Da quand strèl e lónna ei pianeta tótt intàuren

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Da quand strèl e lónna ei pianeta tótt intàuren
Da quand strèl e lónna e i pianeta tótt intàuren
ién lé in vatta, chi à mai vést quèl d'pió
spzièl ed pió amâbel dal vén ban
só 'sta tèra puvràtta?
L'è par quast che mé av dmand:
"Chi vand vén par destén côs'al
prêl cumprèr mai mej ed quall c'ai fa
vander al sô amstîr birichén?"
Da quando le stelle la luna e i pianeti
stanno lì per aria, chi ha mai visto qualcosa
di più bello di più speciale del vino buono
su questa terra?
E' per questo che io vi domando:
"Ma a chi in sorte è toccato di vendere vino cosa
potrà mai comperare di migliore di ciò che gli fa vendere il suo mestiere sbarazzino?"
da: IUSVEIDKAIÀM
(GLI ARNESI DI KHAYYÂM)
Traduzione - ispirazione liberamente tratta dal
ROBÂIYYÂT (quartine) di OMAR KHAYYÂM.
Stefano Delfiore
Bologna, luglio 1995
MONTEVEGLIO
Fiera da sempre, Mons Vetulus (o Montepellium o Mons Bellium o Montem Vellum o Montebelli). Forse
perché sito in capo ad una vallata lungo la quale non era difficile il transito di carri, asini, cavalli, muli,
anche in stagioni di piogge e di piene .
Le zone del Samoggia e del Lavino e la loro gente, che per secoli s'è radunata sotto l'ombra del tuo castello,
a stendere ogni sorta di mercanzia nelle improvvisate botteghe del mercato.
Due volte al mese, già dal 1311, come a Pianoro, Castel San Pietro e Castel del Vescovo. Luoghi deputati
dalla repubblica perché vicini a Bologna, e quindi più facilmente controllabili dalla milizia della capitale.
Fumanti, brazenti, ladri, medici, speziali, assassini, artigiani, malnutriti (contadini), giocatori di dadi, si
ritrovano da secoli con nomi, abbigliamenti e status sociale differenti nei corsi e ricorsi del tempo, tra le
grida di questo eterno mercato.
Anche se oggi sarà difficile poter comperare una vacca clarina con le corna rivolte in avanti per diciotto
fiorini d'oro come quel 2 aprile del 1405, o una clamide rubata a Bisano, per sette fiorini, offerta il primo
dicembre del 1372, o una balestra da cinquanta soldi o, per tredici soldi, un arcone da balestra e un
pancirone di ferro, le mura della tua fortezza e il silenzio della tua abbazia stanno ancora lì, nonostante le
incurie del tempo, degli uomini e dei loro tormenti.
CASTELLO DI SERRAVALLE
Come avrà fatto Aristide più di ottocento anni fa, Aristide da Castello di Serravalle? Cittadino di
quest'ultima frontiera d'Occidente che guarda in fronte le terre dell'eterno nemico modenese. Castello di
Serravalle sta in bilico fra il bacino del Panaro ed il Samoggia.
Quante volte Aristide si sarà lavato nelle acque del suo "Sam-Oudra" (nome vedico di origine sanscrita
che sta per "Sciame d'acque", come afferma il Rubbiani).
Il toponimo si sarebbe poi trasformato in Samudda, allorché vennero i Liguri. Forse è cosi, ma non tutti gli
storici sarebbero disposti a mettere la mano sul fuoco.
Fatto sta che Aristide non avrebbe lavato nemmeno la scrofa nell'altro fiume, l'ostile Panaro. Le acque del
Samodia o Sabodia o Samoggia erano le sue acque sicure, come le mura continuamente rifatte e
agguerrite del castello furono sempre le mura di casa sua. E' per questo motivo forse, che ancor oggi, il
castello è uno dei meglio conservati di tutta la zona, e per certo il più bello, con l'abitato che si presenta
tuttora come una tipica borgata medievale. La gente di frontiera conosce il pericolo; è avvezza a sentirlo
con gli odori, a intenderlo di lontano, coi rumori portati dal vento.
Ma ... come avrà fatto Aristide? D'accordo che il desiderio di rendere più sicura la sua patria fu forte,
com'è forte presso la gente di confine, ma un portone così pesante.... fin dalla lontana Imola di Romagna....
forse sopra un carro tirato da buoi, qualcuno l'avrà aiutato, certo, ma quale coraggio...!
Perché... vedete quel doppio portale sotto il voltone difeso dalla torre merlata oltre il ponte levatoio?
Ebbene, una di quelle due vetuste porte in legno massiccio fu tolta nel 1179 dall'entrata del castello di
Imola, quando fu attaccato e distrutto dai Bolognesi, e collocata lì, dove ancora oggi sta, imponente e
sicura.
Ma come avrà fatto Aristide...o Rodolfo....o Riccardo....o Aldovrandino....?
MONTE SAN PIETRO
Di quel fatidico 26 maggio del 1249, prime ore dell'alba a Fossalta, tante cose si potrebbero dire: che la
scintilla fu provocata dai Modenesi, allorché si avventarono su alcuni falegnami bolognesi intenti a
costruire un ponte. Che l'esercito bolognese non esitò un istante a correre in difesa dei malcapitati
artigiani. Che la battaglia, a lungo attesa, scoppiò all'improvviso, dopo gli squilli delle trombe. Fanti contro
fanti, cavallerie al galoppo sfrenato.
Che colui che comanda l'esercito di Modena è il re di Sardegna, il "falconcello di Svevia". Un eroe
intrepido e testardo che, con la sua veemenza, incita i propri uomini e combatte con un accanimento che
non ha eguali.
Che ad un certo punto il suo destriero viene ferito a morte ed egli, pur continuando imperterrito a menare
la pesante spada, risulta circondato da alcuni soldati nemici.
Che, per farla breve, tre di questi illustri armati sconosciuti, costringono il re Enzo ed i suoi lunghi capelli
biondi alla resa.
Una resa lunga una vita. Che la Storia spesso è ingrata con i suoi eroi più umili e popolari. Chi erano
infatti costoro? Tre uomini senza nome, età, volto, senza tutto, all'infuori dell'esercito di appartenenza.
Tante cose si potrebbero dire intorno a quel fatidico 26 maggio del 1249, per rendere un poco di giustizia
a tre uomini passati lungo la Storia, come attraverso un sotterraneo, un vuoto di memoria; ma non
possiamo. Troppo tempo è passato. La memoria, le carte, tutto o quasi ha distrutto. Di quel poco che è
rimasto però vogliamo dare notizia.
Innanzi tutto che quel 26 maggio non fu che il primo atto, il cui prologo risale ad almeno un anno prima:
un atto del 1248 dichiara infatti la chiamata alle armi di uomini destinati alla guerra contro i Modenesi. Si
precisa, in quel documento, che Monte San Pietro reclutò undici soldati, che l'anno seguente si sarebbero
battuti valorosamente nella battaglia di Fossalta. Si sa, perché è la verità, anche se la Storia non lo precisa,
che tre di quegli undici uomini, furono gli artefici della cattura di Enzo, re biondo di Sardegna,
"falconcello di Svevia".
BAZZANO
Nessuno può affermare con sicurezza che il nome del paese derivi dal latino badianum e non piuttosto
dall'ebraico batzar o bazzar. Abbandoniamo dunque ogni certezza. Quelle stesse che per tempi ed epoche
riconobbero come artefice del battesimo di questo luogo tale Matilde di Canossa, intorno all'anno 1055: in
realtà mai nulla fu storicamente più falso, se è vero che di tutte le terre che dal Reno al Samoggia
dolcemente si lasciano per colline e rincorse di campagna, questa è l'unica, per certo, che fu sempre
abitata, sin dal tempo della pietra. Qui, le ere hanno avuto successione regolare nel corso del tempo: dal
paleolitico ai periodi villanoviani, etrusco gallico e romano. Dunque, perché badianum e non batzar, che
in ebraico significa "vendemmiatore"?
Bacco, tra i tanti suoi nomi, porta quello di batzareo o bassareo.
Queste colline sono sabbia, creta e marna e duecento anni orsono questa terra era anche appellata "terra
dei vendemmiatori".
Perché allora non batzar di un luogo che per natura è sempre stato legato alla produzione di uva di
buona qualità?
Il primo documento che fa menzione delle vigne bazzanesi porta la data del 1009, ed è un atto con il quale
il vescovo di Modena, uomo concreto e lungimirante, acquista lungo queste colline dieci iugeri, circa due
ettari abbondanti, di vigna: che il sangue di Cristo non avesse mai a mancare!
ZOLA PREDOSA
Chi potrebbe immaginare, tranquilli abitatori di Zola Predosa (Ceula Petrosa), che dietro i vostri occhi,
nell'andatura del passo, nel modo di atteggiarsi e gesticolare, sopravviva l'eredità genetica di una
moltitudine di razze, successioni di incroci, accidentalità di eventi?
A cominciare dal basso di un "allegro" albero genealogico, dalle più antiche memorie, la razza Iberoligure è la prima ad affacciarsi, e poi gli Umbri e poi gli Etruschi che a quelli si sovrapposero; i Galli boi
per due secoli padroni dell'Etruria circumpadana, e i Romani, e poi i Barbari travolgenti.
Non meravigli dunque se, dopo tanta mescolanza di elementi così disparati, il tipo di fisico dell'uomo di
pianura bolognese appare vario quant'altri mai.
Innanzi tutto la brachicefalia è meno accentuata in questa zona che non a Savigno per esempio. La statura
è invece mediamente più alta e il colorito bruno. Su, nei paesi di alta collina, a Monte San Pietro diciamo,
l'altezza scende di parecchi centimetri, come pure più chiaro si fa il colorito della pelle. Anche la forma del
capo, da brachicefalo, si tramuta in dolicocefalo fino a somigliare molto al tipo della montagna toscana.
Gente di Zola e di pianura: dal volto ovale, naso dritto o aquilino occhi grandi e scuri, a taglio
orizzontale, sovente assai a mandorla, capelli folti di un nero lucidissimo, ondulati. E ..... le donne,
perbacco!?!
Fermi restando i tratti comuni ai due sessi, occorre dire che l'arte ha contribuito assai a tramandarcene
una immagine di bellezza unica e spiritosa, grazie alle tele di Prospero Fontana, di Guido Reni, dei
Carracci. Lineamenti fini, occhi vispi e malandrini, labbra tumide, membra prosperose e sensuali.
"....Le più liete e disimpacciate che si possano desiderare....", scriveva Ippolito Nievo circa un secolo fa.
Ma cosa avrà voluto intendere con quegli aggettivi ambigui l'autore de "Le confessioni di un italiano" ?
SAVIGNO
"Sabinium", che deriverebbe da "Sabo" o "Sabio", uno dei nomi con il quale veniva indicato Bacco nel
mito del sole, posto sulla riva destra del Samoggia, nella parte alta del corso del fiume, è quel luogo, quel
paese, quel posto nel nostro mondo che oggi noi indichiamo con Savigno.
Dove gli sparsi e radi ulivi, per chi ha la pazienza di attendere ed assecondare la natura, danno olio di
rara qualità e quantità. Dove non è neppure rimasta traccia di quel "Fundum Mauri", la fortezza di Monte
Mauro citata nella carta di Opilione del 793, e nella pergamena del 969, oggi conservata presso l'archivio
di stato di Modena.
S'è perso il ricordo anche dell'enula, quella pianticella così bramata nei secoli passati e che qui, nella conca
dove s'adagia Savigno, cresceva un tempo abbondante e di ottima qualità. I servi salivano fin qui dalla
capitale per procacciarsi grosse quantità di questa erbacea dotata di proprietà antisettiche, digestive,
diuretiche; con belle foglie ovali e fiori in capolini gialli.
L'enula (o lîola o lella in bolognese ), era particolarmente ricercata perché ingrediente insostituibile in una
delle più antiche ricette per fare i tortellini che si conoscano. E' riportata, tale ricetta, in un libro di cucina
del Trecento, scovato da Lodovico Frati nel 1899, e ve la voglio lasciare, prima di lasciare Savigno ma, mi
raccomando, se decidete di provarla, non dimenticate l'enula.
"....Se tu voy fare torteleti de enula con brodo, toy caponi o tuò de la carne del bo per XII persone, toy tre
libre de lonza de porcho e toy tri cassi passi fini e toy tri onze de specie fine e dolze e forte mesedate e ben
zalle, e toy do derate d'enula e toy XX ova e toy la lonza del porcho e mitila a lessare con essa la enula ben
monda, e quando è ben cocta bati la lonza la enula insieme e no metere tuta la enula. Toy lo caxo che tu ay
e pestalo con la lonza e mitige le specie e l'ova tanto che baste e fa che non sapia tropo de enula e mena
insieme ogni cossa e fay battuto e po fay i tortelli pizenini in fogli di pasta zalla. Questi tortelli volle essere
ben zali e potenti de specie...."