Francia – Belgio Paesi Bassi Diario di viaggio
Transcript
Francia – Belgio Paesi Bassi Diario di viaggio
InterRail 2009 Francia – Belgio Paesi Bassi Diario di viaggio Periodo: 1 agosto – 22 agosto 2009 A cura di: Daniele Gatti ([email protected]) Il percorso I pallini ROSSI sono le tappe visitate. I pallini GRIGI sono le stazioni in cui abbiamo effettuato cambi di treni o bus. 2 Tappa per tappa: 01/08 Mendrisio – Zurigo (Treno) 01/08 Zurigo – Basilea (Treno) 01/08 Basilea – Parigi (Treno) 05/08 Parigi – Versailles (Treno) 05/08 Versailles – Chartres (Bus) 07/08 Chartres – Tours (Bus) 07/08 Tours – Chenonceaux (Treno) 07/08 Chenonceaux – Tours (Treno) 07/08 Tours – Amboise (Treno) 08/08 Amboise – Tours (Treno) 08/08 Tours – Blois (Treno) 08/08 Blois – Chambord (Bus) 08/08 Chambord – Cheverny (Bus) 08/08 Cheverny – Blois (Bus) 08/08 Blois – Tours (Treno) 09/08 Tours – Le Mans (Treno) 09/08 Le Mans – Rennes (Treno) 09/08 Rennes – St. Malo (Treno) 11/08 St. Malo – Pontorson (Treno) 11/08 Pontorson – Mont St. Michel (Bus) 11/08 Mont St. Michel – Pontorson (Bus) 11/08 Pontorson – Bayeux (Treno) 13/08 Bayeux – Caen (Treno) 13/08 Caen – Rouen (Treno) 14/08 Rouen – Breaute (Treno) 14/08 Breaute – Etretat (Bus) 14/08 Etretat – Breaute (Bus) 14/08 Breaute – Rouen (Treno) 15/08 Rouen – Parigi (Treno) 15/08 Parigi – Bruxelles (Treno) 16/08 Bruxelles – Brugge (Treno) 16/08 Brugge – Bruxelles (Treno) 17/08 Bruxelles – Hertogenbosch (Treno) 17/08 Hertogenbosch – Amsterdam (Treno) 20/08 Amsterdam – Alkmaar (Treno) 20/08 Alkmaar – Den Helder (Treno) 20/08 Den Helder – Den Oever (Bus) 20/08 Den Oever – Den Helder (Bus) 20/08 Den Helder – Amsterdam (Treno) 21/08 Amsterdam – Koog Zaandijk (Treno) 21/08 Koog Zaandijk – Amsterdam (Treno) 22/08 Amsterdam – Karlsruhe (Treno) 22/08 Karlsruhe – Basilea (Treno) 22/08 Basilea – Chiasso (Treno) 3 "...diventare vecchio, accorgersi che la vita non è stata altro che un lungo coma, spettatore incosciente dei fatti, vittima della bellezza brutale delle vite degli altri" Davide Appena un anno dopo Una strana atmosfera aleggia questa mattina nella piccola stazione di Mendrisio. Le prime tenui luci dell’alba illuminano debolmente i numerosi treni merci che dormono profondamente sulle fredde rotaie, in meritato riposo dopo una giornata di duro ed incessante lavoro. Gli edifici di servizio sono chiusi, non c’è nessuno nei paraggi, gli unici movimenti che si percepiscono sono l’avanzare delle lancette del grosso orologio infisso sulla parete della costruzione principale della stazione, più l’ondeggiare dei ciuffi d’erba che crescono tra un binario e l’altro, spinti da un leggerissimo venticello appena percettibile. Pian piano, senza fretta, le lancette dell’orologio scandiscono i minuti che mancano alla partenza del prossimo treno, che due strani personaggi dall’aria assonnata sembrano attendere, camminando avanti e indietro sulla massicciata del binario numero tre. Sono le uniche due persone che stanno aspettando un treno ora, nella dormiente e desolata stazione. Portano entrambi un grosso zaino in spalla, allacciato a livello della vita e del torace per distribuire e bilanciare meglio i pesi e non farli gravare unicamente sulle clavicole. Uno degli zaini è completamente nero e piuttosto spartano, l’altro è blu e bianco e molto più sofisticato, ricco di tasche aggiuntive e di cordicelle e nastri che ciondolano da ogni dove, che gli conferiscono un aspetto professionale ed adatto ai viaggi di avventura più estrema. Entrambi i viaggiatori indossano plurimi strati di vestiti per difendersi dal fresco della notte ormai prossima al termine, ma uno dei due stranamente indossa un paio di pantaloni corti jeans, e da come si strofina le gambe con le mani sembra proprio che si stia pentendo di non aver messo i pantaloni lunghi. Forse ha sottovalutato il frescolino che può esserci anche in una mattina d'agosto. I due individui sembrano immersi in strani pensieri, difficilmente sondabili. Di tanto in tanto si spingono sul bordo della massicciata e si sporgono sui binari per esaminare i rifiuti lasciati da qualche passeggero, o per valutare la quantità di ruggine che sta lentamente aggredendo le sbarre di ferro e i bulloni, o ancora per tentare di capire da dove provengano i vagoni merci, che osservano con molta attenzione tentando di interpretare le scritte nelle lingue a loro sconosciute. I due individui parlano poco tra loro: solo ogni tanto si scambiano qualche incerta parola, concentrati come sono sulle loro sensazioni, ancora acerbe e indefinite. Stanno certamente aspettando un treno per partire, ma non aspettano soltanto questo. Sarebbe troppo riduttivo credere che sia semplicemente un treno ciò che aspettano. Sembra che aspettino più che altro un cambiamento, una scoperta, una scintilla di novità. Il treno che deve arrivare a prelevarli è soltanto un mezzo per raggiungere il loro scopo. Mancare ciò equivale a mancare in pieno lo scopo del viaggio. Ebbero la fortuna di non mancarlo un anno fa, quando alla stessa maniera partirono carichi di sogni e speranze per raggiungere le lontane e magiche terre della Scandinavia, e non vogliono certamente mancarlo adesso, grati come sono della possibilità di ripetere quest’esperienza e di mettere temporaneamente da parte il noto per concentrarsi unicamente su ciò che è ancora sconosciuto ma che rimarrà tale ancora per poco. Con questi pensieri nella testa i due continuano a camminare lentamente, fermandosi di tanto in tanto a guardare il cielo per vedere se per caso il sole stia per spuntare. Pur nel silenzio, ogni tanto non possono fare a meno di scambiarsi uno sguardo per metà timoroso e per metà complice, lo sguardo di chi è consapevole che quando siederà sulla poltrona del vagone passeggeri qualcosa inizierà a cambiare e non si potrà più tornare indietro uguali a come si era prima. In qualche modo, qualcosa dovrà per forza cambiare. Alla luce di questo pensiero, chi ha voglia di tornare indietro? Non certo questi due. Ma temo di non averli ancora presentati, e questa è una dimenticanza a cui è bene rimediare subito. Quei due strani individui siamo noi, carichi di buone speranze e pronti nuovamente a partire, appena un anno dopo! 4 Avventura Il vagone che abbiamo scelto per la prima sferragliata della giornata è quasi vuoto e molto silenzioso, pulito ed ordinato come ci si aspetterebbe da un treno svizzero. I pochi viaggiatori presenti oltre a noi si occupano dei fatti loro, qualcuno legge il giornale, qualcun altro sonnecchia, forse per recuperare qualche ora di sonno prima di recarsi al lavoro. Anche noi abbiamo sonno, date le poche ore di riposo che abbiamo accumulato questa notte, ma non è certamente il momento di dormire: difficilmente la partenza del primo treno di una lunga serie può essere vissuta con indifferenza ed indurre al sonno. Riesco con fatica a rendermi conto che sto provando la stessa potente, inebriante sensazione che provai esattamente un anno fa, quando ancora acerbo stavo per partire per la Norvegia con il mio fidato compagno Davide che anche questa volta mi sta accompagnando. Sto bevendo ancora una volta lo squisito cocktail di ansia e gioia, preoccupazione ed esaltazione, il cui sapore è ben conosciuto a chiunque si prepari a partire per un viaggio avventuroso. Piano piano scende giù nella gola, mentre il treno supera cittadine addormentate ed intricate linee elettriche, tuffandosi in mezzo a verdi boschi e costeggiando dirupi vertiginosi, prima di entrare nel buio tunnel del Gottardo, nel quale le orecchie mi si chiudono un po’, amplificando la sensazione d'ottundimento e di sonnolenza che ora inizio a provare più intensamente, cullato dal tranquillo e silenzioso avanzare del treno in mezzo all’oscurità della lunghissima galleria. Passare il Gottardo è come varcare una linea di demarcazione: questo traforo che attraversa le Alpi da parte a parte, e che per lungo tempo è stato la galleria ferroviaria più lunga del mondo, funge un po’ da spartiacque tra il piccolo mondo che lasciamo a casa e il nuovo mondo che andiamo a conoscere ora. Non si capisce molto bene dove il tunnel inizi, così come non è netto il principio di un nuovo periodo in cui tutto è mutato e trasfigurato. Simbolicamente, l’attraversamento del tunnel rappresenta l’uscire di nuovo all’aria aperta dopo un lungo periodo di buio, dove forse si erano perse le speranze. Quando il treno riemerge trionfalmente dalle oscure profondità della montagna e investe nuovamente l’aria pura, fendendola con sicurezza, capita di nuovo quello che capitò già un anno fa, quando l’aereo prese sempre più velocità fino a decollare. La linea di margine è stata finalmente oltrepassata. C’è una calma strana adesso sul treno, che non viene turbata nemmeno dalla vista di due militari in divisa mimetica ed armati di mitragliatrice, venuti a sedersi nel blocco anteriore del vagone a poca distanza da noi. L’estremità della canna dell’arma è forata lateralmente in vari punti, forse per permettere di disperdere al meglio il calore durante una raffica di colpi, e nonostante le armi mi lascino sempre un vago senso d'inquietudine ora mi lasciano quasi del tutto indifferente. L’effetto del potente cocktail di emozioni e sensazioni non è ancora passato, e spero che le mie viscere lo metabolizzino molto lentamente, così che il suo effetto duri il più possibile. Cambiando due treni, alle stazioni di Zurigo e Basilea, ci troviamo finalmente sulla direzione giusta per la nostra prima, grande tappa. Il treno percorre le rotaie alla velocità di oltre trecento chilometri orari, ma non ce ne accorgiamo quasi. Il treno è troppo confortevole per rendersi conto dell’estrema velocità con cui sta correndo. Prima che possiamo accorgercene siamo già arrivati, ed è già tempo di scaricare i bagagli, metterseli in spalla e ridiscendere dalla scaletta del vagone, abbandonati finalmente a noi stessi. Ville de Lumière La capitale francese è stata descritta così tante volte e con così tanti aggettivi che trovo difficile tentare una descrizione adesso, rischierei di ripetere unicamente ciò che è già stato detto da innumerevoli altri artisti, scrittori, musicisti, attori, letterati e via dicendo. Non è necessario che mi metta a descrivere pedantemente la sua lunga e prestigiosa storia, o citare tutto quello che i grandi del passato e del presente hanno detto su questa famosa metropoli. Non è nemmeno necessario che mi metta a descrivere il caos della stazione centrale, la metropolitana, l’ampiezza delle strade della città che è una prerogativa costante sia del più grande viale sia della più insignificante stradina, la grande quantità di alberi nei molti boulevards, la quantità più grande ancora di escrementi di cane disseminati 5 per le strade, sui quali scivolano e finiscono al pronto soccorso una media di seicento parigini l'anno. Non è nemmeno necessario descrivere il carattere dei francesi e la loro storia: fortemente nazionalisti, abituati a prendersi con la forza ciò che è di loro diritto, ma gli viene negato dalle alte cariche dello Stato; ciò avvenne in modo eclatante con la Rivoluzione del 1789, quando i parigini insorsero armati di fucili razziati dall’Hotel des Invalides e rovesciarono i loro oppressori con la violenza, cominciando con l’assaltare la prigione della Bastiglia, della quale oggi non è rimasto nulla; il posto che occupava è ora diventato una piazza commemorativa attorno alla quale è stata istituita una rotatoria stradale, ma con un po’ di attenzione si può notare la linea tracciata per terra che indica i vecchi confini della prigione. Purtroppo i francesi hanno ben poca propensione ad essere gentili con gli stranieri e soprattutto a parlare inglese, come ci accorgiamo già dal primo contatto con il bigliettaio della stazione parigina, che non ne vuole proprio sapere di parlarci in qualsiasi lingua che non sia francese, nemmeno per dire due semplicissime parole in croce. Non si tratta solo di luoghi comuni sui francesi, è la pura verità! Con qualche difficoltà, poiché nessuno di noi due parla francese, riusciamo comunque a farci capire, ma presagiamo da subito che sarà un viaggio per gran parte all’insegna del linguaggio a gesti, più che a parole. Parigi non mi è nuova: esattamente dieci anni fa la visitai come parte di una breve vacanza durata una settimana, nella quale toccai anche le città di Versailles e Vezelay. Conservo ancora qualche ricordo di quel viaggio, ma non è certamente sufficiente a ricordarmi nei dettagli tutte le meraviglie che vidi ai tempi e che adesso ho la possibilità di rivedere, mentre Davide le vedrà tutte per la prima volta e magari potrò anche permettermi di illustrargli qualcosa. La città è notoriamente enorme, ma il nostro alloggio è servito abbastanza bene dalla metropolitana, da cui non fatichiamo molto ad arrivarci. Si tratta di un ostello piuttosto povero, la camera è a dir poco spartana e si apre con quelle maledette chiavi magnetiche che però stranamente paiono funzionare da subito e senza guastarsi. Nonostante ciò, l’alloggio non è affatto economico. Dobbiamo ricordarci di essere in una delle maggiori capitali europee, dove non è facile spendere poco, ma abbiamo le nostre risorse per risparmiare qua e là, come il sacco a pelo che stavolta ci siamo portati tutti e due per fronteggiare eventuali notti passate senza un tetto sopra la testa. Tour Eiffel Acclimatatici un po’, decidiamo di non perdere nemmeno un secondo e di esaurire subito qualche succulento boccone di Parigi. La scelta cade sulla blasonata Tour Eiffel, tanto bella e sontuosa quanto ambita dai turisti, che invadono letteralmente il piazzale sottostante ed i giardini, facendo concorrenza in quanto a numerosità alle decine e decine di venditori ambulanti extracomunitari che tentano in tutti i modi di sbolognare ai passanti immaginette della torre, modellini in varie scale, bracciali e chi più ne ha più ne metta. A volte questi individui sono così carichi di merce da vendere che se la indossano con dei lunghi cinturoni ai quali tengono tutto appeso, trasformandosi in maracas ambulanti che fanno rumore ad ogni passo od alito di vento. Riusciamo ad evitarli con qualche difficoltà, ma a complicarci la passeggiata ci pensano le altrettanto numerose donne vestite con velo e gonna nera sdrucita che si avvicinano chiedendoci insistentemente “Do you speak english?”. Nel caso che qualche malcapitato dia una risposta affermativa, esso viene tempestato di richieste caritatevoli, come possiamo osservare a poca distanza da noi. Alla quinta richiesta in pochi metri sono tentato di fingermi un turista russo rispondendo “Njet”, ma alla fine veniamo lasciati in pace e riusciamo ad approdare all’entrata della torre, non prima però di essere rimasti in coda per un tempo considerevole, rinfrescati periodicamente da un provvidenziale vaporizzatore d’acqua che è accolto come un’oasi nel deserto. Opera di un ingegnere ed imprenditore chiamato Gustave Eiffel (guarda caso!), costruita in appena due anni (dal 1887 al 1889) ed alta ben 324 metri, non ha certo bisogno di presentazioni, essendo il simbolo universale di Parigi e della Francia intera. E dire che non venne molto apprezzata quando fu costruita, poiché considerata esteticamente brutta e deturpante! Anche se tuttora qualche francese non l’apprezza (viene definita da taluni “l’asparago di ferro”), tutto il mondo sembra essersi messo 6 d’accordo sul fatto che l’intera struttura sia un capolavoro di architettura. Su tutti e quattro i lati, appena sotto il primo livello, sono incisi molti nomi di importanti cittadini francesi, specialmente matematici, fisici e scienziati, tutti nomi che ci ricordano qualcosa dalle ormai vetuste lezioni di fisica del liceo. Nel corso della sua vita, la Torre è stata anche protagonista di vari episodi curiosi: vale la pena di ricordarne uno in particolare, riguardante l’arrivo di Hitler in città durante la Seconda Guerra Mondiale. Per costringerlo a salire quasi duemila gradini nel caso volesse arrivare in cima alla torre, i francesi disattivarono tutti gli ascensori motivando il “malfunzionamento” con la scarsità di pezzi di ricambio dovuta al conflitto. Il Fuhrer decise, assennatamente, di rimanere a terra ed evitare l’ardua ascesa! E così si perse la magnifica visuale, per la quale siamo qui noi ora. Il cielo è piuttosto coperto, ma non sembra che precluderà un’ottima vista dalla cima del monumento. Durante la lunga fila ho modo di analizzare le nazionalità della gente che è qui ad aspettare insieme a noi. Sorprendentemente, non c’è traccia di italiani. Abituati a sentir parlare la nostra lingua più all’estero che in Italia, questa è proprio una bella sorpresa: finalmente possiamo provare pienamente la sensazione di trovarci all’estero e non semplicemente traslati da qualche altra parte insieme ai nostri connazionali, che fanno sembrare tutto un prolungamento dell’Italia stessa! Abbondano inglesi, spagnoli, ma soprattutto gli onnipresenti giapponesi, questi sì impossibili da evitare. Credo di riconoscere anche una famiglia russa, oppure ucraina, poiché capto qualche affermazione in una lingua che mi sembra di conoscere un po’. Non ho comunque modo di appurarlo con certezza, poiché la coda finalmente si è esaurita e si può cominciare a salire. L’ascensore ci porta al primo livello, destreggiandosi tra le intricate sbarre di ferro intrecciate che compongono la torre, mentre la Senna diventa via via più visibile in tutto il suo serpeggiare per il centro di Parigi. Siamo pressati all’inverosimile all’interno dell’ascensore, tipicamente in stile “scatola di sardine”, ma è un disagio che dura poco. Infatti poco dopo traslochiamo su un altro ascensore, che rapidamente fa il suo dovere portandoci all’ultimo livello, raggiunto a tutti gli effetti solo dopo altre decine di minuti di coda. Dall’alto possiamo goderci una vista veramente notevole: mi pare di ricordare che, nelle giornate perfettamente limpide, da quassù si riesca perfino a vedere lo stretto della Manica. Purtroppo oggi non è esattamente una giornata che si possa definire limpida, per cui dobbiamo “accontentarci” della vista della sola città di Parigi, con i suoi pezzi forti perfettamente riconoscibili anche a grande distanza. Perfettamente visibile il Sacro Cuore, sulla sua rocca in lontananza, in mezzo al leggendario quartiere di Montmartre. Spiccano anche i molti ornamenti d’oro sulle cupole delle chiese o in cima ai pilastri situati ai lati dei numerosi ponti sulla Senna, che non sono mai allineati bensì divergono tra loro in forme curiose. Appaiono un po’ fuori posto i Bois de Boulogne e de Vincennes, con tutti questi alberi in mezzo alla città come un’isola verde felice, attorniata da costruzioni e grattacieli da ogni lato, ma almeno fungono un po’ da polmone verde della città, mangiando una buona quantità di anidride carbonica che sicuramente abbonda in qualsiasi città, anche la più pulita. Stranamente, pur trovandoci a più di trecento metri di altezza, non c’è un alito di vento: ricordo che quando mi trovai qui per la prima volta c’era così tanto vento da rendere impossibile la permanenza nella metà ventosa della piattaforma, mentre ora c’è gente su tutti i lati e la calca è così intensa da rendere appena possibile uno scatto fotografico, prima di doversi ritirare nelle retrovie. Va da sé che in queste condizioni di esplosione demografica la stanchezza presto ci prende e decidiamo dunque di rientrare, per risparmiare un po’ di forze da utilizzare domani: Parigi è grande, ed oltre a valer bene una messa, vale bene anche una visita in condizioni fisiche decenti… Musee du Louvre Il museo del Louvre è indiscutibilmente uno dei pezzi più forti di Parigi, ma difficilmente si riesce ad apprezzarlo appieno: è talmente vasto e ricco di opere che è facile perdersi, o disperdere l’attenzione trasformando la visita al museo in una confusa serie di immagini che non riescono ad essere tutte immagazzinate nella memoria a lungo termine. Peggio ancora, può capitare di non riuscire a trovare le opere più famose ed uscire dal museo scornati e delusi. Per fortuna non è il nostro caso: oltre ad 7 un’entrata gratis garantita dal fatto che oggi è la prima domenica del mese, sappiamo anche dove trovare le opere maggiormente degne di considerazione, in quanto queste cruciali informazioni sono scritte nella nostra inseparabile guida Lonely Planet, vera manna dal cielo per i viaggiatori indipendenti (anche se qualche volta sbaglia, e non di poco). La caratteristica piramide di vetro del Louvre, che continua anche nel sottosuolo formando un rombo, ci accoglie per l’ingresso, nemmeno troppo affollato di turisti. Strano ma vero, la densità umana oggi è relativamente molto bassa. Fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere i capolavori ospitati da questo impressionante ammasso di arte situato sulla riva della Senna, e che è il secondo museo più visitato del mondo, dopo il National Air and Space Museum di Washington. Già la prima opera che torreggia in cima alle scale d’ingresso, la Nike di Samotracia, non può non suscitare qualche genere di emozione anche in chi, come me, non vive di pane ed opere d’arte. Raffigura la dea alata Nike, personificazione della vittoria, mentre si posa sulla prua di una nave con il vento che la sferza, incollandole i vestiti addosso. Ha perso testa e braccia, ma non lo slancio e la forma maestosa e ispiratrice di forza, che ben si sposano con la posizione in cui è stata messa, in cima a questa lunga scala dalla quale non si può far altro che guardare l’opera dal basso verso l’alto come a simboleggiare una sottomissione di chi l’ammira. Un’altra statua senza braccia che è conosciuta praticamente da chiunque è la marmorea Venere di Milo, magistralmente ricostruita nel diciannovesimo secolo dopo essere stata ritrovata spezzata in due tronconi. Le braccia, invece, non sono mai state ritrovate, ma ciò non toglie alla statua la sua bellezza. La grande mole di visitatori rende difficile apprezzare appieno tutte le fattezze della statua, costretti come siamo a camminare praticamente sempre per non venire travolti da orde di turisti giapponesi che stanno fotografando praticamente ogni opera da ogni angolazione possibile ed immaginabile. A volte sono davvero irritanti, regolano la macchina fotografica per minuti e minuti pensando forse di essere dei fotoreporter professionisti e di dover scattare foto assolutamente perfette, pena la morte, ma ciò non fa che congestionare la già gremita sala! Imprecando a denti stretti, riusciamo finalmente a liberarci dell’orda di fotografi incalliti prede della sindrome di Stendhal e a proseguire verso la galleria dei dipinti. Ci interessa logicamente trovare per prima cosa la Gioconda di Leonardo da Vinci, famosa in tutto il mondo oltre che per la sua bellezza e maestria anche per le numerose vicende che l’hanno vista protagonista, da quando nei primi anni del sedicesimo secolo fu dipinta a Firenze fino ad oggi. Nei primi anni del Novecento il quadro è stato infatti vittima di un furto da parte del custode dello stesso museo: egli riuscì incredibilmente ad uscire dal museo nascondendo semplicemente il quadro sotto la giacca, convinto com’era che un quadro dipinto da un genio italiano non dovesse essere di proprietà francese, nonostante lo stesso artista abbia trascorso gloriosamente in Francia gli ultimi anni della sua vita ed abbia perfino portato la Gioconda stessa in Francia di sua spontanea volontà, vendendola poi al re. Curiosamente, mentre la gendarmeria francese non sapeva che pesci pigliare, tra il mirino degli indagati finì anche il celebre pittore Pablo Picasso, ovviamente dichiarato poi innocente. Non sono mancati altri fantasiosi attentati: spruzzo d’acido che danneggiò piuttosto gravemente la parte inferiore, lancio di pietre, improperi da parte di squilibrati che passavano le giornate a inveire contro Monna Lisa. A ragione, il quadro è ora protetto da un vetro blindato spesso ben venti centimetri, il che si spera dovrebbe garantirgli protezione contro qualunque tentativo di rovinarlo. Quando un quadro attira così tanti squilibrati, è necessario mettere in atto contromisure pesanti! Nonostante la sua fama planetaria, trovare la Gioconda all’interno del Louvre non è affatto facile: si trova seminascosta in un anfratto di un lunghissimo corridoio, tanto che riusciamo a perderci più volte nel tentativo di rintracciarla, nonostante abbiamo seguito pedissequamente tutte le indicazioni che conducono ai capolavori italiani, che recano la foto della Gioconda stessa come immagine dimostrativa. Forse i proprietari del museo hanno fatto apposta a posizionarla in un luogo appartato per evitare che si formi troppo intasamento di visitatori? Nonostante tutto riusciamo infine a trovarla, e la prima cosa che ci colpisce l’attenzione, oltre al nugolo di giapponesi in piena estasi fotografica davanti al dipinto, sono le dimensioni del dipinto stesso: la verità è che la Gioconda è piccola, molto più piccola di come la si immagina vedendola nelle rappresentazioni! Il suo enigmatico sorriso è stato 8 interpretato in vari modi, dal più semplice ed innocente fino al più malizioso, passando per teorie abbastanza strampalate come quelle freudiane, secondo le quali il quadro simboleggerebbe la segreta attrazione sessuale di Leonardo verso la madre. Vero che gli artisti sono un po’ strambi, ma credo che in questo caso il noto psicanalista cocainomane abbia un po’ esagerato con le sue ipotesi… Di dipinti ce ne sono così tanti lungo le gallerie che è impossibile ricordarseli tutti, ma alcuni mi rimangono particolarmente impressi nella memoria. Un esempio è il Ratto delle Sabine, un’enorme tela raffigurante una scena di battaglia tra i Sabini e i Romani, i quali si erano presi le loro donne con la forza. Una Sabina vestita di bianco tenta di fermare due soldati armati di lancia che stanno per darsele di santa ragione. L’idea di dinamismo e di concitazione che trasmette il quadro è davvero notevole, e mi soffermo ad osservarlo molto più a lungo degli altri. A volte ci vorrebbe effettivamente l’intervento di qualche donna, ad esempio le mogli dei grandi statisti bombaroli, che potrebbero “distrarre” di più i loro mariti ed in questo modo evitare tanti morti ammazzati in giro per il mondo, magari! Amore e Psiche di Canova è un altro capolavoro conosciuto in tutto il mondo, con il suo marmo bianco lucido, le seducenti forme del dio alato Amore e della giovane Psiche, rianimata dal suo bacio sfuggente, appena accennato nel dolce attimo raffigurato dalla statua. Lo Schiavo Morente di Michelangelo, nell’attimo prima di cadere a terra stremato, è un altro masterpiece della scultura, espressivo e dalle forme perfette, aperto a molte interpretazioni sul significato di quella “caduta” appena accennata. Cambiando zona geografica di provenienza, altri capolavori sono presto serviti: un grosso monolito nero di diorite con incisi dei fittissimi caratteri cuneiformi non è altro che lo storico Codice di Hammurabi, forse la più antica legge partorita dall’uomo, piuttosto brutale con la sua legge del taglione ma indubbiamente di grandissimo valore per la progressione della civiltà dagli albori fino ad oggi. Difficile non provare un senso di meraviglia di fronte a questi caratteri così diversi da quelli che usiamo noi oggi, sapendo che già millenni prima dell’anno zero questi simboli significavano qualcosa di ben preciso e di enormemente importante. Anche le sculture assire a cinque gambe che si trovano a breve distanza sono degne di una menzione, ricordano vagamente le sfingi egizie, mentre l’inconfondibile arte egiziana ci appare davanti agli occhi con tutte le raffigurazioni di profilo che vediamo sui bassorilievi, con i sarcofagi e con i numerosi canopi utilizzati per conservare le viscere dei faraoni dopo la morte. Ognuno è dedicato ad un organo diverso: cuore, fegato, cervello…Il culto della morte egizio può apparire insensato oggi, considerando in cosa consisteva: migliaia e migliaia di uomini compivano fatiche immani per ammassare pietre, ricchezze, onori e gloria per un morto…ma che dire delle meraviglie che ci hanno lasciato? Nel Louvre non si trovano però solo dipinti e sculture aggraziati e celestiali: stanno anche esposti quadri piuttosto macabri, come una mucca sventrata ed appesa al soffitto, senza più pelle. Anche questa è arte…e con questa abbiamo già terminato il museo, ad una velocità che ora definirei impressionante, non me ne sono nemmeno accorto! Notre Dame de Paris Piuttosto provati dall’impegnativa visita del gigantesco museo, che abbiamo girato in lungo e in largo, non passa tuttavia molto tempo prima che la voglia di esplorare ci prenda di nuovo e ci porti verso l’Ile de la Citè, dove si trovano altri due capolavori di architettura sacra, che ricordo abbastanza bene dal mio ultimo viaggio ma che ora posso anche immortalare. Con una veloce corsa in metropolitana raggiungiamo la prima delle due mete, la famosa anzi celeberrima cattedrale di Notre Dame: oltre alla maestosità della chiesa, l’emozione è aumentata dal fatto di trovarsi nel luogo dove è stato ambientato il celebre romanzo di Victor Hugo, che abbiamo letto entrambi e sulle cui pagine abbiamo passato molte ore appassionate, in attesa di scoprire quali sarebbero state le drammatiche vicende del deforme campanaro Quasimodo e dell’enigmatica zingara Esmeralda. Possiamo vedere ora chiaramente le imponenti colonne, le numerose statue decorative, il rosone di vetro colorato che tanto 9 delizia lo sguardo con le sue mille sfumature. Un possente concerto d’organo accompagna la nostra visita, infiammando i nostri timpani con enormi note vibrate che fanno tremare l’intera cattedrale. Dopo un’ora e mezza di coda sferzati da un vento insistente, più un’interminabile serie di gradini di una strettissima scala a chiocciola, riusciamo perfino a salire sulle torri campanarie anteriori: qui si trova la Grande Maria, la campana preferita di Quasimodo, e i suoi amici gargoyle di pietra, che scrutano l’orizzonte parigino con aria pensosa, a volte arcigna, a volte apparentemente stupita. Alcuni gargoyle hanno il collo particolarmente lungo e si sporgono curiosamente dal bordo: se non fossero saldati alla dura roccia, cadrebbero come pere mature. Da dove ci troviamo ora Quasimodo scagliava ogni genere di macigno contro il popolo della Corte dei Miracoli che assediava la cattedrale, convinto che la loro Esmeralda fosse stata sequestrata e tenuta prigioniera a Notre Dame. E sempre da questo punto godeva di una vista fenomenale sulla città, in perfetta solitudine, disponendo di un unico amico, l’ambiguo arcidiacono Frollo. Chissà se qualcuno, un giorno, impugnerà questo diario e dirà, al cospetto della cattedrale: “Questo ucciderà quello!”, come recita l’intenso passo del libro… Non rimaniamo molto sulla cima: manca ancora un piccolo gioiello da assaporare ed il tempo inizia a stringere… Sainte Chapelle Questo piccolo capolavoro di architettura gotica è quanto di più emozionante si possa trovare in questa città, a mio parere. Risalente alla metà del tredicesimo secolo e fatta costruire da Luigi IX, originariamente doveva essere la cappella del Palazzo Reale, che però poi venne distrutto. Ora, la cappelletta è circondata dal Palazzo di giustizia, le cui entrate sono pesantemente sbarrate da cancelli con punte dorate ed aguzze. La parte inferiore possiede numerose volte ed un soffitto decorato con croci su sfondo blu che offrono un ottimo spettacolo per gli occhi, ma il meglio si ha nella cappella superiore, piccola e circondata da vetrate colorate su ogni lato. Vetrate altissime, variopinte, con la muratura che non è altro che una semplice struttura di sostegno. Mi ricorda molto la Cappella Sistina, che ha un’importante analogia con la Sainte Chapelle: entrambe raffigurano nelle loro vetrate l’intera Bibbia. Il gigantesco rosone sulla parete dell’entrata raffigura l’immenso caos dell’Apocalisse, e tutto l’insieme di questo magico luogo sarebbe di gran lunga più emozionante di quanto lo è già ora se non fosse costantemente pieno di persone, che vociano e ciarlano in ogni lingua immaginabile senza tacere un attimo. Mi chiedo come sarebbe questa cappella se non ci fosse nessuno e si potesse rimanere a meditarci in santa pace: probabilmente acquisterebbe un’atmosfera ed una bellezza incomparabili, stimolando pensieri cristallini. Ma non succederà mai: sono troppe le persone che vengono a vedere queste meravigliose vetrate, e noi siamo tra loro, senza avere né più né meno diritto di essere qui. Ma ciò non toglie che rimpiango decisamente di non poter stare qui dentro da solo, senza bisogno di niente se non di un paio di occhi e qualche raggio di sole che mi permettano di imprimere nella mente le immagini che mi giungono alla retina. Ancora con questa meraviglia di colori negli occhi, è tempo di tornare in ostello per rilassarci un po’, discutendo come al nostro solito degli argomenti più disparati, che questa sera toccano ciclismo, doping ed effetti della chimica sull’organismo. Non c’è una particolare logica con cui intavoliamo i discorsi, né alcuna correlazione con ciò che abbiamo visto durante la giornata, semplicemente arriva un argomento e se ne parla. Dobbiamo per forza parlare tra di noi, poiché la nostra camera è doppia e dunque abitata solo da noi. Ma con tutto il camminare che abbiamo fatto oggi, presto i discorsi finiscono per lasciare spazio ad un buon sonno. Parigi Consumata velocemente la poco appetibile colazione offerta gratuitamente dall’ostello, oggi abbiamo nuovamente intenzione di sfiancarci, poiché ci sembra di aver dormito molto meglio stanotte rispetto alle precedenti, e che sia un peccato lasciare qualche briciolo di energie non speso. Senza perdere 10 tempo allora ci tuffiamo nell’intricata linea della metropolitana, con le sue numerosissime stazioni percorse da corridoi interminabili lungo i quali non manca mai qualche barbone che chiede l’elemosina. Riemergiamo nei dintorni del Pantheon, nel centro del Quartiere Latino, ricco di scuole ed università e così chiamato poiché il latino era la lingua con la quale professori e studenti comunicavano prima della Rivoluzione. Accanto al Pantheon si trova la biblioteca, sulle cui pareti sono ancora una volta incisi numerosi nomi di personaggi illustri della letteratura, le cui opere sono conservate all’interno della biblioteca stessa. Il Pantheon è ancora chiuso ai visitatori, così passiamo una mezz'oretta seduti sul marciapiede ad osservare l’interminabile processione di stracarichi autobus turistici che fanno il giro attorno all’edificio, con gli occupanti che hanno giusto il tempo di scattare una fugace fotografia, sicuramente distorta dal movimento e dai riflessi dei vetri. L’interno del Pantheon è ampio e spazioso, discretamente decorato da statue ed affreschi. Al centro penzola un pendolo di Foucault, con la sfera dorata che oscilla avanti ed indietro appesa ad un filo lungo quasi settanta metri, il quale si allaccia alla sommità della cupola. Esso è una delle più spettacolari ed evidenti prove della rotazione terrestre attorno al proprio asse, basata sul principio della forza di Coriolis: quella che, in parole povere, fa sì che nell’emisfero boreale l’acqua del lavandino turbini in senso antiorario, mentre in quello australe in senso orario. In realtà la storia dei lavandini non è proprio esatta, poiché la forza che dovrebbe produrre questo effetto è così debole da non poter essere osservata così macroscopicamente, ma l’esempio rende bene l’idea! Noi ora vediamo il pendolo oscillare in una direzione, ma con il passare delle ore essa cambierà più volte senza che nessuno lo tocchi o faccia nulla. Il pendolo prosegue il suo moto incessantemente, indifferente all’attrito dell’aria grazie alla presenza di un elettromagnete che mantiene il sistema in movimento, altrimenti dopo poche ore tutto si fermerebbe. Potrei rimanere a fissare l’ipnotico movimento per chissà quanto! Essendo il Pantheon un edificio laico adibito alla conservazione delle salme dei più importanti personaggi storici francesi, presto scendiamo nella gelida cripta per cercare i luoghi dove riposano gli illuministi Voltaire e Rousseau, gli scienziati Carnot e Marie Curie, gli scrittori Hugo e Dumas, e tantissime altre personalità di spicco che abbiamo sentito nominare e celebrare mille volte, di cui abbiamo letto i libri e le citazioni, ma che non avevamo idea riposassero proprio qui. Le loro tombe sono bianchissime, chiuse in piccole nicchie inaccessibili al pubblico, talvolta sormontate da statue che li raffigurano. Sono morti da tempo, ma fortunatamente le loro idee, scoperte o scritture sono immortali… A poca distanza dal Pantheon si trovano gli splendidi Giardini del Lussemburgo, che circondano il Senato francese. Un luogo ideale per una mezz’ora di relax assoluto: cielo terso, molti alberi a fare ombra, specchi d’acqua e fontane, obelischi, fiori variopinti sono un ottimo cocktail per riprendere un po’ di forze e mettere qualcosa nello stomaco, rigorosamente cibo comprato al supermercato dell’angolo per risparmiare il più possibile. Il budget di due ragazzi di ventun anni non è così elevato da potersi permettere di mangiare e dormire bene quando si è in viaggio, ma chi se ne importa? Abbiamo tutto il resto dell’anno per darci alle facili comodità. Il resto della mattinata passa velocemente con una visita all’importante centro culturale Pompidou, il quale ospita un importante museo ricco di opere d’arte di varia natura ed epoca storica. L’edificio è un grosso rettangolo munito di numerose appendici esterne sulle quali scorrono delle scale mobili, che gli conferiscono un aspetto molto moderno. All’interno troviamo belle opere di Matisse, Picasso ed altri grandi della pittura, accanto ad altro materiale di provenienza e gusto più dubbio: l’arte moderno – contemporanea mi pare sempre perlomeno discutibile, me ne accorgo già dal primo quadro: un apparentemente ameno paesaggio di foreste lussureggianti, peccato che in primo piano vi sia un uomo sventrato, con ancora indosso i pantaloni ma privo della parte superiore, della quale è rimasta solo la colonna vertebrale ancora intera. Disgustoso! Che senso ha? Tra ammassi di ferrivecchi arrugginiti, inquietanti video psichedelici e tele riempite con un solo colore e poi bucate, giusto 11 un’occhiata veloce e poi via. I nostri stomaci reclamano qualcosa che li riempia, così facciamo una veloce puntatina all’alimentari fortunatamente posto proprio davanti al grosso complesso, e la scelta cade su degli ottimi tramezzini già ripieni di ogni ben di Dio. Evitando accuratamente di rispondere ai soliti “Do you speak english?” mentre siamo comodamente seduti sul selciato, finiamo in fretta di mangiare e prendiamo la direzione per il pittoresco quartiere di Montmartre. La cosa che immediatamente ci colpisce è l’incredibile quantità di stranieri che vi alloggia: non appena riemersi dalle profondità della metropolitana veniamo letteralmente circondati da magrebini, camerunensi, senegalesi, arabi, che tentano insistentemente di venderci sigarette declamando anche in un italiano stentato “Sigureta!”. Se una volta questo era il quartiere dei poeti e degli artisti di strada, che alloggiavano qui perché costava molto meno rispetto agli altri rioni parigini, ora è il quartiere multietnico (e devo dire anche piuttosto degradato). Rispetto ai quartieri parigini più turistici e blasonati, il cambio di atmosfera è piuttosto shockante: non riusciamo più a trovare nemmeno un francese, anche se tuttavia non ne sentiamo poi così tanto la mancanza. Anche se la zona appare comunque sicura, ci sentiamo un po’ come due pesci fuor d’acqua, e solo con fatica riusciamo ad emergere dalla travolgente calca per approdare finalmente alla scalinata che conduce alla chiesa del Sacro Cuore. Ancora scale, ci sono sempre scale da fare in questa città, incessantemente…bisogna salire per fare qualsiasi cosa. Il fatto che Montmartre sia il punto più alto di Parigi non aiuta, ma con un po’ di fatica possiamo raggiungere questa sontuosa chiesa dalle pompose forme barocche che internamente vanta la presenza di un mosaico tra i più grandi del mondo, il quale riveste la cupola. Ci risulta piuttosto difficile immortalare il luogo, poiché un attentissimo e particolarmente pignolo custode sta controllando chiunque porti una macchina fotografica od una videocamera al collo, intimandogli perentoriamente di metterla via. E quei pochi che riescono a sfuggire al controllo, se solo vengono beccati a fare delle foto o delle riprese (e generalmente nessuno sfugge), sono subito raggiunti dall’inflessibile controllore e redarguiti. Anche noi subiamo lo stesso trattamento, ma non prima di essere riusciti a fare furtivamente qualche secondo di video ed una foto, scattata praticamente alla cieca ma venuta quasi perfetta! Così l’abbiamo fatta franca. Esaurita anche questa pressochè obbligata tappa, ritorniamo indietro passando per un viottolo veramente pittoresco: con lo sfondo dominato dalla cupola del Sacre Coeur, tanti venditori hanno esposto fuori dalla loro bottega dei quadri artigianali di gusto impressionista, raffiguranti Parigi in ogni modo e forma, mentre dei suonatori ambulanti di fisarmonica allietano l’atmosfera e si guadagnano da vivere con l’elemosina dei molti turisti che passano di lì. Involontariamente fracasso con i piedi una vaschetta di plastica che una statua vivente usa come portasoldi…mi scuso in qualche modo e cerchiamo di allontanarci il prima possibile, forse una precauzione di troppo dato che l’immobile individuo, logicamente, non ha fatto una piega…il suo lavoro è stare fermo. Visitando en passant l’intricato cimitero di Montmartre e l’intramontabile Moulin Rouge, culla del cabaret, la giornata è ancora una volta finita, straordinariamente breve ed effimera come qualsiasi giornata che si abbia trascorso piacevolmente. La serata trascorre tranquilla giocando a carte, e ci permettiamo perfino il lusso di dimenticare la chiave magnetica in camera e poi chiudere la porta dall’esterno. Fortunatamente il gestore si fida della nostra buona fede e ci concede di usare il suo passepartout, in totale autonomia e senza controllo, per poter recuperare la nostra chiave. E dire che con quella banda magnetica universale avremmo potuto aprire qualsiasi porta di qualsiasi camera dell’ostello! Hanno avuto un bel coraggio gli ostellanti a fidarsi di due occupanti qualunque, che potrebbero avere anche brutte intenzioni… Impressioni L’indomani, ancora abbastanza freschi ma già accusanti qualche calo di energie, prendiamo la via per il Musee d’Orsay, ricavato da una vecchia stazione ferroviaria. Vi sono conservati tantissimi quadri dell’epoca impressionista e post-impressionista, forse l’unica corrente pittorica che mi abbia mai veramente appassionato. Mi ricordo di un quadro che dipinsi quando ero alle medie, con tratti di 12 pennellata incerti e grezzi, ma il risultato fu ampiamente soddisfacente per le mie attitudini artistiche, notoriamente piuttosto scarse. Raffigurava delle barche su uno specchio d’acqua, con delle persone ad osservare l’acqua appena dietro, ma non ricordo altro. L’unico particolare è che le prue delle barche “guardavano” verso il basso del quadro, e che le increspature dell’acqua erano particolarmente visibili e marcate. Questo dipinto è opera di un famoso pittore impressionista, ma ora ho stampata in testa solo una vaga immagine di esso, non mi ricordo né l’autore né tantomeno il titolo. Ciò mi dà una spinta ulteriore per osservare avidamente queste tele, sperando di trovare la “mia”, però senza successo: non c’è da nessuna parte, ci sono solo quadri molto simili, a volte così simili da farmi quasi dubitare, ma alla fine mi devo rassegnare. Nonostante tutto, la vista dei capolavori impressionisti è una goduria: mi affascinano quei tratti veloci, appena accennati, che devono colpire l’osservatore nell’insieme tralasciando la cura dei dettagli, a partire dai quali non sarebbe possibile distinguere alcunché del quadro. Bisogna osservare l’immagine nel complesso e lasciarsi trasportare dall’impressione fugace che il pittore coglie in quel momento, unica ed irripetibile. Forse è proprio questo che mi attira dello stile impressionista: la capacità di fissare i ricordi in un istante, di non lasciarsi sfuggire di mano il tempo, che è una brutta, bruttissima sensazione. Per immortalare il più possibile la cattedrale di Rouen, Monet scelse di dipingerla in ben cinquanta quadri diversi, tutti raffiguranti la stessa identica facciata, ma in condizioni di luce e colore differenti: è impossibile fissare tutti gli effimeri istanti che trascorrono in una vita, ma lui almeno ci ha provato, “cogliendo l’attimo”. Man mano che mi appaiono davanti scene rurali ed ameni paesaggi, mi vengono in mente tante cose che un tempo esistevano ed ora non esistono più, come una vecchia casa in un paesino di montagna, fiancheggiata da un’intricata siepe punteggiata qua e là da fiori gialli e viola. Di questa vecchia casa cadente, ma piena di ricordi e storia, ormai è rimasto appunto solo il ricordo. Un nuovo stabile l’ha sostituita, lindo, pulito e senza nemmeno una crepa nei muri. Non c’è più quell’instabile balcone su cui mi raccomandavano sempre di non provare a salire, o avrei rischiato di sfondarlo e precipitare di sotto. Non c’è più la polverosa soffitta, popolata stabilmente da ragni ed insetti in perenne conflitto tra loro, ma nella quale si potevano fare delle interessanti scoperte aprendo un vecchio baule e trovandoci dentro qualche antico libro d’avventure, oppure qualche giocattolo impolverato e consumato dall’energia selvaggia con cui è stato maneggiato. Non c’è più la piccola stradina ghiaiosa, che con qualche piccolo sforzo percorrevo per arrivare fino alla porta d’ingresso e da lì entrare nell’ampia cucina, dove dei mobili verniciati di verde acqua facevano da trono ad un bellissimo vaso di fiori appena colti dal vicino campo. Tutto ciò si sarebbe potuto imprimere su di una tela, per cogliere non solo l’anonima disposizione di pietre ed oggetti, ma anche il riflesso della luce e dell’ombra su di loro in quella particolare mattina di gennaio, o quell’acqua che li sferzava in quel pomeriggio d’estate. Invece ora tutto è perso, relegato a qualche instabile immagine mentale che col tempo verrà modificata e, forse, cancellata. Nulla rimane intatto nella memoria, ma si trasforma continuamente, così come il tempo trasforma continuamente tutto ciò che incontra sulla sua strada. Non lasciarsi sfuggire nemmeno un istante di vita, fissando nella memoria gli istanti più intensi, tentando di sottrarli il più possibile al distruttivo ed inesorabile incedere del tempo. Questo è il segreto che questi grandi artisti del passato volevano comunicare con le loro tele! Abituato come sono a conservare gelosamente ogni più piccolo pezzettino del passato, non posso certo rimanere indifferente alle sensazioni che procurano questi sapienti schizzi di olio e acquerello. Resi ormai quasi nevrastenici dal caldo cittadino, facciamo una veloce puntatina all’Hotel des Invalides, dove è custodita la tomba di niente meno che Napoleone Bonaparte, il sanguinario condottiero colpevole di averci provato una volta di troppo quando ormai era già quasi tutto suo. La forma di questa cassa di legno lucente è indefinibile, sembra quasi un pasticcino, ma sono ben accette altre interpretazioni. Curioso è sapere che la salma del celeberrimo condottiero riposa qui, ma una sua piccola parte sta invece a New York, acquistata da qualche macabro collezionista, e lascio immaginare quale possa essere questa fantomatica parte… Siamo piuttosto stanchi ed affamati, da cui prima di uscire nuovamente ci concediamo una lunga pausa in ostello. Mentre stiamo mangiando tranquillamente sui tavoli per la colazione, si avvicina a noi 13 una delle receptionist dell’ostello, una ragazza più o meno della nostra età, che ci ha riconosciuto come suoi connazionali! Finalmente troviamo qualcuno con cui parlare. Ciò che apprendiamo di lei è che è originaria di Milano ma ora vive a Parigi all’incirca da dieci mesi, e si nota da come parla il francese con i clienti, in maniera sciolta e senza tentennamenti. Solo la pratica costante può dare questi risultati, per quanto si possa studiare a fondo la teoria. Penso che il lavoro di ostellante non sia niente male: si imparano lingue diverse, si vedono tante persone provenienti da tutto il mondo, si possono ampliare gli orizzonti scambiandosi opinioni tra culture diverse…ma forse non è sempre così: come succede per ogni attività interessante che si trasforma poi in un lavoro vero e proprio, anche questo ideale probabilmente non corrisponde alla realtà, e può darsi che il suddetto lavoro sia pesante ed inaspettatamente routinario. In fondo, si tratta sempre di spiegare le stesse cose a centinaia di sconosciuti che mai più rivedrai, dando e riprendendosi indietro le chiavi…ma vista la passione che ho sempre avuto per le lingue straniere e per i viaggi in generale, a volte quasi mi chiedo perché ho scelto di studiare da infermiere! Purtroppo possiamo chiacchierare poco dato che proprio adesso continuano ad arrivare clienti…per mezz’ora non è arrivato nessuno, e adesso che stiamo parlando con una ragazza arrivano tutti assieme! Assolutamente ingiusto! Pazienza, ci consoleremo con una lunga passeggiata sugli Champs Elysees, ora che ci siamo un po’ ripresi dal caldo. Si va dall’Arco di Trionfo alla Place de la Concorde, chiamata così perché fu teatro di un orrendo massacro e si tentò in seguito di renderla un posto meno macabro, dandole appunto il nome di Piazza della Concordia. Vedendola ora, luccicante e splendente, non si direbbe proprio che qualche secolo fa ci sia stata un’efferata strage! Tutto il viale ha quest’aspetto lucente e ricco: non mancano nemmeno le sorprese, come uno stand della Toyota con delle automobili messe in verticale sulle pareti, auto d’epoca in bella vista, un’impressionante motore a dieci cilindri, ed addirittura una vera Formula 1 nella quale ci si può sedere per provare una simulazione di guida! Ovviamente la macchina non si muove, la simulazione è solo su schermo. Voglio provare anch’io! Dopo un po’ di coda, nella quale osservo le prestazioni altrui e mi dico che io sarò sicuramente in grado di fare di meglio, tocca a me…soprascarpe per non insozzare l’abitacolo, qualche informazione sul forte rinculo del volante, e poi via…in due giri esco di pista almeno dieci volte. Tutto appare sempre così facile quando lo si vede fare dagli altri! Terminata la lunghissima scarpinata lungo l’affollato e suggestivo viale, non c’è da far altro che cercare un ristorante tipico francese dove mangiare questa sera. Sarebbe troppo vergognoso passare cinque giorni nella capitale e tirare avanti sempre a fast food e cibo scadente comprato al supermercato dell’angolo. Questa sera, costi quel che costi, vogliamo provare qualcosa di tipico! Purtroppo, come spesso succede, la guida non è molto aggiornata, e i ristoranti aprono e chiudono in continuazione o cambiano nome. Dobbiamo girare un bel po’ prima di trovare un locale soddisfacente, abbandonando la guida che ormai è piuttosto datata e per queste cose non è più affidabile. Ma infine arriviamo a scoprire un posticino carino, posto lungo un vicolo piuttosto buio ma tuttavia pieno di tavolini, adatti per le serate romantiche al chiaro di luna. Fa però un certo freddo e ce ne stiamo dentro, anche perché probabilmente i due posti che ci vengono riservati sono gli ultimi di tutto il locale, zeppo com’è. Sul tavolo c’è un antipasto di olive speziate, ed addirittura qualche gessetto per scrivere, che non si capisce bene a cosa serva. La giovane cameriera è gentile fin da subito con noi, addirittura parla inglese (miracolo!), ma la lista è scritta in francese, logicamente…per non stare mezz’ora a chiedere cos’è questo e cos’è quello, ordiniamo praticamente a caso, confidando nel buon suono delle parole che si spera si rifletterà anche nel gusto delle pietanze. Davide è più fortunato di me: io ricevo come antipasto una gelida brodaglia di pomodoro alle spezie, talmente fredda da farmi venire quasi i crampi allo stomaco, ed è tantissima! Gustosa certamente, ma non ce la faccio proprio a finirla. Rimedio con il secondo: Davide ha ordinato alcune specie di funghi poco identificabili serviti con carne, mentre a me arrivano delle sorte di canederli di pane con verdure e pasta, un blob indefinibile e talmente gommoso da far fatica a deglutirlo, ma tutto sommato niente male. Il problema è che ci vengono portate anche due enormi porzioni di patatine fritte, che non erano segnalate nel menu ed 14 evidentemente sono offerte indipendentemente da ciò che si ordina…basta, non se ne può più! Siamo venuti qui apposta per evitare di mangiarne ancora! Perlomeno spero siano incluse nel prezzo… Tutto questo cibo salato fa venire una sete ardente, ma non ho il coraggio di fermare le cameriere per chiedere dell’altra acqua, vedendo che sono talmente oberate di lavoro ed ordinazioni da non potersi fermare nemmeno un secondo. Mi ricordano molto le mie giornate in ospedale, nei turni in cui il diavolo ci mette la zampa e c’è veramente casino: noto la stessa frenesia, la stessa ansia di fare tutto quello che bisogna fare nel minor tempo possibile, gli stessi passi veloci e gli ancora più veloci monosillabi lanciati ai clienti che chiamano, come quando tre persone stanno male contemporaneamente e c’è sempre la vecchietta attaccata al campanello che deve andare al bagno ogni cinque minuti, e vorresti farla scomparire con un colpo di laser, ma non puoi e devi stare dietro a tutti… Per solidarietà con i miei “colleghi”, sto zitto e sopporto un po’ la sete, fino a quando proprio non si fa bruciante. Sono sicuro che hanno gradito il gesto, seppur inconsapevolmente. Arriva comunque il momento di pagare il conto, dopo esserci riempiti da scoppiare ed aver terminato con un ottimo sorbetto. Sono circa settanta euro totali. La nostra cameriera ci informa, guardandoci negli occhi con un’espressione molto intensa e quasi supplichevole, che la mancia non è inclusa. Purtroppo tutto ciò che abbiamo per dare una mancia sono pochi spiccioli. Quando la ragazza vede il magro bottino sembra proprio che rimanga delusa, fa un sorriso molto forzato e ci ringrazia altrettanto artificiosamente con un “Thank you”, chiaro segno che un francese s’è irritato…altrimenti avrebbe detto il classico “Merci”. Ma che ci possiamo fare? Sarà che non sta bene lasciare monetine infime come mancia, ma è pur sempre meglio di niente. Così si conclude la nostra permanenza a Parigi: la mattina successiva riusciamo a salutare en passant l’italiana receptionist prima di andarcene, e poi via verso la metrò e la stazione. Arrivederci e grazie, Ville de Lumière, anche questa volta non mi hai affatto deluso. Versailles Il nostro treno ferma a circa un chilometro e mezzo dalla Reggia, ed anche se la strada per raggiungerla è tutta in discesa ciò non è una grande consolazione, poiché al ritorno quel chilometro e mezzo dovremo per forza di cosa farcelo tutto in salita, appesantiti dagli zaini che siamo costretti a portarci dietro avendo ormai abbandonato un nido stabile. Logicamente la stazione è sprovvista di lockers, dato che quando servono non ci sono mai, e così prendiamo a camminare sperando che almeno alla biglietteria della Reggia abbiano un posto dove stipare i nostri mostri da spalla. Versailles non è di per sé una cittadina attraente: ha l’aria sporca, mal tenuta, le strade sono piene di barboni che chiedono l’elemosina tra odori nauseabondi, le costruzioni sono architettonicamente brutte. L’unica attrattiva è appunto la maestosa Reggia, simbolo della potenza del leggendario Re Sole Luigi XIV, il quale impiegò una quantità enorme di risorse e di fondi pubblici per costruirla e far vedere a tutto il mondo la sua potenza e nobiltà, in una rincorsa di potere e prestigio che oggi può sì apparire vanagloriosa, ma che ha comunque permesso che venisse costruita una vera meraviglia! Quando infine giungiamo davanti a questa immensa costruzione, la sorpresa è notevole: nonostante la Reggia non mi sia nuova, percepisco subito che è diversa dall’ultima volta che l’ho vista, è molto più affollata. L’ampio piazzale è infatti stracolmo di persone, disposte in una lunghissima e scoraggiante coda a tornante. Non ci sono indicazioni di sorta per capire da dove si possa entrare, così ci mettiamo anche noi in coda, sotto il sole, con gli zaini pesanti in spalla e senza bere. Inutile dire che dopo un’ora passata così, a togliersi ed a rimettersi lo zaino per non doverlo trascinare sempre ma nemmeno doverlo portare sempre in spalla, siamo già sfiniti e daremmo qualsiasi cosa pur di poter incenerire metà della folla e passare al primo posto della fila. Ad un certo punto una voce poliglotta, che ripete il messaggio in quattro lingue tra cui uno stentatissimo italiano, annuncia dall’altoparlante: “Si informa che i giovani sotto i ventisei anni possono entrare direttamente senza fare la coda”. Lì per lì pensiamo ad uno scherzo, o di non aver capito bene, ed in ogni caso non ci muoviamo dal nostro posto. Fosse 15 anche vero, ormai la coda è quasi finita e vogliamo almeno arrivare alla biglietteria per saperne di più! Dopo un altro quarto d’ora infernale finalmente la biglietteria è conquistata, ed una giapponese che ha il compito di smistare i turisti, e che tra l’altro è proprio quella che aveva parlato nell’altoparlante, ci spedisce immediatamente dall’altra parte della piazza. Abbiamo meno di ventisei anni e non dovevamo fare questa coda…c’è bisogno di commenti? Nel minuto di strada che ci separa dalla nostra vera entrata, che nel frattempo si è pure lei intasata di persone, Davide prende a bestemmiare ininterrottamente, probabilmente stabilendo un record mondiale. Insulta tutti i santi del cielo e tutto l’albero genealogico francese a partire da Carlo Magno, senza mai riprendere fiato, ma non mi sento di biasimarlo in quanto l’arrabbiatura è decisamente scusabile! Se solo questi geni avessero messo qualche indicazione chiara all’ingresso, invece di annunciare le cose all’altoparlante solo una volta ogni morte di papa…così basta che uno arriva un attimo dopo l’annuncio e per un sacco di tempo si sorbisce la coda per niente. E in ogni caso non è finita qui. Ci sono ancora i bagagli da depositare, non possiamo certo visitare la Reggia con gli zaini pesanti sempre addosso! Meravigliandoci di non trovare nessuno che lascia gli zaini oltre a noi, ci dirigiamo al piccolo bancone del deposito, che però è presidiato da una gentilissima signora francese che per metterci a suo agio continua a farci cenno di no ed a parlare esclusivamente francese con poche frasi bofonchiate. Non capiamo proprio cosa ci sia che non va, temiamo che i bagagli siano troppo grossi e che per questo non ce li vogliano accettare, ma dopo un minuto di tentati chiarimenti guardiamo alla nostra destra e tutt’a un tratto vediamo un’altra coda chilometrica, che si dipana parallelamente a noi…coda che dobbiamo farci interamente prima di poter lasciare gli zaini, poiché prima si passa dal metal detector! Pensavamo che non c’entrasse nulla con il deposito bagagli, ed invece il posto in cui stiamo tentando di sbolognarli altro non è che punto di ritiro bagagli per chi esce. E vai con un’altra mezz’ora di attesa estenuante. Quando finalmente con uno sforzo fantozziano riusciamo ad entrare, siamo già distrutti, sia dall’attesa che dal caldo e dalla quantità di gente attorno a noi, ma dobbiamo farci forza e cominciare a sgranare gli occhi, perché qui ce n’è di roba interessante da vedere! Le numerosissime stanze della sontuosa dimora sono sfarzose fino all’eccesso, con i letti a baldacchino, le statue placcate d’oro, intarsi, quadri, preziosi tappeti ed arazzi, mobilio antico … ce n’è davvero per tutti i gusti. La meravigliosa sala degli specchi è un po’ l’emblema dell’intera Reggia: i suoi lampadari di cristallo pendono sulle nostre teste da una discreta altezza, mentre il lunghissimo salone è per l’appunto tappezzato di specchi sulle pareti, formando alcune interessanti illusioni ottiche che si apprezzerebbero molto meglio se il suddetto salone non fosse quasi completamente pieno di persone, in particolare di giapponesi che ancora una volta stanno passando bellamente davanti all’obiettivo della videocamera di Davide proprio nell’istante in cui lui sta riprendendo. Inutile stare a descrivere stanza per stanza, è uno spettacolo che va visto dal vivo, possibilmente in un orario in cui non c’è nessuno, dato che l’ingorgo presente oltre una certa ora smorza almeno di metà la bellezza complessiva dell’opera. Mi ricordo bene quando, in occasione del mio precedente viaggio in Francia, sbagliammo a puntare la sveglia e ci alzammo con ben due ore di anticipo. Una volta svegli decidemmo di muoverci comunque, poiché sarebbe stato poco sensato riaddormentarsi e poi risvegliarsi di nuovo…così facendo ci godemmo una splendida visita, con la Reggia praticamente vuota. Quando poi ne uscimmo, dopo due ore, non dimenticherò mai la scena delle orde barbariche di turisti che si stavano velocemente avvicinando fino a riempire completamente il piazzale! Se fossimo arrivati all’ora che avevamo inizialmente stabilito ci saremmo trovati nel bel mezzo di una calca insopportabile. Purtroppo stavolta per esigenze di servizio non è stato possibile bissare l’impresa, ma la Reggia rimane comunque un pezzo molto grosso, affollata o meno! Anche i giardini della reggia, curatissimi ed estesi per centinaia e centinaia di metri fino quasi all’orizzonte, sono ragguardevoli: peccato solo che la bianchissima ghiaia che copre il terreno rifletta il sole negli occhi con un’intensità abbacinante, da far fatica a tenere gli aperte le palpebre. Per me che ho gli occhi chiari il fastidio è doppio rispetto a chi come Davide ha la fortuna di avere le iridi scure, e la situazione mi irrita…mi manca giusto una congiuntivite per coronare al meglio questa fallimentare giornata, salvata solo in extremis dalla grandiosa Reggia! Meglio non trattenersi troppo e prendere subito il treno per Chartres… 16 L’angolo rosso Distrutti dal caldo e dal lungo tragitto in salita occorso per tornare alla stazione, ci lasciamo finalmente cadere svogliatamente su uno dei pochi posti disponibili del treno che porta a Chartres. Ci troviamo in corrispondenza delle porte, costretti ad utilizzare i sedili reclinabili causa mancanza di luoghi migliori. Lo spazio per le gambe e per gli zaini non è ottimale, ma in qualche modo ci sistemiamo ugualmente, soffrendo però un caldo senza precedenti. La poca acqua che ho bevuto durante il giorno contribuisce ad aumentare la sensazione di malessere, ho un po’ di nausea e sono in preda ad una sete che pare inestinguibile. Trangugio di malavoglia gli ultimi rimasugli di acqua clorosa che stagnano in fondo alla bottiglietta ormai da più di un giorno, ma non mi sono quasi di nessun aiuto per placare la sete. Il viaggio pare non terminare mai. Ogni volta che sentiamo il treno rallentare pigramente fino ad arrestarsi del tutto in una delle innumerevoli stazioni intermedie, l’impazienza ci prende e vorremmo solo che il treno ripartisse alla massima velocità, senza più fermarsi fino alla stazione di Chartres. Purtroppo le stazioni “disturbatrici” sono veramente tante, più di quindici per un tragitto relativamente così breve, e non possiamo farci niente. Nella noia e nell’afa trascorriamo ancora un’oretta, prima che io decida di recarmi al bagno, che si trova appena dietro il mio sedile. Non accorgendomi della banda rossa in corrispondenza della serratura, che segnala che il bagno è occupato, abbasso la maniglia con forza facendo un gran rumore, ma la porta logicamente non si apre. Immediatamente sento un incomprensibile grido provenire dall’interno del bagno, e prima che possa muovere un passo per tornare al mio posto la porta del bagno si apre e ne fuoriesce un tizio sui venticinque anni, dalla carnagione leggermente scura ed olivastra. Ha un che di straniero, forse ha origini nordafricane, ma è solo una vaga impressione data dalla sua carnagione non esattamente europea. Piantandomi addosso uno sguardo irato, comincia subito a tempestarmi di parole, ed ovviamente parla francese. Che vuole questo adesso? Evidentemente è irritatissimo per qualcosa che ho appena fatto, altrimenti non avrebbe mollato la sua “attività” nel bagno solo per venire a rompere le scatole a me. Non capisco nulla del suo discorso, mi sembra solo di intuire che accenni al fatto che potevo tirargli una mazzata in testa se lui non avesse chiuso la porta a chiave, date le minuscole dimensioni del gabinetto e la conformazione della porta, che si apre verso l’interno. In ogni caso queste sono solo mie supposizioni, poiché parla così velocemente da non lasciarmi modo di intendere nulla. L’unica cosa che capisco senza bisogno di traduzioni è che è incavolato nero con me. Quando finalmente finisce la sua arringa e si zittisce per vedere cosa gli rispondo, decido di dirgli la verità, cioè che non ho capito assolutamente nulla di ciò che ha detto. Glielo dico in italiano, e la sua reazione non è buona: prima ripete in modo stentato e canzonatorio ciò che gli ho detto (“Aha, no cabisco…”), e poi chiude il discorso con un “Ok…see you later”. Il suo tono è vagamente minaccioso, e non mi piace per niente l’occhiataccia che mi tira prima di richiudersi precipitosamente nel bagno. A parte aver tentato di aprire la porta con un po’ troppa foga, non riesco a trovare qualche cosa che possa averlo fatto arrabbiare, forse ce l’ha con gli italiani o più probabilmente è già incavolato per gli affari suoi e se l’è presa con me perché sono il primo che ha trovato sulla sua strada. Decido che è meglio non rimanere lì ad aspettarlo, e me ne torno a sedermi al mio posto. Poco dopo lo strano figuro esce dalla toilette, e Davide, che dalla posizione in cui si trova può vedere la carrozza che ho alle spalle, mi comunica che è andato subito a sedersi in fondo al vagone, piuttosto lontano da me. Fortunatamente dalla sua posizione il tizio non può vedermi, a meno che non si metta a cercarmi carrozza per carrozza. Non tento di tornare al bagno, per non rischiare che magari vedendomi tenti di “regolare i conti”, nonostante lui non sia un armadio ed io non sia da solo. Ma no, figuriamoci, sto sicuramente esagerando, non siamo mica nel Far West. Estremamente improbabile poi che voglia tentare qualche gesto sconsiderato su di un treno in movimento, dove può facilmente essere bloccato ed arrestato. Nonostante ciò preferisco rimanere fedele alla mia regola d’oro che applico in ogni circostanza della vita…evitare i guai il più possibile ovunque. Non ho idea di come sia da interpretare quella vaga promessa, potrebbe essere solo una frase lanciata nel vuoto da un qualunque idiota momentaneamente irritato, ma la violenza verbale con cui mi ha immediatamente aggredito non mi 17 ispira fiducia. Potrei anche aver incontrato un qualche genere di testa calda, magari spalleggiato da altre persone sul treno…non si sa mai con chi si ha a che fare, ed è bene tenerlo a mente sempre. La lieve tensione che mi è salita dopo lo spiacevole incontro non sta facendo altro che peggiorare le mie già precarie condizioni fisiche, inizio a sudare un po’ più abbondantemente di prima, ed ora come non mai non desidero altro che il treno si fermi a Chartres, e che possibilmente l’antipatico personaggio non scenda alla mia stessa fermata, così da non rivederlo mai più. Il caldo ora si è fatto veramente insopportabile, e per giunta abbiamo finito le scorte d’acqua. Mentre continuo a sudare, il dubbio personaggio si reca nuovamente alla toilette, sbattendo forte la porta. Evidentemente ha la dissenteria, o qualche altro problema magari mentale, ma è più probabile che sia la dissenteria la causa del suo nervosismo. Andrà al gabinetto ancora una volta, sempre sbattendo la porta e rimanendoci dentro minuti e minuti, prima che il treno si arresti finalmente alla stazione di Chartres. Non appena le porte si aprono scendo velocemente dalla carrozza, felice di essere finalmente smontato da quel treno che tra calore e incontri ravvicinati del terzo tipo mi stava veramente dando sui nervi. Chartres Già notevolmente rinfrescati dal solo contatto con l’aria esterna e rinvigoriti dalla sola consapevolezza di essere giunti a destinazione, ci sediamo su una delle poche panche libere della stazione per decidere quale sarà la nostra sistemazione. Sembra esserci un albergo negli immediati paraggi della stazione, la cui insegna è facilmente visibile già dall’atrio della stessa. L’unico ostello che Chartres sembra possedere è troppo lontano, meglio accontentarsi e pagare qualcosa di più, siamo troppo stanchi per contrattare sul prezzo e soprattutto per fare chilometri di strada a piedi. Mentre stiamo risistemando lo zaino sulle spalle per andarcene, con la stazione ormai quasi vuota, scorgo di nuovo il tizio di prima! È sceso con me, il fetente. Del resto, era molto probabile che sarebbe sceso al capolinea e non in uno di quegli sperduti paesini campagnoli che abbiamo attraversato. Mi passa vicino guardandomi per qualche secondo con la stessa aria insolente di prima, forse solo leggermente smorzata, ma quando si accorge che non sono solo sembra ripensare ai suoi propositi e si allontana per prendere un autobus, senza fare un commento. Non lo rivedrò mai più. Ma se fossi stato da solo magari sarebbe venuto da me a tentare il fantomatico regolamento di conti? Attraversiamo rapidamente la piazza giungendo all’entrata dell’albergo, dove un uomo di mezza età con i capelli raccolti in una coda e l’aspetto vagamente trascurato sta fumando tranquillamente una sigaretta. Evidentemente è il gestore dell’albergo, poiché nota subito la nostra indecisione di fronte al cartello con i prezzi e ci chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. Purtroppo il nostro inglese con lui è inservibile dato che non lo capisce né lo parla, ma dopo un po’ capiamo che ci sta offrendo una camera con letto matrimoniale ad un prezzo abbastanza onesto, mentre le camere doppie con letti separati costano molto di più. Davide tentenna un po’, osservando che l’albergo sembra piuttosto malridotto e fatiscente, ma dopo qualche mia insistenza si convince che è meglio buttarsi sull’opportunità ed anzi ringraziare che abbiamo già trovato un posto dove sistemarci. Finiamo quindi con l’accettare l’offerta. Entriamo per pagare e firmare le dovute carte, ma di tutte le spiegazioni cogliamo solo l’essenziale, che ci viene spiegato un po’ a gesti ed un po’ in francese ben scandito, il quale risulta comunque molto più comprensibile del francese biascicato a tutta velocità dall’iracondo occupante del gabinetto del treno. L’albergatore sale con noi fino alla camera per mostrarcela, e casualmente quando siamo ormai sulla porta dice una parola in spagnolo. Subito gli rispondo nella medesima lingua, e scopro così che l’uomo è di origini spagnole ed abbiamo finalmente trovato una lingua in cui possiamo comunicare! Aver studiato lo spagnolo per qualche mese da autodidatta mi è stato utile, anche se non mi sarei mai aspettato che lo spagnolo mi sarebbe servito durante un viaggio in Francia. Parlando in modo abbastanza fluido nonostante la scarsa pratica che ho accumulato in quei pochi mesi, intavolo una conversazione con lui riuscendo a capirlo ed a farmi capire perfettamente. Quasi mi rimprovera, bonariamente, per non averglielo detto prima! Già che ci sono, 18 approfitto per chiedergli se domani mattina avremo problemi nel caso in cui dovessimo ripartire molto presto. Ci risponde che non c’è nessun problema e possiamo uscire a qualunque ora, ed a questo proposito ci mostra perfino un curioso trucco per far scattare la serratura della porta di servizio anche dall’esterno, senza usare le chiavi, così da poter lasciare tranquillamente le chiavi alla reception e uscire anche se non ci fosse nessuno. Che albergo singolare, un po’ sgangherato ma simpatico! Peccato che ci siano anche i soliti inconvenienti tipici degli alberghi economici, come la vaporosa carta igienica rosa che lo sciacquone non riesce mai a far scendere nel sifone, per quanto ci sforziamo di tirare l’acqua… Ancora piacevolmente sorpresi dallo sviluppo della situazione, non ci sdraiamo nemmeno sullo spartano letto, quasi dimentichi di essere stati sul punto di crollare dalla stanchezza solo fino ad un minuto fa. Le forze sembrano ora esserci tornate quasi del tutto. Quella che era iniziata male e continuata peggio si è improvvisamente trasformata in un’ottima giornata, ed abbiamo voglia di partire immediatamente a visitare Chartres! La principale attrazione della città è la splendida cattedrale, di gusto variegato, con le sue guglie una di stile gotico e l’altra di stile romanico, curiosa particolarità di questo mostro architettonico duecentesco. Passando per una piazzetta dove numerose statue si parlano da un lato all’altro di un tavolo, assorte in chissà quale conversazione, ci appare improvvisamente davanti agli occhi l’enorme cattedrale, fino ad un momento prima celata alla nostra vista da alcuni alberi. Questo imponente e meraviglioso mucchio di pietra è crollato ed è stato ricostruito per ben quattro volte, prima di trasformarsi in ciò che vediamo ora e che fortunatamente resiste dall’anno 1260, quando furono terminati gli ultimi lavori di ricostruzione e la chiesa venne definitivamente consacrata. La cattedrale ha rischiato nuovamente di essere distrutta durante la Rivoluzione, quando si voleva eliminare l’immagine dell’opulento alto clero, ma si è salvata unicamente per la lentezza delle mostruose pratiche burocratiche che tanto piacciono ai francesi; le lungaggini furono tali che l’idea di distruggere la cattedrale venne dimenticata prima che i funzionari riuscissero a sbrogliare tutte le formalità necessarie. Sono perciò rimaste le preziosissime vetrate istoriate (considerate le più importanti di tutto il tredicesimo secolo), i possenti pilastri che sembrano in grado di reggere pesi immani, le stranissime statue che pullulano sulle pareti laterali esterne. Sul pavimento della navata centrale è disegnato un labirinto, simbolo del difficile cammino che l’uomo deve compiere per rimanere sulla retta via. Un’altra peculiarità di questo così poliedrico luogo sacro. Esternamente, la cattedrale inganna: sembra che tutto ciò che ci sia da vedere consista nella facciata anteriore, ma in realtà la costruzione è molto estesa, conseguenza del fatto delle numerose ricostruzioni: alcune parti sono sopravvissute e sono state usate come base per ricostruire il resto, da cui piano piano la cattedrale si è “allungata”. Nei dintorni della cattedrale si snoda un insieme di viuzze suggestive, che percorriamo senza troppa fretta poiché ha iniziato da poco a salirmi un leggero mal di stomaco, come una sensazione di costrizione che non passa. Forse sto abusando delle mie forze, e mi sono dimenticato troppo in fretta di quella strana sete incoercibile che sono riuscito a domare solo in apparenza. Ci districhiamo tra cespugli accuratamente potati per assumere forme geometriche precise, canali e ponticelli, fino ad arrivare in una pittoresca zona dove si staglia qualche casa con delle curiose travature scure in rilievo sul fondo bianco. Mi ricordano molto le case delle città nordiche. Percorrendo strade molto in salita e passando di fianco a numerosi parchi ed aiuole fiorite, il mio malessere aumenta ancora un po’, da cui ritorniamo in fretta all’albergo dopo una veloce puntatina in stazione per prenotare il biglietto dell’autobus per Tours, che contiamo di raggiungere domani. In albergo mi accorgo di essermi ammalato: anche quest’anno non ce l’ho fatta a fare il mio viaggio senza farmi almeno un giorno di febbre. Forse è stata la giornata veramente massacrante, combinata al caldo, o forse mi sarò preso il virus della febbre suina che tanto sta imperversando in questo periodo, specie in chi si avventura all’estero e va a contatto con molte persone. Scarto quest’ultima improbabile ipotesi, propendendo decisamente verso la prima, più banale ma indubbiamente esatta. La serata trascorre in modo incerto: prima tento di resistere bevendo molta acqua e tentando di non farmi vincere dal sonno, ma poi arrivano i brividi e il caldo, e mi rintano sotto le coperte muovendomi il meno possibile. Stranamente, 19 appena mi sono messo a letto fa capolino in camera il nostro albergatore, che apre la porta con il suo passepartout. Fatti pochi passi nella stanza si accorge che ci siamo noi e si blocca, con una certa sorpresa. Ci saluta e se ne va di nuovo, ma perché è entrato? Potrebbe essere solo un controllo di routine oppure un tentativo di furto? Chissà…dobbiamo ricordarci che stiamo in un albergo molto sgangherato e l’eventualità non è del tutto impossibile, anche se essere derubati dallo stesso albergatore è piuttosto improbabile. In ogni caso, non perdiamo troppo tempo a pensarci, anche perché ora sto piuttosto male. Salto anche la cena, che in questo momento non potrei assolutamente tenere nello stomaco, ancora oppresso da una fastidiosa sensazione di peso. Poco alla volta mi intontisco abbastanza da prendere finalmente sonno. Voce nel deserto La notte è destinata a non essere tranquilla: intorno alle tre veniamo svegliati da un simpatico ed ignoto personaggio che, nella piazza della stazione e proprio sotto la nostra finestra, sta gridando ai quattro venti ciò che gli passa per la testa. Ovviamente il delirante discorso è in francese, ma non occorre essere laureati in lingue per capire che quest’uomo è decisamente arrabbiato con qualcosa o qualcuno, e lo sta urlando a voce altissima, solo un po’ disturbata da un probabile eccesso di alcol o droga. Drizzando le orecchie riesco a distinguere qualche fonema, l’unica parola comprensibile che riesco a registrare è “racisme”, per il resto è una confusione di suoni e vocalizzi apparentemente senza senso. Ripete poi insistentemente parole che suonano “Scitoon!” e “Vessaver!”, e che sono il suo intercalare più frequente. Più avanti scopriremo, con l’aiuto di qualcuno competente in lingua francese, che questi distorti epiteti corrispondano probabilmente a “Sciè tout!”, che significa “andate tutti a…ehm” , e “Vers a ver!”, ovvero “Versa un bicchiere!”. Ma per adesso non sappiamo niente, tranne che vorremmo strozzare questo ubriacone che ci impedisce di dormire. Pur chiudendo ermeticamente tutte le finestre, continuiamo a sentirlo fin troppo bene. Solo dopo una buona mezz’ora di continue urla il buontempone viene finalmente raggiunto da altre persone, forse la polizia, che parlandogli e convincendolo (sento ripetere concitatamente: la veritè, la veritè!) riescono a farlo tacere ed a portarlo via da lì, anche se per qualche minuto ancora lo sentirò gridare in lontananza. Poi il silenzio. Forse l’alcol e la droga di cui è sicuramente imbottito hanno finalmente avuto il sopravvento e possiamo continuare a dormire, dato che tra meno di due ore dovremo alzarci per prendere il mattiniero autobus diretto a Tours. Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera Nonostante sia riuscito ad addormentarmi abbastanza in fretta, non ho riposato molto questa notte, grazie soprattutto al simpatico strillone notturno. Nonostante ciò la febbre sembra essermi passata, anche se noto subito che qualcosa nel mio fisico non gira per il verso giusto: in particolare, le pulsazioni cardiache si sono assestate su valori decisamente troppo alti, e non diminuiscono mai, indipendentemente dalla quantità di liquidi che bevo e da quanto mi muovo. Riconosco i sintomi di un probabile colpo di calore con carenza di liquidi e sali minerali, ma per adesso non ho tempo di curarmi, poiché tra venti minuti partirà l’autobus. Recuperate in fretta tutte le nostre cose scendiamo e troviamo, stranamente, l’albergatore che pare attenderci alla reception, nonostante siano solamente le sei e mezza. Lo salutiamo e ringraziamo per l’ultima volta, poi attraversiamo la piazza per prendere il bus, atteso forse da cinque o sei persone oltre a noi. Sistemiamo i grossi zaini nel vano bagagli e saliamo, mentre io sento già che di salute non sto ancora granchè bene, ma cerco di non pensarci. Non ho fatto uno straccio di colazione né voglio tentare di farla, lo stomaco mi si è chiuso in una morsa. Tento perciò di rilassarmi, durante il tragitto, ascoltando un po’ di sana musica e conciliandola alla perfezione con il paesaggio che per miglia e miglia mi si para davanti: pianure sterminate, illuminate dal primo sole del mattino che crea un’atmosfera veramente suggestiva. Come al solito, ad ogni nota corrisponde un’emozione, o almeno è così per i musicisti che sanno come comunicare qualcosa a chi li ascolta. In questo caso, mi rilasso ascoltando le melodie che un esordiente gruppo 20 russo suona accompagnato da un’eterea ed incantevole voce femminile. Poi passo ad un pezzo molto più lungo, che con la sua bellezza e la sua carica di potenti significati mi fa temporaneamente dimenticare tutti i miei malanni. Questo brano è molto lungo, dura quasi venticinque minuti, ma non mi annoia nemmeno per un secondo; specialmente dopo aver letto ed interiorizzato il testo, posso dire di aver trovato un capolavoro. Non citerò il titolo né l’autore, ma sono sicuro che gli amanti della musica ben suonata e vissuta lo sapranno riconoscere al volo. La prima delle sette parti totali, l’Alba Cremisi, è introdotta da un delicato ma potente arpeggio di chitarra che piano piano fa esplodere un pezzo ritmato e potente, totalmente strumentale, il quale ha lo scopo di introdurre nel migliore dei modi ad Innocenza, dove il protagonista declama con forza la sua nuova sensazione di purezza e libertà, che non sentiva più da molto tempo. Egli ricorda di quando vide, ancora con la mente vergine e sgombra da pregiudizi, una bellissima alba, e di come si immaginò cosa sarebbe potuto succedere di grandioso nella vita. Anch’io ho di queste sensazioni ora: il paesaggio che vedo dal finestrino mi ispira questo sentimento di scoperta e di riverenza verso le possibilità che la vita riserva. Ma subito il brano vira decisamente verso la depressione, come rapito da una dolorosa consapevolezza che matura d’improvviso: quei giorni sono rimasti solo un ricordo ora, e tutto è perduto. La paura invade il protagonista, ed egli sente che deve cogliere l’attimo fuggente, o dovrà fermarsi per sempre ad aspettare che maturi del grano che non è mai stato seminato. Carpe Diem, è per l’appunto il titolo della terza parte. La vita non sarà sempre così com’è ora, afferma con protervia il protagonista. E come dargli torto? Quando ripenso a ciò che in passato è stato fantastico ed ora è rimasto solo un ricordo, anch’io provo esattamente quello stato d’animo. Il viaggio che feci un anno fa è finito, in un attimo, anche se mi era parso essere così lungo. E quello che sto vivendo ora, quanto durerà? Finirà anche lui così presto, impietosamente? Il più Oscuro degli Inverni seguirà a questa estate? E tutto evolverà, come nel brano che ormai ha superato la metà, in un niente, un vuoto di perdita che nulla sembra riuscire a colmare? La disillusione prenderà il sopravvento, catapultandomi in un Altro Mondo fatto di nichilismo, sfiducia e sotterfugi? L’Inevitabile Estate aiuta a cancellare per un attimo questi pensieri, con i suoi virtuosismi che temporaneamente saturano i sensi. Ma l’epilogo del Tramonto Cremisi non lascia scampo: arrivato alla fine della vita, è tempo di tirare le somme e di scoprire se si è lasciato qualcosa di valido in questo mondo. Il crescendo finale, rabbioso ed appassionato, che termina nuovamente con l’arpeggio di chitarra iniziale, chiude definitivamente il cerchio e presenta il conto. Chi potrà dire, infine, di aver raggiunto il suo scopo? Prestigio In men che non si dica, dopo esserci fermati un paio di volte lungo la strada per far salire e scendere dei passeggeri e per cambiare autista, siamo già arrivati alla stazione centrale di Tours, e mi sento ora abbastanza bene. Tours è la base per visitare tutti i numerosi castelli della valle della Loira, tanto belli quanto a volte difficili da raggiungere per via degli scarsi collegamenti, ma ci siamo informati molto bene e contiamo di farcela. Scendiamo dal bus per recuperare i bagagli rimasti nel vano, ma qualcosa non quadra: Davide trova subito il suo zaino, ma il mio non c’è più. Guardo meglio, per accertarmi che magari non sia finito in qualche anfratto nascosto del vano bagagli dopo un movimento brusco dell’autobus. Niente. Istintivamente mi guardo attorno e giro attorno all’autobus per vedere se qualcuno per sbaglio non abbia preso il mio zaino, ma poiché siamo scesi per ultimi ormai se ne sono già andati tutti, e il vano è rimasto desolatamente vuoto. Mantengo la calma, anche se ho già capito cos’è successo e non inizio nemmeno a darmi false speranze. Faccio capire all’autista, un po’ in inglese e un po’ a gesti, che il mio bagaglio è scomparso. Lui capisce quasi subito qual è il problema, e in preda alla sorpresa ed allo sbigottimento più totale si mette anche lui a cercare ovunque, ma senza successo. Non essendoci più opzioni, non possiamo fare altro che seguire l’autista nel punto informazioni davanti al quale ci siamo fermati, per cercare di chiamare il responsabile della stazione. L’autista e l’impiegato comunicano tra di loro in francese, poi ci chiedono la nostra nazionalità, e infine ci lasciano lì ad aspettare per qualche minuto. Sono matematicamente sicuro che il bagaglio è stato 21 rubato, poiché se fosse stato semplicemente scambiato sarebbe rimasto almeno un altro bagaglio, al posto di quello erroneamente preso! Ma il vano è completamente vuoto, da cui comincio mentalmente a valutare la situazione che si è venuta a creare: nello zaino avevo le fotocopie dei documenti, i vestiti di ricambio, la mantella impermeabile, il sacco a pelo, un asciugamano, le medicine e il kit di pronto soccorso, un paio di pile ricaricabili, e cosa più importante ancora un po’ di soldi, nel secondo portafogli. Mai e poi mai lasciare i soldi nello zaino, per nessun motivo, ora l’ho imparato a mie spese! Nel frattempo che penso a tutte queste cose, consultandomi con Davide e cercando di capire come possa essere successo, arriva un responsabile della stazione. L’hanno scelto apposta per aiutarci a sbrogliare il caso, poiché come ci rivela è originario della zona del Garda e quindi parla un ottimo italiano, sebbene pesantemente contaminato dall’accento e dalle inflessioni tipiche francesi. Evidentemente vive e lavora in Francia da così tanti anni che ha assimilato totalmente la nuova fonetica. Gli descriviamo subito la situazione, le fermate che ha effettuato l’autobus, poi gli assicuriamo che nessuno sapeva dove questa mattina eravamo diretti e che non abbiamo fatto assolutamente niente di strano a parte caricare gli zaini sull’autobus e salire sul mezzo, per scenderne solamente a destinazione. Non abbiamo parlato con nessuno, e prima di partire non abbiamo certamente visitato bar od altri posti simili, dove potremmo essere stati silenziosamente adocchiati da qualche ladro di bagagli appostato presso la stazione. L’unica persona oltre a noi che conosceva la nostra destinazione era il bigliettaio della stazione di Chartres, ed è decisamente improbabile che sia coinvolto nella cosa. Ci vengono in mente tante ipotesi e tante conseguenti contraddizioni: se veramente qualcuno alla stazione di Chartres ci ha tenuti d’occhio, perché ha preso il mio zaino, molto più brutto e povero di quello di Davide? Siamo stati veramente puntati da un ladro che ha organizzato tutto fin dall’inizio, o si è trattata solo di semplice sfortuna? E chi avrebbe potuto rubare lo zaino, se non uno dei passeggeri che sono scesi nelle stazioni intermedie? Come avrà fatto a passare inosservato all’autista (anzi a due autisti, poiché in una delle fermate si sono scambiati)? E l’albergatore che questa mattina stranamente pareva aspettarci, potrebbe essere coinvolto anche lui? Ciò spiegherebbe quella strana levataccia che ha fatto, dato che sapeva che saremmo partiti presto. Sarebbe anche più chiaro il motivo della sua strana “irruzione” in camera la sera prima…Magari si è alzato presto apposta per poter mandare un complice sull’autobus, il quale ha rubato lo zaino in fretta e furia prima che partissimo e poi ha riportato indietro i soldi al suo mandante. Ma nessuno sapeva che tenevo anche dei soldi nello zaino! Al massimo potrebbe averlo immaginato. E come avrebbe fatto a passare inosservato? No, forse sto esagerando con le ipotesi complottistiche. È molto improbabile un coinvolgimento diretto dell’albergatore, ma nella concitazione del momento non ci sentiamo di trascurare nessuna possibilità, anche se le nostre congetture hanno ben poca utilità ormai. Quel che è stato è stato. La versione più probabile, sostenuta anche dal responsabile della stazione, è che qualcuno abbia approfittato di una delle soste intermedie e nella confusione generale abbia trovato qualche secondo per arraffare il bagaglio ed allontanarsi velocemente. Un lavoretto da professionista consumato, ma forse nemmeno tanto, ci potrebbe riuscire anche un pivello qualunque con una sufficiente dose di destrezza e fortuna. Certo, sarebbe stato sicuramente più prudente scendere ad ogni fermata per controllare che nessuno toccasse gli zaini, ma chi va a pensare che possa succedere una cosa del genere? Bisogna proprio girare con il costante timore di essere rapinati? A me non è passata nemmeno per la testa l’eventualità di un furto, e dire che di solito sono particolarmente attento a non farmi rubare niente e ad evitare individui poco raccomandabili sulla mia strada. Il colmo che sia successo proprio a me, che in metropolitana tengo tutto il tempo la mano sulla tasca del portafogli! Ma la ciliegina sulla torta deve ancora venire. Infatti la cosa più strana di tutte è che il responsabile ci assicura che è la prima volta in dieci anni che succede una cosa del genere, ed appunto per questo non sa bene nemmeno lui da dove cominciare per fare la denuncia, l’esposto o quel che è…proprio a me doveva capitare, se veramente in dieci anni non si è mai verificato un furto simile?? Il responsabile, al quale non abbiamo chiesto nemmeno il nome e un po’ la cosa mi dispiace, ci accompagna all’ufficio oggetti smarriti all’interno della stazione, facendoci da interprete. Devo riempire 22 qualche modulo e poi recarmi al commissariato, a circa mezzo chilometro di distanza, per denunciare il furto. Purtroppo non può accompagnarci personalmente, dato che ha altri impegni, ma il suo aiuto è stato comunque prezioso. Lo ringraziamo e cominciamo svogliatamente a camminare verso il commissariato. Ci mancava giusto il furto, adesso. Fortunatamente, per non so quale segno del destino, lo zainetto contenente tutti i documenti, la carta di credito, la macchina fotografica e il biglietto interrail è ancora con me, altrimenti la nostra vacanza sarebbe probabilmente finita all’istante. Forse è solo grazie a questo che ho mantenuto fin da subito la calma e non sono caduto preda dello sconforto. Non abbiamo ovviamente intenzione di interrompere la vacanza: figuriamoci se un ladruncolo può rovinarci tutto così facilmente. Davide mi presterà un po’ di ricambi di biancheria e per il resto ci arrangeremo come possiamo. Mi consolo pensando che d’ora in poi ho risolto il problema del peso dello zaino, dato che mi hanno alleggerito di almeno cinque chili, ma è una consolazione piuttosto magra. Al commissariato La receptionist del commissariato parla un inglese molto stentato, ma perlomeno si sforza di capirci e riesce ad incamerare che lo zaino mi è stato rubato e non l’ho semplicemente perso. Il modulo che ho portato dalla stazione, con la descrizione dell’avvenimento, fa il resto. Dobbiamo aspettare una ventina di minuti prima che una poliziotta mi chiami nello studio, annunciando “Monsieur Gatì!”. Solo grazie all’intuito di Davide mi accorgo che cercano me: io non l’avrei mai capito sentendo pronunciare il mio nome in quel modo. Mi viene da pensare che la situazione in cui mi trovo è abbastanza ridicola: in Italia non ho mai avuto rapporti significativi con la polizia, se escludiamo i classici alt alla dogana o per strada, non ho mai dovuto denunciare nulla né sono mai stato vittima di furti od altro, e mi tocca cominciare i miei rapporti con le forze dell’ordine proprio qui, in Francia, dove oltretutto l’inglese sembra essere considerato uno sconosciuto idioma di alcune tribù primitive? Nello stanzino da interrogatorio, ovviamente, la prima cosa che chiedo è “Parlez-vous anglais?”, sperando che almeno lei abbia studiato un po’ di inglese in vita sua e non si rifiuti di parlarlo come il 90% dei francesi. La risposta ovviamente è negativa: dovrò arrangiarmi con i gesti anche stavolta. Più o meno capisco le domande che mi pone, perlomeno posso rispondere con un si o con un no, ma la parte tragicomica arriva quando devo descrivere cosa c’era nello zaino che mi è stato rubato. Per far capire alla tutto sommato gentile brigadiera che avevo un sacco a pelo, Davide mima il gesto di dormire e fa finta di imbozzolarsi, mentre per mimare l’asciugamano non trovo di meglio che strofinarmi le braccia vigorosamente, come se stessi asciugando qualcosa. Alla fine comunque capisce…Oui, toilet! Più facile far capire soldi e fotocopie dei documenti, è sufficiente mostrare gli originali che ancora possiedo. Incertezza dopo incertezza finalmente l’ufficiale riesce a redigere un verbale decente, che riesco a capire abbastanza bene. Ovviamente non mi aspetto nulla dalle forze dell’ordine, che non possono certo mettersi a dare la caccia ad un ladruncolo di zaini morto di fame che ha rubato poche centinaia di euro, perciò mi metto il cuore in pace ed accetto che quello zaino non lo rivedrò mai più. Ironia della sorte, prima di partire avevo pure appiccicato un’etichetta all’interno con scritto il mio nome ed indirizzo, nel caso perdessi lo zaino. Precauzione che si è rivelata molto utile! Sonno Una volta firmato il verbale originale e ricevutane la copia, non possiamo fare altro che salutare ed andarcene in cerca dell’ostello, per darci almeno un po’ di tregua da tutte queste nuove emozioni sgradite. Siamo ancora piuttosto delusi e scornati, ma molto meno di quello che saremmo potuti essere se disgraziatamente avessi infilato anche lo zainetto dentro lo zaino grande. Una cosa a cui non abbiamo ancora pensato e che ci viene in mente solo ora è che la guida si trovava nel mio zainetto per puro caso, dato che di solito la lasciavo nello zainone. Anche girare per le città senza una mappa né una guida sarebbe stato a dir poco gramo! Fortunatamente il nostro prezioso libro è ancora nelle nostre mani, ed ormai manca poco ad arrivare all’ostello. In questo momento non desidero altro 23 che stravaccarmi su di un letto, un po’ perché voglio starmene a smaltire la delusione senza scocciature, un po’ perché lo spiacevole malessere e la tachicardia mi sono tornati nuovamente, esacerbati dalla spiacevole esperienza. Arriviamo all’alloggio piuttosto stravolti, ma almeno troviamo una persona molto gentile che parla bene l’inglese (miracolo) e ci spiega per filo e per segno il funzionamento dell’ostello, il quale è in realtà un vecchio dormitorio per operai che d’estate viene riadattato ad ostello per studenti e giovani in vacanza. La prima camera che ci viene proposta ha un letto solo, e tra molte scuse ci viene cambiata con un’altra che definirei peculiare, tanto da meritare una piccola descrizione. L’arredamento è a dir poco naif, con porte di un giallo sgargiante ed una geometria davvero singolare, dove predominano le linee inclinate. Traducendo, si sbatte la testa contro il soffitto se non si sta attenti. Il primo letto è a terra, mentre il secondo si trova in una specie di mansardina raggiungibile solo con una scala a pioli da muratore, già in dotazione. Non si capisce bene perché i costruttori non abbiano deciso di mettere tutto su un solo piano, dato che lo spazio ci sarebbe stato, ma tutto sommato la camera è ottima, non fosse per il caldo soffocante ed atroce che c’è all’interno: il sole sta battendo fortissimo sull’unica finestra e sull’abbaino proprio sopra il secondo letto, che però ha la tenda scura tirata. Anche se non abbiamo nulla per misurare la temperatura, possiamo affermare con certezza che supera i 30 gradi, e nella mansardina la temperatura è almeno di cinque gradi più alta, come assicura Davide che è appena salito per valutare il giaciglio in cui dormirà per le prossime tre notti. Il nostro eroe tenta di aprire la finestra per far entrare un po’ d’aria, ma una pioggia di ragni ed insetti morti che immediatamente cadono in massa sul letto lo convince a richiuderla subito e a rassegnarsi a soffrire il caldo. Io rimango in mutande e mi schianto sul letto senza più quasi dare segni di vita, addormentandomi in pochi minuti. Davide non prova nemmeno a sdraiarsi sul letto, data l’insopportabile temperatura, così torna al piano di sotto e si dedica ai cruciverba, per tentare di ingannare un po’ il tempo. Piano piano anche lui abbassa la testa sulle parole crociate, vinto dall’aria torrida e dalla stanchezza, fino ad addormentarsi seduto con la testa appoggiata sul tavolo e un braccio penzoloni. Dormiamo quasi un’ora e ci svegliamo praticamente all’unisono. Io mi sento ancora più rimbambito ed accaldato, per niente rigenerato dal breve riposo, mentre lui ha dei simpatici segni di pagine sul braccio e sulla testa, nei punti dove poggiavano. Imprecazioni assortite non tardano a volare. Decisamente una dormita insana! Nonostante abbia ancora i battiti velocissimi e il polso debole, ora mi sento abbastanza in forze per uscire a visitare Tours. Se non altro, ciò mi aiuterà a non pensare troppo al furto e alle sue conseguenze. La città in sé però non offre molto, a parte la bella cattedrale che però non riusciamo a distinguere dalle altre già viste, ed una scadentissima mostra di arte contemporanea in un vecchio e malandato castello, che scopriamo per caso. Nell’arrivarci ci siamo spinti molto lontani, e la mia sete si sta facendo nuovamente incoercibile. Capisco che forse è meglio non continuare a insistere col bere quell’acqua di rubinetto piena di cloro, che magari è la causa dei miei malesseri. Man mano che camminiamo verso l’ostello mi prende una sete terribile, al punto di essere costretto a fermarmi nel primo chiosco che trovo per comprare una bottiglia d’acqua fresca di frigorifero, dalla quale bevo lunghe ed avide sorsate, prosciugandone metà in un attimo. Il tempo di fare una veloce spesa ad un alimentari in zona stazione, e finalmente torniamo alla base, dove finalmente mi stravacco per tutto il resto della serata senza più muovermi. I battiti del cuore non si sono ancora normalizzati e la cosa un po’ mi preoccupa, ma ho davanti una notte di sonno e spero che sia sufficiente a rimettermi in pista come si deve. Inoltre, i succhi di frutta concentrati che abbiamo appena acquistato aiutano a reintegrare gli elettroliti persi, da cui sono speranzoso di stare molto meglio domani. Questo finchè non mi rendo conto che la mia urina ha assunto un simpatico colore arancione intenso. Potenti lampi e tuoni condiscono la nottata, insieme a degli individui che si mettono a parlare a macchinetta proprio sotto la nostra finestra, che pure è ad un piano elevato, ma non così tanto da impedirci di sentire tutto ciò che si dicono nella loro incomprensibile lingua. Sembrano discorsi molto concitati, ma le voci non sembrano quelle di gente ubriaca. Pare piuttosto che siano tutti impegnati in una mastodontica discussione filosofica ed esistenziale. Fortunatamente i discorsi non durano in eterno, e non appena si tacitano sprofondiamo finalmente nel sonno. 24 I Castelli della Loira Nonostante tutto, questa mattina mi sveglio in uno stato di salute soddisfacente. La tachicardia pare definitivamente scomparsa, ma nonostante ciò non mi fido e spesso mi metto due dita sotto la mandibola, in corrispondenza della carotide, per verificare se veramente i battiti non aumentano più. Davide non può fare a meno di ridere, vedendomi ogni due per tre con queste due dita stampate sul collo e l’espressione assorta, ma io continuo imperterrito con le mie indagini diagnostiche ed infine posso finalmente tranquillizzarmi, poichè i sintomi sono scomparsi per davvero. I succhi di frutta e la notte di riposo hanno fatto il loro dovere. La già modesta arrabbiatura per il furto è quasi caduta nel dimenticatoio, ed il viaggio può (anzi deve) continuare nel migliore dei modi! E quale modo migliore di continuare che tuffarsi a peso morto nella visita dei meravigliosi castelli della Loira? In questa lussureggiante valle ce ne sono più di trecento, di varie forme e dimensioni: alcuni sono poco più che residenze di campagna, altri sono dei veri e propri poderi sontuosi dalle dimensioni eccezionali. Non mancheremo di visitare i più belli, i più artistici e raffinati, i più storicamente importanti. Oggi cominciamo da Chenonceau, situato nella quasi omonima e minuscola cittadina; la piccolissima stazione in cui approdiamo è immersa nel verde, e l’atmosfera è proprio quella di un minuscolo paesino conosciuto solo perché ospita il castello, ma che senza di esso sarebbe solo uno degli innumerevoli ed insignificanti borghi francesi. Dopo un lungo viale fiancheggiato da ogni lato da degli altissimi platani, che con le fronde formano un curioso tetto sopra di noi, appare il castello vero e proprio, con tutte le sue volte di pietra apparentemente poggianti sul fiume, i ponti e i fossati scavati, la piccola ed isolata torre di guardia posta davanti all’ingresso del ponte levatoio. Splendidi giardini fanno da degno contorno, con bellissime forme geometriche e fiori bianchi e rossi, a circondare aiuole all’inglese ed ogni tanto qualche fontana. L’impatto con questa solenne costruzione è notevole, peccato solo che delle orribili impalcature la stiano deturpando ignominiosamente; fotografare il castello senza includere nello scatto grossi pezzi di travi e pertiche arrugginite è un’impresa, ma alla fine il risultato è comunque piuttosto soddisfacente. Le impalcature non tolgono comunque il piacere di osservare il gioco di specchi dell’acqua, le bianche pareti solo lievemente sbiadite, i numerosi abbaini e le piccole guglie. Nonostante la grandiosa apparenza dell’esterno, l’interno non regge il confronto: un po’ poveri gli arredamenti (sempre relativamente parlando!), mentre l’insopportabile ingorgo di persone rende la visita alquanto difficoltosa. La parte più interessante è la discesa alle cucine, dove possiamo vedere tutti i vecchi attrezzi culinari medievali uniti a plastici di cibo che riproduce fedelmente ciò che si mangiava ai tempi, cibo che probabilmente oggi sarebbe considerato buono solo per i cani. Gironzolando per il boschetto ci imbattiamo in un curioso labirinto dalle pareti di siepe, vicino al quale stanno in piedi quattro statue incastrate su di un colonnato con architrave. Queste strane sculture ci comunicano un vago senso di inquietudine, sembrano uscite direttamente da un libro fantasy di Tolkien, che racconta di statue che stanno a guardia di luoghi particolarmente importanti ed incutono timore a chi passi. Rimaniamo a fissarle per un po’, da soli ed in silenzio, ogni tanto lanciando qualche occhiata al bosco credendo che stia per spuntare un animale feroce…ma tutto tace, ed ormai è tempo di tornare indietro. Inaspettatamente, il tempo a nostra disposizione è ancora molto e possiamo approfittarne per visitare anche il famoso castello di Amboise, dove il grande Leonardo da Vinci morì in gloria diversi secoli fa. Amboise è una cittadina molto più grande di Chenonceaux, pur essendo comunque piccola, ed il suo castello si trova circondato dalle case, in cima ad un’altura. Per raggiungerlo dobbiamo farci qualche centinaio di metri a piedi ed attraversare un ponte, per poi quasi perderci nelle intricate viuzze del centro, strapiene come al solito di bancarelle per turisti. Fortunatamente l’accesso al castello è segnalato molto bene, ed in men che non si dica percorriamo una rampa ed entriamo, come al solito gratuitamente dato che in Francia praticamente tutti i siti d’interesse culturale sono gratis per i ragazzi dell’Unione Europea che hanno meno di ventisei anni. L’esterno del castello è poco appariscente, ma la vista che si ha della cittadina e del suo fiume è 25 notevole: dai parapetti si vedono tetti spioventissimi a perdita d’occhio, piuttosto inusuali per la latitudine a cui ci troviamo. L’interno di Amboise non è così stupefacente come quello di Cheverny e nemmeno come quello di Chambord. La cosa più interessante che vi si trova è la tomba di Leonardo, conservata all’interno della cappelletta e costituita da una semplice lapide di pietra incassata profondamente nel pavimento lastricato, quasi senza soluzione di continuità con esso. Ci possiamo però rifare con la tenuta di Leonardo stesso, situata a poca distanza dal castello. Per raggiungerla ci tuffiamo nuovamente nelle strette vie pedonali, lungo le quali ogni tanto si intravede qualche casa ricavata direttamente nella roccia, dall’aspetto veramente rustico ed abbandonato, tanto più che queste case – grotte sono affiancate da abitazioni nuovissime e di ottimo aspetto. Ma tutto sommato penso che sarebbe più interessante vivere in quelle vecchie dimore di roccia, così da respirare un po’ di aria antica e provare l’ebbrezza di vivere quasi come cavernicoli! Anche la vecchia dimora di Leonardo è immersa in un verdeggiante parco, e conta numerosi edifici, alcuni dei quali ospitano i modellini in scala delle sue più famose invenzioni. Ce n’è per tutti i gusti. Il doppio scafo delle navi era utilizzato in guerra per difendersi dagli speronamenti, e tutt’oggi viene costruito per le navi petroliere come prevenzione di disastri ecologici (che però si verificano lo stesso, basta pensare a quando sciacquano le loro cisterne in mare aperto). Ci sono i cuscinetti a sfera, e sembra incredibile che li abbia inventati già Leonardo così tanto tempo fa, visto l’uso industriale che se ne fa oggi. Anche il cambio meccanico, oggi utilizzato in tutte le nostre automobili, è opera sua. Queste invenzioni sono in gran parte conosciutissime, ma chi va a pensare mai al genio di chi le ha create? Oggi diamo tutto per scontato, ma credo che ci volesse una grandiosa intuizione per realizzare tutte queste cose…impossibile non provare un qualche genere di venerazione verso quest’uomo geniale, quando ci si trova di fronte alle sue opere! Termina anche questa fruttuosa giornata, e l’indomani tocca a Blois, cittadina da cui partiamo per un tour organizzato che toccherà i famosi castelli di Chambord e Cheverny. Prima però viene il castello della stessa Blois: forse il meno interessante del lotto, anche se presenta molti elementi stilistici diversi che lo rendono un po’ un mix tra tutti i castelli che visitiamo. Solo un discreto contorno comunque, in attesa di partire per Chambord, una destinazione assai più succulenta. Il più grande dei castelli della Loira è situato in una riserva di caccia privata e circondata da boschi su ogni lato, i quali rendono questo mostro di pietra abbastanza difficile da raggiungere. Ma il bus, guidato da una signora che parla francese e poi fortunatamente traduce in inglese spiegando tutte le vicende di questi luoghi, ci scarica esattamente davanti a questo mastodonte bianco e azzurrino, con le sue innumerevoli torri, gugliette e le possenti mura…ed anche qui purtroppo le impalcature non mancano. Chambord è il più “castello” dei castelli della Loira: sia gli interni che gli esterni hanno proprio lo spirito della fortificazione e del combattimento. Ricorda abbastanza i castelli che si costruiscono nei videogame strategici, di cui entrambi abbiamo fatto scorpacciata per anni e che ogni tanto rispolveriamo ancora dagli archivi dei nostri computer, per creare dal nulla città e battaglie, immedesimandosi un po’ nella vita medievale e trascorrendo ore ed ore immersi nel suo fascino. La paura fa novanta…cani Il castello di Chambord fu costruito dai signori francesi come residenza protetta per effettuare le battute di caccia con i loro segugi, e la tradizione è rispettata ancora adesso, nonostante siano passati diversi secoli. Un’attrazione famosa del posto viene riproposta ogni giorno dagli addestratori dei cani da caccia. Sui costoro si può dire innanzitutto che hanno un’ottima memoria: si ricordano infatti tutti i nomi delle decine e decine di cani, tutti uguali, che compongono la muta. Come facciano a distinguerli non è molto chiaro, tuttavia è principalmente nella dimostrazione che ora vado a descrivere, che mostrano la loro vera abilità. Tutti i giorni verso le cinque del pomeriggio si svolge questa scena, un po’ dimostrativa ed un po’ teatrale, dove viene sottolineato in modo eloquente il livello di controllo che gli esseri umani riescono a raggiungere su animali debitamente addestrati. Ma di questo parlerò tra 26 poco. Infatti, a causa della scarsità di tempo a nostra disposizione, non è a Chambord che vedremo questo spettacolo, bensì a Cheverny, dove ci stiamo trasferendo adesso. Anch’essa infatti è un’antica tenuta di caccia, dove fortunatamente per noi viene proposto lo stesso spettacolo visibile a Chambord. Vista dall’esterno, Cheverny è una tenuta molto più modesta rispetto al sontuoso castello di Chambord, ma i suoi interni sono incomparabilmente più fini ed eleganti rispetto a quelli del sopracitato gigante. Essendo tuttora una residenza privata di una ricca famiglia, le stanze sono arredate in modo raffinato e trasudante buon gusto, con mobili di altissimo pregio ed innumerevoli suppellettili preziose. Un gioiellino che ammiriamo in ogni singolo angolo visibile. Ma torniamo alla scena forte, che consiste nel pasto dei cani, un’abbuffata del tutto particolare. Novanta cani della medesima razza sono rinchiusi in un recinto, tra odori non propriamente piacevoli per chi li guarda da dietro le sbarre. Questo recinto è collegato ad un piccolo attico tramite delle scale, sbarrate da un cancello che alle cinque esatte l’addestratore apre per far salire tutti i cani al piano superiore. Il cancello viene quindi richiuso, impedendo ai cani di scendere e costringendoli ad assistere a quello che succede di sotto, senza poter fare nulla. Nel cortile inferiore viene quindi scaricata una carriola di polli morti e spennati, innaffiati poi da chili e chili di croccantini. Tutto il cibo viene accuratamente disposto per terra lungo una linea retta. Qui comincia lo spettacolo: l’addestratore, munito della sua lunga frusta, apre la porta di comunicazione e i cani si fiondano da basso, scalpitando sulle scale in modo scomposto e spintonandosi a vicenda, ma finchè la frusta rotea nell’aria non osano oltrepassare la linea immaginaria che li separa dalla striscia di cibo. Per un’interminabile ventina di secondi, i cani si ammassano sempre di più gli uni sugli altri ed abbaiano come disperati, ma non rompono le righe, resistendo al richiamo del cibo fresco. Chissà cosa darebbero in questo momento per avventarsi sulla carne ancora sanguinolenta, ma non osano per timore di punizioni. Sempre roteando la frusta, l’addestratore arretra lentamente e i cani si avvicinano sempre di più ai succulenti bocconi, finchè finalmente la frusta cade e di colpo la marmaglia di segugi si avventa letteralmente sul cibo, divorandolo voracemente in una mischia spaventosa dove tutti cercano di strappare a tutti i migliori bocconi. La frenesia alimentare da cui sono presi è realmente impressionante. L’esibizione ha un che di crudele, con tutti questi cani ammucchiati alla bell’e meglio e che vengono pure torturati con la privazione del cibo, ma forse è proprio questo che rende la scena così tremendamente affascinante e stucchevole. Non abbiamo più di un paio di minuti per starcene ad osservare la truculenta scena, che comunque più di tre o quattro minuti non dura, poichè il cibo viene interamente divorato nel giro di pochissimo tempo. Ma noi dobbiamo correre quasi subito a prendere il bus che sta per passare e riportarci a Blois. Ormai con i castelli della Loira abbiamo terminato, e possiamo dire di aver accumulato un buon bottino! La pedante voce dell’autista ci accompagna anche per il ritorno, snocciolandoci cifre ed aneddoti, ma la ascoltiamo poco data la stanchezza. Ormai quasi arrivati alla stazione di Blois, ci becchiamo pure un rimprovero “collettivo” perché stiamo parlando per i fatti nostri quando invece dovremmo ascoltare. Mi sembra di essere tornato alle gite scolastiche, quando la scolaresca fa baccano ed il professore la redarguisce con toni poco gentili! Una volta “rincasati” a Tours, riusciamo per miracolo ad aprire il portone dell’ostello che per alcuni interminabili secondi pare irrimediabilmente chiuso, poi ci mettiamo a lavare i vestiti, da brave massaie (ce ne sono rimasti ben pochi per cambiarci!), e finalmente ci schiantiamo a letto. Durante la notte c’è il solito gruppo di fracassoni a tenerci compagnia, questa volta è un complesso che sta suonando, ma viene zittito da alcuni irritatissimi “S’il vous plait!” pronunciati da una rauca voce maschile poco sotto di noi. Dopodichè, silenzio assoluto. Saint Malo Un cambio a Le Mans ed uno a Rennes, ed in men che non si dica siamo già nella verde Bretagna. Arriviamo a Saint Malo di domenica, il che rende molto difficile trovare una sistemazione per la notte, ma non disperiamo. Sappiamo che la nostra buona stella non ci abbandonerà nemmeno stavolta 27 (forse). Le vie di questa atipica città sono quasi deserte, lunghissime ed interminabili, fiancheggiate da case poste in maniera molto irregolare e discontinua. Il quarto albergo trovato lungo la strada è finalmente aperto: ci fiondiamo all’interno dove veniamo ricevuti da un uomo di colore vestito in maniera elegantissima, in perfetto accordo con l’arredamento della lussuosa reception. Da una prima impressione capiamo già che il pernottamento ci costerà una fortuna, ammesso che non ci buttino fuori subito, ma vale la pena chiedere comunque. Ci viene risposto in inglese (!) che per una notte in una camera doppia ci vogliono 135 euro in due, ma che c’è un altro albergo proprio a fianco che potrebbe fare al caso nostro in quanto molto più economico. Un albergatore che consiglia a due potenziali clienti, palesemente sperduti e ridotti alla disperazione, un altro albergo dove si paga meno! Decisamente molto onesto da parte sua! Effettivamente il fratello minore del costoso hotel è molto più rustico e alla mano, decisamente più alla portata delle nostre finanze. Un letto matrimoniale (ancora…) nel quale stravaccarsi per qualche decina di minuti e poi via, alla cittadella fortificata posta sul mare. Accompagnati da una brezza leggera e rinfrescante, ci stiamo ora affacciando sulla Manica; vi è una lunghissima spiaggia sabbiosa, con dei tronchi conficcati in verticale nel terreno i quali corrono parallelamente alla strada sopraelevata per tutta la sua lunghezza. Poco lontano si intravede un’isoletta rocciosa con una piccola fortezza che vi sorge al centro, e tanti bagnanti che tentano di godersi il sole che oggi splende fiero, in combinazione con un cielo quasi completamente terso. Davide sarebbe tentato dal farsi un bagno, ma il vento è ora piuttosto freddino e preferisce non rischiare congestioni. Quanto a me non ho dubbi: non so nuotare, odio l’acqua, in più il costume era nello zaino che mi è stato rubato. Così proseguiamo passeggiando ed approdando alle intricate vie della città murata, percorse un po’ in cima alle mura e un po’ a terra, fino all’arrivo nel vero e proprio centro. Esso è in un pauroso fermento di attività. Anche questa è zona molto turistica: vi sono bancarelle e negozi ovunque, specialmente creperìe, fiumane di persone percorrono i viali più larghi, mentre le vie parallele o trasversali sono quasi completamente vuote. Approfittiamo tagliando per qualcuna di queste vie quando la ressa si fa insopportabile, incrociando anche una simpatica recita su di un’aiuola fiorita. Probabilmente rappresentano “Il malato immaginario” di Molière, poiché talvolta il protagonista si rotola comicamente per terra in preda a chissà quali malanni e tormenti. Peccato che ovviamente non capiamo nulla delle battute. Assistiamo divertiti per qualche minuto, ma ora inizia a sorgere un altro problema: il freddo vento bretone mi ricorda che ora siamo più a nord di prima e difficilmente potrò resistere per tutti i giorni che mi restano senza avere una giacca che mi ripari dal vento e dalla pioggia. Quella che mi hanno rubato era perfetta, ma ora temo di doverne comprare un’altra. Così inizia la paziente ricerca di un negozio che venda vestiti decenti: il primo che troviamo ne vende esclusivamente di invernali (mi chiedo quanti incassi farà al giorno, di questa stagione…), ma il secondo, un banale negozio di souvenir, sembra proprio fare al caso mio. Sono esposte in bella vista delle giacche impermeabili, piuttosto leggere ma ben isolanti. Me le provo un po’ tutte per trovare la mia misura, ed ecco che arriva la cassiera a consigliarmi. Parla francese, al che mi devo inventare un modo per chiedergli se il vestito ripari bene dalla pioggia oppure no. Mi viene in aiuto una canzone del celebre chansonnier Charles Trenet, che volente o nolente ho sentito più e più volte dal giradischi di casa mia, intitolata “Le parapluie”, ovvero “L’ombrello”. Rivolgendo la parola sottoforma di domanda, mi viene confermato che si, la giacca è impermeabile! Come mettere in pratica efficacemente la propria conoscenza di dieci parole francesi… Dopo aver fissato un po’ lo sguardo sulle vetrate della modesta chiesa locale, aver percorso gran parte della cinta muraria con i suoi bastioni e le sue feritoie, ed aver vagato ancora un po’ nelle vie del centro, un certo languorino inizia a farsi sentire…e cosa c’è di più appropriato di provare le specialità culinarie bretoni? I ristorantelli tipici abbondano, a volte sono più piccoli di un bar, ed è proprio su uno di questi che cade la nostra scelta. Decisamente non restiamo delusi: le gallettes (una specie di piadina con formaggio, prosciutto e uova) e le crepes dolci (tanto dolci da far venire la nausea, ma eccellenti!) ci riempiono subito lo stomaco, data la piacevole voracità con cui le divoriamo. Una tazza di ottimo sidro secco completa la cena bretone in modo eccellente. Ormai pieni come un uovo risaliamo sulle mura per goderci il mare di sera, ma il vento che è salito ci fa rabbrividire molto presto, 28 nonostante abbiamo indosso praticamente tutti i nostri vestiti! Meno male che ho comprato la giacca! Soprattutto sono irritanti i turisti, specialmente i giapponesi, che indossano ancora magliette a maniche corte e minigonne. Totalmente indifferenti a qualsiasi temperatura e condizione atmosferica. Ormai stufi dell’incessante vento, riprendiamo la via di “casa” passeggiando lungo il mare, e tutto ad un tratto ci rendiamo conto di una banale quanto sconcertante realtà: la spiaggia è sparita! Dov’è andata a finire? Semplice, è salita l’alta marea ed ora è tutto sommerso! Fantastico! Anche l’isolotto con la fortezza è ormai inaccessibile, chiunque ci si trovasse ancora per errore dovrebbe aspettare parecchie ore al buio e al freddo prima di poter riapprodare alla terraferma. Il sole sta tramontando dietro una spessa coltre di nubi, mentre l’acqua lambisce piuttosto rumorosamente i pali di legno infissi, ora quasi completamente sommersi. Dopo essere rimasti un po’ ad osservare quest’affascinante atmosfera serale, ritorniamo a dormire in albergo, in compagnia di numerose mosche che si sono stanziate in camera durante tutto il pomeriggio in cui la finestra è rimasta spalancata. Porto Oggi si va in una zona ben più periferica ed isolata, quella portuale: dista diversi chilometri dal nostro alloggio, tutti da percorrere a piedi, ma non ci scoraggiamo e di buon ora siamo già in marcia. Molto squallide le vie di Saint Malo verso la periferia: si nota un certo degrado, tipico di una zona industriale con poca attenzione all’estetica, ma nonostante tutte le zone industriali siano più o meno uguali questa sembra ancora un pelo più degradata delle altre. Attraversiamo un ramo di ferrovia ormai abbandonato ed inglobato dalle polverose strade, incrociando ogni tanto delle piccole oasi di verde dove le piante sono quanto mai disordinate e crescono selvaggiamente, fiancheggiate da marciapiedi sporchi che servono costruzioni imbrattate o cadenti. Nelle vicinanze del porto stazionano numerosi camion gialli e bianchi, che vengono continuamente caricati e scaricati di merci, mentre un penetrante olezzo di pesce permea l’aria senza lasciarne libero nemmeno un alito. Giunti a destinazione, abbandoniamo finalmente la cementosa zona per tuffarci in un piacevole dedalo di vialetti alberati posto su di una collina, che in alcuni punti lascia intravedere isolate scogliere e spiagge dove qualche rarissimo bagnante si sta concedendo un po’ di pace. Quasi nessuno percorre queste stradine silvestri nelle quali si trova solo ogni tanto qualche rara panchina, mentre l’aria di mare è stantia e pesante oggi: il cielo grigio contribuisce a dare un tono depressivo all’intera giornata, depressione che a poco a poco mi prende senza che vi sia un motivo preciso. Ogni tanto capita di trovarsi in quell’indefinibile stato d’animo nel quale si ha tutto ciò che si potrebbe desiderare ma sembra sempre che manchi qualcosa. In parte mi passa quando raggiungiamo la spiaggia, sovrastata da una torre con le solite numerose bandiere in bella vista. Alcuni piccoli passaggi si aprono nella scogliera permettendo di aggirare le rocce e trovarsi al di dietro delle piccole fortezze, ma si tratta sempre di vicoli ciechi, che costringono a ritornare indietro quasi subito. Oggi sembra che non si riesca a concludere niente, è una giornata stranamente incompleta. Sarà la stanchezza, sarà il tempo, sarà qualunque altra cosa, ma è una giornata no. Perfino la fortezza della marea è chiusa, perciò dobbiamo accontentarci di camminare un po’ tra le viscide rocce incrostate di alghe e conchiglie, poiché la marea è ancora bassa ma presto salirà sommergendo tutto. Si conclude così la giornata: al ritorno vaghiamo per le anonime strade cercando un alimentari, ma anche qui sembra che nessuno mangi poiché proprio non ce ne sono per chilometri e chilometri, finchè ne scorgiamo uno aperto per miracolo e lì facciamo incetta senza badare a spese. Saint Malo è ormai agli sgoccioli; città controversa, interessante ed ambigua allo stesso tempo, con qualche impercettibile parentesi di tristezza. Mont Saint Michel Un po’ isolata dal resto del Paese, l’abbazia di Mont Saint Michel è famosa in tutto il mondo per la sua peculiare posizione, asserragliata su un isolotto fortificato che viene quasi interamente circondato dall’acqua con la piena delle maree. Una volta veniva tutto circondato, ma da quando è stata costruita 29 la strada asfaltata e rialzata le comunicazioni si interrompono solo in caso di maree dalla portata eccezionale, le quali capitano molto di rado. Lasciamo la stazione di Saint Malo stipati in un unico vagone che va a Pontorson, il paese poco più a sud dell’abbazia, punto di partenza per visitarla. Tutti insieme in questa singola scatolina di ferro, il viaggio trascorre piuttosto tranquillamente, in quanto ci prendiamo subito i posti migliori. Davanti a noi c’è una coppia di giovani francesi in viaggio come noi, con gli zaini sulle spalle ai quali sta appeso il sacco a pelo, più l’immancabile baguette sotto la spalla che viene, come da tradizione, già addentata durante il tragitto. Sembra proprio che anche loro abbiano in mente il nostro stesso giro, infatti scendiamo nello stesso punto, cercando poi insieme di capire da dove parta il bus per Mont Saint Michel: ne sappiamo quanto loro, ma ci diamo coraggio a vicenda dicendoci che non può essere altro che quello il bus che aspettiamo. Altrimenti, ci sarebbe la possibilità di raggiungere l’abbazia in bicicletta, come qualcuno sta già tentando di fare noleggiando i mezzi a qualche metro da noi, ma per chi è munito di zaini pesanti non è una soluzione praticabile! Per fortuna il bus arriva quasi subito e libera il campo dai dubbi. La spiacevole esperienza del furto non impedisce a Davide di riporre il suo grosso zaino nel vano bagagli, però stavolta abbiamo intenzione di controllare molto meglio eventuali movimenti sospetti. L’autista dell’autobus, un canuto ed arzillo vecchietto che potrebbe tranquillamente avere ottant’anni o più eppure guida l’autobus in modo impeccabile, si dimostra estremamente loquace con le due donne che siedono esattamente davanti a noi. Parlano francese, e ciò non aiuta a far trascorrere l’estenuante ora che impieghiamo per percorrere nemmeno dieci chilometri; la fila di macchine è terribile, inconcepibile. Se almeno potessimo capire di che cosa stiano parlando nella loro animatissima discussione, ci potremmo distrarre un po’ da questo tedioso avanzare a passo d’uomo. Il tempo sembra essersi fermato, ma finalmente dopo un lungo curvone appare in lontananza l’abbazia, vero spettacolo per gli occhi: al momento c’è la bassa marea, con i fangosi fondali ben in evidenza lambiti solo perifericamente dal mare che per ora si è ritirato. I vari livelli su cui si eleva la cittadella fortificata ricordano molto le diafane mura della solenne Minas Tirith, la città dei Re presente nella conosciutissima e meravigliosa saga tolkieniana. Manca giusto lo sperone di roccia centrale a fare da dominatore della scena, ma direi che ci possiamo accontentare! La salita verso il livello più alto è irta di difficoltà, non tanto per gli zaini pesanti (anzi, solo lo zaino pesante di Davide, visto che il ladro mi ha in questo caso favorito, alleggerendomi), ma per l’enorme ed insopportabile massa di persone che intasa le già anguste viuzze. Si fatica a camminare, in particolare durante la lunghissima coda che dobbiamo sorbirci per superare i cancelli che portano all’ultimo livello. Fila per noi inutile, dato che in virtù della nostra età e nazionalità possiamo anche questa volta entrare gratis, ma dobbiamo passare comunque la nostra buona ora in attesa sulle scale, avanzando ad un ritmo esasperatamente blando. Questa densità umana, molto oltre il sopportabile, oscura di molto la bellezza del luogo ed il piacere di camminare nei suoi medievali viottoli. Sarebbe tutto diverso poter passeggiare per questi bastioni in silenzio e solitudine, con la pace necessaria per fantasticare un po’ sugli incontri che potremmo fare ad ogni angolo, magari trovando un cavaliere in cotta di maglia pronto a partire per qualche lontana frontiera. Qualche momento di tregua è concesso quando guardiamo dalle mura verso il mare e la striscia di terraferma, come facevano un tempo le sentinelle per permettere alla fortezza di difendersi per tempo in caso di attacco. In effetti, la rocca ha resistito ad innumerevoli tentativi d’invasione, in alcuni casi rimanendo l’unico terreno ancora in possesso dei francesi nell’intera zona. Purtroppo il meteo è abbastanza bruttino ed il mare appare un po’ grigiastro e spento, ma Mont Saint Michel è comunque un bello spettacolo, sia con la pioggia che con il sole che con qualunque altra condizione meteorologica. Le numerose costruzioni che formano la cittadella sono state continuamente aggiunte nel corso degli anni e dei secoli, a partire dai tempi dei Galli e dei Romani, come possiamo vedere nelle numerose riproduzioni in scala presenti nel museo, situato in cima alla cittadella. Passando per numerose sale di pietra completamente vuote ed in alcuni casi molto buie, completiamo in men che non si dica il giro e ritorniamo presto verso la base della fortezza, esausti e scornati per i troppi turisti presenti. Il massimo del fastidio ce lo procura un numeroso gruppo di italiani, che in preda ad un’esaltazione generale non può proprio fare a meno di fare otto milioni di foto di gruppo, intasando il passaggio ed urlando qualcosa ad ogni foto scattata. Noi italiani ci facciamo sempre riconoscere. 30 Patrick Anticipando di un’ora l’autobus del ritorno grazie ad un’inaspettata e fortuita coincidenza (in tutti e due i sensi), possiamo rilassarci perché così non rischiamo più di perdere il treno per Bayeux, il quale parte una volta sola questo pomeriggio e poi basta fino all’indomani. La coda di macchine non è meno lunga ed estenuante di quella dell’andata, ma è sufficiente superare un punto critico, posto più o meno a metà del tragitto, perché l’intasamento si sciolga improvvisamente come neve al sole, in un modo del tutto inspiegabile. Inutile chiedersi dove siano finiti quei milioni di automobili che fino ad un attimo prima erano tutti perfettamente fermi e bloccavano tutto, e che ad un tratto sembrano essersi volatilizzati nel nulla come se non fossero mai esistiti. Dev’esserci una qualche legge arcana che governa ciò, e che sfugge totalmente all’umana comprensione. Ma grazie a questa fantomatica legge arriviamo con largo anticipo alla minuscola, anzi microscopica stazione ferroviaria di Pontorson, desolata e vuota al punto di avere perfino i bagni chiusi. Nell’attesa posso finalmente sfruttare il momento per fare una cosa che ho in mente di fare fin dall’inizio del viaggio: chiamare il mio amico Patrick. Chi è costui? Questa storia merita qualche riga di approfondimento, poiché i casi della vita a volte possono essere davvero sorprendenti. Questa primavera sono stato spedito a fare tirocinio nel reparto di Neurologia, e lì mi è capitato di assistere un signore olandese colpito da una recidiva di ictus cerebrale. In attesa che l’uomo si ristabilisse a sufficienza per poterlo trasferire dall’ospedale di Varese e riportarlo in Olanda, ho stretto amicizia con i parenti del medesimo, in particolare con il figlio quarantenne, di nome Patrick. Alla fine delle tre settimane di tirocinio egli mi ha ringraziato calorosamente dell’assistenza prestata a suo padre, molto sofferente e bisognoso di aiuto per buona parte degli atti della vita. In più, sapendo che avrei effettuato le vacanze estive passando per Amsterdam, mi ha lasciato indirizzo e numero di telefono, per poterlo contattare una volta arrivato. Infatti, lui e la moglie Michaela abitano a soli cinque chilometri dalla capitale olandese, ed ovviamente ho subito accettato entusiasta! Così, dopo diversi mesi, ho finalmente la possibilità di stabilire un contatto con loro, e nondimeno di poter rendere l’esperienza di viaggio un po’ diversa, conoscendo in modo più approfondito la gente del posto e magari stabilendosi per qualche giorno a casa loro. Telefonando dalla stazione con il cellulare, dopo numerosi errori dovuti al prefisso, finalmente mi risponde Patrick in persona! Inizialmente non mi riconosce, ma appena capisce che sono io la conversazione si anima immediatamente. Sembra proprio felice di risentirmi! Apprendo che suo padre è ancora in ospedale, ma è stato ricoverato in una zona dove i collegamenti sono piuttosto difficili, da cui non va spessissimo a trovarlo. In ogni caso mi assicura che mi ospiterà volentieri quando arriverò in Olanda, magari andremo fuori a bere qualcosa o faremo una gita…insomma, tutto sembra mettersi per il meglio. Non vedo l’ora di reincontrarci finalmente! Ho ovviamente telefonato con congruo anticipo, per non piombare lì solo pochi giorni o poche ore prima, ma in ogni caso prima di Amsterdam c’è ancora molto da vedere, e per ora devo accantonare la momentanea esaltazione per concentrarmi sull’immediato e sul domani. Non è tuttavia facile, perché ora come ora, preso da un raptus, aspetto solo di ripartire per arrivare subito in Olanda, quasi saltando con il pensiero le molte cose che rimangono ancora da vivere in Francia ed in Belgio! Bayeux Bayeux è una cittadina tranquilla, ariosa, molto ricca di spazi verdi. Del resto, conta poco più di diecimila abitanti, al limite tra un grosso paese ed una piccola cittadina. Nell’orario in cui arriviamo, circa le sette di sera, le strade sono quasi vuote ed è un piacere percorrerle con il sole al tramonto, costeggiando ampi prati incolti oltre le strade. Non abbiamo ancora un posto stabile dove dormire, ma per un’eventuale notte all’addiaccio i posti non mancherebbero: ci sono morbidi spazi verdi e panchine riparate in ogni punto sul quale posiamo gli occhi. Stiamo pensando appunto di abbandonare zaini e corpi sull’erba, poichè tutti gli hotel che incontriamo lungo la strada sono pieni oppure costosissimi e perfino l’unico ostello non collabora. Quest’ultimo poi è alquanto tragicomico: oltre ad essere beffardamente chiuso e buio, sulla sua porta troneggia un ambiguo cartello con scritto “Aperto”. 31 Abbiamo ormai quasi deciso di dormire fuori, ma optiamo per un altro tentativo in un’altra zona…e finalmente, al decimo albergo, c’è una camera libera per noi. Sembra la trafila che a volte si fa in pronto soccorso, chiamando decine di reparti per tentare di trovare un posto letto ad un malato trasferibile e sentendosi sempre rispondere “Zero posti disponibili”. La camera è ancora una volta con il letto matrimoniale (non se ne può più!) ed è situata all’ultimo piano, il che significa altri chilometri di scale tutte le volte che usciamo o rientriamo. Curiosamente, dentro la camera ci sono perfino un lavandino e un bidet! Ora, noi sappiamo che il bidet l’hanno inventato proprio i francesi, ma sembrano essersene disaffezionati, infatti è noto che non lo usano mai. Qui addirittura ce lo troviamo in camera, con dei fiorellini viola disegnati sopra con la vernice! Ma non potevano metterci la tazza in camera invece, che sarebbe stata molto più comoda? Mah! Rimane ancora un po’ di tempo prima dell’ora della nanna e ci troviamo in una zona molto vicina alla cattedrale, la quale tra l’altro è visibile da ogni angolo della città. Non possiamo certo perdercela e stare fermi a poltrire. Casualmente, proprio oggi la suddetta cattedrale chiude più tardi del solito, alle nove e mezza invece che alle sette, e possiamo perciò godercela in santa pace. Una spettacolare luce di tramonto illumina a metà le torri, in un contrasto molto forte con l’azzurro del cielo, solcato solo da qualche tenue nuvoletta. La cattedrale è ancora una volta splendida, ed anche se la struttura è praticamente identica a quella delle sue sorelle c’è una sostanziale differenza che la rende ora assolutamente particolare: è quasi vuota. L’atmosfera cambia in modo radicale, quando si è soli in un luogo così maestoso. Ogni pietra, ogni vetrata, ogni passo che risuona e riverbera debolmente sul pavimento assume un significato diverso, si sentono meglio gli odori, si vedono meglio i colori, è possibile accorgersi di particolari apparentemente insignificanti e che sfuggono a sguardi distratti. Anche la cripta, con il suo meraviglioso ed inebriante odore di pietra umida, è completamente diversa rispetto a quando è piena di persone che si accalcano le une sulle altre per vedere cosa c’è dentro, per poi uscirne quasi subito una volta che hanno messo la testa all’interno e hanno lanciato una veloce occhiata circolare. Girovaghiamo un po’ per le tranquille stradine, un po’ lastricate ed un po’ asfaltate, fino a tornare nella zona del parco, dal quale vediamo il disco giallo del sole tramontare lentamente tra due alberi. Il tramonto è ormai in fase avanzata e possiamo fissare la stella senza rimanerne abbagliati. L’erba è molto ben curata ed uniforme su tutto il prato, alte querce ci circondano da ogni lato, una fontana al centro spruzza i suoi zampilli, ed è quasi un peccato aver trovato una sistemazione in albergo, credo sarebbe stato molto più pittoresco dormire qui stanotte, pur con il freddo e l’umidità! Ma ormai i giochi sono fatti…e si torna a dormire senza ulteriore indugio. Appena tocco il cuscino, Morfeo mi accoglie a braccia aperte. Solo l’indomani Davide mi aggiornerà a proposito della “strana” situazione che si viene a creare di lì a poco. Infatti, poco prima di mezzanotte Davide si reca al bagno, e proprio quando sta finendo di “sbrigare” le sue faccende inizia a sentire degli strani gemiti provenire dalla stanza di fianco alla nostra. Non è necessaria una laurea per capire cosa stiano facendo. Decide quindi di aspettare in bagno, per non doversi sorbire i rumori dalla nostra camera, dove sicuramente si sentirebbero molto più forti. Tuttavia, pochi minuti dopo sente un violento bussare, pressapoco proveniente dalla direzione della nostra stanza. Ovviamente pensa che sia io a lamentarmi, e se la ride sotto i baffi. I gemiti però continuano imperterriti. Successivamente si sente qualcuno russare forte, molto forte, come se volesse disturbare i due amanti. Di nuovo Davide si immagina che sia io. Dopo un buon quarto d’ora la situazione sembra però essersi calmata, e Davide rientra così in camera, pronto a prendermi in giro per i miei pestoni sul muro ed il mio russare. Ma contrariamente alle sue aspettative, sto dormendo come un agnellino! Sono totalmente ignaro di quanto successo! Normandia Oggi è tempo di puntare a quella che sicuramente è una delle tappe più interessanti dell’intero viaggio: la visita alle spiagge dello sbarco in Normandia. Questa colossale operazione militare, la più 32 grande della Storia intera, non ha certo bisogno di presentazioni. Un conto però è averla letta sui libri di storia, apprendendo delle centinaia di migliaia tra uomini, mezzi pesanti, aerei e carri armati che hanno partecipato alla liberazione del suolo europeo dalla potenza tedesca, un conto è calpestare coi propri piedi i luoghi dove questa tanto colossale quanto sanguinosa operazione ha effettivamente avuto luogo! Stiamo parlando di cinque spiagge a nord di Bayeux, denominate in codice Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword, le quali si estendono per circa settanta chilometri in tutto. Nelle prime due sbarcarono le divisioni americane, nella terza e nella quinta quelle inglesi, nella quarta quelle canadesi. Altri paesi si unirono all’operazione, come la Norvegia, la Polonia ed il Belgio, per dar vita ad una giornata che rimarrà per sempre nella Storia: 6 giugno 1944, che noi oggi chiamiamo D-Day. Curiosamente, il giorno che ha cambiato la storia sarebbe dovuto inizialmente essere il 5 giugno, ma l’intera operazione venne rimandata a causa di un terribile maltempo! Sembra facile trovare le condizioni giuste per far sbarcare un intero esercito su qualche decina di chilometri di spiagge, che non erano certo tranquilli e serafici lidi balneari sui quali prendere la tintarella… I tour guidati sono organizzati dall’albergo della stazione, che ieri non aveva camere per noi, ma che si spera oggi abbia due posti da riservarci per la gita. Arrivando all’albergo abbiamo già notato il piccolo furgoncino nero parcheggiato fuori, che ha una capacità di otto posti e reca la scritta “Normandy Tours”. Di nuovo ci preoccupiamo di non trovare posto: se gli alberghi di questa città sono tutti così pieni, e questo in particolare, come possiamo sperare di trovare due posti per questi presumiamo richiestissimi tour? E invece li troviamo, senza apparente difficoltà. Il gestore dell’albergo è un piccolo uomo eccitabile, dai modi di fare concitati ed involontariamente comici. Si affanna a spiegarci, in buon inglese, tutto ciò che andremo a vedere in questo tour, dove ci fermeremo, quanto ci metteremo, e via dicendo…non smette un secondo di parlare, sempre con questo tono di voce frenetico, ma si dimostra molto gentile. Peccato che non ci lasci mai rispondere a nulla, anticipando sempre quello che vogliamo dire e parlando praticamente solo lui. Ci lascia giusto pagare in pace, per il resto non smette un attimo di bombardarci di informazioni e di rassicurazioni. Dopo avergli lasciato i soldi, ci raccomanda in modo quasi parossistico di farci trovare lì davanti “…a few minutes…BEFORE one o’clock…in modo da poter fare l’appello e partire in orario. Ripete più volte quel “Before”, con una particolare enfasi, noi intanto tentiamo di rassicurarlo sul fatto che saremo lì per l’ora che ci ha detto, ma insiste a chiederci questo immane favore con una foga indomabile, sembra che dipenda la sua vita da questo. Quando finalmente ci lascia andare, siamo un po’ storditi dalla sua furia dialettica, ma tutto sommato quest’uomo ci sta simpatico. Lo eleviamo immediatamente a “uomo dell’interrail”, consapevoli che ben difficilmente troveremo un tipo simile nel raggio di mille miglia da qui! Abbiamo ancora qualche ora da passare in giro, e sempre dietro appassionato consiglio dell’albergatore andiamo alla tapisserìe dove è esposto il celebre Arazzo di Bayeux, che raffigura su una tela lunga ben settanta metri le vicende di Guglielmo il Conquistatore mentre invade l’Inghilterra nel 1066. Ovviamente sapevamo già della sua esistenza e la visita era già stata messa in conto da tempo, ma non abbiamo osato spiegarlo al sovreccitato uomo! Meglio assecondarlo. Di fronte a questa lunghissima tela, ripiegata su se stessa a forma di U per farla stare tutta nel museo, l’audioguida automatica ci spiega in un italiano un po’ stentato tutte le vicende che si susseguono nelle settantadue scene. Guerrieri dalle teste mozzate, ambasciatori, navi, tempeste, armi… C’è raffigurato di tutto, perfino il passaggio della periodica cometa di Halley, che avvenne proprio nell’anno 1066. Non ci possiamo mai fermare ad osservare bene una scena, dobbiamo sempre camminare per non perdere il filo del discorso, ed in men che non si dica siamo già arrivati in fondo al lunghissimo arazzo. Quanto lavoro per costruire un’opera d’arte simile! E soprattutto quanto è conservata bene, nonostante abbia quasi mille anni di età! Dopo il fastoso arazzo, si torna alla stazione per partire finalmente con questo tour. Per mezzogiorno e mezzo siamo già pronti davanti all’albergo, col nostro piccolo grande personaggio che ci ringrazia calorosamente di essere già lì e ci concede di sederci nel piccolo porticato, colmo di piante. Chissà se almeno adesso si sia finalmente tranquillizzato sulla nostra puntualità. Dopo poco arrivano le altre 33 persone che hanno prenotato il tour, e così scopriamo di essere sette in tutto, incluso l’autista. Ciò significa che rimane un posto libero nel già piccolissimo furgone! E noi che pensavamo fosse tutto esaurito da chissà quanto! I compagni di escursione sono tre americane del Tennessee, due inglesi e l’autista, un francese che però parla ottimamente inglese e spagnolo. Il suo inglese è pesantemente contaminato dall’accento francofono, ma è comunque pienamente comprensibile. Anzi, probabilmente capiremo meglio lui, che non è di madrelingua inglese, rispetto ad uno che lo fosse: le persone anglofone di nascita sicuramente parlano molto più veloce e con meno attenzione a farsi capire da tutti, essendo abituate appunto a parlare inglese da sempre. Con noi due italiani a chiudere la comitiva, il pulmino è cosmopolita. Stipati su questo trabiccolo partiamo alla volta del primo paesino situato lungo le coste normanne: Arromanches. Attraversando piccoli borghi e vaste pianure inondate da un sole che oggi invade ogni angolo di Terra disponibile, giungiamo a questa minuscola cittadina marittima. Arromanches è sede di un importante museo commemorativo, poiché è il luogo in cui gli Alleati costruirono un porto artificiale, dopo essersi resi conto che non sarebbe stato possibile utilizzare i porti di Cherbourg e Calais, pesantemente presidiati e fortificati dai tedeschi. Così pensarono: se il porto vero non possiamo usarlo, ce ne costruiremo uno nuovo! Dalla spiaggia sabbiosa sono ancora visibili i rimasugli, circondati dall’acqua. In particolare i cassoni Phoenix sono facilmente distinguibili: queste mostruose scatole di cemento, pesanti come un’intera Tour Eiffel, venivano trasportate sul posto e poi riempite d’acqua tramite un meccanismo ad ingranaggi, così da farle affondare, una dopo l’altra. Si andavano così ad accumulare le une sulle altre, andando a costituire le fondamenta del porto artificiale. Nel museo è rimasto l’ultimo esemplare di volano bronzeo che veniva usato per l’apertura e la chiusura. Nulla è stato lasciato al caso nell’organizzazione: prima di trasportarle i cassoni in zona, essi erano stati fatti affondare nel Tamigi, per non dare troppo nell’occhio. Il porto era di dimensioni impressionanti: poteva scaricare centinaia e centinaia di camion e mezzi pesanti all’ora, insieme a migliaia e migliaia di uomini. Visitiamo il museo con estremo interesse, osservando tutte le riproduzioni in scala del vecchio porto, i plastici animati che riproducono i suoi movimenti in rapporto con le onde, le vecchie armi fortunatamente ormai dismesse e piombate, le divise mimetiche. Il tutto è vagamente inquietante, così come lo sono i vecchi cannoni contraerei che stazionano fuori dal museo, posti accanto a giostre per i bambini e negozi di souvenir, che coesistono con i residuati bellici senza il minimo imbarazzo. Fa un certo effetto vedere un’allegra e spensierata giostra di fianco ad un cannone che sessant’anni prima faceva esplodere aerei in un’impressionante nube di fuoco, incenerendo vite umane in pochi secondi e consegnandole all’oblio. La tappa successiva è Longues Sur Mer, un promontorio sul mare distante una ventina di miglia dalle casematte tedesche, che ancora fanno la loro inquietante figura in mezzo ai prati brulli ed assolati. Questi blocchi di cemento ospitano i cannoni antinave che avevano appunto un raggio di tiro di venti miglia, e che dalla tal posizione potevano mirare sia alla spiaggia di Utah, ad ovest, sia alla spiaggia di Omaha, più ad est. Curiosamente, il giorno dello sbarco i cannoni spararono ma non colpirono nemmeno una nave alleata, così come gli alleati non riuscirono a colpire ed a disarmare dalla distanza nemmeno un bunker. Solo uno dei quattro o cinque presenti ha degli evidenti segni di bombardamento, ma è stato distrutto solo nella parte posteriore, ed evidentemente il danno non è stato sufficiente a renderlo inservibile. Ora tacciono per sempre, si spera, ma seppur riadattati ad attrazione non possono essere visti senza un vago senso di timore, specie quando si visita l’interno, terribilmente claustrofobico. Il mare blu è perfettamente visibile all’orizzonte, la giornata è tersa e dalla parte opposta delle spiagge si estendono per chilometri e chilometri dei campi coltivati e boschi. Il paesaggio, preso in sé, potrebbe sembrare una tranquilla e serena zona rurale. Chi sospetterebbe, se non ci fossero questi cannoni ancora minacciosamente puntati verso le rive, che qui ci sia stata la guerra anni e anni fa? Che le persone che si trovavano dentro le casematte vivevano nel terrore di essere spazzate via tanto quanto le persone che stavano sbarcando sulla spiaggia con le navi? Sembra tutto così ameno e pacifico ora… La visita ai bunker è breve. Cinque minuti è il tempo che ci viene concesso per esplorarli e fare qualche fotografia e ripresa, prima di ripartire per raggiungere il cimitero militare americano di Saint 34 Laurent, posto proprio sopra la terribile spiaggia di Omaha Beach, dove il massacro dei soldati americani fu ingente e per poco non causò il fallimento dello sbarco. Dobbiamo passare per numerosi controlli e metal detector per poter accedere al museo sotterraneo, controlli che nemmeno al Louvre abbiamo dovuto subire in maniera così sollecita, ma pazienza, l’ingresso per noi è gratuito e possiamo sopportare i lievi fastidi delle perquisizioni. Il museo ospita molti ricordi della battaglia e dispone di un terminale per cercare il nome di eventuali nonni o bisnonni morti in battaglia tempo fa, cosicchè non se ne perda la memoria. Cosa penserebbero i combattenti morti in battaglia, magari ragazzi di vent’anni che avrebbero preferito rimanere a casa a studiare e a costruirsi un futuro, se sapessero che ora nessuno si ricorda più di loro? Come minimo dovrebbero tornare e prendere a calci chi ancora propugna guerre in giro per il mondo, condannando alla stessa sorte altre persone! Presto ci troviamo nuovamente all’aria aperta, pronti a girare per le più di novemila tombe che compongono il cimitero militare, uno dei diciotto totali che sorgono in Normandia. La maggioranza delle tombe sono croci latine, inframmezzate da qualche ebraica stella di Davide. Il numero totale delle tombe è impressionante, anche se in effetti è minore di quello che sembrerebbe dopo aver abbracciato con un’unica occhiata circolare tutto il cimitero. Ogni tomba reca nome e data di nascita di qualcuno che non abbiamo la più pallida idea di chi sia, ma che in quegli anni ha combattuto, forse volente o forse nolente, per liberare l’Europa. Su alcune tombe non c’è nemmeno un nome, ma un anonimo “Un compagno di armi, conosciuto solo a Dio”. Soldati non identificati, spesso della nostra età o anche più giovani, che non possono essere citati con l’unica cosa che ne conservava l’identità e la dignità in battaglia: il nome. Liberi dall’inquietudine che ancora una volta fa capolino alla vista di tutta questa morte insensata, è tempo di visitare e calpestare la famigerata spiaggia di Omaha Beach, che si estende da Sainte Honorine des Pertes fino a Vierville Sur Mer, per un totale di otto chilometri. Sembra una normalissima spiaggia balneare, se non fosse per due monumenti commemorativi che la decorano: un monolite con incise poche malinconiche frasi, più una serie di lingue di pietra dalle forme aguzze, messe proprio in mezzo alla sabbia e circondate da un basso recinto per impedire che qualcuno ci cammini in mezzo. Per il resto, i bambini piccoli fanno il bagno insieme ai genitori oppure costruiscono castelli di sabbia, mentre i più anziani si rilassano al sole. Di nuovo è strano pensare a cosa stava succedendo su queste spiagge qualche decina d’anni fa! Questa fu la spiaggia che più di tutte fu macchiata dal sangue dei soldati alleati, costretti a difendersi con le unghie e coi denti di fronte ad una resistenza tedesca accanita, che rese quasi impossibili le operazioni di sbarco ed in particolare lo scarico dei veicoli di supporto. Solo due veicoli, dei quarantaquattro previsti, riuscirono a sbarcare sulla spiaggia, con prevedibili effetti: i soldati appiedati non poterono contare su un valido supporto e dovettero farsi strada con la forza della disperazione, spesso scavalcando i cadaveri dei loro compagni morti. A fare il gioco dei tedeschi si ergeva un muraglione di terra, ora scomparso, dall’alto del quale si sparava all’impazzata sui soldati americani appena sbarcati, decimandoli senza dar loro il tempo di organizzarsi né contrattaccare. Dopo una giornata infernale le truppe americane ebbero la meglio, forti di una grande superiorità numerica, riuscendo finalmente ad assumere il controllo della spiaggia e a spazzar via le fortificazioni tedesche. Ma a quale prezzo! Ultima tappa del tour è Pointe du Hoc, collinetta che venne raggiunta dagli Alleati solo dopo aver scalato le ripide scogliere rocciose che la proteggono. A suo modo è ancora una volta impressionante: le colline sono piene di crateri, creati dalle esplosioni delle granate. Non c’è un angolo di terra libero da queste voragini, che sono rimaste nonostante l’erba sia ricresciuta anche sul fondo dei crateri, come se nulla fosse successo. Le torrette di guardia tedesche sono aperte ai visitatori, e la storia che vi sta dietro è piuttosto curiosa: gli Alleati sapevano che c’erano delle fortificazioni in questa zona, con armi ad ampio raggio, e scalarono le scogliere per andarle a disarmare prima che potessero infliggere pesanti danni alle navi. Il problema fu che, non appena fecero irruzione, scoprirono che le armi erano finte! Casualmente gli alleati trovarono poi le vere armi a poca distanza, mentre sparavano da postazioni protette e non visibili se proprio non ci si fosse trovati per caso, e così furono finalmente 35 disarmate e distrutte. Il promontorio è piuttosto ventoso ed il cielo si sta rannuvolando, tuttavia riusciamo comunque a scorgere in lontananza le coste dell’Inghilterra! Sono solo accennate, ma indiscutibilmente quella sottile striscia nerastra non può essere altro che la terra inglese. Con questo ultimo piccolo regalino lasciamo le spiagge degli sbarchi in Normandia per tornare a Bayeux, in mezz’ora di strada. Congedatici dal gentile autista e dal simpatico organizzatore, è tempo di andare a dormire. Tra meno di dodici ore si riparte verso una città conosciuta, che diede anche l’ambientazione ad alcune parti dell’opera prima di Flaubert, Madame Bovary. Stiamo parlando di Rouen, città che siamo riusciti ad aggiungere alle nostre tappe in seguito ad un insperato guadagno di tempo che abbiamo realizzato nella nostra tabella di marcia. Rouen Una lieve ed appena accennata pioggerella ci attende questa mattina presto, mentre andiamo a fare rifornimenti al supermercatino di Bayeux. Oggi è la prima volta che piove di giorno da quando siamo partiti, e ci auguriamo vivamente che sia l’ultima, poiché in viaggio si sta decisamente meglio senza pioggia. Alla stazione vengo assalito da un sonno piuttosto violento, ma resisto stoicamente, finchè non passa un treno a tutta velocità il quale produce un rumore allucinante di ferraglia e fischi, e “grazie” ad esso mi sveglio completamente. Il nostro treno, che arriva una ventina di minuti dopo, è ancora una volta costituito da un vagone solo, ma decisamente più ampio e spazioso di quello usato per arrivare a Pontorson. Dal finestrino vediamo nebbia, villaggi sperduti in mezzo alle campagne, poi ancora nebbia, nebbia, nebbia…una giornata nebbiosa insomma. Tutta questa foschia concilia ancora il sonno, ma non mi addormento poiché la mia fedele musica mi tiene ben sveglio. Nella mia compilation non mancano certo i brani “nebbiosi” da conciliare con il paesaggio, ed infatti li seleziono accuratamente. Stazione dopo stazione, paesaggio dopo paesaggio, arriviamo finalmente alla cittadina di Rouen. Impressioni contrastanti derivano dal primo impatto con essa: sembra piuttosto degradata, a cominciare dall’albergo che definire spartano e minimale è dir poco. I muri sono tutti scrostati, le tubature dell’acqua occupano un intero angolo di camera e sono in bella vista, ma tutto sommato il prezzo si può ancora definire onesto. Tuttavia, dobbiamo sorbirci un altro matrimoniale! Sta decisamente diventando un’abitudine! Vagando per le strade della città si possono notare ovunque case dall’aspetto peculiare: la facciata è composta da travi di legno, alcune di colore più scuro rispetto alle altre. Queste ultime vanno a formare vari disegni e combinazioni, e mi ricordano molto le case di Bergen e di altre cittadine scandinave. Forse solo questo salva Rouen dall’impressione di mediocrità che immediatamente mi comunica. Non so perché, ma mi aspettavo decisamente di più. Un’interessante eccezione alla regola è la torre in cui fu rinchiusa l’eroica Jeanne D’Arc, da noi chiamata Giovanna D’Arco, in attesa del processo che l’avrebbe poi condannata al rogo. È l’unica parte rimasta in piedi di un vasto castello che comprendeva quattro di queste torri, e ne siamo gli unici visitatori, arrivati proprio nel momento in cui sta aprendo. Poco dopo tocca alla cattedrale di Rouen, che come ho già citato fece la fortuna del pittore Monet. La sua facciata è sostanzialmente diversa da quella di tutte le altre cattedrali finora viste nelle altre città: molto più frastagliata, ricca di intarsi e statue, e dal colore molto più scuro, non so se per via dell’inquinamento o perché sia proprio costruita in questo modo. Questi seppur bei monumenti non riescono però ad infrangere l’aria di pesantezza e di tristezza che aleggia sulla città, e purtroppo quando ho quest’impressione significa sempre che il luogo non mi potrà mai piacere più di tanto. Sarà forse la stanchezza che ha ricominciato a fare capolino, ma mi sento decisamente svogliato e non ho voglia di muovermi, trascinandomi per le strade quasi forzatamente. Passeggiamo un po’ sulle rive della Senna, accerchiati da individui poco raccomandabili, tra cui uno veramente pittoresco, se così si può definire: indossa pantaloni jeans stracciati, una giacca anch’essa jeans, e porta dei curiosi rasta biondo platino. Sta camminando nella strada parallela alla nostra, tutto frettoloso, quando all’improvviso si gira contro il muro e inizia ad urinare nel bel mezzo del marciapiede! Chissà quanta cocaina risulterebbe da un drug test effettuato su quel fiume che si sta allargando sulla strada. Dopo 36 aver fatto allegramente i suoi bisogni, monta in moto e scompare…ma solo per un po’. Girato l’angolo lo ritroviamo mentre discute animatamente con un automobilista ad uno stop, dopodichè l’automobile prosegue dritta, mentre il dubbio motociclista sterza e sale sul marciapiede (!), aprendo il gas al massimo! Fortunatamente il marciapiede è deserto, altrimenti qualcuno sarebbe certamente stato investito. Che quel tizio fosse uno scippatore che riceveva istruzioni dal suo “manager” per poi tuffarsi a peso morto tra i passanti tentando di rapinarne qualcuno? Meno male che è andato nella direzione opposta alla nostra! Così passa la nostra giornata a Rouen. Un filo noiosa direi, e non mi dilungo ulteriormente a raccontare poiché non trovo proprio nient’altro da dire in proposito. Probabilmente è solo una mia impressione, poiché Rouen è una meta turistica piuttosto gettonata, ma non posso farci niente se proprio non riesco a farmela piacere. L’unica cosa divertente che ci capita in loco è comprare il giornale alla stazione e leggere della recente notizia di una tazza tirata contro la Gioconda da un’inviperita signora russa a cui è stata negata la cittadinanza francese. Ovviamente non l’ha danneggiata, il vetro blindato ha fatto il suo dovere. Guardando però la data dell’evento scopriamo che è successo proprio il giorno in cui noi eravamo al Louvre! Ai tempi non ci siamo ovviamente accorti di nulla, anche perchè la notizia è stata pubblicata solo ora. Il resto della serata lo passiamo in albergo a guardare un po’ di televisione francese, spanciandoci dalle risate con un gioco in stile “Ok, il prezzo è giusto”…momenti fantastici quando i concorrenti devono indovinare un numero e hanno solo trenta secondi per arrivarci il più vicino possibile. Il suono di numeri lunghissimi gridati freneticamente in francese ha per noi degli effetti comici irresistibili. Falàises Etretat, situata sul mare a poca distanza da Le Havre, è una cittadina demograficamente irrilevante, che però ospita uno dei più interessanti spettacoli della natura che mi sia capitato di vedere finora. Ha costruito tutto un mondo attorno a sé grazie alle falesie che ospita, ossia formazioni rocciose insolite ed assolutamente naturali. Raggiunta con un paio di cambi di treno e autobus, spulciati con pazienza diversi mesi prima di partire, è prima di tutto una cittadina deliziosa. Le strette vie sono colme di fiori, casette variopinte, panchine ed angolini pittoreschi, che rendono un piacere camminare lungo di esse, nonostante la mole di turisti che anche qui non manca. Superato un piccolissimo crinale dopo il quale finisce il paese, lo spettacolo che ci troviamo davanti all’improvviso è già fantastico: davanti a noi il mare, con una spiaggia interamente ghiaiosa sulla quale tuttavia molte persone stanno prendendo il sole, sdraiate sui loro asciugamani. Alla nostra destra una collina rocciosa ospita una piccola chiesetta, che si staglia solitaria a dominare il paesaggio, mentre ai piedi della collina stessa c’è un ammasso di roccia con una piccola apertura attraverso la quale scorre l’acqua, formando un piccolo faraglione che si unisce alla parete rocciosa tramite un’appendice. Questa è l’architettura basilare di una falesia, e difatti qui ne è pieno. Alla nostra sinistra si trovano le falesie vere e proprie, molto più grandi di quest’abbozzo: per ora possiamo vedere solo un faraglione più grande, che sembra sia formato solo da un’unica lingua di roccia, mentre avvicinandoci possiamo vedere che sono due, fusi alla roccia madre nella parte più alta. Sotto le alte e bianche scogliere si trova una spiaggia limacciosa, coperta di alghe verdastre inframmezzate a ghiaia. Ma sono proprio le scogliere ad essere impressionanti: nonostante siano naturali, sembrano cesellate dalla mano dell’uomo. Man mano che saliamo per il sentiero che porta in cima alle scogliere, si aprono sotto di noi dei dirupi scoscesi, appendici di roccia nelle quali prosegue il sentiero con una traversina e su cui ci si può fermare per osservare la situazione da un punto di vista un po’ più separato dal fiume di persone che salgono e scendono. Gli scogli sono bianchi, ma si notano benissimo tutti gli strati che l’acqua ha scavato poco alla volta, infatti sembrano tutti sovrapposti l’uno all’altro come se fossero fette di formaggio stagionato impilate. Dalla cima lo spettacolo è notevole: qualche dente di roccia solitario ed aguzzo spunta dal mare, bianchissimo, mentre dal mare si estendono spiagge ghiaiose sovrastate da scogliere praticamente verticali. Solo pochissime persone stanno percorrendo quelle spiagge, un centinaio di 37 metri più in basso, consapevoli che qui l’alta marea non perdona: bisogna stare attenti a rientrare prima che venga tutto sommerso. Alla fine della spiaggia c’è un altro enorme faraglione, unito al resto della scogliera da un architrave naturale, come a formare una solenne porta di pietra. I cordoni rocciosi sembrano le gambe di un gigante, potenti e granitiche. Nei verdissimi prati sulla cima delle scogliere, cioè dove ci troviamo noi ora, le persone non mancano, così come i gabbiani, ma tutto sommato non c’è intralcio di alcun tipo. I prati sono troppo grandi per non riuscire a trovare un angolo appartato dove piazzarsi a meditare un po’, riscaldati da una stella che oggi non trova nemmeno un brandello di nubi ad ostacolare il suo dominio. L’unica nota veramente stonata è la presenza di campi da golf creati proprio dietro di noi, a qualche centinaio di metri di distanza dal limite delle scogliere. Le macchine tagliaerba non smettono un solo secondo di percorrere in lungo ed in largo il campo, ma per fortuna non ci arriva il loro disgustoso rumore, sarebbe il colmo. Rovinare in questo modo un sito naturale di una bellezza così straordinaria! Assurdo! Distogliamo in fretta lo sguardo dall’obrobrioso campo da golf, poiché girandoci dalla parte opposta rimaniamo veramente senza fiato. Ci sistemiamo in un angolino di roccia, praticamente sospeso tra due strapiombi, uno che guarda sulla spiaggia e l’altro che guarda sull’acqua. Delle sedie naturali di roccia saranno i nostri troni dove ci siederemo a mangiarci una salutare baguette al prosciutto, mentre un leggero venticello ci rinfresca al punto giusto e senza mai esagerare, spazzando anche via quei minuscoli brandelli di nuvole che osano ancora resistere ad una giornata così splendida. Non capita spesso di potersi rilassare in un luogo così ameno, e siamo intenzionati a far durare questi momenti il più a lungo possibile, anche se sappiamo che come al solito il tempo li brucerà ad una velocità spaventosa. Sappiamo tutti che un’ora passata in relax in mezzo alla natura dura un secondo, mentre un secondo passato in mezzo a puzzolenti fumarole di traffico urbano dura un’ora. Ad assistere al nostro frugale pasto c’è un gabbiano molto curioso, che continua ad avvicinarsi a noi fino a meno di un metro di distanza, osservandoci con quegli occhi inespressivi che però lasciano intendere facilmente che l’animale è alla ricerca di qualcosa di commestibile da scroccare. Questo coraggioso uccello è solo nella sua impresa: tutti gli altri si tengono a distanza, pronti però ad intervenire nel caso abbassiamo la guardia. La presenza dello sgradito ospite a volte si fa inquietante, in quanto non si muove, fissando sempre me e il mio panino, ed ignorando totalmente Davide. Tuttavia non vengo assalito, e lasciamo a questo golosone un po’ del prosciutto avanzato come premio per la sua tenacia. Prosciutto che si pappa immediatamente per poi spiccare il volo e sparire! Che razza di opportunista! Dopo un’oretta di pausa contemplativa, in cui le parole ed i commenti risultano piuttosto superflui, ritorniamo in basso per tentare di ammirare anche da sotto queste rocce. La ghiaia della spiaggia è molto grossa e si fatica a camminarci sopra, i piedi sprofondano ad ogni passo e sembra di camminare su un terreno particolarmente molle. Giungiamo proprio ai piedi delle scogliere, lasciati completamente in ombra dal sole. Camminare è insidioso: le alghe inzuppate ricoprono le rocce incastonate di conchiglie, intervallate frequentemente da delle pietruzze levigate e lucenti di colore bordeaux. Ci sono anche delle grotte dalle pareti umidicce, scavate lungo le scogliere assolutamente verticali, che creano un forte contrasto tra l’azzurro del cielo e il buio sottostante. Superando un masso lambito da due corsi d’acqua arriviamo nell’altra spiaggia, ma non possiamo avventurarci più di tanto poiché la marea sta già iniziando a salire. Dopo aver passato qualche decina di minuti esplorando il suolo e le rocce, ritornando indietro per lo stesso posto notiamo che i piccoli rivoli che toccavano appena il grosso masso ora si sono già gonfiati e si preparano a sommergerlo. Siamo solo all’inizio, ma è meglio essere prudenti e tornare, anche perché ci manca da vedere tutto l’altro versante. Esso non è ricco di meraviglie, è semplicemente un prolungamento della lunga spiaggia che termina con la piccola formazione rocciosa che abbiamo intravisto inizialmente. Sotto di essa possiamo vedere una barca a vela che proprio ora sta passando, insinuandosi nella stretta fessura. Sarebbe una posizione perfetta per una fotografia, ma non siamo sufficientemente veloci e soprattutto siamo troppo lontani, altrimenti sarebbe stato un bellissimo scatto! Ci accontentiamo dunque di arrivare dove la spiaggia finisce. Camminando incrociamo un individuo che sta tendendo dei nastri rossi e bianchi tra dei paletti, e per un attimo temiamo che stia chiudendo la spiaggia, ma fortunatamente se ne va quasi subito e possiamo passare dall’altra parte. Chissà cosa stava cercando 38 di fare! Stravaccati su un masso isolato osserviamo un po’ le onde del mare che smuovono appena la grossa ghiaia della spiaggia, senza pensare a niente in particolare. Dopo mezz’ora la spiaggia non ha più attrattive, e preferiamo salire sulla montagnetta dove si trova la chiesetta bianca. Il sentiero è impervio, nonostante non sia particolarmente lungo, ma abbiamo già camminato molto ed iniziamo a sentire un po’ di fatica. Finalmente arriviamo in cima, ma le panchine sono tutte occupate, così ci sediamo contro il muro della chiesa a prendere ancora un po’ di questo solleone che non si è ancora stancato di arrostirci. Inevitabile il momento di sonnolenza: il bus che ci riporterà indietro passerà tra un paio d’ore, ma non abbiamo comunque fretta di scappare. La giornata è troppo bella ed il luogo pure. Potevamo capitare qui con qualunque condizione atmosferica, ed invece siamo capitati proprio nella più bella delle giornate possibili. Sarà un segno di benevolenza divina? Semplice fortuna? Non lo possiamo sapere, ma qualunque cosa sia l’accogliamo con riconoscenza! Quando siamo stanchi di rosolare al sole torniamo in paese, girovagando per le stradine con fare rilassato. Stranamente, le automobili si mescolano ai pedoni in modo sregolato, senza la presenza di zone pedonali che qui sarebbero decisamente utili. Slalomando un po’ tra persone e veicoli riusciamo a raggiungere una zona tranquilla, dove c’è un negozio di prodotti locali, in buona parte consistenti in vini ed alcolici vari. Scatta subito la lampadina: perché non comprare una bottiglia per festeggiare stasera, come da nostra tradizione interrail che abbiamo cominciato l’anno scorso comprando il vermouth ad Helsinki? Presto detto, presto fatto. Cinque o sei bottiglie di ottimo sidro stazionano all’esterno su un tavolino, scontate di una generosa percentuale, e ce ne accaparriamo subito una. La gradazione alcolica è molto leggera, circa il 4 per cento, e ciò è un bene dato che domani mattina ci alzeremo alle sei in punto per partire per Bruxelles. Stiamo per abbandonare la Francia, terra controversa ma indubbiamente interessante, e ci vuole un brindisi di commiato. Ritornati nella piazza principale aspettiamo una mezz’ora abbondante sotto il solito sole infuocato, senza riuscire a trovare una qualsiasi panchina all’ombra, finchè finalmente passa l’autobus che ci riporta nella stazione di Breaute, dalla quale poi puntiamo di nuovo verso Rouen. La cena che ci concediamo per dare l’addio alla Francia è epica: una mostruosa baguette ripiena all’inverosimile di prosciutto (un menu monotono, ma è a buon mercato e una baguette in Francia non si rifiuta mai), dolci a tutto spiano e la bottiglia di sidro, che tracanniamo velocemente, forse fin troppo velocemente poiché agli ultimi sorsi mi sale una nausea prorompente che riesco a domare solo dopo qualche sforzo. Rilassandoci finalmente con le solite trasmissioni televisive a quiz, dove un altro concorrente sta gridando numeri sempre più strampalati con la tipica R francese, finalmente si dorme. Non c’è bisogno che ci parliamo per sapere che oggi abbiamo toccato forse la vetta più alta dell’intero viaggio. Ma non è finita ancora…manca il Benelux! La nostra guida, finora consultata come una Bibbia, improvvisamente perde di validità. Bruxelles Per raggiungere la capitale belga dobbiamo ripassare da Parigi, poiché non esistono collegamenti diretti tra Rouen e gli stati esteri. Per giunta dobbiamo farci chilometri e chilometri di metropolitana e di camminate per raggiungere la stazione opposta a quella in cui arriviamo, poiché le stazioni di Parigi sono sei ed ognuna si occupa delle partenze per zone geografiche diverse. Nella stazione parigina qualche problema gastrointestinale fa capolino per tutti e due, probabilmente conseguenza di tutto questo movimento e del sidro bevuto ieri sera. Non badiamo a spese e tiriamo fuori dal portafogli l’euro necessario per avere accesso alle toilette, che ci salvano da una situazione potenzialmente ingestibile! Ma tutto il marasma enterale scompare piuttosto in fretta quando finalmente arriva il veloce treno per Bruxelles, che in poche ore di viaggio ci catapulta in una città a dir poco ambigua. Avvicinandoci alla stazione centrale il treno rallenta sempre di più, con l’esasperante lentezza di tutti i treni che stanno per fermarsi, e si delinea così ai nostri occhi un agglomerato di baracche e capannoni industriali anneriti, orrendi tralicci, cumuli di lamiere, tanto che sembra di essere finiti nel Terzo Mondo, se non fosse per gli svettanti palazzi di vetro che spiccano sull’intera città da lontano. Una volta scesi dal treno, l’impressione generale che abbiamo è di essere capitati in un porto di mare 39 cosmopolita, ma nel senso negativo: il degrado è piuttosto evidente. Dovunque andiamo troviamo individui poco raccomandabili, specie nelle stazioni e nelle metropolitane. C’è chi spintona, chi bofonchia frasi incomprensibili ai passanti, chi sale ad una fermata della metropolitana, declama un delirante discorso in francese, e poi scende alla fermata successiva…insomma la città fin da subito ci fa una brutta impressione. Perlomeno l’ostello è serio e tranquillo; questa volta dormiremo in una camerata da sei persone, ed è la prima volta in tutto il viaggio che non abbiamo una stanza tutta per noi. Si spera che i nostri compagni di camera siano persone tranquille e che magari riusciremo ad intavolare un po’ di conversazione, poiché in due prima o poi gli argomenti iniziano a scarseggiare! Dopo la canonica ora di riposo post viaggio, partiamo subito con la visita della città, che però mi entusiasma poco. Capitiamo per prima cosa in un inquietante e semideserto quartiere a luci rosse: se ne accorge per primo Davide, il quale sta filmando tranquillamente i palazzi, e ad un certo punto sente battere nervosamente su un vetro dietro di lui. Girandosi, scopre che dietro il vetro sta una prostituta, la quale ci fa segno di levarci subito di mezzo! Magari pensava che stesse filmando lei. Altri individui non ben identificabili stanno camminando per le strade proprio vicino a noi, una persona in evidente stato di ubriachezza arranca scompostamente in mezzo alla strada con non si sa quali intenzioni. Affrettiamo il passo sperando di uscire in fretta da questo quartiere degradato, che su un lato della strada è pieno di catapecchie e fumosi bar, mentre dall’altra parte è popolato da palazzoni come l’Orto Botanico, un colosso di almeno venti piani tutto lucente e perfetto. Peccato che dalla padella cadiamo nella brace: siamo finiti nella zona della Stazione Nord, sporca lurida ed affollata, stracolma di cinema porno e locali di dubbio gusto. Dobbiamo per forza entrare nella stazione per informarci sugli orari dei treni, ma nella zona dei tabelloni c’è un odore di piscio terribile che ci costringe a leggere in fretta gli orari per poi allontanarci altrettanto rapidamente. Non parliamo poi dei casi umani che si aggirano per la stazione ma che per fortuna non ci calcolano minimamente. Prendendo uno sgangheratissimo treno dalla medesima stazione, finalmente riusciamo a raggiungere il centro storico. Almeno qui troveremo qualcosa di decente, ci auguriamo. Sì e no: anche architettonicamente Bruxelles è piuttosto scadente. C’è qualche costruzione vagamente interessante, ma si può tranquillamente fare a meno di vederla. Per giunta, le strade sono piene di lavori in corso: ad ogni angolo c’è qualche cantiere con polverosi scavi ed orribili recinzioni gialle ed arancioni. Non abbiamo idea di cos’abbiano tanto da lavorare, ma quel che è certo è che tutti questi cantieri rendono ancora più brutta ed impraticabile la città. Anche un ragazzo italiano che incontriamo in metropolitana ci conferma le stesse impressioni: ma che ci stiamo a fare noi a Bruxelles? Lui la ritiene una “bella città”, ma un posto dove non c’è tanto da far vacanze. Io personalmente la ritengo un fiasco su tutta la linea. Perfino le chiese non sono un granchè. Davanti alla cattedrale c’è un parchetto con delle sedie a sdraio in legno, e lì ci fermiamo per riprendere un po’ di forze. Proprio qui mi viene l’idea: siamo proprio sicuri che Bruxelles meriti due giorni di visita, come da programma? Secondo me ce la possiamo benissimo fare ad esaurirla oggi e ripartire. Non so perché, ma restare qui mi infastidisce, vorrei solo andarmene il prima possibile. Sarà l’atmosfera di scarsa sicurezza e degrado che mi trasmette l’intera città, oppure l’effettiva mediocrità della sua architettura, o forse qualcos’altro ancora. Sta di fatto che premo decisamente nella direzione della fuga, e anche Davide sembra d’accordo con me, pur mantenendo qualche iniziale riserva come è sua abitudine. Del resto, uno dei vantaggi del viaggiare in interrail è appunto quello di poter decidere tappa per tappa cosa fare, senza essere vincolati da alcunchè. Dopo altro camminare, riusciamo ad incrociare perlomeno qualche spettacolo decente: un teatro dei burattini, poi due musicisti che con degli strumenti africani e la sola voce riescono a riprodurre i suoni di natura in modo eccezionale. Poco dopo però ricominciano le sorprese spiacevoli: mentre Davide sta tranquillamente filmando un monumento, un tizio seduto poco distante lo apostrofa irosamente in francese, probabilmente insultandolo perché pensa stia filmando lui invece del monumento. Immediatamente scompariamo tutti e due dietro l’angolo alla velocità della luce. Chi ha voglia di cercarsi grane con questi pazzoidi? Seriamente ogni minuto che passa aumenta il mio desiderio di andarmene il prima possibile. Non vale la pena nemmeno di descrivere quel poco di architettonicamente interessante ospita Bruxelles. Di famoso facciamo in tempo a vedere solo l’Atomium, da lontanissimo, e l’Europarlamento, raggiunto dopo un lungo peregrinare in zone assolutamente deserte dove non passa nemmeno una 40 persona né un’automobile. Dietro l’enorme e luccicante Parlamento Europeo sorge un parchetto con un normalissimo campo da basket dove dei ragazzi stanno giocando e qualche aficionado della bottiglia sta bevendo, stravaccato sulla sua panchina. Individuato uno spazio libero per noi, il più possibile lontano dagli onnipresenti ubriaconi, ci sediamo a riprendere fiato e a far riposare le gambe, decisamente massacrate. Qui faccio una scoperta strana: è da un po’ che sento pungere all’interno della scarpa quando carico il peso sul piede, ed anche rovesciandola per far uscire eventuali sassolini non cambia nulla. Esaminandola bene, scopro che in qualche modo tre graffette (!) sono riuscite ad infilarsi dentro la bassa suola, bucandola e trapassandola da parte a parte. Dove le abbia calpestate e soprattutto come abbiano fatto a conficcarsi così profondamente nella scarpa riuscendo addirittura a bucarla, non ne ho idea. So solo che passo un buon quarto d’ora a bestemmiare, armeggiando con la forchetta da cucina per estrarre questi ospiti sgraditi che mi stavano cominciando veramente a dar noia. Oggi veramente non ne va bene una! Ho sempre più voglia di scappare via… Abbiamo ora fame, è tardi e tutto sta chiudendo. Non c’è traccia di fast food aperti né niente, il cibo è finito e paventiamo di andare a letto senza cena, ma dopo un lunghissimo vagare finalmente capitiamo davanti ad un piccolo alimentari! Fatta la spesa in fretta e furia, scopriamo di essere gli ultimi clienti, poiché dopo che abbiamo pagato la cassiera chiude il negozio. Almeno questa ci è andata bene! Dopo aver cenato in un parco, questa volta senza essere infastiditi da nessuno, ce ne torniamo in ostello prima che faccia troppo buio. Se già Bruxelles è così inquieta di giorno, figurarsi la sera. Tornando indietro facciamo altri incontri con dei pazzi scatenati in metrò, poi con due tizi che hanno trovato per strada uno sdrucitissimo passeggino vuoto e lo stanno spingendo qua e là senza sapere dove buttarlo, e siamo proprio contenti quando varchiamo la porta dell’ostello e la richiudiamo a chiave, finalmente salvi. Al nostro ritorno in camera non c’è nessuno e non sappiamo dunque ancora nulla sui nostri compagni di stanza. Solo all’una e mezza di notte torneranno i quattro biondissimi occupanti, in un baccano infernale. Prendono le scale di metallo e le sbattono qua e là sui letti, tentando di incastrarle come abbiamo tentato anche noi di fare ma con scarso risultato. Non si rendono conto che c’è gente che dorme e che all’una di notte non si può fare questo casino da fabbrica? Facciamo finta di dormire per non doverli salutare, sono troppo irritanti. Gli scomodi inquilini smetteranno di far rumori di ogni genere solo dopo una buona mezz’ora, lasciandoci finalmente dormire. Per fortuna domani cambieremo camera, per esigenze di servizio, e speriamo che ci vada un po’ meglio in quanto a coinquilini. La giornata di oggi è stata decisamente da dimenticare. Brugges Affacciandomi alla finestra durante la notte, vedo uno strano spettacolo che mi mette un po’ in allerta. In lontananza mi sembra che un grosso aereo stia perdendo quota, ma non come se dovesse atterrare, sembra quasi che stia precipitando. Penso che sia una qualche genere di manovra, ma man mano che scende sembra picchiare sempre di più, è spaventoso! Dopo un po’ capisco che sta per schiantarsi, un aereo non può scendere con quell’inclinazione. Infatti si schianta, con un enorme botto e una luce fortissima che irradia nella mia direzione! E adesso che cosa faccio? Sembra che dal punto d’impatto sia sorto un arcobaleno, dai colori nettissimi e ben separati gli uni dagli altri, e che questo arcobaleno si trasformi a poco a poco in un vulcano che erutta lava e lapilli, sempre più vicino a noi, fino quasi a sommergerci…mancano pochi metri e verremo completamente distrutti! Aiuto! Aiut…!!!…Mi sveglio di soprassalto, madido di sudore e con i battiti del cuore a mille. Era solo un sogno, ma sembrava così reale! Sarà stata la stressante giornata di ieri a suggerirmi questi incubi…piano piano mi rilasso e mi riaddormento, questa volta sprofondando in un sonno senza sogni che dura fino alla mattina alle sette indisturbato. È una giornata piuttosto nebbiosa e grigia, ed in men che non si dica sbaracchiamo dalla camera con tutte le nostre cose, ci trasferiamo nell’altra camera e poi puntiamo ancora una volta la terribile stazione Nord per prendere il treno per Brugges, cittadina belga vicina al mare e molto famosa per i suoi canali, il suo sentore un po’ rustico e le pittoresche vie. Speriamo sia diversa da quest’insulsa capitale. Anche se oggi è domenica, passano comunque due 41 treni al giorno per Brugges. Appena giunti in stazione, che oggi è quasi completamente deserta, ne troviamo subito uno pronto a partire. Dopo un’oretta di viaggio, ci appare dinanzi agli occhi una città totalmente diversa: Brugges merita certamente una giornata di visita. Le sue viuzze sono contornate da canaletti, filari di alberi, ponticelli e casette in stile nordico, che ancora una volta mi ricordano un po’ le case di Bergen. Sono tranquille e pulite. Negli stagni convivono assieme cigni, anatre e i relativi brutti anatroccoli, che poi diventeranno meravigliosi cigni. Lungo le strade troviamo pozzi, fontane, mulini, statue equestri, bandiere belga, aiuole fiorite e recintate…è un piacere camminare per questi viottoli lastricati. Si capisce perché Brugges è una meta turistica più visitata di Bruxelles. Viene infatti definita la “Venezia del Nord”, anche se si contende il primato con diverse altre città! Nella piazza principale si erge un filare di casette tutte uguali con il tetto curiosamente scalato invece che liscio. Alcuni cavalli stanno trainando delle carrozze, mentre le persone sono in un fermento di attività, vista anche la vicinanza con una mostra di Dalì, che però costa così tanto da scoraggiarci immediatamente dall’entrare. Riprendiamo dunque a vagare per le stradine senza avere in mente una particolare destinazione, lasciandoci piuttosto guidare dall’istinto che ci porta spesso nelle strade meno battute e più nascoste. Lungo i canali, che non possiamo quasi mai fare a meno di costeggiare, passano continuamente barche turistiche, con il pilota al megafono che spiega costantemente tutta la storia della città a vagonate di turisti. Mi chiedo come arriverà alla fine della giornata, costretto a fare sempre lo stesso giro e a dire sempre le stesse cose! Dopo un po’ di camminata Brugges inizia a stancare, poiché le vie ed i canali sono pressochè tutti uguali. È tempo quindi di arrivare sul limite della città, dove sorgono diversi mulini a vento e il corso d’acqua è navigabile da navi più grandi e non solo da piccoli battelli. La camminata è molto rilassata, non abbiamo fretta di fare niente, e soprattutto non abbiamo fretta di tornare a Bruxelles, dato che ci dobbiamo passare ancora una notte prima di ripartire e lasciare il Belgio. Se dobbiamo annoiarci, è molto meglio farlo qui! Ma la noia se ne sta abbastanza lontana, tutto sommato. Un curioso spettacolo a cui assistiamo è il sollevarsi di un ponte navale, che quando è abbassato non permette alle navi di passare. Meglio non trovarcisi sopra mentre inizia ad alzarsi, altrimenti ci si potrebbe fare molto male, in quanto viene tirato su praticamente fino ad arrivare in posizione verticale! Con questo ultimo episodio abbiamo esaurito la cittadina, così torniamo lentamente alla stazione proseguendo lungo il viale alberato, e finalmente alla stazione troviamo le cassette per la videocamera, che Davide ha quasi esaurito avendo filmato per due ore dal primo agosto ad oggi. E il viaggio non è ancora terminato! Senza accorgercene abbiamo già girato un documentario che nessuno si aspettava! Socializzando I compagni di ostello che incontriamo nella nostra nuova camera (peraltro identica alla precedente) sono due ragazzi spagnoli, con i quali inizio quasi subito a socializzare nella loro lingua, giusto per fare ancora un po’ di pratica, ma anche perché me la cavo quasi meglio con lo spagnolo che con l’inglese. Anche se non capisco esattamente tutto quel che dicono, poiché parlano molto in fretta, si intavola comunque una conversazione interessante. Certo, non posso competere con un madrelingua e lo capiscono anche loro, ma apprezzano comunque il mio tentativo! Chiacchierando un po’ apprendiamo che sono due amici in vacanza assieme, uno abita a Valencia e l’altro a Madrid. Stanno facendo una vacanza in Belgio e in Lussemburgo, hanno visitato oggi Bruxelles e domani passeranno a Brugges come noi, per poi proseguire a nord verso Anversa, la seconda città più importante del Belgio. Non andranno nei Paesi Bassi come invece faremo noi, in quanto ci sono già stati tempo addietro. Una vacanza tranquilla, tutto sommato. Essendo spagnoli non possono fare a meno di chiederci del calcio, e quando scoprono che non m’interessa minimamente mi accusano addirittura di non essere un vero italiano! Qui s’invertono le parti, infatti Davide non sa lo spagnolo e finora non ha aperto bocca, ma quando si tocca il tasto del calcio si rianima, e chissà perché riesce ad intendersi perfettamente tra loro solo pronunciando i nomi dei giocatori e facendo cenni inequivocabili come commenti. Non ha problemi nemmeno a far capire per che squadra tiene: quando gli chiedono 42 “Milan?” lui risponde “No no, Inter! Milan BUUU!”. E quando vuole far capire quanto poco apprezzi Ronaldinho, non sapendo come si traduce “schiappa” in spagnolo, si fa intendere benissimo con un tranquillo “Ronaldinho merda!”. Più chiaro di così! Sono contento di aver trovato questi due ragazzi con cui parlare un po’, in quanto stando sempre in camere private è più difficile conoscere gente. Ma abbiamo rimediato, seppur in ritardo. Anche a loro Bruxelles non è piaciuta particolarmente: soprattutto trovano “ridiculo” il fatto che una statua di un bambino che fa pipì sia considerata il simbolo di Bruxelles. Approviamo in pieno, ma il fatto curioso è che ci siamo passati davanti ieri e nemmeno l’abbiamo vista questa statua! Evidentemente non eravamo poi tanto solleciti a guardarci attorno… I nostri nuovi amici dopo un po’ ripartono per continuare i loro giri, noi invece rimaniamo in ostello. È ancora presto, sono solo le tre di pomeriggio, ma non abbiamo assolutamente voglia di andare da nessuna parte né di fare alcunché. Ormai pensiamo solo ad Amsterdam, che raggiungeremo domani: la città del sesso e della droga, del liberalismo e della trasgressione, città che non può non esercitare un consistente fascino su due giovani della nostra età. La filosofia di vita olandese, improntata a separare le questioni morali da quelle sociali e alla tolleranza generale verso le stranezze altrui, l’ho sempre condivisa. Porta risultati anche in campo pratico: rispetto alla Francia, dove le sanzioni per il possesso di droga anche per uso personale sono pesantissime, l’Olanda ha un tasso di tossicodipendenza molto più basso, e sicuramente la liberalizzazione della droga è un efficacissimo modo per contrastare lo spaccio clandestino. Chiaramente di droghe leggere si parla, per quanto riguarda le droghe pesanti il discorso è completamente diverso… Non mi sono dimenticato neanche del fatto che tra pochi giorni rivedrò Patrick, che sta aspettando proprio il mio arrivo. La parentesi belga è stata appena sufficiente, salvata in extremis da Brugges, ma ora è tempo di ritornare su livelli alti, o almeno così si spera. Arriva la sera e si aggiunge alla camerata una coppia di tranquilli fidanzati tedeschi, che però si occupano degli affari loro e non ci parlano granchè. Con gli spagnoli non avremo più occasione di chiacchierare, ma sicuramente ne serberemo un buon ricordo. Amsterdam Si parte presto questa mattina, muovendoci il più velocemente possibile per scappare dalla deludente Bruxelles. Mi sento decisamente più rilassato quando finalmente mi lascio scivolare sul sedile del treno che ci sta per portare via dal Belgio. Contemporaneamente però non posso fare a meno di pensare che la tappa olandese sarà l’ultima di questo viaggio: sembra incredibile come sia passato in fretta il tempo da quando siamo partiti. Mi viene in mente quando, dopo la scoperta del furto dello zaino, stanco e stufo avevo quasi la tentazione di mollare tutto, ma pensandoci meglio ho capito che non era assolutamente una cosa fattibile. Se però mi avessero rubato anche solo il biglietto interrail oltre ai vestiti e al sacco a pelo, come sarebbe andata a finire? Ci saremmo persi una marea di cose e probabilmente non mi sarei mai perdonato quella seppur scusabile disattenzione. Invece ce l’abbiamo fatta lo stesso e siamo qua…sembra che solo ieri stessimo camminando su quella massicciata aspettando il treno per la Francia, e adesso guarda un po’ dove siamo arrivati. Dopo aver cambiato due treni giungiamo infine ad una stazione periferica della capitale, dalla quale possiamo prendere gratuitamente la metropolitana per sbucare alla stazione centrale. Sarà la prima ed ultima volta che useremo la metropolitana olandese, la città è troppo interessante per girarla sottoterra. Non appena sbuchiamo dalla grossa stazione, già una serie di cose colpiscono la nostra attenzione: la grande quantità di binari del tram che passano lungo le strade, l’ancora più grande quantità di ciclisti in giro e di biciclette stipate ad ogni angolo di strada, l’uniformità delle vie della città, praticamente costruite tutte con lo stesso schema: fila di case, stradina, marciapiede per le biciclette sempre pieno, ringhiera, canale d’acqua, ringhiera, e via all’incontrario. Così, sempre, l’architettura cittadina non cambia mai ed i quartieri sono tutti uguali uno con l’altro. Molte le similitudini con Venezia: lungo i canali ci sono addirittura delle case galleggianti, adornate con fiori di ogni colore, e 43 quando non ci sono le case ogni angolo è occupato da barche da pesca o da battelli turistici. Quello che non è uguale a tutto il resto della città è il nostro quartiere e la strada che percorriamo per arrivarci: veniamo letteralmente sommersi dagli effluvi dolciastri emanati dai numerosissimi coffee shop, dalle insegne rosa e provocanti dei quasi altrettanto numerosi sexy shop, dai fumi dei ristoranti etnici tra cui anche quelli italiani…sembra di essere capitati nel paese della cuccagna. C’è di tutto. Il nostro ostello si trova appunto in questa lunga via commerciale, dove possiamo veramente scovare di tutto: dai venditori di kebab ai negozi di giocattoli, dal sexy shop amatoriale al negozio di profumi appena adiacente, ce n’è per tutti i gusti. L’ostello è veramente peculiare: per cominciare, l’entrata è quasi invisibile, una porta anonima in mezzo ad un’orgia di cartelli e scritte luminose. Le scale per salire sono ripide all’estremo, quasi come delle scale a pioli. Ma più di tutto ci colpisce la sala reception, che ospita anche i tavoli per la colazione: è completamente tappezzata di targhe automobilistiche americane e soprattutto da banconote provenienti da tutti i paesi del mondo, anche i più sperduti come Pakistan, Ruanda, Angola…mi chiedo se chi lavora qui le abbia collezionate viaggiando effettivamente in tutto il mondo per procurarsele, ed in questo caso gode di tutta la nostra stima! In effetti, a giudicare dall’aspetto dell’ostellante che ci riceve, le nostre supposizioni sembrano fondate. L’uomo che ha il compito di introdurci nell’ostello e darci le chiavi ha un aspetto vissuto, lunghissimi e vaporosi riccioli grigi che gli cascano ben sotto le spalle, e ci parla in buon italiano non appena capisce da dove veniamo. Lasciamo la caparra e ci vengono consegnate le chiavi, permettendoci anche di dilazionare il pagamento in quanto non accettano carte di credito e noi ci siamo però preparati a pagare con quella. Ma ci curiamo poco di questi aspetti burocratici, poiché siamo ancora meravigliati dal fantastico ambiente in cui ci troviamo. L’aria di avventura e di vita che trasuda da queste pareti ricolme di cimeli è indescrivibile. Tra l’altro è probabile che l’ostello sia a conduzione familiare, dato che il nostro amico ad un certo punto si rivolge ad una donna nell’altra stanza, chiamandola con una parola che ricorda “mother” in inglese. La camera, al quarto ed ultimo piano (ovviamente) è anch’essa visibilmente attempata, ma pulita e discretamente ordinata. Sulla parete è affisso un grosso quadro, raffigurante in bianco e nero centinaia e centinaia di navi nel porto di Amsterdam. Siamo capitati proprio in un luogo pittoresco ed affascinante! Dopo esserci come al solito riposati un po’, iniziamo subito ad esplorare la città. Riusciamo a trovarne una mappa solo all’ufficio informazioni ufficiale, situato dietro la stazione centrale. Dobbiamo pure pagarla due sonanti euro, mangiati da un distributore automatico di mappe che ce ne consegna una impacchettata come fosse una stecca di sigarette. Con questa mappa in mano riusciamo ad orientarci, cosa non facile in una città dove le vie sono tutte uguali, ma prima di concederci una meta precisa vaghiamo un po’ per il nostro viale, dove troviamo veramente di tutto. Non possiamo evitare di entrare almeno una volta in uno dei sexy shop, ovviamente senza comprare nulla (i prezzi poi sono scoraggianti). Dentro quelle case di perdizione si vendono cose veramente allucinanti, da non riuscire ad immaginarsele…ci sono perfino degli stanzini dove, a pagamento, si possono visionare i film che si intendono acquistare. Chissà a cosa serviranno le tendine all’ingresso dei camerini…ma è meglio cambiare discorso. Perché non parlare dei coffee shop allora? C’è dentro gente che fuma ad ogni ora della giornata, e non è possibile sbagliarsi sulla natura di questi locali…i colori rastafariani (rosso, giallo e verde) e le immagini di palme che campeggiano in bella vista sulle insegne sono assolutamente inequivocabili. Le strade sono piene di persone, ma sorprendentemente la città ci dà subito l’idea di essere estremamente sicura, nonostante la sua fama “libertina”. A patto ovviamente che si rispettino le classiche regole del buon senso, valide ovunque. Quando abbiamo ormai vagato a sufficienza, passando davanti alla vecchia casa di Anne Frank, evitando a stento i numerosissimi ciclisti che qui hanno la precedenza su tutto e tutti (o almeno ne sono convinti), passiamo a visitare una chicca del luogo. Si tratta del museo della tortura, inquietante ricettacolo di demoniaci strumenti del passato, seppur sappiamo che anche oggi la tortura è praticata in mezzo mondo e forse con metodi ancora più crudeli e disumani. Ce n’è per tutti i gusti: il cavallo spagnolo che disarticolava gli arti inferiori attaccandovi pesi enormi, le gabbie dove si era costretti a restare immobili per giorni e si diventava pazzi per i crampi muscolari, la Vergine di Norimberga dove si rimaneva chiusi a fare i conti con i chiodi sporgenti… 44 La luce negli angusti locali è appena accennata, come per far risaltare l’anima “nera” di questi aggeggi, e quando ne usciamo siamo abbastanza sollevati di esserci tolti da quell’atmosfera di dolore e di morte, che pure è molto interessante e persino affascinante. Vedere fin dove si può arrivare con queste efferatezze, e soprattutto sapere che la popolazione le crede utili se solo la si convince che servano per una giusta causa, aiuta ad aprire gli occhi sulla vera natura umana. Ieri il cavallo spagnolo, oggi il fosforo bianco lanciato sui civili o le droghe utilizzate per far confessare inesistenti delitti. Sostanzialmente cos’è cambiato? Il resto della giornata, un po’ per la mancanza di tempo e un po’ per la stanchezza, lo trascorriamo alla stazione per prenotare il treno del ritorno. Aspettiamo delle ore, poiché gli unici due operatori che se ne occupano sembrano avere da fare di tutto tranne che offrire il servizio per cui sono pagati, e ci mettono tre quarti d’ora ad esaurire ogni persona. Finalmente, dopo innumerevoli improperi e sguardi colmi d’odio lanciati ai commessi, tocca a noi. In due minuti (due!) abbiamo già finito e sappiamo tutto quello che volevamo sapere, poiché avevamo già una lista di orari di treni e volevamo solo una delucidazione se ci fossero soluzioni migliori. Solo noi ci siamo organizzati già da prima di partire? Il paese delle meraviglie Un’abbondante colazione ci aspetta nel salone dell’ostello, offerta gratuitamente. Non c’è più l’ostellante di ieri, ora c’è un uomo di aspetto meno leonino ma probabilmente è il fratello dell’altro, gli assomiglia. “Coffee or tea” sono le uniche parole che ci rivolge, il resto è già tutto preparato ed insindacabile. Fette di pane con marmellata, uovo sodo, formaggio stagionato, addirittura del latte cagliato. Tale latte è semplicemente imbevibile quando è puro, ma se messo nel tè diventa assolutamente squisito! Con questo assortimento iniziamo la giornata nel migliore dei modi, salutati anche da un simpatico gatto tigrato di proprietà degli ostellanti, il quale si aggira tra i tavoli con l’aria assonnata, ma non disdegna comunque qualche carezza. Prima di uscire per le vie della città provo a chiamare Patrick, che stranamente non risponde. È oggi il giorno in cui ci dovremmo sentire, di comune accordo, e questo telefono che squilla a vuoto mi inquieta un po’, ma pazienza. Magari tornerà più tardi ed ora si trova chissà dove fuori casa. Il fatto che ora non mi risponda non deve per forza essere un segnale negativo, come spesso sono portato a credere. Probabilmente è andato a trovare il padre in ospedale, ed è per questo che da casa non risponde nessuno. Usciamo dunque puntando al museo dell’Hermitage, introdotto da dei musicisti che si esibiscono a turno nel cortile, spalleggiati da altri musicisti che suonano dalla finestra appena sopra. Qualcuno dirà: “Ma l’Hermitage non è a San Pietroburgo?”. Effettivamente è così, ma noi siamo particolarmente fortunati poiché il celeberrimo museo russo ha appena trasferito qualcosa come duemila opere in una sede distaccata, che si trova proprio qui ad Amsterdam! Non possiamo certo perdercelo, anche se il prezzo del biglietto è una brutta sorpresa: costa ben quindici euro, senza sconti di alcun genere per gli studenti! Si vede che siamo ritornati nei paesi nordici, dove si paga tutto. Dissento però da questa abitudine: quando mai i giovani si avvicineranno alla cultura se l’entrata di un museo costa così tanto? I francesi l’hanno vista giusta a non far pagare nulla a chi ha meno di una certa età. Non è che abbiamo tutti questi soldi da spendere…ma pazienza, ormai siamo qua e un po’ controvoglia tiriamo fuori le banconote. Gli aristocratici vestiti nobiliari russi e tutto ciò che ruotava attorno alla nobiltà pietroburghese sono un bello spettacolo, ma continuo a pensare che ho speso decisamente troppo in proporzione a ciò che vedo. Con l’amaro in bocca finiamo la visita, consistente appunto in oggetti di nobiltà stracarichi d’oro ed argento, simbolo di un’intera generazione di aristocrazia che è bello leggere anche oggi nei capolavori di Tolstoj, Dostoevskij, Puškin, Gogol... Esaurito l’Hermitage, ci spostiamo in un’altra zona della città per visitare la più grande raccolta al mondo di quadri di Van Gogh, il celebre pittore olandese che sfornò ben ottocento dipinti nella sua pur breve carriera. Per raggiungerlo passiamo da un pittoresco viottolo curvo illuminato in modo strano dalla luce del sole, e solo dopo averci camminato un po’ scopriamo che dietro le vetrine ci sono degli 45 inquietanti individui, dal sesso non ben identificabile, che ci salutano ammiccanti. Pochi secondi per capire che sono dei transessuali! Siamo finiti nel quartiere a luci rosse! O meglio, in uno dei suoi “bracci” esterni, poiché per ora vediamo solamente queste poche vetrine senza insegne né nulla, ma sicuramente a pochi isolati di distanza comincia la via della perdizione vera e propria! Curiosamente, quasi all’imboccatura di questo strano vialetto sta una chiesa. Forse è un simbolo della filosofia di vita olandese, dove ognuno è relativamente libero di farsi gli affari propri, purchè non disturbi eccessivamente gli altri? In un quartiere le prostitute, nell’altro le messe, non importa se siano vicini o lontani, basta che ognuno sia libero di condurre la sua vita come crede, nel rispetto dell’altro. Deviando dal quartiere riusciamo finalmente ad imboccare la via giusta per il museo. Van Gogh è un altro di quei pittori le cui opere mi affascinano non poco, nonostante la mia scarsa passione per la pittura. Destreggiandoci tra mangiatori di patate e campi di grano con i corvi, finisce velocemente anche questa carrellata di capolavori, che non descrivo poiché non saprei nemmeno esattamente cosa dire. Non c’è molto da parlare a proposito di un quadro, bisogna semplicemente vederlo. Nell’edificio adiacente si tiene invece una mostra di arte contemporanea, a tratti affascinante: ci sono delle opere disegnate per terra che Davide senza volerlo calpesta, in quanto sono ben mimetizzate nel pavimento. Non appena si accorge che ci sta camminando sopra, fa subito un balzo indietro temendo di averle danneggiate, ma subito si accorge che quelle opere vanno calpestate, sono lì per quello, come recita la targhetta. Mi ricordano un po’ le opere dell’inquietante Švankmajer, sempre tese a mostrare il contrario di ciò che dovrebbe essere, per shockare l’osservatore. C’è anche un grosso ammasso di ferraglia che viene attivato e messo in moto con la pressione di un pulsante: il risultato è un blob di ferri ed ingranaggi arrugginiti che scorrono gli uni sugli altri, si intersecano e scalpitano facendo un rumore infernale, ma senza portare a nulla, fino a che non si rilascia il pulsante, ed allora tutto l’ammasso si tacita, torvo e minaccioso. Forse metafora di una tecnologia che porta sempre di più l’uomo verso l’inutile ed il fine a se stesso. Solo interrompendo la connessione, ovvero svegliandosi e dicendo basta, ciò potrà avere fine. Il risultato è degno di qualche minuto di considerazione, in mezzo alla mediocrità di altre “opere”, che continuo a non capire cos’abbiano di tanto speciale da meritarsi un posto qui. D’accordo che il senso dell’arte moderna è che non importa ciò che si fa, basta farlo per primi. Ma c’è un limite anche a questo! Tocca ora ad occupazioni ben più grette: mangiare. Quest’occupazione non meriterebbe di essere citata, se non fosse che devo sudare le proverbiali sette camicie per riuscire a prendermi l’hot dog che voglio: una vespa dispettosa se l’è presa esattamente con me e con nessun altro, e non vuole assolutamente che io allunghi la mano verso gli erogatori di ketchup e maionese. Faccio come minimo venti tentativi prima di riuscire a spalmarne solo un filo, poichè sembra che questo dannato insetto mi stia controllando come un dietologo e minacci di pungermi se solo provo a sgarrare. A chi osserva la scena dall’esterno probabilmente appaio come un pazzo dissociato, che nel momento in cui cerca di condire il panino è come trattenuto da una forza misteriosa e demoniaca che lo fa sussultare e scappare, e così via senza fine. Non ci posso fare niente se le vespe mi terrorizzano! Al colmo della frustrazione e ad un passo dalla crisi di nervi, finalmente riesco a guarnire l’hot dog e posso scappare dal molesto insetto. Ci sediamo per una mezz'oretta sul prato, sbafando biscotti per contorno e godendoci ancora un po’ il sole che anche oggi picchia. Le nostre visite culturali però non sono finite: c’è anche il Rijks Museum, altra rassegna di quadri totalmente sconosciuti ma sempre piacevoli da vedere, conditi da una simpatica chicca. Una scatola di legno nero messa in verticale, chiusa da ogni lato ed alta come una persona, ha un piccolo schermo circolare sulla parte anteriore, come fosse una vera pendola a muro. Peccato che questo schermo sia digitale, e dietro di esso si veda l’ombra di un uomo che “dall’interno” cancella con un panno le lancette delle ore e dei minuti, ridisegnandole con un “pennarello” ad ogni minuto che passa. Sembra proprio che ci sia dietro una persona che continua a cancellare e a rifare le lancette disegnandole sul vetro, ed infatti voglio controllare che dietro la “pendola” non ci sia un’apertura e che magari non ci sia dentro effettivamente qualcuno, ma niente! L’inganno è fatto proprio bene! Potrei rimanere a guardare quest’insolito spettacolo per ore, ma è tempo di andarcene ormai… 46 Ripassando per le strade che ci riportano alla base, incrociamo un altro spettacolo interessante: una partita a scacchi, ma non con la solita scacchiera di legno montata su un tavolino, bensì con dei pezzi enormi che vengono mossi con due mani, direttamente su una scacchiera gigante disegnata per terra. Sembra la partita a scacchi viventi di Marostica, tranne che qui si tratta di birilli e non ancora di persone! Appassionato come sono di questo gioco, per me è una delizia stare ad osservare i due contendenti, i quali, scrutati da molte altre persone oltre a noi, cercano in tutti i modi di prevalere sull’avversario. Si capisce che i due giocatori non sono dilettanti, in quanto le loro mosse sono precise e ben calcolate. Davide non è entusiasta della partita, non essendo minimamente avvezzo agli scacchi, ma non posso comunque fare a meno di spiegargli tutti i retroscena della partita, i motivi per cui tale mossa è stata fatta, dove sta andando a parare il Bianco e come il Nero stia cercando di sopraffarlo…riesco anche a coinvolgerlo un po’, in quanto dopo un certo tempo inizia a fare commenti anche lui, ma in quel momento la partita finisce: il conduttore del Nero si è lasciato fare una clamorosa forchetta di Cavallo ai danni di Re e Torre, con conseguente perdita irrimediabile di quest’ultima. Del resto, la sua situazione era già abbastanza difficile, con due pedoni e la qualità in meno. Tirando un debole calcio al cavallo colpevole, il padrone dei pezzi neri abbandona la partita. Aiuto subito a rimettere i pezzi al loro posto, sperando che non ci sia più nessuno in coda per giocare, ma purtroppo il posto era già prenotato da un pezzo e così le mie speranze di intavolare una sfida sfumano. Peccato, se avessimo avuto più tempo a disposizione sarei certamente rimasto ad aspettare di giocare anch’io, ma chissà quante persone stavano già aspettando il loro turno prima di me! Quando passiamo davanti al negozio di giocattoli, una forza ignota ed irresistibile ci trascina dentro senza che possiamo opporci ad essa. Io mi butto immediatamente sugli scaffali delle innumerevoli carte Magic, mentre Davide seziona tutti i giochi da tavolo uno per uno. Ma non è finita qui: nel paese della cuccagna ci sono anche dadi a dodici, venti, cento facce; mazzi di carte truccati, con le carte che improvvisamente diventano tutte bianche o tutte uguali, per poi tornare “miracolosamente” normali; cubi di Rubik che non possiamo esimerci dal comprare, uno a testa, per distruggerci ancora qualche migliaio di neuroni; infine, una quantità di altri giochi e rompicapo di ogni genere. Insomma, ogni ben di Dio per gli appassionati! Riesco perfino a trovare una versione da viaggio di Stratego, vecchissimo gioco di strategia (guarda caso!) a cui ho appena imparato a giocare, e che conto di presentare anche a Davide sperando di trovare un degno avversario. Passiamo un’ora intera a selezionare carte da comprare e simpatici souvenir da regalare agli amici rimasti a casa, come un cubo di Rubik 2x2, apparentemente elementare ma che in verità si rivela complicato da risolvere quasi come il 3x3. Finalmente troviamo la volontà di uscire e ci facciamo una tranquilla merenda nell’affollata piazza principale, iniziando subito a tentare di risolvere il dannato cubo, che dopo poche mosse già si scombina in modo irreparabile e per quanto ci sforziamo non riusciamo più a rimetterlo a posto. Era più bello prima! Con la sua mente da ingegnere, Davide è molto più sollecito di me, ed infatti lui continua per un bel po’, io invece mi rompo le scatole dopo pochi minuti. Ma si è fatta improvvisamente sera, ed è tempo di tornare alla base, preparandosi per una serata “diversa”. Prima di uscire di nuovo, tento ancora di chiamare Patrick, ma ancora una volta non risponde lui bensì la sorella, la quale asserisce che il fratello ha molto lavoro e per oggi non può rispondermi. Mi assicura però che gli dirà che ho chiamato. Comincio ad avere qualche dubbio che in realtà lui non voglia farsi trovare, ma voglio ancora credere che siano tutti in buona fede e che finalmente riusciremo a vederci. Dopo l’infruttuosa telefonata usciamo nuovamente nel viale, avvolti dalla festosa e peculiare atmosfera notturna della capitale più liberale d’Europa. Bulldog Per quanto se ne possa dire, una visita ad Amsterdam non può ritenersi completa se non si visita almeno uno delle centinaia di coffee shop che la città ospita. Nessuno di noi è un fumatore accanito, e nemmeno tiepido: Davide non ha mai fumato nemmeno una sigaretta, come me del resto, che però ho avuto l’occasione di fumare qualche spinello di vario genere, sempre con gli stessi effetti: nulli. Non mi 47 piace fumare, né credo che interessi granchè neanche a Davide, ma non abbiamo in ogni caso intenzione di perderci la possibilità di accenderci uno spinello senza il rischio di essere fermati dalla polizia o guardati male da tutti (cosa che però succede anche qui se solo si fuma fuori dalle aree apposite, ovvero i coffee shop). Usciamo speranzosi, cercando un locale che ci ispiri fiducia. Scartiamo i primi che troviamo, troppo simili a bettole; ma a cento metri di distanza da noi, oltre il ponte, si trova il Bulldog. È abbastanza famoso, ed anche dall’aspetto promette bene: sembra pulito e molto frequentato. Che senso ha tentennare ancora? Entriamo, seppur con un po’ di comprensibile imbarazzo, e presto ci troviamo nella strana situazione di dover chiedere al barista l’elenco non delle bevande, ma delle “fumande”. Un tabellone si illumina con la pressione di un tasto, mostrando i vari tipi di erba in vendita ed i loro vari formati: c’è anche la celeberrima White Widow (Vedova Bianca), che però si vende solo “sciolta”, mentre per comprare spinelli già rollati dobbiamo accontentarci di un miscuglio di due tipi di marijuana. Va benissimo per le nostre esigenze…così con pochi euro ci assicuriamo quattro joints già pronti. Non siamo capaci né abbiamo voglia di prepararceli da noi, è molto meglio comprarli già fatti anche se in questo modo la percentuale di erba sul totale risulterà inevitabilmente più bassa, ma forse ciò è un bene: per chi non è abituato, una concentrazione troppo elevata di erba può giocare brutti scherzi. Ovviamente abbiamo evitato come la peste gli spinelli “pure grass”, cioè composti esclusivamente da erba: so che anche i fumatori più accaniti spesso collassano allegramente dopo averne fumato uno, figurarsi noi. Il tavolo che dà direttamente verso la vetrina e l’esterno è subito nostro, e ci sediamo con le spalle al bancone, pronti ad accendere la nostra conquista. La bellissima “Jeremy” dei Pearl Jam condisce alla grande questo momento di libertà, trasfigurata in fumo ed effluvi dolciastri. Mano a mano che la “fumata” prosegue, tento di aspirare nei polmoni quantità sempre maggiori di fumo, producendo come unico risultato una quantità sempre maggiore di accessi di tosse. Davide invece non sembra stia aspirando granchè: è ancora fresco come una rosa, nonostante sia la sua prima canna. Tento di incoraggiarlo, forse imprudentemente, ad aspirare più in profondità il fumo, così da sentirne maggiormente gli effetti. Effettivamente, dopo il mio consiglio comincia a sentire una certa leggerezza della testa, ma finora sembra andare tutto bene. Io mi sento meravigliosamente in forma, a parte un primo momento di tachicardia subito domata, e finisco tranquillamente la mia canna. Dopo una decina di minuti le cose iniziano però a girare per il verso storto: a tre quarti della sua canna, Davide inizia improvvisamente a diventare pallido, a sudare ed avere capogiri. Se appena gira la testa da un lato, viene preso dalla nausea. Ecco, lo temevo ed è successo: sta iniziando a collassare. Accidenti, non ci voleva! Per ora le sue funzioni vitali primarie sembrano abbastanza stabili, ma lo stato psico-fisico generale è decisamente scadente: si limita a comunicare, con qualche stentata parola, che si sente male e che non sa se riuscirà a camminare, ma quando provo a cavargli di bocca qualche altro vocabolo non mi risponde, rimanendo con i pugni alle tempie ed ogni tanto respirando profondamente, come chi è in preda alla nausea. Gli è pure venuto un tic alla gamba, la quale ha preso a tremare furiosamente. Io non ho di questi problemi fisici, ma devo fronteggiarne uno anche più importante: come farò a farlo camminare fino all’ostello, vicino in termini assoluti ma molto lontano in termini relativi, e soprattutto a fargli fare quattro piani di ripidissime scale, se non sta nemmeno in piedi? Per ora comunque non ho modo di appurare se riesca effettivamente a stare in piedi o meno, poiché non ci vuole nemmeno provare. Cominciano ad affiorarmi alla mente in modo confuso le parole ambulanza, ricovero, ospedale, collasso, polizia, 118, flebo, svenimento…milioni da pagare per il soccorso e la degenza…oltretutto lui è pure lievemente asmatico, fumare una canna forse non è stata proprio una buona idea! Ma non penso si arriverà a tanto, in fondo è solo una canna e il tempo che sta passando aiuterà a smaltirla. Ne deve ancora passare di tempo prima che il locale chiuda! Sono solo le dieci e mezza e le serrande caleranno all’una, per cui un buon margine c’è. Per contrastare la vasodilatazione del mio amico e tentare di tirarlo un po’ su, ordino due caffè, che ci vengono portati in formato gigante. Il nostro eroe riesce però a berne solo microscopici sorsi alla volta, raccolti con un altrettanto microscopico cucchiaino che è buono forse solo per fare la girata dello zucchero. Il ritmo con cui beve è quasi ridicolo, ma chi sta male ha diritto che i suoi tempi vengano rispettati…ed in questo modo rimaniamo fino a mezzanotte e mezza seduti nello stesso posto, guardando sempre avanti ed ascoltando l’ottimo rock ed heavy metal che sta passando alla radio. Perlomeno, io l’ascolto 48 con vivo interesse, Davide credo che non riesca a pensare ad altro che al suo sudore freddo. Una scritta campeggia in bella vista nella televisioncina sopra le nostre teste: “È vietato per legge fumare tabacco nei locali, quindi da oggi potrete chiedere al bancone direttamente l’ERBA!”… ma in questo momento di fumare non se ne parla per nessuno dei due! La voglia è passata pure a me, se già uno sta male è meglio che l’altro rimanga sano e vigile, altrimenti l’ambulanza non ce la leva nessuno…fortuna che sto per diventare infermiere e quindi so come fronteggiare un collasso del genere se capita. Non ho ancora risolto il problema principale però: tutta la strada da fare più le scale! Alla mezzanotte e tre quarti, dopo diverse e prolungate insistenze, ottengo almeno di far alzare in piedi il mio compare. Pochi secondi di assestamento, attimi in cui si decide il destino della serata, ma finalmente il nostro eroe si decide a fare il primo passo e subito prende a camminare abbastanza tranquillo, dissipando lo spauracchio di terribili svenimenti per strada. Meno male, temevo già che avrebbe dovuto farsi tutta la strada e le scale a gattoni. Facilmente raggiungiamo la camera nonostante le numerose scalinate, e lì il nostro eroe non si mette a dormire come tutti penserebbero, bensì a mangiare allegramente ed a tentare di risolvere il cubo di Rubik, con un’espressione beatamente concentrata! Quasi lo insulterei, un attimo fa era in condizioni semicomatose ed ora sta meglio di me, che invece crollo quasi subito sul letto! Ho dimenticato però di descrivere un particolare…che ne è stato delle due canne avanzate? Il dilemma c’era e non poteva essere ignorato. Fumarle in albergo? Fumarle da altre parti? Portarsele a casa? Buttarle semplicemente via? Mentre Davide stava male, ho avuto il tempo di pensare anche a questo problemino, vagliando tutte le opzioni possibili. Sono infine giunto alla conclusione che tentare di portarle a casa sarebbe stato troppo rischioso, anche se la probabilità che qualche poliziotto le trovasse sarebbe stata estremamente bassa. Non mi sembrava il caso nemmeno di fumarle in albergo, poiché qualche inserviente che avesse sentito l’odore di cannabis si sarebbe potuto insospettire: l’erba si può fumare solo all’interno dei coffee shop, al di fuori diventa già teoricamente illegale. Idem per il fumarle altrove. Ho quindi pensato di tenermi solo il variopinto contenitore, come ricordo, e di buttare via le due canne rimaste, oppure lasciarle al bancone per farle fumare a qualcun altro. Quando Davide stava per alzarsi, sono andato al bancone a consegnare i joints, asserendo che per noi “erano troppo”. Uno dei due baristi mi ha guardato con un’espressione stranita, chiedendomi cosa avessi intenzione di fare con quel ben di Dio: quando ha capito che stavo per buttarle via, ha sgranato gli occhi in una comicissima espressione di terrore e sdegno, replicando subito: “Nooo! Lasciatele a noi piuttosto, che ce le fumiamo dopo il lavoro!!”. “Per quel che mi riguarda, non c’è problema” … e così gliele ho lasciate volentieri, travolto dai loro increduli ringraziamenti. La parola che hanno usato per descrivere l’evento è “Terrific!”, che non significa terribile, bensì “fantastico”! E così ho fatto anche la mia buona azione quotidiana! Decompressione La giornata di oggi è dedicata al relax, per smaltire completamente la “sbornia” di cannabis. Ci svegliamo piuttosto tardi, con la gola secca e l’intestino un po’ in rivolta, ma niente di grave. Vado in bagno prima io, ma il più vicino dei due minuscoli gabinetti è immerso in un odore di disinfettante piuttosto penetrante, da cui scelgo il secondo, ancora intonso. Davide non ha però altrettanta fortuna: quando arriva il suo turno, nel bagno “sano” stanno facendo le pulizie, ed è quindi costretto ad usare quello che è stato appena disinfettato. Ci rimane dentro forse un minuto, ma sufficiente per intossicarsi con i pestilenziali effluvi dell’ignota sostanza battericida! Esce dal bagno tossendo all’impazzata e continua almeno per altri dieci minuti, senza tregua, lamentandosi e bestemmiando nelle pause tra un colpo di tosse e l’altro. Tutto questo tossire, se non altro, gli libererà le vie aeree dagli ultimi residui di cannabis! Finito l’accesso di tosse, finalmente scendiamo a fare colazione e ci liberiamo da tutti i piccoli malesseri. Oggi dobbiamo assolutamente portare a casa qualcosa di divertente e spiritoso, che ci ricorderà per sempre questa città. Ci tuffiamo dunque in un assalto disperato ai negozi di souvenir, che sono in numero impressionante: non si riesce a fare dieci metri 49 senza incontrarne uno in cui entrare. Presi da raptus, entriamo in tutti quelli che troviamo. Dopo il decimo c’è da diventare epilettici, un po’ come chi si perde nel bosco ed impazzisce perché la foresta è sempre tutta uguale e gli sembra di non arrivare mai da nessuna parte, venendo completamente a mancare qualsiasi senso dell’orientamento. In un punto della strada ci sono addirittura due negozi che si fronteggiano faccia a faccia. Chissà che concorrenza spietata si fanno! La nostra scelta alla fine cade su due simpatiche magliette più un cubo di Rubik con tutte le facce di un solo colore, il rosa. “Only for blondes”, recita la scritta sulla confezione. Sappiamo già a chi regalarlo. Misogino, ma divertentissimo! Dopo aver passato un’altra ora nel solito negozio di giocattoli (non abbiamo proprio di meglio da fare!), ritento ancora con la telefonata al mio “amico” olandese, dato che il tempo inizia a stringere e non rimarremo in eterno qui. Ancora una volta risponde la sorella, ma il diretto interessato non si trova, è ancora al lavoro. Ma lavora ventiquatt’ore su ventiquattro, forse? La donna ci assicura che lui è stato informato della nostra telefonata e che si farà sentire sicuramente domani, ma ormai inizio a fiutare l’imbroglio ed appare molto chiaro che non si farà mai trovare. Aspetteremo domani per averne la conferma definitiva, dato che sarà l’unico giorno utile per fare un’eventuale gita fuori porta in cui potremmo coinvolgere anche lui, ma non mi aspetto più granchè. Certo che sarebbe il colmo avere ancora una volta un contatto e non riuscire a trovarlo, come ci capitò in Scandinavia. Lì però si trattava di persone perse di vista più di trent’anni prima, delle quali conoscevamo solo il nome e l’antico paese di residenza senza indirizzi né niente, mentre qui ho numero di telefono, indirizzo di casa e tutto quanto, ci ho anche parlato e non si tratta di ectoplasmi! Le speranze di un ritardo in buona fede si stanno affievolendo sempre di più, e Davide è sempre più convinto che il mio cosiddetto “amico” sia un buontempone che mi ha proposto mari e monti ma in realtà era tutto fumo e niente arrosto. Ciondolando beatamente per le strade arriviamo a sera, ed optiamo quindi per una gita in barca sui canali della città. A parole sembra molto interessante, ma dopo pochi minuti già ci stanchiamo, è veramente tutto troppo uguale. Le cose più carine che possiamo vedere sono un galeone dipinto di giallo e verde che staziona beato in acqua, poi un impressionante silos per le biciclette che ne ospita sicuramente a migliaia. Dopo un’ora ci sembra di essere passati sempre dallo stesso punto, girando in tondo, e la giornata finisce così, senza particolari emozioni né scossoni. Domani però ci aspetta qualcosa di molto più interessante! Afsluitdijk Un centinaio di chilometri a nord di Amsterdam, nei pressi di Den Helder, si trova la piccolissima cittadina di Den Oever, che ospita l’inizio della diga di Afsluitdijk. Essa divide il mare del Nord da un piccolo mare interno d’acqua dolce, e proprio qui è caduta la nostra scelta per una gita avventurosa, da fare in bicicletta, Come da tradizione che ormai si sta delineando, l’escursione ciclistica non manca nemmeno quest’anno. La suddetta diga è lunga ben 30 chilometri, e logicamente disperiamo di poterla percorrere tutta avanti e indietro, ma già farne una metà sarebbe una bella esperienza. Perciò prendiamo il treno, che cambia alla stazione di Alkmaar, ma dato che le istruzioni sono tutte in olandese (strano, per un paese dove tutti parlano bene l’inglese), non capiamo che dobbiamo cambiare carrozza per proseguire, e quando lo capiamo è troppo tardi: scesi di corsa, la parte di treno che ci interessa si sta già allontanando, e la perdiamo proprio per un soffio! Che rabbia! Mezz’ora persa per niente. Sarebbe bastato aggiungere al tabellone due righe in inglese! Pazienza… Ripreso infine il treno giusto, poi il bus, giungiamo infine in questo desolato agglomerato di costruzioni e strade, nelle quali non passa una persona che sia una. Una cittadina fantasma, oserei dire, anche se estremamente ariosa e spaziosa. Non sappiamo dove andare, ci tocca chiedere informazioni ad un concessionario di auto il quale ci indica l’ufficio informazioni, fortunatamente aperto nonostante l’apparente immobilità della cittadina. Grazie alle sue indicazioni, integrate poi da quelle di un 50 meccanico olandese dallo stranissimo accento incontrato lungo la strada, raggiungiamo il punto di noleggio delle biciclette. È un posticino tranquillo e riparato, forse anche troppo: ci vuole un bell’intuito per capire dov’è, anche con le indicazioni alla mano. La zona pullula di villette a schiera, circondate da steccati di legno e verdi siepi. Approfittiamo dell’attesa per far fuori i due tramezzini che ci devono bastare per tutta la giornata, sedendoci sul selciato che divide due filari di garage perfettamente chiusi. Dopo mezz’ora finalmente arriva qualcuno ad aprire. Il noleggiatore è molto gentile e ci offre subito le due biciclette migliori, che non sono assolutamente paragonabili agli scandalosi macinini che ci propinarono alle isole Lofoten a prezzi assurdamente elevati. No, queste sono decisamente più sportive ed adatte a lunghi percorsi, e non meno importante sono molto più economiche! Una volta assicurati gli zaini al portapacchi con una corda elastica, siamo pronti ad iniziare l’avventura! Un autoscatto ci immortala nell’attimo prima di imboccare la corsia ciclabile della diga, e dice più di mille parole. Maniche corte, cappellino voltato all’indietro, braccia abbronzate a metà dopo tutte giornate passate al sole, pantaloni ormai sporchi e consunti per non essere mai stati cambiati, cielo terso e tanta energia da spendere. Talvolta non immortalare certi particolari e certe situazioni diventa quasi un delitto, sapendo quanto la memoria è labile, se volta per volta non viene aiutata a ricordare con delle prove e testimonianze concrete. Seppur totalmente pianeggiante, il percorso presenta qualche difficoltà. Tanto per cominciare c’è un forte vento laterale, inevitabile dato che ci troviamo in mezzo a due mari, ed inoltre per quanto possiamo andare veloci il panorama non cambia mai. L’orizzonte è sempre identico a sé stesso, le uniche cose che cambiano continuamente sono le automobili ed i camion che sfrecciano accanto a noi sull’autostrada. A tratti provo una punta d’invidia verso di loro: senza fatica si fanno tutta questa strada, mentre io sono qui a pedalare! Un automobilista che proviene dal senso opposto sembra addirittura incitarci, suonando il clacson e facendoci chissà quali gesti con la mano. Beato lui che deve solo schiacciare un pedale per andare avanti… Fortunatamente il tempo è ottimo e non fa assolutamente freddo, nonostante il fortissimo vento che ci investe senza sosta. Fermandoci al monumento posto dopo i primi cinque chilometri, piano piano percorriamo quest’interminabile lingua d’asfalto, ogni tanto fermandoci per far riposare le gambe e per cercare qualche punto di riferimento, ma invano. Dopo i primi tredici chilometri intravediamo in lontananza un cavalcavia, e dopo ancora qualche centinaio di metri riusciamo a distinguere un autogrill! Fantastico, non ci aspettavamo proprio di trovarne uno, ed è una manna dal cielo poiché l’acqua sta finendo, velocemente prosciugata ad ogni sosta con lunghe ed avide sorsate. All’autogrill facciamo incetta di gelati e bottiglie d’acqua, per reintegrare liquidi e sali minerali. Mi sto quasi per addormentare sulle panchine di legno, da quanto sono stanco, ma sono troppo scomode per prendere realmente sonno ed in ogni caso è meglio rimanere vigile perché la pedalata non è affatto finita…dobbiamo rifare al contrario tutti i quindici chilometri che abbiamo appena percorso. Non sarebbe un’impresa così difficile se non ci fosse un fortissimo vento, ora totalmente contrario alla nostra direzione di marcia, che rende il ritorno un vero strazio. Non superiamo mai i dieci chilometri orari, in prima marcia, e le mie gambe dopo poco iniziano a cedere. Ma perché tutte le volte che salgo su una bicicletta me ne devo pentire amaramente? Un minimo di sollievo ce l’ho quando rimango dietro a Davide, sfruttando la sua scia che mi permette di ridurre le turbolenze atmosferiche, ma dopo un po’ decido che non è giusto che solo io riceva questo privilegio, così mi stacco e mi porto di fianco a lui per superarlo e mettermi davanti. Non appena la protezione della scia viene a mancare, mi sento immediatamente investito da folate di vento assurde, tanto forti che mi sembra di fare il doppio della fatica di prima, che già era insostenibile! Maledicendo il destino ed arrancando, fermandoci più volte finchè riusciamo a prendere un ritmo decente, continuiamo a pedalare con la forza della disperazione, con questo vento che non smette un secondo di darci contro e di raffreddarci il viso e le membra. All’altezza del monumento, quando ormai manca relativamente poco alla fine dei tormenti, il cielo comincia a rannuvolarsi a vista d’occhio, ed inizio subito a pensare che la situazione non si potrà evolvere verso il meglio, ma piuttosto tenderà sempre di più ad andare in peggio. Conviene affrettarsi. Senza accorgermene, a volte mi ritrovo molto più avanti rispetto al mio compagno e ne approfitto per 51 smontare dalla bici e spingerla a piedi, il che mi permette di recuperare un po’ di energie. Quando però Davide mi raggiunge rimonto in sella e riprendiamo a pedalare assieme. A circa tre chilometri dall’arrivo dobbiamo però fare una sosta, in quanto non ce la facciamo più. Durante la pausa vedo una palla di sterpi che rotola sospinta dal vento, in stile Far West, e ciò mi dà l’ispirazione per girare un demenziale video che ci ricorderà per sempre l’atmosfera tragicomica del momento. Quel video è anche l’ultima cosa che riusciamo a fare prima del cataclisma: dopo forse venti secondi che ho finito di girarlo ed ho riposto la videocamera nello zaino di Davide, inizia a cadere qualche gocciolone dallo spessissimo muro di nuvole che ci sovrasta torreggiante, muro che si è formato a tempo record e che ora sta per scaricare tutta la sua furia su di noi, unici ed indifesi occupanti della corsia ciclabile in tutta la lunghezza della diga. Lampi e tuoni, inizialmente lontani e poi sempre più vicini e forti, non tardano a manifestare la loro minacciosa presenza, facendoci ulteriormente preoccupare. Qualcosa mi dice che è meglio tirare fuori immediatamente il kee way per tentare di salvare il salvabile, anche se per ora si tratta solo di qualche rara goccia. Davide pensa di poter rimandare la bardatura, operazione noiosa in quanto bisogna vestirsi con addosso lo zaino e non è esattamente comodo, ma lo incito urlando “No no, equipaggiamento, equipaggiamento, subito! Qui va a finire male!”. Uso proprio la parola “equipaggiamento”, forse mi sento nel mezzo di una battaglia, ed effettivamente non ci sono poi così lontano. Dopo forse mezzo minuto dall’aver pronunciato questa frase, infatti, si scatena il diluvio universale. Pedalando sempre più forte per tentare di sfuggire all’inevitabile, vedo i pantaloni che cominciano a chiazzarsi d’acqua e capisco che mi laverò da capo a piedi. Spero solo che non mi venga la febbre, una volta sola mi è bastata ed avanzata. Oltretutto c’è un altro problema: il vento è ancora contrario e sta aumentando d’intensità, e questo fa sì che l’acqua colpisca direttamente il viso e si insinui dentro la felpa, bagnandoci fin nelle ossa. Il cappuccio del kee way, che sono costretto a tenere sempre con una mano per non farlo volare all’indietro, sembra non ripararmi quasi affatto, ed anche Davide è nella medesima situazione. Devo quindi guidare la bici con una mano sola e tenere il capo sempre basso, per evitare che l’acqua mi vada dritta negli occhi. Non posso sentire cosa dice il mio compagno di pedalata, ma è molto probabile che stia bestemmiando a raffica. Posso esserne ragionevolmente certo quando me lo vedo passare di fianco velocissimo, avvolto da nubi di spruzzi, con la testa bassa e l’arrabbiatura che si può percepire anche senza antenne. Chissà quante ne sta tirando in questo momento! Anch’io per la verità ho voglia di bestemmiare, poiché non ha mai piovuto seriamente nemmeno una volta in tutta la vacanza e deve diluviare proprio ora, a pochi chilometri dalla salvezza, nel momento più sbagliato possibile. Cerco di accelerare l’andatura, con le scarpe di tela ormai completamente fradice, ma le forze sono quelle che sono ed il vento è diminuito solo leggermente, quindi mi rassegno a fare ciò che posso, tanto sono già completamente lavato ed inzupparmi un po’ di più non cambierà significativamente la situazione. Usciti finalmente dalla diga e alla disperata ricerca di un riparo sotto il quale asciugarsi e riorganizzarsi, avvistiamo un ponte qualche centinaio di metri più avanti. La nostra salvezza. Lo puntiamo furiosamente, e non appena ci arriviamo sotto ci spogliamo quasi completamente, strizzando calze, scarpe, pantaloni e tutto, mentre miracolosamente la mia felpa e il mio zainetto, sotto il kee way che ancora non era stato collaudato, hanno resistito e sono asciutti. Davide non è stato altrettanto fortunato: l’acqua gli è penetrata fin dentro la felpa e lo zaino, bagnando anche il nostro programma di viaggio, che per fortuna ormai non ci serve praticamente più in quanto siamo alla fine! Imprecando e tentando di ritornare ad una temperatura corporea normale, con le membra bianche e quasi cadaveriche dal freddo, aspettiamo invano che spiova. Per trenta secondi c’è la calma assoluta, e per i successivi trenta uno scroscio torrenziale, e così via. Non c’è mai una tregua sufficientemente lunga per poter percorrere ancora il paio di chilometri che ci separano dal noleggio biciclette. Si, perché prima di prendere il bus per tornare ad Amsterdam abbiamo anche queste diavolo di biciclette da riportare indietro. Non le avessimo sarebbe tutto più facile! Il noleggiatore ci ha dato il suo numero di telefono in caso di bisogno, ma anche a volergli telefonare cosa gli potremmo raccontare? Che siamo stati sorpresi dalla pioggia? Affari nostri, ci potrebbe rispondere…ed avrebbe anche ragione. Così aspettiamo ancora un po’, tentennando, finchè non convinco Davide a muoversi nonostante l’acqua, argomentando che se aspettiamo troppo tempo rischiamo che i mezzi pubblici per tornare 52 indietro si esauriscano. Oltretutto, le zone asciutte sotto il ponte si stanno riducendo sempre di più, poiché l’acqua non può essere smaltita completamente dagli oberati tombini e sta iniziando a straripare, invadendo tutto. Pedalando veloci, in un momento di apparente tregua meteorologica raggiungiamo infine il noleggio, già stanchi morti. Vedendo le nostre condizioni, il gentile noleggiatore ci propone di rimanere ad asciugarci dentro il negozio, che è ben riscaldato, in attesa di ripartire. L’idea è allettante, ma non sappiamo se ciò potrebbe farci perdere l’autobus, quindi rifiutiamo dopo esserci velocemente consultati. Ormai non piove quasi più, ma camminiamo comunque il più velocemente possibile verso la fermata del bus, che non è troppo lontana dall’ufficio turistico, quindi non ci preoccupiamo di non saperla più ritrovare. Nonostante siamo quasi arrivati a destinazione, ci viene in mente che potremmo fare l’autostop per tentare di trovare qualcuno che vada direttamente ad Amsterdam, senza dover cambiare bus e poi treno…ma quest’idea cade velocemente nel vuoto dopo averne valutato rischi e benefici. Così riprendiamo a camminare lungo la strada, sempre più deserta e percorsa soltanto da qualche automobile che sfreccia a tutta velocità. Percorso un buon tratto di strada, ormai sempre più impazienti di arrivare alla stazione, capiamo che stiamo tornando verso la diga. Com’è possibile? Abbiamo perso completamente il senso dell’orientamento? Eppure l’ufficio turistico è lì, ben visibile, e la stazione dei bus si trova poco distante. Possibile che non ci sia? Ritorniamo indietro, incerti sul da farsi, ed anche un po’ preoccupati di esserci persi. Mentre camminiamo, il telefono di Davide si mette a vibrare. Proprio adesso devono telefonarci? E se fosse finalmente Patrick? Affari suoi, pensiamo…prima dobbiamo sistemarci! Dopo aver fatto ancora un paio di volte avanti e indietro per un centinaio di metri, mi casca l’occhio su delle sbarre che abbiamo oltrepassato con il bus dell’arrivo. Un lampo davanti agli occhi: la stazione dei bus è proprio lì davanti a noi! Riconosco la vetrata infranta davanti alla quale l’autobus ci ha scaricati stamattina! Appena lo capisco mi metto immediatamente a gridare “Ma è questa, cribbio, ce l’abbiamo davanti da mezz’ora!”. Rischiando di farci investire, attraversiamo la strada alla bell’e meglio e finalmente possiamo rilassarci un po’ sotto la pensilina, aspettando il bus che sarà qui tra cinque minuti. Nell’attesa, Davide tira fuori il telefono e scopre che è spento, cioè stava vibrando da solo per chissà quale motivo. Temiamo si sia rotto, ed infatti non si accende più. Maledizione! Ci mancava anche il guasto al cellulare per concludere alla meglio la giornata. Intanto arriva il bus, sui cui sedili faccio fatica ad appoggiarmi poiché tutto quel tempo passato sul duro sellino della bici ha offeso il mio sensibile posteriore. Anche per questo odio la bicicletta. Mi sento già un po’ di febbre, ma non me ne preoccupo più di tanto, poiché sicuramente è una cosa passeggera dovuta allo stress fisico del momento. Una buona dormita rimetterà tutto a posto. Scesi dal bus e saliti sul treno, il cellulare di Davide riprende a funzionare. Almeno questo! Certo che siamo caduti dalle stelle alle stalle, pensando al nostro stato d’animo un attimo prima di cominciare la pedalata, rapportato al nostro stato d’animo di adesso! Quando finalmente calpestiamo di nuovo il suolo di Amsterdam, puntiamo direttamente il fast food, per comprare qualcosa da portar via e poi mangiarcelo in camera. La commessa sembra non capire cosa vogliamo, rispondendo solo con degli strani e laconici “uh”, ma alla fine con un po’ di buona volontà (e l’aiuto di qualche santo dal cielo) capisce che vogliamo del cibo da portar via. In un lampo inscatola patatine, un hamburger e qualche crocchetta di pollo, e via, più veloci della luce in ostello. Finalmente possiamo levarci di dosso i vestiti bagnati per stenderli ad asciugare (non abbiamo più ricambi, speriamo si asciughino entro domani mattina!), e sotto le coperte diamo fondo a tutto il cibo, esausti ma tutto sommato soddisfatti della giornata, perfino di questo piccolo incidente che è stato un po’ la prova del nove della nostra resistenza. Mulini La nottata passa tranquilla, a parte un brusco risveglio dovuto ad un tizio che alle quattro di mattina sta gridando sotto la nostra finestra, una scena ormai comune, non ci facciamo quasi più caso... questa volta però urla in inglese, e sembra che sia rivolto a qualcuno, in quanto continua a dirgli “Fuck” in centinaia di modi diversi, insultando prima lui, poi la madre, poi il fratello, poi il padre, poi il nonno…insomma tutti. Per fortuna dopo pochi minuti si zittisce, a differenza del cugino francese che 53 era andato avanti per oltre mezz’ora. Al risveglio vero e proprio scopriamo che i vestiti e le scarpe si sono asciugati quasi completamente, e con un po’ di giochi di prestigio riusciamo a ridistribuire tra noi i vestiti puliti ed asciutti che ci sono rimasti, per avere qualcosa da mettere indosso oggi. Va a finire che mi ritrovo con le mutande, le calze e la canottiera di Davide, mentre lui porta la mia canottiera. Ma ci siamo rimessi in sesto, e dopo la solita abbondante colazione siamo ancora una volta alla stazione centrale per prendere il treno. Per la gita fuori porta abbiamo scelto Koog Zaandijk, una piccola cittadina a sud – est di Amsterdam che è la nostra ultima meta, scelta come giornata di relativo rilassamento e degna conclusione del viaggio. E dire che ci saremmo dovuti andare insieme a Patrick, che ormai si è rivelato per quello che è, ovvero un contafrottole. Impossibile che in tutti questi giorni non abbia trovato nemmeno un minuto per me, anche solo per dirmi due parole. Devo farci l’abitudine a queste cose, e non aspettarmi più nulla da nessuno, ecco la verità! No, ora sto esagerando, però devo dire che sono rimasto veramente deluso questo inspiegabile comportamento. Il percorso per raggiungere questo piccolo borgo rurale è piuttosto anonimo; solo ogni tanto si intravede dal finestrino qualche campo debolmente punteggiato di fiori rossi e lilla. Purtroppo non siamo nella stagione ideale per ammirare le distese di tulipani che rendono famoso questo Paese tanto quanto i mulini a vento. Di mulini però ce ne sono in abbondanza in questa località: in riva al fiume ne spiccano subito cinque, circondati da casette immerse in un verde che più verde non si può. L’acqua è limpida e cristallina, ed il villaggio è ornato da fiori di ogni genere, specialmente dalle bizzarre dalie, che meritano qualche scatto per le loro forme e i loro colori così insoliti. L’atmosfera è bucolica e rilassante, non fosse per un terrificante olezzo dolciastro, probabilmente proveniente da un’industria vicina, che non lascia tregua e si insinua in ogni angolo di villaggio. Difficile farci l’abitudine, è veramente ripugnante. Ci addentriamo maggiormente nel dedalo di viottoli sterrati, fiancheggiati da corsi d’acqua, per tentare di sfuggire alla puzza. Temporaneamente ce la facciamo, anche se ogni tanto qualche pestilenziale zaffata raggiunge comunque i nostri sensi, ma tutto sommato dopo una mezz’oretta ci facciamo quasi l’abitudine. È un piacere concentrarci sulle stranezze di questo posticino: i canaletti sono completamente coperti da alghe situate sul pelo dell’acqua, che formano una densa pellicola, ingannevole in quanto ha tutta l’aria di essere un sentiero erboso! Qualcuno un po’ sbadato ci potrebbe tranquillamente cadere dentro ed inzupparsi fino alle cosce. Forse la sua unica salvezza sarebbe notare le papere e i cigni che galleggiano beati su quello strato di fanghiglia verde, immergendo la testa per cercare qualcosa da mangiare e ritirandola fuori poi tutta sporca. I canali sono circondati da campi d’erba alta nel mezzo dei quali sorgono piccole e suggestive capanne di legno dai rossi tetti, con delle panchine dove ci si può sedere qualche minuto ad ammirare lo spettacolo dei mulini a vento a ridosso dell’acqua. Tutti questi mulini sono funzionanti e le loro pale non smettono un attimo di girare, con diverse persone che entrano ed escono dalle strette porticine con fare indaffarato. In una delle casupole è anche possibile vedere una dimostrazione di come si producano le forme di formaggio. I negozi locali abbondano di prodotti tipici, dal miele ai cioccolatini, fino agli articoli “simpatici” come i campanacci per le mucche riadattati a campanelli per la casa. Un piccolo spazio di “vera” Olanda, con le sue reali tradizioni! Seduti su una panca in riva al fiumiciattolo, inganniamo il tempo osservando le increspature dell’acqua ed i riflessi che il sole produce su di esse, foraggiando contemporaneamente uno stormo di anatre particolarmente golose dei nostri biscotti. Non ci mollano più, addirittura saltano per rubarceli, e siamo quasi costretti a traslocare! Dopo aver ripreso la via dei campi per vedere più da vicino le pale dei mulini, scopriamo che non c’è già più nulla da vedere, a meno che non vogliamo rimanere ancora un po’ qui ad assorbire i benefici influssi del sole e dell’aria buona che si respira. Ma onestamente non ne abbiamo poi tanta voglia. Siamo in verità piuttosto stanchi, e io sono particolarmente deluso dal fatto che Patrick non si sia fatto sentire. Dovevo aspettarmelo che sarebbe stata una cosa improbabile, ma stavolta sembrava così reale la possibilità di incontrare qualcuno in viaggio, tanto più che era stato lui a propormi di vederci, quando ci stavamo salutando definitivamente perché avevo finito tirocinio! Ma chissà cosa passa per la testa della gente… Comunque sia, la giornata è ormai terminata. Non abbiamo più voglia di fare nulla, ma ci facciamo ancora un giro per le strade di Amsterdam intercettando un negozio di dischi. Sembra di rivivere le 54 ultime fasi del nostro vecchio interrail, infatti ci precipitiamo dentro cercando la sezione heavy metal, che ovviamente è la più nascosta ed introvabile di tutto il negozio. Curiosamente si trova proprio di fianco alla sezione della musica classica, come a voler simboleggiare la natura difficilmente assimilabile di questi due generi musicali, che paradossalmente hanno non poco in comune. Approfittando di un consistente sconto, compro perfino un album, dello stesso gruppo che ha dato vita alla canzone che ho eletto un po’ a “simbolo” di questo viaggio. Con questo si conclude l’ultima giornata ad Amsterdam, città interessante e unica al mondo, che ha degnamente posto la ciliegina sulla torta del nostro viaggio che ormai sta volgendo al termine. Ormai è tempo di tirare le somme, raccogliere i pezzetti di vita che abbiamo collezionato e portarceli a casa, incorniciandoli per sempre. Inconsapevoli vandali La mattina successiva facciamo velocemente tutti i preparativi per andarcene, ma qualcosa sembra andare storto fin da subito. Avremo aperto e chiuso la porta della nostra camera innumerevoli volte nel corso della nostra permanenza in città, ma chiudendo quella porta per l’ultimissima volta scardino involontariamente la maniglia. Proprio adesso doveva succedere? Pazienza, la rimetto su in qualche modo, ci penseranno gli ostellanti a sistemarla. Scesi alla reception, la porta è chiusa, evidentemente stanno ancora tutti dormendo. Dobbiamo però consegnare le chiavi e riprenderci la caparra, prima di prendere il treno che passerà tra meno di mezz’ora! Anche altri ospiti sono nella stessa situazione, infatti non sanno bene cosa fare, ma ad un certo punto si dileguano e non li vediamo più. Noi invece continuiamo a battere sulla porta. L’unica cosa vivente che ci risponde è il gatto, ma forse è proprio il suddetto felino a salvarci, poiché miagolando e miagolando finalmente riesce a svegliare i padroni e qualcuno viene ad aprirci. Consegnate le chiavi e ripresici i soldi, tocco quasi involontariamente la maniglia della porta, ed anche questa si scardina e cade a terra! Sembra una maledizione del cielo! Per un po’ tento di rimetterla a posto, ma sembra essere un danno più complesso di quel che appare, quindi desisto e lascio la maniglia in mano al giovane gestore biondo che non abbiamo mai visto prima d’ora. Mentre lui va a chiamare qualcuno per farsi aiutare, piano piano scivoliamo furtivamente via, con gli zaini e tutto, ormai liberi. Si arrangeranno loro, non abbiamo tempo ora di stare a guardare come ripareranno quella maniglia. Sappiamo solo che adesso dovremo prendere tre treni prima di giungere a casa, attraversando la Germania e la Svizzera e trapassando di nuovo le solenni Alpi, ancora una volta linea di demarcazione tra quello che fu e quello che riprenderà ad essere. Non è la fine, è semplicemente un nuovo inizio. Quando ricomincerà, però, ancora una volta è un mistero. Daniele [email protected] 55