello la
cui salute fisica provoca nel protagonista
profonda invidia. Il romanzo si apre con il suo
funerale per poi andare a ritroso nella vita
di un uomo normale, di talento come tutti
i personaggi di Roth, eppure ordinario nelle
sue meschinità e paure. Ma non è la morte il
perno di Everyman. Piuttosto è la paura del
dolore, quello fisico, e del decadimento di
un corpo che una volta, si intuisce, aveva
lo stesso vigore e la stessa forza sessuale di
Portnoy, Mickey e gli altri. Pagine cariche
di un tormento che possiamo arrivare ad
immaginare solo in alcuni, brevi, passaggi:
quando per esempio, ormai relegato
nel residence per pensionati, l’everyman
‘abborda’ una giovane ragazza pensando
di poter afferrare per l’ultima volta uno
spiraglio di vita.
Roth non lesina in particolari medici,
raccontando per filo e per segno di bypass,
defibrillatori, coronarie, in un campionario
di sofferenza persino maggiore di quella
raccontata ne L’Animale Morente, dove il
corpo violentato dalla malattia era quello
di una ragazza bellissima, che sembrava
quasi arrendersi ad un destino inaccettabile
per chiunque. L’everyman invece conduce
la sua inutile battaglia contro la natura
mortale dell’uomo.
Nero come il dolore, nero come un negativo
fotografico, nero come la rigorosa copertina
che racchiude queste cento pagine, intrise
di dolore e morte. Un Roth così nichilista non
si era mai visto. Vuoi vedere che a ‘sto giro il
Nobel lo becca davvero?
Ilario Galati
Coolibrì
26
26
Nel Gasometro
Sara Ventroni
Le Lettere
“Un gasometro è un grande
container dove il gas viene
immagazzinato a temperatura
e pressione quasi naturali.
Il volume del container si
adatta alla quantità di gas
immagazzinata,
mentre
la
pressione deriva dal peso di un
tetto mobile. Volumi tipici per
gasometri di grandi dimensioni
sono di 50000 m³ circa, con un
diametro della struttura di 60
m”. Questa definizione, tratta
da Wikipedia, non era nota a
Sara Ventroni quando, nel 1996,
tradusse gashouse, termine
presente nella Terra Desolata
di T. S. Eliot, in gasometro, così
come non era consapevole
del fatto che quell’enorme
mostro apparso in una sua
foto scattata a Berlino nel 1999
rappresentasse un gasometro.
“Il primo gasometro che
intenzionalmente mi sono messa a guardare è infatti quello romano, nel 2001”, scrive
la stessa Ventroni nel conte philosophique che chiude il suo Nel Gasometro, oggetto
letterario apparso, non a casa, nella collana Fuori Formato, curata da Andrea
Cortellessa per la casa editrice Le Lettere. Dal 2001, quindi, la poetessa romana
comincia questa sua ricerca artistica attorno a questi bizzarri oggetti industriali. La sua
è una vera e propria ossessione: “L’ossessione è forza pura, senza contenuto. Usa ogni
mezzo per durare nel tempo, anche contro la nostra volontà. L’ossessione non spiega
da dove viene, eppure vuole sempre allargare i propri confini”. Questa ossessione si
concretizza in un volume che contiene il poema che dà il nome al libro, un racconto,
La buca del dollaro, pubblicato in precedenza su Nuovi Argomenti, lo storyboard per
un video sul Gasometro, bozzetti per la messa in scena del suo poema con acrobazie,
una decina di pagine conclusive, alle quali ho già fatto riferimento, che motivano la
scelta del Gasometro come oggetto di una spasmodica rappresentazione, a cui
si aggiungono una lettera introduttiva di Elio Pagliarani ed una postfazione di Aldo
Nove. Dopo la lettura di un testo così stratificato, cosa rimane? A tamburellare la
mente il volume e la forma del gasometro, residuo industriale di un moderno che non
c’è più, simbolo di un’età passata che lascia sul proprio terreno immagini lanciati nel
nulla e ridotti ad organismi senza vita.
Rossano Astremo
A day in the life
Enzo gentile
Editori Riuniti
Lo sapevate
cosa
è
successo
il
2 novembre
del 1975? No?
Neanche io
prima
di
leggere
a
Day in hte life.
Il 2 novembre
di quell’anno
Bob
Dylan
e
Allen
Ginsberg
(nella foto) si sono recati in visita alla
tomba di Jack Kerouack. Chi di voi non ha
sognato di conoscere giorno per giorno
la storia del rock? Impossibile direte. Non
proprio. Esce A day in the life un volume
imponente per dimensioni e importanza.
Senza le pretese enciclopediche delle
storie del rock questo volume curato
magistralmente da Enzo Gentile ripercorre
come un diario la storia del rock dagli
anni 50 ad oggi. Appunti di avvenimenti,
curiosità, decessi, uscite discografiche
e tutto quello che vale la pena sapere.
Un modo nuovo e interessantissimo per
scoprire passo dopo passo l’evoluzione di
alcuni fenomeni, il contesto in cui si sono
verificati, cos’altro accadeva. il tutto ha
poi un’impaginazione accattivante, un
ampia selezione di foto ed è facilissimo da
consultare. Infine, e non ultimo, il volume si
chiama come una delle più belle canzoni
dei Beatles.
Osvaldo Piliego
L’Italia spensierata
Francesco Piccolo
Laterza
“Tutta la mia vita è stata un elastico tra la
coscienza e l’abbandono. Tra la capacità
di ragionare su quello che vedo e la volontà
di perdermi nella partecipazione”. È, in
sintesi, la motivazione che spinge Francesco
Piccolo, a muoversi, in questo suo ultimo
libro L’Italia spensierata, edito da Laterza
nella collana Contromano, nei luoghi e
nei riti del divertimento italiano. Può uno
scrittore di libri di successo e sceneggiatore
di
film
culto
lasciarsi
cullare
dalle logiche che
scandiscono
gli
svaghi
collettivi
dell’italiano
medio? Cerca di
rispondere a questo
quesito,
a
suo
modo, lo scrittore
casertano.
Ed
eccolo partecipare
come spettatore
ad una puntata di Domenica in, condotta
da Giletti e Baudo, e rimanere allibito per
la durezza con la quale gli operatori e
tecnici dello studio trattano il pubblico.
O ancora, ecco il nostro protagonista
intento a visitare, nella giornata che
segna l’inizio dell’esodo per le vacanze
di Pasqua, il peggiore e il migliore autogrill
d’Italia, secondo un’inchiesta del Sole 24
ore, giungendo alla conclusione che “il
migliore autogrill d’Italia è nettamente,
nettamente, nettamente peggiore del
peggiore autogrill d’Italia”. Si giunge, poi,
al reportage più riuscito. Piccolo si reca, il
26 dicembre, a vedere Natale a Miami, il
film-panettone, avente come protagonisti
Boldi e De Sica, l’ultimo film girato assieme
dai due, prima dell’amara conclusione del
loro connubio. Ci sono pagine esilaranti,
in cui Piccolo cerca di dare motivazione
razionale al non senso che appare sullo
schermo, caratterizzato da un frullatore
di equivoci al servizio della risata. Tocca
a Mirabilandia. Piccolo accompagna
sua figlia Camilla e l’amica del cuore,
Stella, nel regno del divertimento, un
viaggio tra una miriade sterminata di
intrattenimenti, svaghi, giochi e spettacoli
nei quali denominatore comune sembra
essere la paura: “Perché la gente ha così
voglia di provare paura, di sentirsi male, di
impallidire, di vomitare? Perché la gente
si fa legare su una sedia, si fa tirare su a
un’altezza di trenta piani e poi si fa buttare
giù a velocità enorme?”
Sempre più allibito e sconcertato, non
molto convinto della sua scelta di perdersi
nella partecipazione collettiva, Piccolo
conclude il suo viaggio immergendosi
nella Notte Bianca romana, un evento
mostruoso dove un numero incalcolabile
di gente è alla ricerca di Cultura in tutte
le sue possibili salse. Chissà se Piccolo, al
termine di questo suo viaggio, tornerà
sui luoghi del delitto o preferirà starsene
nella sua casetta a scrivere romanzi e
sceneggiature senza l’incubo di un nuovo
film di Natale da sorbirsi inerme. Io una
risposta ce l’avrei.
Rossano Astremo
Utero di luna
Marthia Carrozzo
Besa
Il Poet/Bar di Mauro Marino è un laboratorio
permanente di giovane poetare, che nel
tempo ci ha viziato - e spiazzato - con
proposte ora giocose, ora arrabbiate, ora
raffinate, ma quel che conta mai scontate.
Con Utero di Luna, ultima pubblicazione
della casa editrice neretina Besa, ci viene
confermata - e le conferme non sono
mai troppe - l’esistenza di un sentimento
poetico estremo e spietato, che abita il
Coolibrì
territorio salentino, e qui si consuma, in un
ciclo continuo e struggente di generazione,
accrescimento, distruzione e rigenerazione.
Quello stesso ciclo che Marthia, artista
neanche trentenne originaria di Veglie,
costruisce con ricerca sfidando le parole,
facendone tessuto per trame puttane, e
ricamo prezioso per sigilli da scandalo. Le
parole - queste maledette - si muovono
bellicose tra le pagine dense, sputano
senso nelle righe turbate, imbastiscono
guerre per bastardi misteri. La lettura
attenta e dedicata forse potrà ambire
di svelarli, ma non salvarli- questo no perché i versi arcani e incantati non sono
benedetti da Dio. A illuminare la veglia
alla carne in liriche di Marthia, le sue mille
e più Lune: quella “putrefatta d’amore” di
Ho visto, quella “isterica” di Bella, quella
“che bagna” de Il canto delle menadi,
in un susseguirsi di inni all’esoterismo e al
femminile. La prefazione di Alda Merini
sottolinea le premesse eccellenti di questo
talento, e ci dona una nota di tenerezza
quando registra: “Questa poetessa
scrive bene, ma soprattutto piange”. La
postafazione di Vanni Schiavoni richiama
all’orgoglio per questo lavoro feroce
e delicato. Le parole degli amici, che
Marthia ha ospitato in questa sua opera
prima, aggiungono poetare a poetare.
Scrive Margherita “Marthia è una brutta
bestia”. Ed è bene che le brutte bestie
dissacrino in ottima compagnia, pena il
rischio di smarrire l’arte e ridursi ad inutili
anime bianche.
Stefania Ricchiuto- Il Passo del Cammello
Un manicomio tra i pali – Portieri
con la camicia di forza
Luigi Guelpa
Limina
Buenos
Aires,
1967. Allo stadio
“Bombonera”
si gioca il derby
tra Boca Juniors
e River Plate. El
Superclasico.
A
difendere la porta
del River c’è Hugo
Gatti. Dalla curva
dei padroni di
casa del Boca
piove di tutto verso
il povero portiere.
Lattine, bottiglie,
monetine. Arriva
anche una scopa. Gatti non fa una piega.
Raccoglie la scopa e, a partita in corso,
comincia a ramazzare la sua area di
rigore, lasciando incustodita la porta. Da
quel giorno Gatti, che fu applaudito dai
tifosi avversari, diventerà el Loco, un mito
del calcio argentino. È dedicato a sportivi
come Gatti il libro Un manicomio tra i pali
– Portieri con la camicia di forza, scritto
dal trentaseienne giornalista Luigi Guelpa.
Un volume che raccoglie ventuno storie
di portieri, storie spassose come quelle
di Higuita o di Campos (il messicano che
per sei mesi l’anno faceva il centravanti) o
drammatiche come la vicenda di Helmuth
Duckadam, estremo difensore della
Romania, torturato dalla feroce polizia del
dittatore Ceasescu.
Ludovico Fontana
2327
Nelle
ultime
settimane
il
dibattito su Pacs, Dico, Unioni
di fatto, e le recenti prese di
posizione della Chiesa hanno,
ovviamente, acceso un faro
importante sul mondo ancora
troppo sconosciuto in Italia che
gira attorno alle identià sessuali
diverse da quella che viene
considerata la normalità.
Se ha fatto scandalo la
dichiarazione
di
Elisabetta
Gardini, portavoce di Forza Italia,
che non voleva condividere il
wc parlamentare con Wladimir
Luxuria, collega onorevole di
Rifondazione, ancora più clamore
suscitarono le affermazioni di
Gianfranco Fini sugli insegnanti
omosessuali e quelle recenti sulle
“devianze” (e anche sul cilicio,
in realtà) della parlamentare
ulivista Binetti.
Così le Officine Culturali Ergot
di Lecce (Piazzetta Falconieri)
hanno deciso di organizzare le
“Identità multiple”. Una rassegna
artistico culturale che nasce per discutere e approfondire con serietà le tematiche
GLBT (Gay Lesbian Bisex Transgender). Una serie di appuntamenti che si susseguiranno
dal 13 al 21 aprile con la presenza di docenti universitari, scrittori, giornalisti, artisti.
La partenza è fissata per venerdì 13 aprile con la mostra fotografica di Claude
Cahun, artista surrealista francese morta nel 1954 (nella foto). Alle 20.30 prenderà il
via un incontro al quale parteciperanno Francesca Polo (Presidente Arcilesbica) che
presenterà la casa editrice Il dito e la luna e la rivista Towanda!, Carmela Marea che
illustrerà i contenuti di Tamles, rivista aperiodica a tematica lesbica realizzata da ALI
(Alternativa Lesbica Italiana) ed ArciLesbica Salento, e Monia Dragone del neonato
circolo ArciLesbica Salento “Le Pizzicanti”.
Sabato 14 lo studioso salentino Alessandro Taurino presenterà Identità in transizione.
Adottando una prospettiva psicosociale, il volume si pone l’obiettivo di affrontare
criticamente il discorso sul genere, approfondendo in modo specifico l’analisi
del costrutto della mascolinità all’interno della più ampia e complessa tematica
delle differenze; analisi relativamente nuova nell’ambito dei gender’s studies a
lungo caratterizzati da riflessioni epistemologico-politiche centrate sul femminile e
sull’organizzazione sociale della differenza sessuale.
Da un saggio ad una raccolta di racconti: domenica 15 Agnese Manni e Cecilia
Maffei presentano Gay everyday. Il libro, pubblicato pochi mesi fa da Manni Editori,
raccoglie sedici narrazioni che svariano per tematiche e genere.
Giovedì 19 protagonista della serata, realizzata in collaborazione con i Cantieri
Koreja, sarà l’attore e trasformista Serafino Iorli che presenterà lo spettacolo Anche
i gay vanno in paradiso? Un angelo è stato spedito sulla Terra a fare gavetta: il suo
compito sarà quello di capire il perché di pregiudizi e discriminazioni. Ed ecco una folle
carrellata di personaggi: un bambino di tre anni in crisi di identità, la poetessa Saffo
promotrice dei diritti civili sull’isola di Lesbo, un San Sebastiano in calo di audience, un
pinguino innamorato, una drag-filosofa che cerca di spiegarsi il mondo, un Ratzinger
omofobico, e via ridendo…
Venerdì 20 spazio alla proiezione dei documentari TransAzioni e DragKinging introdotti
da Mary Nicotra e Miki Formisano.
Ultimo appuntamento della rassegna venerdì 21 aprile con Nicoletta Poidimani che
presenterà il suo volume Oltre le monocolture del genere (edizioni Mimesis) e Porpora
Marcasciano (vicepresidente del Movimento Italiano Transessuali) che parlerà di Tra
le rose e le viole (Manifesto libri).
Inizio ore 20.30.
Ulteriori informazioni su www.myspace.com/identita_multiple
Coolibrì
28
Marco Mancassola è nato in Veneto nel
novembre ‘73. Dai diciassette anni in poi
ha vissuto con mille lavori. Ha vissuto a
Padova, Roma, e attualmente a Londra.
Come scrittore esordisce con alcuni
racconti nel 1996. Nel 2001 esce la prima
edizione del romanzo Il mondo senza di me,
che diventa un caso nella piccola editoria
italiana. Seguono: Qualcuno ha mentito
(2004), Last Love Parade. Storia della
cultura dance, della musica elettronica e
dei miei anni (2005), Il ventisettesimo anno.
Due racconti sul sopravvivere (2005). Esce
in questi giorni Kids&Revolution (Hacca
edizioni) progetto firmato Louis Bode ma
che nasconde una band creativa formata
da uno scrittore (Marco Mancassola
appunto) due musicisti e due artisti visivi.
Lo abbiamo incontrato in occasione della
presentazione a Bari per Lab 080.
Ho appena terminato la lettura di
Kids&Revolution, mi piacerebbe sapere
come è nato il progetto e come si sviluppa
il reading/performance in tour.
All’inizio c’era un grumo di storie. Le avevo
in mente da anni, e avevano tutte per
protagonisti dei bambini che, in qualche
modo, scatenano la rivoluzione. Col tempo
ho capito che queste storie avrebbero
avuto forma di fiabe. Fiabe nere per adulti.
Ma che c’entrava Marco Mancassola
con le fiabe? Una sorta di seconda entità
narrativa era sorta in me. E se erano
fiabe, avrei avuto delle illustrazioni?
Iniziai a cercare qualcuno con cui
collaborare. Incontrai Marco Rufo Perroni.
Parallelamente presi a parlarne con due
musicisti, Giacomo Garavelloni e Sergio
‘Wow’ Bertin, con i quali collaboravo già
ad altri progetti. Il protagonista di una delle
fiabe principali era un musicista, che muore
per aver composto una canzone oscura e
fantastica. Che suono poteva avere questa
canzone? Bisognava provare a farla. è
nato tutto per sviluppo naturale. C’era una
suggestione, l’idea di un clima fantastico,
dark, struggente e obliquamente politico,
e ci siamo resi conto che il nostro desiderio
era sviluppare questo clima, dargli forma in
vari linguaggi. Allora è nato Louis Böde. Una
specie di ‘band creativa’ multimediale.
A noi si è aggiunto Nicola Villa, anche lui
artista visivo come Perroni, ma che aveva
voglia di sperimentarsi sul campo del
video. Louis Böde è dunque un gruppo di
lavoro trasversale, legato ad atmosfere
fiabesche-allegoriche. Kids&Revolution è
stato il nostro primo lavoro, ed è anzitutto
un libro, ma anche un EP musicale e un
video. Stiamo portando in giro un readingconcerto. Il futuro è aperto, ci saranno
senz’altro altre storie da raccontare.
Con quale linguaggio lo decideremo a
seconda delle necessità, di ciò che ci sarà
da dire.
I disegni che accompagnano il libro sono
molto belli e inquietanti: come mai la
scelta monocromatica del beige?
La scelta è venuta da Marco Rufo Perroni,
che ha lavorato alla parte visiva del
progetto. I primi schizzi che ci ha proposto
erano disegnati su questa carta beige
da macellaio, e avevano già una loro
inconfondibile atmosfera: cruda e insieme
retrò. Drammatica e nostalgica.
Il
rapporto
vittima/carnefice,
l’emarginazione, la vendetta, sembrano
essere tra le tematiche
affrontate
dal
libro:
potrebbe
definirsi
una
sorta di “Mille e una notte” dark?
Il sangue, la strage, la vittima, l’assassino,
lo sfruttatore, lo sfruttato che si ribella,
gli animali che osservano e talvolta
intervengono, il rapporto continuo con
la morte, la commistione di realistico
e favolistico, la purezza ingenua del
giovane eroe: sono tutti elementi presenti
in Kids&Revolution. Le mille e una
notte, colossale opera di immaginario
fantastico, politico, poetico e orrorifico, ha
rappresentato il riferimento più costante
anche nella struttura.
Nel saggio di Giorgio Fontana su Qualcuno
ha mentito vieni paragonato a Kafka; D. F.
Wallace ha affermato che in Kafka il senso
dell’umorismo, per quanto difficile da
percepire, sia prepotentemente presente:
quanto è presente l’umorismo nei tuoi
scritti? Il cadavere che cambia stanza
forse si sta divertendo a prendere in giro il
protagonista?
Ah, l’umorismo in Kafka è una vecchia
questione. Se è per questo, io in Kafka ci
trovo un sacco di erotismo!... Comunque,
parlando del mio lavoro: diciamo che
l’umorismo in ciò che scrivo è come
un’anima. Non si vede ma c’è. Peraltro,
nel nuovo romanzo cui sto lavorando, e
che apparirà più avanti per Rizzoli, sto
tirando fuori questo umorismo in modo
più esplicito. Diciamo che sto tirando fuori
l’anima. Quanto a Qualcuno ha mentito,
il mio secondo romanzo in cui c’era un
cadavere in una casa abbandonata…
Quel cadavere di certo si divertiva alle
spalle del protagonista. C’era un piano di
realtà nascosta, ulteriore, che i protagonisti
del libro riuscivano appena a intuire.
Non sarebbe una sorpresa scoprire che
quest’altra realtà, sia essa metafisica o
chissà, si diverte alle nostre spalle. In Kafka,
questa ulteriore realtà coincide con un
piano assurdo-burocratico che, non c’è
dubbio, si diverte molto alle nostre spalle.
Ho partecipato ad un tuo reading un milione
di anni fa a Pisa in un bar che all’epoca si
chiamava Absolut e tu presentavi Il mondo
senza me ancora edito da Pequod ed
allora introvabile: quanto è cambiata la tua
vita dopo tanti romanzi e una nuova casa
editrice diciamo meno “underground”?
Devono essere passati cinque-sei anni,
eppure sembra un secolo vero? La mia
vita nel frattempo è certo cambiata, ma
Coolibrì
è difficile dire se questi cambiamenti
siano legati alla scrittura o meno. Faccio
prima a dire che a cambiare è stata la
mia scrittura. È più consapevole, com’è
giusto che sia, e più sicura di quello che
vuole. Quanto ai lati pratici, che dire?
Ho cambiato città una mezza dozzina
di volte, vivo di contratti editoriali, ho
smesso di avere a che fare con le
droghe, ho imparato a stare bene anche
da solo. Niente di speciale. Sono soltanto
cresciuto.
In Last Love Parade Leo dice che sei un
“bravo ragazzo perverso” e che riesci a
fare le cose più differenti con la stessa
indifferenza, credo che sia un’affermazione
che possa tranquillamente adattarsi al tuo
modo di scrivere, da dove deriva questa
capacità di essere glaciale e lirico allo
stesso tempo? C’entra in qualche modo il
fatto di essere nato nell’operoso e freddo
Nord-Est?
Ottima domanda. Negli ultimi anni c’è
stato un certo movimento, tra gli scrittori
dell’operoso Nord-Est, come se si sentisse
di aver sviluppato una cifra, un qualcosa
che ci accomunava, ma non si riuscisse
a definirla. Quest’idea di una spietata
umanità, di una glaciale poesia potrebbe
essere un tassello. Personalmente ho
sempre considerato il Veneto, da un
punto di vista emotivo, come tuttora
parte dell’Impero Asburgico. In certi autori
veneti c’è una desolazione austriaca,
feroce e a modo suo commossa. Io non
ho paura a dire che, culturalmente ed
emotivamente, mi sento molto più a casa
a Vienna, o meglio ancora a Berlino,
che non a Roma. I popoli nordici hanno
un rapporto più pratico con la morte.
Sembrano averne meno paura. Per
questo sembrano in grado di concentrarsi
meglio sulle piccole, momentanee
scintille di bellezza della vita.
La scena gay, con la nascita della disco
e della house, ha fuso insieme spirito
di avanguardia, sperimentazione e
superamento delle dicotomie di genere.
È ancora possibile qualcosa del genere?
Credo la scena gay abbia avuto un
ruolo negli anni ‘70. Con l’elaborazione
della cultura disco, la scena gay ha
dato il la, nel bene e nel male, ai canoni
della cultura edonista contemporanea.
Per il resto, non ho mai creduto a una
cultura gay. Esistono delle estetiche di
ascendenza gay come il camp, ma chi
se ne frega? Non tutti i gay si riconoscono
in tali estetiche, e in compenso vi
si riconoscono molti eterosessuali. Il
discorso culturale gay, da qualunque
parte lo si prenda, è destinato a fallire
perché troppo sfuggente, molteplice,
contaminato. L’unica cosa che due
gay dovrebbero condividere sono degli
obiettivi politici, e se ci pensi questo è il
modello politico dei movimenti dalla fine
degli anni ‘90: unirsi momentaneamente
intorno a degli obiettivi pratici, non
certo intorno a fantomatiche identità
comuni. Detto questo, no, non credo che
succederà nulla di ‘gay’ nella cultura
musicale del futuro prossimo. Al massimo
succederà qualcosa di ‘queer’, termine
molto più aperto, sebbene ancora vago
e troppo simile, a mio avviso, a una specie
di lontano cugino del punk.
Mr_Big (Emiliano Cito)
La nascita del punk in Italia si è
intrecciata al movimento della sinistra
extraparlamentare. Da questo incontro,
quasi inesistente altrove, esplode
un’originale esperienza che utilizza
gli spazi occupati dalla precedente
generazione per organizzare concerti
autogestiti e strutturare un’innovativa e
radicale proposta politico-esistenziale.
Lungo tutta la penisola decine e
decine di gruppi punk formano un
circuito perfettamente funzionante che
crea le basi di un preciso stile di vita
anticonformista e riottoso, destinato
a influenzare in profondità anche il
presente. In Lumi di Punk, libro edito da
Agenzia X, nuova casa editrice nata da
una costola della Shake e diretta da
Marco Philopat, agitatore culturale e
autore del fondamentale romanzo sul
punk Costretti a sanguinare, prendono
parola trenta protagonisti di quella
scena. All’interno si possono leggere due
fumetti tratti da Torazine, alcune tavole
dello scomparso Professor Bad Trip, una
discografia curata da Mox Cristadoro,
un ampio apparato iconografico ed un
intervento di Enzo Mansueto, poeta e
critico letterario barese, che ricostruisce
le tappe fondamentali del movimento
punk nella capitale pugliese.
Quando si radica il punk a Bari?
Con la fisionomia di un movimento sotterraneo riconoscibile, il punk a Bari emerge tra
1979 e 1980, anche se alcune individualità decisive esprimevano già una “attitudine”
nei mesi cruciali intorno al 1977. La sua vicenda durerà sino al 1984, con lo sgombero del
centro sociale occupato La Giungla e l’avvento della deriva hardcore o punkabbestia,
che si spingerà sino agli anni Novanta.
Quale la peculiarità della scena punk barese rispetto al resto del movimento in Italia?
La sua peculiarità fu quella di un incredibile fermento creativo ed estetico a dispetto del
deserto culturale tipico delle aree metropolitane meridionali. È il caso di dire: fiori nella
spazzatura.
Tu prima di essere il poeta di valore che tutti conosciamo, sei stato un attivo esponente
della scena punk barese…
Sì, io cantavo, nella band postpunk degli Skizo, che, tra 1980 e 1982 si affermò come una
delle più significative esperienze della new wave italiana. Proprio in quel frangente della
mia adolescenza maturai la passione per la composizione di liriche, allora “cantate”,
successivamente scritte e, oggi, musicate. Riconosco una forte continuità tra la mia
attuale attività di poeta e quella acerba ma fondamentale esperienza.
A distanza di trent’anni, cosa rimane di quegli anni?
Come ho già scritto, per me ha senso parlare di punk sostanzialmente per quella nube di
fenomeni che ha nella vicenda dei Sex Pistols a Londra, tra 1975 e 1978, il proprio punto
di fuga. E quella vicenda è morta e sepolta. Condivido tuttavia l’idea di un’attitudine
imperitura, anarchica, che precede e segue quell’esperienza storica, spostandosi e
incarnandosi in diverse forme: da Duchamp ai rave techno.
E cosa ne pensi dei punk che si vedono tuttora in giro?
I ragazzini che oggi clonano alla perfezione modelli di oltre un quarto di secolo fa, se voglio
essere benevolo, posso al limite considerarli come prodotti di una estetica citazionistica,
di un surfing stilistico, purché facciano ciò consapevolmente. Come dire. Dal no future
al vintage!
Rossano Astremo
30
Coolibrì
C’è come un vento nella poesia che determina l’indeterminato. il mio racconto è andato a male / come credo che succeda
Un soffio, che cresce e si fa furia quando dice e svela.
a un certo punto che sfugga la pagina / esatta il rigo la parola
C’è il poeta c’è il Tempo, da attraversare, che co-spira con gli giusta da riscrivere a macchina / una buona volta con due dita
uomini. I “piccolini”, al potere, timorosi delle novità; del venire e spaginare così a caso / dannun- / zio tragico per rubargli il rigo
prepotente di chi dovrebbe starsene quieto, al lato, in silenzio, esatto la parola così / per massacrarla con due dita una buona
attento. Rimanere perennemente allievi?!
volta IMPARARE.” (da Inferno minore – Interludio - Tragedie, sogni
L’umiltà è altra cosa. È saper prendere le misure e calibrare il e misteri II)
passo. E pure la voce calibra potenza ed armonia, tempera la Trovi D’Annunzio e Beckett. C’è Bodini, Dante e c’è l’amore. Un
dote.
amore senza via d’uscita, come i fili che muovevano Salvatore
La poesia dei grandi di questa terra di mezzo, carezza il canto, Toma, le sue purezze, i voli, il graffio. E c’è Montale. Un ermetismo,
lo sappiamo Bene, muove un sogno teatrale, barocca immagini, denso di simboli e una segreta cifra nella miscellanea delle parole
deborda tra purezza e realtà.
che annichiliscono e sferzano cariche, violente, desideranti.
È colta la poesia di qui! Ha letto libri e consumato righi, sospensioni, “salve sono tornata: sono malata malata d’Amore, levami /
estasi. S’è interrogata, mai tentando compromessi. S’è fatta alta, ahi la scarpetta, tutta abitata, oddio / formicolata… scrivila in
unica, formidabile, nello sganghero, nel poco, nella povertà, giardino…
nel lato di confine che abitiamo, incrocio e approdo, sponda (il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio /e un fremito mi ha
di partenza. In costante ricerca. E Claudia Ruggeri è cuneo sconvolta […] (da Inferno minore Pagine del travaso)
forte in questa gentile folla tutta d’uomini che scrive la poesia Dite parole! Dite parole! Invocava una sera! Dite parole,
del Novecento in Terra d’Otranto. Altre,
mischiandosi alla musica, malinconica la sua
più mature, erano state ancelle nel salotto
danza si atteggiava al volo.
dell’Accademia di Lucugnano. Claudia
Noi abbiamo un compito, adesso che quel
“Claudia Ruggeri scompare a Lecce
no, è cuneo forte che inesorabile preme,
silenzio è colmo di versi, di presenze, di
in una notte d’autunno nel 1996.
rompe e scardina e fa dolore con la cifra
pari che l’avrebbero accolta, coccolata,
Aveva 29 anni ed era una delle voci
del suo ultimo atto poetico che chiama alla
amata: contrastare la vulgata che stinge la
poetiche più interessanti della nuova
conseguenza l’abbandono.
poesia con la biografia. Claudia poetessa
generazione dei poeti, quella che
Attrice era, densa, melodrammatica. La
maledetta, angelo e diavolo. Claudia mito
è stata chiamata da un saggio di
scorgiamo in alcune foto e lo sguardo è dritto,
di un femminile ferito. No Claudia è poesia.
Marco Merlin Poeti del Limbo”.
tutto d’occhi, aperti, spalancati nell’osare!
Paga il male che è nelle cose del Mondo,
Queste le prime parole che Mario
Adesso, nel cambio del Tempo, i suoi lettori
ci dice Michelangelo Zizzi. Ella è purezza.
Desiati
scrive
ad
introduzione
sono folgorati. È che cambia! Ciò che ieri
Una purezza che ha assorbito l’alterità. Una
dell’Inferno minore, dove a sua cura
impastava mormorii, oggi matura stupori.
purezza bambina che gioca il pericolo. La
raccoglie gli scritti della poetessa
Esatto il suo verso. Saetta spesa al cuore con
purezza di chi si riconosce nelle cose non finite.
salentina per i tipi dell’editrice
mira infallibile. Che per questo scriveva lei:
Una poesia sacra, che aspira all’immortalità,
anconetana peQuod.
per una purezza tutta di cuore.
vuole verità. Chè il Mondo non può riflettere il
La casa editrcie nasce nel 1996,
Il poeta Friuliano Alessandro Canzian, suo
sogno degli Angeli.
come collana de Il Lavoro Editorialeultimo critico in un saggio inserito nel volume
“Vorrei una faccia bestia, laterale, un muso
Transeuropa.
In
questo
primo
Oppure mi sarei fatta altissima (Associazione
/ inesplicabile di sogliola a sguardo come /
periodo, pubblica appena tre titoli di
Culturale Terra d’Ulivo), muove Petrarca per
dire intero sufficiente. un’anima da travaso /
narrativa, ma subito si fa conoscere e
confessarci che: “incapace di comprendere
un’anima che risiede che sotto il gran sabbione
apprezzare con Congedo ordinario
alcunchè di quel che leggeva, era solamente
/ alleva la deessa, Macchia pulcherrima / in
di Gilberto Severini. È nel 1998 che
ammaliato dalla dolcezza dei suoni che
questa densa sinistra: giunchi falaschi guazza
Marco Monina e Antonio Rizzo ne
venivano da quelle parole” e anche Mario
/ neutri e coesi
Ordine innanzi / tutto o la
fanno una casa editrice autonoma,
Desiati, artefice dell’attenzione oggi rivolta
necessaria evidenza che si di- / verte nella
e aprono il nuovo corso con il testo
alla “poetessa della meraviglia”, si dichiara
memoria al margine ambulante / alla soglia
d’esordio Furibonde giornate senza
suo commosso lettore.
acrobata, che si consuma… e tra le pietre /
atti d’amore di Michele Monina.
“Da allora ad oggi, una breve ma
Intera lei, integra. Corpo poetico che mischia
sparite del giardino i silenzi / si nascondono
intensa storia, fatta di libri che per
lingue, fa eco, sfiora e sfonda ogni senso. Si
con precisione e pare un caso ormai / la mia
primi abbiamo amato” spiegano
fa imprendibile, unica ai “suoi”, proiettata
parola Bianca, bianca da respirare profondo
gli editori. Per citarne solo alcuni: La
nell’altrove, saettante. Presente, la voce. Le
/ in tanta fissazione di contorni o forse vuoi
donna di scorta di Diego de Silva,
voci! Scandisce parole, cantilena parole,
/ l’arresto, l’appartenenza inevitabile / alla
Assalto a un tempo devastato e vile
affluvia parole. Per Bene le dice, col suo
sillaba all’inevitabile distensione / delle terre
di Giuseppe Genna.
canto!
trascorse delle altre ancor / da nominare
Ma
il
primo
vero
successo
La parola è figlia in lei, ci dice Maurizio
chiamarle una poi l’altra tutte / le terre perfette
commerciale giunge nell’autunno
Nocera, le sue parole nascono per essere
alla mente afferrata / di nomi che smodano
del 2001 con Il mondo senza di me di
dette.
scadono che portano / alla memoria o la
Marco Mancassola (vedi intervista a
(dimenami con ordine la sillaba / (prestami
stravagano? (da Inferno minore-Pagine del
pag. 28): la prima edizione esaurita in
la parola che si addica: aulika; che sia forte
travaso)
meno di un mese.
o poeta che ti copio come capita ora che
Mauro Marino
Be Cool
il cinema secondo coolcub
La masseria delle allodole
Paolo e Vittorio Taviani
01 Distribution
Se il ‘900 è stato il periodo delle guerre di
massa e dell’odio insensato, metodico e
programmato, questo ventunesimo secolo,
ancora in fasce, sembra proprio quello del
recupero di tragedie che sembravano
dimenticate. Tratto dall’omonimo romanzo
di Antonia Arslan, il nuovo film dei fratelli
Taviani affronta e decifra il difficile tema
del genocidio attraverso la storia di una
famiglia armena che ristruttura una vecchia
masseria abbandonata per ospitare i
propri parenti in arrivo in Italia. L’attesa
però sarà vana, perché i loro cari sono stati
ammazzati per mano dei turchi durante uno
dei più sanguinosi episodi di pulizia etnica
che la storia ricordi. Su queste basi si muove
un film molto intenso, visivamente incisivo
e interpretato da un cast internazionale
in cui spiccano Paz Vega e Mohammed
Bakri. Splendide come sempre la ricerca
del quadro e le scenografie che fanno da
sfondo ideale a una pellicola dal sapore
teatrale, che riesce a muoversi sul filo della
fiction senza tuttavia esserlo. Ed è proprio
qui l’unica pecca di un film che lascia di
tanto in tanto troppo spazio alla banalità,
rifugiandosi nell’immagine per sfuggire al
racconto o, visto il caso, semplicemente
alla stanchezza. Non deve essere facile
raccontare una strage, ancora di più
quando è smentita come in questo caso.
Può davvero un uomo negare davanti
all’evidenza storica di aver trucidato milioni
di persone? A quanto pare si, ed è l’orgoglio
di chi ha bisogno non solo di sapere, ma
anche di dimostrare a far nascere lavori
come questi. Forse è banale dirlo, ma oggi
più che mai si avverte il bisogno di una
memoria collettiva e condivisa, che eviti
il ritorno della follia. La storia ha più volte
dimostrato di essere facile da oscurare,
riaprendo la strada a dittatori e revisionisti.
Il nostro compito è quello di essere sensibili
e vigili, quello di questi film di ricordarcelo.
Per non dimenticare.
Michele C. Pierri
Be Cool
32
300
Zack Snyder
Warner Bros
Zack Snyder porta sul grande schermo
300, storia partorita dal genio di Frank
Miller nel 1998, appena alcuni anni dopo
la creazione dell’altra grafic novel di
culto, Sin City, diventato poi film dagli
incassi record nel 2004 grazie a Robert
Rodriguez (con la supervisione alla regia
di Quentin Tarantino).
La storia ruota attorno alla figura del
re Leonida e dei 300 valorosi guerrieri
di Sparta. Nel 480 d.C nella gola della
L’ultimo Re di Scozia
Kevin Macdonald
20th Century Fox
Il film di Kevin
McDonald
descrive Idi Amin
Dada, dittatore
dell’Uganda
negli anni 70,
visto attraverso
gli
occhi
di
un
ragazzo
scozzese, che appena laureato parte
per l’Africa e diventa per caso medico
personale e poi consigliere del sanguinario
presidente. La storia, basata su fatti reali,
segue l’ascesa e la caduta di Amin e il film
si trascina per due ore tra vicende storiche
poco conosciute non supportate da una
analisi dei fatti poco più che superficiale.
Notevoli le ambientazioni e soprattutto
la splendida interpretazione del premio
Oscar Forest Whitaker che, è il caso di
dire, giganteggia su tutti riuscendo a
rendere perfettamente il duplice aspetto
di follia e populismo del suo personaggio.
Sconsigliato ai deboli di stomaco il finale
pulp, nel quale il regime e i suoi uomini
svelano la loro vera natura. In definitiva
il film ha il merito di provare a descrivere
l’utopia di realizzare un’Africa che sognava
di affrancarsi dai soliti clichet, di cui però il
film si nutre, ed è qui il suo grande limite.
Willj De Giorgi
Termopili, affrontarono la morte nella
storica battaglia per ritardare l’avanzata
dell’immenso impero persiano. Il loro
estremo sacrificio valse a riunire le varie
città della Grecia nella comune volontà
di respingere il dominio del “re - dio”
Serse. Gli intenti narrativi di Frank Miller
sono palesi. Non si vuole perseguire una
ricostruzione storica e politica fedele,
ma si vuole esaltare la grande forza di
volontà e il lato prettamente eroico di
un ristretto gruppo di uomini, che riuscì a
tenere testa per tre lunghi giorni ad uno
degli eserciti più maestosi che la storia
ricordi.
Snyder, giovane regista proveniente
dalla “scuola” del videoclip e dello spot
pubblicitario, ripercorre la stessa, identica
strada dello scrittore. Mantiene intatti
gli elementi visuali della grafic novel di
origine, anzi sembra quasi servirsene
come se fosse uno storyboard. Ricrea
alla perfezione le atmosfere cupe e
claustrofobiche (grazie all’ausilio del blue
screen). Ogni sequenza del film viene
rallentata e dilatata fino all’estremo e
plasmata come fosse una serie di dipinti.
La pellicola trova i suoi punti deboli però
nella fase di sceneggiatura, infatti la
contrapposizione tra bene e male è fin
troppo semplicistica, e nella scrittura dei
dialoghi, spesso mediocri e fin troppo
sbrigativi.
Il regista può comunque fare affidamento
sulla grande prova del gruppo di interpreti.
La coppia (da tenere d’occhio!) Gerard
Butler, re Leonida, e Lena Hedley, la
regina, spicca su tutti, e offre una prova
attoriale matura e completa.
Sabrina “Zero Project” Manna
Proprietà privata
Joachim Lafosse
Bim
attaccamento, gelosia. Una donna e
due figli gemelli al centro della storia. Lei
si morde le unghie, è insicura, nasconde
la verità. Loro sono abbastanza grandi,
litigano come bambini, annoiati guardano
la tv. Quindici anni di sacrifici per tirare
avanti, una splendida casa in campagna
da vedere oppure no, i rapporti familiari
nei loro momenti complicati dolci allegri
strazianti. Per la regia di Joachim Lafosse,
con una splendida Pascale interpretata da
Isabelle Huppert un film franco-belga che
non ha sbancato ai botteghini ma avrà
fatto riflettere chi l’abbia visto. Una dedica
quanto mai azzeccata, la dedica “ai nostri
limiti”. Perché ognuno di noi convive con
sensi di colpa, con tanti se e tanti ma con i
quali, prima o poi, arriva sempre il momento
di misurarsi. Una canzone c’è, alla fine, di
solo violini. Il titolo? “Resurrection”.
Valentina Cataldo
Maradona – La mano de
Dios
Marco Risi
01 Distribution
Viene dall’Italia, e non poteva essere
altrimenti, il primo film biografico su uno dei
campioni più amati della storia del calcio,
Diego Armando Maradona. La pellicola
di Risi prova ad emozionare raccontando
la sua vita non sempre perfetta, ma pur
sempre eccezionale che va dalla povertà
e gli esordi nell’Argentinos Junior alle luci
della ribalta fino al tracollo fisico e morale,
che ne ha stroncato in anticipo la carriera.
Una vita entusiasmante, spesso sopra
le righe, ma di sicuro mai banale. Per
appassionati.
Il mio Paese
Daniele Vicari
Arci / Ucca
Nuova pellicola per Daniele Vicari che
porta in sala un documentario intitolato
Il mio Paese, interessante road-movie
ispirato a L’Italia non è un paese povero
di Joris Ivens. Il lavoro cerca di porre una
riflessione su una nazione alla costante
ricerca di sé, perennemente in crisi, ma
mai alla completa deriva. Il film, presentato
in anteprima al Festival di Venezia ha
vinto il premio Pasinetti per l’attualità
giornalistica.
Nero bifamiliare
Federico Zampaglione
Moviemax
Proprietà privata è un film particolare.
Nessuna colonna sonora, inquadrature a
lungo ferme, quasi interamente incentrato
sui dialoghi. E proprio il comunicare è il
perno di questo film. Liti familiari, duri silenzi,
lunghi sguardi. Soldi e rancori, colazioni
pranzi e cene, passato presente e futuro.
Ma anche grande intimità, profondo
Esordio dietro la macchina da presa per
Federico Zampaglione, cantante e leader
dei Tiromancino. L’artista romano porta in
sala una insolita commedia nella quale
una giovane coppia decide di compiere
l’importante passo di andare a vivere
insieme. La scelta della nuova abitazione
ricade su una villetta bifamiliare situata in
un elegante quartiere. Ma non tutto va
come da programma. Nel cast Claudia
Gerini, protagonista anche del videoclip
di un brano estratto dalla colonna sonora
del film intitolato L’alba di domani.
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34
da aprile
CoolClub.it
MUSICA
ogni martedì / Sonic the tonic e Mr Moon
alla Negra Tomasa di Lecce
ogni mercoledì / Acoustic live alla Negra
Tomasa di Lecce
ogni mercoledì / Conversazioni sonore allo
Spazio Sociale Zei di Lecce
giovedì 5 / Blog al Jack’n JIll di Cutrofiano
(Le)
Serata all’insegna del punk e del rock
salentino allo storico locale di Cutrofiano.
Sul palco due delle band più longeve della
scena alternativa di Lecce: i Bludinvidia e
gli Psycho Sun. In apertura spazio ai Logo.
L’associazione culturale C-ARTE durante
lo spettacolo metterà in scena alcune
performance dalla caratteristica vena
surreale. Ingresso gratuito.
venerdì 6 / Il genio allo Spazio Sociale Zei
di Lecce
sabato 7 / Psychosun + Postman Ultrachic
all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)
sabato 7 / La rivincita dei nerds 2 + Pleo
+ Populous + Roccan ai Sotterranei di
Copertino (Le)
lunedì 9 / Steela e Apres La Classe nel
fossato del Castello di Otranto
martedì 10 / Smoke all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Il progetto è nato nel 2004 dall’incontro
tra alcune delle figure di primo piano della
scena reggae italiana. Smoke è frutto di
una ricercata simbiosi ritmica e melodica
ed espressione della libertà della loro vena
artistica, grazie a molteplici collaborazioni
con artisti internazionali di spessore facenti
parte della scena reggae mondiale.
martedì 10 / Audrey al Bohemien Jazz cafè
di Bari
martedì 10 / Jam Session al Lawrence sulla
Lecce/San Pietro in Lama
Roberta & Carlo presentano Jam Session,
un live itinerante dedicato ai musicisti
appassionati di tutti i generi. Dodici
appuntamenti per dodici locali tra le
province di Lecce e Brindisi. Ingresso
gratuito.
mercoledì 11 / Faun Fables ai Giardini di
Atrebil di Bari
mercoledì 11 / Giovanni Allevi al Teatro
Curci di Barletta
giovedì 12 / Vollmar + Elephant micah alla
Taverna del Maltese di Bari
giovedì 12 / Blues Portrait al Jack’n Jill a
Cutrofiano (Le)
giovedì 12 / Giovanni Allevi al Teatro
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dal 20 aprile al 18 maggio
Keep Cool
La rassegna di rock e dintorni firmata Coolclub, con la
direzione artistica di Cesare Liaci, torna anche quest’anno
per la sua terza edizione. Cinque concerti di musica italiana
e internazionale prima della grande abbuffata estiva fatta di
festival e rassegne per tutti i gusti. Si parte venerdì 20 aprile
all’Istanbul Cafè di Squinzano con The Styles. Un esordio
fortunato per gli italianissimi The Styles e per il loro sound sporco
e molto british: i loro due singoli Glitter Hits e The Music Sucks
hanno infatti conquistato i principali network italiani e canali
televisivi. La musica del trio del lago di Como è influenzata
da Beatles, gli Who, i Kinks, i Led Zeppelin, i Creedence
Clearwater Revival, i Clash e molti altri. Sul palco saliranno Guido (voce/chitarra), Luke
(batteria) e Steve (chitarra).
Sabato 28 nell’Atrio del Palazzo Ducale di Novoli si terranno invece le selezioni per
andare a suonare allo Sziget Festival di Budapest. Sei gruppi che si contenderanno un
posto alla finale barese che poi condurrà un gruppo italiano sul prestigioso palco del
festival ungherese. In apertura, alla Saletta della Cultura, si esibirà Luca Nesti. In chiusura
invece sul palco salirà Moltheni.
Sabato 4 maggio arriva all’Istanbul Cafè la conturbante e misteriosa cantautrice tedesca
Miss Kenichi (nella foto). Grazie all’intensità ed all’ispirazione struggente da vera Outsider,
Miss Kenichi è stata paragonata dalla stampa italiana ed europea ad artisti quali Cat
Power, Hope Sandoval, Emiliana Torrini, Nico,Susan Vega, Lisa Germano.
Venerdì 11 si torna a Novoli con il concerto dei Giardini di Mirò che presenteranno i
brani di Dividing Opinionsc, loro terzo cd, un disco politico nel senso dello schierarsi
senza accomodamenti; e dice ciò che sono ancora oggi i Giardini di Mirò, ovvero il
più efficace e aggiornato biglietto da visita per l’indierock del nostro paese all’estero.
(ingresso 7 euro)
Venerdì 18 la rassegna si chiude all’Istanbul Cafè con i romani Zu. Musica strumentale ed
incatalogabile per basso, batteria, sax baritono. Circa 800 concerti in 5 anni, in circuiti
punkrock, freejazz edi musica contemporanea, in Asia (corea e giappone), Usa, Canada,
Russia, Europa, Europa dell’est, Africa. Zu collaborano con Mike Patton, Thurston Moore
e Jim o’Rourke dei Sonic Youth.
Inizio concerti ore 22.00. Ingresso 5 euro.
Politeama Greco di Lecce
venerdì 13 / Ingraved, Clinicamente morti e
Burning Seas all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
venerdì 13 / Amerigo Verardi allo Spazio
Sociale Zei di Lecce
Lotus è il nome dietro il quale si cela l’ultimo
progetto musicale di Amerigo Verardi, figura
storica dell’underground italiano degli ultimi
quindici anni.
sabato 14 / Federico Sirianni alla Saletta
della Cultura di Novoli (le)
“Dal basso dei cieli”, secondo cd del
cantautore che si muove tra Genova
e Torino, è un disco che si fa ascoltare
con piacevolezza, è un caleidoscopio
che mescola suoni e atmosfere, richiami
cinematografici (come nella intro dedicata
a Ennio Morricone) e letterari, Balcani e
Italia, Bulgaria e Sud America, blues e
patchanka. Inizio ore 21.30. Ingresso 5 euro.
Info 347 0414709 – [email protected]
sabato 14 / Superpartner all’Arci di
Francavilla Fontana (Br)
sabato 14 / La notte bianca a Lecce
sabato 14 / La notte nera all’Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
sabato 14 / Fiorella Mannoia a Brindisi
sabato 14 / Terremoto + Reality Grey ai
Sotterranei di Copertino (Le)
domenica 15 / Antonella Ruggiero al Teatro
Politeama Greco di Lecce
martedì 17 / Bob Corn + Sj Esau al Bohemien
Jazz cafè di Bari
giovedì 19 / Muzak al Jack’n Jill di Cutrofiano
(Le)
venerdì 20 / Sudivoce vocal ensemble allo
Spazio Sociale Zei di Lecce
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Formazione sonora,composta da 10 elementi
e diretta da Irene Scardia. Pur traendo
slancio creativo da una connotazione etnica
con sguardo a sud, l’ensemble propone un
repertorio assolutamente originale per una
formazione corale. I brani proposti spaziano
dalla musica pop e rock internazionale e
piacevoli incursioni nel jazz e nella soul music
a composizioni originali di Irene Scardia. Gli
arrangiamenti dei Sudivoce sono a cura di
Marco Della Gatta.Il gruppo si avvale della
collaborazione del pianista Fabrizio Leccisi.
Ingresso gratuito
sabato 21 / Taranta Social Club all’Arci di
Taviano (Le)
sabato 21 / Rock’n Roll party all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
mercoledì 24 / Neffa al Teatro Politeama
Greco di Lecce
mercoledì 24 / Jam Session al Lawrence
sulla Lecce/San Pietro in Lama
giovedì 26 / Derosa al Bohemien Jazz cafè
di Bari
giovedì 26 / Paolo Zanardi al Jack’n Jill di
Cutrofiano (Le)
I barboni preferiscono Roma è il titolo
del secondo cd solista del cantautore
barese Paolo Zanardi. Uscito a circa due
anni di distanza da Portami a fare un giro
(sempre per la coraggiosa etichetta Olivia
Records) il cd conferma tutte le positive
critiche raccolte dal quasi quarantenne
cantautore. I barboni preferiscono Roma
raccoglie 13 brani che raccontano quartieri
cinesi, trucchi da Houdini, storie e destini di
splendide lucciole slave, fragili playboy.
Ingresso gratuito. Inizio ore 22.00. Info
0836541126 – 3292273200
giovedì 26 / Almandino Quite De Lux ai
Sotterranei di Copertino (Le)
venerdì 27 / Sergio Cammariere al Teatro
Politeama Greco di Lecce
venerdì 27 / Bonnie Prince Billy (vedi articolo
a pagina 35) al Fortino Di Sant’antonio di
Bari
venerdì 27 / Andrea Favatano-Emanuele
Tondo-Igor Legari allo Spazio Sociale Zei di
Lecce
Il trio si propone di interpretare le più belle
pagine dei classici del jazz, fino ai brani più
moderni, creando una calda dimensione di
freschezza e forte coinvolgimento emotivo,
grazie all’ormai collaudato interplay fra i tre
musicisti.
sabato 28 / Luca Nesti alla Saletta della
Cultura di Novoli (Le)
Al cantautore toscano Luca Nesti piace
molto mettersi in gioco. Da qui il titolo del
suo ultimo lavoro discografico (uscito un
paio di anni fa) Ho cambiato idea, il naturale
approdo di un musicista che nella sua vita
ha fatto quasi tutto. Già autore di colonne
sonore e di canzoni per e con Giancarlo
Bigazzi cantate poi da Anna Oxa, Mina,
Beppe Barra, Riccardo Tesi, Luca nel 2001
esordisce come solista. “Ho cambiato idea
contiene 13 brani inediti che si muovono
tra rock e canzone d’autore, letteratura e
ironia. Inizio ore 21.30. Ingresso 5 euro. Info
347 0414709 – [email protected]
sabato 28 / Metal Night all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
lunedì 30 / Rollerball al Bohemien Jazz cafè
di Bari
giovedì 3 maggio / Katamine al Matisse di
Bari
venerdì 4 / Liquid Laughter Lounge Quartet
al Bohemien Jazz cafè di Bari
Teatro
martedì 10 / Antonello Taurino e Massimo
Colazzo in “Poeti Folgorati... ovvero come
provammo a distruggere la poesia italiana
del novecento!” al Caffè Letterario di
Lecce
mercoledì 11 / Sacco & Vanzetti al Teatro
Politeama Greco di Lecce
La stagione teatrale del Politeama Greco
di Lecce prosegue con lo spettacolo
Sacco&Vanzetti di Michele Santeramo con
Michele Sinisi, Ippolito Chiarello, Angela
Iurilli e Christian Di Domenico per la regia di
Simona Gonella. Nicola Sacco e Bartolomeo
Vanzetti nascono a cavallo di due secoli
particolarmente burrascosi ai due capi di
CoolClub.it
un’Italia contadina, da cui loro, figli entrambi
di piccoli proprietari, partono poco più che
adolescenti per l’America: Sacco veniva
da Torremmaggiore in Puglia, Vanzetti da
Villafalletto in Piemonte. Il 5 maggio 1920
vengono arrestati per due reati commessi
il 15 e il 24 aprile e diventano Nick e Bart:
due eroi. Loro malgrado. Perché né l’uno
né l’altro mai hanno pensato di fondare le
loro vite nel desiderio di diventare qualcuno.
Eppure, da quasi ottant’anni i loro nomi
risuonano nelle piazze, nei libri, nella musica,
nei film. L’ingiustizia di cui l’America li fece
oggetto ancora oggi scuote le coscienze
e spinge molti ad interrogarsi su una delle
vicende simbolo più intricate del novecento.
Lo spettacolo non vuole ripercorrere
pedissequamente la storia del processo e
dei sei lunghi anni che trascorsero in attesa
della pena capitale, né pretende di proporsi
come una sorta di documentario dell’intera
vicenda. Sipario ore 20.45. Ingresso 20, 17 e
10 euro. Info 0832242000.
venerdì 13 / Al mattonificio ai Cantieri Teatrali
Koreja di Lecce
Lo spettacolo riprende il testo di Luigi
Monteleone e si presenta come un vero
e proprio concerto per sassofono e voce.
Ingresso 10 euro.
venerdì 20 / Il Natale di Harry ai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce
Steven Berkoff, scrittore, attore teatrale e
cinematografico, è figura nota a chi segue
l’evolversi del teatro inglese contemporaneo
e ne apprezza le qualità innovative e
l’originalità delle stesure. Le tematiche
affrontate da Berkoff, in particolare, traggono
origine da una osservazione disincantata
e senza veli di una realtà che è attuale,
ma che ha anche l’intensità e la forza di
un’antica tragedia, perché fa riferimento a
valori che da sempre costituiscono il senso
stesso dell’essere uomini. Sipario ore 20.45.
Ingresso 10 e 7 euro. Info 0832242000.
venerdì 27 / Il suo corpo trasparente al
Cinema Elio di Calimera
venerdì 27 / Bocca di Cowboy ai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce
C’è una scenografia unica: una stanza da
letto in disordine, con qualche manifesto
sulle pareti, una batteria e una chitarra
elettrica in un angolo, cibo, bottiglie,
bambole di pezza, crocifissi, un corvo morto.
Sipario ore 20.45. Ingresso 10 e 7 euro. Info
0832242000.
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venerdì 4 e sabato 5 maggio / Kanun ai
Cantieri Teatrali Koreja
Un vero e proprio vortice balcanico, gioco
di passioni, amore, odio e vendetta, che
corre sul filo teso tra vita e morte - appare in
questa storia, ispirata da un antico codice
Albanese. L’obiettivo è non fornire una
risposta, ma solo richiamare l’attenzione
su tali questioni. Per non di dimenticarle essendo esse a renderci vivi - sono necessari
solo pane, sale e un cuore aperto. Sipario ore
20.45. Ingresso 10 e 7 euro. Info 0832242000.
CINEMA
dal 17 al 22 aprile / Festival del Cinema
Europeo a Lecce
Nuovo appuntamento
con il Festival del
Cinema
Europeo,
giunto
ormai
all’ottava
edizione
e in programma al
Santalucia di Lecce
dal 17 al 22 aprile.
Ideato e organizzato
dall’associazione
culturale
“Art
promotion”, il festival
mira a dare spazio a quelle realtà del
mondo filmico che godono di poca luce,
in modo da promuovere l’incontro tra
operatori del settore e valorizzare nuovi
talenti. Numerosi gli approfondimenti che
quest’anno avranno come fiore all’occhiello
una retrospettiva sul lavoro del cineasta
greco Theo Angelopoulos che omaggerà
il pubblico salentino con un incontro in cui
descriverà il suo percorso artistico. Legate
al territorio invece la rassegna Puglia show,
che presenta il meglio dei cortometraggi
di produzione pugliese e le giornate studio
realizzate in collaborazione con l’Università
del Salento. La manifestazione si svolge
con il patrocinio di Regione Puglia, Centro
sperimentale di Cinematografia e Ministero
per i Beni e le Attività culturali. Info www.
europecinefestival.org
venerdì 20 e 27 / Segnale di Corto al Flatus
Vitae di Erchie (Br)
venerdì 4 maggio / Segnale di Corto al Flatus
Vitae di Erchie (Br)
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di eventuali variazioni o annullamenti.
Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it
Per segnalazioni:
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Nell’immaginario collettivo statunitense
l’epica
vicenda
dell’esigua
milizia
spartana che si contrappose alla furia
delle sterminate orde di Serse in difesa
della Grecia è impresso potentemente,
anche in campo fumettistico. Nella maxisaga La Caduta dei mutanti (1986) lo
sceneggiatore Cris Claremont lanciava
un esiguo team di X-men contro un
avversario invincibile, per mano del quale
sarebbero periti (per poi essere resuscitati
dalla divina Roma), paragonandoli agli
eroici soldati greci morti alle Termopili.
Agli inizi del ventunesimo secolo l’ormai
acclamato Frank Miller, mentre era
ancora impegnato a pubblicare la serie
Sin City, diede alle stampe un’ambiziosa
graphic novel 300 che celebrava le gesta
del sovrano spartano Leonida e dei suoi
stoici guerrieri.
Coadiuvato dalla moglie Linn Varley,
talentuosa colorista (Elektra live again,
Ronin) Miller ha inscenato un visionario
affresco storico dalle immagini potenti,
degne delle migliori prove del fumettista
nord-americano sia a livello stilistico
che tematico. La storia è nota: alla fine
del 400A.C. la Grecia delle polis era
minacciata dalle mire imperialiste di Serse,
sovrano assoluto dell’immenso impero
persiano, che desiderava sottomettere la
terra degli dei dell’Olimpo; a difendere
l’indipendenza delle libere città greche,
spesso in conflitto fra loro, si levarono gli
spartani, figli di una cultura basata sulla forza
fisica e l’arte della guerra, che prima degli
altri greci combatterono disperatamente
contro i persiani. Il sacrificio dei trecento di
Leonida sulle coste elleniche, le Termopili,
spinse le altre città a superare i contrasti
e ad unirsi nella lotta contro gli invasori,
divenendo un caso esemplare di sacrificio
per la patria. Miller, affascinato dal tragico
fato degli spartani, ha reso propria tale
parabola storica rivisitandola in chiave
post-moderna attraverso una narrazione
epica e delle illustrazioni capaci di
restituire appieno la ferocia e l’eroismo
della battaglia. Nel 2006, dopo il successo
del film tratto dalla sua opera più nota,
Sin City, è stato affidato al regista Zack
Sneider l’adattamento cinematografico
di 300, uscito da poco nelle sale di tutto
il pianeta. La trasposizione è un omaggio
alla bellezza ed alla forza straordinaria
delle tavole di Miller, realizzata quasi
interamente in digitale. Il risultato è una
pellicola che attraverso le meraviglie del
computer, esalta la perfezione dei corpi
degli spartani contrapposta alla repellente
deformità degli esotici schiavi persiani e
ricostruisce le ambientazioni della vicenda,
dalla città di Sparta alle frastagliate coste
greche dove si consumerà la gloriosa fine
di Leonida. Il film vanta l’apporto dello
stesso Miller, pur presentando notevoli
differenze ed incongruenze rispetto al
fumetto: innanzitutto esaspera i toni dello
scontro di civiltà, tristemente simili al
presente, per mezzo dell’iperbolica fisicità
dei protagonisti, risultato di una visione
manicheistica della storia( la bellezza
associata alla positività dei greci; la
deformità alla vile malvagità dei lacché
di Serse) accentuata da alcuni dialoghi
al limite del ridicolo. D’altronde Sneider ha
eccellenti doti visive, riuscendo a tradurre
i possenti disegni di Miller in fotogrammi
altrettando suggestivi, infondendo alla
storia un ritmo serrato ai limiti dell’ipnosi.
Durante il film si è talmente avvinti dalla
perfezione della confezione filmica da non
badare ad alcuni non trascurabili dettagli:
dal ruolo della consorte di Leonida, più
simile ad un amazzone che ad una regina
greca, all’inesatezza storica di alcuni
particolari ed infine all’enfasi patetica di
determinate scene. Dunque il problema
risiede nell’ aspetto prettamente narrativo;
la pellicola non riesce a riprodurre la
prosa del fumettista americano nè parte
della sua poetica. In molti suoi fumetti
Miller ha contrapposto ad eroi, simili ad
adoni, uomini malvagi dalle fattezze da
freaks( dall’enorme Kinping di Daredevil,
ai mutanti grotteschi di Ronin e Dark
Knight) per esprimere visivamente la netta
distinzione di ruolo. Ma la deformità è
anche una caratteristica degli antieroi
milleriani dall’imponente killer sentimentale
Marv di SIn City sino al tumefatto poliziotto
di Quel Bastardo Giallo in antitesi alla
perversa bellezza delle dark ladies di tutta
la produzione hard-boiled dell’artista. Nel
film che ha suscitato aspre polemiche per
la raffigurazione offensiva di quei persiani
che altri non sono che gli antenati dei
moderni mediorientali, la distinzione tra la
fiera libertà dei Greci e la tirannia di Serse
è evidenziata in maniera troppo netta ed
a tratti sfocia nel banale. Miller dal canto
suo, tesse un epitaffio ruvido ed accorato
di questo manipolo di guerrieri votati ad
Ares, i quali appaiono più interessati al
proprio onore che alle sorti della patria; su
tutti naturalmente spiccano Leonida, il fiero
protagonista di 300 ed il semidivino Serse,
gigantesco ed effeminato imperatore
dalla figura mitica. In ogni caso sia il film
che il comic sono più che degni di essere
visti e letti.
Roberto Cesano
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