RICERCA Percorso migratorio delle donne immigrate nella

Transcript

RICERCA Percorso migratorio delle donne immigrate nella
RICERCA
PERCORSO MIGRATORIO DELLE DONNE
IMMIGRATE
NELLA PROVINCIA DI ENNA
1
Pubblicazione realizzata con il contributo del Fondo Sociale Europeo 2007/2013 Asse III - Inclusione sociale - Programma Operativo Regionale - Obiettivo
Convergenza nell’ambito del progetto “FOSBI – Formazione Orientamento Sostegno
Badanti Immigrate” C.I.P. n. 2007.IT.051.PO.003/III/G/F/6.2.1/0094
Gruppo di lavoro
Dott. Giuseppe Castellano - Direttore
Dott.ssa Silvia Messina - Coordinatrice
Dott. Michele Sabatino - Progettista
Dott.ssa Annalisa Lambritto Responsabile Esterno Operazioni (REO)
Dott.ssa Antonina Licata - Ricercatrice
Dott.ssa Manuela Mancuso - Ricercatrice
2
PREMESSA
Nell’ultimo decennio, la rinnovata attenzione al fenomeno
delle lavoratrici straniere impegnate nell’attività di assistenza
agli anziani, spesso identificate con l’appellativo di “badanti”,
ha posto in evidenza, da un lato, i limiti strutturali dei sistemi
di welfare di molte società occidentali, e di quella italiana in
modo particolare e, dall’altro, l’impatto trasformativo in
termini di composizione della popolazione straniera. A livello
locale come a livello nazionale, l’accesso delle “badanti” al
mercato del lavoro ha cambiato in parte la composizione dei
flussi migratori: se la migrazione orientata al settore
domestico non è nuova nella storia, nemmeno quella
femminile, ciò che invece cambia rispetto al passato sono le
caratteristiche delle donne coinvolte nella migrazione.
È nostro scopo, attraverso il presente lavoro, ricostruire le
diverse peculiarità che contraddistinguono le donne straniere
coinvolte in questo segmento occupazionale, i molteplici
fattori che incidono sulla costruzione e sull’evoluzione della
loro esperienza migratoria, sulle strategie di vita e lavoro.
In particolare il presente lavoro, si inserisce nell’ambito delle
attività di ricerca del progetto “FOSBI – Formazione
Orientamento Sostegno Badanti Immigrate” finanziato a
valere dell’Avviso n. 1/2011 dell’Assessorato Regionale della
Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro che prevede la
formazione di 20 donne immigrate residenti nel territorio
della Provincia di Enna per il profilo professionale di badante.
La scelta della Provincia di Enna come luogo di osservazione
è dettata, da una parte dalle attività progettuali, dall’altra
dall’assenza di studi qualitativi su questo fenomeno in tale
realtà geografica. L’obiettivo che ci si propone è di
conoscere, la realtà dell’immigrazione locale e fornire uno
strumento agli enti locali, agli organi pubblici e privati
operanti in questo settore, per attuare interventi ed iniziative
efficaci e realmente penetranti nel tessuto sociale
provinciale.
La cospicua presenza delle donne nel contesto attuale
dell’immigrazione nazionale oltre che locale risponde ad una
richiesta implicita di manodopera di questo tipo, funzionale al
3
sistema economico e sociale e, in particolare per quanto
concerne le donne provenienti dai paesi dell’ex blocco
socialista europeo, sembra incastonarsi entro specifiche
caratteristiche e trasformazioni recenti della società italiana,
che vede trasformarsi demograficamente, con il sorpasso
della componente anziana su quella più giovane, con uno
sbilanciamento della struttura demografica a favore della
prima e una distribuzione del lavoro produttivo fra i generi
sempre più equilibrato.
La particolare congiunzione fra rivoluzione demografica e
crisi del welfare (in termini di servizi assistenziali e di
politiche efficaci di conciliazione), ha incentivato una forma
particolare di immigrazione femminile, orientata al lavoro
domestico e di cura nello spazio privato della società,
andando progressivamente a costituire quello che Ambrosini
(2002) definisce un ormai indispensabile “puntello” per le
famiglie italiane, bisognose di figure assistenziali, che hanno
la possibilità di ricorrere al mercato anche grazie all’offerta di
manodopera a basso costo che le migrazioni rendono
disponibile. Partendo dai presupposti descritti, il seguente
lavoro si pone l’obiettivo specifico di approfondire il
fenomeno dell’immigrazione femminile proveniente, dalla
Romania, proprio perché quest’ultimo rappresenta il Paese di
provenienza del maggior numero di immigrate donne
occupate nel settore dell’assistenza domiciliare e della cura
nei comuni della provincia di Enna.
Nel primo capitolo verrà offerto un ampio sguardo al
fenomeno delle migrazioni in Italia con una attenzione
particolare alla normativa in materia di immigrazione, alle
principali cittadinanze ed alla distribuzione degli stranieri sul
territorio. Nel secondo capitolo verrà approfondito il ruolo
economico e sociale dell’ immigrazione. Si osserverà in modo
particolare quali sono i principali effetti ed il contributo
dell’immigrazione alla tenuta del sistema di protezione
sociale. Nel terzo capitolo verrà offerto un ampio sguardo al
fenomeno delle migrazioni contemporanee, con una
attenzione particolare alla crescente femminilizzazione dei
flussi stessi, la cui caratteristica principalmente osservabile è
di essere migrazioni sempre più economiche rispetto al
4
passato e sovente sganciate dai percorsi maschili.
Nel quarto capitolo l’attenzione verrà focalizzata in modo
specifico sulla concentrazione occupazionale delle donne
immigrate nel settore domestico e di cura, ambito lasciato
scoperto, come già detto, da un welfare insufficiente a
garantire il soddisfacimento dei bisogni di una società che sta
facendosi
carico
privatamente
del
progressivo
invecchiamento della popolazione, del mutamento del ruolo
della donna e della struttura familiare, non più in grado di
fungere come un tempo da efficace ammortizzatore sociale.
Utilizzando come fonte privilegiata d’indagine i colloqui di
selezione, effettuati nella fase di selezione delle 20 donne
immigrate beneficiarie delle attività formative del progetto
FOSBI, il lavoro di ricerca procede con l’analisi del progetto
migratorio, quali sono i reali bisogni, le motivazioni che
spingono le donne rumene a venire in Italia ed intraprendere
il lavoro di badante a prescindere da età, istruzione e
aspirazioni. Infine, il lavoro si conclude con l’esame del
contesto regionale e locale. Attraverso l’analisi di dati ufficiali
viene rilevata la distribuzione degli stranieri presenti sul
territorio della Provincia di Enna per genere, età e
cittadinanza.
1. IL PERCORSO MIGRATORIO
1.1
Definizione di migrante
Poiché l’argomento del presente lavoro riguarda le
migrazioni, è bene innanzitutto chiarire che cosa si intende
con il concetto di migrante Potrebbe sembrare una
precisazione scontata, se non superflua, ma non lo è:
definire chi siano i migranti, infatti, ha una forte valenza
politica poiché significa marcare il confine fra le categorie
dell’inclusione e dell’esclusione (Zolberg, 1997). Come
ricorda Zanfrini, tale confine è mobile e mai dato una volta
per tutte, proprio perché deriva interamente dal modo in cui
vengono
tracciati
i
confini
geografici,
politici
ed
amministrativi dello stato: qualunque tentativo di definizione
che si può dare del concetto di migrante, infatti, «è sempre
5
una decisione arbitraria e valida solo in riferimento a un dato
momento e luogo ed è destinata prima o poi a essere
rimessa in discussione» (Zanfrini, 2004). La linea
immaginaria che di volta in volta divide lo status di
appartenente ad una comunità e quello di estraneo ad essa,
di straniero, infatti, oltre a rappresentare la misura di
distanza sociale (Zanfrini, 2004) con cui la società ospitante
si rapporta al migrante, viene anche a limitare e a
permettere l’accesso ad una serie di diritti e opportunità in
grado
di
rivestire
un
ruolo
determinante
nell’inclusione/esclusione dell’individuo nella società.
L’appartenenza,
nelle
sue
diverse
declinazioni
–
appartenenza politica, sociale, culturale – ha, infatti, il potere
di attribuire, limitare, negare, l’accesso dei soggetti ad una
serie di diritti, dal diritto al lavoro, al diritto di movimento, a
quello della partecipazione politica, dell’accesso al welfare. La
modalità di conferimento delle diverse sfere dei diritti variano
enormemente da paese a paese e attraverso i differenti
status dei singoli soggetti: sono diritti con criteri di accesso
spesso molto dissimili fra loro. Oltretutto, il termine
“migrante” richiama alla mente una condizione in fieri,
processuale, non finita: è proprio sulla definizione della linea
di confine e sul suo spostamento al di là e al di qua che si
gioca lo status dei soggetti e il loro accesso alle risorse e ai
diritti.
La definizione di chi è il migrante è dunque un elemento
centrale, che non ha solo funzioni analitiche e accademiche,
bensì radici culturali, storiche e politiche molto profonde:
come ricordava Sayad, infatti, «pensare l’immigrazione
significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa a se stesso
pensando l’immigrazione». Riguardo questa questione,
esiste, inoltre, anche un problema statistico, di comparabilità
dei dati: poiché variano notevolmente le definizioni e il modo
di considerare chi sia o meno migrante, i dati sugli
spostamenti migratori prodotti dai singoli paesi sono talvolta
molto dissimili e per la maggior parte incomparabili fra loro.
L’ONU, convenzionalmente, considera come migrante una
persona che si è spostata verso uno stato che non è quello
della sua abituale residenza e vi ha vissuto per più di un
6
anno, periodo ritenuto sufficiente affinché lo stato di
destinazione diventi effettivamente quello della nuova
residenza abituale ma ogni nazione ha formulato la sua
definizione specifica di migrante, in relazione alle specificità
della storia migratoria della nazione, delle finalità delle
istituzioni politiche e amministrative, degli scopi per cui i dati
sono raccolti.
Alcuni dei criteri più frequentemente utilizzati in Europa per
definire i migranti si basano sull’intenzione di rimanere – la
presenza, quindi, di un progetto più o meno duraturo e
stabile (criterio utilizzato da Belgio, Lussemburgo, Italia e
Spagna), su un periodo minimo di durata della residenza nel
nuovo paese (è il caso di Portogallo, Finlandia, Svezia,
Danimarca e Olanda), sulla natura dell’alloggio occupato
(come in Germania). Anche i criteri per definire l’emigrazione
e l’immigrazione variano da paese a paese, nonché quelli per
delineare chi siano i rifugiati e i richiedenti asilo. Tale
disomogeneità, oltre a rendere difficoltosa la raccolta di dati
omogenei a livello sovranazionale, comporta limiti di validità
delle statistiche sulle migrazioni del continente, rese ancora
meno attendibili dal crescente numero dei migranti irregolari
e clandestini presenti.
Tuttavia, i diversi paesi europei convergono nell’utilizzare la
ragione della migrazione come criterio principale nella
definizione dei flussi migratori: in linea generale, infatti, la
legislazione in materia di immigrazione utilizza questo criterio
come base nell’attribuzione di alcuni diritti, in primis quello di
ingresso. Le forme più diffuse di migrazione, secondo questo
criterio sono le labour migrations, il ricongiungimento
familiare, le migrazioni per motivi di studio, di turismo, per
asilo e rifugio politico: lo status che ne deriva rimane per il
soggetto a lungo strettamente collegato alla ragione iniziale
di ingresso. Si pensi, a titolo esemplificativo, a come le
possibilità di soggiornare dei migranti entrati come lavoratori
siano garantite dalla presenza di un contratto di lavoro anche
quando essi hanno già costituito un nucleo familiare nel
paese di immigrazione. Inoltre, è da notare che la notifica
ufficiale del motivo di ingresso e la conseguente attribuzione
di uno status particolare ed ad esso legato, rende difficoltoso
7
il passaggio alle altre categorie, eventualità che invece
avviene frequentemente. Per esempio, per gli studenti
immigrati il diritto a lavorare è limitato e, una volta terminati
gli studi, il passaggio da uno student visa ad un permesso di
lavoro è complicato e tutt’altro che automatico. Un’altra
categoria di migranti, molto nutrita specialmente in Italia, è
quella rappresentata dagli overstayers entrati con visto
turistico che, una volta ottenuto un lavoro, regolarizzano la
propria posizione come lavoratori, quella di coloro che si
sposano: si avverte una discrasia evidente fra la realtà
sociale quotidiana del fenomeno migratorio, in cui lo
switching fra una ragione di permanenza e l’altra è piuttosto
frequente (nonché la compresenza di condizioni e status
diversi: si pensi alle donne ricongiunte che iniziano a
lavorare), e la rigidità di un modello burocratico statico, che
ha anche notevole influenza sullo stato di diritto dei soggetti
stessi.
La durata della migrazione è un altro criterio comunemente
utilizzato per definire i migranti. L’eventuale transitorietà dei
loro progetti ne fa persone con diritti transitori, a differenza
di coloro che si orientano verso una stabilizzazione definitiva
nella nuova società, sebbene la varietà dei percorsi e dei
vissuti riportino ancora una volta a considerare la rigidità
delle norme in materia di immigrazione, poco attente a
cogliere i mutamenti in corso: nonostante, infatti, sia diffusa
l’idea che solitamente il passaggio avvenga dalla
permanenza temporanea alla permanenza definitiva, è
sempre più evidente una tendenza opposta, che vede una
crescente transitorietà dei flussi e assume come probabile e
importante anche il ritorno in patria alla conclusione del
progetto migratorio. Questo criterio è utilizzato anche nella
definizione di alcuni tipi di permesso di soggiorno, come, fra
gli altri, quello legato alla stagionalità del contratto di lavoro
o quello per motivi di studio, entrambi di durata prestabilita e
talora non rinnovabili oltre i termini.
Un’ altra questione di notevole importanza, che di nuovo
trova risposte molto diverse da parte dei diversi paesi
europei, è quella relativa al passaggio definitivo di status,
anche nell’immaginario collettivo, del migrante da “straniero”
8
a “nazionale” a tutti gli effetti. Quando è, in sostanza, che i
migranti smettono di essere migranti? Qui entrano in gioco
diversi fattori: le peculiarità storico culturali nazionali; le
diverse provenienze dei migranti, nonché loro caratteristiche
demografiche come l’età e il genere; le modalità di accesso
allo status di cittadinanza previste dal singolo paese.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante, poiché
spesso è proprio la naturalizzazione che viene considerata
come spartiacque giuridico, semantico e identitario che
segna il confine fra status di migrante e status di “nazionale”,
anche se quello dell’accesso alla cittadinanza come
condizione desiderabile dalla maggior parte dei migranti è un
tema ancora fortemente dibattuto.
Certo è che, probabilmente, per quanto riguarda almeno la
situazione italiana, il cui diritto di cittadinanza si fonda sul
principio dello ius sanguinis, la naturalizzazione non sembra
riuscire più a rispondere alle esigenze di una società in
profonda trasformazione e caratterizzata da elevata mobilità,
che richiederebbe piuttosto un nuovo modello di
cittadinanza. I diritti politici e di cittadinanza, specialmente in
un paese come l’Italia, sono strettamente legati, ma i
criteri/requisiti per l’ottenimento della cittadinanza italiana si
fondano su una concezione classica (principio dello ius
sanguinis) e statica della società: potevano essere adatti
nelle epoche passate, quando i flussi immigratori erano
esigui e l’Italia era un paese essenzialmente di emigrazione,
ma oggi occorrerebbe ripensare il concetto di cittadinanza
per poter individuare un modello più adatto alle esigenze del
paese, che si è a sua volta trasformato in un paese di
accoglienza dei flussi. L’immigrazione scompagina, infatti, gli
schemi tradizionali di attribuzione della cittadinanza. Questo
è uno dei motivi per cui quello della cittadinanza è un
concetto politico delicato, complesso, centrale e soggetto a
continui conflitti e rinegoziazioni, proprio per il suo significato
simbolico. L’Italia - il cui modello migratorio, che Ambrosini a
questo proposito definisce “implicito”, è caratterizzato dalla
mancanza di una regia centrale forte in grado di indirizzare le
politiche in materia e di pianificarne e dirigerne lo
sviluppo/evoluzione attraverso una programmazione di lungo
9
raggio – ha dato sinora risposte essenzialmente
‘emergenziali’ alle esigenze che il fenomeno migratorio
comporta, in genere limitatamente all’ambito delle politiche
sociali.
Scardinando l’ordine in cui vengono acquisiti i diritti di
cittadinanza secondo la famosa teoria di Marshall (sequenza
che parte dai diritti civili, si estende ai diritti politici, per
includere infine i diritti sociali), agli immigrati sono stati
concessi in prima istanza i diritti sociali (specialmente quelli
legati al lavoro, alla sanità e all’istruzione) mentre quelli
politici stentano ad essere riconosciuti (Ambrosini, 2005): il
modello marshalliano, infatti, trovava una sua legittimità e
validità in contesti in cui lo stato nazionale era compatto ed
omogeneo culturalmente e non interessato da migrazioni.
Ma, come ricorda Ambrosini, diritti sociali non supportati da
una base di diritti politici rischiano di restare fragili e
revocabili, apparendo come una sorta di concessione che la
comunità dei cittadini a pieno titolo fa agli immigrati. È,
infatti, necessario che tali diritti siano potenzialmente
difendibili e rivendicabili in prima persona sul piano politico
da parte di chi ne gode, per poter essere considerati diritti a
pieno titolo. Attualmente si assiste piuttosto alla situazione
paradossale per cui gli immigrati, persino coloro che sono
residenti in Italia da molti anni, continuano ad essere
considerati in parte estranei: vengono inquadrati in una
condizione intermedia tra quella di cittadino a pieno titolo e
quella di straniero, in quell’area interposta fra inclusione ed
esclusione tipica dei cosiddetti denizen. Castles parla a
questo proposito di “esclusione differenziale” gli immigrati
sono incorporati in alcune aree della società (lavoro) ma si
vedono negato l’accesso ad altre (cittadinanza e
partecipazione politica). La rappresentanza politica, pur
essendo sicuramente uno degli elementi fondamentali
dell’inclusione nella società e della partecipazione alla vita
pubblica, rimane quasi ovunque la fortezza inespugnabile che
perpetua la differenza formale fra cittadini nazionali e
immigrati.
Il tema, come si è già detto, si intreccia con la concessione
della cittadinanza e anche con i diritti di cittadinanza, che,
10
curiosamente, continuano a basarsi sul principio dello ius
sanguinis,
alquanto
anacronistico
in
un’epoca
di
globalizzazione, spostamenti e mescolanze.
1.2
La normativa in materia di immigrazione
L’immigrazione nel nostro Paese attualmente è regolata dalle
disposizioni della legge n. 189 del 30 luglio 2002, cosiddetta
legge Bossi – Fini sull'immigrazione, che regola la condizione
degli stranieri in Italia, modificando la normativa precedente
(la legge Turco- Napolitano, poi trasfusa nel Testo Unico
sull’immigrazione). Le modifiche introdotte dalla legge
intendono
sia
rafforzare
le
misure
di
contrasto
all’immigrazione illegale e al traffico di esseri umani, sia
favorire l’inserimento dell’immigrato che risiede e lavora
regolarmente in Italia.
Per comprendere meglio quale sia stata l' evoluzione del
fenomeno migratorio in Italia, bisogna fare un breve
excursus riguardo alla normativa che regola i flussi
immigratori e alle modificazioni che essa ha subito nel corso
degli anni.
Negli anni '70, quando comincia a manifestarsi il fenomeno
dell’ immigrazione, le norme che regolano l'ingresso e il
soggiorno dei cittadini stranieri risalgono al 1931, anno in cui
è stato redatto il Testo unico di leggi di pubblica sicurezza.
Solo l'accesso al lavoro è disciplinato da circolari del
Ministero del Lavoro.
La prima vera e propria legge riguardante i lavoratori straneri
è la legge n. 943 del 1986 che prevede la parità assoluta di
trattamento e la piena uguaglianza dei diritti tra lavoratori
italiani e lavoratori stranieri legalmente residenti in Italia. La
parità comporta anche la garanzia del diritto all' uso dei
servizi sociali e sanitari, al mantenimento dell' identità
culturale e all'istruzione. Tramite questa legge si è
provveduto inoltre a regolarizzare tutti i cittadini stranieri
presenti in Italia al momento dell' entrata in vigore della
stessa.
Con la legge n° 39, o legge Martelli, del 1990, si introducono
norme sull'ingresso e il soggiorno in Italia per motivi non solo
di lavoro, ma anche di studio, di famiglia o di cure mediche.
11
Cominciano così i ricongiungimenti familiari, che tanta
importanza assumeranno negli anni successivi nel modificare
le caratteristiche socio-demografiche della popolazione
straniera presente in Italia. La legge regolamenta i rilasci, i
rinnovi e le revoche dei permessi di soggiorno e decreta
l'adesione dell'Italia alla Convenzione di Ginevra del 1951
riguardo allo status di rifugiato.
Negli anni successivi vengono attuati vari interventi legislativi
che non vanno però a modificare, se non in piccola parte, la
legge 39. Manca però ancora una normativa complessa che
regoli la condizione giuridica della straniero in Italia,
normativa di cui si sente la necessità soprattutto dopo
l'entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1993) e dell'
Accordo di Schengen (1997). Così, nel marzo 1998, è
presentato al parlamento un disegno di legge che regoli
l'immigrazione che diventerà la legge 40, detta anche "Turco
- Napolitano".
Tale legge prevede la riunificazione della normativa
sull'immigrazione in un Testo unico. Nel 1998 nasce così il
Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione della straniero in
Italia che riunisce le disposizioni contenute nella legge
40/1998, nel Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza
773/1931,
nella
legge
943/1986
sui
lavoratori
extracomunitari e nella legge 335/1995 sulla Riforma del
sistema previdenziale.
È importante esaminare il Testo unico perche l'attuale legge
in materia d'immigrazione, la legge n° 189 del 20 luglio
2002, detta anche legge Bossi-Fini, ne è
solo una
modificazione (anche se gli articoli modificati sono molto
rilevanti).
Innanzitutto è definito straniero qualsiasi cittadino di paesi
non appartenenti all'Unione Europea e l'apolide, ossia la
persona che nessun paese riconosce come proprio cittadino.
A tutti gli stranieri, regolari e non, sono costituzionalmente
riconosciuti i diritti della persona umana, ma tutti i restanti
diritti e doveri sono, nel Testo Unico, rivolti esclusivamente
agli stranieri regolarmente soggiornanti.
Il permesso di ingresso in Italia del cittadino straniero è
12
condizionato al possesso di un passaporto e di un visto di
ingresso, rilasciato secondo l' Accordo di Schengen. In ogni
caso per l' ottenimento del visto bisogna dimostrare la
disponibilità di mezzi di sussistenza per il periodo di
soggiorno in Italia. Il permesso di soggiorno è invece il
documento che attesta la regolarità della presenza in Italia di
un cittadino straniero. Esistono varie tipologie di permessi di
soggiorno, che possono essere rilasciati per turismo, per
studio, per lavoro subordinato e per lavoro autonomo, per
inserimento lavorativo, per cure mediche e per motivi
familiari. Ogni permesso di soggiorno ha una durata specifica
che va da un minimo di tre mesi, per turismo o affari, ad un
massimo di tre anni per lavoro dipendente o autonomo e per
motivi familiari. Il permesso può essere poi rinnovato per
una durata non superiore al doppio di quella stabilita al
momento del rilascio. Il rilascio o il rinnovo del permesso di
soggiorno può essere rifiutato in mancanza dei requisiti per l'
ingresso e il soggiorno in Italia. In tale caso il cittadino
straniero ha quindici giorni di tempo per presentarsi alla
frontiera e lasciare il territorio italiano. Esistono poi casi
particolari che permettono il rilascio del permesso di
soggiorno o il suo rinnovo anche in mancanza dei requisiti
normali.
Essendo il permesso di soggiorno solo temporaneo, esso può
essere sostituito con la carta di soggiorno, che è un
documento a tempo indeterminato. La carta di soggiorno può
essere richiesta da un cittadino straniero per sé, per il
coniuge (anche non lavorante) e per i figli minori conviventi
se ha un permesso di soggiorno regolare da almeno cinque
anni, se tale permesso consente un numero indeterminato di
rinnovi e se possiede un reddito sufficiente per il
sostentamento proprio e dei familiari. La legge 189 del 30
luglio 2002 ha modificato a1cune parti molto importanti del
Testo unico sull’ immigrazione.
Riguardo al permesso di soggiorno la modifica più importante
concerne la sua durata: il rinnovo permette un nuovo
permesso di una durata non superiore a quella stabilita
inizialmente. L' ottenimento della carta di soggiorno è
subordinata al fatto di essere soggiornanti sul territorio
13
italiano da sei (e non più cinque) anni. La nuova legge limita
le categorie di familiari per i quali si può chiedere il
ricongiungimento ai soli figli minori e al coniuge: per
richiedere il ricongiungimento dei genitori a carico occorre
infatti che questi non abbiano altri figli che possano
provvedere al loro sostentamento. Inoltre è eliminata la
possibilità di ricongiungere i parenti entro il terzo grado a
carico, inabili al lavoro. E' stata però aggiunta la possibilità di
ricongiungere figli anche maggiorenni nel caso non possano
oggettivamente provvedere al proprio sostentamento a
causa dello stato di salute che comporti invalidità totale.
Per ciò che riguarda invece la regolamentazione dell' accesso
all' assistenza sanitaria la legge Bossi-Fini non ha comportato
modificazioni, e resta perciò valido quanto stabilito dal Testo
unico sull'immigrazione.
1.3
Le migrazioni in Italia
Il fenomeno dell’immigrazione in Italia è un fenomeno
recente, che ha assunto dimensioni rilevanti in un lasso di
tempo relativamente breve. È solo negli ultimi decenni che
l’immigrazione inizia a diventare consistente. Mentre verso la
fine dell’800 erano soprattutto gli italiani a espatriare e a
raggiungere terre “migliori”, come l’America, per trovare
lavoro e una solidità economica e sociale, a partire dagli anni
Settanta del secolo scorso, si comincia ad assistere all’
ingresso di immigrati provenienti dall’ Africa, dal’Asia e, più
recentemente, dall’ Est Europa. L’Italia, quindi, da paese
tradizionalmente di emigrazione, si trasforma in meta di
flussi migratori, i quali, inizialmente sono sporadici e poco
rilevanti, in quanto l’Italia non è meta di destinazione, ma
luogo di transito per gli stranieri, diretti verso paesi che
offrono maggiori opportunità d’inserimento lavorativo.
Negli anni successivi, però, l’approdo di immigrati comincia
ad essere sempre più consistente fino a diventare, agli inizi
del XXI secolo, fenomeno caratterizzante della demografia
italiana.
14
Anno
2007
2008
2009
2010
2011
Totale
% su totale popolazione residente
3.432.651
5,76
3.891.295
6,48
4.235.059
7,02
4.570.317
7,5
5.011.000
8,2
Tabella 1 (Fonte: elaborazioni dati ISTAT)
Gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2011 sono
4.570.317, 335 mila in più rispetto all’anno precedente. Essi
arrivano a costituire il 7,5% del totale della popolazione
residente in Italia (Tabella 1) e, rispetto all‟anno
precedente, sono aumentati del 7,9%.
L’ 86,5% degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro del
Paese, il restante 13,5% nel Mezzogiorno. Gli incrementi
maggiori della presenza straniera rispetto all’anno precedente,
anche nel 2010, si sono manifestati nel Sud (11,5%) e nelle
Isole (11,9%). Al 1° gennaio 2011 i cittadini rumeni, con
quasi un milione di residenti (9,1% in più rispetto all’anno
precedente), rappresentano la comunità straniera prevalente
in Italia (21,2% sul totale degli stranieri). Nel corso del 2011
è, dunque, cresciuto il numero dei cittadini dei Paesi
dell’Europa centro-orientale (sia UE sia non UE). Oltre alla già
citata Romania, si è registrato un incremento di stranieri
provenienti dalla Repubblica Moldova (24,0%), Federazione
Russa (18,3%), Ucraina (15,3%) e Bulgaria (11,1%). Anche i
cittadini dei Paesi del sud est asiatico hanno fatto registrare
incrementi importanti: Pakistan (16,7%), India (14,3%),
Bangladesh (11,5%), Filippine (8,6%), Sri- Lanka (7,6%).
L’elevata crescita che ha interessato queste comunità è legata,
tra l’altro, agli effetti dell’ultima regolarizzazione di colf e
badanti, svoltasi nell’ultima parte dell’anno 2009, i cui effetti in
termini di iscrizioni anagrafiche si sono fatti sentire
maggiormente nel corso del 2010.
Oltre alla crescita della componente comunitaria, un altro
rilevante processo di cambiamento nella composizione della
popolazione straniera è stato quello relativo al genere:
secondo i dati Istat è dal 2008 che le donne straniere
residenti in Italia hanno ormai superato i maschi, invertendo
quindi un gap che all’inizio degli anni ’90 era
molto
15
consistente dato che i maschi, tra gli stranieri, erano quasi
due su tre. Ad ogni modo bisogna comunque considerare che
la composizione per genere rimane diversificata a seconda
dei diversi paesi di origine e quindi secondo la topologia dei
flussi migratori: ad esempio tra i senegalesi la quota
maschile, seppur in calo, è ancora quella nettamente
dominante (oltre i due terzi del totale) mentre diversi paesi
dell’Est Europa rimangono caratterizzati dalla netta
prevalenza dell’emigrazione femminile (Ucraina, Moldavia,
Romania).
I motivi per i quali l'Italia è stata scelta come terra di
approdo, dando il via a flussi migratori sempre maggiori,
sono vari. Tra questi, rilevante è stata la sua posizione
geografica sul Mediterraneo che l’ha resa particolarmente
esposta ai flussi provenienti dai Paesi Nordafricani; i suoi
chilometri di coste difficili da controllare e, quindi, facilmente
raggiungibili e, inoltre, la minore rigidità nelle politiche di
frontiera rispetto a quelle di chiusura praticate dai paesi
dell'Europa Centro-Settentrionale, di antica tradizione
migratoria, come Francia, Germania, Gran Bretagna.
1.4
Le principali cittadinanze: uno scenario
multietnico
Gli stranieri residenti in Italia sono cittadini di un ampio
ventaglio di paesi esteri. I cittadini dei primi sedici paesi in
ordine decrescente di numerosità, tuttavia, rappresentano da
soli il 75,5% (3 milioni 450 mila individui) del totale degli
stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2011 (Tabella 2).
Limitando l’analisi ai primi cinque paesi (Romania, Albania,
Marocco, Repubblica Popolare Cinese e Ucraina) si supera
comunque il 50% (2 milioni 314 mila). La comunità straniera
più numerosa è quella rumena che raggiunge, al 1° gennaio
2011, quasi il milione di residenti: il 21,2% del totale degli
stranieri residenti in Italia. Dopo la crescita vertiginosa
dovuta all’allargamento dell’UE e alla nuova normativa sulla
circolazione e il soggiorno dei cittadini di paesi UE negli altri
paesi dell’Unione, registrata nel 2007 e, in misura ridotta,
anche nel 2008 e 2009, nel 2010 l’incremento, pur inferiore,
si mantiene comunque consistente: 9,1%.
16
Stranieri residenti in Italia, per Paese di cittadinanza
Primi 16 paesi al 1° gennaio 2010 e 2011
CITTADINANZE
Romania
Albania
Marocco
Cinese,
Repubblica
Popolare
Ucraina
Filippine
Moldova
India
Polonia
Tunisia
Perù
Ecuador
Egitto
Macedonia
Bangladesh
Sri Lanka
Totale 16 Paesi
TOTALE
1° GENNAIO
2010
Totale
887.763
466.684
431.529
188.352
CITTADINANZE
1° GENNAIO
2011
Totale
174.129
123.584
105.863
105.608
105.600
103.678
92.847
85.940
82.064
92.847
75.343
73.965
3.195.796
Romania
Albania
Marocco
Cinese,
Repubblica
Popolare
Ucraina
Filippine
Moldova
India
Polonia
Tunisia
Perù
Ecuador
Egitto
Macedonia
Bangladesh
Sri Lanka
Totale 16 Paesi
968.576
482.627
452.424
209.934
200.730
134.154
130.948
121.036
109.018
106.291
98.603
91.625
90.365
89.900
82.451
81.094
3.449.776
4.235.059
TOTALE
4.570.317
Tabella 2 (Fonte: elaborazioni dati ISTAT)
Un’altra comunità storicamente molto rappresentata è quella
albanese. È la seconda per numerosità, con quasi 483 mila
residenti e un incremento rispetto al 1° gennaio 2010 del
3,4%.
Seguono i cittadini del Marocco, che nel 2010 sono aumentati
del 4,8%, superando a fine anno le 452 mila presenze, della
Cina (quasi 210 mila, 11,5%) e dell’Ucraina (circa 201 mila,
15,3%).
Citando le comunità prevalenti, vale la pena di segnalare
che, se si considerassero i paesi della ex-Jugoslavia nel loro
insieme, essi costituirebbero il quarto paese nella graduatoria
per numerosità, con oltre 226 mila cittadini residenti.
Con riferimento alle aree geopolitiche di cittadinanza, se si
considerano i paesi dell’Europa centro-orientale nel loro
complesso (facenti o meno parte dell’UE), i residenti in Italia
al 1° gennaio 2011 sono 2 milioni 257 mila: quasi la metà
17
(49,4%) di tutti gli stranieri residenti in Italia. Circa 1 milione
162 mila (il 25,4% di tutti gli stranieri, l’8,5% in più rispetto
all’anno precedente) sono cittadini dei paesi UE dell’Europa
centro-orientale; quasi un altro quarto dei residenti (23,9%),
invece, sono cittadini dei paesi dell’Europa centro-orientale
non appartenenti all’UE (principalmente Albania, Ucraina,
Moldova e Repubblica di Macedonia), che contano
complessivamente circa 1 milione 94 mila iscritti in anagrafe
(7,8% rispetto al 1° gennaio 2010).
Per quanto riguarda i paesi extra-europei, più di 986 mila
persone, oltre un quinto (21,6%) di tutti gli stranieri residenti,
sono cittadini di un paese africano, principalmente dell’Africa
settentrionale, in primo luogo del Marocco. I cittadini asiatici,
con quasi 767 mila unità, rappresentano il 16,8% del totale.
Poco meno della metà (360 mila) è cittadino di alcuni paesi del
subcontinente indiano: India, Sri Lanka, Bangladesh e
Pakistan. I restanti 407 mila sono prevalentemente di
nazionalità cinese o filippina. Gli incrementi superiori alla
media, fatti registrare soprattutto da Pakistan (16,7%) e India
(14,3%), sono da ricollegarsi anch’essi all’ultima sanatoria per
colf e badanti del settembre 2009.
Infine, il 7,7% degli stranieri (354 mila individui) è cittadino
di paesi dell’America centromeridionale, soprattutto di Perù
ed Ecuador (figura 1).
Figura 1. Stranieri residenti in Italia per area geografica di
cittadinanza 1° gennaio 2011
18
Il rapporto tra le quote di uomini e donne nella popolazione
straniera, nel complesso equilibrato, è spesso molto
sbilanciato all’interno delle singole comunità. Tra le principali
collettività a prevalenza femminile (ucraina, polacca,
moldava, peruviana, ecuadoriana, filippina, rumena) i valori
del rapporto oscillano fra i 25 maschi ogni 100 femmine nella
comunità ucraina e gli 83 maschi ogni 100 femmine in quella
rumena. Una prevalenza maschile si osserva tra i cittadini di
Senegal, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Algeria, Tunisia,
India, Marocco, Sri Lanka, Albania e Cina. In queste
comunità il rapporto fra maschi e femmine oscilla fra il livello
tradizionalmente molto elevato della comunità senegalese
(circa 310 uomini ogni 100 donne) e i circa 107 uomini ogni
100 donne di quella cinese.
1.5
La distribuzione degli stranieri sul territorio: un
mosaico complesso
Gli stranieri residenti in Italia si distribuiscono sul territorio in
maniera molto disomogenea, soprattutto in relazione alla
cittadinanza di appartenenza. Considerando la popolazione
straniera nel suo complesso, la maggior parte si concentra
nel Nord (35% nel Nord-ovest, 26,3% nel Nordest) e, in
misura inferiore, nel Centro (25,2%), mentre nel
Mezzogiorno risiede soltanto il 13,5% dei residenti stranieri.
Scendendo
a
un
livello
territoriale
maggiormente
disaggregato,
si
possono
osservare
concentrazioni
particolari: ad esempio, il 23,3% degli stranieri è iscritto
nelle anagrafi dei comuni della Lombardia, ben l’8,4% nella
sola provincia di Milano, mentre le regioni del Sud, nel loro
complesso, ospitano il 9,6% del totale degli stranieri
residenti in Italia. Altre regioni con un numero elevato di
cittadini stranieri sono il Lazio (11,9% di tutti gli stranieri
residenti in Italia), il Veneto (11,0%), l’Emilia-Romagna
(11,0%). Nel Lazio la grande maggioranza degli stranieri è
concentrata nella provincia di Roma (9,7% del totale), valore
che le assegna il primato tra le province italiane.
A livello comunale, oltre alla forte presenza di popolazione
straniera in molti comuni capoluogo del Nord e del Centro, si
19
osserva la presenza di consistenti comunità di cittadini
stranieri residenti nelle zone costiere della Liguria e del nord
della Toscana, nonché nella parte centro-settentrionale della
costiera adriatica.
La distribuzione sul territorio resta fortemente disomogenea,
nonostante la crescita relativa della popolazione straniera sia
stata superiore proprio laddove minore è il suo ammontare,
cioè nelle Isole (11,9%) e nel Sud (11,5%). Le regioni che
hanno fatto registrare il massimo incremento sono Sardegna
(13,7%), Puglia (13,5%), Basilicata (13,4%) e Calabria
(13,3%).
Si tratta di incrementi generalmente più contenuti di quelli
del 2009, ma pur sempre superiori a quelli registrati da
regioni storicamente molto attrattive per l’immigrazione
dall’estero, come la Lombardia (8,4%) o l’Emilia-Romagna
(8,2%). Le collettività che nel corso del 2010 sono cresciute
maggiormente nel Mezzogiorno sono relative a: India,
Bangladesh, Russia, Bulgaria e Romania. Per queste
comunità i differenziali nei livelli di crescita, rispetto al
Centro-Nord, sono risultati pari o superiori al 10%.
Al 1° gennaio 2011, l’incidenza della popolazione straniera
sul totale dei residenti è pari al 7,5% a livello nazionale. Tale
quota è massima nel Nord-est (10,3%), dove più di un
residente su dieci è straniero,
mentre è leggermente
inferiore nel Nord-ovest (9,9%) e nel Centro (9,6%). Nel
Mezzogiorno, invece, l’incidenza è intorno al 3% (3,1% nel
Sud, 2,7% nelle Isole).
A livello regionale le differenze di cui sopra si manifestano in
modo ancora più evidente: l’incidenza assume valore
massimo in Emilia-Romagna, dove la popolazione straniera
rappresenta l’11,3% del totale dei residenti, in Lombardia
(10,7%) e Veneto (10,2%). Al Centro i livelli sono
leggermente più contenuti, ma spicca l’Umbria, dove il tasso
è pari all’11,0%. Nel Mezzogiorno il valore più alto della
media della ripartizione è quello relativo all’Abruzzo (6,0%).
Scendendo ulteriormente nel dettaglio territoriale, si notano
livelli particolarmente elevati dell’incidenza della popolazione
straniera in alcune province del Nord, dove su dieci cittadini
residenti, almeno uno è di cittadinanza straniera. Si tratta
20
delle province di Brescia (13,6%), di Piacenza, Reggio
nell’Emilia, Mantova, Modena (tutte province con valori
intorno al 13%), Parma, Verona, Treviso, Pordenone (per le
quali i valori superano l’11%). Al Centro, oltre alla provincia
di Prato (13,6%) che presenta un valore dell’incidenza pari a
quello di Brescia, spiccano Perugia e Macerata (intorno
all’11%). Nel Mezzogiorno i valori più elevati sono quelli delle
province di Teramo (7,6%), l’Aquila (7,1%), Ragusa (6,6%)
e Olbia-Tempio (6,5%).I flussi migratori hanno interessato
come destinazione residenziale i comuni di maggiori
dimensioni. In effetti, l’incidenza degli stranieri nei comuni
capoluogo di provincia è pari al 9,4%, livello ben superiore
alla media italiana (7,5%) e che raggiunge il 10,1% nelle
grandi città. Emergono, però, anche alcune interessanti
realtà minori, dove l’incidenza relativa degli stranieri è
particolarmente elevata. Si tratta, ad esempio, di comuni tra
i 15 ed i 25 mila abitanti come Rovato (Brescia), Lonigo
(Vicenza), Castiglione delle Stiviere (Mantova), dove oltre il
20% dei residenti è straniero; o anche di comuni molto
piccoli, tra i 5 e i 15 mila abitanti, come Baranzate (Milano),
Verdellino (Bergamo), Castelcovati (Brescia), Prevalle
(Brescia), Porto Recanati (Macerata), Fonte (Treviso),
Luzzara (Reggio nell’Emilia), Castel San Giovanni (Piacenza),
Santa Croce sull’Arno (Pisa), Acate (Ragusa), Villongo
(Bergamo), Castel Goffredo (Mantova), Castrezzato (Brescia)
dove l’incidenza è compresa tra il 20 ed il 26%. Nel comune
di Airole (Imperia), che conta circa 500 abitanti, quasi un
residente su tre è straniero.
1.6
Gli stranieri nel mercato del lavoro
Il patrimonio informativo che l’Istat mette a disposizione
attraverso la
consolidata indagine sulle forze lavoro
consente di osservare la condizione socio-occupazionale della
popolazione immigrata distinguendo tra individui occupati, in
cerca di lavoro, e inattivi. Grazie a tali dati è possibile
evidenziare come negli ultimi anni si sia assistito ad un
deciso incremento della componente straniera delle forze
lavoro. Se nel 2005 gli immigrati rappresentavano poco più
del 5 per cento delle forze lavoro, nel giro di un quinquennio
21
la loro incidenza è pressoché raddoppiata. Nel 2011, infatti,
il 10.2 per cento degli attivi, in Italia, erano di cittadinanza
non italiana, e tra le donne tale incidenza sale a quasi l’11
per cento.
Tale considerevole incremento risente naturalmente degli
effetti
non solo dei flussi migratori in arrivo, molto
consistenti, ma anche delle regolarizzazioni. Per effetto di
queste ultime, molti immigrati di fatto già presenti nel
nostro paese da anni sono stati iscritti nelle liste
dell’anagrafe e quindi hanno cominciato ad essere rilevati
dalle indagini dell’Istat. Tra il 2005 ed il 2011 il numero di
immigrati presenti nelle forze lavoro è così aumentato di
oltre un milione di persone, quasi raddoppiando la loro
consistenza. Nel 2011, gli immigrati nelle forze lavoro sono
cresciuti di 206 mila persone, pari ad un incremento
dell’8.8% sull’anno precedente. Il tasso di crescita, seppur
appaia in rallentamento rispetto agli anni precedenti (quando
in media il tasso di variazione era di quasi il 13%), resta
elevato, soprattutto se si considera il contesto di crisi e
deterioramento del mercato del lavoro in Italia.
Anche in termini di occupazione si è assistito ad un notevole
sviluppo: tra il 2005 ed il 2011 gli occupati con cittadinanza
straniera sono aumentati del 93%. Se nel 2005 gli occupati
stranieri erano meno di 1 milione 200 mila, nel 2011 erano
quasi 2 milioni 300 mila, rappresentando poco meno di un
decimo dell’occupazione complessiva (il 9.8%). Nel
complesso, pertanto, quasi un occupato su dieci ha
cittadinanza straniera. Vi sono però delle realtà dove tale
incidenza è più elevata; la quota del 9.8 per cento è infatti
una media tra incidenze sull’occupazione di poco inferiori al
12 per cento, rilevate nel Centro- Nord, e un’incidenza invece
intorno al 5% nel Mezzogiorno.
Non stupisce d’altra parte che siano proprio le realtà più
produttive quelle che attraggono i flussi migratori e
soprattutto la permanenza degli immigrati, che cercano
un’occupazione dove ce n’è di più. La distribuzione settoriale
dell’occupazione immigrata risulta piuttosto diversa da quella
osservata per gli italiani; quello che si osserva relativamente
all’occupazione immigrata è infatti che la manodopera
22
straniera tende a rispondere a peculiari fabbisogni della
domanda di lavoro che la manodopera italiana non riesce a
soddisfare.
I lavoratori stranieri si concentrano infatti nelle costruzioni,
nei servizi turistici (alberghi, ristoranti e pubblici esercizi) e
nei servizi alle persone. In questi tre macrosettori è
impiegata quasi la metà degli occupati immigrati (49.7%),
contro meno di un quinto (il 17.5%) degli italiani. La
concentrazione settoriale della manodopera immigrata si
differenzia in parte in base al genere. Tra gli uomini, si
osserva
una
decisa
concentrazione
dell’occupazione
immigrata nell’industria manifatturiera, nelle costruzioni e
negli alberghi e ristoranti; la quota di occupati nelle
costruzioni sul totale dell’occupazione immigrata, pari al 26%
nel 2011, è più che doppia di quella rilevata per gli occupati
italiani, e più o meno lo stesso divario si osserva anche per i
servizi turistici, dove la quota di occupati nel settore, sul
totale degli occupati stranieri, è pari al 7.3%, quasi doppia
della quota osservata per gli italiani (4.2%). Per le donne,
invece, si rileva una decisa concentrazione dell’occupazione
immigrata nei servizi sociali e alle persone: più della metà
delle occupate immigrate (il 51.3%) svolge servizi alle
famiglie o servizi domestici, lavorando quindi come
collaboratrici domestiche o assistenti familiari. La quota è
quasi sette volte quella rilevata per le occupate italiane, che
invece tendono a concentrarsi nel terziario (commercio,
servizi alle imprese, pubblica amministrazione, sanità ed
istruzione). È palese pertanto l’alta concentrazione nei lavori
domestici e di cura della manodopera immigrata, in
particolare delle donne, che si è tradotta in flussi elevati di
arrivi e regolarizzazioni per le persone con questo particolare
tipo di figura professionale. Si osserva peraltro come i settori
dove tendono a concentrarsi gli immigrati siano
tendenzialmente ad elevata intensità di lavoro (si pensi ad
esempio ai servizi di cura, che richiedono in genere orari
molto lunghi, spesso anche di notte) o dove il tipo di lavoro
svolto è in genere molto duro e faticoso (come ad esempio
nelle costruzioni, o anche nel settore della ristorazione), il
che spiega la minore offerta di lavoro italiano.
23
2. IL
RUOLO
ECONOMICO
IMMIGRAZIONE
E
SOCIALE
DELL’
2.1 I principali effetti dell’immigrazione
Negli ultimi quindici anni il rapido aumento dell’immigrazione
ha fatto sì che il numero di lavoratori stranieri attivi
nell’economia italiana sia aumentato da percentuali
pressoché irrilevanti a valori prossimi al 10% della forza
lavoro. L’immigrazione è quindi ormai diventata una
componente strutturale della società e dell’economia italiana.
Il carattere organico della presenza straniera nel nostro
paese si manifesta nelle differenti dimensioni della vita
quotidiana: cultura, lingua, mercato del lavoro, consumi,
attività imprenditoriali, istruzione, welfare e prestazioni
sociali. Ciò nonostante nel dibattito pubblico si tende ancora
a sottovalutare il ruolo e il contributo che le migrazioni
esercitano nello sviluppo economico e umano dei paesi di
destinazione, e non mancano i problemi legati al ruolo di
24
questi lavoratori e allo scarso riconoscimento economico del
loro contributo alla crescita economica. In quest’ottica, stanno
diventando sempre più importanti gli strumenti che la ricerca
scientifica mette a disposizione per la conoscenza del
fenomeno, sia dal punto di vista dell’integrazione e
dell’assimilazione della popolazione immigrata nel tessuto
sociale ed economico del paese in cui si è insediata, che dal
lato degli effetti che essa provoca nel mercato del lavoro di
destinazione, in particolare per quanto riguarda le retribuzioni,
l’occupazione, e la disoccupazione dei lavoratori locali.
I potenziali effetti dell’immigrazione sono numerosi. In primo
luogo, essi sono riscontrabili al mercato del lavoro, ma anche
in relazione alla possibilità di contribuire ad alleviare gli
squilibri demografici tipici delle economie avanzate. Ma la
presenza degli immigrati influenza molti altri aspetti, a
partire dai prezzi dei beni di consumo e delle abitazioni, alla
fruibilità dei servizi pubblici, dall’integrazione culturale al
livello medio di educazione e così anche molti altri ambiti
dell’economia di un paese. Oltre che alle necessità
dell’economia, il lavoro degli immigrati viene incontro alle
esigenze della società. Le lavoratrici addette alla cura degli
anziani (le cosiddette badanti) svolgono un ruolo sempre più
importante nelle famiglie italiane. La richiesta di lavoro di
cura, alla quale sono dedicate la grande maggioranza delle
lavoratrici immigrate, è dovuta a diversi fattori a cominciare
dall’invecchiamento della popolazione e dalla riduzione delle
dimensioni delle famiglie (con l’aumento del numero di
anziani, o di coppie o soli) a finire con le carenze del sistema
italiano di welfare in questo campo.
A ciò va aggiunta la ricchezza rappresentata dagli elementi di
diversità culturale portata dagli immigrati, così come gli
emigranti italiani l’hanno portata nei loro paesi di
destinazione.
2.2
Una rassegna della letteratura sugli effetti
dell’immigrazione
La letteratura economica sull’immigrazione è vasta, sia sul
piano teorico che su quello empirico, ed ha affrontato i
numerosi effetti del fenomeno così come si sono presentati
25
nel corso del tempo in tutti i paesi più sviluppati. Gli studi
sinora condotti, soprattutto quelli di natura economica, sulla
relazione tra immigrazione e mercato del lavoro del paese
ospitante, hanno analizzato il fenomeno da un duplice punto
di vista.
Il primo è quello dell’integrazione degli immigrati nel mercato
del lavoro del paese di arrivo. Comunemente si parla di
“assimilazione economica” degli immigrati, cioè del processo
attraverso il quale gli immigrati assumono i comportamenti e
ottengono una performance nel mercato del lavoro che sono
simili a quelli dei nativi. Ad esempio gli immigrati, a parità di
condizioni, sono remunerati come i lavoratori locali e, al pari
di questi, hanno la stessa probabilità di trovare un posto di
lavoro.
Il secondo, è quello del ruolo svolto dagli immigrati nel
mercato del lavoro del paese di destinazione; si cerca di
capire se l’immigrato sia concorrente del lavoratore
autoctono (e quindi l’immigrazione possa determinare uno
spiazzamento
dell’occupazione
nativa),
oppure
complementare, avendo caratteristiche differenti.
Gli studi sull’assimilazione economica, che generalmente
sono stati condotti prevalentemente dai paesi con una lunga
storia di immigrazione alle spalle (come la Germania e i paesi
di tradizione anglosassone), in genere dimostrano come
questa si realizzi in tempi parecchio lunghi e, in certi casi, per
alcune categorie di immigrati non si realizzi mai
completamente, anche a causa di fenomeni di discriminazione
che, nemmeno col tempo, tendono a scomparire.
La questione fondamentale che quest’area di ricerca tenta di
indagare è se esiste e in che tempi si realizza l’integrazione
della popolazione immigrata all’interno del tessuto socioeconomico del paese ospitante considerando principalmente
alcuni specifici indicatori del mercato del lavoro, quali il
profilo salariale, le esperienze in termini di occupazione e
disoccupazione, o la qualità del lavoro svolto. Molti degli
studi in questione si sono concentrati soprattutto sull’analisi
del differenziale salariale tra immigrati e nativi, a parità di
altre condizioni. Tra questi, uno dei primi lavori è stato quello
condotto da Chiswick nel 1978 relativamente al mercato del
26
lavoro degli Stati Uniti, il quale mostra che il significativo gap
salariale tra immigrati e nativi presente nelle prime fasi del
processo migratorio tende a ridursi progressivamente al
passare degli anni di residenza, ovvero man mano che la
popolazione immigrata si integra nel paese ospitante. Questo
risultato è stato in seguito criticato da Borjas nel 1985 e poi
nel 1995, in quanto i suoi studi indicano che la velocità con
cui avviene il processo di integrazione degli immigrati nel
paese di arrivo è in realtà molto più bassa di quella stimata
da Chiswick.
Nell’ambito del filone tedesco, gli studi empirici di Dustmann
(1993) individuano un differenziale salariale tra i 13 e i 19
punti percentuali a sfavore dei lavoratori immigrati al
momento del loro arrivo, che non sembra ridursi neanche
all’aumentare della permanenza.
Risultati simili sono stati ottenuti anche da Schmidt nel 1997,
il quale però afferma anche che gran parte del gap salariale
iniziale potrebbe essere spiegato dalle differenze in termini di
istruzione e formazione che contraddistinguono immigrati e
nativi. Constant nel 1998 ha invece condotto studi
sull’assimilazione distinguendo l’analisi per genere. Il
risultato che ottiene sul campione formato da soli uomini
individua un differenziale salariale tra immigrati e nativi che
peraltro si deteriora con l’aumentare degli anni di residenza;
mentre esisterebbe un maggior grado di assimilazione per
quanto riguarda le donne immigrate, dal momento che in
questo caso il salario delle immigrate raggiunge (e
addirittura supera) quello delle native entro dieci anni
dall’arrivo. Rispetto agli studi sull’assimilazione che si
concentrano sul profilo salariale di immigrati e nativi, molto
meno numerosi sono quelli riguardanti l’integrazione degli
stranieri dal punto di vista dell’occupazione, della
disoccupazione, o della qualità del lavoro svolto. Con
riferimento a quest’ultimo indicatore, in particolare, gli
studiosi ritengono che la maggior diffusione tra gli immigrati
di lavori a bassa qualifica possa essere il risultato di uno
scarso rendimento del loro capitale umano. Gli immigrati
cioè, a parità di competenze (in termini di livello di istruzione
ed esperienze professionali), tenderebbero rispetto ai nativi
27
ad essere più frequentemente impiegati in lavori per i quali le
qualifiche necessarie sono inferiori a quelle possedute, e
questo sarebbe indice di una certa sovraqualificazione degli
stessi, rappresentando un ulteriore segnale della scarsa
assimilazione degli stessi. In generale, gli studiosi sono
d’accordo nel ritenere che un certo grado di over-education
tra gli immigrati possa essere fisiologico e abbastanza
normale durante le prime fasi della migrazione, ma esso
dovrebbe ridursi all’aumentare degli anni di permanenza e
cioè man mano che gli stranieri acquisiscono le competenze
specifiche del paese di residenza.
Ad oggi, sono pochi gli studi che si sono occupati di studiare
quanto l’incidenza dell’over-education varia all’aumentare
degli anni di permanenza nel paese ospite, e quindi al
crescere dell’esperienza lavorativa e con l’acquisizione di
competenze specifiche del mercato del lavoro di
insediamento. Tra questi si possono citare gli studi di
Chiswick e Miller (2009) che, usando i dati del censimento
degli Stati Uniti del 2000, arrivano alla conclusione che
maggiore è l’esperienza lavorativa accumulata nel mercato
del lavoro del paese di origine, maggiore è la probabilità di
essere impiegati in lavori scarsamente qualificati nel mercato
del lavoro del paese di destinazione; tuttavia, all’aumentare
dell’anzianità
migratoria
(ovvero
della
permanenza)
diminuisce
costantemente
la
probabilità di
essere
sovraqualificati.
Gli studi di Lindley condotti nel 2009 utilizzando dati sulle
forze lavoro del Regno Unito nel periodo 1993-2003
mostrano invece che la probabilità di over-education è
decisamente più alta per i flussi migratori più recenti, che di
conseguenza faticano a raggiungere un adeguato grado di
assimilazione economica. Questa è la stessa conclusione a
cui giungono anche Fernandez e Ortega studiando il
fenomeno dell’over-education tra gli immigrati spagnoli nel
periodo 1996-2005. Nonostante le forti differenze nei
risultati, le analisi in questione giungono a due fondamentali
conclusioni: la prima è che le probabilità di integrazione
aumentano tanto quanto più il paese di origine e il paese di
arrivo sono simili sotto il profilo della lingua, della cultura,
28
della struttura e delle istituzioni che caratterizzano il mercato
del lavoro, in quanto diminuiscono per gli immigrati i
problemi di “adeguamento” del proprio capitale umano a
quello specifico del paese di arrivo; la seconda è che questa
stessa probabilità tende in genere ad aumentare al crescere
degli anni di residenza, dal momento che il prolungarsi della
permanenza dà il tempo agli immigrati di accumulare
capitale umano “specifico” del paese di residenza
aumentando così la propria produttività.
Per quanto riguarda in modo specifico l’Italia, non sono molti
gli studi che in questi ultimi anni si sono concentrati sul tema
dell’integrazione e dell’“assimilazione economica” degli
immigrati, principalmente a causa dei pochi dati a
disposizione. Nonostante ciò, la rapida crescita della
componente immigrata all’interno del nostro mercato del
lavoro ha inevitabilmente acceso una forte attenzione su
questo fenomeno, e negli ultimi anni sono stati numerosi i
rapporti e gli studi redatti dalle diverse associazioni e
fondazioni che, sia a livello istituzionale che privato, si
occupano di immigrazione. In questi rapporti generalmente si
tende ad analizzare la performance occupazionale degli
immigrati secondo diversi aspetti e ciò è utile a determinare
il grado di assimilazione degli stessi all’interno del nostro
mercato del lavoro. In genere questi studi utilizzano i dati
Istat della “Rilevazione continua sulle forze lavoro”, che dal
2005 forniscono informazioni sul paese di origine e sulla
cittadinanza degli stranieri, e sono concordi nell’inquadrare il
lavoro immigrato in particolari settori di attività e nelle
mansioni lavorative meno qualificate e meno pagate.
(Ministero degli Interni, 2007; Cnel 2008). I dati descrittivi
mostrano chiaramente che la quota di occupati appartenente
all’area del lavoro intellettuale, professionale e impiegatizio
tra i nativi è quasi quattro volte quella registrata tra gli
stranieri provenienti dai paesi a forte pressione migratoria.
Simmetricamente la percentuale di stranieri occupati in
attività manuali di basso livello professionale è molto più
elevata di quella rilevata tra i nativi, soprattutto per la
componente
femminile,
che
sconta
la
fortissima
segregazione nelle attività di cura per le famiglie. Il quadro
29
risulta ancora più preoccupante se si considera che gli
immigrati presenti nel mercato del lavoro italiano hanno un
livello di istruzione più elevato di quanto non si ritenga
comunemente, per cui la loro concentrazione nelle
occupazioni meno qualificate contrasta con il capitale umano
posseduto,
dando
luogo
a
evidenti
situazioni
di
declassamento occupazionale (Istat 2008, Dell’Aringa e
Pagani, 2010). Ciò risulta confermato anche da alcune analisi
basate su modelli di regressione, che mettono a confronto la
probabilità di accesso alle diverse posizioni occupazionali di
immigrati e autoctoni a parità di età, livello di istruzione e
regione di residenza (Fullin e Reyneri, 2011; Fullin, 2011). Le
stime, infatti, mettono in luce chiaramente come gli
immigrati provenienti dai paesi a forte pressione migratoria
abbiano probabilità di svolgere attività manuali molto più
elevate dei nativi con le medesime caratteristiche, mentre le
loro chance di svolgere lavoro intellettuale, professionale e
impiegatizio sono molto inferiori a quelle degli italiani (si
stimano differenze di 26 punti percentuali per gli uomini e 35
per le donne).
La letteratura finora si è preoccupata prevalentemente di
analizzare il fenomeno immigrazione all’interno del mercato
del lavoro italiano. Ma l’immigrazione implica effetti
importanti che si ripercuotono anche in altri ambiti. È il caso,
ad esempio, del possibile apporto positivo degli immigrati
alla finanza pubblica.
Rispetto a quanto comunemente pensato, ovvero che gli
immigrati rappresentino un peso per il sistema socioassistenziale del paese ospite (in quanto sono in media più
poveri e meno istruiti rispetto agli autoctoni), alcuni studi
hanno rilevato come non necessariamente le prestazioni
ricevute dagli stranieri siano maggiori dei contributi versati e
come essi non siano tanto più dipendenti dai servizi di
welfare rispetto a quella parte di popolazione locale che si
trova nelle medesime condizioni occupazionali e sociali.
A livello internazionale già da diversi anni esiste un vivace
dibattito sull’impatto fiscale dei lavoratori immigrati e sui
costi e benefici dell’immigrazione. In molti paesi, l’apporto
degli immigrati sulla finanza pubblica comincia infatti ad
30
assumere dimensioni rilevanti, proprio perché negli anni è
cresciuta notevolmente la loro presenza, in particolare nel
mercato del lavoro. Tuttavia, gli studi spesso sono arrivati a
conclusioni contrastanti, sia perché l’analisi del fenomeno
risulta piuttosto complicata a causa delle numerose variabili
in gioco, sia perché le metodologie adottate sono assai
eterogenee. Gli studi empirici sono inoltre difficilmente
confrontabili tra loro a causa dell’eterogeneità dei sistemi di
welfare tra i vari paesi. I paesi dell’Europa meridionale sono
quelli che inevitabilmente hanno meno approfondito questo
particolare aspetto di un fenomeno tutto sommato ancora
recente.
In particolare, in Italia gli studi sono ancora limitati. Un
interessante tentativo di valutazione empirica dell’effetto
dell’immigrazione sui conti pubblici è stato condotto da
Devillanova per l’Ismu di Milano (Ismu, 2008). Questa analisi
utilizza i dati dell’indagine campionaria familiare Redditi e
condizioni di vita (EU-Silc, del 2005) che contiene
informazioni sui redditi e su alcuni benefici sociali, e tra gli
esercizi proposti tenta in particolare di quantificare il
beneficio fiscale netto per gli immigrati relativamente ai
nativi. A questo scopo lo studio ha cercato di quantificare una
serie di strumenti assistenziali a disposizione degli individui,
tentando di fare una stima delle imposte pagate da italiani e
immigrati. Il calcolo è ovviamente limitato ai dati a
disposizione nell’indagine campionaria utilizzata, ed è quindi
approssimativo.
2.3 Il contributo dell’immigrazione alla tenuta del
sistema di protezione sociale
Il progressivo invecchiamento della popolazione, dovuto
all’aumento della speranza di vita e alla riduzione della
natalità, mina la tenuta dei sistemi di protezione sociale.
Esso determina infatti, da un lato, una contrazione della
quota di popolazione attiva e conseguentemente una
riduzione delle risorse destinate al finanziamento delle
prestazioni di welfare e, dall’altro, un aumento della
domanda di protezione, derivante dalla presenza di una
crescente quota di popolazione anziana. Lo sviluppo della
31
protezione sociale - che ha avuto il suo apice nel trentennio
compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e la crisi
petrolifera della seconda metà degli anni settanta – ha
poggiato su una struttura demografica profondamente
diversa da quella attuale. Dal 1965 al 2010 il numero medio
di figli per donna passa da 2,66 a 1,4. Contemporaneamente, come evidenziato dall’Eurostat 2011 in tutta
Europa l’aspettativa di vita è aumentata di circa dieci anni nel
corso dell’ultimo cinquantennio. In Italia, nel 2010, la vita
media è 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le donne
(Istat, 2011).
In questo scenario l’immigrazione costituisce un potente
fattore di riequilibrio della struttura demografica e di antidoto
ai suoi effetti negativi sugli equilibri finanziari del sistema di
sicurezza sociale.
I flussi migratori sono infatti composti prevalentemente da
individui appartenenti alla fascia di popolazione attiva e i
migranti hanno in media 31,8 anni (Istat, 2011). Il 78,8%
dei 4.570.317 stranieri presenti nel nostro territorio ha
un’età compresa fra 15 e 64 anni, il 18,9% ha meno di 15
anni e solo il 2,3% ha 65 anni e oltre. Scomponendo
ulteriormente la popolazione straniera per classi d’età
vediamo che quella più popolosa è fra i 18 e i 39.
Considerando invece la ripartizione per sesso emerge che le
donne migranti rappresentano il 51,8% del totale e che, se si
escludono i minori, la componente femminile supera quella
maschile in tutte le classi di età. Le donne straniere residenti
nel nostro paese tendono ad avere più figli rispetto alle
italiane: nel 2010 le prime hanno avuto in media 2,13 figli, le
seconde 1,29. Il contributo alla natalità delle madri straniere
è quindi rilevate: per il 2010 si stima infatti che oltre 104
mila nascite (18,8% del totale) siano attribuibili a madri
straniere (Istat, 2011).
L’impatto
positivo
dell’immigrazione
sulla
struttura
demografica ha dunque una duplice natura: nell’immediato,
l’ingresso di una popolazione straniera prevalentemente
giovane aumenta la quota della popolazione attiva; nel lungo
periodo, il più alto tasso di natalità nelle famiglie di immigrati
produce un aumento della natalità media.
32
Le modifiche alla struttura demografica della popolazione
residente complessiva, indotte dall’immigrazione, generano a
loro volta effetti molto positivi sul sistema di protezione
sociale. Ci si può fare un’idea dell’attuale ordine di grandezza
di tali effetti guardando ai dati del principale ente
previdenziale (Inps, 2010). Nel 2009 gli iscritti all’Inps non
comunitari sono stati più di 1,5 milioni. La percentuale dei
non autoctoni fra i lavoratori dipendenti che versano
contributi è risultata di circa l’8%: senza questo apporto, il
gettito contributivo nell’anno 2009 sarebbe stato inferiore di
oltre il 4%, vale a dire di oltre 6 miliardi di euro.
Se da una parte, nel breve termine, per l’effetto sulle entrate
contributive, l’immigrazione provoca una riduzione del deficit
previdenziale, dall’altra, nel lungo termine, essa concorre a
sostenere la dinamica dei trattamenti pensionistici. Il regime
pensionistico vigente in Italia, che è di tipo contributivo a
ripartizione, prevede infatti l’indicizzazione del monte dei
contributi versati in base al tasso di aumento medio
quinquennale del Pil: l’apporto dell’immigrazione alla
produzione si risolve dunque anche in un fattore di crescita
delle pensioni. Siamo pertanto, con tutta evidenza, di fronte
ad un caso di complementarità tra benessere dei lavoratori
immigrati e autoctoni: i benefici dell’inserimento degli
immigrati nel mercato del lavoro regolare non interessano
esclusivamente i singoli lavoratori immigrati, ma investono
l’intero sistema previdenziale.
Se l’immigrazione favorisce la presenza femminile nel
mercato del lavoro, questa, a sua volta, genera maggiore
sviluppo. Questo secondo nesso – tra l’aumento del tasso di
partecipazione femminile e il tasso di crescita dell’economia –
è al centro di un recente saggio di Maurizio Ferrera (2008),
che vede due principali vantaggi, dal punto di vista
economico, nell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
Il primo riguarda l’aumento delle entrate delle famiglie e
quindi le maggiori possibilità di consumo, investimento e
risparmio. Le famiglie a doppio reddito sperimentano inoltre
una diminuzione dei rischi di povertà e vulnerabilità rispetto
ad eventi imprevisti, oltre che per le maggiori entrate, anche
per il doppio aggancio al mercato del lavoro che garantisce
33
più tutela, più conoscenze e più relazioni sociali. Tutto questo
si traduce in una maggiore disponibilità ad assumersi rischi e
a scommettere sul futuro, che a sua volta favorisce il
dinamismo economico e sociale.
Il secondo vantaggio sta nel fatto che l’incremento
dell’occupazione femminile crea altro lavoro. Le famiglie
bireddito, infatti, consumano più servizi rispetto alle
monoreddito, sia per la maggiore disponibilità economica sia
per il minore tempo disponibile. Ferrera riporta stime
secondo le quali ogni cento donne che entrano nel mercato
del lavoro si creerebbero fino a quindici ulteriori nuovi posti,
in settori come la ristorazione, la ricreazione, l’assistenza
all’infanzia, agli anziani e le prestazioni per i servizi
domestici. Questo tipo di servizi, a differenza di quelli alle
imprese, ha poi il vantaggio di non poter essere trasferito in
paesi dove la manodopera costa meno, poiché devono
necessariamente essere prodotti in prossimità dei
consumatori. I posti di lavoro aggiuntivi che vengono a
crearsi grazie alla crescita dell’occupazione femminile restano
quindi all’interno del paese e in particolare in quei territori
dove si genera la domanda. In questo senso, contrariamente
a un’opinione diffusa, la presenza degli immigrati si traduce
in un beneficio diretto per le comunità locali che li ospitano.
L’immigrazione potrebbe dunque favorire la rottura di quel
circolo vizioso, denunciato dallo stesso Ferrera, per il quale la
scarsità dei servizi è collegata alla bassa partecipazione delle
donne al mercato del lavoro, che è a sua volta collegata alla
scarsità dei servizi.
3 L’ IMMIGRAZIONE FEMMINILE IN ITALIA
3.1 La femminilizzazione dei flussi migratori
Le donne, pur migrando da sempre e per i più svariati
motivi, proprio come gli uomini, costituiscono oggi una
componente significativa – e talvolta predominante – degli
spostamenti internazionali: negli ultimi trent’anni, in modo
particolare, la quota delle donne migranti in Europa
è gradualmente cresciuta sino a diventare, oggi la
34
componente maggioritaria dei flussi che interessano il
continente, eppure si può facilmente affermare che
l’attenzione alle donne nella migrazione ha preso piede e
acquistato prestigio nel dibattito più ampio sulle migrazioni
solo in tempi recenti.
I dati ufficiali relativi al numero delle persone migranti,
naturalmente, si riferiscono a coloro che sono regolarmente
residenti e presenti sui diversi territori nazionali ospiti e, di
conseguenza, sottostimano fortemente la notevole presenza
femminile, costantemente in crescita, che costituisce
un’ampia porzione dei migranti irregolari (Gallotti, 2009).
Tuttavia, alcuni trend della presenza delle donne nelle
migrazioni verso l’ Europa possono essere evidentemente
tracciati.
La possibilità di disporre di dati in chiave storica, che
testimoniano le tendenze generali del fenomeno, ci è fornita
da uno studio condotto dall’United Nations Population
Division nel 1998 e costantemente aggiornato con i nuovi
dati. Si tratta di una fonte molto preziosa, se si considera che
il problema principale, in termini statistici, è stato sempre
quello di non disporre di dati in serie storica sulla presenza
dei migranti divisi per genere: questa è già di per sé un
esempio significativo con cui è stato sempre osservato il
fenomeno da un punto di vista di genere, della poca
attenzione con cui si è guardato alle migrazioni femminili fino
a tempi non troppo lontani.
Lo studio sopraccitato ha permesso, quindi, di tracciare una
stima dell’evoluzione numerica delle donne migranti degli
ultimi cinquant’anni, superando le lacune statistiche
attraverso l’analisi dei censimenti della popolazione, paese
per paese, ricavando il numero di persone nate all’estero e
integrandolo con i dati sul numero di rifugiati.
La prima osservazione di una certa importanza, come si può
notare dallo Studio è che la percentuale di donne nelle
migrazioni internazionali è sempre stata piuttosto rilevante:
già nel 1960, per esempio, esse rappresentavano più del
46% degli immigrati che vivevano al di fuori dei loro paesi di
nascita.
Nei successivi quarant’anni, la quota di donne nella
35
migrazione è stata sempre in costante aumento,
specialmente in Europa, dove si può osservare come, a
partire dagli anni Ottanta, la componente femminile abbia
superato numericamente quella maschile: nel 2000 si
registravano, nel continente europeo, più di 52 donne ogni
100 migranti (Zlotnik, 2003; Gallotti, 2009).
Questo è un dato che sembra risentire del grado di sviluppo
economico e produttivo dei territori interessati da flussi in
ingresso: si può osservare, infatti, come le donne migranti,
in generale, siano proporzionalmente più presenti nei paesi
sviluppati piuttosto che in quelli in via di sviluppo. Le cause di
queste differenze devono essere ricercate nelle leggi e
regolamenti che disciplinano l’ ammissione dei migranti nei
paesi di destinazione e di quelle che disciplinano la loro
partenza dal paese di origine, unitamente ai fattori che
determinano la condizione delle donne nei paesi di origine e
paesi di destinazione: la relativa facilità ad ottenere un
ricongiungimento
familiare
nei
paesi
occidentali
è
sicuramente uno degli elementi che ha favorito l’incremento
la componente femminile dei flussi, oltre alla possibilità
diffusa nei paesi sviluppati di accesso per le donne al
mercato del lavoro, anche se, come si vedrà, limitatamente
ad alcuni settori. Il rapporto maschi/femmine, dunque, è
determinato anche etnicamente in relazione alle possibilità di
inserimento offerte dai sistemi economico-produttivi dei
paesi di destinazione: infatti, nei settori lavorativi di molti
paesi è presente una marcata segmentazione per genere che
risente notevolmente delle opportunità offerte dal mercato
occupazionale e dagli obiettivi prefissati dai soggetti, attorno
ai quali viene costruito e negoziato un progetto migratorio.
Altresì importante è sottolineare che molte delle donne che
negli ultimi decenni sono immigrate in Europa non lo hanno
fatto
solamente
per
ricongiungersi
ai
compagni
precedentemente arrivati per lo più nel periodo della
ricostruzione postbellica, ma anche per progetti migratori
singoli:
molte
di
loro
sono
anche
migrate
indipendentemente,
per
ragioni
economiche,
come
studentesse o rifugiate.
Da qui deriva la scelta stessa di fare riferimento, nel
36
presente capitolo, alle migrazioni femminili, utilizzando un
plurale che richiama alla mente la forte disomogeneità dei
percorsi e delle storie: non esiste un modello di migrazione
“al femminile”, esistono realtà a sé stanti, esistono donne
che hanno aspirazioni profondamente differenti fra loro. La
composizione interna dei flussi femminili, infatti, è
fortemente differenziata anagraficamente ed etnicamente e
può, inoltre, variare per grado di libertà/coercizione, per
causa, per fine, per esito, per significato.
Generalmente, si tende a definire un progetto migratorio
considerandolo a partire dal suo scopo, poiché è proprio su
questo schema che si basa l’attribuzione dei visti di ingresso
e dei permessi di soggiorno, oltre che la raccolta di dati per
le statistiche ufficiali. Tuttavia questo modello è riduttivo
poiché pretende di circoscrivere sinteticamente un fenomeno
dai confini molto più sfumati e, spesso, non permette di
cogliere in pieno le motivazioni delle donne nella migrazione,
che sono spesso dovute a una serie di concause e che
possono variare nei diversi momenti e nelle diverse fasi del
percorso migratorio. Si pensi, ad esempio, alle migrazioni
che si concretizzano in seguito al desiderio di emancipazione
dal proprio contesto culturale e familiare di origine, che
racchiudono insieme motivazioni economiche, culturali,
umanitarie, oppure alle donne che si ricongiungono ai mariti
già emigrati e che poi entrano nel mercato del lavoro o
riprendono gli studi.
Non meno numerose sono però le donne che migrano sole,
senza la famiglia al seguito o per ricongiungervisi, anche se
ciò non significa che i loro progetti non siano in alcun modo
collegabili a strategie o legami di tipo familiare.
Le donne primomigranti erano presenti e diffuse in Europa fin
dai primi anni Settanta, in modo particolare proprio in Italia,
dove la loro partecipazione al mercato del lavoro, in gran
parte domestico, era tutt’altro che trascurabile: la
particolarità significativa, per quanto riguarda l’Italia, è che
questi costituirono proprio i primi flussi consistenti di
immigrati verso il nostro paese ed erano formati da donne.
La migrazione verso l’Europa meridionale, negli ultimi
decenni, è cresciuta notevolmente anche a causa dei flussi
37
consistenti di donne nel lavoro domestico, provenienti da
Filippine, Capo Verde, Sud America e dall’Europa dell’Est.
Sono le donne esteuropee, in particolare, ad aver
accresciuto, il loro protagonismo settore a partire dai primi
anni Novanta, da quando la caduta di regimi politici contrari
all’emigrazione unita a un generalizzato basso livello di vita
hanno fatto da propulsore per la mobilità delle popolazioni
dell’Europa orientale. Sono in particolare le donne i soggetti
che hanno sopportato il peso maggiore della transizione dei
Paesi dell’Est alle economie di mercato e, pur essendo spesso
altamente qualificate, sono state spinte a cercare lavoro al di
fuori dei confini nazionali e ad inserirsi nel lavoro domestico.
Ad oggi si calcola che i paesi appartenenti all’ex Unione
Sovietica contino il più alto numero di donne migranti, e che
gran parte delle donne di questi paesi abbia sperimentato la
migrazione.
Questi movimenti, oltre a caratterizzarsi per essere composti
da una percentuale di donne superiore a quella degli uomini,
sembrano presentare caratteristiche veramente peculiari
rispetto a quanto avveniva in precedenza: si tratta di flussi
principalmente composti da donne primomigranti dirette in
larga misura verso l’Europa meridionale, specie verso l’Italia:
sono sempre di più migrazioni individuali, spinte da motivi
economici o di tipo familiare e culturale (talvolta talmente
intrecciati che non è possibile distinguerli), spesso adottando
modelli di migrazione rotazionale
Il ridisegnamento geopolitico dell’Europa dell’Est, infatti,
dopo la caduta della cortina di ferro ha determinato, fra gli
altri, l’effetto di creare nuovi spazi migratori intraeuropei, fra
l’Est e l’Ovest, ma anche, in anni più recenti, fra l’Est e il Sud
del continente.
Pur essendo proprio la presenza delle donne che garantisce
l’evoluzione del sistema migratorio attraverso l’affermazione
del diritto all’unità familiare, l’ampliamento delle funzioni
dello spazio domestico e la dilatazione del tempo della
famiglia accanto a quello di lavoro, gran parte della
letteratura accademica ha finito per adottare una visione
sicuramente parziale del ruolo delle donne nella migrazione,
figlia di una tradizione di studi che ha messo al centro
38
l’esperienza maschile e ha relegato quella femminile ad una
posizione ancillare, tuttora non completamente ancora
superata: tutt’oggi, infatti, la migrazione femminile, tranne
alcuni esempi importanti, continua a ricevere una attenzione
limitata da parte degli studi sulle migrazioni, dimostrando
che non è stata ancora totalmente colta la centralità che la
componente femminile riveste oggi nel comprendere i
movimenti migratori contemporanei.
3.2 L’ Italia come meta delle donne migranti
La componente femminile nelle migrazioni, come si è detto,
è stata per lungo tempo considerata solo come un fattore di
stabilizzazione del flusso migratorio e, fino a pochi decenni
fa, qualora qualche ricerca ponesse il suo interesse sui flussi
delle donne, l’attenzione veniva rivolta quasi esclusivamente
alle dinamiche relative al ricongiungimento familiare.
Tuttavia, il fenomeno migratorio femminile in Italia ha una
tradizione che affonda le sue radici intorno alla metà degli
anni Settanta, costituendo da subito una realtà interessante,
dinamica e in espansione. Tognetti Bordogna (2006)
individua una scansione delle fasi del fenomeno
riconducendolo a quattro periodi principali. L’insediamento
migratorio nella realtà italiana è importante ed interessa
tutto il territorio nazionale, anche se in un primo momento si
concentra nelle grandi città metropolitane (Roma, Milano e
Napoli in primis) e nelle regioni del centro-sud. Le regioni
settentrionali cominciarono ad essere interessate da
insediamenti migratori consistenti a partire dagli inizi degli
anni Novanta, in virtù di un processo di migrazione interna
degli stranieri già presenti nelle regioni meridionali e grazie
alla crescita dei flussi provenienti dalle aree territoriali
dell’Europa orientale.
La storia dell’immigrazione femminile in Italia è riconducibile
a quattro principali periodi temporali (Tognetti Bordogna,
2006). La prima fase inizia verso la metà degli anni
Sessanta, e i flussi migratori sono caratterizzati da una forte
presenza femminile: sono le donne a costruire le prime
catene migratorie. Sono donne sole e giovani, provenienti
principalmente dalle Filippine, Capo Verde, Eritrea, che
39
giungono in Italia grazie all’intercessione di organizzazioni
missionarie presenti nei loro stati di origine, che fanno da
tramite tra le donne immigrate e le donne italiane che
cercano collaboratrici domestiche, in virtù del loro
progressivo ingresso nel mercato del lavoro salariato.
La seconda fase ha inizio nei primi anni Ottanta, ed è
caratterizzata da un flusso di immigrazione femminile
contraddistinto per la maggior parte da ricongiunte familiari,
che raggiungono il marito, che ha sperimentato
precedentemente l’esperienza della migrazione. A partire
dagli anni Novanta prende avvio una terza fase che è
caratterizzata da un sostanziale equilibrio tra uomini e
donne, da un flusso migratorio composto da donne
provenienti da paesi dell’Est Europa. Donne in possesso di un
titolo di studio, con esperienze lavorative alle spalle, il cui
progetto migratorio è legato al risparmio di denaro da poter
inviare alla famiglia rimasta nel paese d’origine.
Questa fase si dilata a partire dall’inizio del nuovo millennio,
quando le migrazioni femminili provenienti dall’Est Europa
assumono sempre maggiore rilevanza, sia numerica che
sociale, anche per il welfare, rivestendo ruoli di estrema
importanza nelle mansioni di cura e di assistenza. Queste
donne provengono principalmente dai paese dell’Ex Unione
Sovietica, sono in possesso di titoli di studio generalmente
elevati e hanno esperienze professionali prestigiose alle
spalle: arrivano in Italia spesso in una fase matura della
propria vita, spinte dalla critica condizione economica in cui si
trova la loro famiglia in seguito alle trasformazioni politiche,
sociali ed economiche dei propri paesi di origine. Le donne
costituiscono, dunque, un segmento sempre più importante
delle migrazioni verso l’Italia.
A livello numerico, in linea con le tendenze europee, esse
hanno ormai superato il numero degli uomini, costituendo la
maggior parte delle presenze straniere sul nostro territorio,
su un totale di oltre 4.029.145 immigrati, più di 2.147.506
sono di genere femminile (Censimento del 2011).
40
Popolazione residente per sesso e cittadinanza
al 1° Gennaio 2011
Cittadinanza
Romania
Albania
Marocco
Cina Rep. Popolare
Ucraina
Filippine
Moldova
India
Polonia
Tunisia
Perù
Ecuador
Egitto
Macedonia
Bangladesh
Sri Lanka
Maschi
439311
259352
254906
108418
40617
56559
42997
73446
31415
67435
39310
37985
62840
50330
55642
45007
Femmine
529265
223275
197518
101516
160113
77595
87951
47590
77603
38856
59293
53640
27525
39570
26809
36087
Totale
968576
482627
452424
209934
200730
134154
130948
121036
109018
106291
98603
91625
90365
89900
82451
81094
Tabella 3 (Elaborazione dati Istat)
Osservando più dettagliatamente i dati relativi ai paesi di
provenienza emerge una prevalenza numerica netta delle
comunità provenienti dall’area europea orientale (cfr. Tabella
3): rappresentano oltre il 60 per cento delle presenze
femminili di tutti i 16 paesi presentati in tabella.
La cospicua presenza di donne provenienti dall’Est Europa,
che è quasi raddoppiata negli ultimi tre anni, trova una sua
spiegazione nella richiesta da parte del mercato del lavoro
italiano di manodopera da impiegare nel settore
occupazionale del privato domestico e di cura, un segmento
di mercato in cui le donne esteuropee sono diventate via via
protagoniste.
3.3 La presenza delle donne immigrate nel mercato
del lavoro e concentrazione nel settore domestico
Una prima analisi sull’occupazione delle donne immigrate si
può effettuare in base alla distribuzione intragruppo per
categorie produttive, dove emerge una concentrazione
polarizzata in due categorie prevalenti: il lavoro dipendente che occupa quasi il 50% delle lavoratrici extracomunitarie - e
il lavoro domestico (45,5%), mentre l’occupazione nei settori
del lavoro autonomo (artigiani, commercianti, ecc.) e nel
41
lavoro agricolo (OTI/OTD) risulta modesta.
Il settore della collaborazione familiare e dei servizi di cura è
quello che assorbe il più alto numero di donne immigrate in
Italia. Secondo i dati forniti dall’Inps, che registra le
collaborazioni regolari, nel 2009 gli impiegati nel settore
sfioravano le 600 mila unità regolarmente registrate, delle
quali i quattro quinti erano di nazionalità straniera e il 90 per
cento di genere femminile.
Le donne straniere, poi, costituiscono il 68 per cento del
totale degli occupati regolari nel settore domestico. Di
queste, i due terzi sono costituiti da donne provenienti
dall’Est Europa (in gran parte ucraine, romene e polacche) e
si registra una partecipazione ridotta ma significativa
dall’Asia e dall’America (si tratta soprattutto di donne
ecuadoriane, peruviane e filippine).
Il settore del lavoro domestico nel tempo è stato soggetto ad
una differenziazione in termini di composizione delle
cittadinanze: negli anni Settanta le lavoratrici straniere
impegnate nel settore provenivano in maggior misura dal
continente africano mentre, a partire dagli anni Ottanta,
sono le filippine che iniziano ad inserirsi fortemente nei
servizi alle famiglie, occupando in larga parte il settore. Nel
corso degli anni Novanta, invece, comincia ad affermarsi la
presenza delle immigrate provenienti dai paesi dell’Europa
dell’Est che, gradualmente, anche grazie alla maggiore
concorrenza in termini di salario richiesto che portavano sul
mercato dei servizi di cura e al dumping sociale che ne
conseguiva, si inserirono scalzando via via le donne filippine
e conquistandosi un ruolo da protagoniste. Si tratta
principalmente di donne provenienti da paesi in transizione
politica e sociale, che adottano strategie migratorie
soprattutto per motivi economici.
42
4.
4.1
IL LAVORO DOMESTICO E DI CURA. UN SETTORE
FORTEMENTE SEGMENTATO PER GENERE ED
ETNIA
Le caratteristiche del lavoro domestico
L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) nel 1952
definisce il lavoratore domestico come colui che guadagna
uno stipendio lavorando presso una famiglia in una casa
privata, che può avere uno o più datori di lavoro, che può
essere soggetto a diversi metodi e periodi di remunerazione
o anche ricevere nessun guadagno monetario dal suo lavoro
(Gallotti, 2009).
Questa naturalmente non è l’unica definizione di lavoratore
domestico, ma è sufficientemente esaustiva e comprendente.
Gallotti evidenzia come, in ogni caso, esistano almeno due
fattori che ricorrono in tutte le definizioni e che possono
essere riconosciuti come specifici del lavoro domestico: il
primo riguarda il carattere privato del posto di lavoro, che
rimanda a una coincidenza fra sfera pubblica normalmente
correlata alle relazioni di lavoro e sfera privata tipica della
famiglia e delle dinamiche casalinghe; il secondo elemento
riguarda lo status giuridico del datore di lavoro, che è un
privato e non un’impresa, e che quindi non è interessato
esclusivamente al guadagno economico che può ricavare dal
lavoro del dipendente.
Entrambi i fattori sono determinanti per comprendere le
peculiarità del lavoro domestico, delle relazioni che vi si
instaurano e del relativamente basso livello di protezione
sociale garantita ai lavoratori in questo settore. Come molti
studiosi hanno evidenziato (Ambrosini, 2000), il lavoro
domestico non è definito sulla base delle competenze
richieste per svolgerlo bensì su caratteristiche personali del
soggetto impiegato e sul ruolo che egli è in grado di giocare
nel contesto sociale in cui è inserito, che è definito in base a
attitudini generiche e percezioni soggettive.
Le forme che può assumere il lavoro domestico sono diverse.
Possiamo fare una distinzione per criteri: per tipo di
mansione e per modalità di organizzazione del lavoro. Le
43
mansioni sono principalmente di due tipi: quelle legate al
care giving (lavoro di cura, assistenza, baby‐sitteraggio,
badantato, servizi di compagnia in genere) e quelle inerenti
l’house keeping (mansioni come quella di colf, “donna delle
pulizie”, cuoca, giardiniera, ecc.). Se consideriamo
l’organizzazione del lavoro, invece, possiamo distinguere il
lavoro live in, l’impiego live out a tempo pieno e il “lavoro
casuale” o discontinuo e il lavoro pagato ad ore. La forma di
lavoro in live in è diffuso principalmente in Europa del Sud e
molto poco in altre zone, come la Germania e le nazioni del
Nord Europa, dove i servizi di cura sono prerogativa dello
stato e del settore pubblico, che se ne fanno carico in modo
quasi esclusivo (Gallotti, 2009). In generale, la soluzione in
convivenza è preferita dagli immigrati di recente ingresso, sia
regolari che irregolari e fornisce una soluzione prontamente
disponibile e risolutiva dei problemi di accoglienza iniziale.
Nel caso degli irregolari, poi, fornisce una scappatoia dai
controlli delle autorità del lavoro e delle migrazioni. D’altro
canto, il lavoratore acquisisce indipendenza e maggiore
capacità di negoziare il rapporto di lavoro principalmente
nelle situazioni in cui è occupato con modalità parziale, in live
out, poiché, come verrà in seguito puntualizzato, il potere
negoziale risente negativamente della perdita di autonomia
dovuta alla sovrapposizione degli spazi di lavoro con quelli di
vita privata.
A livello territoriale si può osservare che, nelle regioni italiane
meridionali, il lavoro domestico è spesso “a giornata”, cioè
molto più discontinuo e precario, senza i privilegi del lavoro
‘giorno e notte’ (che fornisce vitto e alloggio), né di quello ‘a
ore’ (che garantisce maggiore autonomia organizzativa) che
sembra essere più diffuso nelle regioni centro-settentrionali.
L’assistenza a domicilio di persone anziane è molto diffusa in
Europa mediterranea. Se si considera che il ricorso ad un
aiuto esterno da parte delle famiglie viene richiesto nella
maggior parte dei casi quando l’anziano non è autosufficiente
e non è in grado di soddisfare i principali bisogni in modo
autonomo, va da sé che la modalità live in sia la più
richiesta, specialmente in quei paesi non sufficientemente
supportati dal settore pubblico attraverso l’offerta di servizi di
44
assistenza ai soggetti sociali deboli.
Si tratta di occupazioni molto pesanti in termini sia lavorativi
che psicologici, caratterizzati da una particolare precarietà e
determinatezza dell’occupazione dovuta alle condizioni di
salute generalmente instabili dell’assistito (Ambrosini, 2005).
Un discorso a parte, invece, va fatto per il collaboratore
famigliare a servizio continuo, convivente con il datore di
lavoro, figura che sembrava scomparsa o perlomeno in
declino, ma che sta tornando in auge negli ultimi anni in
seguito alla disponibilità di manodopera a basso costo fornita
dall’immigrazione.
Il lavoro a ore, invece, specialmente legato alle mansioni di
house keeping, maggiormente adatte a poter essere
organizzate in modo discontinuo e intervallato, può anche
costituire spesso, quando legato alle mansioni di cura, una
evoluzione dei primi due, che secondo una logica di
promozione orizzontale delle condizioni di vita e di lavoro del
coadiuvante domestico, ne permette la creazione di una
famiglia propria al di fuori dell’ambiente lavorativo (Ambrosini
2005). In linea generale, alcuni fattori contribuiscono a porre il
lavoro domestico in un’area di criticità e di problematicità
sociale più accentuate rispetto ad altri settori occupazionali.
Fra le principali motivazioni, possono essere annoverate
innanzitutto la notevole e rapida crescita in termini
quantitativi del fenomeno presso le famiglie italiane.
È un settore, inoltre, che viene percepito di competenza
innanzitutto femminile e di conseguenza è valutato
poveramente in termini economici e sociali, pur essendo
carico di elementi altamente personalizzanti, affettivi ed
emotivi. Include, poi, una varietà di mansioni di varia natura,
che si svolgono quasi esclusivamente all’interno delle case
private, esponendo il lavoratore ad un alto rischio di
isolamento sociale, che risulta particolarmente problematico
nel caso in cui il lavoratore sia straniero e necessiti anche di
una più profonda socializzazione con la società accogliente. Il
settore domestico, inoltre, presuppone una relazione di
lavoro atipica, che spesso esula dalle leggi generali del
lavoro, rischiando di incorrere più facilmente rispetto ad altri
settori occupazionali a forme di rapporti lavorativi di stampo
45
pre-moderno, forme di patronage, protettorato, violazione
degli obblighi contrattuali, sfruttamento, adattamento al
ribasso, abusi sessuali (Ambrosini, 2005). Come lo stesso
autore sottolinea, «il ritorno del lavoro domestico “fisso” (e
dell’assistenza a domicilio, che ne rappresenta una versione
più esigente) rappresenta per molti aspetti una riedizione
della versione pre-moderna dei rapporti di lavoro. Ritorna la
benevolenza come scelta discrezionale dei datori di lavoro.
Ritorna la crucialità delle relazioni personali come
componenti costitutive dei rapporti di lavoro. Ritorna la
sovrapposizione tra abitazione e luogo di lavoro. Ritorna
un’asimmetria profonda nei rapporti, insieme alla dipendenza
reciproca tra datori di lavoro e lavoratrici. Ritorna un
contesto in cui il “padrone” è anche “patrono”, conosce poco
il linguaggio dei diritti, ma è disponibile ad assumere un
ruolo di protezione verso la lavoratrice che accoglie sotto il
suo tetto».
(Ambrosini, 2005). Oltretutto, il lavoro domestico è
facilmente inserito nel settore sommerso dell’economia, per
cui attira gran parte della forza lavoro più vulnerabile.
Un numero crescente di lavoratrici migranti trova
occupazione nel settore domestico, spinta ed attirata allo
stesso tempo dalla combinazione che etnicità, genere e
classe sociale producono nel mercato globale della cura.
Si tratta nella maggior parte dei casi di donne che lasciano i
figli in patria per occuparsi di figli di altri e che vivono una
“dislocazione delle relazioni affettive” (Parreñas, 2001), che
produce traumi emotivi, senso di colpa, solitudine
(Ambrosini, 2005). Ambrosini evidenzia, a questo proposito,
un paradosso: la crescita della sicurezza finanziaria va di pari
passo con la crescita dell’insicurezza affettiva di queste
donne e delle loro famiglie, che, nel caso delle esteuropee, si
trovano in tal modo a dover affrontare il peso e i costi della
transizione sociale ed economica dei loro paesi di
provenienza. In sostanza, secondo Morini (2001), il lavoro di
cura può essere ricondotto a quello che Gorz chiama “il
terziario umile”, quello che vende “servizi e cure personali,
domestiche, sessuali, al ristretto strato di padroni e dei
salariati ben pagati” (Gorz, 1992), secondo ciò che Duffy
46
(2007) chiama marketization della cura.
Il lavoro di cura sembra saldarsi alla perfezione con quella
femminilizzazione del lavoro asservita al sistema produttivo
ed economico per diverse ragioni, ovvero:
‐ Il servizio alla persona richiede una flessibilità che è
difficilmente regolamentabile con una forma di trattamento
contrattuale: questo predispone il lavoratore sia ad una
maggiore probabilità di sfruttamento da parte del datore di
lavoro che alla possibilità di attivare forme di auto
sfruttamento per massimizzare i guadagni;
- L’allentamento delle norme relative ad orari e mansioni e la
modalità di impiego live‐in, molto diffuso fra i lavoratori
domestici
stranieri,
comportano
una
separazione
blandamente distinguibile fra ambiti di vita propri e ambiti di
lavoro: “assistiamo – così – alla perfetta dissoluzione delle
due variabili spazio/tempo, che tanto condiziona l’esperienza
del lavoratore postfordista” (Morini, 2001).
La forte dipendenza dalla domanda e dalle sue fluttuazioni,
che caratterizza questo settore occupazionale, fa sì che il
turn over e la mobilità fra i lavoratori domestici siano molto
elevati, sia per ragioni oggettivamente legate all’assistenza a
persone anziane e malate – dalla salute più vulnerabile e a
più alto rischio di mortalità –, sia per motivi dovuti alla
necessità di instaurare in rapporto fiduciario fra le parti, che
richiede periodi di prova ed aggiustamenti, sia per il
lavoratore che per l’employer. Il tipo di rapporto che si
instaura fra l’assistente/collaboratore domestico e la famiglia
in cui è impiegato è ad alto contenuto relazionale,
specialmente nei servizi alla persona rivolti a bambini e
anziani. Interessante, a questo proposito, è la considerazione
che fa Hochschild, relativamente al concetto di cura, quando
afferma di riferirsi «a un legame sentimentale, di solito
reciproco, fra chi si prende cura e chi la riceve, un legame
tale per cui chi presta assistenza si sente responsabile del
benessere di qualcun altro, e mette in gioco le proprie forze
mentali, emotive e fisiche per ottemperare a tale
responsabilità. In questo senso prendersi cura di una
persona implica prendersi a cuore quella persona». Gli
elementi alla base della valutazione delle capacità del
47
lavoratore, dunque, più che basarsi su competenze
oggettivamente dimostrabili, sono di tipo relazionale e
soggettivamente percepibili e chiamano in causa la capacità
di dare e ricevere risorse amorevoli: l’abilità di comprendere
le esigenze dell’assistito, di interpretarne i bisogni, di
instaurare un rapporto empatico e affettivo, per esempio,
sono sicuramente elementi che danno un valore aggiunto
nell’attività di assistenza e cura e rappresentano anche,
come afferma Morini (2001), oltre che un elemento che
incrementa le credenziali del soggetto presso la comunità e i
potenziali datori di lavoro, un elemento di autovalorizzazione
professionale. Un ulteriore aspetto da considerare in modo
attento è l’alto grado di irregolarità presente nel settore
domestico, che tende ad amplificarsi ulteriormente laddove è
impiegata manodopera straniera.
4.2 Un lavoro “da donne”: le immigrate nel settore
domestico e di cura
Nelle società europee occidentali, il lavoro domestico,
storicamente, attirato a sé, per la maggior parte, giovane
forza lavoro femminile, fra la più povera, marginale e meno
istruita. Solitamente si trattava di ragazze provenienti dalle
zone rurali che “andavano a servizio” presso famiglie
benestanti, sia nelle campagne che nelle città, per uscire
dalle condizioni di povertà e indigenza in cui versavano le
loro famiglie: il lavoro domestico, anche per tale motivo, è
sempre stato considerato di scarso prestigio sociale,
degradante per la lavoratrice e svuotato di un reale valore
sociale. Questa percezione generale del lavoratore domestico
si è tradotta, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella
composizione della forza lavoro nell’assetto moderno della
società, in una trasposizione che si potrebbe definire “di
classe”: da quella dalle giovani donne italiane provenienti
dalle famiglie povere della aree rurali a quella delle donne
immigrate, non necessariamente provenienti dagli strati
meno abbienti della società di origine ma ad essi comunque
destinate nella società ospite e, perciò, facenti attualmente
parte di quello strato sociale che tradizionalmente viene
attirato dal mercato del lavoro domestico.
48
Il lavoro domestico e di cura, è innanzitutto, un lavoro “da
donne” ma anche un lavoro “fra donne”, nel senso che non è
solo una particularly gendered activity (Lutz, 2008), ma
anche perché è un’area, gestita in toto da donne: con molta
probabilità, infatti, sia la lavoratrice che la datrice di lavoro
saranno di genere femminile (Gallotti, 2009), quasi a
significare che la gestione degli affari familiari legati agli
affetti e alla sfera privata siano di competenza propria delle
donne, tanto da indurre alcuni studiosi a parlare di rapporti
gestiti con atteggiamenti maternalisti, più che paternalisti
(Hondagneu-Sotelo, 2001). Volgendo lo sguardo all’ Europa,
si può notare come questo trend sia presente nella maggior
parte dei paesi: in Spagna il 90 per cento delle persone
occupate nel settore domestico sono di genere femminile, in
Belgio l’89 per cento e in Austria più del 95 per cento (ILO,
2009).
In Italia, secondo i dati dell’Inps, nel 2011 gli impiegati nel
lavoro domestico erano 881.702, dei quali circa l’ 84 per
cento di genere femminile e l’ 80,3 per cento di cittadinanza
straniera di cui il 47 per cento proveniente dall’Europa dell’
Est. È opportuno segnalare che i dati raccolti dall’Inps, pur
molto preziosi perché forniscono informazioni dettagliate e
non rintracciabili altrove, si riferiscono ai soli lavoratori
regolari, con contratti registrati. Se si considera che una
recente stima dell’Istat ha valutato la presenza di più di un
milione di lavoratori domestici in Italia, si può avere un’idea
della consistenza del sommerso di questo settore. In ogni
caso, data la difficoltà ad avere informazioni certe sulle
situazioni lavorative irregolari, si faranno considerazioni sulle
presenze regolari nel mercato del lavoro domestico. Secondo
i dati Inps relativi all’anno 2011, le principali aree di
provenienza dei lavoratori domestici in Italia sono l’Europa
orientale, le Filippine e l’America del Sud, oltre ad una ancora
forte presenza dei lavoratori domestici salariati italiani, per i
quali permane comunque il dubbio se siano percentualmente
più presenti o più regolarizzati contrattualmente. Si può
notare come, fra i lavoratori di origine europea, nel 2011
prevalevano le donne per oltre il 95 per cento dei casi; si
segnala la presenza di un maschio ogni dieci lavoratori
49
domestici sudamericani, mentre è rilevante la quota dei
domestici uomini asiatici: in particolare, fra i domestici
filippini, uno su quattro è di genere maschile.
I lavoratori domestici in Italia, anno 2011
Lavoratori domestici
Italiani
Stranieri
173.870
707.832
19,7%
80,3%
Tabella 4 (Elaborazione su dati INPS)
È bene sottolineare che la presenza italiana fra i lavoratori
domestici (che nel 2011 era il 19,7 per cento) potrebbe
essere verosimilmente sovra rappresentata a causa
dell’esistenza di un’ampia fetta di irregolarità nel settore che
molto probabilmente è costituita principalmente da lavoratori
stranieri che sono soggetti ad un doppio rischio di irregolarità
rispetto ai colleghi italiani: oltre alla mancanza di un regolare
rapporto di lavoro, eventualità che può riguardare entrambi i
gruppi anche se in misura e con modalità diverse, i migranti
possono avere l’aggravante di essere senza un permesso
regolare di soggiorno, che automaticamente li esclude dalla
possibilità di formalizzare un contratto di lavoro. Questo
comporta che l’incidenza numerica degli stranieri – e in modo
particolare delle donne straniere – nel settore domestico è
ineluttabilmente più elevata.
Uno dei morivi che spinge all’inserimento lavorativo in questo
settore è spesso dovuto dall’opportunità che il modello di
lavoro live in offre in termini di massimizzazione del
guadagno e di ammortizzazione di specifici bisogni sociali: la
coabitazione con l’assistito, infatti, oltre a permettere alla
lavoratrice di non dover cercare una abitazione, consente di
godere di una forma di protezione, di avere un punto di
riferimento forte e stabile nella comunità italiana e offre,
inoltre, una garanzia in più di invisibilità per gli
undocumented workers.
Le caratteristiche etniche e di genere continuano ad
esercitare un notevole impulso sull’occupazione delle donne:
non solo le donne sono considerate naturalmente dotate di
virtù caritatevoli, servizievoli e pacatezza, praticamente ciò
50
che serve per il lavoro di cura domestico, ma anche la
variabile etnica, di status e di legalità gioca un ruolo
importante nella loro marginalizzazione e confinamento nel
settore domestico. Ciò che del lavoro domestico bisogna non
trascurare è il mutamento del sistema di valori e delle
relazioni sociali sperimentato dalle lavoratrici domestiche in
seguito al passaggio dalle modalità gratuite di scambio che
avvenivano nella società di origine, alle modalità mercificate
(Caponio, Colombo, 2005). Come viene sottolineato da più
parti, il lavoro domestico offerto alle immigrate è
maggiormente
esposto
all’instaurarsi
di
relazioni
paternalistiche ed autoritarie, divenendo un lavoro privo di
ogni contenuto professionale e quindi realizzabile anche da
coloro che non hanno competenze specifiche in materia,
incluse le donne straniere. In realtà, l’esperienza mostra che
le differenze culturali nel lavoro domestico sono
particolarmente rilevanti, proprio perché portatrici di
peculiarità rispetto al rapportarsi alla casa e ai suoi oggetti,
al senso del tempo e dello spazio, alla centralità di alcune
mansioni piuttosto che altre. Il possesso o meno della
capacità di uniformarsi al modello culturale proprio del datore
di lavoro costituisce la prerogativa sulla quale si è creata una
ben definita gerarchia i gruppi etnico culturali in termini di
affidabilità e concordanza culturale (per esempio, le
domestiche filippine sono più richieste di altre perché
ritenute maggiormente affidabili e competenti nella gestione
della casa) (Vicarelli, 1994). Lo stretto intreccio fra relazioni
di lavoro e relazioni personali che caratterizzano questa
professione amplifica sia i disagi e le difficoltà quotidiane
(Caponio, Colombo, 2005) che le possibilità di godere di
sostegno e aiuto dalla famiglia italiana, legando, di fatto, le
condizioni lavorative e di vita delle donne migranti impiegate
nel settore domestico alle caratteristiche comportamentali e
umane dei datori di lavoro, creando spazi adatti
all’instaurarsi di rapporti asimmetrici e paternalisti. Questo
comporta una intensificazione delle difficoltà di uscire dalle
condizioni di integrazione subalterna (Ambrosini 2001),
tendenzialmente sperimentata dai migranti, che vede una
loro legittimazione sociale solo in quanto lavoratori occupati
51
nelle mansioni più gravose e marginali del mercato del
lavoro, necessarie al funzionamento del sistema economico
ma evitate dagli autoctoni.
L’accettazione del lavoro immigrato, dunque, secondo questa
prospettiva passerebbe attraverso una visione strumentale
ed utilitaristica della forza lavoro straniera. Oggi, tuttavia,
specialmente le donne immigrate possono essere considerate
a tutti gli effetti dei soggetti attivi della società, considerato
che occupano un ruolo centrale anche nei sistemi di welfare,
sia come fruitrici che come fornitrici di servizi attraverso il
loro lavoro salariato e non.
4.3 Un’attività poco regolata: il sommerso nella “care
economy”
Nel lavoro domestico e di cura, la porzione di irregolarità e di
sommerso sembra essere notevolmente diffusa in tutti i
paesi europei. Alcuni studi calcolano una stima compresa fra
il 70 e l’80 per cento di lavoro irregolare e non dichiarato in
questo settore in Europa.
C’è un reale problema di comparabilità dei dati, dovuto alla
lacunosa – per forza di cose – disponibilità degli stessi, per
questo motivo non è possibile né procedere a comparazioni
efficaci fra i diversi paesi europei, né fornire una stima della
quantificazione del fenomeno in Italia.
È però facile ipotizzare, anche alla luce delle restrizioni degli
ultimi anni in materia di diritto dell’immigrazione, che le
persone maggiormente implicate nel circuito dell’irregolarità
siano quelle socialmente più fragili, vulnerabili e deboli.
L’evidenza mostra che le donne migranti, spesso senza
documenti – almeno nei primi tempi di soggiorno –
costituiscono una ampia porzione dell’economia informale
europea ed esse sono principalmente concentrate nelle
occupazioni informali nell’area dei servizi di cura e alle
famiglie.
I governi europei hanno provato in molti modi a scoraggiare
l’informalità
diffusa
nel
settore,
anche
attraverso
l’introduzione di sanzioni pecuniarie sia per i lavoratori che
per i datori di lavoro, ma con differenti risultati da paese a
paese, che riflettono le peculiarità della struttura del mercato
52
del lavoro locale, nel quale l’informalità si incastona e prende
forma. Alcune delle misure prese dai singoli stati europei per
contrastare l’irregolarità del settore, anche se sono
principalmente rivolte alla regolarizzazione della posizione
lavorativa del migrante –agiscono in special modo sugli
incentivi offerti al datore di lavoro per rendere più
conveniente la dichiarazione di assunzione – e non al
contrasto dell’irregolarità della presenza e conseguentemente
del lavoro. Non vanno dunque realmente alla radice del
problema
considerato
che
l’irregolarità
si
annida
principalmente proprio fra i migranti che soggiornano in
modo illegale sul territorio europeo. Alcune delle misure più
diffuse per combattere il lavoro domestico non dichiarato
sono il sistema dei voucher di cura (introdotto in Francia,
Germania e Belgio), la deduzione fiscale per il datore di
lavoro che impiega personale domestico – misura vigente in
Germania e in Italia – e il tentativo di “professionalizzare” il
lavoro domestico, avanzato in Germania, che mirava a
creare e a formare personale altamente qualificato e capace
di gestire in modo professionale il rapporto di cura, gestito da
agenzie che fornivano lavoro alle famiglie (Gallotti, 2009).
Queste misure hanno avuto risultati diversi da paese a
paese, anche in base alla struttura interna dei diversi mercati
del lavoro. In generale però, il relativamente scarso impatto
che esse hanno avuto nel contrastare efficacemente
l’irregolarità e il sommerso nel settore del lavoro domestico e
di cura deriva dal fatto che, tranne in casi in cui l’intervento
statale è consistente e costante, la competitività del mercato
nero del lavoro è molto forte e rende poco conveniente per i
datori di lavoro ricorrere a manodopera regolare e ai servizi
forniti regolarmente sul mercato.
Inoltre, queste misure di contrasto agiscono solo
sull’irregolarità legata al lavoro, che costituisce però la punta
dell’iceberg del sommerso nel settore domestico. La maggior
parte dei lavoratori domestici in Europa, infatti, è costituita
da migranti irregolarmente soggiornanti, che sono esclusi a
priori dalla possibilità di godere di alcuna di queste misure di
policy (Gallotti, 2009).
Un ulteriore elemento da non sottovalutare è che la
53
regolarità di soggiorno e di lavoro, insieme al possesso di un
contratto valido a tutti gli effetti, non costituiscono
necessariamente la condizione sufficiente di rispetto delle
norme di lavoro. Spesso per i domestici, proprio per la
natura fortemente ‘personalistica’ del rapporto di lavoro che
caratterizza questo settore, carico di significati sociali e
culturali che si riscontrano tipicamente nei rapporti fiduciari,
l’ottenimento di un contratto regolare di lavoro costituisce
spesso solo il punto di partenza della negoziazione delle
condizioni di lavoro e non il punto di arrivo.
5.
IL PROGETTO MIGRATORIO
5.1 Il paese di partenza: La Romania
Nella provincia di Enna, secondo i dati rilevati risiedono
1.754 donne straniere regolarmente presenti, pari al 61%
del totale dei migranti. Tra le nazionalità con prevalenza
femminile e con percentuali del 58% troviamo la Romania.
Attraverso un uso incrociato di diversi dati ufficiali, indagini
sociologiche e studi su realtà locali, in questo capitolo si
vogliono esplorare i percorsi e le strategie messe in atto da
queste donne immigrate.
All’inizio degli anni ’90 la caduta dei regimi comunisti e la
penetrazione del sistema capitalistico nei paesi dell’ex blocco
sovietico, seguiti dai primi segnali di una crisi economica e di
un’instabilità sociale che hanno colpito numerose famiglie,
anche di ceto medio e piccolo borghese, hanno innescato
nella popolazione significative dinamiche di spostamento e
migrazione (Bianchini e Privitera, 2004). La parziale apertura
delle frontiere, ha rappresentato un momento cruciale nella
storia dell’emigrazione dall’Europa orientale. Ai cittadini di
questi paesi si è aperta infatti la possibilità di accesso ai
mercati del lavoro internazionali, in particolare dell’Unione
Europea, mentre la migrazione (più o meno temporanea) per
lavoro è presto diventata un’opportunità − per molti l’unica
− di miglioramento delle proprie condizioni economiche
(Malinowska, 2004; Sandu, 2004).
Per quanto riguarda la Romania il fenomeno migratorio deve
54
essere letto alla luce delle trasformazioni strutturali della
società e dell’economia del paese negli anni che hanno
preceduto e seguito il crollo del regime comunista, nonché di
più ampi processi migratori verificatisi nel paese e con i quali
possono essere identificati importanti elementi di continuità
(Ohligger, 1999; Diminescu, 1999, 2003; Diminescu e
Lagrave, 1999; Sandu, 2004; 2006; Radu, 2004).
La collettivizzazione e l’industrializzazione forzata del periodo
comunista hanno comportato uno spostamento forzato di
un’importante parte della popolazione dai villaggi verso le
aree urbane ed industrializzate del paese. Questi movimenti
sono stati descritti dalla letteratura sulle migrazioni in
Romania come la prima fase di una migrazione interna che
però non era destinata ad esaurirsi con la fine del governo
Ceauşescu. Nei primi anni ’90, infatti, il declino delle
industrie ha portato ad una inversione di tendenza che vide
un ritorno verso le campagne. I primi consistenti flussi
internazionali sono avvenuti negli anni immediatamente
successivi alla caduta del regime comunista ed hanno
interessato soprattutto i cittadini romeni appartenenti alle
minoranze etniche e religiose. Questi flussi erano diretti
soprattutto verso la Germania, l’Ungheria, l’Austria ed
Israele, e provenivano principalmente dalle regioni della
Transilvania (Diminescu , 2003, Sandu, 2004). A questi si
sono aggiunti alcuni flussi di richiedenti asilo che hanno
coinvolto in particolare cittadini romeni di etnia romani
(Benattig e Brachet, 1998).
Negli stessi anni si sono consolidate anche le cosiddette
migrazioni transfrontaliere, o “con la valigia” (commerce à la
valise), già praticate nel periodo precedente la rivoluzione del
1989 quando gli abitanti delle zone di frontiera potevano fare
piccoli viaggi – generalmente finalizzati alla compravendita di
prodotti
di
consumo
–
nei
paesi
confinanti.
Contemporaneamente si è sviluppato anche il pendolarismo
transfrontaliero per lavoro (Sandu, 2000; Potot, 2003).
Già dalla metà degli anni ’90, si verificano importanti
cambiamenti per quanto riguarda la componente etnica dei
flussi migratori in partenza dalla Romania. In seguito a questi
cambiamenti, la componente maggioritaria cominciò a non
55
appartenere ad etnie minoritarie (tedesca, ungherese, ecc) –
nel 2004, infatti,circa il 90% degli emigrati era di etnia
romena. Tra le destinazioni preferite, Germania ed Austria
mostrano un trend discendente, le mete mediterranee, la
Spagna e l’Italia mostrano un’attrattiva crescente −
soprattutto per quanto riguarda quei movimenti etichettati
dalla letteratura sulle migrazioni come circolari, stagionali, o
temporanei − mentre quelle oltreoceano (Stati Uniti e
Canada) rimangono ancora stabili soprattutto per i flussi di
lunga durata o di insediamento permanente. Nello stesso
periodo comincia anche a verificarsi una diversificazione delle
aree di provenienza con una diminuzione dei flussi
provenienti dalla Transilvania ed un aumento di quelli
provenienti dalle regioni a nord-est della Romania, in
particolare dalla Moldavia.
Tra il 1992 ed il 2002, si stima che circa 800.000 persone
abbiano lasciato la Romania emigrando verso paesi
dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti ed il Canada (BaldwinEdwards, 2006). Inoltre,secondo un’indagine CURS (Centrul
de Sociologie Urbana Regionala) condotta nel 2003 su un
campione di 35.000 intervistati in tutta la Romania, a partire
dal 1990 una famiglia ogni quattro (23%) ha avuto, o aveva
al momento dell’indagine, almeno un membro con
esperienza lavorativa all’estero. Negli anni a seguire, ulteriori
stime ci vengono fornite dalla Fondazione Soros Romania che
ha condotto ricerche a livello nazionale sull’emigrazione
romena per lavoro dal 1990 al 2006. Questi dati ci offrono un
quadro leggermente diverso in cui più di un terzo delle unità
familiari ha avuto, o aveva, almeno un membro all’estero per
lavoro nell’arco di tempo indicato.
Particolarmente interessante sono le statistiche ufficiali
dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istitutul Nazional de
Statistica) che mostrano come, in un arco di tempo di circa
tre decenni – tra il 1975 ed il 2003 − si riscontra una
prevalenza di donne nei flussi migratori dalla Romania. In
particolare nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2003 si è
verificata un’accentuata femminilizzazione di tali flussi e, ad
esempio, nel 2003 le donne che hanno scelto di lasciare il
paese sono state 40% in più rispetto agli uomini (Constantin
56
et al., 2004). Tale trend è continuato anche nel 2004, anno
in cui le donne sono venute a rappresentare il 62% del
totale. Questa femminilizzazione della migrazione romena si
è verificata in concomitanza al cambiamento nella scelta
delle destinazioni, un fenomeno che va letto anche in
relazione alla rimozione, avvenuta nel 2002, dell’obbligo del
visto di ingresso per i cittadini romeni nei paesi membri
dell’Unione Europea per periodi inferiori ai tre mesi.
In seguito a tale mutamento giuridico, alcuni paesi del
Mediterraneo, l’Italia e la Spagna in particolare, sono
diventati le principali mete per la migrazione romena tanto
che in Italia la presenza della comunità romena è
raddoppiata, passando dal terzo al primo posto sul totale
delle presenze straniere. Dopo l’abolizione del visto nel 2002,
la migrazione temporanea di breve periodo, o circolare, ha
costituito, per un lungo periodo, una realtà diffusa o perfino
la strategia migratoria che maggiormente caratterizzava la
migrazione femminile dalla Romania. Si trattava di donne
che svolgevano lavori di cura o domestici per brevi periodi,
spesso sostituendo una parente, amica, o conoscente che
ritornava in Romania. Si era quindi diffusa una strategia
cosiddetta di share-work , un modello di gestione della
famiglia transnazionale che permetteva anche a donne con
figli di migrare per lavoro ma di continuare ad essere
presenti durante momenti importanti della crescita o
formazione dei figli e quindi di mantenere quelle
responsabilità all’interno della famiglia.
Questa modalità dei movimenti migratori provenienti dalla
Romania, per la quale la letteratura sul tema ha utilizzato
definizioni varie come circolarità, pendolarismo, o migrazione
temporanea, è stata descritta come una vera e propria
“strategia di vita” di individui e famiglie, spesso provenienti
dai villaggi della Moldavia rumena e che in molti casi
avevano avuto esperienze migratorie precedenti (Sandu,
2004). Un’idea quindi che implica anche una capacità di
adattamento e di ridefinizione dei legami familiari che si
basano su una presenza intermittente facilitata dal largo uso
delle nuove tecnologie di comunicazione.
Tuttavia, recentemente si è assistito ad un afflusso sempre
57
più consistente di ondate migratorie meno transitorie e più
orientate a un insediamento stabile nella società, anche
legate alla dinamica dei ricongiungimenti familiari. In
generale cresce la propensione a un insediamento più
stabile, a medio o lungo
termine, se non addirittura
definitivo in paesi come l’Italia. Un indicatore in tal senso è il
fatto che a Roma sono stati 10.000 gli acquisti di immobili
da parte di cittadini romeni nel solo 2007 (Caritas/Migrantes,
2008). Secondo una recente ricerca svolta dall’Istituto per la
Ricerca Sociale sulle nuove caratteristiche e tendenze del
lavoro di cura in Italia, le assistenti romene in modo
particolare si contraddistinguono per progetti di lungo
periodo. Ad essere protagonisti di processi di insediamento
più stabili sono soprattutto le famiglie romene già presenti in
Italia prima dell’adesione della Romania all’ Unione Europea
nel gennaio del 2007, mentre strategie di migrazione a
breve termine sembrano nuovamente essere messe in
pratica dai nuovi migranti. Possiamo quindi affermare che da
gennaio 2007 stiamo assistendo da una parte ad un processo
di stabilizzazione delle famiglie già presenti a quella data in
Italia ed in contemporanea al riaffacciarsi di una migrazione
circolare spesso caratterizzata da share-work, soprattutto
per quanto riguarda la migrazione femminile per lavoro nel
settore domestico.
5.2
Il momento pre-migratorio: le cause e la
costruzione di un progetto
Le migrazioni delle donne romene sono in larga misura di
tipo economico e sono sorrette da motivazioni orientate al
raggiungimento di obiettivi talvolta personali ma molto più
spesso legati al benessere del nucleo familiare e dei figli in
particolare. La delicata transizione socio-economica che ha
investito l’area orientale dell’Europa a partire da due decenni
fa, con la dissoluzione del blocco sovietico e il difficile
passaggio dall’economia di piano all’economia di mercato, ha
avuto – e sta in qualche modo continuando ad avere –
conseguenze notevoli sullo stile di vita delle persone, che si
sono trovate a dover affrontare un cambiamento profondo
degli usi e delle consuetudini legate all’organizzazione della
58
quotidianità e del lavoro, ricorrendo in numerosi casi a
strategie di sopravvivenza che spesso si sono tradotte in
migrazioni verso l’estero. Il disfacimento del sistema politico,
infatti, ha portato con sé uno sfaldamento della struttura
sociale che si reggeva fortemente sull’assetto economico di
stampo socialista che prevedeva la distribuzione del lavoro e
il soddisfacimento di una serie di bisogni sociali per mano
pubblica, come l’assegnazione di una casa, la garanzia di
un’istruzione per i figli, ecc.
A partire dal 1991, dunque, la dissoluzione di tale sistema
socio-economico, comportando da un lato un enorme
aumento della disoccupazione e dall’altro l’apertura delle
frontiere e la libera circolazione delle persone – per la prima
volta dopo decenni – cominciarono a crearsi flussi migratori
consistenti, richiamati dai mercati del lavoro occidentali che
offrivano maggiori opportunità occupazionali e salariali. È
bene sottolineare, tuttavia, che i differenziali economici da
soli non sono sufficienti a spiegare le migrazioni: il calcolo
economico è sempre collegato ad altri fattori di tipo sociale,
legati in particolar modo allo status pre-migratorio delle
persone e alla loro percezione di necessità.
Quello che ormai è appurato, attraverso numerose ricerche,
infatti, è che la maggior parte dei soggetti che migrano non
sono quelli che nelle società di origine erano i più poveri e
indigenti, bensì quelli che costituivano la classe media, il ceto
relativamente benestante, quello che ha subito lo svantaggio
principale in termini relativi dalla dissoluzione del sistema e
che utilizza la strategia migratoria come mezzo per
riacquistare parte dello status sociale precedente e per poter
garantire alla propria famiglia il mantenimento del medesimo
stile di vita. Si tratta spesso di soggetti altamente
scolarizzati, con passati professionali qualificati, che si
inseriscono nelle nicchie più marginali del mercato del lavoro
dei paesi ospitanti, differendo ad un tempo successivo il
soddisfacimento delle proprie aspirazioni o trovando
compensazione nella possibilità di garantire ai figli e ai
familiari – attraverso le rimesse – adeguate condizioni di vita
in patria, evitando loro la fatica di una migrazione. Un
comportamento di questo tipo, caratterizzato da un
59
annichilimento delle proprie necessità e soddisfazioni
professionali per obiettivi e fini collegabili alle necessità
familiari, emerge in modo tipico nei percorsi delle donne
immigrate nel mercato dell’assistenza e della cura in Italia,
ed è reso ancora più gravoso dalla consuetudine ad adottare
strategie migratorie “in solitaria”, che costringono madri,
figlie e mogli a vivere le relazioni e i legami affettivi a
distanza. Parafrasando Mingozzi (2005), risulta facile, a
questo punto, chiedersi quali possano essere, nello specifico,
i motivi che spingono “una commercialista donna di farsi
assumere in un piccolo comune della provincia di Enna in
qualità di badante”, accettando di fatto condizioni e mansioni
ben lontane dal proprio livello di professionalizzazione e
acconsentendo, con questo a garantire un benessere
economico “a distanza” ai propri familiari privandoli
quotidianamente delle cure e del proprio calore affettivo,
assicurando loro, in sintesi, risorse materiali ma privandoli di
risorse emotive. Le motivazioni che spingono le donne
romene a migrare si possono raggruppare principalmente in
tre tipi principali, alle quali corrispondono specifici percorsi e
strategie di inserimento: le migrazioni finalizzate al
mantenimento o al miglioramento generalizzato delle
condizioni di vita; quelle finalizzate a fronteggiare ed
arginare specifici imprevisti; le migrazioni finalizzate a
garantire sostentamento e sopravvivenza quotidiana. Si
tratta, per lo più, di progetti migratori orientati non tanto
all’uscita da una condizione di indigenza, quanto ad evitare
che il nucleo familiare scivoli dal ceto medio a uno più umile
a causa del nuovo ordine economico nazionale.
A spingere alla migrazione queste persone, dunque, non è
tanto la “fame”, quanto il desiderio di mantenere una
condizione sociale dignitosa, dotata di sufficienti comforts e
relativo benessere, messi recentemente a repentaglio dalla
trasformazione economica della società in corso.
60
5.3 Il momento dello spostamento: il viaggio, gli
intermediari, le agenzie, i debiti e le destinazioni
Il momento della pianificazione del viaggio coincide per le
famiglie, solitamente, con un investimento: quasi tutte le
donne romene iniziano il loro percorso migratorio affidandosi
ad una agenzia turistica, più o meno legale, che fa da tramite
fra il paese di partenza e quello di destinazione e che si
preoccupa di tutti gli aspetti burocratici legati allo
spostamento, inclusa la predisposizione dei documenti e dei
visti necessari all’espatrio per le singole partecipanti.
L’agenzia, che organizza un vero e proprio tour turistico con
sola andata, offre questo servizio per cifre elevate, che
seguendo l’andamento del mercato, tendono a crescere
progressivamente: le donne, spesso, per far fronte a questa
grossa spesa ricorrono alla contrazione di un debito presso
un conoscente o un istituto di credito ed iniziano, dunque,
l’esperienza migratoria con il pensiero principale di
estinguerlo, insieme agli interessi ad esso collegati. Da
questo momento inizia spesso una corsa contro il tempo, che
conduce alcune addirittura all’ansia e alla paura di non
riuscire, e le espone al rischio di sfruttamento.
Se le aspettative sono vaghe e poco nitide, la destinazione è
piuttosto definita nei progetti di queste donne, che tendono a
raggiungere familiari, amici o conoscenti già presenti in
determinate città o paesi italiani. L’azione delle reti, infatti, si
rivela cruciale nell’attirare, definire le destinazioni iniziali
delle donne migranti e nell’inserirle nel tessuto economico e
lavorativo locale, alimentando in tal modo una diffusione
capillare della presenza di manodopera nel settore
dell’assistenza non solo nelle aree metropolitane ma anche in
quelle provinciali e rurali. Il trend, dunque, è quello di servirsi
di “catene” di conoscenze pregresse per potersi inserire nel
minor tempo possibile e per la certezza di poter usufruire un
appoggio logistico ed emotivo, almeno nella fase iniziale del
percorso migratorio. Questa possibilità, pur garantendo un
ingresso più immediato e con meno ostacoli nel mercato del
lavoro non assicura automaticamente la riuscita del progetto
in misura maggiore rispetto a coloro che sono arrivate senza
61
avere appoggi già radicati sul territorio. La differenza è
legata ai “tempi” dell’adattamento, più dilatati nei casi di
coloro che sono giunte senza avere supporti, e in taluni casi
si è registrata addirittura, nel lungo periodo, una
integrazione sociale ed economica con il paese ospitante
superiore a quella di coloro che sono migrate attraverso
l’azione protettiva di una rete comunitaria forte, in linea con
quanto è affermato da Ambrosini in merito al carattere
“costrittivo” e “ghettizzante” che il network comunitario può
esercitare sui propri membri.
Le possibilità di entrare in contatto con donne già migrate in
precedenza e poter quindi prendere contatti con loro per
intraprendere lo stesso percorso si presentano soprattutto in
occasione delle feste natalizie o delle vacanze estive, quando
queste tornano nei paesi d’origine per le ferie e hanno modo
di socializzare con le donne della città di origine le loro
esperienze, anche se più o meno in modo veritiero o
strumentale. Sayad (2002), a questo proposito, parla di
“menzogna collettiva”, per evidenziare la selezione delle
informazioni da raccontare che gli emigrati operano quando
soggiornano al paese, finalizzata a dissimulare agli occhi
degli altri le sofferenze relative alle effettive difficoltà vissute
nell’emigrazione e a ostentare invece i segnali che
testimoniano la riuscita del percorso per incoraggiare anche
altri ad intraprendere l’esperienza migratoria. Alla base di tali
menzogne ci sarebbe l’orgoglio, il tentativo di voler evitare la
vergogna di dover ammettere la disfatta del proprio progetto
e la necessità di mantenere intatti i ruoli e le posizioni di
status guadagnate con la migrazione.
Questa socializzazione anticipatoria edulcorata ha l’effetto di
creare aspettative poco aderenti alla realtà e può produrre
un impatto con la realtà ancora più duro e difficile per i nuovi
arrivati. Esiste uno scarto evidente fra le informazioni che si
possono acquisire sul lavoro che si andrà a fare e le reali
condizioni in cui ci si troverà ad operare, specialmente per
coloro che sono al primo impiego nel settore della cura
domestica. Un aspetto che emerge è l’effettivo ruolo dei
legami deboli (Granovetter, 1998) nel determinare le
decisioni migratorie ancor prima della loro effettiva
62
concretizzazione: sono gli incontri con conoscenti, con vicine
di casa e vecchie colleghe che sembrano essere più incisivi e
più efficaci nella fase della raccolta delle informazioni,
nell’aprire nuove strade e nell’indirizzare al meglio le donne
interessate ad intraprendere a loro volta un’esperienza
migratoria all’estero. Alcuni di questi legami sono destinati a
rafforzarsi e ad approfondirsi una volta che entrambe le parti
si trovano a condividere le difficoltà della lontananza dal
proprio paese e dalla propria famiglia, ma la maggior parte,
esaurita la loro funzione di “ponte” e mediazione si
esauriscono in breve tempo.
Parte delle donne immigrate giungono direttamente nel
territorio siciliano, grazie ad una conoscenza o legame
amicale o parentale in quest’area già preesistente alla
migrazione stessa, mentre altre hanno sperimentato nel
tempo forme di mobilità geografica interna all’Italia. Ad
inserirsi in un primo momento nei territori dell’Italia del Sud
(Campania, Calabria e Sicilia in primis), oltre a coloro che
avevano specifici networks che le hanno indirizzate in quei
territori, sono state tutte le donne che si sono affidate in toto
alle agenzie turistiche, senza avere previ contatti con
connazionali già insediate. Sono in particolare alcune grandi
città a costituire i luoghi
centrali di smistamento, poli
logistici molto importante per la rete delle agenzie turistiche
che si occupano di questo tipo di viaggi, e che diventano
anche, di conseguenza, luoghi in cui si formano attività di
contorno, più o meno legali, collegate al traffico e al business
migratorio, spesso gestite proprio da altri migranti.
È il caso delle forme di intermediariato logistico legato
all’alloggio e alla ricerca del primo lavoro che vengono offerte
ai neo arrivati privi di supporto e che si rivelano talvolta delle
vere e proprie attività che, oltre a lucrare sfruttando i bisogni
e le vulnerabilità delle persone che hanno necessità, sono
collegate ad attività illegali e di sfruttamento.
5.4
Il contesto di accoglienza: il territorio ennese
Con circa 173.471 (Censimento della Popolazione 2011)
Enna è la provincia siciliana con minore consistenza
demografica. Il territorio è poco urbanizzato e scarsamente
63
abitato con una densità di 71 abitanti per kmq, poco meno di
1/3 rispetto alla media nazionale. Il bilancio demografico
della provincia è negativo, con modifiche sostanziali nella
distribuzione per età dei residenti. La ripartizione per età
rispecchia sostanzialmente quella italiana in generale. La
provincia ennese presenta, infatti un tasso di vecchiaia vicino
a quello medio italiano, sia per quanto riguarda la categoria
degli over 69enni che quella dei cosiddetti “grandi anziani”,
che comprende coloro che hanno più di 80 anni.
Distribuzione della popolazione Censimento 2011 Provincia di
Enna
Età
Maschi
Femmine
Totale
65-69
3.380
45,3%
4.079
54,7%
7.459
4,3%
70-74
3.976
45,1%
4.838
54,9%
8.814
5,1%
75-79
3.195
42,9%
4.248
57,1%
7.443
4,3%
80-84
2.385
40,8%
3.458
59,2%
5.843
3,4%
85-89
1.212
37,7%
2.002
62,3%
3.214
1,9%
90-94
319
34,0%
618
66,0%
937
0,5%
95-99
86
34,7%
162
65,3%
248
0,1%
100+
7
33,3%
14
66,7%
21
0,0%
Distribuzione della popolazione Censimento 2011 - Italia
Età
Maschi %
Femmine %
Totale
%
65-69
47,3%
52,7%
3.052.238
5,0%
70-74
45,7%
54,3%
3.102.183
5,1%
75-79
42,8%
57,2%
2.533.595
4,2%
80-84
38,2%
61,8%
1.941.292
3,2%
85-89
32,2%
67,8%
1.171.062
1,9%
90-94
26,8%
73,2%
362.732
0,6%
95-99
22,1%
77,9%
122.290
0,2%
100+
19,2%
80,8%
16.145
0,0%
Tabella 5 ( Elaborazione dati ISTAT)
Le condizioni del mercato del lavoro sono sfavorevoli,
spiegate dalla dinamica negativa della popolazione, della
quale al tempo stesso ne influenza alcuni importanti
indicatori. Il fenomeno migratorio che da sempre ha colpito il
territorio della Provincia costituisce la valvola di sfogo che
64
allenta le pressioni sul mercato del lavoro, ma non impedisce
la crescita del tasso di disoccupazione, che è comunque il più
elevato fra le 110 province (32,4%) ed oltre due volte e
mezza la media nazionale (11,4%), mentre il tasso di
occupazione (26,9%) è il più basso d’Italia.
Se da un lato la provincia di Enna si discosta dalle medie
nazionali in termini di sviluppo ed occupazione dall’altro
registra indici di natalità e di vecchiaia che non si discostano
dalle medie nazionali. Il tasso di vecchiaia dei residenti nei
comuni e nel capoluogo risulta sempre più alto per effetto di
un duplice fattore il basso indice di natalità ed un fenomeno
migratorio anche a causa della preoccupante disoccupazione
giovanile che porta i giovani a cercare occupazione in aree
del nord o all’estero dove sono maggiori le opportunità di
trovare lavoro.
Nonostante il ritardo economico e sociale, la provincia di
Enna, così come altre province della regione Sicilia è un’area
che conosce il fenomeno dell’immigrazione femminile nel
settore domestico poiché sono sempre di più le famiglie che,
per garantire la cura e l’assistenza dei propri familiari
anziani, si rivolgono in gran misura a donne straniere,
identificate comunemente con l’appellativo “badanti”.
Certamente, per quanto riguarda la provincia di Enna, si
tratta di un processo abbastanza recente, che trova la sua
origine nella crescente domanda di assistenza e di cura alla
persona. Le assistenti familiari, sono diventate figure centrali
di un welfare “privato” cui ricorrono, di fatto, le famiglie, dato
il crescente bisogno di servizi rivolti alla terza età, e la
limitata risposta dei servizi pubblici in tale settore. Un
ulteriore dato di interesse su questo fronte è che anche nell’
area di riferimento la propensione di molte famiglie a fare
ricorso al care privato è dettata dalla “cultura della
domiciliarità”, ossia la tendenza a mantenere il familiare in
casa evitando il ricorso a strutture pubbliche o private.
Inoltre, l'evoluzione della vita familiare ed una ridotta
dimensione delle famiglie determina notevoli difficoltà nella
possibilità
di
assolvere
al
ruolo
assistenziale,
tradizionalmente svolto dalla donna a cui da sempre è stata
delegata la cura di anziani e malati.
65
5.5 Il mestiere di “badante”: scelta passiva o strategia
del progetto migratorio?
Ma perché fare la “badante”? Perché le assistenti familiari si
trovano a fare il lavoro che fanno? È la domanda di lavoro
che richiama in quel settore le lavoratrici o sono queste
ultime a scegliere per motivi “utilitaristici” o “strategici”
questa occupazione?
Dalle interviste condotte nel corso dei colloqui per la
partecipazione al percorso formativo FOPSBI, emerge senza
ombra di dubbio che, quello di “badante”, sia uno dei lavori
più “semplici” da rimediare quando si arriva in Italia:
innanzitutto la scarsa o nulla conoscenza della lingua spinge
molte donne ad accettare la sistemazione presso una
abitazione privata. La lavoratrice straniera avvia, dunque, la
propria esperienza migratoria attraverso questo impiego e
continua in molti casi, una volta acquisita esperienza, e una
volta sviluppata una rete di contatti per lo più informali di
collocamento nel settore, a svolgerlo presso altre famiglie.
Molto spesso, infatti, queste donne hanno raggiunto, donne
connazionali, amiche o parenti già inserite nel territorio.
È chiaro che se il proprio “contatto” sul territorio è occupato
in questo settore, la probabilità di essere inseriti, per mezzo
del c.d. passaparola, all’interno dello stesso ambito sia molto
alta. Il ruolo che la “rete”, sebbene fondamentale per i neoimmigrati alla ricerca di lavoro, gioca nell’indirizzare i propri
afferenti a livello occupazionale, col rischio di rafforzarne la
segregazione occupazionale, può essere decisivo, non solo al
momento della ricerca del primo impiego, ma anche come
reiterazione di questo “contatto” sul territorio.
Oltre a ciò, lo status formale di straniere illegalmente
presenti sul territorio – la maggior parte delle straniere
dichiara di essere entrata in Italia col visto turistico e di
essere rimasta alla scadenza, condizione definita di overstayer – accompagnata all’impossibilità di ottenere,
attraverso un incarico lavorativo, il permesso di soggiorno,
rendono la scelta di questo lavoro quasi “scontata”. La “casa”
del datore di lavoro è certamente un “rifugio” molto più
sicuro, in quanto pressoché avulso a controlli, rispetto ad
altri ambiti lavorativi. Questa situazione non è ovviamente
66
esclusiva del nostro caso-paese, ma è confermata in
letteratura da ricerche condotte in altri contesti. Ma anche
abbandonando per un istante i casi – comunque non presenti
all’interno del nostro campione - di donne prive di permesso
di soggiorno, proviamo ad approfondire quale sia il margine
di scelta, o meglio di discrezionalità che hanno le assistenti
familiari nell’orientare la propria collocazione lavorativa. È
vero, come evidenziato da molti lavori presentati alla
letteratura di ispirazione “femminista”, che la “badante” –
come i lavoratori domestici in generale – sia soggetto
meramente passivo nella definizione della propria mobilità
professionale nel contesto di approdo?
Le tesi che vedono tali figure come mere destinatarie passive
delle condizioni imposte dal contesto ricevente sembrano in
alcuni casi sottostimare le motivazioni sottostanti il razionale
orientamento di molte lavoratrici verso tale attività, le quali
possono “scegliere” – o almeno propendere per - il lavoro
“tra le mura di casa” per vari motivi:
Per sentirsi più sicure:
“Ero felice di lavorare in casa di una famiglia, non sapevo
l’italiano, era la prima volta che mi trovavo in un paese
straniero stare in casa con un’altra famiglia, anche se solo
con due anziani, ma poi venivano i figli, mi faceva sentire più
sicura!” (Elena, romena, 43 anni).
Perché unica alternativa in assenza di adeguati strumenti
linguistici e in virtù dell’età che difficilmente consentirebbe
loro impieghi di altro tipo:
“Cosa potevo fare? Non sapevo l’italiano, e sono vecchia,
posso fare solo la badante” (Evelina, romena, 53 anni).
Perché consente una compressione dei costi tali da
permettere di ridurre la durata dell’esperienza migratoria:
“Con il lavoro di badante ti ospitano, ti danno da mangiare, e
io posso risparmiare quasi tutto e inviarlo alla mia famiglia in
Romania, così devo stare meno anni qui… appena posso
torno a casa!” (Mariana, romena, 52 anni).
Certamente tra le motivazioni che le intervistate segnalano
con maggior frequenza alla base della “scelta” del lavoro di
assistente familiare c’è la difficoltà ad inserirsi nel mercato
del lavoro italiano in mancanza di sufficienti strumenti
67
linguistici. Ma se questa motivazione fosse l’unica
soggiacente l’opzione per questa professione, dovremmo
ipotizzare che, dopo un numero sufficiente di anni, o non
appena conquistata la “regolarizzazione”, queste lavoratrici
siano propense ad orientarsi verso altri ambiti del mercato
occupazionale.
In realtà, domandando alle intervistate se, potendo,
cambierebbero mestiere, è sintomatico che la maggior parte
risponda negativamente, e si dichiari disponibile a fare nuove
esperienze formative per la professione di badante al fine di
migliorarsi:
Teodora, romena, 58 anni: laurea in informatica, separata
con 2 figli che vivono con lei. Ha lavorato 4 anni in Israele
come “badante”. Trasferitasi in Italia ha lavorato come
commessa e badante, intende frequentare il corso di badante
per migliorare personalmente e professionalmente.
Toderita, 58 anni, romena: licenza media corso per tessitrice,
divorziata. Proveniente da Torino dove ha un figlio sposato e
dove ha lavorato per 4 anni come badante. Convive con una
persona di Nissoria dove si è occupata di assistenza a
bambini e ad anziani. Vuole frequentare il corso di badante
per migliorarsi.
Evelina, 42 anni: ha conseguito il liceo ed un corso per sarta;
divorziata con due figlie sposate in Romania, è in Italia dal
2004, ha lavorato sempre come badante. Vuole frequentare
il corso di badante per migliorare il suo italiano e
perfezionarsi nel lavoro di assistenza.
Dall’analisi dei casi riportati, le “badanti” che non pensano di
cambiare occupazione sono persone di età più matura che,
nella quasi totalità dei casi, non hanno figli con sé ad Enna.
Nonostante questo ambito professionale presenti molti lati
oscuri, in termini di diritti e garanzie spesso ignorati, è
necessario leggere il fenomeno nella sua complessità.
Le tesi che spiegano l’emancipazione delle donne di classe
media dei paesi affluenti solo grazie ad una forte
segregazione delle donne immigrate nella sfera privata e che
vedono queste ultime costrette a scegliere questo lavoro
essenzialmente
per
problemi
di
razzismo,
lingua,
clandestinità, mancanza di istruzione, sembrano, per quanto
68
condivisibili in un’ottica di riorganizzazione dei ruoli di genere
a livello mondiale, poco attente a osservare tale fenomeno
dall’altra prospettiva, quella delle stesse lavoratrici, le quali
possono utilizzare il proprio lavoro come strategia utile ad
indirizzare ed auto-definire il proprio progetto migratorio. Si
tratta spesso di donne che mettono in piedi, coscientemente
e volontariamente, un modello di migrazione “funzionale”,
diretto alla massimizzazione delle rimesse ed alla
compressione della durata dell’esperienza migratoria. L’aver
lasciato i familiari in patria in occasione di alcune scelte
economiche di notevole rilievo, tra cui l’istruzione dei figli, e
la matura età di questi ultimi, che impedisce il
ricongiungimento familiare, portano alcune di queste donne a
vivere l’esperienza migratoria in funzione dell’obiettivo
prioritario del proprio rimpatrio. Il quantum delle rimesse
rappresenta dunque la discriminante principale per la
realizzazione del proprio progetto, e la formula co-abitativa il
suo principale mezzo. Con ciò non si vuole certamente
appiattire il dibattito, intrapreso nel corso del presente
lavoro, in merito alle forme deviate che tale pratica
lavorativa può, nella quotidianità, assumere, né si vuole
ovviamente sottendere che la decisione di lavorare “il più
possibile” per tornare in patria “il prima possibile” legittimi
situazioni di violazione delle garanzie e dei diritti di questi
soggetti. Si vuole cercare, con la presente analisi, di far sì
che alle assistenti familiari sia riconosciuta la capacità di
essere anche artefici e non solo vittime del proprio cammino
professionale, per non limitarci a guardare il fenomeno del
“badantato”
in
una
mera
ottica
“padrone-servo”,
“sfruttatore-sfruttato”. La lavoratrice può scegliere, di
retrocedere socialmente nel paese di approdo per far
guadagnare alla propria famiglia una mobilità sociale nel
contesto di provenienza. E ciò non è solo il frutto di una
passiva rassegnazione al mercato del lavoro siciliano e
italiano. Non è un caso infatti che molte di queste donne non
siano interessate ad apprendere la lingua in maniera
approfondita, limitandosi ad un vocabolario sufficiente alle
esigenze lavorative, e non dimostrino interesse alla
formazione professionale in altri settori di attività.
69
Diverso è invece il caso delle donne più giovani, intervistate
che si dichiarano volenterose di cambiare occupazione. Sono
lavoratrici proiettate verso la possibilità di cambiare settore
di attività, ad abbandonare la professione di assistente
familiare, sono aperte a corsi riprofessionalizzanti, nel campo
dell’informatica, in vista di lavori di segreteria o di tipo
impiegatizio. In alcuni casi sono donne orientate ad attività
inerenti il settore dell’immigrazione, dove potrebbero contare
sulla conoscenza linguistica come valore aggiunto, e sperano
un giorno di potersi formare come mediatrici culturali. Si
tratta di giovani donne fortemente motivate alla creazione di
percorsi di mobilità ascendente, che usano il lavoro di
assistente familiare come primario strumento di introduzione
nel mercato del lavoro italiano, ma che cercano di prepararsi
a cambiare strada, nella speranza di potersi ancora
“rimettere in gioco”, attraverso lavori psicologicamente e
fisicamente meno gravosi, o per poter mettere a frutto le
proprie competenze e i propri titoli di studio.
Dunque, se spesso la modalità organizzativa del lavoro in
convivenza è generalmente il primo ponte verso il mercato
del lavoro italiano per le donne romene, in seguito i percorsi
si differenziano in base alle effettive necessità: le lavoratrici
più anziane e non interessate a ricongiungimenti famigliari
tenderanno a prolungare tale situazione per loro conveniente
permanendo nel settore o attuando forme di mobilità
orizzontale o geografica, finalizzate a cercare nuovi datori di
lavoro e famiglie che possano offrire loro migliori condizioni
di lavoro e stipendi più alti; le lavoratrici più giovani, invece,
sia che siano senza vincoli familiari alle spalle, sia che
abbiano figli e marito in patria, sono generalmente meno
orientate esclusivamente al “sacrificio” e all’autosfruttamento
in funzione di un guadagno e hanno un maggiore ventaglio di
possibilità di fronte, anche diversi dal semplice “ritorno” in
patria, che possono includere anche la possibilità di poter
richiamare i figli e i mariti, se li hanno. Questa eventualità le
spinge inevitabilmente a dover uscire dal circuito della
convivenza lavorativa, che comporta importanti restrizioni
familiari e di vita privata, cercando di inserirsi in altri settori
del terziario, talvolta sempre nell’ambito assistenziale e dei
70
servizi alla persona, però entro strutture come case di riposo
o hospice, svolgendo un lavoro “a ore.
6.
IL CONTESTO REGIONALE E PROVINCIALE
6.1 La distribuzione degli stranieri sul territorio
regionale: principali caratteristiche
Sebbene i riflettori dei media si accendano sull’immigrazione
in Sicilia solo in occasione degli sbarchi, da circa un
trentennio la Sicilia ha assunto il ruolo di una porta che
dall’Africa introduce all’Europa, facendo da ponte fra culture,
etnie e religioni. È una posizione nel segno della continuità
storica, visto che la Sicilia è stata sempre il crocevia di
migranti provenienti dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa
mediterranee per i più svariati tipi di incontri e di transiti.
Quando si parla di immigrazione in Sicilia, dunque, ci si
riferisce ad una realtà strutturale, che gli abitanti dell’isola
hanno generalmente accettato con senso di ospitalità ed
apertura. la Sicilia risulta essere tra le regioni meridionali
della nostra penisola, la seconda con la percentuale più alta
di residenti stranieri. Seconda solo alla Campania dove
vivono 160mila stranieri, la nostra isola ospita circa 140mila
tra uomini e donne provenienti dalle principali aree
migratorie. In linea con le dinamiche nazionali mostrando un
andamento crescente delle presenze straniere al suo interno
al 1 gennaio 2011, sono stati registrati 141.904 stranieri
residenti (il 2,8% della popolazione siciliana complessiva),
con un aumento del +11,5% rispetto all’anno precedente e
del + 187,3% rispetto al 2001 (Tab.6).
Stranieri residenti in Sicilia dal 2007 al 1° gennaio 2011 e
percentuali e variazioni percentuali anni 2001 e 2011.
Anno
2007
2008
2009
2010
Popolazione straniera residente
REGIONE SICILIA
Maschi
Femmine
48.055
50.097
54.389
60.243
60.751
66.559
68.147
73.757
Totale
98.152
114.632
127.310
141.904
71
Variazione
2010-2011
Variazione
2001-2011
11,5
187,3
11,5
187,3
% sulla
popolazione
residente
totale
% di
femmine
52,0
2,8
Stranieri
% sulla
popolazione
residente
totale
1,0
141.90
4
% di
femmine
1 GENNAIO 2011
50,9
49.399
Stranieri
2001 (a)
(a) Il dato 2001 è relativo alla data del 14° Censimento generale della popolazione
e delle abitazioni (21 ottobre).
Tabella 6. (Elaborazione su dati Servizio Statistica ed Analisi Economica Regione
Sicilia e su dati ISTAT)
Tale aumento si trova distribuito abbastanza uniformemente
su gran parte delle province dell’isola con picchi nelle zone
della provincia di Ragusa (6,6%), in ulteriore crescita rispetto
al 2009, e in quella di Messina (3,6%), mentre i valori più
bassi si evidenziano a Caltanissetta (2,2%) e ad Enna
(1,7%). Le altre province mantengono percentuali più vicine
al dato medio dell’Isola (2,8 per cento). Dai dati emerge che
la maggiore crescita degli stranieri si registra a Enna dove
sono quadruplicati (+307,8%, da 616 unità nel 2001 a 2.512
nel 2011); seguono Caltanissetta (+290,1% per 5.060
persone) e Agrigento (+248%; per 9.204 persone).
Stranieri residenti in Sicilia per provincia al 1° gennaio 2011
(per 100 residenti)
Trapani
Stranieri
residenti
%
2,8
Palermo
2,3
Catania
2,4
Messina
3,6
Ragusa
6,6
Agrigento
2,4
Siracusa
2,7
Province
Province
Enna
Stranieri
residenti
%
1,7
Caltanissetta
2,2
Tab. 7. (Fonte: “ Noi Italia : 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo” ,
edizione ISTAT 2012)
72
L’analisi dei dati evidenza una maggiore presenza
femminile (73.757 unità) rispetto quella maschile (68.147
unità), dato in linea con quello osservato sul territorio
nazionale, mentre l’età media degli stranieri residenti si
aggira attorno ai 32 anni, circa 10 anni più bassa rispetto
quella della popolazione complessivamente residente nella
regione: la fascia d’età maggiormente presente nell’isola è
quella compresa tra i 24 e i 41 anni.
Ampio è il ventaglio di paesi esteri presenti in Sicilia.
Dall’esame dei dati statistici, si evince che la Romania,
con un totale di 40.301 immigrati, rappresenta il 28,4%
del totale degli stranieri residenti in Sicilia con un aumento
rispetto al 2008 del +45,9% rispetto al 2011. Seguono
aree di più antica data come la Tunisia (16.885 unità ) e il
Marocco (12.784 unità).
Interessante notare come i
romeni rappresentano la comunità straniera prevalente in
tutte le province della regione, escluse Trapani e Ragusa
dove la cittadinanza principale è la Tunisia. Altre comunità
presentano una diffusione a macchia di leopardo e
rivestono un ruolo significativo solo in alcune realtà locali.
La diversa concentrazione di alcune cittadinanze a livello
locale trova una probabile spiegazione nel fenomeno delle
cosiddette “catene migratorie”, ossia nella forza di
attrazione che la singola comunità esercita nei confronti
del paese di origine e che si sostanzia nei molti casi di
ricongiungimenti familiari.
73
Stranieri residenti in Sicilia appartenenti
alle prime 17 comunità più numerose al 31 dicembre 2010
Popolazione straniera residente suddivisione per SESSO e CITTADINANZA
REGIONE SICILIA al 31 dicembre 2010
Provenienza
Maschi
Femmine
Totale
Romania
16.301
24.000
40.301
Tunisia
11.237
5.648
16.885
Marocco
7.574
5.210
12.784
Sri Lanka
5.845
4.805
10.650
Albania
3.996
3.143
7.139
Cina Rep. Popolare
3.371
3.268
6.639
Polonia
1.196
4.613
5.809
Bangladesh
3.098
1.408
4.506
Filippine
1.834
2.667
4.501
Mauritius
1.725
2.076
3.801
Germania
535
1.442
1.977
Ucraina
315
1.610
1.925
Ghana
782
525
1.307
India
713
455
1.168
Bulgaria
425
705
1.130
Algeria
769
326
1.095
Francia
318
751
1.069
68.147
73.757
141.904
TOTALE SICILIA
Tab. 8 (Fonte: Servizio Statistica ed Analisi Economica Regione Sicilia)
6.2 La popolazione straniera residente nella Provincia
di Enna
Nel 2010 gli immigrati in Provincia di Enna hanno raggiunto
la quota di 2.874 unità di cui 1.754 donne e 1.120 uomini,
mostrando un trend in linea tanto con le tendenze regionali
quanto nazionali dove la componente femminile supera
quella maschile. Nell’arco di tre anni, la Provincia ha subito
un incremento degli stranieri nel suo territorio pari al 56,
79% e del 12% rispetto l’anno precedente.
Relativamente alla provenienza a livello provinciale, l’analisi
dei dati della Tab. 9 mostra, in linea con l’andamento
74
regionale, una forte predominanza degli stranieri provenienti
dalla Romania (1.556 unità), seguiti da quelli marocchini e
tunisini. Rispetto al 2008, il territorio ha visto un aumento
del 37,33% di rumeni , del 30,63 % di residenti marocchini e
del 20,58 % di tunisini. Sebbene la Romania sia la comunità
straniera prioritaria nella Provincia, un ulteriore dato
altrettanto significativo è quello relativo ai cinesi che,
nell’arco di soli due anni, sono aumentati del 43,96%.
Popolazione straniera residente nella Provincia di Enna per sesso e
cittadinanza: prime 17 comunità al 1 gennaio 2011.
Popolazione straniera residente
suddivisione per SESSO e CITTADINANZA
Provincia Enna al 1° gennaio 2011
Provenienza
Maschi
Femmine
Totale
Romania
535
1.021
1.556
Marocco
140
150
290
Tunisia
123
82
205
Cina Rep. Popolare
85
82
167
Germania
34
74
108
Albania
35
28
63
Filippine
18
43
61
7
47
54
Polonia
Belgio
13
28
41
Francia
7
11
18
India
3
15
18
Russia Federazione
2
13
15
Brasile
4
11
15
Sri Lanka
5
9
14
4
8
12
12
-
12
Serbia
Bangladesh
Stati Uniti
6
6
12
Tabella 9 (Fonte: Servizio Statistica ed Analisi Economica Regione Siciliana)
Il numero degli stranieri presenti nel territorio provinciale
è costituito in massima parte: per quanto riguarda i
cittadini comunitari, da rumeni, da tedeschi e polacchi; per
quanto concerne, invece, i cittadini extracomunitari, da
marocchini, tunisini, cinesi, filippini e da albanesi.
75
6.3 La popolazione straniera nella provincia di Enna
per genere ed età
Dall’analisi dei dati relativi alla presenza della popolazione
immigrata nel territorio della Provincia di Enna il dato
riferito al genere ed alla fascia di età registra che su un
totale di 2.874 (Tab. 10) il 61% è di genere femminile, di
cui il maggior numero è compresa tra la fascia di età che
va dai 30 ai 49 anni rappresentando il 45% della
popolazione straniera femminile.
Nell’ottica di evidenziare le caratteristiche della presenza
di immigrati nel nostro territorio va segnalato, dunque, il
forte processo di femminilizzazione infatti, considerando la
comunità romena (la più numerosa) il rapporto di genere
fa registrare, al 1° gennaio 2011, cinquanta uomini ogni
cento donne.
Un ulteriore dato altrettanto significativo è che la fascia di
età maggiormente rappresentata non può essere
riconducibile a quella giovanile ma ad una fascia di età che
supera la soglia dei trent’ anni. Tali caratteristiche non si
discostano dai dati che si registrano a livello nazionale e
regionale.
Popolazione straniera residente nella Provincia di Enna al 1
Gennaio 2011 per sesso e fascia d’età
Popolazione straniera residente - PROVINCIA ENNA
1 gennaio 2011
Fascia d’età
0-9
10-19
20-29
30-39
40-49
50-59
60-69
70-79
80-89
90-99
100+
Totale
Maschi
148
111
260
271
199
98
22
11
0
0
0
1.120
Femmine
135
129
375
406
385
241
54
23
6
0
0
1.754
Totale
283
240
635
677
584
339
76
34
6
0
0
2.874
Tabella 10 (Elaborazione su dati Ufficio Statistica e Analisi Economica Regione
Siciliana)
76
6.4 Popolazione straniera residente nei singoli
comuni della Provincia di Enna
Relativamente alla situazione rilevata in ciascun comune, è
emerso che la maggiore concentrazione di detti stranieri è
registrata nel comune Capoluogo, seguito da Piazza
Armerina.
In particolare, i dati rilevati in tali comuni sono i seguenti:
Popolazione straniera residente per sesso
Comuni Provincia di Enna al 1° gennaio 2011
Comune
Agira
Aidone
Assoro
Barrafranca
Calascibetta
Catenanuova
Centuripe
Cerami
Enna
Gagliano Castelferrato
Leonforte
Nicosia
Nissoria
Piazza Armerina
Pietraperzia
Regalbuto
Sperlinga
Troina
Valguarnera Caropepe
Villarosa
Totale comuni Prov.Enna
Maschi
Femmine
Totale
39
21
16
43
22
68
30
8
268
10
47
75
7
262
16
74
6
36
43
36
54
39
56
74
84
51
12
436
30
67
109
16
378
22
78
9
65
83
75
75
55
99
96
152
81
20
704
40
114
184
23
640
38
152
15
101
126
29
55
84
1.120
1.754
2.874
Tabella n. 11. (Elaborazione su dati Ufficio Statistica e Analisi Economica Regione
Siciliana)
77
Distribuzione degli stranieri residenti per paese di provenienza
nei singoli comuni della Provincia di Enna
Gli stranieri residenti ad Agira al 1° gennaio 2011 sono 75 e rappresentano lo
0,9% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
34,7% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente ad
Agira
Grafico 1
Comune di Agira: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011
78
Gli stranieri residenti ad Aidone al 1° gennaio 2011 sono 75 e rappresentano il
1,5% della popolazione residente
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
48,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Polonia (16,0%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente
ad Aidone
Grafico 2
Comune di Aidone: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011
79
Gli stranieri residenti a Barrafranca al 1° gennaio 2011 sono 99 e rappresentano lo
0,8% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
60,6% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Repubblica
Popolare Cinese (19,2%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Barrafranca
Grafico 3
Comune di Barrafranca: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011
80
Gli stranieri residenti a Calascibetta al 1° gennaio 2011 sono 96 e rappresentano il
2,0% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
81,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Calascibetta
Grafico 4
Comune di Calascibetta: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011
81
Gli stranieri residenti a Catenanuova al 1° gennaio 2011 sono 152 e rappresentano
il 3,0% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
67,8% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Tunisia (17,8%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Catenanuova
Grafico 5
Comune di Catenanuova : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
82
Gli stranieri residenti a Centuripe al 1° gennaio 2011 sono 81 e rappresentano il
1,4% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
86,4% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Centuripe
Grafico 6
Comune di Centuripe : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
83
Gli stranieri residenti a Cerami al 1° gennaio 2011 sono 20 e rappresentano lo
0,9% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Tunisia con il 45,0%
di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguono Romani (30%) e Germania
(15%)
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Cerami.
Grafico 7
Comune di Cerami : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
84
Gli stranieri residenti a Enna al 1° gennaio 2011 sono 704 e rappresentano il 2,5%
della popolazione residente
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
39,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dal Marocco (30,1%) e
dalla Tunisia (9,5%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Enna
Grafico 8
Comune di Enna : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
85
Gli stranieri residenti a Gagliano Castelferrato al 1° gennaio 2011 sono 40 e
rappresentano il 1,1% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
70,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Gagliano Castelferrato.
Grafico 9
Comune di Gagliano C.to: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
86
Gli stranieri residenti a Nicosia al 1° gennaio 2011 sono 184 e rappresentano il
1,3% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
66,8% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Repubblica
Popolare Cinese (6,5%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Nicosia
Grafico 10
Comune di Nicosia: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
87
Gli stranieri residenti a Nissoria al 1° gennaio 2011 sono 23 e rappresentano lo
0,8% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
69,6% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Nissoria
Grafico 11
Comune di Nissoria: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
88
Gli stranieri residenti a Piazza Armerina al 1° gennaio 2011 sono 640 e
rappresentano il 3,0% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
50,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Germania (9,4%) e
dalla Repubblica Popolare Cinese (7,8%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Piazza Armerina.
Grafico 12
Comune di Piazza Armerina: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
89
Gli stranieri residenti a Pietraperzia al 1° gennaio 2011 sono 38 e rappresentano lo
0,5% della popolazione residente
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
60,5% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
la piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Pietraperzia.
Grafico 13
Comune di Pietraperzia: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
90
Gli stranieri residenti a Regalbuto al 1° gennaio 2011 sono 152 e rappresentano il
2,0% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
53,9% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Tunisia (19,1%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Regalbuto.
Grafico 14
Comune di Regalbuto: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
91
Gli stranieri residenti a Sperlinga al 1° gennaio 2011 sono 15 e rappresentano il
1,7% della popolazione residente
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dall'Albania con il 73,3%
di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
la piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Sperlinga.
Grafico 15
Comune di Sperlinga: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
92
Gli stranieri residenti a Troina al 1° gennaio 2011 sono 101 e rappresentano il
1,0% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
61,4% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Tunisia (10,9%).
la piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Troina.
Grafico 16
Comune di Troina: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
93
Gli stranieri residenti a Valguarnera Caropepe al 1° gennaio 2011 sono 126 e
rappresentano il 1,5% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
57,9% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Repubblica
Popolare Cinese (15,9%) e dal Marocco (15,1%).
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Valguarnera Caropepe.
Grafico 17
Comune di Valguarnera: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
94
Gli stranieri residenti a Villarosa al 1° gennaio 2011 sono 84 e rappresentano il
1,6% della popolazione residente.
La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il
69,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio.
La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a
Villarosa.
Grafico 18
Comune di Villarosa: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza
95
Note:
I cittadini stranieri residenti: sono le persone di cittadinanza non
italiana aventi dimora abituale in Italia e che risultano iscritte nelle
anagrafi comunali;
L’incidenza della popolazione straniera: costruita rapportando i
cittadini stranieri residenti al 1° gennaio di ciascun anno al totale dei
residenti alla stessa data.
La variazione percentuale: è ottenuta rapportando gli stranieri che si
sono aggiunti nel corso di un anno di calendario agli stranieri residenti al
1° gennaio dello stesso anno.
96
INDICE
Premessa
Capitolo 1 - IL PERCORSO MIGRATORIO
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
Definizione di migrante
La normativa in materia di immigrazione
Le migrazioni in Italia
Le principali cittadinanze: uno scenario multietnico
La distribuzione degli stranieri sul territorio: un mosaico complesso
Gli stranieri nel mercato del lavoro
Capitolo 2 - IL RUOLO ECONOMICO E SOCIALE DELL’IMMIGRAZIONE
2.1
2.2
2.3
I principali effetti dell’ immigrazione
Una rassegna della letteratura sugli effetti dell’immigrazione
Il contributo dell’immigrazione alla tenuta del sistema di protezione
sociale
Capitolo 3 - L’ IMMIGRAZIONE FEMMINILE IN ITALIA
3.1
3.2
3.3
La femminilizzazione dei flussi migratori
L’Italia come meta delle donne migranti
La presenza delle donne immigrate nel mercato del lavoro e
concentrazione nel settore domestico
Capitolo 4 - IL LAVORO DOMESTICO E DI CURA: UN SETTORE
FORTEMENTE SEGMENTATO PER GENERE ED ETNIA
4.1
4.2
4.3
Le caratteristiche del lavoro domestico
Un lavoro “da donne”: le immigrate nel settore domestico e di cura
Un’attività poco regolata: il sommerso nella ‘care economy”
Capitolo 5 - IL PROGETTO MIGRATORIO
5.1
5.2
5.3
5.4
5.5
Il paese di partenza: la Romania
I momento pre-migratorio: le cause e la costruzione di un progetto
Il momento dello spostamento: il viaggio, gli intermediari, le
agenzie, i debiti e le destinazioni
Il contesto di accoglienza: il territorio ennese
Il mestiere di “badante”: scelta passiva o strategia del progetto
migratorio?
Capitolo 6 - IL CONTESTO REGIONALE E LOCALE
6.1
La distribuzione degli stranieri sul territorio regionale: principali
caratteristiche
97
6.2
6.3
6.4
La popolazione straniera residente nella Provincia di Enna
La popolazione straniera residente nella Provincia di Enna per
genere ed età
La popolazione straniera residente nei singoli comuni della Provincia
di Enna
Bibliografia
98
BIBLIOGRAFIA
Ambrosini M., Un’altra globalizzazione.
transnazionali, il Mulino, Bologna, 2008
La
sfida
delle
migrazioni
Ambrosini M., Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005
Ambrosini M., Gli immigrati nel mercato del lavoro: il ruolo delle reti
sociali, in Stato e Mercato, n. 60, dic. 2000
Caponio T., Colombo A. (a cura di), Migrazioni globali, integrazioni locali,
Il Mulino, Bologna, 2005
Castles S., Miller M., The age of migration: international population
movements in the modern world, Palgrave‐Macmillan, Basingstoke, 1998
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Rapporto sul mercato del
lavoro 2011 – 2012 Roma
Dell’Aringa C., Pagani L., Labour market assimilation and over education:
the case of immigrant workers in Italy, paper del Dipartimento di
Economia, n. 178 ,2010
Diminescu, D. & Lăzăroiu, S., Circulatory Migration of Romanians, IOM,
2002
Duffy M., Doing the dirty work. Gender, race and reproductive labor in
historical perspective, in Gender & Society, Vol. 21, N. 3, 2007
ELENA (European Legal Network on Asylum), The Application of the Safe
Country of Origin Concept in Europe. An Overview, ECRE, 2005
Ferrera M., Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia,
Mondadori, Milano, 2008
Fondazione Leone Moressa, La crisi non ferma l’assunzione delle badanti:
in dieci anni stranieri quintuplicati. Mestre, 2012
Fullin G., Reyneri E., Low unemplyment and bad jobs for immigrants in
Italy, in International Migration vol. 49, 2011
Gallotti M., The Gender Dimension of Domestic Work in Western Europe,
International Migration Papers No. 96, International Labour Office,
Geneva, 2009
Gorz A., Metamorfosi del lavoro salariato, Boringhieri, Torino, 1992
ISMU Diciottesimo rapporto sulle migrazioni 2012 Franco Angeli, Milano
99
Marshall T.H., Cittadinanza e classe sociale, introduzione di S. Mezzadra,
Laterza, Roma‐Bari, 2002.
Morini C., La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive
Approdi, Roma, 2001
Sandu, D. et al, A Country Report on Romanian Migration Abroad: Stocks
and Flows After 1989, Multicultural Centre Prague, 2004
Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato, Cortina Editore, Milano, 2002
Signorelli A., Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio, Palermo, 2006
Tognetti‐Bordogna M., La realtà delle badanti: una nuova prospettiva
nell’assistenza agli anziani, in Camera del lavoro (a cura di) Donne
immigrate e lavoro di cura, Bine editore, Milano, 2006
Vicarelli G. (a cura di), Le mani invisibili. La vita e il lavoro delle donne
immigrate, Ediesse, Roma, 1994
Zanfrini L., Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma‐Bari, 2004
Zanfrini L., Cittadinanze. Appartenenza e diritti nella società
dell’immigrazione, Laterza, Bari, 2007
Zlotnik H., The global dimensions of female migration, in Migration
Information Source Washington, D.C.: Migration Policy Institute, 2003
Zolberg A.G., Richiesti ma non benvenuti, in Rassegna italiana di
sociologia, il Mulino, Bologna, 1997
Sitografia
IOM – International Organization for Migration: http://www.iom.int
CNEL – Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro:
http://www.portalecnel.it/
ISTAT – Istituto Nazionale di Statistica:
http://www.istat.it/; http://demo.istat.it/strasa2011/index.html;
http://www.istat.it/it/sicilia
http://noiitalia.istat.it/fileadmin/user_upload/allegati/S04I01M03p0_2011.xls
INPS – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale:
http://www.inps.it/newportal/default.aspx
Ministero dell’Interno:
http://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/immig
razione/
100