RICERCA Percorso migratorio delle donne immigrate nella
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RICERCA Percorso migratorio delle donne immigrate nella
RICERCA PERCORSO MIGRATORIO DELLE DONNE IMMIGRATE NELLA PROVINCIA DI ENNA 1 Pubblicazione realizzata con il contributo del Fondo Sociale Europeo 2007/2013 Asse III - Inclusione sociale - Programma Operativo Regionale - Obiettivo Convergenza nell’ambito del progetto “FOSBI – Formazione Orientamento Sostegno Badanti Immigrate” C.I.P. n. 2007.IT.051.PO.003/III/G/F/6.2.1/0094 Gruppo di lavoro Dott. Giuseppe Castellano - Direttore Dott.ssa Silvia Messina - Coordinatrice Dott. Michele Sabatino - Progettista Dott.ssa Annalisa Lambritto Responsabile Esterno Operazioni (REO) Dott.ssa Antonina Licata - Ricercatrice Dott.ssa Manuela Mancuso - Ricercatrice 2 PREMESSA Nell’ultimo decennio, la rinnovata attenzione al fenomeno delle lavoratrici straniere impegnate nell’attività di assistenza agli anziani, spesso identificate con l’appellativo di “badanti”, ha posto in evidenza, da un lato, i limiti strutturali dei sistemi di welfare di molte società occidentali, e di quella italiana in modo particolare e, dall’altro, l’impatto trasformativo in termini di composizione della popolazione straniera. A livello locale come a livello nazionale, l’accesso delle “badanti” al mercato del lavoro ha cambiato in parte la composizione dei flussi migratori: se la migrazione orientata al settore domestico non è nuova nella storia, nemmeno quella femminile, ciò che invece cambia rispetto al passato sono le caratteristiche delle donne coinvolte nella migrazione. È nostro scopo, attraverso il presente lavoro, ricostruire le diverse peculiarità che contraddistinguono le donne straniere coinvolte in questo segmento occupazionale, i molteplici fattori che incidono sulla costruzione e sull’evoluzione della loro esperienza migratoria, sulle strategie di vita e lavoro. In particolare il presente lavoro, si inserisce nell’ambito delle attività di ricerca del progetto “FOSBI – Formazione Orientamento Sostegno Badanti Immigrate” finanziato a valere dell’Avviso n. 1/2011 dell’Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro che prevede la formazione di 20 donne immigrate residenti nel territorio della Provincia di Enna per il profilo professionale di badante. La scelta della Provincia di Enna come luogo di osservazione è dettata, da una parte dalle attività progettuali, dall’altra dall’assenza di studi qualitativi su questo fenomeno in tale realtà geografica. L’obiettivo che ci si propone è di conoscere, la realtà dell’immigrazione locale e fornire uno strumento agli enti locali, agli organi pubblici e privati operanti in questo settore, per attuare interventi ed iniziative efficaci e realmente penetranti nel tessuto sociale provinciale. La cospicua presenza delle donne nel contesto attuale dell’immigrazione nazionale oltre che locale risponde ad una richiesta implicita di manodopera di questo tipo, funzionale al 3 sistema economico e sociale e, in particolare per quanto concerne le donne provenienti dai paesi dell’ex blocco socialista europeo, sembra incastonarsi entro specifiche caratteristiche e trasformazioni recenti della società italiana, che vede trasformarsi demograficamente, con il sorpasso della componente anziana su quella più giovane, con uno sbilanciamento della struttura demografica a favore della prima e una distribuzione del lavoro produttivo fra i generi sempre più equilibrato. La particolare congiunzione fra rivoluzione demografica e crisi del welfare (in termini di servizi assistenziali e di politiche efficaci di conciliazione), ha incentivato una forma particolare di immigrazione femminile, orientata al lavoro domestico e di cura nello spazio privato della società, andando progressivamente a costituire quello che Ambrosini (2002) definisce un ormai indispensabile “puntello” per le famiglie italiane, bisognose di figure assistenziali, che hanno la possibilità di ricorrere al mercato anche grazie all’offerta di manodopera a basso costo che le migrazioni rendono disponibile. Partendo dai presupposti descritti, il seguente lavoro si pone l’obiettivo specifico di approfondire il fenomeno dell’immigrazione femminile proveniente, dalla Romania, proprio perché quest’ultimo rappresenta il Paese di provenienza del maggior numero di immigrate donne occupate nel settore dell’assistenza domiciliare e della cura nei comuni della provincia di Enna. Nel primo capitolo verrà offerto un ampio sguardo al fenomeno delle migrazioni in Italia con una attenzione particolare alla normativa in materia di immigrazione, alle principali cittadinanze ed alla distribuzione degli stranieri sul territorio. Nel secondo capitolo verrà approfondito il ruolo economico e sociale dell’ immigrazione. Si osserverà in modo particolare quali sono i principali effetti ed il contributo dell’immigrazione alla tenuta del sistema di protezione sociale. Nel terzo capitolo verrà offerto un ampio sguardo al fenomeno delle migrazioni contemporanee, con una attenzione particolare alla crescente femminilizzazione dei flussi stessi, la cui caratteristica principalmente osservabile è di essere migrazioni sempre più economiche rispetto al 4 passato e sovente sganciate dai percorsi maschili. Nel quarto capitolo l’attenzione verrà focalizzata in modo specifico sulla concentrazione occupazionale delle donne immigrate nel settore domestico e di cura, ambito lasciato scoperto, come già detto, da un welfare insufficiente a garantire il soddisfacimento dei bisogni di una società che sta facendosi carico privatamente del progressivo invecchiamento della popolazione, del mutamento del ruolo della donna e della struttura familiare, non più in grado di fungere come un tempo da efficace ammortizzatore sociale. Utilizzando come fonte privilegiata d’indagine i colloqui di selezione, effettuati nella fase di selezione delle 20 donne immigrate beneficiarie delle attività formative del progetto FOSBI, il lavoro di ricerca procede con l’analisi del progetto migratorio, quali sono i reali bisogni, le motivazioni che spingono le donne rumene a venire in Italia ed intraprendere il lavoro di badante a prescindere da età, istruzione e aspirazioni. Infine, il lavoro si conclude con l’esame del contesto regionale e locale. Attraverso l’analisi di dati ufficiali viene rilevata la distribuzione degli stranieri presenti sul territorio della Provincia di Enna per genere, età e cittadinanza. 1. IL PERCORSO MIGRATORIO 1.1 Definizione di migrante Poiché l’argomento del presente lavoro riguarda le migrazioni, è bene innanzitutto chiarire che cosa si intende con il concetto di migrante Potrebbe sembrare una precisazione scontata, se non superflua, ma non lo è: definire chi siano i migranti, infatti, ha una forte valenza politica poiché significa marcare il confine fra le categorie dell’inclusione e dell’esclusione (Zolberg, 1997). Come ricorda Zanfrini, tale confine è mobile e mai dato una volta per tutte, proprio perché deriva interamente dal modo in cui vengono tracciati i confini geografici, politici ed amministrativi dello stato: qualunque tentativo di definizione che si può dare del concetto di migrante, infatti, «è sempre 5 una decisione arbitraria e valida solo in riferimento a un dato momento e luogo ed è destinata prima o poi a essere rimessa in discussione» (Zanfrini, 2004). La linea immaginaria che di volta in volta divide lo status di appartenente ad una comunità e quello di estraneo ad essa, di straniero, infatti, oltre a rappresentare la misura di distanza sociale (Zanfrini, 2004) con cui la società ospitante si rapporta al migrante, viene anche a limitare e a permettere l’accesso ad una serie di diritti e opportunità in grado di rivestire un ruolo determinante nell’inclusione/esclusione dell’individuo nella società. L’appartenenza, nelle sue diverse declinazioni – appartenenza politica, sociale, culturale – ha, infatti, il potere di attribuire, limitare, negare, l’accesso dei soggetti ad una serie di diritti, dal diritto al lavoro, al diritto di movimento, a quello della partecipazione politica, dell’accesso al welfare. La modalità di conferimento delle diverse sfere dei diritti variano enormemente da paese a paese e attraverso i differenti status dei singoli soggetti: sono diritti con criteri di accesso spesso molto dissimili fra loro. Oltretutto, il termine “migrante” richiama alla mente una condizione in fieri, processuale, non finita: è proprio sulla definizione della linea di confine e sul suo spostamento al di là e al di qua che si gioca lo status dei soggetti e il loro accesso alle risorse e ai diritti. La definizione di chi è il migrante è dunque un elemento centrale, che non ha solo funzioni analitiche e accademiche, bensì radici culturali, storiche e politiche molto profonde: come ricordava Sayad, infatti, «pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa a se stesso pensando l’immigrazione». Riguardo questa questione, esiste, inoltre, anche un problema statistico, di comparabilità dei dati: poiché variano notevolmente le definizioni e il modo di considerare chi sia o meno migrante, i dati sugli spostamenti migratori prodotti dai singoli paesi sono talvolta molto dissimili e per la maggior parte incomparabili fra loro. L’ONU, convenzionalmente, considera come migrante una persona che si è spostata verso uno stato che non è quello della sua abituale residenza e vi ha vissuto per più di un 6 anno, periodo ritenuto sufficiente affinché lo stato di destinazione diventi effettivamente quello della nuova residenza abituale ma ogni nazione ha formulato la sua definizione specifica di migrante, in relazione alle specificità della storia migratoria della nazione, delle finalità delle istituzioni politiche e amministrative, degli scopi per cui i dati sono raccolti. Alcuni dei criteri più frequentemente utilizzati in Europa per definire i migranti si basano sull’intenzione di rimanere – la presenza, quindi, di un progetto più o meno duraturo e stabile (criterio utilizzato da Belgio, Lussemburgo, Italia e Spagna), su un periodo minimo di durata della residenza nel nuovo paese (è il caso di Portogallo, Finlandia, Svezia, Danimarca e Olanda), sulla natura dell’alloggio occupato (come in Germania). Anche i criteri per definire l’emigrazione e l’immigrazione variano da paese a paese, nonché quelli per delineare chi siano i rifugiati e i richiedenti asilo. Tale disomogeneità, oltre a rendere difficoltosa la raccolta di dati omogenei a livello sovranazionale, comporta limiti di validità delle statistiche sulle migrazioni del continente, rese ancora meno attendibili dal crescente numero dei migranti irregolari e clandestini presenti. Tuttavia, i diversi paesi europei convergono nell’utilizzare la ragione della migrazione come criterio principale nella definizione dei flussi migratori: in linea generale, infatti, la legislazione in materia di immigrazione utilizza questo criterio come base nell’attribuzione di alcuni diritti, in primis quello di ingresso. Le forme più diffuse di migrazione, secondo questo criterio sono le labour migrations, il ricongiungimento familiare, le migrazioni per motivi di studio, di turismo, per asilo e rifugio politico: lo status che ne deriva rimane per il soggetto a lungo strettamente collegato alla ragione iniziale di ingresso. Si pensi, a titolo esemplificativo, a come le possibilità di soggiornare dei migranti entrati come lavoratori siano garantite dalla presenza di un contratto di lavoro anche quando essi hanno già costituito un nucleo familiare nel paese di immigrazione. Inoltre, è da notare che la notifica ufficiale del motivo di ingresso e la conseguente attribuzione di uno status particolare ed ad esso legato, rende difficoltoso 7 il passaggio alle altre categorie, eventualità che invece avviene frequentemente. Per esempio, per gli studenti immigrati il diritto a lavorare è limitato e, una volta terminati gli studi, il passaggio da uno student visa ad un permesso di lavoro è complicato e tutt’altro che automatico. Un’altra categoria di migranti, molto nutrita specialmente in Italia, è quella rappresentata dagli overstayers entrati con visto turistico che, una volta ottenuto un lavoro, regolarizzano la propria posizione come lavoratori, quella di coloro che si sposano: si avverte una discrasia evidente fra la realtà sociale quotidiana del fenomeno migratorio, in cui lo switching fra una ragione di permanenza e l’altra è piuttosto frequente (nonché la compresenza di condizioni e status diversi: si pensi alle donne ricongiunte che iniziano a lavorare), e la rigidità di un modello burocratico statico, che ha anche notevole influenza sullo stato di diritto dei soggetti stessi. La durata della migrazione è un altro criterio comunemente utilizzato per definire i migranti. L’eventuale transitorietà dei loro progetti ne fa persone con diritti transitori, a differenza di coloro che si orientano verso una stabilizzazione definitiva nella nuova società, sebbene la varietà dei percorsi e dei vissuti riportino ancora una volta a considerare la rigidità delle norme in materia di immigrazione, poco attente a cogliere i mutamenti in corso: nonostante, infatti, sia diffusa l’idea che solitamente il passaggio avvenga dalla permanenza temporanea alla permanenza definitiva, è sempre più evidente una tendenza opposta, che vede una crescente transitorietà dei flussi e assume come probabile e importante anche il ritorno in patria alla conclusione del progetto migratorio. Questo criterio è utilizzato anche nella definizione di alcuni tipi di permesso di soggiorno, come, fra gli altri, quello legato alla stagionalità del contratto di lavoro o quello per motivi di studio, entrambi di durata prestabilita e talora non rinnovabili oltre i termini. Un’ altra questione di notevole importanza, che di nuovo trova risposte molto diverse da parte dei diversi paesi europei, è quella relativa al passaggio definitivo di status, anche nell’immaginario collettivo, del migrante da “straniero” 8 a “nazionale” a tutti gli effetti. Quando è, in sostanza, che i migranti smettono di essere migranti? Qui entrano in gioco diversi fattori: le peculiarità storico culturali nazionali; le diverse provenienze dei migranti, nonché loro caratteristiche demografiche come l’età e il genere; le modalità di accesso allo status di cittadinanza previste dal singolo paese. Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante, poiché spesso è proprio la naturalizzazione che viene considerata come spartiacque giuridico, semantico e identitario che segna il confine fra status di migrante e status di “nazionale”, anche se quello dell’accesso alla cittadinanza come condizione desiderabile dalla maggior parte dei migranti è un tema ancora fortemente dibattuto. Certo è che, probabilmente, per quanto riguarda almeno la situazione italiana, il cui diritto di cittadinanza si fonda sul principio dello ius sanguinis, la naturalizzazione non sembra riuscire più a rispondere alle esigenze di una società in profonda trasformazione e caratterizzata da elevata mobilità, che richiederebbe piuttosto un nuovo modello di cittadinanza. I diritti politici e di cittadinanza, specialmente in un paese come l’Italia, sono strettamente legati, ma i criteri/requisiti per l’ottenimento della cittadinanza italiana si fondano su una concezione classica (principio dello ius sanguinis) e statica della società: potevano essere adatti nelle epoche passate, quando i flussi immigratori erano esigui e l’Italia era un paese essenzialmente di emigrazione, ma oggi occorrerebbe ripensare il concetto di cittadinanza per poter individuare un modello più adatto alle esigenze del paese, che si è a sua volta trasformato in un paese di accoglienza dei flussi. L’immigrazione scompagina, infatti, gli schemi tradizionali di attribuzione della cittadinanza. Questo è uno dei motivi per cui quello della cittadinanza è un concetto politico delicato, complesso, centrale e soggetto a continui conflitti e rinegoziazioni, proprio per il suo significato simbolico. L’Italia - il cui modello migratorio, che Ambrosini a questo proposito definisce “implicito”, è caratterizzato dalla mancanza di una regia centrale forte in grado di indirizzare le politiche in materia e di pianificarne e dirigerne lo sviluppo/evoluzione attraverso una programmazione di lungo 9 raggio – ha dato sinora risposte essenzialmente ‘emergenziali’ alle esigenze che il fenomeno migratorio comporta, in genere limitatamente all’ambito delle politiche sociali. Scardinando l’ordine in cui vengono acquisiti i diritti di cittadinanza secondo la famosa teoria di Marshall (sequenza che parte dai diritti civili, si estende ai diritti politici, per includere infine i diritti sociali), agli immigrati sono stati concessi in prima istanza i diritti sociali (specialmente quelli legati al lavoro, alla sanità e all’istruzione) mentre quelli politici stentano ad essere riconosciuti (Ambrosini, 2005): il modello marshalliano, infatti, trovava una sua legittimità e validità in contesti in cui lo stato nazionale era compatto ed omogeneo culturalmente e non interessato da migrazioni. Ma, come ricorda Ambrosini, diritti sociali non supportati da una base di diritti politici rischiano di restare fragili e revocabili, apparendo come una sorta di concessione che la comunità dei cittadini a pieno titolo fa agli immigrati. È, infatti, necessario che tali diritti siano potenzialmente difendibili e rivendicabili in prima persona sul piano politico da parte di chi ne gode, per poter essere considerati diritti a pieno titolo. Attualmente si assiste piuttosto alla situazione paradossale per cui gli immigrati, persino coloro che sono residenti in Italia da molti anni, continuano ad essere considerati in parte estranei: vengono inquadrati in una condizione intermedia tra quella di cittadino a pieno titolo e quella di straniero, in quell’area interposta fra inclusione ed esclusione tipica dei cosiddetti denizen. Castles parla a questo proposito di “esclusione differenziale” gli immigrati sono incorporati in alcune aree della società (lavoro) ma si vedono negato l’accesso ad altre (cittadinanza e partecipazione politica). La rappresentanza politica, pur essendo sicuramente uno degli elementi fondamentali dell’inclusione nella società e della partecipazione alla vita pubblica, rimane quasi ovunque la fortezza inespugnabile che perpetua la differenza formale fra cittadini nazionali e immigrati. Il tema, come si è già detto, si intreccia con la concessione della cittadinanza e anche con i diritti di cittadinanza, che, 10 curiosamente, continuano a basarsi sul principio dello ius sanguinis, alquanto anacronistico in un’epoca di globalizzazione, spostamenti e mescolanze. 1.2 La normativa in materia di immigrazione L’immigrazione nel nostro Paese attualmente è regolata dalle disposizioni della legge n. 189 del 30 luglio 2002, cosiddetta legge Bossi – Fini sull'immigrazione, che regola la condizione degli stranieri in Italia, modificando la normativa precedente (la legge Turco- Napolitano, poi trasfusa nel Testo Unico sull’immigrazione). Le modifiche introdotte dalla legge intendono sia rafforzare le misure di contrasto all’immigrazione illegale e al traffico di esseri umani, sia favorire l’inserimento dell’immigrato che risiede e lavora regolarmente in Italia. Per comprendere meglio quale sia stata l' evoluzione del fenomeno migratorio in Italia, bisogna fare un breve excursus riguardo alla normativa che regola i flussi immigratori e alle modificazioni che essa ha subito nel corso degli anni. Negli anni '70, quando comincia a manifestarsi il fenomeno dell’ immigrazione, le norme che regolano l'ingresso e il soggiorno dei cittadini stranieri risalgono al 1931, anno in cui è stato redatto il Testo unico di leggi di pubblica sicurezza. Solo l'accesso al lavoro è disciplinato da circolari del Ministero del Lavoro. La prima vera e propria legge riguardante i lavoratori straneri è la legge n. 943 del 1986 che prevede la parità assoluta di trattamento e la piena uguaglianza dei diritti tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri legalmente residenti in Italia. La parità comporta anche la garanzia del diritto all' uso dei servizi sociali e sanitari, al mantenimento dell' identità culturale e all'istruzione. Tramite questa legge si è provveduto inoltre a regolarizzare tutti i cittadini stranieri presenti in Italia al momento dell' entrata in vigore della stessa. Con la legge n° 39, o legge Martelli, del 1990, si introducono norme sull'ingresso e il soggiorno in Italia per motivi non solo di lavoro, ma anche di studio, di famiglia o di cure mediche. 11 Cominciano così i ricongiungimenti familiari, che tanta importanza assumeranno negli anni successivi nel modificare le caratteristiche socio-demografiche della popolazione straniera presente in Italia. La legge regolamenta i rilasci, i rinnovi e le revoche dei permessi di soggiorno e decreta l'adesione dell'Italia alla Convenzione di Ginevra del 1951 riguardo allo status di rifugiato. Negli anni successivi vengono attuati vari interventi legislativi che non vanno però a modificare, se non in piccola parte, la legge 39. Manca però ancora una normativa complessa che regoli la condizione giuridica della straniero in Italia, normativa di cui si sente la necessità soprattutto dopo l'entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1993) e dell' Accordo di Schengen (1997). Così, nel marzo 1998, è presentato al parlamento un disegno di legge che regoli l'immigrazione che diventerà la legge 40, detta anche "Turco - Napolitano". Tale legge prevede la riunificazione della normativa sull'immigrazione in un Testo unico. Nel 1998 nasce così il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione della straniero in Italia che riunisce le disposizioni contenute nella legge 40/1998, nel Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza 773/1931, nella legge 943/1986 sui lavoratori extracomunitari e nella legge 335/1995 sulla Riforma del sistema previdenziale. È importante esaminare il Testo unico perche l'attuale legge in materia d'immigrazione, la legge n° 189 del 20 luglio 2002, detta anche legge Bossi-Fini, ne è solo una modificazione (anche se gli articoli modificati sono molto rilevanti). Innanzitutto è definito straniero qualsiasi cittadino di paesi non appartenenti all'Unione Europea e l'apolide, ossia la persona che nessun paese riconosce come proprio cittadino. A tutti gli stranieri, regolari e non, sono costituzionalmente riconosciuti i diritti della persona umana, ma tutti i restanti diritti e doveri sono, nel Testo Unico, rivolti esclusivamente agli stranieri regolarmente soggiornanti. Il permesso di ingresso in Italia del cittadino straniero è 12 condizionato al possesso di un passaporto e di un visto di ingresso, rilasciato secondo l' Accordo di Schengen. In ogni caso per l' ottenimento del visto bisogna dimostrare la disponibilità di mezzi di sussistenza per il periodo di soggiorno in Italia. Il permesso di soggiorno è invece il documento che attesta la regolarità della presenza in Italia di un cittadino straniero. Esistono varie tipologie di permessi di soggiorno, che possono essere rilasciati per turismo, per studio, per lavoro subordinato e per lavoro autonomo, per inserimento lavorativo, per cure mediche e per motivi familiari. Ogni permesso di soggiorno ha una durata specifica che va da un minimo di tre mesi, per turismo o affari, ad un massimo di tre anni per lavoro dipendente o autonomo e per motivi familiari. Il permesso può essere poi rinnovato per una durata non superiore al doppio di quella stabilita al momento del rilascio. Il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno può essere rifiutato in mancanza dei requisiti per l' ingresso e il soggiorno in Italia. In tale caso il cittadino straniero ha quindici giorni di tempo per presentarsi alla frontiera e lasciare il territorio italiano. Esistono poi casi particolari che permettono il rilascio del permesso di soggiorno o il suo rinnovo anche in mancanza dei requisiti normali. Essendo il permesso di soggiorno solo temporaneo, esso può essere sostituito con la carta di soggiorno, che è un documento a tempo indeterminato. La carta di soggiorno può essere richiesta da un cittadino straniero per sé, per il coniuge (anche non lavorante) e per i figli minori conviventi se ha un permesso di soggiorno regolare da almeno cinque anni, se tale permesso consente un numero indeterminato di rinnovi e se possiede un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari. La legge 189 del 30 luglio 2002 ha modificato a1cune parti molto importanti del Testo unico sull’ immigrazione. Riguardo al permesso di soggiorno la modifica più importante concerne la sua durata: il rinnovo permette un nuovo permesso di una durata non superiore a quella stabilita inizialmente. L' ottenimento della carta di soggiorno è subordinata al fatto di essere soggiornanti sul territorio 13 italiano da sei (e non più cinque) anni. La nuova legge limita le categorie di familiari per i quali si può chiedere il ricongiungimento ai soli figli minori e al coniuge: per richiedere il ricongiungimento dei genitori a carico occorre infatti che questi non abbiano altri figli che possano provvedere al loro sostentamento. Inoltre è eliminata la possibilità di ricongiungere i parenti entro il terzo grado a carico, inabili al lavoro. E' stata però aggiunta la possibilità di ricongiungere figli anche maggiorenni nel caso non possano oggettivamente provvedere al proprio sostentamento a causa dello stato di salute che comporti invalidità totale. Per ciò che riguarda invece la regolamentazione dell' accesso all' assistenza sanitaria la legge Bossi-Fini non ha comportato modificazioni, e resta perciò valido quanto stabilito dal Testo unico sull'immigrazione. 1.3 Le migrazioni in Italia Il fenomeno dell’immigrazione in Italia è un fenomeno recente, che ha assunto dimensioni rilevanti in un lasso di tempo relativamente breve. È solo negli ultimi decenni che l’immigrazione inizia a diventare consistente. Mentre verso la fine dell’800 erano soprattutto gli italiani a espatriare e a raggiungere terre “migliori”, come l’America, per trovare lavoro e una solidità economica e sociale, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si comincia ad assistere all’ ingresso di immigrati provenienti dall’ Africa, dal’Asia e, più recentemente, dall’ Est Europa. L’Italia, quindi, da paese tradizionalmente di emigrazione, si trasforma in meta di flussi migratori, i quali, inizialmente sono sporadici e poco rilevanti, in quanto l’Italia non è meta di destinazione, ma luogo di transito per gli stranieri, diretti verso paesi che offrono maggiori opportunità d’inserimento lavorativo. Negli anni successivi, però, l’approdo di immigrati comincia ad essere sempre più consistente fino a diventare, agli inizi del XXI secolo, fenomeno caratterizzante della demografia italiana. 14 Anno 2007 2008 2009 2010 2011 Totale % su totale popolazione residente 3.432.651 5,76 3.891.295 6,48 4.235.059 7,02 4.570.317 7,5 5.011.000 8,2 Tabella 1 (Fonte: elaborazioni dati ISTAT) Gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2011 sono 4.570.317, 335 mila in più rispetto all’anno precedente. Essi arrivano a costituire il 7,5% del totale della popolazione residente in Italia (Tabella 1) e, rispetto all‟anno precedente, sono aumentati del 7,9%. L’ 86,5% degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro del Paese, il restante 13,5% nel Mezzogiorno. Gli incrementi maggiori della presenza straniera rispetto all’anno precedente, anche nel 2010, si sono manifestati nel Sud (11,5%) e nelle Isole (11,9%). Al 1° gennaio 2011 i cittadini rumeni, con quasi un milione di residenti (9,1% in più rispetto all’anno precedente), rappresentano la comunità straniera prevalente in Italia (21,2% sul totale degli stranieri). Nel corso del 2011 è, dunque, cresciuto il numero dei cittadini dei Paesi dell’Europa centro-orientale (sia UE sia non UE). Oltre alla già citata Romania, si è registrato un incremento di stranieri provenienti dalla Repubblica Moldova (24,0%), Federazione Russa (18,3%), Ucraina (15,3%) e Bulgaria (11,1%). Anche i cittadini dei Paesi del sud est asiatico hanno fatto registrare incrementi importanti: Pakistan (16,7%), India (14,3%), Bangladesh (11,5%), Filippine (8,6%), Sri- Lanka (7,6%). L’elevata crescita che ha interessato queste comunità è legata, tra l’altro, agli effetti dell’ultima regolarizzazione di colf e badanti, svoltasi nell’ultima parte dell’anno 2009, i cui effetti in termini di iscrizioni anagrafiche si sono fatti sentire maggiormente nel corso del 2010. Oltre alla crescita della componente comunitaria, un altro rilevante processo di cambiamento nella composizione della popolazione straniera è stato quello relativo al genere: secondo i dati Istat è dal 2008 che le donne straniere residenti in Italia hanno ormai superato i maschi, invertendo quindi un gap che all’inizio degli anni ’90 era molto 15 consistente dato che i maschi, tra gli stranieri, erano quasi due su tre. Ad ogni modo bisogna comunque considerare che la composizione per genere rimane diversificata a seconda dei diversi paesi di origine e quindi secondo la topologia dei flussi migratori: ad esempio tra i senegalesi la quota maschile, seppur in calo, è ancora quella nettamente dominante (oltre i due terzi del totale) mentre diversi paesi dell’Est Europa rimangono caratterizzati dalla netta prevalenza dell’emigrazione femminile (Ucraina, Moldavia, Romania). I motivi per i quali l'Italia è stata scelta come terra di approdo, dando il via a flussi migratori sempre maggiori, sono vari. Tra questi, rilevante è stata la sua posizione geografica sul Mediterraneo che l’ha resa particolarmente esposta ai flussi provenienti dai Paesi Nordafricani; i suoi chilometri di coste difficili da controllare e, quindi, facilmente raggiungibili e, inoltre, la minore rigidità nelle politiche di frontiera rispetto a quelle di chiusura praticate dai paesi dell'Europa Centro-Settentrionale, di antica tradizione migratoria, come Francia, Germania, Gran Bretagna. 1.4 Le principali cittadinanze: uno scenario multietnico Gli stranieri residenti in Italia sono cittadini di un ampio ventaglio di paesi esteri. I cittadini dei primi sedici paesi in ordine decrescente di numerosità, tuttavia, rappresentano da soli il 75,5% (3 milioni 450 mila individui) del totale degli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2011 (Tabella 2). Limitando l’analisi ai primi cinque paesi (Romania, Albania, Marocco, Repubblica Popolare Cinese e Ucraina) si supera comunque il 50% (2 milioni 314 mila). La comunità straniera più numerosa è quella rumena che raggiunge, al 1° gennaio 2011, quasi il milione di residenti: il 21,2% del totale degli stranieri residenti in Italia. Dopo la crescita vertiginosa dovuta all’allargamento dell’UE e alla nuova normativa sulla circolazione e il soggiorno dei cittadini di paesi UE negli altri paesi dell’Unione, registrata nel 2007 e, in misura ridotta, anche nel 2008 e 2009, nel 2010 l’incremento, pur inferiore, si mantiene comunque consistente: 9,1%. 16 Stranieri residenti in Italia, per Paese di cittadinanza Primi 16 paesi al 1° gennaio 2010 e 2011 CITTADINANZE Romania Albania Marocco Cinese, Repubblica Popolare Ucraina Filippine Moldova India Polonia Tunisia Perù Ecuador Egitto Macedonia Bangladesh Sri Lanka Totale 16 Paesi TOTALE 1° GENNAIO 2010 Totale 887.763 466.684 431.529 188.352 CITTADINANZE 1° GENNAIO 2011 Totale 174.129 123.584 105.863 105.608 105.600 103.678 92.847 85.940 82.064 92.847 75.343 73.965 3.195.796 Romania Albania Marocco Cinese, Repubblica Popolare Ucraina Filippine Moldova India Polonia Tunisia Perù Ecuador Egitto Macedonia Bangladesh Sri Lanka Totale 16 Paesi 968.576 482.627 452.424 209.934 200.730 134.154 130.948 121.036 109.018 106.291 98.603 91.625 90.365 89.900 82.451 81.094 3.449.776 4.235.059 TOTALE 4.570.317 Tabella 2 (Fonte: elaborazioni dati ISTAT) Un’altra comunità storicamente molto rappresentata è quella albanese. È la seconda per numerosità, con quasi 483 mila residenti e un incremento rispetto al 1° gennaio 2010 del 3,4%. Seguono i cittadini del Marocco, che nel 2010 sono aumentati del 4,8%, superando a fine anno le 452 mila presenze, della Cina (quasi 210 mila, 11,5%) e dell’Ucraina (circa 201 mila, 15,3%). Citando le comunità prevalenti, vale la pena di segnalare che, se si considerassero i paesi della ex-Jugoslavia nel loro insieme, essi costituirebbero il quarto paese nella graduatoria per numerosità, con oltre 226 mila cittadini residenti. Con riferimento alle aree geopolitiche di cittadinanza, se si considerano i paesi dell’Europa centro-orientale nel loro complesso (facenti o meno parte dell’UE), i residenti in Italia al 1° gennaio 2011 sono 2 milioni 257 mila: quasi la metà 17 (49,4%) di tutti gli stranieri residenti in Italia. Circa 1 milione 162 mila (il 25,4% di tutti gli stranieri, l’8,5% in più rispetto all’anno precedente) sono cittadini dei paesi UE dell’Europa centro-orientale; quasi un altro quarto dei residenti (23,9%), invece, sono cittadini dei paesi dell’Europa centro-orientale non appartenenti all’UE (principalmente Albania, Ucraina, Moldova e Repubblica di Macedonia), che contano complessivamente circa 1 milione 94 mila iscritti in anagrafe (7,8% rispetto al 1° gennaio 2010). Per quanto riguarda i paesi extra-europei, più di 986 mila persone, oltre un quinto (21,6%) di tutti gli stranieri residenti, sono cittadini di un paese africano, principalmente dell’Africa settentrionale, in primo luogo del Marocco. I cittadini asiatici, con quasi 767 mila unità, rappresentano il 16,8% del totale. Poco meno della metà (360 mila) è cittadino di alcuni paesi del subcontinente indiano: India, Sri Lanka, Bangladesh e Pakistan. I restanti 407 mila sono prevalentemente di nazionalità cinese o filippina. Gli incrementi superiori alla media, fatti registrare soprattutto da Pakistan (16,7%) e India (14,3%), sono da ricollegarsi anch’essi all’ultima sanatoria per colf e badanti del settembre 2009. Infine, il 7,7% degli stranieri (354 mila individui) è cittadino di paesi dell’America centromeridionale, soprattutto di Perù ed Ecuador (figura 1). Figura 1. Stranieri residenti in Italia per area geografica di cittadinanza 1° gennaio 2011 18 Il rapporto tra le quote di uomini e donne nella popolazione straniera, nel complesso equilibrato, è spesso molto sbilanciato all’interno delle singole comunità. Tra le principali collettività a prevalenza femminile (ucraina, polacca, moldava, peruviana, ecuadoriana, filippina, rumena) i valori del rapporto oscillano fra i 25 maschi ogni 100 femmine nella comunità ucraina e gli 83 maschi ogni 100 femmine in quella rumena. Una prevalenza maschile si osserva tra i cittadini di Senegal, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Algeria, Tunisia, India, Marocco, Sri Lanka, Albania e Cina. In queste comunità il rapporto fra maschi e femmine oscilla fra il livello tradizionalmente molto elevato della comunità senegalese (circa 310 uomini ogni 100 donne) e i circa 107 uomini ogni 100 donne di quella cinese. 1.5 La distribuzione degli stranieri sul territorio: un mosaico complesso Gli stranieri residenti in Italia si distribuiscono sul territorio in maniera molto disomogenea, soprattutto in relazione alla cittadinanza di appartenenza. Considerando la popolazione straniera nel suo complesso, la maggior parte si concentra nel Nord (35% nel Nord-ovest, 26,3% nel Nordest) e, in misura inferiore, nel Centro (25,2%), mentre nel Mezzogiorno risiede soltanto il 13,5% dei residenti stranieri. Scendendo a un livello territoriale maggiormente disaggregato, si possono osservare concentrazioni particolari: ad esempio, il 23,3% degli stranieri è iscritto nelle anagrafi dei comuni della Lombardia, ben l’8,4% nella sola provincia di Milano, mentre le regioni del Sud, nel loro complesso, ospitano il 9,6% del totale degli stranieri residenti in Italia. Altre regioni con un numero elevato di cittadini stranieri sono il Lazio (11,9% di tutti gli stranieri residenti in Italia), il Veneto (11,0%), l’Emilia-Romagna (11,0%). Nel Lazio la grande maggioranza degli stranieri è concentrata nella provincia di Roma (9,7% del totale), valore che le assegna il primato tra le province italiane. A livello comunale, oltre alla forte presenza di popolazione straniera in molti comuni capoluogo del Nord e del Centro, si 19 osserva la presenza di consistenti comunità di cittadini stranieri residenti nelle zone costiere della Liguria e del nord della Toscana, nonché nella parte centro-settentrionale della costiera adriatica. La distribuzione sul territorio resta fortemente disomogenea, nonostante la crescita relativa della popolazione straniera sia stata superiore proprio laddove minore è il suo ammontare, cioè nelle Isole (11,9%) e nel Sud (11,5%). Le regioni che hanno fatto registrare il massimo incremento sono Sardegna (13,7%), Puglia (13,5%), Basilicata (13,4%) e Calabria (13,3%). Si tratta di incrementi generalmente più contenuti di quelli del 2009, ma pur sempre superiori a quelli registrati da regioni storicamente molto attrattive per l’immigrazione dall’estero, come la Lombardia (8,4%) o l’Emilia-Romagna (8,2%). Le collettività che nel corso del 2010 sono cresciute maggiormente nel Mezzogiorno sono relative a: India, Bangladesh, Russia, Bulgaria e Romania. Per queste comunità i differenziali nei livelli di crescita, rispetto al Centro-Nord, sono risultati pari o superiori al 10%. Al 1° gennaio 2011, l’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti è pari al 7,5% a livello nazionale. Tale quota è massima nel Nord-est (10,3%), dove più di un residente su dieci è straniero, mentre è leggermente inferiore nel Nord-ovest (9,9%) e nel Centro (9,6%). Nel Mezzogiorno, invece, l’incidenza è intorno al 3% (3,1% nel Sud, 2,7% nelle Isole). A livello regionale le differenze di cui sopra si manifestano in modo ancora più evidente: l’incidenza assume valore massimo in Emilia-Romagna, dove la popolazione straniera rappresenta l’11,3% del totale dei residenti, in Lombardia (10,7%) e Veneto (10,2%). Al Centro i livelli sono leggermente più contenuti, ma spicca l’Umbria, dove il tasso è pari all’11,0%. Nel Mezzogiorno il valore più alto della media della ripartizione è quello relativo all’Abruzzo (6,0%). Scendendo ulteriormente nel dettaglio territoriale, si notano livelli particolarmente elevati dell’incidenza della popolazione straniera in alcune province del Nord, dove su dieci cittadini residenti, almeno uno è di cittadinanza straniera. Si tratta 20 delle province di Brescia (13,6%), di Piacenza, Reggio nell’Emilia, Mantova, Modena (tutte province con valori intorno al 13%), Parma, Verona, Treviso, Pordenone (per le quali i valori superano l’11%). Al Centro, oltre alla provincia di Prato (13,6%) che presenta un valore dell’incidenza pari a quello di Brescia, spiccano Perugia e Macerata (intorno all’11%). Nel Mezzogiorno i valori più elevati sono quelli delle province di Teramo (7,6%), l’Aquila (7,1%), Ragusa (6,6%) e Olbia-Tempio (6,5%).I flussi migratori hanno interessato come destinazione residenziale i comuni di maggiori dimensioni. In effetti, l’incidenza degli stranieri nei comuni capoluogo di provincia è pari al 9,4%, livello ben superiore alla media italiana (7,5%) e che raggiunge il 10,1% nelle grandi città. Emergono, però, anche alcune interessanti realtà minori, dove l’incidenza relativa degli stranieri è particolarmente elevata. Si tratta, ad esempio, di comuni tra i 15 ed i 25 mila abitanti come Rovato (Brescia), Lonigo (Vicenza), Castiglione delle Stiviere (Mantova), dove oltre il 20% dei residenti è straniero; o anche di comuni molto piccoli, tra i 5 e i 15 mila abitanti, come Baranzate (Milano), Verdellino (Bergamo), Castelcovati (Brescia), Prevalle (Brescia), Porto Recanati (Macerata), Fonte (Treviso), Luzzara (Reggio nell’Emilia), Castel San Giovanni (Piacenza), Santa Croce sull’Arno (Pisa), Acate (Ragusa), Villongo (Bergamo), Castel Goffredo (Mantova), Castrezzato (Brescia) dove l’incidenza è compresa tra il 20 ed il 26%. Nel comune di Airole (Imperia), che conta circa 500 abitanti, quasi un residente su tre è straniero. 1.6 Gli stranieri nel mercato del lavoro Il patrimonio informativo che l’Istat mette a disposizione attraverso la consolidata indagine sulle forze lavoro consente di osservare la condizione socio-occupazionale della popolazione immigrata distinguendo tra individui occupati, in cerca di lavoro, e inattivi. Grazie a tali dati è possibile evidenziare come negli ultimi anni si sia assistito ad un deciso incremento della componente straniera delle forze lavoro. Se nel 2005 gli immigrati rappresentavano poco più del 5 per cento delle forze lavoro, nel giro di un quinquennio 21 la loro incidenza è pressoché raddoppiata. Nel 2011, infatti, il 10.2 per cento degli attivi, in Italia, erano di cittadinanza non italiana, e tra le donne tale incidenza sale a quasi l’11 per cento. Tale considerevole incremento risente naturalmente degli effetti non solo dei flussi migratori in arrivo, molto consistenti, ma anche delle regolarizzazioni. Per effetto di queste ultime, molti immigrati di fatto già presenti nel nostro paese da anni sono stati iscritti nelle liste dell’anagrafe e quindi hanno cominciato ad essere rilevati dalle indagini dell’Istat. Tra il 2005 ed il 2011 il numero di immigrati presenti nelle forze lavoro è così aumentato di oltre un milione di persone, quasi raddoppiando la loro consistenza. Nel 2011, gli immigrati nelle forze lavoro sono cresciuti di 206 mila persone, pari ad un incremento dell’8.8% sull’anno precedente. Il tasso di crescita, seppur appaia in rallentamento rispetto agli anni precedenti (quando in media il tasso di variazione era di quasi il 13%), resta elevato, soprattutto se si considera il contesto di crisi e deterioramento del mercato del lavoro in Italia. Anche in termini di occupazione si è assistito ad un notevole sviluppo: tra il 2005 ed il 2011 gli occupati con cittadinanza straniera sono aumentati del 93%. Se nel 2005 gli occupati stranieri erano meno di 1 milione 200 mila, nel 2011 erano quasi 2 milioni 300 mila, rappresentando poco meno di un decimo dell’occupazione complessiva (il 9.8%). Nel complesso, pertanto, quasi un occupato su dieci ha cittadinanza straniera. Vi sono però delle realtà dove tale incidenza è più elevata; la quota del 9.8 per cento è infatti una media tra incidenze sull’occupazione di poco inferiori al 12 per cento, rilevate nel Centro- Nord, e un’incidenza invece intorno al 5% nel Mezzogiorno. Non stupisce d’altra parte che siano proprio le realtà più produttive quelle che attraggono i flussi migratori e soprattutto la permanenza degli immigrati, che cercano un’occupazione dove ce n’è di più. La distribuzione settoriale dell’occupazione immigrata risulta piuttosto diversa da quella osservata per gli italiani; quello che si osserva relativamente all’occupazione immigrata è infatti che la manodopera 22 straniera tende a rispondere a peculiari fabbisogni della domanda di lavoro che la manodopera italiana non riesce a soddisfare. I lavoratori stranieri si concentrano infatti nelle costruzioni, nei servizi turistici (alberghi, ristoranti e pubblici esercizi) e nei servizi alle persone. In questi tre macrosettori è impiegata quasi la metà degli occupati immigrati (49.7%), contro meno di un quinto (il 17.5%) degli italiani. La concentrazione settoriale della manodopera immigrata si differenzia in parte in base al genere. Tra gli uomini, si osserva una decisa concentrazione dell’occupazione immigrata nell’industria manifatturiera, nelle costruzioni e negli alberghi e ristoranti; la quota di occupati nelle costruzioni sul totale dell’occupazione immigrata, pari al 26% nel 2011, è più che doppia di quella rilevata per gli occupati italiani, e più o meno lo stesso divario si osserva anche per i servizi turistici, dove la quota di occupati nel settore, sul totale degli occupati stranieri, è pari al 7.3%, quasi doppia della quota osservata per gli italiani (4.2%). Per le donne, invece, si rileva una decisa concentrazione dell’occupazione immigrata nei servizi sociali e alle persone: più della metà delle occupate immigrate (il 51.3%) svolge servizi alle famiglie o servizi domestici, lavorando quindi come collaboratrici domestiche o assistenti familiari. La quota è quasi sette volte quella rilevata per le occupate italiane, che invece tendono a concentrarsi nel terziario (commercio, servizi alle imprese, pubblica amministrazione, sanità ed istruzione). È palese pertanto l’alta concentrazione nei lavori domestici e di cura della manodopera immigrata, in particolare delle donne, che si è tradotta in flussi elevati di arrivi e regolarizzazioni per le persone con questo particolare tipo di figura professionale. Si osserva peraltro come i settori dove tendono a concentrarsi gli immigrati siano tendenzialmente ad elevata intensità di lavoro (si pensi ad esempio ai servizi di cura, che richiedono in genere orari molto lunghi, spesso anche di notte) o dove il tipo di lavoro svolto è in genere molto duro e faticoso (come ad esempio nelle costruzioni, o anche nel settore della ristorazione), il che spiega la minore offerta di lavoro italiano. 23 2. IL RUOLO ECONOMICO IMMIGRAZIONE E SOCIALE DELL’ 2.1 I principali effetti dell’immigrazione Negli ultimi quindici anni il rapido aumento dell’immigrazione ha fatto sì che il numero di lavoratori stranieri attivi nell’economia italiana sia aumentato da percentuali pressoché irrilevanti a valori prossimi al 10% della forza lavoro. L’immigrazione è quindi ormai diventata una componente strutturale della società e dell’economia italiana. Il carattere organico della presenza straniera nel nostro paese si manifesta nelle differenti dimensioni della vita quotidiana: cultura, lingua, mercato del lavoro, consumi, attività imprenditoriali, istruzione, welfare e prestazioni sociali. Ciò nonostante nel dibattito pubblico si tende ancora a sottovalutare il ruolo e il contributo che le migrazioni esercitano nello sviluppo economico e umano dei paesi di destinazione, e non mancano i problemi legati al ruolo di 24 questi lavoratori e allo scarso riconoscimento economico del loro contributo alla crescita economica. In quest’ottica, stanno diventando sempre più importanti gli strumenti che la ricerca scientifica mette a disposizione per la conoscenza del fenomeno, sia dal punto di vista dell’integrazione e dell’assimilazione della popolazione immigrata nel tessuto sociale ed economico del paese in cui si è insediata, che dal lato degli effetti che essa provoca nel mercato del lavoro di destinazione, in particolare per quanto riguarda le retribuzioni, l’occupazione, e la disoccupazione dei lavoratori locali. I potenziali effetti dell’immigrazione sono numerosi. In primo luogo, essi sono riscontrabili al mercato del lavoro, ma anche in relazione alla possibilità di contribuire ad alleviare gli squilibri demografici tipici delle economie avanzate. Ma la presenza degli immigrati influenza molti altri aspetti, a partire dai prezzi dei beni di consumo e delle abitazioni, alla fruibilità dei servizi pubblici, dall’integrazione culturale al livello medio di educazione e così anche molti altri ambiti dell’economia di un paese. Oltre che alle necessità dell’economia, il lavoro degli immigrati viene incontro alle esigenze della società. Le lavoratrici addette alla cura degli anziani (le cosiddette badanti) svolgono un ruolo sempre più importante nelle famiglie italiane. La richiesta di lavoro di cura, alla quale sono dedicate la grande maggioranza delle lavoratrici immigrate, è dovuta a diversi fattori a cominciare dall’invecchiamento della popolazione e dalla riduzione delle dimensioni delle famiglie (con l’aumento del numero di anziani, o di coppie o soli) a finire con le carenze del sistema italiano di welfare in questo campo. A ciò va aggiunta la ricchezza rappresentata dagli elementi di diversità culturale portata dagli immigrati, così come gli emigranti italiani l’hanno portata nei loro paesi di destinazione. 2.2 Una rassegna della letteratura sugli effetti dell’immigrazione La letteratura economica sull’immigrazione è vasta, sia sul piano teorico che su quello empirico, ed ha affrontato i numerosi effetti del fenomeno così come si sono presentati 25 nel corso del tempo in tutti i paesi più sviluppati. Gli studi sinora condotti, soprattutto quelli di natura economica, sulla relazione tra immigrazione e mercato del lavoro del paese ospitante, hanno analizzato il fenomeno da un duplice punto di vista. Il primo è quello dell’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro del paese di arrivo. Comunemente si parla di “assimilazione economica” degli immigrati, cioè del processo attraverso il quale gli immigrati assumono i comportamenti e ottengono una performance nel mercato del lavoro che sono simili a quelli dei nativi. Ad esempio gli immigrati, a parità di condizioni, sono remunerati come i lavoratori locali e, al pari di questi, hanno la stessa probabilità di trovare un posto di lavoro. Il secondo, è quello del ruolo svolto dagli immigrati nel mercato del lavoro del paese di destinazione; si cerca di capire se l’immigrato sia concorrente del lavoratore autoctono (e quindi l’immigrazione possa determinare uno spiazzamento dell’occupazione nativa), oppure complementare, avendo caratteristiche differenti. Gli studi sull’assimilazione economica, che generalmente sono stati condotti prevalentemente dai paesi con una lunga storia di immigrazione alle spalle (come la Germania e i paesi di tradizione anglosassone), in genere dimostrano come questa si realizzi in tempi parecchio lunghi e, in certi casi, per alcune categorie di immigrati non si realizzi mai completamente, anche a causa di fenomeni di discriminazione che, nemmeno col tempo, tendono a scomparire. La questione fondamentale che quest’area di ricerca tenta di indagare è se esiste e in che tempi si realizza l’integrazione della popolazione immigrata all’interno del tessuto socioeconomico del paese ospitante considerando principalmente alcuni specifici indicatori del mercato del lavoro, quali il profilo salariale, le esperienze in termini di occupazione e disoccupazione, o la qualità del lavoro svolto. Molti degli studi in questione si sono concentrati soprattutto sull’analisi del differenziale salariale tra immigrati e nativi, a parità di altre condizioni. Tra questi, uno dei primi lavori è stato quello condotto da Chiswick nel 1978 relativamente al mercato del 26 lavoro degli Stati Uniti, il quale mostra che il significativo gap salariale tra immigrati e nativi presente nelle prime fasi del processo migratorio tende a ridursi progressivamente al passare degli anni di residenza, ovvero man mano che la popolazione immigrata si integra nel paese ospitante. Questo risultato è stato in seguito criticato da Borjas nel 1985 e poi nel 1995, in quanto i suoi studi indicano che la velocità con cui avviene il processo di integrazione degli immigrati nel paese di arrivo è in realtà molto più bassa di quella stimata da Chiswick. Nell’ambito del filone tedesco, gli studi empirici di Dustmann (1993) individuano un differenziale salariale tra i 13 e i 19 punti percentuali a sfavore dei lavoratori immigrati al momento del loro arrivo, che non sembra ridursi neanche all’aumentare della permanenza. Risultati simili sono stati ottenuti anche da Schmidt nel 1997, il quale però afferma anche che gran parte del gap salariale iniziale potrebbe essere spiegato dalle differenze in termini di istruzione e formazione che contraddistinguono immigrati e nativi. Constant nel 1998 ha invece condotto studi sull’assimilazione distinguendo l’analisi per genere. Il risultato che ottiene sul campione formato da soli uomini individua un differenziale salariale tra immigrati e nativi che peraltro si deteriora con l’aumentare degli anni di residenza; mentre esisterebbe un maggior grado di assimilazione per quanto riguarda le donne immigrate, dal momento che in questo caso il salario delle immigrate raggiunge (e addirittura supera) quello delle native entro dieci anni dall’arrivo. Rispetto agli studi sull’assimilazione che si concentrano sul profilo salariale di immigrati e nativi, molto meno numerosi sono quelli riguardanti l’integrazione degli stranieri dal punto di vista dell’occupazione, della disoccupazione, o della qualità del lavoro svolto. Con riferimento a quest’ultimo indicatore, in particolare, gli studiosi ritengono che la maggior diffusione tra gli immigrati di lavori a bassa qualifica possa essere il risultato di uno scarso rendimento del loro capitale umano. Gli immigrati cioè, a parità di competenze (in termini di livello di istruzione ed esperienze professionali), tenderebbero rispetto ai nativi 27 ad essere più frequentemente impiegati in lavori per i quali le qualifiche necessarie sono inferiori a quelle possedute, e questo sarebbe indice di una certa sovraqualificazione degli stessi, rappresentando un ulteriore segnale della scarsa assimilazione degli stessi. In generale, gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che un certo grado di over-education tra gli immigrati possa essere fisiologico e abbastanza normale durante le prime fasi della migrazione, ma esso dovrebbe ridursi all’aumentare degli anni di permanenza e cioè man mano che gli stranieri acquisiscono le competenze specifiche del paese di residenza. Ad oggi, sono pochi gli studi che si sono occupati di studiare quanto l’incidenza dell’over-education varia all’aumentare degli anni di permanenza nel paese ospite, e quindi al crescere dell’esperienza lavorativa e con l’acquisizione di competenze specifiche del mercato del lavoro di insediamento. Tra questi si possono citare gli studi di Chiswick e Miller (2009) che, usando i dati del censimento degli Stati Uniti del 2000, arrivano alla conclusione che maggiore è l’esperienza lavorativa accumulata nel mercato del lavoro del paese di origine, maggiore è la probabilità di essere impiegati in lavori scarsamente qualificati nel mercato del lavoro del paese di destinazione; tuttavia, all’aumentare dell’anzianità migratoria (ovvero della permanenza) diminuisce costantemente la probabilità di essere sovraqualificati. Gli studi di Lindley condotti nel 2009 utilizzando dati sulle forze lavoro del Regno Unito nel periodo 1993-2003 mostrano invece che la probabilità di over-education è decisamente più alta per i flussi migratori più recenti, che di conseguenza faticano a raggiungere un adeguato grado di assimilazione economica. Questa è la stessa conclusione a cui giungono anche Fernandez e Ortega studiando il fenomeno dell’over-education tra gli immigrati spagnoli nel periodo 1996-2005. Nonostante le forti differenze nei risultati, le analisi in questione giungono a due fondamentali conclusioni: la prima è che le probabilità di integrazione aumentano tanto quanto più il paese di origine e il paese di arrivo sono simili sotto il profilo della lingua, della cultura, 28 della struttura e delle istituzioni che caratterizzano il mercato del lavoro, in quanto diminuiscono per gli immigrati i problemi di “adeguamento” del proprio capitale umano a quello specifico del paese di arrivo; la seconda è che questa stessa probabilità tende in genere ad aumentare al crescere degli anni di residenza, dal momento che il prolungarsi della permanenza dà il tempo agli immigrati di accumulare capitale umano “specifico” del paese di residenza aumentando così la propria produttività. Per quanto riguarda in modo specifico l’Italia, non sono molti gli studi che in questi ultimi anni si sono concentrati sul tema dell’integrazione e dell’“assimilazione economica” degli immigrati, principalmente a causa dei pochi dati a disposizione. Nonostante ciò, la rapida crescita della componente immigrata all’interno del nostro mercato del lavoro ha inevitabilmente acceso una forte attenzione su questo fenomeno, e negli ultimi anni sono stati numerosi i rapporti e gli studi redatti dalle diverse associazioni e fondazioni che, sia a livello istituzionale che privato, si occupano di immigrazione. In questi rapporti generalmente si tende ad analizzare la performance occupazionale degli immigrati secondo diversi aspetti e ciò è utile a determinare il grado di assimilazione degli stessi all’interno del nostro mercato del lavoro. In genere questi studi utilizzano i dati Istat della “Rilevazione continua sulle forze lavoro”, che dal 2005 forniscono informazioni sul paese di origine e sulla cittadinanza degli stranieri, e sono concordi nell’inquadrare il lavoro immigrato in particolari settori di attività e nelle mansioni lavorative meno qualificate e meno pagate. (Ministero degli Interni, 2007; Cnel 2008). I dati descrittivi mostrano chiaramente che la quota di occupati appartenente all’area del lavoro intellettuale, professionale e impiegatizio tra i nativi è quasi quattro volte quella registrata tra gli stranieri provenienti dai paesi a forte pressione migratoria. Simmetricamente la percentuale di stranieri occupati in attività manuali di basso livello professionale è molto più elevata di quella rilevata tra i nativi, soprattutto per la componente femminile, che sconta la fortissima segregazione nelle attività di cura per le famiglie. Il quadro 29 risulta ancora più preoccupante se si considera che gli immigrati presenti nel mercato del lavoro italiano hanno un livello di istruzione più elevato di quanto non si ritenga comunemente, per cui la loro concentrazione nelle occupazioni meno qualificate contrasta con il capitale umano posseduto, dando luogo a evidenti situazioni di declassamento occupazionale (Istat 2008, Dell’Aringa e Pagani, 2010). Ciò risulta confermato anche da alcune analisi basate su modelli di regressione, che mettono a confronto la probabilità di accesso alle diverse posizioni occupazionali di immigrati e autoctoni a parità di età, livello di istruzione e regione di residenza (Fullin e Reyneri, 2011; Fullin, 2011). Le stime, infatti, mettono in luce chiaramente come gli immigrati provenienti dai paesi a forte pressione migratoria abbiano probabilità di svolgere attività manuali molto più elevate dei nativi con le medesime caratteristiche, mentre le loro chance di svolgere lavoro intellettuale, professionale e impiegatizio sono molto inferiori a quelle degli italiani (si stimano differenze di 26 punti percentuali per gli uomini e 35 per le donne). La letteratura finora si è preoccupata prevalentemente di analizzare il fenomeno immigrazione all’interno del mercato del lavoro italiano. Ma l’immigrazione implica effetti importanti che si ripercuotono anche in altri ambiti. È il caso, ad esempio, del possibile apporto positivo degli immigrati alla finanza pubblica. Rispetto a quanto comunemente pensato, ovvero che gli immigrati rappresentino un peso per il sistema socioassistenziale del paese ospite (in quanto sono in media più poveri e meno istruiti rispetto agli autoctoni), alcuni studi hanno rilevato come non necessariamente le prestazioni ricevute dagli stranieri siano maggiori dei contributi versati e come essi non siano tanto più dipendenti dai servizi di welfare rispetto a quella parte di popolazione locale che si trova nelle medesime condizioni occupazionali e sociali. A livello internazionale già da diversi anni esiste un vivace dibattito sull’impatto fiscale dei lavoratori immigrati e sui costi e benefici dell’immigrazione. In molti paesi, l’apporto degli immigrati sulla finanza pubblica comincia infatti ad 30 assumere dimensioni rilevanti, proprio perché negli anni è cresciuta notevolmente la loro presenza, in particolare nel mercato del lavoro. Tuttavia, gli studi spesso sono arrivati a conclusioni contrastanti, sia perché l’analisi del fenomeno risulta piuttosto complicata a causa delle numerose variabili in gioco, sia perché le metodologie adottate sono assai eterogenee. Gli studi empirici sono inoltre difficilmente confrontabili tra loro a causa dell’eterogeneità dei sistemi di welfare tra i vari paesi. I paesi dell’Europa meridionale sono quelli che inevitabilmente hanno meno approfondito questo particolare aspetto di un fenomeno tutto sommato ancora recente. In particolare, in Italia gli studi sono ancora limitati. Un interessante tentativo di valutazione empirica dell’effetto dell’immigrazione sui conti pubblici è stato condotto da Devillanova per l’Ismu di Milano (Ismu, 2008). Questa analisi utilizza i dati dell’indagine campionaria familiare Redditi e condizioni di vita (EU-Silc, del 2005) che contiene informazioni sui redditi e su alcuni benefici sociali, e tra gli esercizi proposti tenta in particolare di quantificare il beneficio fiscale netto per gli immigrati relativamente ai nativi. A questo scopo lo studio ha cercato di quantificare una serie di strumenti assistenziali a disposizione degli individui, tentando di fare una stima delle imposte pagate da italiani e immigrati. Il calcolo è ovviamente limitato ai dati a disposizione nell’indagine campionaria utilizzata, ed è quindi approssimativo. 2.3 Il contributo dell’immigrazione alla tenuta del sistema di protezione sociale Il progressivo invecchiamento della popolazione, dovuto all’aumento della speranza di vita e alla riduzione della natalità, mina la tenuta dei sistemi di protezione sociale. Esso determina infatti, da un lato, una contrazione della quota di popolazione attiva e conseguentemente una riduzione delle risorse destinate al finanziamento delle prestazioni di welfare e, dall’altro, un aumento della domanda di protezione, derivante dalla presenza di una crescente quota di popolazione anziana. Lo sviluppo della 31 protezione sociale - che ha avuto il suo apice nel trentennio compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e la crisi petrolifera della seconda metà degli anni settanta – ha poggiato su una struttura demografica profondamente diversa da quella attuale. Dal 1965 al 2010 il numero medio di figli per donna passa da 2,66 a 1,4. Contemporaneamente, come evidenziato dall’Eurostat 2011 in tutta Europa l’aspettativa di vita è aumentata di circa dieci anni nel corso dell’ultimo cinquantennio. In Italia, nel 2010, la vita media è 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le donne (Istat, 2011). In questo scenario l’immigrazione costituisce un potente fattore di riequilibrio della struttura demografica e di antidoto ai suoi effetti negativi sugli equilibri finanziari del sistema di sicurezza sociale. I flussi migratori sono infatti composti prevalentemente da individui appartenenti alla fascia di popolazione attiva e i migranti hanno in media 31,8 anni (Istat, 2011). Il 78,8% dei 4.570.317 stranieri presenti nel nostro territorio ha un’età compresa fra 15 e 64 anni, il 18,9% ha meno di 15 anni e solo il 2,3% ha 65 anni e oltre. Scomponendo ulteriormente la popolazione straniera per classi d’età vediamo che quella più popolosa è fra i 18 e i 39. Considerando invece la ripartizione per sesso emerge che le donne migranti rappresentano il 51,8% del totale e che, se si escludono i minori, la componente femminile supera quella maschile in tutte le classi di età. Le donne straniere residenti nel nostro paese tendono ad avere più figli rispetto alle italiane: nel 2010 le prime hanno avuto in media 2,13 figli, le seconde 1,29. Il contributo alla natalità delle madri straniere è quindi rilevate: per il 2010 si stima infatti che oltre 104 mila nascite (18,8% del totale) siano attribuibili a madri straniere (Istat, 2011). L’impatto positivo dell’immigrazione sulla struttura demografica ha dunque una duplice natura: nell’immediato, l’ingresso di una popolazione straniera prevalentemente giovane aumenta la quota della popolazione attiva; nel lungo periodo, il più alto tasso di natalità nelle famiglie di immigrati produce un aumento della natalità media. 32 Le modifiche alla struttura demografica della popolazione residente complessiva, indotte dall’immigrazione, generano a loro volta effetti molto positivi sul sistema di protezione sociale. Ci si può fare un’idea dell’attuale ordine di grandezza di tali effetti guardando ai dati del principale ente previdenziale (Inps, 2010). Nel 2009 gli iscritti all’Inps non comunitari sono stati più di 1,5 milioni. La percentuale dei non autoctoni fra i lavoratori dipendenti che versano contributi è risultata di circa l’8%: senza questo apporto, il gettito contributivo nell’anno 2009 sarebbe stato inferiore di oltre il 4%, vale a dire di oltre 6 miliardi di euro. Se da una parte, nel breve termine, per l’effetto sulle entrate contributive, l’immigrazione provoca una riduzione del deficit previdenziale, dall’altra, nel lungo termine, essa concorre a sostenere la dinamica dei trattamenti pensionistici. Il regime pensionistico vigente in Italia, che è di tipo contributivo a ripartizione, prevede infatti l’indicizzazione del monte dei contributi versati in base al tasso di aumento medio quinquennale del Pil: l’apporto dell’immigrazione alla produzione si risolve dunque anche in un fattore di crescita delle pensioni. Siamo pertanto, con tutta evidenza, di fronte ad un caso di complementarità tra benessere dei lavoratori immigrati e autoctoni: i benefici dell’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro regolare non interessano esclusivamente i singoli lavoratori immigrati, ma investono l’intero sistema previdenziale. Se l’immigrazione favorisce la presenza femminile nel mercato del lavoro, questa, a sua volta, genera maggiore sviluppo. Questo secondo nesso – tra l’aumento del tasso di partecipazione femminile e il tasso di crescita dell’economia – è al centro di un recente saggio di Maurizio Ferrera (2008), che vede due principali vantaggi, dal punto di vista economico, nell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Il primo riguarda l’aumento delle entrate delle famiglie e quindi le maggiori possibilità di consumo, investimento e risparmio. Le famiglie a doppio reddito sperimentano inoltre una diminuzione dei rischi di povertà e vulnerabilità rispetto ad eventi imprevisti, oltre che per le maggiori entrate, anche per il doppio aggancio al mercato del lavoro che garantisce 33 più tutela, più conoscenze e più relazioni sociali. Tutto questo si traduce in una maggiore disponibilità ad assumersi rischi e a scommettere sul futuro, che a sua volta favorisce il dinamismo economico e sociale. Il secondo vantaggio sta nel fatto che l’incremento dell’occupazione femminile crea altro lavoro. Le famiglie bireddito, infatti, consumano più servizi rispetto alle monoreddito, sia per la maggiore disponibilità economica sia per il minore tempo disponibile. Ferrera riporta stime secondo le quali ogni cento donne che entrano nel mercato del lavoro si creerebbero fino a quindici ulteriori nuovi posti, in settori come la ristorazione, la ricreazione, l’assistenza all’infanzia, agli anziani e le prestazioni per i servizi domestici. Questo tipo di servizi, a differenza di quelli alle imprese, ha poi il vantaggio di non poter essere trasferito in paesi dove la manodopera costa meno, poiché devono necessariamente essere prodotti in prossimità dei consumatori. I posti di lavoro aggiuntivi che vengono a crearsi grazie alla crescita dell’occupazione femminile restano quindi all’interno del paese e in particolare in quei territori dove si genera la domanda. In questo senso, contrariamente a un’opinione diffusa, la presenza degli immigrati si traduce in un beneficio diretto per le comunità locali che li ospitano. L’immigrazione potrebbe dunque favorire la rottura di quel circolo vizioso, denunciato dallo stesso Ferrera, per il quale la scarsità dei servizi è collegata alla bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, che è a sua volta collegata alla scarsità dei servizi. 3 L’ IMMIGRAZIONE FEMMINILE IN ITALIA 3.1 La femminilizzazione dei flussi migratori Le donne, pur migrando da sempre e per i più svariati motivi, proprio come gli uomini, costituiscono oggi una componente significativa – e talvolta predominante – degli spostamenti internazionali: negli ultimi trent’anni, in modo particolare, la quota delle donne migranti in Europa è gradualmente cresciuta sino a diventare, oggi la 34 componente maggioritaria dei flussi che interessano il continente, eppure si può facilmente affermare che l’attenzione alle donne nella migrazione ha preso piede e acquistato prestigio nel dibattito più ampio sulle migrazioni solo in tempi recenti. I dati ufficiali relativi al numero delle persone migranti, naturalmente, si riferiscono a coloro che sono regolarmente residenti e presenti sui diversi territori nazionali ospiti e, di conseguenza, sottostimano fortemente la notevole presenza femminile, costantemente in crescita, che costituisce un’ampia porzione dei migranti irregolari (Gallotti, 2009). Tuttavia, alcuni trend della presenza delle donne nelle migrazioni verso l’ Europa possono essere evidentemente tracciati. La possibilità di disporre di dati in chiave storica, che testimoniano le tendenze generali del fenomeno, ci è fornita da uno studio condotto dall’United Nations Population Division nel 1998 e costantemente aggiornato con i nuovi dati. Si tratta di una fonte molto preziosa, se si considera che il problema principale, in termini statistici, è stato sempre quello di non disporre di dati in serie storica sulla presenza dei migranti divisi per genere: questa è già di per sé un esempio significativo con cui è stato sempre osservato il fenomeno da un punto di vista di genere, della poca attenzione con cui si è guardato alle migrazioni femminili fino a tempi non troppo lontani. Lo studio sopraccitato ha permesso, quindi, di tracciare una stima dell’evoluzione numerica delle donne migranti degli ultimi cinquant’anni, superando le lacune statistiche attraverso l’analisi dei censimenti della popolazione, paese per paese, ricavando il numero di persone nate all’estero e integrandolo con i dati sul numero di rifugiati. La prima osservazione di una certa importanza, come si può notare dallo Studio è che la percentuale di donne nelle migrazioni internazionali è sempre stata piuttosto rilevante: già nel 1960, per esempio, esse rappresentavano più del 46% degli immigrati che vivevano al di fuori dei loro paesi di nascita. Nei successivi quarant’anni, la quota di donne nella 35 migrazione è stata sempre in costante aumento, specialmente in Europa, dove si può osservare come, a partire dagli anni Ottanta, la componente femminile abbia superato numericamente quella maschile: nel 2000 si registravano, nel continente europeo, più di 52 donne ogni 100 migranti (Zlotnik, 2003; Gallotti, 2009). Questo è un dato che sembra risentire del grado di sviluppo economico e produttivo dei territori interessati da flussi in ingresso: si può osservare, infatti, come le donne migranti, in generale, siano proporzionalmente più presenti nei paesi sviluppati piuttosto che in quelli in via di sviluppo. Le cause di queste differenze devono essere ricercate nelle leggi e regolamenti che disciplinano l’ ammissione dei migranti nei paesi di destinazione e di quelle che disciplinano la loro partenza dal paese di origine, unitamente ai fattori che determinano la condizione delle donne nei paesi di origine e paesi di destinazione: la relativa facilità ad ottenere un ricongiungimento familiare nei paesi occidentali è sicuramente uno degli elementi che ha favorito l’incremento la componente femminile dei flussi, oltre alla possibilità diffusa nei paesi sviluppati di accesso per le donne al mercato del lavoro, anche se, come si vedrà, limitatamente ad alcuni settori. Il rapporto maschi/femmine, dunque, è determinato anche etnicamente in relazione alle possibilità di inserimento offerte dai sistemi economico-produttivi dei paesi di destinazione: infatti, nei settori lavorativi di molti paesi è presente una marcata segmentazione per genere che risente notevolmente delle opportunità offerte dal mercato occupazionale e dagli obiettivi prefissati dai soggetti, attorno ai quali viene costruito e negoziato un progetto migratorio. Altresì importante è sottolineare che molte delle donne che negli ultimi decenni sono immigrate in Europa non lo hanno fatto solamente per ricongiungersi ai compagni precedentemente arrivati per lo più nel periodo della ricostruzione postbellica, ma anche per progetti migratori singoli: molte di loro sono anche migrate indipendentemente, per ragioni economiche, come studentesse o rifugiate. Da qui deriva la scelta stessa di fare riferimento, nel 36 presente capitolo, alle migrazioni femminili, utilizzando un plurale che richiama alla mente la forte disomogeneità dei percorsi e delle storie: non esiste un modello di migrazione “al femminile”, esistono realtà a sé stanti, esistono donne che hanno aspirazioni profondamente differenti fra loro. La composizione interna dei flussi femminili, infatti, è fortemente differenziata anagraficamente ed etnicamente e può, inoltre, variare per grado di libertà/coercizione, per causa, per fine, per esito, per significato. Generalmente, si tende a definire un progetto migratorio considerandolo a partire dal suo scopo, poiché è proprio su questo schema che si basa l’attribuzione dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno, oltre che la raccolta di dati per le statistiche ufficiali. Tuttavia questo modello è riduttivo poiché pretende di circoscrivere sinteticamente un fenomeno dai confini molto più sfumati e, spesso, non permette di cogliere in pieno le motivazioni delle donne nella migrazione, che sono spesso dovute a una serie di concause e che possono variare nei diversi momenti e nelle diverse fasi del percorso migratorio. Si pensi, ad esempio, alle migrazioni che si concretizzano in seguito al desiderio di emancipazione dal proprio contesto culturale e familiare di origine, che racchiudono insieme motivazioni economiche, culturali, umanitarie, oppure alle donne che si ricongiungono ai mariti già emigrati e che poi entrano nel mercato del lavoro o riprendono gli studi. Non meno numerose sono però le donne che migrano sole, senza la famiglia al seguito o per ricongiungervisi, anche se ciò non significa che i loro progetti non siano in alcun modo collegabili a strategie o legami di tipo familiare. Le donne primomigranti erano presenti e diffuse in Europa fin dai primi anni Settanta, in modo particolare proprio in Italia, dove la loro partecipazione al mercato del lavoro, in gran parte domestico, era tutt’altro che trascurabile: la particolarità significativa, per quanto riguarda l’Italia, è che questi costituirono proprio i primi flussi consistenti di immigrati verso il nostro paese ed erano formati da donne. La migrazione verso l’Europa meridionale, negli ultimi decenni, è cresciuta notevolmente anche a causa dei flussi 37 consistenti di donne nel lavoro domestico, provenienti da Filippine, Capo Verde, Sud America e dall’Europa dell’Est. Sono le donne esteuropee, in particolare, ad aver accresciuto, il loro protagonismo settore a partire dai primi anni Novanta, da quando la caduta di regimi politici contrari all’emigrazione unita a un generalizzato basso livello di vita hanno fatto da propulsore per la mobilità delle popolazioni dell’Europa orientale. Sono in particolare le donne i soggetti che hanno sopportato il peso maggiore della transizione dei Paesi dell’Est alle economie di mercato e, pur essendo spesso altamente qualificate, sono state spinte a cercare lavoro al di fuori dei confini nazionali e ad inserirsi nel lavoro domestico. Ad oggi si calcola che i paesi appartenenti all’ex Unione Sovietica contino il più alto numero di donne migranti, e che gran parte delle donne di questi paesi abbia sperimentato la migrazione. Questi movimenti, oltre a caratterizzarsi per essere composti da una percentuale di donne superiore a quella degli uomini, sembrano presentare caratteristiche veramente peculiari rispetto a quanto avveniva in precedenza: si tratta di flussi principalmente composti da donne primomigranti dirette in larga misura verso l’Europa meridionale, specie verso l’Italia: sono sempre di più migrazioni individuali, spinte da motivi economici o di tipo familiare e culturale (talvolta talmente intrecciati che non è possibile distinguerli), spesso adottando modelli di migrazione rotazionale Il ridisegnamento geopolitico dell’Europa dell’Est, infatti, dopo la caduta della cortina di ferro ha determinato, fra gli altri, l’effetto di creare nuovi spazi migratori intraeuropei, fra l’Est e l’Ovest, ma anche, in anni più recenti, fra l’Est e il Sud del continente. Pur essendo proprio la presenza delle donne che garantisce l’evoluzione del sistema migratorio attraverso l’affermazione del diritto all’unità familiare, l’ampliamento delle funzioni dello spazio domestico e la dilatazione del tempo della famiglia accanto a quello di lavoro, gran parte della letteratura accademica ha finito per adottare una visione sicuramente parziale del ruolo delle donne nella migrazione, figlia di una tradizione di studi che ha messo al centro 38 l’esperienza maschile e ha relegato quella femminile ad una posizione ancillare, tuttora non completamente ancora superata: tutt’oggi, infatti, la migrazione femminile, tranne alcuni esempi importanti, continua a ricevere una attenzione limitata da parte degli studi sulle migrazioni, dimostrando che non è stata ancora totalmente colta la centralità che la componente femminile riveste oggi nel comprendere i movimenti migratori contemporanei. 3.2 L’ Italia come meta delle donne migranti La componente femminile nelle migrazioni, come si è detto, è stata per lungo tempo considerata solo come un fattore di stabilizzazione del flusso migratorio e, fino a pochi decenni fa, qualora qualche ricerca ponesse il suo interesse sui flussi delle donne, l’attenzione veniva rivolta quasi esclusivamente alle dinamiche relative al ricongiungimento familiare. Tuttavia, il fenomeno migratorio femminile in Italia ha una tradizione che affonda le sue radici intorno alla metà degli anni Settanta, costituendo da subito una realtà interessante, dinamica e in espansione. Tognetti Bordogna (2006) individua una scansione delle fasi del fenomeno riconducendolo a quattro periodi principali. L’insediamento migratorio nella realtà italiana è importante ed interessa tutto il territorio nazionale, anche se in un primo momento si concentra nelle grandi città metropolitane (Roma, Milano e Napoli in primis) e nelle regioni del centro-sud. Le regioni settentrionali cominciarono ad essere interessate da insediamenti migratori consistenti a partire dagli inizi degli anni Novanta, in virtù di un processo di migrazione interna degli stranieri già presenti nelle regioni meridionali e grazie alla crescita dei flussi provenienti dalle aree territoriali dell’Europa orientale. La storia dell’immigrazione femminile in Italia è riconducibile a quattro principali periodi temporali (Tognetti Bordogna, 2006). La prima fase inizia verso la metà degli anni Sessanta, e i flussi migratori sono caratterizzati da una forte presenza femminile: sono le donne a costruire le prime catene migratorie. Sono donne sole e giovani, provenienti principalmente dalle Filippine, Capo Verde, Eritrea, che 39 giungono in Italia grazie all’intercessione di organizzazioni missionarie presenti nei loro stati di origine, che fanno da tramite tra le donne immigrate e le donne italiane che cercano collaboratrici domestiche, in virtù del loro progressivo ingresso nel mercato del lavoro salariato. La seconda fase ha inizio nei primi anni Ottanta, ed è caratterizzata da un flusso di immigrazione femminile contraddistinto per la maggior parte da ricongiunte familiari, che raggiungono il marito, che ha sperimentato precedentemente l’esperienza della migrazione. A partire dagli anni Novanta prende avvio una terza fase che è caratterizzata da un sostanziale equilibrio tra uomini e donne, da un flusso migratorio composto da donne provenienti da paesi dell’Est Europa. Donne in possesso di un titolo di studio, con esperienze lavorative alle spalle, il cui progetto migratorio è legato al risparmio di denaro da poter inviare alla famiglia rimasta nel paese d’origine. Questa fase si dilata a partire dall’inizio del nuovo millennio, quando le migrazioni femminili provenienti dall’Est Europa assumono sempre maggiore rilevanza, sia numerica che sociale, anche per il welfare, rivestendo ruoli di estrema importanza nelle mansioni di cura e di assistenza. Queste donne provengono principalmente dai paese dell’Ex Unione Sovietica, sono in possesso di titoli di studio generalmente elevati e hanno esperienze professionali prestigiose alle spalle: arrivano in Italia spesso in una fase matura della propria vita, spinte dalla critica condizione economica in cui si trova la loro famiglia in seguito alle trasformazioni politiche, sociali ed economiche dei propri paesi di origine. Le donne costituiscono, dunque, un segmento sempre più importante delle migrazioni verso l’Italia. A livello numerico, in linea con le tendenze europee, esse hanno ormai superato il numero degli uomini, costituendo la maggior parte delle presenze straniere sul nostro territorio, su un totale di oltre 4.029.145 immigrati, più di 2.147.506 sono di genere femminile (Censimento del 2011). 40 Popolazione residente per sesso e cittadinanza al 1° Gennaio 2011 Cittadinanza Romania Albania Marocco Cina Rep. Popolare Ucraina Filippine Moldova India Polonia Tunisia Perù Ecuador Egitto Macedonia Bangladesh Sri Lanka Maschi 439311 259352 254906 108418 40617 56559 42997 73446 31415 67435 39310 37985 62840 50330 55642 45007 Femmine 529265 223275 197518 101516 160113 77595 87951 47590 77603 38856 59293 53640 27525 39570 26809 36087 Totale 968576 482627 452424 209934 200730 134154 130948 121036 109018 106291 98603 91625 90365 89900 82451 81094 Tabella 3 (Elaborazione dati Istat) Osservando più dettagliatamente i dati relativi ai paesi di provenienza emerge una prevalenza numerica netta delle comunità provenienti dall’area europea orientale (cfr. Tabella 3): rappresentano oltre il 60 per cento delle presenze femminili di tutti i 16 paesi presentati in tabella. La cospicua presenza di donne provenienti dall’Est Europa, che è quasi raddoppiata negli ultimi tre anni, trova una sua spiegazione nella richiesta da parte del mercato del lavoro italiano di manodopera da impiegare nel settore occupazionale del privato domestico e di cura, un segmento di mercato in cui le donne esteuropee sono diventate via via protagoniste. 3.3 La presenza delle donne immigrate nel mercato del lavoro e concentrazione nel settore domestico Una prima analisi sull’occupazione delle donne immigrate si può effettuare in base alla distribuzione intragruppo per categorie produttive, dove emerge una concentrazione polarizzata in due categorie prevalenti: il lavoro dipendente che occupa quasi il 50% delle lavoratrici extracomunitarie - e il lavoro domestico (45,5%), mentre l’occupazione nei settori del lavoro autonomo (artigiani, commercianti, ecc.) e nel 41 lavoro agricolo (OTI/OTD) risulta modesta. Il settore della collaborazione familiare e dei servizi di cura è quello che assorbe il più alto numero di donne immigrate in Italia. Secondo i dati forniti dall’Inps, che registra le collaborazioni regolari, nel 2009 gli impiegati nel settore sfioravano le 600 mila unità regolarmente registrate, delle quali i quattro quinti erano di nazionalità straniera e il 90 per cento di genere femminile. Le donne straniere, poi, costituiscono il 68 per cento del totale degli occupati regolari nel settore domestico. Di queste, i due terzi sono costituiti da donne provenienti dall’Est Europa (in gran parte ucraine, romene e polacche) e si registra una partecipazione ridotta ma significativa dall’Asia e dall’America (si tratta soprattutto di donne ecuadoriane, peruviane e filippine). Il settore del lavoro domestico nel tempo è stato soggetto ad una differenziazione in termini di composizione delle cittadinanze: negli anni Settanta le lavoratrici straniere impegnate nel settore provenivano in maggior misura dal continente africano mentre, a partire dagli anni Ottanta, sono le filippine che iniziano ad inserirsi fortemente nei servizi alle famiglie, occupando in larga parte il settore. Nel corso degli anni Novanta, invece, comincia ad affermarsi la presenza delle immigrate provenienti dai paesi dell’Europa dell’Est che, gradualmente, anche grazie alla maggiore concorrenza in termini di salario richiesto che portavano sul mercato dei servizi di cura e al dumping sociale che ne conseguiva, si inserirono scalzando via via le donne filippine e conquistandosi un ruolo da protagoniste. Si tratta principalmente di donne provenienti da paesi in transizione politica e sociale, che adottano strategie migratorie soprattutto per motivi economici. 42 4. 4.1 IL LAVORO DOMESTICO E DI CURA. UN SETTORE FORTEMENTE SEGMENTATO PER GENERE ED ETNIA Le caratteristiche del lavoro domestico L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) nel 1952 definisce il lavoratore domestico come colui che guadagna uno stipendio lavorando presso una famiglia in una casa privata, che può avere uno o più datori di lavoro, che può essere soggetto a diversi metodi e periodi di remunerazione o anche ricevere nessun guadagno monetario dal suo lavoro (Gallotti, 2009). Questa naturalmente non è l’unica definizione di lavoratore domestico, ma è sufficientemente esaustiva e comprendente. Gallotti evidenzia come, in ogni caso, esistano almeno due fattori che ricorrono in tutte le definizioni e che possono essere riconosciuti come specifici del lavoro domestico: il primo riguarda il carattere privato del posto di lavoro, che rimanda a una coincidenza fra sfera pubblica normalmente correlata alle relazioni di lavoro e sfera privata tipica della famiglia e delle dinamiche casalinghe; il secondo elemento riguarda lo status giuridico del datore di lavoro, che è un privato e non un’impresa, e che quindi non è interessato esclusivamente al guadagno economico che può ricavare dal lavoro del dipendente. Entrambi i fattori sono determinanti per comprendere le peculiarità del lavoro domestico, delle relazioni che vi si instaurano e del relativamente basso livello di protezione sociale garantita ai lavoratori in questo settore. Come molti studiosi hanno evidenziato (Ambrosini, 2000), il lavoro domestico non è definito sulla base delle competenze richieste per svolgerlo bensì su caratteristiche personali del soggetto impiegato e sul ruolo che egli è in grado di giocare nel contesto sociale in cui è inserito, che è definito in base a attitudini generiche e percezioni soggettive. Le forme che può assumere il lavoro domestico sono diverse. Possiamo fare una distinzione per criteri: per tipo di mansione e per modalità di organizzazione del lavoro. Le 43 mansioni sono principalmente di due tipi: quelle legate al care giving (lavoro di cura, assistenza, baby‐sitteraggio, badantato, servizi di compagnia in genere) e quelle inerenti l’house keeping (mansioni come quella di colf, “donna delle pulizie”, cuoca, giardiniera, ecc.). Se consideriamo l’organizzazione del lavoro, invece, possiamo distinguere il lavoro live in, l’impiego live out a tempo pieno e il “lavoro casuale” o discontinuo e il lavoro pagato ad ore. La forma di lavoro in live in è diffuso principalmente in Europa del Sud e molto poco in altre zone, come la Germania e le nazioni del Nord Europa, dove i servizi di cura sono prerogativa dello stato e del settore pubblico, che se ne fanno carico in modo quasi esclusivo (Gallotti, 2009). In generale, la soluzione in convivenza è preferita dagli immigrati di recente ingresso, sia regolari che irregolari e fornisce una soluzione prontamente disponibile e risolutiva dei problemi di accoglienza iniziale. Nel caso degli irregolari, poi, fornisce una scappatoia dai controlli delle autorità del lavoro e delle migrazioni. D’altro canto, il lavoratore acquisisce indipendenza e maggiore capacità di negoziare il rapporto di lavoro principalmente nelle situazioni in cui è occupato con modalità parziale, in live out, poiché, come verrà in seguito puntualizzato, il potere negoziale risente negativamente della perdita di autonomia dovuta alla sovrapposizione degli spazi di lavoro con quelli di vita privata. A livello territoriale si può osservare che, nelle regioni italiane meridionali, il lavoro domestico è spesso “a giornata”, cioè molto più discontinuo e precario, senza i privilegi del lavoro ‘giorno e notte’ (che fornisce vitto e alloggio), né di quello ‘a ore’ (che garantisce maggiore autonomia organizzativa) che sembra essere più diffuso nelle regioni centro-settentrionali. L’assistenza a domicilio di persone anziane è molto diffusa in Europa mediterranea. Se si considera che il ricorso ad un aiuto esterno da parte delle famiglie viene richiesto nella maggior parte dei casi quando l’anziano non è autosufficiente e non è in grado di soddisfare i principali bisogni in modo autonomo, va da sé che la modalità live in sia la più richiesta, specialmente in quei paesi non sufficientemente supportati dal settore pubblico attraverso l’offerta di servizi di 44 assistenza ai soggetti sociali deboli. Si tratta di occupazioni molto pesanti in termini sia lavorativi che psicologici, caratterizzati da una particolare precarietà e determinatezza dell’occupazione dovuta alle condizioni di salute generalmente instabili dell’assistito (Ambrosini, 2005). Un discorso a parte, invece, va fatto per il collaboratore famigliare a servizio continuo, convivente con il datore di lavoro, figura che sembrava scomparsa o perlomeno in declino, ma che sta tornando in auge negli ultimi anni in seguito alla disponibilità di manodopera a basso costo fornita dall’immigrazione. Il lavoro a ore, invece, specialmente legato alle mansioni di house keeping, maggiormente adatte a poter essere organizzate in modo discontinuo e intervallato, può anche costituire spesso, quando legato alle mansioni di cura, una evoluzione dei primi due, che secondo una logica di promozione orizzontale delle condizioni di vita e di lavoro del coadiuvante domestico, ne permette la creazione di una famiglia propria al di fuori dell’ambiente lavorativo (Ambrosini 2005). In linea generale, alcuni fattori contribuiscono a porre il lavoro domestico in un’area di criticità e di problematicità sociale più accentuate rispetto ad altri settori occupazionali. Fra le principali motivazioni, possono essere annoverate innanzitutto la notevole e rapida crescita in termini quantitativi del fenomeno presso le famiglie italiane. È un settore, inoltre, che viene percepito di competenza innanzitutto femminile e di conseguenza è valutato poveramente in termini economici e sociali, pur essendo carico di elementi altamente personalizzanti, affettivi ed emotivi. Include, poi, una varietà di mansioni di varia natura, che si svolgono quasi esclusivamente all’interno delle case private, esponendo il lavoratore ad un alto rischio di isolamento sociale, che risulta particolarmente problematico nel caso in cui il lavoratore sia straniero e necessiti anche di una più profonda socializzazione con la società accogliente. Il settore domestico, inoltre, presuppone una relazione di lavoro atipica, che spesso esula dalle leggi generali del lavoro, rischiando di incorrere più facilmente rispetto ad altri settori occupazionali a forme di rapporti lavorativi di stampo 45 pre-moderno, forme di patronage, protettorato, violazione degli obblighi contrattuali, sfruttamento, adattamento al ribasso, abusi sessuali (Ambrosini, 2005). Come lo stesso autore sottolinea, «il ritorno del lavoro domestico “fisso” (e dell’assistenza a domicilio, che ne rappresenta una versione più esigente) rappresenta per molti aspetti una riedizione della versione pre-moderna dei rapporti di lavoro. Ritorna la benevolenza come scelta discrezionale dei datori di lavoro. Ritorna la crucialità delle relazioni personali come componenti costitutive dei rapporti di lavoro. Ritorna la sovrapposizione tra abitazione e luogo di lavoro. Ritorna un’asimmetria profonda nei rapporti, insieme alla dipendenza reciproca tra datori di lavoro e lavoratrici. Ritorna un contesto in cui il “padrone” è anche “patrono”, conosce poco il linguaggio dei diritti, ma è disponibile ad assumere un ruolo di protezione verso la lavoratrice che accoglie sotto il suo tetto». (Ambrosini, 2005). Oltretutto, il lavoro domestico è facilmente inserito nel settore sommerso dell’economia, per cui attira gran parte della forza lavoro più vulnerabile. Un numero crescente di lavoratrici migranti trova occupazione nel settore domestico, spinta ed attirata allo stesso tempo dalla combinazione che etnicità, genere e classe sociale producono nel mercato globale della cura. Si tratta nella maggior parte dei casi di donne che lasciano i figli in patria per occuparsi di figli di altri e che vivono una “dislocazione delle relazioni affettive” (Parreñas, 2001), che produce traumi emotivi, senso di colpa, solitudine (Ambrosini, 2005). Ambrosini evidenzia, a questo proposito, un paradosso: la crescita della sicurezza finanziaria va di pari passo con la crescita dell’insicurezza affettiva di queste donne e delle loro famiglie, che, nel caso delle esteuropee, si trovano in tal modo a dover affrontare il peso e i costi della transizione sociale ed economica dei loro paesi di provenienza. In sostanza, secondo Morini (2001), il lavoro di cura può essere ricondotto a quello che Gorz chiama “il terziario umile”, quello che vende “servizi e cure personali, domestiche, sessuali, al ristretto strato di padroni e dei salariati ben pagati” (Gorz, 1992), secondo ciò che Duffy 46 (2007) chiama marketization della cura. Il lavoro di cura sembra saldarsi alla perfezione con quella femminilizzazione del lavoro asservita al sistema produttivo ed economico per diverse ragioni, ovvero: ‐ Il servizio alla persona richiede una flessibilità che è difficilmente regolamentabile con una forma di trattamento contrattuale: questo predispone il lavoratore sia ad una maggiore probabilità di sfruttamento da parte del datore di lavoro che alla possibilità di attivare forme di auto sfruttamento per massimizzare i guadagni; - L’allentamento delle norme relative ad orari e mansioni e la modalità di impiego live‐in, molto diffuso fra i lavoratori domestici stranieri, comportano una separazione blandamente distinguibile fra ambiti di vita propri e ambiti di lavoro: “assistiamo – così – alla perfetta dissoluzione delle due variabili spazio/tempo, che tanto condiziona l’esperienza del lavoratore postfordista” (Morini, 2001). La forte dipendenza dalla domanda e dalle sue fluttuazioni, che caratterizza questo settore occupazionale, fa sì che il turn over e la mobilità fra i lavoratori domestici siano molto elevati, sia per ragioni oggettivamente legate all’assistenza a persone anziane e malate – dalla salute più vulnerabile e a più alto rischio di mortalità –, sia per motivi dovuti alla necessità di instaurare in rapporto fiduciario fra le parti, che richiede periodi di prova ed aggiustamenti, sia per il lavoratore che per l’employer. Il tipo di rapporto che si instaura fra l’assistente/collaboratore domestico e la famiglia in cui è impiegato è ad alto contenuto relazionale, specialmente nei servizi alla persona rivolti a bambini e anziani. Interessante, a questo proposito, è la considerazione che fa Hochschild, relativamente al concetto di cura, quando afferma di riferirsi «a un legame sentimentale, di solito reciproco, fra chi si prende cura e chi la riceve, un legame tale per cui chi presta assistenza si sente responsabile del benessere di qualcun altro, e mette in gioco le proprie forze mentali, emotive e fisiche per ottemperare a tale responsabilità. In questo senso prendersi cura di una persona implica prendersi a cuore quella persona». Gli elementi alla base della valutazione delle capacità del 47 lavoratore, dunque, più che basarsi su competenze oggettivamente dimostrabili, sono di tipo relazionale e soggettivamente percepibili e chiamano in causa la capacità di dare e ricevere risorse amorevoli: l’abilità di comprendere le esigenze dell’assistito, di interpretarne i bisogni, di instaurare un rapporto empatico e affettivo, per esempio, sono sicuramente elementi che danno un valore aggiunto nell’attività di assistenza e cura e rappresentano anche, come afferma Morini (2001), oltre che un elemento che incrementa le credenziali del soggetto presso la comunità e i potenziali datori di lavoro, un elemento di autovalorizzazione professionale. Un ulteriore aspetto da considerare in modo attento è l’alto grado di irregolarità presente nel settore domestico, che tende ad amplificarsi ulteriormente laddove è impiegata manodopera straniera. 4.2 Un lavoro “da donne”: le immigrate nel settore domestico e di cura Nelle società europee occidentali, il lavoro domestico, storicamente, attirato a sé, per la maggior parte, giovane forza lavoro femminile, fra la più povera, marginale e meno istruita. Solitamente si trattava di ragazze provenienti dalle zone rurali che “andavano a servizio” presso famiglie benestanti, sia nelle campagne che nelle città, per uscire dalle condizioni di povertà e indigenza in cui versavano le loro famiglie: il lavoro domestico, anche per tale motivo, è sempre stato considerato di scarso prestigio sociale, degradante per la lavoratrice e svuotato di un reale valore sociale. Questa percezione generale del lavoratore domestico si è tradotta, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella composizione della forza lavoro nell’assetto moderno della società, in una trasposizione che si potrebbe definire “di classe”: da quella dalle giovani donne italiane provenienti dalle famiglie povere della aree rurali a quella delle donne immigrate, non necessariamente provenienti dagli strati meno abbienti della società di origine ma ad essi comunque destinate nella società ospite e, perciò, facenti attualmente parte di quello strato sociale che tradizionalmente viene attirato dal mercato del lavoro domestico. 48 Il lavoro domestico e di cura, è innanzitutto, un lavoro “da donne” ma anche un lavoro “fra donne”, nel senso che non è solo una particularly gendered activity (Lutz, 2008), ma anche perché è un’area, gestita in toto da donne: con molta probabilità, infatti, sia la lavoratrice che la datrice di lavoro saranno di genere femminile (Gallotti, 2009), quasi a significare che la gestione degli affari familiari legati agli affetti e alla sfera privata siano di competenza propria delle donne, tanto da indurre alcuni studiosi a parlare di rapporti gestiti con atteggiamenti maternalisti, più che paternalisti (Hondagneu-Sotelo, 2001). Volgendo lo sguardo all’ Europa, si può notare come questo trend sia presente nella maggior parte dei paesi: in Spagna il 90 per cento delle persone occupate nel settore domestico sono di genere femminile, in Belgio l’89 per cento e in Austria più del 95 per cento (ILO, 2009). In Italia, secondo i dati dell’Inps, nel 2011 gli impiegati nel lavoro domestico erano 881.702, dei quali circa l’ 84 per cento di genere femminile e l’ 80,3 per cento di cittadinanza straniera di cui il 47 per cento proveniente dall’Europa dell’ Est. È opportuno segnalare che i dati raccolti dall’Inps, pur molto preziosi perché forniscono informazioni dettagliate e non rintracciabili altrove, si riferiscono ai soli lavoratori regolari, con contratti registrati. Se si considera che una recente stima dell’Istat ha valutato la presenza di più di un milione di lavoratori domestici in Italia, si può avere un’idea della consistenza del sommerso di questo settore. In ogni caso, data la difficoltà ad avere informazioni certe sulle situazioni lavorative irregolari, si faranno considerazioni sulle presenze regolari nel mercato del lavoro domestico. Secondo i dati Inps relativi all’anno 2011, le principali aree di provenienza dei lavoratori domestici in Italia sono l’Europa orientale, le Filippine e l’America del Sud, oltre ad una ancora forte presenza dei lavoratori domestici salariati italiani, per i quali permane comunque il dubbio se siano percentualmente più presenti o più regolarizzati contrattualmente. Si può notare come, fra i lavoratori di origine europea, nel 2011 prevalevano le donne per oltre il 95 per cento dei casi; si segnala la presenza di un maschio ogni dieci lavoratori 49 domestici sudamericani, mentre è rilevante la quota dei domestici uomini asiatici: in particolare, fra i domestici filippini, uno su quattro è di genere maschile. I lavoratori domestici in Italia, anno 2011 Lavoratori domestici Italiani Stranieri 173.870 707.832 19,7% 80,3% Tabella 4 (Elaborazione su dati INPS) È bene sottolineare che la presenza italiana fra i lavoratori domestici (che nel 2011 era il 19,7 per cento) potrebbe essere verosimilmente sovra rappresentata a causa dell’esistenza di un’ampia fetta di irregolarità nel settore che molto probabilmente è costituita principalmente da lavoratori stranieri che sono soggetti ad un doppio rischio di irregolarità rispetto ai colleghi italiani: oltre alla mancanza di un regolare rapporto di lavoro, eventualità che può riguardare entrambi i gruppi anche se in misura e con modalità diverse, i migranti possono avere l’aggravante di essere senza un permesso regolare di soggiorno, che automaticamente li esclude dalla possibilità di formalizzare un contratto di lavoro. Questo comporta che l’incidenza numerica degli stranieri – e in modo particolare delle donne straniere – nel settore domestico è ineluttabilmente più elevata. Uno dei morivi che spinge all’inserimento lavorativo in questo settore è spesso dovuto dall’opportunità che il modello di lavoro live in offre in termini di massimizzazione del guadagno e di ammortizzazione di specifici bisogni sociali: la coabitazione con l’assistito, infatti, oltre a permettere alla lavoratrice di non dover cercare una abitazione, consente di godere di una forma di protezione, di avere un punto di riferimento forte e stabile nella comunità italiana e offre, inoltre, una garanzia in più di invisibilità per gli undocumented workers. Le caratteristiche etniche e di genere continuano ad esercitare un notevole impulso sull’occupazione delle donne: non solo le donne sono considerate naturalmente dotate di virtù caritatevoli, servizievoli e pacatezza, praticamente ciò 50 che serve per il lavoro di cura domestico, ma anche la variabile etnica, di status e di legalità gioca un ruolo importante nella loro marginalizzazione e confinamento nel settore domestico. Ciò che del lavoro domestico bisogna non trascurare è il mutamento del sistema di valori e delle relazioni sociali sperimentato dalle lavoratrici domestiche in seguito al passaggio dalle modalità gratuite di scambio che avvenivano nella società di origine, alle modalità mercificate (Caponio, Colombo, 2005). Come viene sottolineato da più parti, il lavoro domestico offerto alle immigrate è maggiormente esposto all’instaurarsi di relazioni paternalistiche ed autoritarie, divenendo un lavoro privo di ogni contenuto professionale e quindi realizzabile anche da coloro che non hanno competenze specifiche in materia, incluse le donne straniere. In realtà, l’esperienza mostra che le differenze culturali nel lavoro domestico sono particolarmente rilevanti, proprio perché portatrici di peculiarità rispetto al rapportarsi alla casa e ai suoi oggetti, al senso del tempo e dello spazio, alla centralità di alcune mansioni piuttosto che altre. Il possesso o meno della capacità di uniformarsi al modello culturale proprio del datore di lavoro costituisce la prerogativa sulla quale si è creata una ben definita gerarchia i gruppi etnico culturali in termini di affidabilità e concordanza culturale (per esempio, le domestiche filippine sono più richieste di altre perché ritenute maggiormente affidabili e competenti nella gestione della casa) (Vicarelli, 1994). Lo stretto intreccio fra relazioni di lavoro e relazioni personali che caratterizzano questa professione amplifica sia i disagi e le difficoltà quotidiane (Caponio, Colombo, 2005) che le possibilità di godere di sostegno e aiuto dalla famiglia italiana, legando, di fatto, le condizioni lavorative e di vita delle donne migranti impiegate nel settore domestico alle caratteristiche comportamentali e umane dei datori di lavoro, creando spazi adatti all’instaurarsi di rapporti asimmetrici e paternalisti. Questo comporta una intensificazione delle difficoltà di uscire dalle condizioni di integrazione subalterna (Ambrosini 2001), tendenzialmente sperimentata dai migranti, che vede una loro legittimazione sociale solo in quanto lavoratori occupati 51 nelle mansioni più gravose e marginali del mercato del lavoro, necessarie al funzionamento del sistema economico ma evitate dagli autoctoni. L’accettazione del lavoro immigrato, dunque, secondo questa prospettiva passerebbe attraverso una visione strumentale ed utilitaristica della forza lavoro straniera. Oggi, tuttavia, specialmente le donne immigrate possono essere considerate a tutti gli effetti dei soggetti attivi della società, considerato che occupano un ruolo centrale anche nei sistemi di welfare, sia come fruitrici che come fornitrici di servizi attraverso il loro lavoro salariato e non. 4.3 Un’attività poco regolata: il sommerso nella “care economy” Nel lavoro domestico e di cura, la porzione di irregolarità e di sommerso sembra essere notevolmente diffusa in tutti i paesi europei. Alcuni studi calcolano una stima compresa fra il 70 e l’80 per cento di lavoro irregolare e non dichiarato in questo settore in Europa. C’è un reale problema di comparabilità dei dati, dovuto alla lacunosa – per forza di cose – disponibilità degli stessi, per questo motivo non è possibile né procedere a comparazioni efficaci fra i diversi paesi europei, né fornire una stima della quantificazione del fenomeno in Italia. È però facile ipotizzare, anche alla luce delle restrizioni degli ultimi anni in materia di diritto dell’immigrazione, che le persone maggiormente implicate nel circuito dell’irregolarità siano quelle socialmente più fragili, vulnerabili e deboli. L’evidenza mostra che le donne migranti, spesso senza documenti – almeno nei primi tempi di soggiorno – costituiscono una ampia porzione dell’economia informale europea ed esse sono principalmente concentrate nelle occupazioni informali nell’area dei servizi di cura e alle famiglie. I governi europei hanno provato in molti modi a scoraggiare l’informalità diffusa nel settore, anche attraverso l’introduzione di sanzioni pecuniarie sia per i lavoratori che per i datori di lavoro, ma con differenti risultati da paese a paese, che riflettono le peculiarità della struttura del mercato 52 del lavoro locale, nel quale l’informalità si incastona e prende forma. Alcune delle misure prese dai singoli stati europei per contrastare l’irregolarità del settore, anche se sono principalmente rivolte alla regolarizzazione della posizione lavorativa del migrante –agiscono in special modo sugli incentivi offerti al datore di lavoro per rendere più conveniente la dichiarazione di assunzione – e non al contrasto dell’irregolarità della presenza e conseguentemente del lavoro. Non vanno dunque realmente alla radice del problema considerato che l’irregolarità si annida principalmente proprio fra i migranti che soggiornano in modo illegale sul territorio europeo. Alcune delle misure più diffuse per combattere il lavoro domestico non dichiarato sono il sistema dei voucher di cura (introdotto in Francia, Germania e Belgio), la deduzione fiscale per il datore di lavoro che impiega personale domestico – misura vigente in Germania e in Italia – e il tentativo di “professionalizzare” il lavoro domestico, avanzato in Germania, che mirava a creare e a formare personale altamente qualificato e capace di gestire in modo professionale il rapporto di cura, gestito da agenzie che fornivano lavoro alle famiglie (Gallotti, 2009). Queste misure hanno avuto risultati diversi da paese a paese, anche in base alla struttura interna dei diversi mercati del lavoro. In generale però, il relativamente scarso impatto che esse hanno avuto nel contrastare efficacemente l’irregolarità e il sommerso nel settore del lavoro domestico e di cura deriva dal fatto che, tranne in casi in cui l’intervento statale è consistente e costante, la competitività del mercato nero del lavoro è molto forte e rende poco conveniente per i datori di lavoro ricorrere a manodopera regolare e ai servizi forniti regolarmente sul mercato. Inoltre, queste misure di contrasto agiscono solo sull’irregolarità legata al lavoro, che costituisce però la punta dell’iceberg del sommerso nel settore domestico. La maggior parte dei lavoratori domestici in Europa, infatti, è costituita da migranti irregolarmente soggiornanti, che sono esclusi a priori dalla possibilità di godere di alcuna di queste misure di policy (Gallotti, 2009). Un ulteriore elemento da non sottovalutare è che la 53 regolarità di soggiorno e di lavoro, insieme al possesso di un contratto valido a tutti gli effetti, non costituiscono necessariamente la condizione sufficiente di rispetto delle norme di lavoro. Spesso per i domestici, proprio per la natura fortemente ‘personalistica’ del rapporto di lavoro che caratterizza questo settore, carico di significati sociali e culturali che si riscontrano tipicamente nei rapporti fiduciari, l’ottenimento di un contratto regolare di lavoro costituisce spesso solo il punto di partenza della negoziazione delle condizioni di lavoro e non il punto di arrivo. 5. IL PROGETTO MIGRATORIO 5.1 Il paese di partenza: La Romania Nella provincia di Enna, secondo i dati rilevati risiedono 1.754 donne straniere regolarmente presenti, pari al 61% del totale dei migranti. Tra le nazionalità con prevalenza femminile e con percentuali del 58% troviamo la Romania. Attraverso un uso incrociato di diversi dati ufficiali, indagini sociologiche e studi su realtà locali, in questo capitolo si vogliono esplorare i percorsi e le strategie messe in atto da queste donne immigrate. All’inizio degli anni ’90 la caduta dei regimi comunisti e la penetrazione del sistema capitalistico nei paesi dell’ex blocco sovietico, seguiti dai primi segnali di una crisi economica e di un’instabilità sociale che hanno colpito numerose famiglie, anche di ceto medio e piccolo borghese, hanno innescato nella popolazione significative dinamiche di spostamento e migrazione (Bianchini e Privitera, 2004). La parziale apertura delle frontiere, ha rappresentato un momento cruciale nella storia dell’emigrazione dall’Europa orientale. Ai cittadini di questi paesi si è aperta infatti la possibilità di accesso ai mercati del lavoro internazionali, in particolare dell’Unione Europea, mentre la migrazione (più o meno temporanea) per lavoro è presto diventata un’opportunità − per molti l’unica − di miglioramento delle proprie condizioni economiche (Malinowska, 2004; Sandu, 2004). Per quanto riguarda la Romania il fenomeno migratorio deve 54 essere letto alla luce delle trasformazioni strutturali della società e dell’economia del paese negli anni che hanno preceduto e seguito il crollo del regime comunista, nonché di più ampi processi migratori verificatisi nel paese e con i quali possono essere identificati importanti elementi di continuità (Ohligger, 1999; Diminescu, 1999, 2003; Diminescu e Lagrave, 1999; Sandu, 2004; 2006; Radu, 2004). La collettivizzazione e l’industrializzazione forzata del periodo comunista hanno comportato uno spostamento forzato di un’importante parte della popolazione dai villaggi verso le aree urbane ed industrializzate del paese. Questi movimenti sono stati descritti dalla letteratura sulle migrazioni in Romania come la prima fase di una migrazione interna che però non era destinata ad esaurirsi con la fine del governo Ceauşescu. Nei primi anni ’90, infatti, il declino delle industrie ha portato ad una inversione di tendenza che vide un ritorno verso le campagne. I primi consistenti flussi internazionali sono avvenuti negli anni immediatamente successivi alla caduta del regime comunista ed hanno interessato soprattutto i cittadini romeni appartenenti alle minoranze etniche e religiose. Questi flussi erano diretti soprattutto verso la Germania, l’Ungheria, l’Austria ed Israele, e provenivano principalmente dalle regioni della Transilvania (Diminescu , 2003, Sandu, 2004). A questi si sono aggiunti alcuni flussi di richiedenti asilo che hanno coinvolto in particolare cittadini romeni di etnia romani (Benattig e Brachet, 1998). Negli stessi anni si sono consolidate anche le cosiddette migrazioni transfrontaliere, o “con la valigia” (commerce à la valise), già praticate nel periodo precedente la rivoluzione del 1989 quando gli abitanti delle zone di frontiera potevano fare piccoli viaggi – generalmente finalizzati alla compravendita di prodotti di consumo – nei paesi confinanti. Contemporaneamente si è sviluppato anche il pendolarismo transfrontaliero per lavoro (Sandu, 2000; Potot, 2003). Già dalla metà degli anni ’90, si verificano importanti cambiamenti per quanto riguarda la componente etnica dei flussi migratori in partenza dalla Romania. In seguito a questi cambiamenti, la componente maggioritaria cominciò a non 55 appartenere ad etnie minoritarie (tedesca, ungherese, ecc) – nel 2004, infatti,circa il 90% degli emigrati era di etnia romena. Tra le destinazioni preferite, Germania ed Austria mostrano un trend discendente, le mete mediterranee, la Spagna e l’Italia mostrano un’attrattiva crescente − soprattutto per quanto riguarda quei movimenti etichettati dalla letteratura sulle migrazioni come circolari, stagionali, o temporanei − mentre quelle oltreoceano (Stati Uniti e Canada) rimangono ancora stabili soprattutto per i flussi di lunga durata o di insediamento permanente. Nello stesso periodo comincia anche a verificarsi una diversificazione delle aree di provenienza con una diminuzione dei flussi provenienti dalla Transilvania ed un aumento di quelli provenienti dalle regioni a nord-est della Romania, in particolare dalla Moldavia. Tra il 1992 ed il 2002, si stima che circa 800.000 persone abbiano lasciato la Romania emigrando verso paesi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti ed il Canada (BaldwinEdwards, 2006). Inoltre,secondo un’indagine CURS (Centrul de Sociologie Urbana Regionala) condotta nel 2003 su un campione di 35.000 intervistati in tutta la Romania, a partire dal 1990 una famiglia ogni quattro (23%) ha avuto, o aveva al momento dell’indagine, almeno un membro con esperienza lavorativa all’estero. Negli anni a seguire, ulteriori stime ci vengono fornite dalla Fondazione Soros Romania che ha condotto ricerche a livello nazionale sull’emigrazione romena per lavoro dal 1990 al 2006. Questi dati ci offrono un quadro leggermente diverso in cui più di un terzo delle unità familiari ha avuto, o aveva, almeno un membro all’estero per lavoro nell’arco di tempo indicato. Particolarmente interessante sono le statistiche ufficiali dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istitutul Nazional de Statistica) che mostrano come, in un arco di tempo di circa tre decenni – tra il 1975 ed il 2003 − si riscontra una prevalenza di donne nei flussi migratori dalla Romania. In particolare nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2003 si è verificata un’accentuata femminilizzazione di tali flussi e, ad esempio, nel 2003 le donne che hanno scelto di lasciare il paese sono state 40% in più rispetto agli uomini (Constantin 56 et al., 2004). Tale trend è continuato anche nel 2004, anno in cui le donne sono venute a rappresentare il 62% del totale. Questa femminilizzazione della migrazione romena si è verificata in concomitanza al cambiamento nella scelta delle destinazioni, un fenomeno che va letto anche in relazione alla rimozione, avvenuta nel 2002, dell’obbligo del visto di ingresso per i cittadini romeni nei paesi membri dell’Unione Europea per periodi inferiori ai tre mesi. In seguito a tale mutamento giuridico, alcuni paesi del Mediterraneo, l’Italia e la Spagna in particolare, sono diventati le principali mete per la migrazione romena tanto che in Italia la presenza della comunità romena è raddoppiata, passando dal terzo al primo posto sul totale delle presenze straniere. Dopo l’abolizione del visto nel 2002, la migrazione temporanea di breve periodo, o circolare, ha costituito, per un lungo periodo, una realtà diffusa o perfino la strategia migratoria che maggiormente caratterizzava la migrazione femminile dalla Romania. Si trattava di donne che svolgevano lavori di cura o domestici per brevi periodi, spesso sostituendo una parente, amica, o conoscente che ritornava in Romania. Si era quindi diffusa una strategia cosiddetta di share-work , un modello di gestione della famiglia transnazionale che permetteva anche a donne con figli di migrare per lavoro ma di continuare ad essere presenti durante momenti importanti della crescita o formazione dei figli e quindi di mantenere quelle responsabilità all’interno della famiglia. Questa modalità dei movimenti migratori provenienti dalla Romania, per la quale la letteratura sul tema ha utilizzato definizioni varie come circolarità, pendolarismo, o migrazione temporanea, è stata descritta come una vera e propria “strategia di vita” di individui e famiglie, spesso provenienti dai villaggi della Moldavia rumena e che in molti casi avevano avuto esperienze migratorie precedenti (Sandu, 2004). Un’idea quindi che implica anche una capacità di adattamento e di ridefinizione dei legami familiari che si basano su una presenza intermittente facilitata dal largo uso delle nuove tecnologie di comunicazione. Tuttavia, recentemente si è assistito ad un afflusso sempre 57 più consistente di ondate migratorie meno transitorie e più orientate a un insediamento stabile nella società, anche legate alla dinamica dei ricongiungimenti familiari. In generale cresce la propensione a un insediamento più stabile, a medio o lungo termine, se non addirittura definitivo in paesi come l’Italia. Un indicatore in tal senso è il fatto che a Roma sono stati 10.000 gli acquisti di immobili da parte di cittadini romeni nel solo 2007 (Caritas/Migrantes, 2008). Secondo una recente ricerca svolta dall’Istituto per la Ricerca Sociale sulle nuove caratteristiche e tendenze del lavoro di cura in Italia, le assistenti romene in modo particolare si contraddistinguono per progetti di lungo periodo. Ad essere protagonisti di processi di insediamento più stabili sono soprattutto le famiglie romene già presenti in Italia prima dell’adesione della Romania all’ Unione Europea nel gennaio del 2007, mentre strategie di migrazione a breve termine sembrano nuovamente essere messe in pratica dai nuovi migranti. Possiamo quindi affermare che da gennaio 2007 stiamo assistendo da una parte ad un processo di stabilizzazione delle famiglie già presenti a quella data in Italia ed in contemporanea al riaffacciarsi di una migrazione circolare spesso caratterizzata da share-work, soprattutto per quanto riguarda la migrazione femminile per lavoro nel settore domestico. 5.2 Il momento pre-migratorio: le cause e la costruzione di un progetto Le migrazioni delle donne romene sono in larga misura di tipo economico e sono sorrette da motivazioni orientate al raggiungimento di obiettivi talvolta personali ma molto più spesso legati al benessere del nucleo familiare e dei figli in particolare. La delicata transizione socio-economica che ha investito l’area orientale dell’Europa a partire da due decenni fa, con la dissoluzione del blocco sovietico e il difficile passaggio dall’economia di piano all’economia di mercato, ha avuto – e sta in qualche modo continuando ad avere – conseguenze notevoli sullo stile di vita delle persone, che si sono trovate a dover affrontare un cambiamento profondo degli usi e delle consuetudini legate all’organizzazione della 58 quotidianità e del lavoro, ricorrendo in numerosi casi a strategie di sopravvivenza che spesso si sono tradotte in migrazioni verso l’estero. Il disfacimento del sistema politico, infatti, ha portato con sé uno sfaldamento della struttura sociale che si reggeva fortemente sull’assetto economico di stampo socialista che prevedeva la distribuzione del lavoro e il soddisfacimento di una serie di bisogni sociali per mano pubblica, come l’assegnazione di una casa, la garanzia di un’istruzione per i figli, ecc. A partire dal 1991, dunque, la dissoluzione di tale sistema socio-economico, comportando da un lato un enorme aumento della disoccupazione e dall’altro l’apertura delle frontiere e la libera circolazione delle persone – per la prima volta dopo decenni – cominciarono a crearsi flussi migratori consistenti, richiamati dai mercati del lavoro occidentali che offrivano maggiori opportunità occupazionali e salariali. È bene sottolineare, tuttavia, che i differenziali economici da soli non sono sufficienti a spiegare le migrazioni: il calcolo economico è sempre collegato ad altri fattori di tipo sociale, legati in particolar modo allo status pre-migratorio delle persone e alla loro percezione di necessità. Quello che ormai è appurato, attraverso numerose ricerche, infatti, è che la maggior parte dei soggetti che migrano non sono quelli che nelle società di origine erano i più poveri e indigenti, bensì quelli che costituivano la classe media, il ceto relativamente benestante, quello che ha subito lo svantaggio principale in termini relativi dalla dissoluzione del sistema e che utilizza la strategia migratoria come mezzo per riacquistare parte dello status sociale precedente e per poter garantire alla propria famiglia il mantenimento del medesimo stile di vita. Si tratta spesso di soggetti altamente scolarizzati, con passati professionali qualificati, che si inseriscono nelle nicchie più marginali del mercato del lavoro dei paesi ospitanti, differendo ad un tempo successivo il soddisfacimento delle proprie aspirazioni o trovando compensazione nella possibilità di garantire ai figli e ai familiari – attraverso le rimesse – adeguate condizioni di vita in patria, evitando loro la fatica di una migrazione. Un comportamento di questo tipo, caratterizzato da un 59 annichilimento delle proprie necessità e soddisfazioni professionali per obiettivi e fini collegabili alle necessità familiari, emerge in modo tipico nei percorsi delle donne immigrate nel mercato dell’assistenza e della cura in Italia, ed è reso ancora più gravoso dalla consuetudine ad adottare strategie migratorie “in solitaria”, che costringono madri, figlie e mogli a vivere le relazioni e i legami affettivi a distanza. Parafrasando Mingozzi (2005), risulta facile, a questo punto, chiedersi quali possano essere, nello specifico, i motivi che spingono “una commercialista donna di farsi assumere in un piccolo comune della provincia di Enna in qualità di badante”, accettando di fatto condizioni e mansioni ben lontane dal proprio livello di professionalizzazione e acconsentendo, con questo a garantire un benessere economico “a distanza” ai propri familiari privandoli quotidianamente delle cure e del proprio calore affettivo, assicurando loro, in sintesi, risorse materiali ma privandoli di risorse emotive. Le motivazioni che spingono le donne romene a migrare si possono raggruppare principalmente in tre tipi principali, alle quali corrispondono specifici percorsi e strategie di inserimento: le migrazioni finalizzate al mantenimento o al miglioramento generalizzato delle condizioni di vita; quelle finalizzate a fronteggiare ed arginare specifici imprevisti; le migrazioni finalizzate a garantire sostentamento e sopravvivenza quotidiana. Si tratta, per lo più, di progetti migratori orientati non tanto all’uscita da una condizione di indigenza, quanto ad evitare che il nucleo familiare scivoli dal ceto medio a uno più umile a causa del nuovo ordine economico nazionale. A spingere alla migrazione queste persone, dunque, non è tanto la “fame”, quanto il desiderio di mantenere una condizione sociale dignitosa, dotata di sufficienti comforts e relativo benessere, messi recentemente a repentaglio dalla trasformazione economica della società in corso. 60 5.3 Il momento dello spostamento: il viaggio, gli intermediari, le agenzie, i debiti e le destinazioni Il momento della pianificazione del viaggio coincide per le famiglie, solitamente, con un investimento: quasi tutte le donne romene iniziano il loro percorso migratorio affidandosi ad una agenzia turistica, più o meno legale, che fa da tramite fra il paese di partenza e quello di destinazione e che si preoccupa di tutti gli aspetti burocratici legati allo spostamento, inclusa la predisposizione dei documenti e dei visti necessari all’espatrio per le singole partecipanti. L’agenzia, che organizza un vero e proprio tour turistico con sola andata, offre questo servizio per cifre elevate, che seguendo l’andamento del mercato, tendono a crescere progressivamente: le donne, spesso, per far fronte a questa grossa spesa ricorrono alla contrazione di un debito presso un conoscente o un istituto di credito ed iniziano, dunque, l’esperienza migratoria con il pensiero principale di estinguerlo, insieme agli interessi ad esso collegati. Da questo momento inizia spesso una corsa contro il tempo, che conduce alcune addirittura all’ansia e alla paura di non riuscire, e le espone al rischio di sfruttamento. Se le aspettative sono vaghe e poco nitide, la destinazione è piuttosto definita nei progetti di queste donne, che tendono a raggiungere familiari, amici o conoscenti già presenti in determinate città o paesi italiani. L’azione delle reti, infatti, si rivela cruciale nell’attirare, definire le destinazioni iniziali delle donne migranti e nell’inserirle nel tessuto economico e lavorativo locale, alimentando in tal modo una diffusione capillare della presenza di manodopera nel settore dell’assistenza non solo nelle aree metropolitane ma anche in quelle provinciali e rurali. Il trend, dunque, è quello di servirsi di “catene” di conoscenze pregresse per potersi inserire nel minor tempo possibile e per la certezza di poter usufruire un appoggio logistico ed emotivo, almeno nella fase iniziale del percorso migratorio. Questa possibilità, pur garantendo un ingresso più immediato e con meno ostacoli nel mercato del lavoro non assicura automaticamente la riuscita del progetto in misura maggiore rispetto a coloro che sono arrivate senza 61 avere appoggi già radicati sul territorio. La differenza è legata ai “tempi” dell’adattamento, più dilatati nei casi di coloro che sono giunte senza avere supporti, e in taluni casi si è registrata addirittura, nel lungo periodo, una integrazione sociale ed economica con il paese ospitante superiore a quella di coloro che sono migrate attraverso l’azione protettiva di una rete comunitaria forte, in linea con quanto è affermato da Ambrosini in merito al carattere “costrittivo” e “ghettizzante” che il network comunitario può esercitare sui propri membri. Le possibilità di entrare in contatto con donne già migrate in precedenza e poter quindi prendere contatti con loro per intraprendere lo stesso percorso si presentano soprattutto in occasione delle feste natalizie o delle vacanze estive, quando queste tornano nei paesi d’origine per le ferie e hanno modo di socializzare con le donne della città di origine le loro esperienze, anche se più o meno in modo veritiero o strumentale. Sayad (2002), a questo proposito, parla di “menzogna collettiva”, per evidenziare la selezione delle informazioni da raccontare che gli emigrati operano quando soggiornano al paese, finalizzata a dissimulare agli occhi degli altri le sofferenze relative alle effettive difficoltà vissute nell’emigrazione e a ostentare invece i segnali che testimoniano la riuscita del percorso per incoraggiare anche altri ad intraprendere l’esperienza migratoria. Alla base di tali menzogne ci sarebbe l’orgoglio, il tentativo di voler evitare la vergogna di dover ammettere la disfatta del proprio progetto e la necessità di mantenere intatti i ruoli e le posizioni di status guadagnate con la migrazione. Questa socializzazione anticipatoria edulcorata ha l’effetto di creare aspettative poco aderenti alla realtà e può produrre un impatto con la realtà ancora più duro e difficile per i nuovi arrivati. Esiste uno scarto evidente fra le informazioni che si possono acquisire sul lavoro che si andrà a fare e le reali condizioni in cui ci si troverà ad operare, specialmente per coloro che sono al primo impiego nel settore della cura domestica. Un aspetto che emerge è l’effettivo ruolo dei legami deboli (Granovetter, 1998) nel determinare le decisioni migratorie ancor prima della loro effettiva 62 concretizzazione: sono gli incontri con conoscenti, con vicine di casa e vecchie colleghe che sembrano essere più incisivi e più efficaci nella fase della raccolta delle informazioni, nell’aprire nuove strade e nell’indirizzare al meglio le donne interessate ad intraprendere a loro volta un’esperienza migratoria all’estero. Alcuni di questi legami sono destinati a rafforzarsi e ad approfondirsi una volta che entrambe le parti si trovano a condividere le difficoltà della lontananza dal proprio paese e dalla propria famiglia, ma la maggior parte, esaurita la loro funzione di “ponte” e mediazione si esauriscono in breve tempo. Parte delle donne immigrate giungono direttamente nel territorio siciliano, grazie ad una conoscenza o legame amicale o parentale in quest’area già preesistente alla migrazione stessa, mentre altre hanno sperimentato nel tempo forme di mobilità geografica interna all’Italia. Ad inserirsi in un primo momento nei territori dell’Italia del Sud (Campania, Calabria e Sicilia in primis), oltre a coloro che avevano specifici networks che le hanno indirizzate in quei territori, sono state tutte le donne che si sono affidate in toto alle agenzie turistiche, senza avere previ contatti con connazionali già insediate. Sono in particolare alcune grandi città a costituire i luoghi centrali di smistamento, poli logistici molto importante per la rete delle agenzie turistiche che si occupano di questo tipo di viaggi, e che diventano anche, di conseguenza, luoghi in cui si formano attività di contorno, più o meno legali, collegate al traffico e al business migratorio, spesso gestite proprio da altri migranti. È il caso delle forme di intermediariato logistico legato all’alloggio e alla ricerca del primo lavoro che vengono offerte ai neo arrivati privi di supporto e che si rivelano talvolta delle vere e proprie attività che, oltre a lucrare sfruttando i bisogni e le vulnerabilità delle persone che hanno necessità, sono collegate ad attività illegali e di sfruttamento. 5.4 Il contesto di accoglienza: il territorio ennese Con circa 173.471 (Censimento della Popolazione 2011) Enna è la provincia siciliana con minore consistenza demografica. Il territorio è poco urbanizzato e scarsamente 63 abitato con una densità di 71 abitanti per kmq, poco meno di 1/3 rispetto alla media nazionale. Il bilancio demografico della provincia è negativo, con modifiche sostanziali nella distribuzione per età dei residenti. La ripartizione per età rispecchia sostanzialmente quella italiana in generale. La provincia ennese presenta, infatti un tasso di vecchiaia vicino a quello medio italiano, sia per quanto riguarda la categoria degli over 69enni che quella dei cosiddetti “grandi anziani”, che comprende coloro che hanno più di 80 anni. Distribuzione della popolazione Censimento 2011 Provincia di Enna Età Maschi Femmine Totale 65-69 3.380 45,3% 4.079 54,7% 7.459 4,3% 70-74 3.976 45,1% 4.838 54,9% 8.814 5,1% 75-79 3.195 42,9% 4.248 57,1% 7.443 4,3% 80-84 2.385 40,8% 3.458 59,2% 5.843 3,4% 85-89 1.212 37,7% 2.002 62,3% 3.214 1,9% 90-94 319 34,0% 618 66,0% 937 0,5% 95-99 86 34,7% 162 65,3% 248 0,1% 100+ 7 33,3% 14 66,7% 21 0,0% Distribuzione della popolazione Censimento 2011 - Italia Età Maschi % Femmine % Totale % 65-69 47,3% 52,7% 3.052.238 5,0% 70-74 45,7% 54,3% 3.102.183 5,1% 75-79 42,8% 57,2% 2.533.595 4,2% 80-84 38,2% 61,8% 1.941.292 3,2% 85-89 32,2% 67,8% 1.171.062 1,9% 90-94 26,8% 73,2% 362.732 0,6% 95-99 22,1% 77,9% 122.290 0,2% 100+ 19,2% 80,8% 16.145 0,0% Tabella 5 ( Elaborazione dati ISTAT) Le condizioni del mercato del lavoro sono sfavorevoli, spiegate dalla dinamica negativa della popolazione, della quale al tempo stesso ne influenza alcuni importanti indicatori. Il fenomeno migratorio che da sempre ha colpito il territorio della Provincia costituisce la valvola di sfogo che 64 allenta le pressioni sul mercato del lavoro, ma non impedisce la crescita del tasso di disoccupazione, che è comunque il più elevato fra le 110 province (32,4%) ed oltre due volte e mezza la media nazionale (11,4%), mentre il tasso di occupazione (26,9%) è il più basso d’Italia. Se da un lato la provincia di Enna si discosta dalle medie nazionali in termini di sviluppo ed occupazione dall’altro registra indici di natalità e di vecchiaia che non si discostano dalle medie nazionali. Il tasso di vecchiaia dei residenti nei comuni e nel capoluogo risulta sempre più alto per effetto di un duplice fattore il basso indice di natalità ed un fenomeno migratorio anche a causa della preoccupante disoccupazione giovanile che porta i giovani a cercare occupazione in aree del nord o all’estero dove sono maggiori le opportunità di trovare lavoro. Nonostante il ritardo economico e sociale, la provincia di Enna, così come altre province della regione Sicilia è un’area che conosce il fenomeno dell’immigrazione femminile nel settore domestico poiché sono sempre di più le famiglie che, per garantire la cura e l’assistenza dei propri familiari anziani, si rivolgono in gran misura a donne straniere, identificate comunemente con l’appellativo “badanti”. Certamente, per quanto riguarda la provincia di Enna, si tratta di un processo abbastanza recente, che trova la sua origine nella crescente domanda di assistenza e di cura alla persona. Le assistenti familiari, sono diventate figure centrali di un welfare “privato” cui ricorrono, di fatto, le famiglie, dato il crescente bisogno di servizi rivolti alla terza età, e la limitata risposta dei servizi pubblici in tale settore. Un ulteriore dato di interesse su questo fronte è che anche nell’ area di riferimento la propensione di molte famiglie a fare ricorso al care privato è dettata dalla “cultura della domiciliarità”, ossia la tendenza a mantenere il familiare in casa evitando il ricorso a strutture pubbliche o private. Inoltre, l'evoluzione della vita familiare ed una ridotta dimensione delle famiglie determina notevoli difficoltà nella possibilità di assolvere al ruolo assistenziale, tradizionalmente svolto dalla donna a cui da sempre è stata delegata la cura di anziani e malati. 65 5.5 Il mestiere di “badante”: scelta passiva o strategia del progetto migratorio? Ma perché fare la “badante”? Perché le assistenti familiari si trovano a fare il lavoro che fanno? È la domanda di lavoro che richiama in quel settore le lavoratrici o sono queste ultime a scegliere per motivi “utilitaristici” o “strategici” questa occupazione? Dalle interviste condotte nel corso dei colloqui per la partecipazione al percorso formativo FOPSBI, emerge senza ombra di dubbio che, quello di “badante”, sia uno dei lavori più “semplici” da rimediare quando si arriva in Italia: innanzitutto la scarsa o nulla conoscenza della lingua spinge molte donne ad accettare la sistemazione presso una abitazione privata. La lavoratrice straniera avvia, dunque, la propria esperienza migratoria attraverso questo impiego e continua in molti casi, una volta acquisita esperienza, e una volta sviluppata una rete di contatti per lo più informali di collocamento nel settore, a svolgerlo presso altre famiglie. Molto spesso, infatti, queste donne hanno raggiunto, donne connazionali, amiche o parenti già inserite nel territorio. È chiaro che se il proprio “contatto” sul territorio è occupato in questo settore, la probabilità di essere inseriti, per mezzo del c.d. passaparola, all’interno dello stesso ambito sia molto alta. Il ruolo che la “rete”, sebbene fondamentale per i neoimmigrati alla ricerca di lavoro, gioca nell’indirizzare i propri afferenti a livello occupazionale, col rischio di rafforzarne la segregazione occupazionale, può essere decisivo, non solo al momento della ricerca del primo impiego, ma anche come reiterazione di questo “contatto” sul territorio. Oltre a ciò, lo status formale di straniere illegalmente presenti sul territorio – la maggior parte delle straniere dichiara di essere entrata in Italia col visto turistico e di essere rimasta alla scadenza, condizione definita di overstayer – accompagnata all’impossibilità di ottenere, attraverso un incarico lavorativo, il permesso di soggiorno, rendono la scelta di questo lavoro quasi “scontata”. La “casa” del datore di lavoro è certamente un “rifugio” molto più sicuro, in quanto pressoché avulso a controlli, rispetto ad altri ambiti lavorativi. Questa situazione non è ovviamente 66 esclusiva del nostro caso-paese, ma è confermata in letteratura da ricerche condotte in altri contesti. Ma anche abbandonando per un istante i casi – comunque non presenti all’interno del nostro campione - di donne prive di permesso di soggiorno, proviamo ad approfondire quale sia il margine di scelta, o meglio di discrezionalità che hanno le assistenti familiari nell’orientare la propria collocazione lavorativa. È vero, come evidenziato da molti lavori presentati alla letteratura di ispirazione “femminista”, che la “badante” – come i lavoratori domestici in generale – sia soggetto meramente passivo nella definizione della propria mobilità professionale nel contesto di approdo? Le tesi che vedono tali figure come mere destinatarie passive delle condizioni imposte dal contesto ricevente sembrano in alcuni casi sottostimare le motivazioni sottostanti il razionale orientamento di molte lavoratrici verso tale attività, le quali possono “scegliere” – o almeno propendere per - il lavoro “tra le mura di casa” per vari motivi: Per sentirsi più sicure: “Ero felice di lavorare in casa di una famiglia, non sapevo l’italiano, era la prima volta che mi trovavo in un paese straniero stare in casa con un’altra famiglia, anche se solo con due anziani, ma poi venivano i figli, mi faceva sentire più sicura!” (Elena, romena, 43 anni). Perché unica alternativa in assenza di adeguati strumenti linguistici e in virtù dell’età che difficilmente consentirebbe loro impieghi di altro tipo: “Cosa potevo fare? Non sapevo l’italiano, e sono vecchia, posso fare solo la badante” (Evelina, romena, 53 anni). Perché consente una compressione dei costi tali da permettere di ridurre la durata dell’esperienza migratoria: “Con il lavoro di badante ti ospitano, ti danno da mangiare, e io posso risparmiare quasi tutto e inviarlo alla mia famiglia in Romania, così devo stare meno anni qui… appena posso torno a casa!” (Mariana, romena, 52 anni). Certamente tra le motivazioni che le intervistate segnalano con maggior frequenza alla base della “scelta” del lavoro di assistente familiare c’è la difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro italiano in mancanza di sufficienti strumenti 67 linguistici. Ma se questa motivazione fosse l’unica soggiacente l’opzione per questa professione, dovremmo ipotizzare che, dopo un numero sufficiente di anni, o non appena conquistata la “regolarizzazione”, queste lavoratrici siano propense ad orientarsi verso altri ambiti del mercato occupazionale. In realtà, domandando alle intervistate se, potendo, cambierebbero mestiere, è sintomatico che la maggior parte risponda negativamente, e si dichiari disponibile a fare nuove esperienze formative per la professione di badante al fine di migliorarsi: Teodora, romena, 58 anni: laurea in informatica, separata con 2 figli che vivono con lei. Ha lavorato 4 anni in Israele come “badante”. Trasferitasi in Italia ha lavorato come commessa e badante, intende frequentare il corso di badante per migliorare personalmente e professionalmente. Toderita, 58 anni, romena: licenza media corso per tessitrice, divorziata. Proveniente da Torino dove ha un figlio sposato e dove ha lavorato per 4 anni come badante. Convive con una persona di Nissoria dove si è occupata di assistenza a bambini e ad anziani. Vuole frequentare il corso di badante per migliorarsi. Evelina, 42 anni: ha conseguito il liceo ed un corso per sarta; divorziata con due figlie sposate in Romania, è in Italia dal 2004, ha lavorato sempre come badante. Vuole frequentare il corso di badante per migliorare il suo italiano e perfezionarsi nel lavoro di assistenza. Dall’analisi dei casi riportati, le “badanti” che non pensano di cambiare occupazione sono persone di età più matura che, nella quasi totalità dei casi, non hanno figli con sé ad Enna. Nonostante questo ambito professionale presenti molti lati oscuri, in termini di diritti e garanzie spesso ignorati, è necessario leggere il fenomeno nella sua complessità. Le tesi che spiegano l’emancipazione delle donne di classe media dei paesi affluenti solo grazie ad una forte segregazione delle donne immigrate nella sfera privata e che vedono queste ultime costrette a scegliere questo lavoro essenzialmente per problemi di razzismo, lingua, clandestinità, mancanza di istruzione, sembrano, per quanto 68 condivisibili in un’ottica di riorganizzazione dei ruoli di genere a livello mondiale, poco attente a osservare tale fenomeno dall’altra prospettiva, quella delle stesse lavoratrici, le quali possono utilizzare il proprio lavoro come strategia utile ad indirizzare ed auto-definire il proprio progetto migratorio. Si tratta spesso di donne che mettono in piedi, coscientemente e volontariamente, un modello di migrazione “funzionale”, diretto alla massimizzazione delle rimesse ed alla compressione della durata dell’esperienza migratoria. L’aver lasciato i familiari in patria in occasione di alcune scelte economiche di notevole rilievo, tra cui l’istruzione dei figli, e la matura età di questi ultimi, che impedisce il ricongiungimento familiare, portano alcune di queste donne a vivere l’esperienza migratoria in funzione dell’obiettivo prioritario del proprio rimpatrio. Il quantum delle rimesse rappresenta dunque la discriminante principale per la realizzazione del proprio progetto, e la formula co-abitativa il suo principale mezzo. Con ciò non si vuole certamente appiattire il dibattito, intrapreso nel corso del presente lavoro, in merito alle forme deviate che tale pratica lavorativa può, nella quotidianità, assumere, né si vuole ovviamente sottendere che la decisione di lavorare “il più possibile” per tornare in patria “il prima possibile” legittimi situazioni di violazione delle garanzie e dei diritti di questi soggetti. Si vuole cercare, con la presente analisi, di far sì che alle assistenti familiari sia riconosciuta la capacità di essere anche artefici e non solo vittime del proprio cammino professionale, per non limitarci a guardare il fenomeno del “badantato” in una mera ottica “padrone-servo”, “sfruttatore-sfruttato”. La lavoratrice può scegliere, di retrocedere socialmente nel paese di approdo per far guadagnare alla propria famiglia una mobilità sociale nel contesto di provenienza. E ciò non è solo il frutto di una passiva rassegnazione al mercato del lavoro siciliano e italiano. Non è un caso infatti che molte di queste donne non siano interessate ad apprendere la lingua in maniera approfondita, limitandosi ad un vocabolario sufficiente alle esigenze lavorative, e non dimostrino interesse alla formazione professionale in altri settori di attività. 69 Diverso è invece il caso delle donne più giovani, intervistate che si dichiarano volenterose di cambiare occupazione. Sono lavoratrici proiettate verso la possibilità di cambiare settore di attività, ad abbandonare la professione di assistente familiare, sono aperte a corsi riprofessionalizzanti, nel campo dell’informatica, in vista di lavori di segreteria o di tipo impiegatizio. In alcuni casi sono donne orientate ad attività inerenti il settore dell’immigrazione, dove potrebbero contare sulla conoscenza linguistica come valore aggiunto, e sperano un giorno di potersi formare come mediatrici culturali. Si tratta di giovani donne fortemente motivate alla creazione di percorsi di mobilità ascendente, che usano il lavoro di assistente familiare come primario strumento di introduzione nel mercato del lavoro italiano, ma che cercano di prepararsi a cambiare strada, nella speranza di potersi ancora “rimettere in gioco”, attraverso lavori psicologicamente e fisicamente meno gravosi, o per poter mettere a frutto le proprie competenze e i propri titoli di studio. Dunque, se spesso la modalità organizzativa del lavoro in convivenza è generalmente il primo ponte verso il mercato del lavoro italiano per le donne romene, in seguito i percorsi si differenziano in base alle effettive necessità: le lavoratrici più anziane e non interessate a ricongiungimenti famigliari tenderanno a prolungare tale situazione per loro conveniente permanendo nel settore o attuando forme di mobilità orizzontale o geografica, finalizzate a cercare nuovi datori di lavoro e famiglie che possano offrire loro migliori condizioni di lavoro e stipendi più alti; le lavoratrici più giovani, invece, sia che siano senza vincoli familiari alle spalle, sia che abbiano figli e marito in patria, sono generalmente meno orientate esclusivamente al “sacrificio” e all’autosfruttamento in funzione di un guadagno e hanno un maggiore ventaglio di possibilità di fronte, anche diversi dal semplice “ritorno” in patria, che possono includere anche la possibilità di poter richiamare i figli e i mariti, se li hanno. Questa eventualità le spinge inevitabilmente a dover uscire dal circuito della convivenza lavorativa, che comporta importanti restrizioni familiari e di vita privata, cercando di inserirsi in altri settori del terziario, talvolta sempre nell’ambito assistenziale e dei 70 servizi alla persona, però entro strutture come case di riposo o hospice, svolgendo un lavoro “a ore. 6. IL CONTESTO REGIONALE E PROVINCIALE 6.1 La distribuzione degli stranieri sul territorio regionale: principali caratteristiche Sebbene i riflettori dei media si accendano sull’immigrazione in Sicilia solo in occasione degli sbarchi, da circa un trentennio la Sicilia ha assunto il ruolo di una porta che dall’Africa introduce all’Europa, facendo da ponte fra culture, etnie e religioni. È una posizione nel segno della continuità storica, visto che la Sicilia è stata sempre il crocevia di migranti provenienti dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa mediterranee per i più svariati tipi di incontri e di transiti. Quando si parla di immigrazione in Sicilia, dunque, ci si riferisce ad una realtà strutturale, che gli abitanti dell’isola hanno generalmente accettato con senso di ospitalità ed apertura. la Sicilia risulta essere tra le regioni meridionali della nostra penisola, la seconda con la percentuale più alta di residenti stranieri. Seconda solo alla Campania dove vivono 160mila stranieri, la nostra isola ospita circa 140mila tra uomini e donne provenienti dalle principali aree migratorie. In linea con le dinamiche nazionali mostrando un andamento crescente delle presenze straniere al suo interno al 1 gennaio 2011, sono stati registrati 141.904 stranieri residenti (il 2,8% della popolazione siciliana complessiva), con un aumento del +11,5% rispetto all’anno precedente e del + 187,3% rispetto al 2001 (Tab.6). Stranieri residenti in Sicilia dal 2007 al 1° gennaio 2011 e percentuali e variazioni percentuali anni 2001 e 2011. Anno 2007 2008 2009 2010 Popolazione straniera residente REGIONE SICILIA Maschi Femmine 48.055 50.097 54.389 60.243 60.751 66.559 68.147 73.757 Totale 98.152 114.632 127.310 141.904 71 Variazione 2010-2011 Variazione 2001-2011 11,5 187,3 11,5 187,3 % sulla popolazione residente totale % di femmine 52,0 2,8 Stranieri % sulla popolazione residente totale 1,0 141.90 4 % di femmine 1 GENNAIO 2011 50,9 49.399 Stranieri 2001 (a) (a) Il dato 2001 è relativo alla data del 14° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni (21 ottobre). Tabella 6. (Elaborazione su dati Servizio Statistica ed Analisi Economica Regione Sicilia e su dati ISTAT) Tale aumento si trova distribuito abbastanza uniformemente su gran parte delle province dell’isola con picchi nelle zone della provincia di Ragusa (6,6%), in ulteriore crescita rispetto al 2009, e in quella di Messina (3,6%), mentre i valori più bassi si evidenziano a Caltanissetta (2,2%) e ad Enna (1,7%). Le altre province mantengono percentuali più vicine al dato medio dell’Isola (2,8 per cento). Dai dati emerge che la maggiore crescita degli stranieri si registra a Enna dove sono quadruplicati (+307,8%, da 616 unità nel 2001 a 2.512 nel 2011); seguono Caltanissetta (+290,1% per 5.060 persone) e Agrigento (+248%; per 9.204 persone). Stranieri residenti in Sicilia per provincia al 1° gennaio 2011 (per 100 residenti) Trapani Stranieri residenti % 2,8 Palermo 2,3 Catania 2,4 Messina 3,6 Ragusa 6,6 Agrigento 2,4 Siracusa 2,7 Province Province Enna Stranieri residenti % 1,7 Caltanissetta 2,2 Tab. 7. (Fonte: “ Noi Italia : 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo” , edizione ISTAT 2012) 72 L’analisi dei dati evidenza una maggiore presenza femminile (73.757 unità) rispetto quella maschile (68.147 unità), dato in linea con quello osservato sul territorio nazionale, mentre l’età media degli stranieri residenti si aggira attorno ai 32 anni, circa 10 anni più bassa rispetto quella della popolazione complessivamente residente nella regione: la fascia d’età maggiormente presente nell’isola è quella compresa tra i 24 e i 41 anni. Ampio è il ventaglio di paesi esteri presenti in Sicilia. Dall’esame dei dati statistici, si evince che la Romania, con un totale di 40.301 immigrati, rappresenta il 28,4% del totale degli stranieri residenti in Sicilia con un aumento rispetto al 2008 del +45,9% rispetto al 2011. Seguono aree di più antica data come la Tunisia (16.885 unità ) e il Marocco (12.784 unità). Interessante notare come i romeni rappresentano la comunità straniera prevalente in tutte le province della regione, escluse Trapani e Ragusa dove la cittadinanza principale è la Tunisia. Altre comunità presentano una diffusione a macchia di leopardo e rivestono un ruolo significativo solo in alcune realtà locali. La diversa concentrazione di alcune cittadinanze a livello locale trova una probabile spiegazione nel fenomeno delle cosiddette “catene migratorie”, ossia nella forza di attrazione che la singola comunità esercita nei confronti del paese di origine e che si sostanzia nei molti casi di ricongiungimenti familiari. 73 Stranieri residenti in Sicilia appartenenti alle prime 17 comunità più numerose al 31 dicembre 2010 Popolazione straniera residente suddivisione per SESSO e CITTADINANZA REGIONE SICILIA al 31 dicembre 2010 Provenienza Maschi Femmine Totale Romania 16.301 24.000 40.301 Tunisia 11.237 5.648 16.885 Marocco 7.574 5.210 12.784 Sri Lanka 5.845 4.805 10.650 Albania 3.996 3.143 7.139 Cina Rep. Popolare 3.371 3.268 6.639 Polonia 1.196 4.613 5.809 Bangladesh 3.098 1.408 4.506 Filippine 1.834 2.667 4.501 Mauritius 1.725 2.076 3.801 Germania 535 1.442 1.977 Ucraina 315 1.610 1.925 Ghana 782 525 1.307 India 713 455 1.168 Bulgaria 425 705 1.130 Algeria 769 326 1.095 Francia 318 751 1.069 68.147 73.757 141.904 TOTALE SICILIA Tab. 8 (Fonte: Servizio Statistica ed Analisi Economica Regione Sicilia) 6.2 La popolazione straniera residente nella Provincia di Enna Nel 2010 gli immigrati in Provincia di Enna hanno raggiunto la quota di 2.874 unità di cui 1.754 donne e 1.120 uomini, mostrando un trend in linea tanto con le tendenze regionali quanto nazionali dove la componente femminile supera quella maschile. Nell’arco di tre anni, la Provincia ha subito un incremento degli stranieri nel suo territorio pari al 56, 79% e del 12% rispetto l’anno precedente. Relativamente alla provenienza a livello provinciale, l’analisi dei dati della Tab. 9 mostra, in linea con l’andamento 74 regionale, una forte predominanza degli stranieri provenienti dalla Romania (1.556 unità), seguiti da quelli marocchini e tunisini. Rispetto al 2008, il territorio ha visto un aumento del 37,33% di rumeni , del 30,63 % di residenti marocchini e del 20,58 % di tunisini. Sebbene la Romania sia la comunità straniera prioritaria nella Provincia, un ulteriore dato altrettanto significativo è quello relativo ai cinesi che, nell’arco di soli due anni, sono aumentati del 43,96%. Popolazione straniera residente nella Provincia di Enna per sesso e cittadinanza: prime 17 comunità al 1 gennaio 2011. Popolazione straniera residente suddivisione per SESSO e CITTADINANZA Provincia Enna al 1° gennaio 2011 Provenienza Maschi Femmine Totale Romania 535 1.021 1.556 Marocco 140 150 290 Tunisia 123 82 205 Cina Rep. Popolare 85 82 167 Germania 34 74 108 Albania 35 28 63 Filippine 18 43 61 7 47 54 Polonia Belgio 13 28 41 Francia 7 11 18 India 3 15 18 Russia Federazione 2 13 15 Brasile 4 11 15 Sri Lanka 5 9 14 4 8 12 12 - 12 Serbia Bangladesh Stati Uniti 6 6 12 Tabella 9 (Fonte: Servizio Statistica ed Analisi Economica Regione Siciliana) Il numero degli stranieri presenti nel territorio provinciale è costituito in massima parte: per quanto riguarda i cittadini comunitari, da rumeni, da tedeschi e polacchi; per quanto concerne, invece, i cittadini extracomunitari, da marocchini, tunisini, cinesi, filippini e da albanesi. 75 6.3 La popolazione straniera nella provincia di Enna per genere ed età Dall’analisi dei dati relativi alla presenza della popolazione immigrata nel territorio della Provincia di Enna il dato riferito al genere ed alla fascia di età registra che su un totale di 2.874 (Tab. 10) il 61% è di genere femminile, di cui il maggior numero è compresa tra la fascia di età che va dai 30 ai 49 anni rappresentando il 45% della popolazione straniera femminile. Nell’ottica di evidenziare le caratteristiche della presenza di immigrati nel nostro territorio va segnalato, dunque, il forte processo di femminilizzazione infatti, considerando la comunità romena (la più numerosa) il rapporto di genere fa registrare, al 1° gennaio 2011, cinquanta uomini ogni cento donne. Un ulteriore dato altrettanto significativo è che la fascia di età maggiormente rappresentata non può essere riconducibile a quella giovanile ma ad una fascia di età che supera la soglia dei trent’ anni. Tali caratteristiche non si discostano dai dati che si registrano a livello nazionale e regionale. Popolazione straniera residente nella Provincia di Enna al 1 Gennaio 2011 per sesso e fascia d’età Popolazione straniera residente - PROVINCIA ENNA 1 gennaio 2011 Fascia d’età 0-9 10-19 20-29 30-39 40-49 50-59 60-69 70-79 80-89 90-99 100+ Totale Maschi 148 111 260 271 199 98 22 11 0 0 0 1.120 Femmine 135 129 375 406 385 241 54 23 6 0 0 1.754 Totale 283 240 635 677 584 339 76 34 6 0 0 2.874 Tabella 10 (Elaborazione su dati Ufficio Statistica e Analisi Economica Regione Siciliana) 76 6.4 Popolazione straniera residente nei singoli comuni della Provincia di Enna Relativamente alla situazione rilevata in ciascun comune, è emerso che la maggiore concentrazione di detti stranieri è registrata nel comune Capoluogo, seguito da Piazza Armerina. In particolare, i dati rilevati in tali comuni sono i seguenti: Popolazione straniera residente per sesso Comuni Provincia di Enna al 1° gennaio 2011 Comune Agira Aidone Assoro Barrafranca Calascibetta Catenanuova Centuripe Cerami Enna Gagliano Castelferrato Leonforte Nicosia Nissoria Piazza Armerina Pietraperzia Regalbuto Sperlinga Troina Valguarnera Caropepe Villarosa Totale comuni Prov.Enna Maschi Femmine Totale 39 21 16 43 22 68 30 8 268 10 47 75 7 262 16 74 6 36 43 36 54 39 56 74 84 51 12 436 30 67 109 16 378 22 78 9 65 83 75 75 55 99 96 152 81 20 704 40 114 184 23 640 38 152 15 101 126 29 55 84 1.120 1.754 2.874 Tabella n. 11. (Elaborazione su dati Ufficio Statistica e Analisi Economica Regione Siciliana) 77 Distribuzione degli stranieri residenti per paese di provenienza nei singoli comuni della Provincia di Enna Gli stranieri residenti ad Agira al 1° gennaio 2011 sono 75 e rappresentano lo 0,9% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 34,7% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente ad Agira Grafico 1 Comune di Agira: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011 78 Gli stranieri residenti ad Aidone al 1° gennaio 2011 sono 75 e rappresentano il 1,5% della popolazione residente La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 48,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Polonia (16,0%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente ad Aidone Grafico 2 Comune di Aidone: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011 79 Gli stranieri residenti a Barrafranca al 1° gennaio 2011 sono 99 e rappresentano lo 0,8% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 60,6% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Repubblica Popolare Cinese (19,2%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Barrafranca Grafico 3 Comune di Barrafranca: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011 80 Gli stranieri residenti a Calascibetta al 1° gennaio 2011 sono 96 e rappresentano il 2,0% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 81,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Calascibetta Grafico 4 Comune di Calascibetta: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza Fonte: elaborazione Tuttoitalia su dati Istat 2011 81 Gli stranieri residenti a Catenanuova al 1° gennaio 2011 sono 152 e rappresentano il 3,0% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 67,8% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Tunisia (17,8%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Catenanuova Grafico 5 Comune di Catenanuova : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 82 Gli stranieri residenti a Centuripe al 1° gennaio 2011 sono 81 e rappresentano il 1,4% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 86,4% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Centuripe Grafico 6 Comune di Centuripe : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 83 Gli stranieri residenti a Cerami al 1° gennaio 2011 sono 20 e rappresentano lo 0,9% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Tunisia con il 45,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguono Romani (30%) e Germania (15%) La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Cerami. Grafico 7 Comune di Cerami : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 84 Gli stranieri residenti a Enna al 1° gennaio 2011 sono 704 e rappresentano il 2,5% della popolazione residente La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 39,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dal Marocco (30,1%) e dalla Tunisia (9,5%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Enna Grafico 8 Comune di Enna : distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 85 Gli stranieri residenti a Gagliano Castelferrato al 1° gennaio 2011 sono 40 e rappresentano il 1,1% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 70,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Gagliano Castelferrato. Grafico 9 Comune di Gagliano C.to: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 86 Gli stranieri residenti a Nicosia al 1° gennaio 2011 sono 184 e rappresentano il 1,3% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 66,8% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Repubblica Popolare Cinese (6,5%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Nicosia Grafico 10 Comune di Nicosia: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 87 Gli stranieri residenti a Nissoria al 1° gennaio 2011 sono 23 e rappresentano lo 0,8% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 69,6% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Nissoria Grafico 11 Comune di Nissoria: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 88 Gli stranieri residenti a Piazza Armerina al 1° gennaio 2011 sono 640 e rappresentano il 3,0% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 50,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Germania (9,4%) e dalla Repubblica Popolare Cinese (7,8%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Piazza Armerina. Grafico 12 Comune di Piazza Armerina: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 89 Gli stranieri residenti a Pietraperzia al 1° gennaio 2011 sono 38 e rappresentano lo 0,5% della popolazione residente La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 60,5% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. la piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Pietraperzia. Grafico 13 Comune di Pietraperzia: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 90 Gli stranieri residenti a Regalbuto al 1° gennaio 2011 sono 152 e rappresentano il 2,0% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 53,9% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Tunisia (19,1%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Regalbuto. Grafico 14 Comune di Regalbuto: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 91 Gli stranieri residenti a Sperlinga al 1° gennaio 2011 sono 15 e rappresentano il 1,7% della popolazione residente La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dall'Albania con il 73,3% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. la piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Sperlinga. Grafico 15 Comune di Sperlinga: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 92 Gli stranieri residenti a Troina al 1° gennaio 2011 sono 101 e rappresentano il 1,0% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 61,4% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Tunisia (10,9%). la piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Troina. Grafico 16 Comune di Troina: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 93 Gli stranieri residenti a Valguarnera Caropepe al 1° gennaio 2011 sono 126 e rappresentano il 1,5% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 57,9% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dalla Repubblica Popolare Cinese (15,9%) e dal Marocco (15,1%). La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Valguarnera Caropepe. Grafico 17 Comune di Valguarnera: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 94 Gli stranieri residenti a Villarosa al 1° gennaio 2011 sono 84 e rappresentano il 1,6% della popolazione residente. La comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 69,0% di tutti gli stranieri presenti sul territorio. La piramide delle età con la distribuzione della popolazione straniera residente a Villarosa. Grafico 18 Comune di Villarosa: distribuzione degli stranieri per paese di provenienza 95 Note: I cittadini stranieri residenti: sono le persone di cittadinanza non italiana aventi dimora abituale in Italia e che risultano iscritte nelle anagrafi comunali; L’incidenza della popolazione straniera: costruita rapportando i cittadini stranieri residenti al 1° gennaio di ciascun anno al totale dei residenti alla stessa data. La variazione percentuale: è ottenuta rapportando gli stranieri che si sono aggiunti nel corso di un anno di calendario agli stranieri residenti al 1° gennaio dello stesso anno. 96 INDICE Premessa Capitolo 1 - IL PERCORSO MIGRATORIO 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 Definizione di migrante La normativa in materia di immigrazione Le migrazioni in Italia Le principali cittadinanze: uno scenario multietnico La distribuzione degli stranieri sul territorio: un mosaico complesso Gli stranieri nel mercato del lavoro Capitolo 2 - IL RUOLO ECONOMICO E SOCIALE DELL’IMMIGRAZIONE 2.1 2.2 2.3 I principali effetti dell’ immigrazione Una rassegna della letteratura sugli effetti dell’immigrazione Il contributo dell’immigrazione alla tenuta del sistema di protezione sociale Capitolo 3 - L’ IMMIGRAZIONE FEMMINILE IN ITALIA 3.1 3.2 3.3 La femminilizzazione dei flussi migratori L’Italia come meta delle donne migranti La presenza delle donne immigrate nel mercato del lavoro e concentrazione nel settore domestico Capitolo 4 - IL LAVORO DOMESTICO E DI CURA: UN SETTORE FORTEMENTE SEGMENTATO PER GENERE ED ETNIA 4.1 4.2 4.3 Le caratteristiche del lavoro domestico Un lavoro “da donne”: le immigrate nel settore domestico e di cura Un’attività poco regolata: il sommerso nella ‘care economy” Capitolo 5 - IL PROGETTO MIGRATORIO 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 Il paese di partenza: la Romania I momento pre-migratorio: le cause e la costruzione di un progetto Il momento dello spostamento: il viaggio, gli intermediari, le agenzie, i debiti e le destinazioni Il contesto di accoglienza: il territorio ennese Il mestiere di “badante”: scelta passiva o strategia del progetto migratorio? Capitolo 6 - IL CONTESTO REGIONALE E LOCALE 6.1 La distribuzione degli stranieri sul territorio regionale: principali caratteristiche 97 6.2 6.3 6.4 La popolazione straniera residente nella Provincia di Enna La popolazione straniera residente nella Provincia di Enna per genere ed età La popolazione straniera residente nei singoli comuni della Provincia di Enna Bibliografia 98 BIBLIOGRAFIA Ambrosini M., Un’altra globalizzazione. transnazionali, il Mulino, Bologna, 2008 La sfida delle migrazioni Ambrosini M., Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005 Ambrosini M., Gli immigrati nel mercato del lavoro: il ruolo delle reti sociali, in Stato e Mercato, n. 60, dic. 2000 Caponio T., Colombo A. 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