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PA S S I O N I P E R L A V I TA
proposte di attività sulle passioni
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introduzione
DI COSA SI TRATTA
OBIETTIVO GENERALE: Accompagnare i ragazzi
ad una presa di coscienza più solida delle passioni
che li muovono per suggerirne una direzione costruttiva e positiva. Tutto questo ha sullo sfondo il tema
della misericordia, intesa qui anzitutto come il quotidiano prendersi cura di Dio nel cammino di ogni persona verso la felicità
e libertà.
METODO: proponiamo 8 proposte di attività a
partire da altrettante passioni che, come dicevano gli antichi, sono vive dentro ogni persona e
che, se non vengono usate bene, rischiano di far “naufragare” chi le vive.
Ogni gruppo le può affrontare tutte,
ma anche una soltanto se ritenesse di
doverla approfondire maggiormente con i propri ragazzi. Suggeriamo però che siano
i ragazzi a scegliere quelle da affrontare nel gruppo.
Come staff daremo qualche strumento per costruire
il percorso, ma sarà compito degli educatori di arricchirlo, integrarlo, modificarlo in base alle esigenze
del gruppo.
Il percorso si conclude sabato 14 Maggio nella Veglia diocesana di Pentecoste che sarà strutturata
come una grande celebrazione della misericordia di
Dio, comprendente anche uno spazio importante per
la celebrazione del sacramento del perdono. Nella
proposta del pre-veglia con inizio alle ore 18.00 ci
sarà lo spazio perché ogni gruppo condivida il lavoro
fatto.
Sarà compito dei capi e degli educatori procurarsi
le bende preparate dalla staff diocesana che, dopo
essere state utilizzate nel gruppo, verranno utilizzate
durante la Veglia di Pentecoste.
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SCHEDA 1
ACCIDIA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
PER ENTRARE “IN MEDIAS RES”
“L’occhio è continuamente fisso alle finestre, la mente fantastica su visitatori: la porta
cigola, e quello salta fuori; sente una voce, e spia dalla finestra, e non se ne allontana,
finché non è costretto a sedersi tutto intorpidito. Quando legge, sbadiglia spesso, ed
è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani, e, ritirando gli
occhi dal libro, fissa il muro; poi di nuovo, rivolgendoli al libro, legge ancora un poco,
poi, spiegando le pagine, le gira, conta i fogli, calcola i fascicoli, biasima la scrittura e
la decorazione; infine, chinata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo risveglia e lo spinge ad occuparsi dei suoi bisogni.”
(Evagrio Pontico: 345 - 399 d.C)
“La giornata sembra allungarsi smisuratamente, le visite si fanno attendere, la solitudine pesa con tutta la sua noia, il luogo si rivela inospitale, il lavoro massacrante; il clima
insalubre a causa di tutti i malanni. Torna alla memoria la cattiveria dei fratelli vicini che
non cessano di moltiplicare le mancanze di riguardo. I superiori sono noti per la loro
incomprensione. La più piccola indisposizione diventa preoccupante: ci si precipita a
letto. Anche lo sforzo della lettura è troppo”. (Evagrio Pontico, 345 - 399 d.C)
“Ecco l’accidia che vagabondava qua e là. Da lontano si accorge degli altri vizi e accorre
tutta esultante, dichiarando loro di aver a lungo cercato qualcuno con cui parlare e di
rallegrarsi grandemente di averlo trovato. “Che cos’hai di così importante da dirci?”, le
domandano. “Niente - replica quella - ma cerco di ammazzare il tempo in chiacchiere e
poco importa quali. Perché se passo la giornata a chiacchierare o a girovagare, muoio
di noia. Custodire il silenzio mi fa l’effetto di una tortura… Quanto a lavorare con le mie
mani, questo non è mai stato secondo il mio cuore. Lo sproloquio per me è una festa, il
sonno una delizia; vagabondare e divagare, ecco ciò che mi dà forza! Ascoltare pettegolezzi, vedere cose nuove, che felicità per i miei occhi! Vorrei che ogni giorno si cambiasse l’autorità, ci fossero leggi nuove, modifiche nelle istituzioni, per avere in questo
qualche rimedio alla mia noia. Perché ho in orrore tutto ciò che dura; aborrisco vedere
qualcosa restare nella medesima situazione” (Galand di Reigny)
“Chi è l’homo dormiens? E’ colui che vive al di qua delle sue possibilità, vive nella paura,
banalmente, superficialmente, orizzontalmente più che in profondità; è pigro, negligente, si lascia vivere; è colui che vive come se avesse a disposizione un interminabile
lasso di tempo; è colui che si sottrae alla fatica di pensare e di interrogarsi; che non ha
passione, non è toccato da nulla: per lui tutto scontato; è colui che non aderisce alla
realtà e agli altri, ma resta nella sonnolenza, anzi ha fatto del non vedere, del non sentire, del non lasciarsi toccare e interpellare la condizione del suo vivere” (Enzo Bianchi)
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L’accidia, come più in generale quello dei vizi, è un tema caro alla riflessione dei monaci. Tra tutti. oltre al già citato Evagrio, si ricordano Ugo di San Vittore, Pseudo-Macario,
Giovanni Climaco, Nilo di Ancira.
Quint’essenza di tutte le altre passioni, veleno alla sorgente dell’energia spirituale, l’accidia è raffigurata dai monaci mediorientali come il “demone di mezzogiorno”, ovvero
quel momento della giornata che va dalle dieci del mattino alle due del pomeriggio e
che a causa dell’eccessivo caldo paralizza ogni tipo di attività. Questo tempo opprimente è anche metafora dei momenti di crisi e di ripensamento nella vita di ogni persona, tra
occasione di un salto di qualità o di regressione.
A differenza degli altri pensieri malvagi (loghismói) che si riferiscono a una specifica dimensione dell’uomo, (o corporale, o psichica, o spirituale) l’accidia sferra una battaglia
globale alla persona.
“Gas inavvertito in ogni angolo dell’Occidente” (Pietro Citati), più sorniona e meno brutale della tristezza, incide invece profondamente sulla personalità ed è considerata il
male del nostro tempo (G. Bunge, Akedía. Il male oscuro).
È costituzionalmente instabile, è pronta a cambiare faccia quando le circostanze lo richiederanno presentandosi in modo diverso a seconda dei casi; sfugge a ogni tentativo
di inserirla in un sistema preciso, anche perché presenta aspetti che si contraddicono
l’un l‘altro. Per capire meglio che cosa sia, più che a una definizione da vocabolario (dal
greco akedía, “noncuranza”, composto di α privativa e kêdos, “cura”) è utile rifarsi alle
sue varie facce, cause e sintomi allo stesso tempo.
Accidia è….
- Indifferenza (Che importa se dico questa parola? Che importa se mangio questo boccone? Che importa se mi interesso di questa faccenda? Chi me lo fa fare? Ne vale veramente la pena? A che pro?)
- Pigrizia dello spirito
- Dormiveglia spirituale
- Sonnolenza fuori tempo
- Appesantimento del cuore
- Asfissia, suicidio dell’anima
- Noia
- Tedio
- Apatia, torpore
- Tiepidezza
- Conformismo
- Neutralità appiattita, paura nel valutare oggettivamente secondo criteri etici
- Superficialità
- Indolenza, passività
- Svuotamento di senso
- Negligenza
- Distrazione
- Divagazione
- Deserto spirituale
- Ozio
- Paralisi nell’agire
ACCIDIA
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- Procrastinazione
- Vaniloquio, chiacchiera
- Radicale scoraggiamento
- Paura di affrontare la vita con le sue frustrazioni
- Incapacità di accettarsi
- Disistima
- Ripiegamento su se stessi
- Incapacità di rendere grazie, di riconoscere quanto di buono dà la vita
- Depressione
- Insoddisfazione, disgusto per ciò che si ha,
- Fuga (da sé, dall’ambiente, dagli altri, dal presente che evita di vedere se stessi in profondità
e quindi anche...
- Bramosia diffusa per ciò che non è a portata di mano
- Ricerca di nuove emozioni
- Necessità di cambiamenti continui
- Scalata alla carriera
- Attivismo, sovraffaticamento, occupazione continua (anche con attività poco rilevanti,
o perfino caritatevoli che distolgono da ciò che invece si vuole evitare)
- Paura di lasciare spazi vuoti da impegni
- Preoccupazione eccessiva per il proprio corpo, per la salute fisica
- Vertigine davanti al vuoto tra l’anima e Dio, e l’impotenza a saltarlo o semplicemente
a sopportarlo
Prospettiva spirituale
Estinguere il male in radice è frutto della sinergia tra libera volontà dell’uomo e la grazia
di Dio. Solo la potenza divina è in grado di sradicare il peccato e il male, suo compagno.
Se tu fossi già in grado di vincere il male, che bisogno c’era della venuta di Gesù?
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
1) Audio - video - testi
- Giorgio Gaber: Lo shampo
- Claudio Baglioni: Opere e omissioni
- Vasco Rossi: La noia
- Umberto Galimberti: Noi, figli dell’accidia
www.ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/2001/0/02/noi-figli-dell-accidia.htlm
- Pierangelo Sequeri: www.avvenire.it/Cultura/Pagine/vizicapitali4accidia.aspx
- Attilio Lolini: La testa sul cuscino
- Adalberto Piovano: Accidia S. Paolo, 2011
- Roberto Benigni: La Divina Commedia
- Papa Francesco nell’omelia: no ad un cristianesimo senza entusiasmo
https://www.youtube.com/watch?v=k9YDlyVlx3I
- Papa Francesco nell’omelia: seguire Gesù, non fare del turismo esistenziale
https://www.youtube.com/watch?v=k9YDlyVlx3IPapa
ACCIDIA
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2) Ricerche
- ricercare nella propria realtà (città, paese, nazione) episodi di “accidia sociale”, ovvero
di noncuranza, di situazioni di degrado o di mancato intervento civile, politico, ecclesiale.
3) Spunti biblici: parole, opere, OMISSIONI
- Hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono
- Il vostro parlare sia sì sì e no no.
- Padre, allontana da me questo calice
- Si fece prendere da una profonda tristezza
- Poiché non sei né caldo, né freddo, io ti vomito
4) Lavoro personale
Trovare relazioni, punti deboli e di forza considerando le sfere sotto indicate e i vari (o qualcuno) aspetti dell’accidia e proporre/proporsi qualche attività concreta per contrastarla.
- Sfera relazionale: famiglia, amicizie, social network & new media
- Sfera civile/impegno: Scuola - Lavoro; Accidia pubblica
- Sfera spirituale: Personale (percorso, progressione, guida spirituale, preghiera, S. Messa,
Sacramenti), Comunitaria (gruppo, parrocchia, oratorio, diocesi, preghiera comunitaria)
5) Domande guida
- Qual è il mio rapporto con il tempo? Lo utilizzo al meglio?
- So organizzarmi la giornata, il lavoro, un periodo?
- Riesco a portare a termine un impegno, un lavoro, uno studio?
- Do il meglio di me in ciò che faccio?
- So assumermi responsabilità? Mi pongo degli obiettivi?
- Come affronto una situazione scomoda? (lavoro, impegno, compito, rapporti sociali)
- Sono sbrigativo, cerco di riflettere il giusto tempo, tendo a rimandare o a demandare ad altri?
- Ho momenti prolungati di noia?
- Qual è il mio rapporto con i social network? Quanta parte della mia vita occupano?
- Che cosa mi succede quando non posso essere connesso con gli altri?
- Nel gruppo mi sforzo di dare il mio contributo? Tendo a farmi coinvolgere o resto ai limiti?
- Mi impegno perché le cose attorno a me cambino in meglio?
- Ritengo che tutto mi sia dovuto?
- Ho uno spirito costruttivo o solamente critico?
- Ho una mia opinione sulle cose? La comunico agli altri?
- Aspetto che siano gli altri a fare il primo passo?
- Cerco e coltivo legami stabili e significativi di amicizia e di affetto?
- Nutro interessi superficiali o provo ad approfondire le cose? Mi accontento di quello
che so già?
- Riesco a testimoniare la mia fede? Riesco a fare rinunce in nome di miei valori o ideali?
- Con quale tipo di partecipazione frequento la Chiesa?
- Riesco a gioire per le piccole cose di ogni giorno? So rendere grazie?
- Sto percorrendo un cammino spirituale per comprendere il progetto di Dio su di me?
- Sono consapevole che per vincere la tentazione dell’accidia occorre non solo la mia
determinazione, ma soprattutto l’apertura all’opera del Signore?
ACCIDIA
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SCHEDA 2
AVARIZIA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
L’avarizia non è solo la volontà di non spendere, ma il desiderio irrefrenabile di accumulare per se stessi beni e ricchezze senza la volontà di condividere, è l’apoteosi dell’egoismo. L’avarizia è la mancanza di carità e generosità. Secondo il filosofo Umberto
Galimberti il desiderio dell’avaro non va mai al di là del denaro, perché agli occhi dell’avaro il denaro non è un mezzo per qualcos’altro, ma un fine in sé, anzi la forma pura del
potere che il denaro possiede alla sola condizione di non essere speso. Insomma, per
l’avaro vale l’equazione ho=sono il valore della mia persona dipende in modo strutturale dal denaro che possiedo. Ma, attenzione! Questo denaro non è fatto per essere
speso, bensì per essere conservato. E qui sta il paradosso, infatti, se spendo il denaro, – così ragiona l’avaro – viene meno anche il mio potere, non posso più crogiolarmi
nella certezza che il denaro che ho accumulato mi possa servire in qualsiasi momento
del futuro. In pratica, tramite il denaro, l’avaro crede di poter controllare il futuro, quasi
come un “secondo Dio”. Così facendo, però, sacrifica tutta la sua esistenza in una sorta
di immobilismo perenne: nessun divertimento, nessun interesse culturale, nessun investimento affettivo, niente di niente. Resta solo un ingente quantità di denaro inutilizzato
per esorcizzare l’imprevedibilità del futuro: il denaro che possiedo, senza spendere una
lira, costituisce la mia assicurazione sulla vita! Ecco perché l’avaro muore due volte, o, se
si preferisce, rinuncia a quell’unica vita che gli è concessa dagli dei. L’avaro, rinunciando
alle innumerevoli possibilità dell’esistenza, vive nella continua angoscia che il denaro
da lui accumulato possa essere intaccato, sottraendogli, così, la sua falsa convinzione di
potere controllare il futuro e, forse, anche la morte.
Matteo 6,19-21
Gesù disse “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e
dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né
ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov`è il tuo
tesoro, sarà anche il tuo cuore”.
Matteo 6 (24-34)
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché
o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non
potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita,
di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la
vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo:
non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste
li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare
anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come
crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche
Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba
del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente
di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa
berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di
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Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno
basta la sua pena».
Matteo 10, 1-42
Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e
di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: primo,
Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo
fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e
Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, che poi lo tradì. Questi dodici Gesù li
inviò dopo averli così istruiti: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. E strada facendo,
predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i
lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio,
né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. In
qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e
lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella
casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la
vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi.
In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sòdoma e Gomorra avrà una sorte
più sopportabile di quella città. Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate
dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini,
perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro
e ai pagani. E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come
o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete
dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il
fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori
e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà
sino alla fine sarà salvato. Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra; in
verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio
dell’uomo. Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo
padrone. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!
Non li temete dunque, poiché non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato,
e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo
nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti. E non abbiate paura
di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna. Due passeri
non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che
il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati;
non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri! Chi dunque mi riconoscerà
davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che
è nei cieli. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto
a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separareil figlio dal padre, la figlia
dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
AVARIZIA
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Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più
di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno
di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa
mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha
mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi
accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche
solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Matteo 19, 1-29
Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di
là del Giordano. Molta gente lo seguì e là egli li guarì.
Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a
un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». Egli rispose: «Non avete
letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo
lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne?
Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha
congiunto». Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio
e di ripudiarla?». Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso
di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia
la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette
adulterio». Gli dissero i suoi discepoli: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla
donna, non conviene sposarsi». Egli rispose loro: «Non tutti capiscono questa parola,
ma solo coloro ai quali è stato concesso. Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal
grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono
altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca». Allora gli
furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli
li rimproverarono. Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a
me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli». E, dopo avere imposto loro
le mani, andò via di là.
Ed ecco, un tale si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere
la vita eterna?». Gli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno
solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». Gli chiese: «Quali?». Gesù
rispose: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il
falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso». Il giovane gli
disse: «Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?». Gli disse Gesù: «Se vuoi
essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo;
e vieni! Seguimi!». Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti
molte ricchezze.
Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel
regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago,
che un ricco entri nel regno di Dio». A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e
dicevano: «Allora, chi può essere salvato?». Gesù li guardò e disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile».
Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che
cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele.
Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per
AVARIZIA
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il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi
saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi.
Luca 12, 15-21
E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è
nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni». Disse poi una parabola: «La
campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra se: Che
farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. poi dirò
a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia,
bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua
vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per se, e non
arricchisce davanti a Dio».
San Francesco di Sales nella “Introduzione alla vita devota” sostiene che «siete avari se
desiderate a lungo, ardentemente e con inquietudine i beni che non avete».
Desiderare a lungo:
L’avaro teme costantemente di non possedere abbastanza; dunque, esita sempre a
dare. E se dà, il suo spirito elabora conti. Arpagone ( protagonista dell’avaro di Moliere)
non smette mai di pensare, parlare, contare e ricontare i soldi della sua cara cassetta.
Desiderare ardentemente:
Nel desiderio di denaro vi è un che di infinito. Se ne vuole sempre di più! Tutte le persone che possiedono in abbondanza si considerano ancora troppo povere, portano
sempre i propri desideri al di là e oltre di ciò che possiedono.
Desiderare con inquietudine:
Il taccagno non mette più la sua sicurezza in Dio, ma nei suoi averi. L’avaro è inquieto,
ansioso, sempre e sistematicamente. Il ricco, anche quando non soffre alcuna perdita,
ha paura di soffrirne. Una volta acquisita la ricchezza, rimane l’inquietudine di conservare tutto ciò che è stato acquisito con tanta fatica.
Atti degli Apostoli 20, 17-19, 32-35
Da Milèto, Paolo mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando
essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo
giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei.
Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e
di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la
veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno
provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si
devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è
più gioia nel dare che nel ricevere!”.
Prima lettera di Paolo a Timoteo 6,7-10
Fratelli, non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. 8
Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. 9
Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione.
10 L`attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio
alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori.
AVARIZIA
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ALCUNI SPUNTI DALLA LETTERATURA….
Inferno di Dante
Canto primo:
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
Temp’era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.
Nel canto 1 dell’opera il poeta descrive lo smarrimento del protagonista nella selva del
peccato, richiamando il lettore al significato morale che sarà centrale nel testo: il cammino dell’anima di ogni uomo, rappresentato dal pellegrino Dante, verso la salvezza
può essere ostacolato da un periodo di traviamento morale nel corso della propria vita.
Il poeta nella selva tenebrosa capisce di aver smarrito la strada verso la salvezza e cerca
di lottare contro l’oscurità del peccato per raggiungere la redenzione della propria anima; ma Dante perde la speranza di salvarsi quando la sua strada sarà ostacolata da tre
fiere: una lonza, un leone e una lupa. Le tre fiere ostacolano il cammino di Dante e gli
impediscono la salita al paradiso spingendolo nella selva oscura; rappresentano i vizi,
che nella vita di ogni uomo portano al peccato e quindi alla rovina virtuosa dell’anima.
Ma quali sono i tre vizi rappresentati dalle fiere? La lonza, il simbolo della lussuria, il leone è l’allegoria della superbia, che insieme all’invidia sono ritenute da Dante il principio
di ogni male, sono peccati naturali e preliminari a tutti gli altri e quindi già “incorporati”
nell’animo degli uomini dopo il Peccato Originale. Infine la lupa, simbolo della cupidigia e dell’insaziabile avidità degli uomini verso gli onori e i beni materiali: un peccato
che non corrode solo l’anima degli esseri umani in quanto individui ma anche in quanto
rappresentanti delle istituzioni civili ed ecclesiastiche. La lupa viene rappresentata magrissima perché insaziabile; più accumula e più è insoddisfatta. Tra tutte e tre le fiere è
sicuramente la più feroce. L’avarizia fa parte dei peccati di incontinenza cioè di coloro
che non riescono a trattenere le proprie passioni, causata dal sopraffarsi del desiderio
alla ragione.
Benigni – 1° Canto Inferno
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Canto settimo:
Così scendemmo ne la quarta lacca
pigliando più de la dolente ripa
che ‘l mal de l’universo tutto insacca.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
Percoteansi ‘ncontro; e poscia pur lì
questi resurgeranno del sepulcro
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una».
Il canto settimo è quello degli avari e dei prodighi.
A guardia del quarto cerchio c’è il mostro Pluto (dal greco “ricchezza”) il Dio Pagano della Ricchezza. Nel cerchio sono presenti due schiere di peccatori. La pena per analogia
che gli viene inflitta, è quella di spingere con il petto dei grossi massi lungo la circonferenza del cerchio, gli avari che provengono da destra e i prodighi da sinistra, quando
si incontrano si insultano a vicenda. Questi peccatori sono obbligati a spingere del materiale inerte, perciò sono obbligati a svolgere un lavoro inutile, come nella vita hanno
accumulato ricchezze inutilmente. In questo canto Dante se la prende con gli uomini di
Chiesa. Già nel 1300 desiderava che la Chiesa seguisse il vero spirito Evangelico cioè
quello di una Chiesa povera, tema tanto caro a Papa Francesco.
La Roba – La Storia di Mazzarò – di Giovanni Verga
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e
i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo,
nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna,
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e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi
magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo,
e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di
Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva
all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si
allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso,
e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come
un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi
di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna
si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano
adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso
nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le
immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore
echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino
il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò
fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla
pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato
un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come
facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco
come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.
Infatti, colla testa come un brillanle, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima
veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento;
senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di
avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte
le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero
diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta
nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di
feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e
di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli
del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua
bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo
di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino
grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre
i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la
campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde
giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del
tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un
fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello
delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era
costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava
senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci
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vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore,
col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento.
Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei
corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le
sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che
vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue
vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò.
Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e
la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro
la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava
a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e
per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che
bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché
lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia
soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli
sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la
notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a
sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue
mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse
al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua
roba. Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol
stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato
il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli
armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e
gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora
e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco.
- Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il
barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare -. Invece
egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare
la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a
cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai
suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e
costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e
infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che
lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto
vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era
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vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone
gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non
sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante
fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che
era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per
fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e
voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a
vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare,
per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre
a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa,
che Mazzarò se l’acchiappava - per un pezzo di pane. - E quante seccature Mazzarò
doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che
mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per
scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non
avevano da mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini
pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di
fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo
rispondeva che non l’aveva.
E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far
fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa.
Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena
metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva
arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può
ne venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla
là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne
che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come
un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo
seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il
suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi!
costui che non ha niente! Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima,
uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone
le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! La roba è una novella di Giovanni Verga pubblicata nel 1883 che fa parte della raccolta
Novelle rusticane. In questa novella il contadino Mazzarò riesce a diventare un ricco
possidente. Tuttavia anche da ricco vive come un pezzente. Verga esaspera nella novella i concetti del duro lavoro e dell’attaccamento ai beni materiali, poiché in ogni caso il
destino inevitabilmente travolge l’uomo. L’ossessione di Mazzarò è di espandere sempre di più i suoi possedimenti, avere sempre più “roba”, alla quale è legato in maniera
morbosa. Il suo attaccamento ai beni materiali è così forte e lo hanno reso così schiavo
che quando gli comunicano che si avvicina il momento di separarsene poiché si trova
in punto di morte, grida Roba mia, vientene con me!
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Racconto di Natale di Dino Buzzati
Tetro e ogivale è l’antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un
supplizio nelle notti d’inverno. E l’adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c’è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono,
ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la
malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina
ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio
scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina.
Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L’arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato
solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi
far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente
abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l’arcivescovo, le navate ne
rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando
le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle
balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l’inginocchiatoio
del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale.
Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. “Chi bussa alle porte
del Duomo” si chiese don Valentino “la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?” Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata
divento entrò un poverello in cenci.
“Che quantità di Dio! “ esclamò sorridendo costui guardandosi intorno “Che bellezza!
Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. “
“E’ di sua eccellenza l’arcivescovo” rispose il prete. “Serve a lui, fra un paio d’ore. Sua
eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a
Dio! E poi io non sono mai stato monsignore.”
“Neanche un pochino, reverendo? Ce n’è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!”
“Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico” e congedò il poverello
con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento,
don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c’era neppure
lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all’improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d’ore l’arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza.
Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c’era traccia di Dio. Dalle mille finestre
accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non
campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n’andò per le strade profane, tra fragore di scatenati
banchetti. Lui però sapeva l’indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica
stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l’un l’altro e intorno ad essi
c’era un poco di Dio.
“Buon Natale, reverendo” disse il capofamiglia. “Vuol favorire?”
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“Ho fretta, amici” rispose lui. “Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete
in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno.”
“Caro il mio don Valentino” fece il capofamiglia. “Lei dimentica, direi, che oggi è Natale.
Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino.”
E nell’attimo stesso che l’uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio,
biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi,
ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
“Ma che cosa fa, reverendo?” gli domandò un contadino. “Vuoi prendersi un malanno
con questo freddo?”
“Guarda laggiù figliolo. Non vedi?”
Il contadino guardò senza stupore. “È nostro” disse. “Ogni Natale viene a benedire i
nostri campi.”
“ Senti “ disse il prete. “Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza,
perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l’arcivescovo possa almeno
fare un Natale decente.”
“Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi.”
“Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu
mi dica di sì.”
“Ne ho abbastanza di salvare la mia!” ridacchiò il contadino, e nell’attimo stesso che lo
diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell’atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all’orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in
ginocchio nella neve. “Aspettami, o Signore “ supplicava “per colpa mia l’arcivescovo è
rimasto solo, e stasera è Natale!”
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto
stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d’angelo, un raggio di luce filtrava nella
nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi
lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
“Fratello” gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli “abbi pietà di
me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un
poco, ti prego.”
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece,
se era possibile, ancora più pallido.
“Buon Natale a te, don Valentino” esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. “Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei
andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”
Racconto di Natale di Dino Buzzati è apparso nella raccolta “La boutique del mistero”,
pubblicata nel 1968. La raccolta risente dell’influenza surrealista e l’autore si sofferma
a descrivere il senso dell’esistenza. Descrive così il significato autentico del Natale, che
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consiste nella condivisione dell’amore divino, attraverso una rappresentazione paradossale dell’egoismo umano. Il protagonista, don Valentino, ha scacciato un mendicante dalla cattedrale ricolma di Dio durante la notte di Natale e non riesce più a percepire
la presenza divina.
Aristotele condanna l’avarizia in quanto capovolge l’ordine sociale, facendo si che tutto obbedisca solo al denaro. L’avaro è un cittadino parassita, un cittadino che non dà
niente a nessuno. Per Aristotele ne sono figlie l’usura, la spogliazione di vivi e di morti,
la rapina.
Cicerone afferma che l’avarizia rende “gretti d’animo”. L’uomo soffoca quell’attitudine
dell’anima che rende benevoli, “liberali” verso gli altri.
Alcune brevi storielle:
Il fumo e l’arrosto
Nelle città orientali vi sono strade in cui i cuochi preparano le pietanze più squisite sul
posto, e la gente si affolla intorno alle loro bancarelle per mangiare e far acquisti. Ad
una di queste bottegucce ambulanti, si avvicinò un giorno un povero saraceno. Non
avendo denari per comprarsi qualcosa, allungò il suo pane sopra una teglia di arrosto,
lo impregnò del fumo appetitoso che ne usciva, e se lo mangiò avidamente.
Ma proprio quella mattina, il cuciniere non aveva fatto buoni affari ed era di malumore.
Perciò si rivolse con ira al povero saraceno e gli disse: «Pagami quello che ai preso».
«Ma io dalla tua cucina non ho preso altro che fumo», rispose il poveretto. «E tu pagami
il fumo!» tuonò il cuoco inviperito.
La cosa finì in tribunale. Il Sultano chiamò a raduno tutti i saggi del regno e propose
loro di risolvere la questione. Cominciarono dunque a discutere e sottilizzare: chi dava
ragione all’uno col pretesto che il fumo appartiene al padrone dell’arrosto, e chi all’altro,
sostenendo che il fumo è di tutti, come l’aria che si respira.
Finalmente, dopo lunghe perplessità, la sentenza fu questa: «Dacché il povero ha goduto il fumo, ma non ha toccato l’arrosto, prenda una moneta e la batta sul banco. Il
suono della moneta pagherà il cuciniere».
Così fu fatto. In cambio del fumo dell’arrosto, il cuoco ebbe il suono della moneta.
Il club del novantanove
C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre
con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto
della tua allegria?».
«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi.
Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo
e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela». «Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».«Che cosa significa?». «Fa’
quello che ti dico...».
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo
tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta...
novantanove! Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta
mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».
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Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i
mobili... Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli
ricordava che aveva novantanove monete d’oro. Soltanto novantanove. «Novantanove
monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un
numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».
La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta,
avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove...
Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre
di cattivo umore.
Le tre monete
Un giovane uomo desidera entrare in un monastero. Il maestro dei novizi gli pone alcune domande per cercare di comprendere se è davvero deciso ad abbandonare il
mondo:
«Se avessi tre monete d’oro, le daresti ai poveri?». «Sì, padre, di tutto cuore».
«E se avessi tre monete d’argento?». «Ben volentieri!».
«E se avessi tre monete di rame?». «No, padre».
«Perché?». «Perché le ho!».
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
Alcuni libri
I vizi capitali e i nuovi vizi – Umberto Galimberti
Racconto di Natale – Charles Dickens
Alcune canzoni
Quello che ho di Fabrizio De ‘Andre
Avarizia di Enrico Ruggeri
Alcune domande per riflettere
Possedere dei beni è più che legittimo, ma cosa succede quando questi beni si impossessano di noi o diventano quasi un’ossessione?
Tutti i peccati si basano su un desiderio naturale e anche il desiderio di possedere è un
desiderio naturale? Quando questo desiderio diventa peccato?
Come è possibile riconoscere l’avarizia e distinguerla dalla semplice prudenza?
Che cosa è il bene comune?
Oltre a quella materiale esiste anche l’avarizia spirituale? Se si che cosa è?
Come pensi si possa “guarire” da questo vizio? Quale può essere la cura?
AVARIZIA
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SCHEDA 3
LA GOLOSITÀ
GOLA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
Solo dal XVI° secolo il termine goloso ha assunto il significato di “colui che ama la buona cucina ed è esigente in materia di cibo”. In precedenza il termine significava “che
mangia con voracità, in maniera eccessiva”.
Golosità e digiuno
La motivazione va ricercata nel fatto che l’elenco dei vizi capitali si è costituito progressivamente a partire dai conventi e dai monasteri e concerneva le tentazioni alle quali
monaci e suore erano particolarmente esposti. Dal momento che facevano voto di
castità, povertà e ubbidienza, è plausibile che fossero inclini a “compensare” cedendo
al piacere del buon cibo. D’altra parte il cristianesimo ha sempre lodato le virtù del
digiuno, già presente nell’ebraismo e in altre religioni.
Quando si parla di peccato capitale si intende “di testa”, cioè che genera altri peccati:
la golosità può infatti generare invidia e cupidigia. Era tanto più insidiosa e difficile da
vincere in quanto, a differenza della lussuria, è legata alla soddisfazione di un bisogno
naturale, il bisogno di nutrirsi, ancora più imprescindibile del bisogno sessuale. La
golosità faceva fantasticare gli anacoreti e i monaci dei primi secoli dell’era cristiana
ancora di più della sessualità.
La Bibbia è piena di esempi che riguardano la golosità: a cominciare dal racconto della
caduta di Adamo ed Eva, in cui si parla del frutto che appare “buono per nutrirsi e bello
da vedere”. Allo stesso modo Gesù nel deserto viene tentato da Satana prima ancora
che riguardo al potere, riguardo alla possibilità di nutrirsi, trasformando le pietre in
pane e ponendo così fine al digiuno di 40 giorni. Altri esempi biblici mostrano quanto
la “gola” abbia un ruolo decisivo in determinati racconti. È il caso di Noè, che sperimentò gli effetti inebrianti del vino e, di conseguenza, svelò ai suoi figli la propria nudità, o Lot che in preda all’ubriachezza si lasciò andare a rapporti incestuosi con le figlie,
o ancora Esaù che rinunciò alla primogenitura per un piatto di lenticchie. Fu ancora per
golosità che il popolo ebraico, in viaggio verso la Terra promessa, desiderò mangiare
(Numeri 14,2) qualcosa di diverso dalla manna che Dio gli mandava e rimpianse i cibi
più gustosi dell’Egitto in cui era schiavo. E per golosità il ricco Epulone (nome che non
compare nel testo biblico, ma è stato dato al ricco malvagio dalla tradizione), il cui
comportamento è descritto da Gesù in una delle sue parabole (Luca 16,19-31), si rimpinzava lasciando il povero Lazzaro a morire di fame davanti alla sua porta.
Perché la golosità è considerata un peccato? La golosità mette in luce altre questioni
ad essa strettamente connesse: che relazione ha l’uomo con il cibo che ingerisce e digerisce nel suo corpo? Come accetta il fatto di essere costretto, per nutrirsi, a attentare
alla natura e a uccidere animali? Come mai nella maggior parte delle religioni ci sono
tabù alimentari? Come comprendere il carattere quasi universale dei rituali di digiuno?
Nei primi capitoli della Genesi Dio incoraggia l’uomo a nutrirsi e gli affida la missione
di coltivare la terra. Ma il problema sorge in quanto mangiare procura piacere e la
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golosità inizia là dove il piacere di mangiare prevale sul bisogno naturale di nutrirsi
per recuperare le forze e soddisfare la fame. Ci si domanda perché per natura l’essere
umano abbia questo “incentivo” a mangiare, causato dal piacere. Una risposta è quella
fornita dal Dizionario di teologia cattolica: “Il piacere naturale che accompagna il fatto
di mangiare e di bere è destinato a farci amare e desiderare queste attività legittime e
a farci amare un’operazione (quella di mangiare) che senza di esso ci ripugnerebbe”.
Ciò che è considerato una colpa non è dunque l’atto del mangiare in quanto tale, ma la
ricerca del piacere fine a se stesso. Il Dizionario aggiunge: “Godere di un certo piacere
quando si mangia a sazietà e si beve a volontà non è proibito, ma la ricerca del piacere
fine a sé stesso è considerata una colpa”.
Oggi come ieri il cibo è percepito come parte del sacro, del tabù, ma anche della lordura. Del sacro perché è considerato come il primo dei doni degli dei, della Provvidenza e della natura; del tabù perché l’alimentazione, dopo essere stata regolamentata dal
religioso, oggi lo è dalla dietetica ecologista (che ha peraltro molti tratti religiosi); e
della lordura perché fa ingrassare, fa ammalare e suscita la golosità.
Oggi le innumerevoli prescrizioni della dietetica, dell’ecologia, delle etichette “bio”,
dei regimi vegetariani, della macrobiotica (dottrina dietetica vegetariana che predica
l’equilibrio tra lo yin e lo yang) sostituiscono convenientemente le regole e i tabù delle
religioni ancestrali sugli alimenti puri e impuri.
La golosità è la voluttà e il piacere di mangiare senza averne il bisogno.
La golosità è - come la lussuria e la pigrizia - la ricerca di un piacere e di una voluttà
fisica senza che vi si sia spinti da un bisogno fisiologico e naturale.
Altri spunti
I vizi capitali - la Gola (Don Riccardo Gobbi)
https://www.youtube.com/watch?v=501U6klG7PU
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
Raccogli (o fai raccogliere ai tuoi ragazzi), più informazioni possibili sulla quantità di
cibo che il nostro corpo necessita per sopravvivere. Puoi dividere in vari gruppi e assegnare ad ognuno, alcune specificità. Esempio: ad un gruppo gli zuccheri, ad un altro i
carboidrati, le proteine, le vitamine, ecc.
Puoi far riflettere sul fabbisogno giornaliero del nostro corpo e, per contro, quello che
ingeriamo realmente (magari anche solo per golosità).
GOLA
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SCHEDA 4
IRA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
L’ira... A evocarla basta il Diesirae nella fantasmagoria di un non realistico ultimo giorno. E si tratta non di vizio ma di virtù, direi. La coppa (cf Ap 14,10; 16,19) della giustizia
finalmente riversata, sconvolgente nella inadeguatezza sua tremenda al limite nostro di
creature ... Non me ne si voglia se parto proprio da una locuzione fortemente evocativa
e in certo modo disperante, quella dell’ira di Dio (cf Ap 6,17), del giudizio inappellabile
dinanzi alla nostra incapacità di corrispondergli, di ascoltarne la voce, di accoglierne la
proposta...
Ma proprio l’evocazione dell’ira divina il vino del furore della sua ira (Ap 16,19); le sette
coppe dell’Apocalisse (cf Ap 15,7; 16,1) ci mette subito dinanzi all’ambivalenza dell’ira.
Vizio nella misura in cui colpevolmente si abiura alla serenità del proprio giudizio e si
soccombe a istintualità primaria, a radicale incapacità di auto controllo e di ragionamento. Tutt’altro che vizio, invece, se risposta adeguata a ciò che ferisce nel profondo
l’essere umano e il progetto di Dio, come tale attribuibile a Dio non meno che al santo.
Quando adirarsi è necessario
Come non adirarsi, ossia come non insorgere di fronte a tutto ciò che deturpa nell’uomo
l’immagine di Dio? Come non adirarsi dinanzi al tradimento colpevole che del progetto
di Dio compie, nei singoli o collettivamente, la comunità da lui voluta, da lui amata, da
lui salvata? Mi si dirà che non si tratta tanto di ira quanto di sdegno. Ebbene la furia, la
collera non è minore nel profeta o in Dio stesso dinanzi al fraintendimento della divina
misericordia.
Questo nostro potrebbe ben essere chiamato tempo dell’ira, tempo nel quale collettivamente occorrerebbe insorgere perché la Chiesa torni a mostrare il volto che le è
proprio: significare, promuovere, testimoniare la divina misericordia. Invece, perdiamo
tempo in questioni marginali. Ci crogioliamo su dettagli insignificanti. Facciamo i filosofi
anziché i testimoni. Ecco, tutto ciò chiede sdegno, sdegno violento; chiede invettiva.
Per dirla con Giovanni Crisostomo: «Pecchi, se non ti prende l’ira quando è necessario»
(In Matth. Il; su Mt 5,22). Non ci possono essere dubbi, il verbo usato è proprio “pecchi”!
Tacere, far finta di niente, lasciar correre, diventa peccato, anche se d’omissione. Quale
che sia la tipologia, non cambia la sostanza: pecca il cristiano quando è connivente,
vuoi nei confronti del mondo, vuoi nei confronti della Chiesa,anche se peccatrice pur
nel paradosso della santità a lei donata.
Chi scrive si adira facilmente. Fa fatica a misurare le parole, proprio quando la tocca nel
profondo la distanza interposta tra la bellezza del progetto e la sua realizzazione. Con
furia, davvero con furia, strapperei dalla Chiesa ciò che la oscura, ciò che la rende poco
credibile. La mia ira tocca soprattutto la zona ambigua della connivenza tra la cristianità
e ciò che la nega e l’offende. Perché cercare “teologi” tra gli atei devoti ad esempio?
Perché cercare sponsor presso coloro che programmaticamente sacrificano sé stessi e
gli altri al totem del profitto? Perché addivenire sempre ai poteri forti in nome di aleatori
vantaggi? Perché lamentarsi pigramente della presa di congedo dalla fede, quando a
promuoverla è stata la programmatica rimozione dei valori cristiani proprio a opera di
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quanti per puro calcolo si sono detti cristiani?
Il disegno di Dio non è negoziabile. Il Vangelo non è negoziabile. La buona novella ai
poveri non è negoziabile. Occorre gridarlo, non tacerlo. Non si possono stabilire gerarchie di comodo per un fallace tornaconto. Siamo sempre pronti a condannare chi
prova a dialogare con gli snodi del presente, mai facciamo altrettanto con chi corrompe le coscienze non con strumenti nobili, ma semplicemente offrendo con naturalezza
modelli degradanti. Il relativismo sarà pure una questione da filosofi, nei fatti è il veleno
mai condannato come tale ogni giorno inoculatoci dal pulpito delle Tv commerciali, e, a
ragione dell’audience, anche dalla Tv di Stato. No, il cuore non ci porta da nessuna parte, se la sua logica è quella liquida del disimpegno, dell’assenteismo, della dismissione
della responsabilità, della sensatezza del giudizio...
L’ira che mi commuove, lo si comprende bene, è passione, passione viva, inestinguibile
verso il Vangelo. E’ domanda di profezia testimoniale. E’, ancora e sempre, urlare: «Guai
a me, se non evangelizzo!». No, non ci possono essere compromessi. La radicalità cristiana non lo consente!
L’ira è sempre un male?
L’ira però è anche altro. Gregorio Magno distingue l’ira per zelo dall’ira per vizio. La
prima turba l’occhio della ragione, la seconda lo acceca (cf Moralia V, 45). Secondo gli
antichi maestri se c’è un appetitus pro bono – la passione, appunto, lo zelo c’è anche un
appetitus ex malo . Va anche detto però che questa distinzione non vede tutti d’accordo.
Dall’antichità pagana, ad esempio, ci giungono le letture diametralmente opposte di
Aristotele e Seneca. Il primo ritiene l’ira addirittura necessaria, perché senza il suo apporto non è possibile affrontare alcuna battaglia. Afferma pure che dell’ira occorre fare
buon uso, ponendola a nostro servizio e non viceversa. Arrabbiarsi è facile osserva nell’
Etica a Nicomaco ma non è da tutti arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, al momento giusto e per una giusta causa ...
Di parere opposto Seneca che all’ira ha dedicato uno dei suoi trattati morali. Per
quest’ultimo l’ira è sempre un male. Il fatto di controllarla non la libera dalla sua intrinseca negatività.
Dal nostro punto di vista, quello dei vizi capitali, l’ira è in senso stretto peccato perché
aliena profondamente il soggetto umano riconducendolo sulla soglia dell’animalità.
Nell’ira si abdica a ciò che ci connota sono o no homo sapiens sapiens? In gioco, anzi
offesa, è la capacità di discernere e giudicare, di riflettere con oggettività, di esprimere giudizi sensati su persone cose situazioni. Al riguardo, ancora Giovanni Crisostomo
afferma che tra l’ira e pazzia non c’è alcuna differenza. Nulla c’è di più turpe di un volto
furioso, nulla è più deformante il volto e la persona (cf In Joh 48). E pittorescamente
Gregorio Magno (cf Moralia 5) traccia l’identikit dell’iracondo: il cuore accelera e palpita; il capo trema; la lingua gli si inceppa; gli occhi gli escono dall’ orbita; non riconosce
le persone conosciute; la bocca urla; niente si capisce di ciò che dice ...
Più e più volte negli autori antichi viene chiamato in causa Mt 5,22. In questione è l’adirarsi contro il fratello. E, purtroppo, in questione non è solo l’esuberanza verbale,
l’insulto, sempre più graffiante. L’ira produce anche questo, ma produce l’omicidio, la
soppressione fisica di colui dal quale a ragione o meno si crede di ricevere un torto insopportabile e insostenibile, tale da comportare la fine stessa di chi ce lo ha fatto.
L’ira, più o meno motivata, la provocazione grave, nell’immaginario sociale ha avallato
IRA
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la vendetta e con essa il delitto, rendendolo plausibile, addirittura dovuto. Dal duello
al delitto d’onore c’è solo l’imbarazzo della scelta. In genere, così almeno le scienze
dell’uomo, a muovere all’ira nelle sue forme patologiche e incontrollate non è tanto una
ragione esterna, quanto un insanato conflitto interiore. Lo esprime bene Dante nel canto XVII del Purgatorio, dove per contrappasso sente come in un soffio le parole: «Beati
/ pacifici, che son sanz’ira mala!» (vv. 6869).
Esattamente all’ opposto sono dunque le “figlie dell’ira”: rissa, tracotanza, insulto, clamore, indignazione, bestemmia.
Si può vincere l’ira? Ascoltiamo Seneca: «Lotta con te stesso: se vuoi vincere l’ira, essa
non può vincere te. Cominci a vincerla se la nascondi, se non le dai modo di venir fuori.
Nascondiamo le sue manifestazioni e teniamola per quanto possibile nascosta. Ciò avverrà con nostro grande fastidio, perché essa desidera erompere e accendere gli occhi
e mutare il volto; ma se le permettiamo di uscir fuori, ci dominerà ... Combattiamo tutti
i suoi indizi, ricomponiamo il volto, addolciamo la voce, allentiamo il passo. A poco a
poco l’interno si conformerà all’esterno…. ..» (Sull’ira, III,l3)
(da Vita Pastorale, n. 6, 2009)
IRA: il volto ambivalente della collera
(Enzo Bianchi - 7 luglio 2012)
Collera? Ira? In realtà ci sono collere, ire al plurale, che non solo si manifestano in modi
molto diversi tra loro, ma nascono da motivazioni molto diverse. Le accomuna il loro
essere frutti di una passione che ci assale come un vento impetuoso, che emerge come
un bollore improvviso dal nostro intimo e divampa come un fuoco divorante, avendo
come bersaglio l’altro, gli altri. Si tratta del vizio visibile per eccellenza, capace di sfigurare chi ne è preda, producendo anche effetti psicosomatici: fa perdere il fiato, genera
una sensazione di soffocamento, e non è dunque casuale che la Bibbia per indicarla si
serva dell’espressione «brevità di respiro» (Pr 14,17).
Ciò che è comune alle collere – insisto sul plurale – è dunque la focosità, la dinamica
dell’impeto che porta chi vive questa passione «fuori di sé», l’epifania, la manifestazione che si impone alla vista degli altri, perché si mostra fisiologicamente nel volto e nei
gesti di tutto il corpo: il viso diviene rosso, gli occhi si accendono e paiono fulminanti, i
muscoli facciali diventano tirati, la bocca si apre facendo apparire i denti serrati e compressi gli uni sugli altri, il parlare è concitato, urlato, non originato dal respiro ma da una
forza selvaggia e animalesca, le braccia si muovono con gesti minacciosi. Insomma, tutto il corpo sembra teso verso un’esplosione da cui occorre stare il più lontano possibile.
Ecco perché si parla di «scoppi d’ira», di «sfoghi di collera», di «impeti», di «incendio
divorante»... Il fatto che la collera sia palese fa sì che chi soffre di questa patologia, se
proprio non è cieco, di essa si vergogni, perché gli altri conoscono e misurano questa
sua deformazione. Forse è questo il motivo per cui l’ira è un vizio da cui ci si può correggere più facilmente: la sua evidenza «pubblica» induce a disciplinarsi, a correggersi, a
pentirsi di essere stati trasportati da essa a compiere gesti inconsulti.
Ma va messo in evidenza anche un altro dato: al di là della dinamica che unisce tra loro
le diverse forme di collera e ira, tra queste forme vi sono differenze tali che si può anche
parlare di «santa» collera, di giusta collera e, al contrario, di ira funesta; di «collera di
Dio» e, al contrario, di collera omicida degli uomini. Oggi restiamo perplessi o addirittura scandalizzati di fronte alle numerose affermazioni bibliche che ci parlano di un
IRA
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Dio in collera, ma dobbiamo cercare di comprendere il linguaggio di tre millenni fa: un
linguaggio in cui, attraverso il ricorso alla collera di Dio, si cerca di dire che Dio ha un
pathos, una passione, che non è insensibile, apatico, lontano dagli uomini e dalle loro
sofferenze. Il grande male è l’indifferenza, e Dio non la conosce. La sua collera ci dice, in
forma paradossale, che Dio è vicino all’uomo; egli non solo vede e conosce la sua sofferenza (cf. Es 2,25), ma conpatisce, consoffre con l’uomo attraverso la passione dell’amore.
Soffermiamo però a trattare dell’ira come vizio, di cui Paolo scrive: «Andate in collera,
ma non peccate; il sole non tramonti sulla vostra ira» (Ef 4,26; cf. Sal 4,5). L’ira è un vizio quando diviene una presenza costante nei nostri rapporti con gli altri; quando è
il segno del disprezzo e dell’odio nutriti verso l’altro in quanto tale; quando contiene
l’intenzione dell’annientamento e della distruzione dell’altro. La collera è in tal caso la
negazione della relazione e della responsabilità; è la contraddizione per eccellenza alla
comunicazione, al dialogo, all’incontro, all’alleanza; è il terreno su cui germina l’aggressività e si sviluppa la violenza verso l’altro. Essa corrisponde allora all’atteggiamento
giudicato da Gesù alla stregua di un omicidio (cf. Mt 5,2122). Del resto, non è un caso
che il primo peccato fraterno testimoniato dalla Bibbia sia l’ira di Caino – «Caino andò
molto in collera (lett.: “s’infiammò, bruciò”) e il suo volto cadde a terra» (Gen 4,5) –, che
ebbe come esito l’omicidio di Abele suo fratello (cf. Gen 4,38).
Per questo Giacomo dichiara che «la collera dell’uomo non realizza la giustizia di Dio»
(Gc 1,20), con parole che costituiscono un chiaro monito: chi nella collera offende il
fratello, non pensi di sostituirsi in tal modo a Dio nel giudizio o nella riparazione della
colpa, vera o presunta tale. La collera infatti può accendersi contro gli altri quando essi,
soprattutto coloro che amiamo, deludono le nostre aspettative, non ci assecondano
nell’immagine che abbiamo di loro o non ci considerano come noi vorremmo; oppure,
più sottilmente, quando scopriamo in loro dei difetti che non sopportiamo in noi stessi.
Quando si è preda di questi sentimenti, si reagisce fuggendo gli altri, e chiudendosi
in sé, sdegnati con il mondo intero… In breve: se la collera diviene un habitus, essa
genera il pensiero che «gli altri sono l’inferno» (JeanPaul Sartre), e finisce per minare
l’accoglienza dell’altro nella sua diversità e nella sua verità, fino a recidere ogni possibilità di comunione. Ed è in questo senso che l’ira talora è indirizzata anche all’Altro per
eccellenza, Dio, fino alla bestemmia e al sacrilegio, quando egli pare resistere ai nostri
desideri e alle immagini che nutriamo di lui.
Un vizio senza rimedio, allora? No di certo, anche se il cammino per sconfiggere la collera è lungo e impegnativo in quanto richiede la capacità di porsi una domanda radicale: chi è l’altro per me? È una persona con cui entrare in relazione, di cui essere custode
(cf. Gen 4,9), oppure è qualcuno da dominare a mio piacimento, fino a negare la sua
stessa esistenza (cf. Gen 4,8)? E i cristiani dovrebbero ricordare la risposta che viene
dalla fede: l’altro è «un fratello per cui Cristo è morto» (1Cor 8,11), e pertanto occorre
porre il rapporto con lui davanti al Signore.
È proprio qui che si situa l’atteggiamento definito dal Nuovo Testamento col termine
makrothymía , quella capacità di pazienza, di sentire in grande, che è un attributo di
Dio e, per l’uomo, è l’arte di convivere con l’imperfezione e l’inadeguatezza presenti in
lui, negli altri e nella realtà; pazienza che significa anche sopportare, cioè sup-portare e
sostenere gli altri nelle loro debolezze, che prima o poi sono anche le nostre. Ciò può
condurre fino alla sottomissione reciproca, nella fede che gli altri, nella loro diversità e
alterità, sono per noi il grande dono del Signore.
IRA
1) Proposta filmica
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
IL FUOCO DELLA VENDETTA
(Out of the Furnace)
Genere:Drammatico
Regia: Scott Cooper
Interpreti: Christian Bale, Casey Affleck, Woody Harrelson, Zoe Saldana, Sam Shepard,
Willem Dafoe, Forest Whitaker, Tom Bower.
Nazionalità: Stati Uniti
Distribuzione: Indie Pictures
Anno di uscita: 2014
Origine: Stati Uniti (2013)
Durata: 116’
Giudizio: Complesso/violento
Tematiche: Famiglia - fratelli, sorelle; Giustizia; Lavoro; Malattia; Violenza;
Soggetto: Indiana, metà degli anni Ottanta. Appena uscito di prigione, Russell vorrebbe riprendere il lavoro nella fornace e ricominciare una vita tranquilla. Succede
che suo fratello minore, rediuce dall’Afghanistan, attraversa un periodo di estrema
debolezza caratteriale. Attratto da facili guadagni, si fa coinvolgere nella boxe clandestina, ma resta schiacciato dal giro e viene eliminato. Russell non può fare a meno di
organizzare la vendetta...
Valutazione Pastorale: L’America rurale profonda, quella che è da sempre l’altra faccia
del divertimento e dello svago, è palcoscenico di esistenze difficili e ruvide, di conflitti
duri, di conti estremi da regolare. In una sintesi drammatica ed esistenziale, la felicità
abita lontano, e certi scenari rimandano direttamente al titolo/slogan dei fratelli Coen
“Non è un paese per vecchi”. Ogni volta che cerca la tranquillità, Russell è obbligato a
riscrivere il proprio destino, stretto nella ricerca di un riscatto tanto obbligato quanto
spietato. Il copione calibra con attenzione i passi di questo percorso che porta alla tragedia, quasi aumentando i toni della tensione fino all’inevitabile climax senza ritorno. La
regia scandisce immagini di aspro lirismo, certo coerenti ma non prive di un certo, gratuito compiacimento, sfiorando gli eccessi di una poetica a rischio di qualche retorica.
In una cornice di altalenante efficacia, resta che il traliccio portante della trama è il senso
della vendetta come unica forma per regolare i rapporti sociali e umani. Per questo, dal
punto di vista pastorale, il film è da valutare come complesso e decisamente violento.
Utilizzazione: il film può essere utilizzato in programmazione ordinaria, ben tenendo
conto del prevalente taglio narrativo improntato a crudeltà e uccisioni spesso feroci.
Molta attenzione di conseguenza è da tenere per minori e piccoli in vista di passaggi
televisivi e di uso di dvd e di altri supporti tecnici.
RIO 2096 UNA STORIA D’AMORE E FURIA
( Rio 2096 Uma historia de amor e furia )
Genere:Film d’animazione
Regia: Luiz Bolognesi
Interpreti: Abeguar, Janaina, Piatà.
Nazionalità: Brasile
Distribuzione: GA&A Productions s.r.l.
IRA
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Anno di uscita: 2014
Origine: Brasile (2013)
Durata: 74’
Giudizio: Consigliabile/problematico
Tematiche: Ecologia; Guerra; Male; PoliticaSocietà; Potere; Storia; Violenza;
Soggetto: Un uomo, nato indios e mai morto, viene prescelto dagli dei come portatore
di una missione che travalica epoche e popoli: salvare il mondo dal male. Ad ogni morte apparente, il guerriero si tramuta, assumendo le sembianze di un uccello che vola
attraverso il Brasile. A guidarlo c’è il legame con Jananina, la donna che ama e amerà
per 600 anni. Ecco allora i quattro momenti storici fondanti del Paese: la scomparsa
degli indios per mano portoghese nel 1500,la schiavitù nel 1800, la dittatura negli anni
‘70 del ‘900, e la Rio de Janeiro futuristica del 2096 distrutta dalla guerra per l’acqua.
Valutazione Pastorale: Brasiliano, già autore di film e documentari, Bolognesi precisa
che “due elementi soprattutto mi appassionano molto: la storia del Brasile e i fumetti.
Ho deciso allora di raccontare il Brasile in modo da incuriosire i giovani e avvicinarli alla
storia del nostro Paese, pieno di amore e furia(...) la storia è inventata ma basata su una
serie di leggende provenienti dagli indiani Tupi Guarani, tra cui i Tupinambas”. L’andamento narrativo è quello del poema storico fatto di simboli e di metafore, tutto riletto
con taglio ruvido, marcato, sottolineato. Il disegno, avvolto in linee squadrate e nervose
e plasmato su una cromatura tendente allo scuro, sa essere qua e là inquieto e visionario ma non evita ripetizioni e qualche noia espressiva. Emerge una linea storicopolitica
che impronta di sé le varie scelte del protagonista e indica anche un atteggiamento ribelle e ben legato a precise scelte culturali con un andamento più didascalico che vivace. Esperimento difficile e tuttavia originale per un film che, dal punto di vista pastorale,
è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e, meglio, in occasioni
mirate, per appassionati di animazione con tratti di novità. Animazione da indicare per
un pubblico adulto, meno per minori e piccoli.
LA RABBIA GIOVANE
La rabbia giovane è un film del 1973 diretto da Terrence Malick , al suo debutto nella
regia, qui anche sceneggiatore, produttore ed interprete in un piccolo ruolo.
La storia è vagamente ispirata a un fatto di cronaca nera degli anni cinquanta , la serie
di omicidi in Nebraska e Wyoming commessi dalla coppia dei giovani Charles Starkweather e Caril Ann Fugate.
Soggetto: 1959 , Fort Dupree, Dakota del Sud. L’insoddisfatto venticinquenne Kit Carruthers ( Martin Sheen ), che si atteggia a James Dean ma deve adattarsi ai lavori più
sgradevoli (spazzino, manovale in un macello), inizia una relazione con la quindicenne
Holly ( Sissy Spacek ), affascinato dal suo sguardo innocente sulla realtà. Il padre di lei (
Warren Oates ) esprime tutta la propria disapprovazione per questo sconveniente rapporto prima uccidendo il cane della figlia adolescente, poi affrontando direttamente
Kit: il ragazzo, senza alcuna esitazione, lo uccide in presenza di Holly, che accoglie con
totale indifferenza la morte dell’unico genitore.In un primo momento i due provano a
vivere in solitudine, in mezzo alla natura selvatica, ma l’idillio ha breve durata, quando
vengono scoperti dalla polizia iniziano una fuga per le praterie di Dakota del Sud e
Montana, durante la quale Kit lascia dietro di sé una scia di sangue, uccidendo con totale distacco emotivo chiunque sembri rappresentare una minaccia.
IRA
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Quando Holly decide di non seguirlo più in quella che aveva affrontato come una romantica avventura per poi scoprire una realtà ben diversa, Kit continua la fuga da solo,
ma presto si lascia catturare, senza neppure tentare di superare il confine con il Canada.
Lui viene condannato a morte, lei dopo aver scontato una pena leggera sposa il figlio
del proprio avvocato.
2) Proposta musicale
FRANCO BATTIATO , Stage door ( 1a versione -2011)
Mi sembra di viaggiare
che non riesco a vivere
in zone rarefatte del pensiero,
con te né senza di te,
dove si affina
credimi.
la mia disposizione a vivere
Perché noi siamo liberi
che si inebria di stili e discipline.
di fare quello che vogliamo
In un insieme
di uccidere, struprare rapinare
irridente di parche voglie,
e vomitare critiche insensate
celebro il mio vanto
parlare e dire solo sempre
i miei sensi la mia unicità.
inutili cazzate
Furono giorni
per un bisogno quotidiano di tensione
di stanchezza assurda e depressiva,
In questo sfoggio naturale di pazzia
di una totale mancanza di lucidità.
ci si può difendere
Quando ti chiedi
innestando il modo dell’indifferenza
in qualche letto sconosciuto,
contro questa crescita esponenziale
che cosa hai fatto
di follia e di violenza
e perchè vivi in tanta estraneità.
o ritornare indietro
Sapessi che dolore l’esistenza
all’antica pazienza
che vede nero dove nero non ce n’è.
o ritornare indietro...
Il fatto è che non posso più
(...)
tornare indietro
3) Proposta narrativa
Alessandro Baricco - CASTELLI DI RABBIA (ed. Feltrinelli)
Il primo libro di narrativa di Baricco: il romanzo è ambientato nell’Ottocento, in una
cittadina immaginaria, Quinnipak; è generoso nel presentare storie e personaggi, ciascuno con i suoi sogni e caratteri. E tra questi ci sono il signore e la signora Rail, che si
amano di un amore tutto loro, e il bambino Penth con il suo amico Pekisch, e due bande
che partono dagli estremi del paese per incontrarsi. La narrazione è costruita come un
montaggio cinematografico e orchestrata come una partitura musicale.
Feige Marcel - IL ROMANZO DI KURT COBAIN (ed. Sonda)
“Kurt stava ingaggiando una lotta contro i propri demoni interiori, soprattutto contro le
droghe. Lottava contro il successo, contro la fama, contro le aspettative che il mondo
là fuori - i fan, la casa discografica, i media - nutriva nei suoi confronti. Per tacitare quei
pensieri tormentosi, ma anche per lenire il bisogno, sempre presente in lui, di farsi in
vena, si buttò sull’alcol e le pillole... nulla in confronto alla fuga inebriante garantita
dall’eroina. Più prendeva le distanze dalla droga, più la desiderava. Si odiava, per questo”. Dietro il mito di Kurt Cobain si nasconde un ragazzo segnato da un’infanzia instabile e dolorosa, pieno di talento ma così inquieto da trovare sollievo solo nella musica - e
nelle droghe.
IRA
29
Questa biografia narra la sua breve esistenza senza voyeurismo né luoghi comuni. Si
legge come un romanzo. Insieme alla sua band, i Nirvana, Kurt Cobain è stato uno dei
musicisti più influenti degli ultimi decenni. Artista geniale e inquieto, sognatore in preda ai suoi stessi incubi, ci ha lasciati alla fatidica età di 27 anni - la stessa a cui sono morti
Jim Morrison, Janis Joplin, Amy Winehouse. Chi era davvero? E cosa ha lasciato ai milioni di fan in tutto il mondo cbe continuano ad ascoltare le sue canzoni, ad andare in
pellegrinaggio nei posti in cui ha vissuto, a trarre ispirazione dai suoi testi?
4) Gioco interattivo per la gestione delle emozioni e dei conflitti
IL FIUME
Obiettivi
Ricordare agli adulti le pressioni che talvolta i giovani sono costretti a subire.
Risorse necessarie
Benda
Nastro colorato
Fogli di giornale
Schede
Pennarelli
Dimensione del gruppo
6-30 persone
Tempo necessario
Da 20 a 25 minuti
Descrizione dettagliata
1. Preparate le schede con l’indicazione di alcuni ruoli (come descritto sotto). A seconda
della dimensione del gruppo utilizzate tutti o solo in parte i personaggi indicati. Assicuratevi che a qualcuno venga assegnato il ruolo del Giovane.
2. Spiegate che troppo spesso, come adulti, dimentichiamo cosa significhi essere un
adolescente e dover affrontare le pressioni del mondo esterno. Disegnate il fiume mettendo in terra due lunghi pezzi di nastro. Prendete alcuni pezzi di giornale e appallottolateli sul fiume per creare degli ostacoli. Siate creativi e chiamateli alligatori, lava,
rapide, etc.
3. Chiedete ad alcuni volontari di recitare una parte. Scegliete fino a dieci volontari e
distribuite una scheda con un personaggio per ciascun partecipante. Date ai volontari
circa due minuti per pensare al proprio ruolo. Spiegate che vi sono numerose influenze
conflittuali nella vita dei giovani, oggi più di ieri. Queste influenze possono modificare
le decisioni dei giovani, ad esempio riguardo la sfera sessuale.
4. Chiedete a tutti i volontari di andare al centro della stanza e sistemarsi da una parte
o l’altra del fiume. Chiedete alla persona che interpreta il Giovane di farsi avanti e bendatela. Spiegate che i diversi personaggi devono guidare il Giovane lungo il fiume, aiutandolo ad evitare i diversi ostacoli (alligatori, lava, etc.). Date agli altri personaggi circa
dieci minuti per guidare il Giovane verso il fiume.
5. Concludete l’attività utilizzando gli spunti di riflessione.
IRA
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Riflessione e valutazione
- Che cosa pensate di questo esercizio?
- Cosa c’é di realistico?
- Perché o perché no?
- Come vi sentite ad interpretare il Giovane?
- Quando eravate adolescenti avete dovuto affrontare pressioni e influenze simili? In che
modo queste influenze incidono sulla capacità di un adolescente di prendere decisioni?
Schede per “Il fiume”
Giovane
Ascolta tutti quelli che cercano di guidarti lungo il fiume.
Genitore
Conosci ciò che è meglio per lui. Suggerisci al Giovane cosa fare, tenendo sempre a
mente il suo bene. Utilizza frasi del tipo “Quando avevo la tua età...” Sentiti libero di
mettere un briciolo di creatività!
Nonno/a
Conosci ciò che è meglio per lui. Suggerisci al Giovane cosa fare, tenendo sempre a
mente il suo bene. Utilizza frasi del tipo “Quando avevo la tua età...”
Prete (guida religiosa)
Sei la guida morale del Giovane. Sentiti libero di mettere un briciolo di creatività!
Amico
Sei l’amico buono. Ti sta veramente a cuore il benessere del Giovane. Sentiti libero di
mettere un briciolo di creatività!
Insegnante
Sottolinea l’importanza della scuola. Offri consigli quando ritieni sia necessario. Sentiti
libero di mettere un briciolo di creatività!
Assistente sociale
Dai suggerimenti al Giovane riguardo temi quali l’uso di droga, il sesso, la famiglia, la
scuola, etc. Sentiti libero di mettere un briciolo di creatività!
Media
Pensa alla varie forme di influenza nei media (TV, film, riviste,etc.) Alcuni esempi di messaggi dei media possono riguardare il sesso, la violenza, il denaro, etc.
Amico
Sei l’amico cattivo. Eserciti un’influenza negativa sul Giovane. Sentiti libero di mettere
un briciolo di creatività!
Assistente sanitario
Offri consulenza al Giovane rispetto la sua salute e il suo benessere in generale. Alcuni
esempi: il fumo, il sesso,l’alimentazione, il peso, etc. Sentiti libero di mettere un briciolo
di creatività!
IRA
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SCHEDA 5
LUSSURIA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
L’attrazione fisica verso una persona, verso la persona amata, è naturale e necessaria
per completare l’unione e per dare compimento al disegno che Dio ha fin dall’inizio
sugli uomini (Ge 1, 26-29). Ma le passioni positive dell’uomo a volte si trasformano
in tentazioni, in cattive passioni e così la sessualità si trasforma in lussuria. Proviamo
quindi a mettere a fuoco alcune delle caratteristiche della sessualità per poi guardare
dentro di noi e cercare di capire in quale modo questo lato positivo e necessario di
noi stessi si possa trasformare in lussuria, quali sono i “cattivi pensieri” che ci possono
portare fuori strada.
Come detto sopra la sfera della sessualità ci è donata da Dio già con la nostra creazione (siamo concepiti uomini e donne) e quindi noi non abbiamo un sesso ma siamo
un sesso; la nostra sessualità è una componente della nostra fisicità che però non può
essere vista scollegata dalla nostra spiritualità che è l’altra grande componente del nostro essere: corporeità e anima non possono essere separate. Così come tutta la nostra
vita, anche la nostra sessualità deve essere vissuta e condivisa come dono, che per sua
definizione è dare un bene senza ricevere nulla in cambio, un’azione asimmetrica che
nasce da spontaneità e libertà. Un ultimo pensiero su quello che ci differenzia dagli
animali: la sessualità negli animali è esclusivamente legata alla riproduzione ovvero
alla fisicità ma noi siamo anche anima e quindi non possiamo slegare questo atto fisico
dal legame emotivo/affettivo che ci lega agli altri e questo legame è oblativo, esclusivo, riservato.
Proviamo ora a mettere a fuoco i cattivi pensieri che ci possono accompagnare. Premettiamo che queste tentazioni cambiano ed evolvono con l’età e con le situazioni
affettive che viviamo. La lussuria fa molto leva sul piacere che l’atto sessuale ci porta; se
il piacere fisico sovrasta il piacere “spirituale” dello stare con una persona risulta facile
accettare situazioni che ci portano a considerare il nostro partner come uno strumento
per farci stare bene (ed il dono gratuito che non chiede nulla in cambio?); se è solo
il piacere fisico a guidare le nostre azioni possiamo arrivare ad estremi come il tradimento (il mio partner non mi soddisfa appieno, cerco il piacere altrove… giustificando
la mia azione nella separazione fisicità / affettività) oppure a relazioni esclusivamente
mirate al rapporto fisico (gli “amici di letto”). Un’altra causa per far entrare la lussuria
nel nostro vivere è l’egocentrismo e l’individualismo: oggi siamo sempre più bombardati da messaggi che mettono al centro della vita il nostro “io” (eloquente lo spot di
telefonia mobile che da anni ci ricorda che tutto ruota intorno a noi…); se le nostre
azioni sono guidate dal nostro io perde completamente di significato il DONO di cui
parlavamo sopra e così dalle nostre azioni ci aspetteremo sempre qualcosa in cambio
(il piacere) anche a costo di accettare gli scambi (“accetto di stare con te se in cambio
mi dai…”) trasformando così la relazione in mercificazione. Altra leva per far entrare la
lussuria nelle nostre azioni è il bisogno di essere accettati dagli altri: per non sentirci
diversi dai nostri amici, per “conquistare” una persona siamo disposti a “concederci”
anche prima di aver capito se con quella persona siamo realmente disponibili a costruire e condividere un progetto di vita.
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Alcune domande che ci possono aiutare meglio ad approfondire questo tema:
- Proviamo a ragionare sul significato di dono: in quali occasioni pensiamo di aver ricevuto un dono dagli altri? Quali erano le caratteristiche? Quando pensiamo di aver
donato noi stessi?
- Sia da single che da fidanzati o sposati, quali sono le occasioni in cui possiamo vivere
la nostra castità? Perché farlo e con quali valori alle spalle? E sempre pensandoci single,
fidanzati o sposati, come e quando vivere la nostra sessualità?
- Quali sono le occasioni nelle quali ci siamo resi conto di essere trattati come “merce”?
In quali occasioni ci siamo resi conto che qualcuno ha fatto leva sui nostri bisogni per i
propri interessi?
- Per uscire da egocentrismo ed individualismo bisogna avere progetti ampi ed a lungo
respiro: qual è il progetto che oggi guida le nostre azioni? Nella nostra vita professionale/lavorativa? E nella nostra vita affettiva?
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
1) Audio - video - testi
GRUPPO ABELE
Comunità per la lotta alla prostituzione http://www.gruppoabele.org/
Enzo Bianchi - LUSSURIA (Ed. San Paolo)
Enzo Bianchi dedica questo volume della serie “Se questa vita ha un senso” alla lussuria,
vizio dell’anima. La voracità di cibo e quella sessuale affondano le radici nello stesso terreno: «l’ingordigia è madre della lussuria»; significativamente Giovanni Climaco mette
in bocca all’ingordigia personificata questa dichiarazione: «Mia figlia primogenita è la
lussuria», perché l’eros è chiamato alla relazione, ma se quest’ultima è negata, il sesso
si deforma in lussuria.
Francesco Guccini - PICCOLA STORIA IGNOBILE
Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare,
così solita e banale come tante,
che non merita nemmeno due colonne su un giornale
o una musica o parole un po’ rimate,
che non merita nemmeno l’ attenzione della gente,
quante cose più importanti hanno da fare,
se tu te la sei voluta, a loro non importa niente,
te l’ avevan detto che finivi male...
Ma se tuo padre sapesse qual’ è stata la tua colpa
rimarrebbe sopraffatto dal dolore,
uno che poteva dire “guardo tutti a testa alta”,
immaginasse appena il disonore,
lui che quando tu sei nata mise via quella bottiglia
per aprirla il giorno del tuo matrimonio,
ti sognava laureata, era fiero di sua figlia,
LUSSURIA
33
se solo immaginasse la vergogna...
E pensare a quel che ha fatto per la tua educazione,
buone scuole e poca e giusta compagnia,
allevata nei valori di famiglia e religione,
di ubbidienza, castità e di cortesia,
dimmi allora quel che hai fatto,
chi te l’ ha mai messo in testa
o dimmi dove e quando l’hai imparato
che non hai mai visto in casa una cosa men che onesta
e di certe cose non si è mai parlato...
E tua madre, che da madre qualche cosa l’ ha intuita
e sa leggere da madre ogni tuo sguardo:
devi chiederle perdono,
dire che ti sei pentita, che hai capito,
che disprezzi quel tuo sbaglio.
Però come farai a dirle che nessuno ti ha costretta
o dirle che provavi anche piacere,
questo non potrà capirlo,
perchè lei, da donna onesta,
l’ ha fatto quasi sempre per dovere...
E di lui non dire male, sei anche stata fortunata:
in questi casi, sai, lo fanno in molti.
Sì, lo so, quando lo hai detto,
come si usa, ti ha lasciata,
ma ti ha trovato l’ indirizzo e i soldi,
poi ha ragione, non potevi dimostrare che era suo
e poi non sei neanche minorenne
ed allora questo sbaglio
è stato proprio tutto tuo:
noi non siamo perseguibili per legge...
E così ti sei trovata come a un tavolo di marmo
desiderando quasi di morire,
presa come un animale macellato
stavi urlando, ma quasi l’urlo non sapeva uscire
e così ti sei trovata fra paure e fra rimorsi
davvero sola fra le mani altrui,
che pensavi nel sentire nella carne tua quei morsi
di tuo padre, di tua madre e anche di lui?
Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi,
non vedo proprio cosa posso fare.
Dirti qualche frase usata per provare a consolarti o dirti:
“è fatta ormai, non ci pensare”.
E’ una cosa che non serve
a una canzone di successo,
non vale due colonne su un giornale,
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare...
LUSSURIA
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Modena City Ramblers - EBANO
Sono nata dove la pioggia porta ancora il profumo dell’ebano
Una terra là dove il cemento ancora non strangola il sole
Tutti dicevano che ero bella come la grande notte africana
E nei miei occhi splendeva la luna, mi chiamavano la Perla Nera...
A sedici anni mi hanno venduta, un bacio a mia madre e non mi sono voltata
Nella città con le sue mille luci per un attimo mi sono smarrita...
Così laggiù ho ben presto imparato che i miei sogni eran solo illusioni
E se volevo cercare fortuna dovevo lasciare ogni cosa
Ebano...
Jack O’s bar, Parade hotel, from me une
Ebano...
Spesi tutto quello che avevo per il viaggio e per i miei documenti
A palermo nel ‘94 eravamo più di cento giù al porto...
Raccoglievo le arance e i limoni in un grande campo in collina
Lavoravo fino a notte inoltrata per due soldi e una stanza nascosta
Ebano...
It’s a long long night
It’s a long long time
It’s a long long road
Ebano...
Poi un giorno sono scappata verso Bologna con poca speranza
Da un’amica mi sono fermata, in cerca di nuova fortuna
Ora porto stivali coi tacchi e la pelliccia leopardata
E tutti sanno che la Perla Nera rende felici con poco...
Ebano...
Jack O’s bar, Parade hotel, for me une
Ebano...
Ebano...
It’s a long long night
It’s a long long time
It’s a long long road
Ebano...
Perciò se passate a Bologna, ricordate qual è la mia storia
Lungo i viali verso la sera, ai miei sogni non chiedo più nulla
Ebano...
LUSSURIA
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SCHEDA 6
SUPERBIA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
Pur con un’etimologia oscura, il significato originario di superbia è positivo; intende
esprimere il carattere “eminente”, “eccellente” e “insigne” dell’animo umano e della sapienza. Lo sviluppo successivo, al contrario, venne usato in senso peggiorativo e riprovevole come “arroganza”, “vanteria” e “alterigia”. Per gli antichi Greci il superbo è
un folle presuntuoso, perché si vanta della sua posizione, del potere e della ricchezza
guardando gli altri sprezzantemente dall’alto in basso.
La superbia è il mettersi sopra gli altri, il non voler vedere nessun altro se non se stessi.
Tommaso d’Aquino: “la superbia è il vizio e il peccato con il quale l’uomo, contro la retta
ragione, desidera andare oltre la misura delle sue condizioni”.
Il superbo crea una sproporzione tra sé e la realtà con la conseguenza che la volontà,
principio che guida l’agire, non è più capace di giudicare coerentemente. Il superbo
sopravvaluta se stesso senza confrontarsi con la realtà. La superbia è un uso non corretto della ratio. Ciò implica l’assunzione di una responsabilità che proviene da una
scelta fatta. Puntare gli occhi sulla verità, al contrario, crea equilibrio e permette di vedere non solo la complessità della realtà, ma il suo ordine intrinseco verso cui siamo
orientati per ottenere il bene.
“Tutti i vizi, quando sono di moda, passano per essere una virtù”. (Molière)
Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere
giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come
questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello
che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare
gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io
vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si
esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». (Luca 18, 9-14)
“Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato
dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere ciò che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità.
Tutto ciò che fanno gli altri, anche se è fatto bene, non piace all’orgoglioso; gli piace
solo ciò che fa lui, anche se è fatto male. Disprezza sempre le azioni degli altri e ammira
sempre le proprie perché, qualunque cosa faccia, crede di aver fatto una cosa speciale
e in ciò che fa, pensa per bramosia di gloria al proprio tornaconto; crede di essere in
tutto superiore agli altri e mentre va rimuginando i suoi pensieri su di sé, tacitamente
proclama le proprie lodi. Qualche volta poi è talmente infatuato di sé che quando si
gonfia si lascia pure andare a discorsi esibizionisti” (Papa Gregorio Magno)
L’immagine del superbo è una caricatura in cui cade l’uomo. In un momento in cui il narcisismo ha conquistato un posto d’onore nella cultura dei nostri giorni e in molti dei nostri comportamenti, una seria considerazione su chi siamo realmente non dovrebbe stonare né apparire fuori luogo. Perdere il senso del limite e non essere più capaci di humor
su se stessi conduce a quella ipertrofia dell’ego che presto o tardi porta a conseguenze
nefaste per la propria vita. Meglio allargare l’orizzonte e puntare sull’essenziale della vita
per consentire di raggiungere quella vera libertà fonte di genuina realizzazione di sé..
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Per riflettere:
- Quanto è grande il tuo ego?
- Quali sono gli aspetti della tua vita che consideri essenziali?
- Cosa c’è di “vero e genuino” in te e nella tua vita?
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
Una specie di gioco per introdurre l’attività potrebbe essere quello di presentare ai
ragazzi una serie di oggetti e invenzioni inizialmente pensate dall’uomo per migliorare
il mondo ma che poi, a fronte di scopi arroganti ed egoistici, hanno assunto un valore
negativo.
Si può chiedere ai ragazzi di dedurre da soli questo comune denominatore.
Poi si può chiedere loro di continuare la lista, concludendo il gioco con il concetto che
un oggetto, ma anche un sentimento, possono essere nobili ma se “usati” male possono assumere connotati molto negativi.
In questi casi spesso si ricade in atteggiamenti di superbia.
SUPERBIA
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SCHEDA 7
TRISTEZZA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
AVERE LA PRIMA METÀ DI UNA CANZONE, IL RESTO DA RITROVARE
Tristezza la conosciamo tutti. Nella personificazione più recente di “Inside Out”, ci si presenta come Puffetta il giorno prima di un test importante, blues come le canzoni che ne
hanno raccontato le malinconie, grossi occhiali per mettere bene a fuoco tutte le nostre
mancanze, un maglione caldo perché in fondo nella tristezza a volte ci si accoccola nella
speranza che qualcuno ci trovi, una vaga fisionomia hipster, ma solo perché degli Emo
non si è più trovata traccia da qualche anno e Tristezza è molto corteggiata da tutte le
subculture giovanili.
Il Grunge di Seattle nei ‘90 e Cobain. Il Dark dei The Cure di Robert Smith negli ‘80.
“Tutti i giovani tristi” di Francis Scott Fitzgerald ci presenta ritratti ancora attualissimi, e
stiamo parlando di racconti redatti dal 1922 al 1925 che narrano di giovani incatenati
tra le malinconie di quello che non è stato e l’ansia per quello che sarà. Colonna sonora
i sincopati ritmi dell’età d’oro del Jazz. Nonostante non sia la stessa musica, la musica è
la stessa. Non sarà la reginetta del ballo ma tutti si è ballato con Tristezza. Nulla di male,
anzi tutto di meravigliosamente umano. Gli unici che vogliono descriverci tale stato d’animo come sbagliato sono la metà delle persone che campano di pubblicità e che non
vedono l’ora di farci star meglio con il loro dentifricio. L’altra metà è quella che ci vuole
mantenere permanente tristi per vendere più t-shirt nere in cui scrivere quanto siam
tristi. Tristezza di per sé non è compagnia ne buona ne malvagia. E’ sicuramente utile.
Come l’amico che prende su la macchina per la prima vacanza in compagnia, purché si
chiarisca fin da subito che non sia lui a farsi tutto il viaggio al volante. Sulla colonna sonora che uscirà dall’autoradio abbiamo dato più che uno spunto. Resta da concentrarsi
sull’altra metà della canzone da ritrovare.
Perché un’attività sulla tristezza
Dalla nota introduttiva parrà ormai chiaro come l’approccio suggerito non sia sul “come
intervenire” sulla tristezza altrui ma “come interagire” con la propria tristezza. Non è interesse ne si ha le competenze per suggerire il miglior approccio per smettere di essere
tristi. Riflettere sulla tristezza e essere consapevoli di cosa ci sta succedendo; vivere il
momento e riscoprirsi diversi; cogliere sfumature che prima ci sembravano non esistere, rubarle gli occhiali per mettere a fuoco e infine ripartire, verso magari qualche altro
momento no che però sarà intervallato da momenti di “vita piena” fino a che... saranno
quest’ultimi a diventare le mete intermedie del nostro viaggio.
Sembra assurdo ma che si desideri davvero procedere di gioia in gioia non è così scontato.
“Una sera, quando avevo diciannove o vent’anni, ero seduto [...] con un amico a cui piaceva dirti che cosa non andava di te e cosa dovevi o non dovevi aspettarti da una vita
come la tua. [...] «E’ che tu non hai tristeza» fu la sua diagnosi di quella sera in particolare. «E non ce l’avrai mai». Non era spagnolo, nè messicano e lo spagnolo non era la sua
lingua madre: era un ragazzo di Pittsburgh, slovacco da parte di madre. Ma io credevo
che sapesse il fatto suo: parlava con un’autorevolezza impossibile da simulare, e le sue
parole mi rimasero dentro per molto tempo. Tristeza. Il buon senso avrebbe dovuto
suggerirmi di gioire per quell’analisi che Joe The Lion aveva fatto della mia vita e del
mio destino. Lui però sembrava biasimarmi per quella mancanza di tristezza, o meglio,
compatirmi, e di lì a poco anch’io cominciai a rimpiangere l’assenza di tristeza dalla mia
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anima o dal mio destino. Ero per natura (qualunque cosa significhi) un ragazzo allegro,
nato in un contesto agiato e in un’epoca di benessere senza precedenti, libero, sano,
piuttosto intelligente, fortunato e con voglia di lavorare. [...] Adesso saltava fuori che
soffrivo di una grande carenza di tristeza. A me, in realtà, andava anche bene il fatto di
non possedere - come avrei potuto negarlo?- una quantità sufficiente di eroica tristeza.
A bruciarmi era il pensiero che non avrei mai potuto averne nemmeno un po’. Il modo
in cui ero stato cresciuto e la mia cosiddetta natura mi avevano abituato a pensare che,
impegnandomi a fondo e sfruttando le mie possibilità, nulla di ciò che avessi voluto diventare o possedere sarebbe stato impossibile. Senza dire niente al mio amico - senza
proclamare le mie intenzioni a nessuno, men che meno a me stesso, decisi di rimediare
a quel deficit di sofferenza o, per come l’avevo intesa io, alla mancanza dell’aura, dell’inestirpabile lascito della sofferenza. Misi a punto un programma intensivo e, piccolo
staterello in cerca di plutonio per fabbricare armi, uscii per farmi spezzare il cuore [dalla
mia ragazza]. (Uomini si diventa; Michael Chabron, Rizzoli 2010)
Con questo passaggio Michael Chabron mette a fuoco un elemento importante. Si diventa tristi davanti alle prove meno facili della vita, si rimane tristi per fascinazione, appartenenza, immedesimazione e per attirare l’altro. Si permane nella tristezza perché
diventa normale e si è incapaci o si teme di diventare qualcosa di diverso che gli altri
potrebbero non riconoscere più.
Il confronto con la Parola
Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e
neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo
e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né
ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più
di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non
lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria,
vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani
verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi
dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?
Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne
avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà
già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena. (Matteo 6, 25-34)
Gesù in questo passaggio vede in un rapporto disordinato con il tempo l’origine degli
affanni dell’uomo. L’eccessivo proiettarsi nel futuro, con le speranze e con le ansie, impedisce al Cristiano di vivere l’oggi come tempo di Dio. E’ un procrastinare dell’azione, una
spirale che ci pone in un’arena dove ci vediamo costretti a lottare con i nostri desideri
disordinati e veniam meno al nostro dovere di maturare la padronanza degli atti, perché
assediati dall’inazione. Il Cristiano discerne il tempo della meditazione dal tempo della
carità, e la carità è sempre intervento, il Cristiano fa della carità preghiera. La parabola
dei talenti interviene sul medesimo tema. Il Signore si aspetta che il nostro oggi venga
messo a frutto, offerto con gratitudine come dono secondo quanto è stato nelle nostre
possibilità, accolto nella Sua Misericordia. Così come rifugiarsi nel futuro per non vivere il
presente ci avvelena di tristezza, lo stesso vale per il vivere nel passato e nella malinconia
di quello che è stato e che sarebbe potuto essere. E’ l’atteggiamento di chi rivendica un
diritto ad un vissuto che lui per primo non ha contribuito a costruire, siamo noi quando
ci accartocciamo sul nostro “io” del passato e ci chiudiamo al “prossimo”oggi, privandoci
TRISTEZZA
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della possibilità di un incontro. Non si condannano questi atteggiamenti in toto, rievocare e sperare sono attitudini dello spirito umano. Tuttavia è bene separare il tempo in cui
si prende una pausa dal quotidiano dal tempo in cui ci si è presi una fuga dal quotidiano.
Materiale per la meditazione personale
Occorre obbedire al comando di rallegrarsi ed esercitarsi nella gioia
Un costume sociale venutosi a creare attorno al periodo natalizio e affrancatosi dal riferimento alle celebrazioni proprie dei cristiani ci porta a rileggere il nostro rapporto
con gli altri, a cercare di appianare o per lo meno sospendere le tensioni e le litigiosità,
a ripensare ai nostri comportamenti quotidiani. Il successivo cambio di calendario, poi,
pare quasi obbligarci a stendere un bilancio dell’anno trascorso e a formulare propositi
più o meno convinti per quello che sta per iniziare. Non è raro allora finire preda di una
condizione di spirito che sovente ci assale anche in altre circostanze e che cerchiamo di
sopraffare stordendoci con diversivi di ogni tipo: la tristezza. Questo “demone”, chiamato nella spiritualità cristiana “verme del cuore”, si insinua nell’anima di una persona e ne
corrode lentamente tutta la vita, come fa la tignola con il vestito: se non viene combattuta, essa finisce per abitarci come un inquilino stabile e sempre più difficile da scacciare.
Sì, la tristezza è il non-piacere per eccellenza, essa “spoglia da ogni piacere e fa inaridire il cuore”, diceva Evagrio: è alla radice della depressione nervosa, perché conduce
al sentimento del non-senso della vita, a uno stato di letargo in cui la vita appare senza luce, senza speranza, in una parola, invivibile. Perché questo tarlo permane come
un’ombra nel nostro profondo, come un brusio che non cessa di tormentarci? Di volta
in volta sono le sofferenze ingiustamente patite, le contraddizioni reali alla nostra vita, la
constatazione della frustrazione dei nostri desideri, anche quelli più nobili e giusti, a generare in noi la tristezza. Ora, è evidente che la vita e la realtà ci contraddicono in molti
modi, sovente anche inattesi; ma è altrettanto evidente che pensare di poter vivere in
un mondo dorato e privo di frustrazioni è illusorio, così come è dannoso per noi stessi
nutrirci di nostalgie immaginarie o di attese impossibili!
In questo senso credo si possa dire che il proprium della tristezza consista nel suo essere una patologia riguardante il rapporto con il tempo: si idealizza il passato come stagione senz’altro migliore di quella attuale e lo si evoca con accorati accenti di nostalgia,
non privi di ingenuità se non addirittura di ottusità. Specularmente, ci si pone in modo
irreale di fronte al futuro: o si sogna di realizzare in un avvenire mitico ciò che, per l’appunto, è destinato a cominciare sempre domani, oppure si teme il tempo che sta per
venire a motivo delle incognite che può riservare. Insomma, in un modo o nell’altro ci si
rifugia in un mondo immaginario per non aderire alla realtà: così facendo, però, non si
coglie il presente come l’ora irripetibile che ci è data da vivere, con tutta la responsabilità ma anche il fascino che questo comporta.
Si comprende perché la spiritualità unisca strettamente la gioia – antidoto principe alla
tristezza – alla capacità di vivere in modo adeguato il rapporto con il tempo, di vivere il momento presente: la gioia è una virtù escatologica, che unifica il tempo umano
nell’oggi di Dio, anticipando nel presente la dimensione finale attesa. Una gioia, però,
che non è la spensieratezza dell’irresponsabile, ma al contrario l’impegno, l’accettazione di una modalità altra di porsi di fronte agli eventi. L’apostolo Paolo arriva a formulare
l’invito alla gioia come un vero e proprio imperativo cui prestare obbedienza:quanto di
più lontano si possa immaginare rispetto alla spontaneità cui siamo soliti connettere le
nostre gioie superficiali.
Sì, occorre obbedire risolutamente al comando di rallegrarsi ed esercitarsi nella gioia
vivendo in pienezza il momento presente, così da sperimentare che né il passato né il
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futuro possono imprigionarci, ma determinante è solo l’oggi in cui ci è chiesto di vivere,
grati verso ciò che è stato e aperti verso quanto il futuro ci riserva.
E’ significativo che i padri del deserto accostavano alla tristezza l’invidia, ricordando che
se la prima provoca una sorta di paralisi di senso nell’oggi, la seconda è un’afflizione
che nasce dal bene degli altri. L’etimologia di invidia ne rivela il legame con il “vedere”:
in-videre significa avere un occhio cattivo fino a non vedere più l’altro, fino a volerne la
sparizione, e così l’invidia può condurre all’omicidio. Sì, c’è anche una tristezza che nasce dalla constatazione della felicità altrui, reale o presunta che sia: terribile sentimento
che nasce ancora una volta dal fuggire il presente,solo che anziché rifugiarci in un passato idealizzato o in un futuro sognato, ci volgiamo verso un presente che non appartiene a noi ma ad altri… Nasce allora il desiderio di avere noi, qui e subito, la “roba” degli
altri, anche se a volte si vorrebbe semplicemente che l’altro non avesse quei beni, quelle caratteristiche, quei determinati doni. Per questo l’invidia è un Per questo l’invidia è
un sentimento che si cerca di nascondere, un sentimento inconfessabile, di cui non ci si
vanta ma ci si vergogna perché equivarrebbe a una dichiarazione pubblica di inferiorità. Più in profondità, l’invidia è un riflesso che consiste nel paragonarsi sistematicamente agli altri, nell’incapacità personale di ammettere con gratitudine i doni rispettivi di
cui ciascuno è dotato. Ci sono sempre qualità che gli altri hanno e io no; fissandomi su
queste, finisco per cadere nella profonda tristezza verso la vita quale essa è e si presenta. Oggi i sociologi dicono che l’invidia è un male sociale assai diffuso, soprattutto verso
chi guadagna di più e dispone di più ricchezze. Ma l’invidioso dovrebbe sapere di essere condannato all’isolamento: infatti, non appena gli altri si accorgono di questo suo
sentimento, lo abbandonano perché ai loro occhi diviene insopportabile. Non a caso
anche la gelosia – patologia che si declina in mille modi, non solo nei rapporti coniugali – appartiene a questa medesima suggestione, a questa tentazione della tristezza:
essa nasce dal vivere gli uni accanto agli altri, dal confronto continuo,dal verificare ciò
che gli altri sono e fanno e, di conseguenza, l’approvazione e il riconoscimento che essi
ricevono. Va detto con estremo realismo: questi sentimenti, se lasciati crescere senza
freno, trasformano anche somaticamente chi ne è preda e si manifestano con il pallore
del volto, con labbra tese e piatte, con lo sguardo glaciale…
Chi ha raffigurato bene l’invidia è Giotto nella Cappella degli Scrovegni, dove appare
una donna anziana, avvolta dalle fiamme che indicano il suo tormento interiore e dalla
cui bocca esce un serpente che si ritorce contro i suoi occhi; le sue orecchie spropositate narrano la sua attitudine alla curiosità, ad ascoltare maldicenze per nutrirsi di contestazione e antagonismo, concorrenza e gelosia: un male veramente triste che si contrappone alla comunicazione, alla gioia che viene dal condividere con gli altri la ricerca
di senso e il tesoro della nostra comune condizione umana.
(Enzo Bianchi La Stampa, 23 dicembre 2007)
Il mio buongiorno alla tristezza
Oggi siamo quasi tutti portati a pensare che la tristezza sia un sentimento negativo,
un’esperienza da rimuovere,un’inquilina da scacciare. Soggiaciamo all’imperativo:
“Non bisogna essere tristi!”.
Ma è proprio vero che la tristezza debba sempre essere combattuta e negata? Non può
essere anche un sentimento necessario per vivere in pienezza e per compiere, attraversandola, un cammino di umanizzazione? Vivere senza mai conoscere la tristezza sarebbe
un impoverimento: saremmo privati di un’esperienza che può aiutarci a vedere la realtà
diversamente e con più chiarezza, a vivere la nostalgia, il ricordo del passato, nella dolcezza, nell’accettazione di ciò che non è più ma che è stato bello e ci ha segnati per sempre.
Per non essere tristi occorrerebbe vivere in una prigione dorata? La leggenda narra che
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il padre di Gautama, volendo che suo figlio non conoscesse il dolore, fece recintare lo
splendido giardino della sua reggia, impedendo così al figlio di uscire e di conoscere
il mondo. Le ragioni per essere tristi stavano infatti fuori dal giardino, pensava il padre.
Un giorno però Gautama riuscì a uscire e incontrò un malato, un vecchio decrepito e un
morto. Conobbe la tristezza, ma quella fu la condizione attraverso la quale poté cercare
l’illuminazione e diventare il Buddha.La tristezza nasce da realtà umanissime: la mancanza, la sofferenza, la separazione, la morte, il male, ma queste fanno parte della vita
e non è possibile rimuoverle, se non aderendo a delle illusioni. È però decisivo che la
tristezza originata dai nostri incontri e dalle nostre consapevolezze non diventi un inquilino stabile nel nostro cuore, non finisca per possederlo, occupandolo interamente. Se
questo avviene, allora la tristezza ci oscura lo sguardo del cuore e noi non percepiamo
più la luce di ogni giorno, il volto che ci appare in ogni incontro, la bellezza che, sempre
elusiva, vince la bruttezza. In questo caso la tristezza diventa sofferenza, finanche disperazione, ma più spesso acedia: l’acedia è la cattiva tristezza accompagnata dalla noia e
ha come segno la mancanza di lacrime. Nella tristezza invece, si può anche piangere,
e le lacrime sono già apertura alla consolazione. Vi è dunque – oserei dire – una tristezza da accogliere e custodire come un frutto che nasce dalla nostra coscienza quando
diventiamo consapevoli di aver fatto il male e contraddetto il bene, tristezza a causa
delle nostre colpe. Non dobbiamo temere questi sentimenti, perché necessari al nostro
discernimento del bene e del male, al nostro vivere secondo un’etica assolutamente necessaria alla convivenza. Bonjour tristesse! Lo possiamo dire quando la tristezza si affaccia come malinconia, nostalgia, turbamento. In questi casi siamo sorpresi dalla tristezza
che scende nei nostri cuori e si fa percepire in certe ore silenziose e quiete del giorno:
quando siamo soli al tramonto (“Sai… quando si è molto tristi si amano i tramonti”, dice
il Piccolo principe), quando ci sentiamo avvolti dalla penombra e indotti a pensare, proviamo questo dolce venir meno delle pulsioni che ci eccitano.
Radiosa tristezza, la chiamano i padri del deserto, che rende il nostro cuore umile e non
altero, un cuore che non va in cerca di cose grandi (cf. Sal 131,1) ma che sa discernere il
limite e la stessa morte che sta dietro a ogni creatura che ci rallegra. La musica, sì, solo
la musica sa narrare pienamente la tristezza: penso al rebetiko suonato e cantato nelle
taverne della Grecia; penso al flamenco, via privilegiata dell’espressione della tristezza,
a volte persino tragica; ascolto i Notturni di Chopin…
La tristezza attesta che ci manca qualcosa, ci fa conoscere incertezza e insicurezza, ma ci
rende disponibili a incontri non previsti. Il salmo dice che “se alla sera è ospite la tristezza, al mattino ecco grida di gioia” (cf. Sal 30,6). Dunque,buongiorno tristezza!
(JESUS, febbraio 2015, Rubrica La bisaccia del mendicante di Enzo Bianchi)
La Tristezza che porta al pentimento davanti a Dio
Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la
sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti
il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me; cosicché la mia gioia si è
ancora accresciuta.
Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto
- vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati - ora
ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi.
Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte
nostra; perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta
alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quante scuse,
quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi
siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. (2 Corinzi 7,6-11)
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Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre,
dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi
giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano
e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto,
sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò
nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio
padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre
e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere
chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro,
gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi:
«Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito
e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica
e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli
rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha
riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con
me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo
fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». (Luca15, 11-32)
La lettera ai Corinzi di S. Paolo descrive una tristezza sana, la tristezza che preannuncia
il desiderio di cercare il perdono di Dio e che quindi porta al Sacramento della Riconciliazione. Le parole utilizzate, i riferimenti agli stati d’animo, ricordano il figliol prodigo.
Nella parabola al sincero pentimento del minore dei due fratelli non segue nessuna punizione o recriminazione del padre. Il giovane dissoluto viene accolto con un abbraccio
e per il suo ritorno tra i “vivi” si fa festa. Tutti sono chiamati al banchetto, anche coloro
che non sono entrati nella logica del “dono” e della gratuità dell’amore incondizionato
di Dio Padre. La chiamata anzi è più forte proprio per coloro che non sembrano comprendere le ragioni di questo atteggiamento. Solo nei confronti del figlio maggiore c’è
un diretto intervento del padre, non di collera, non di autorità, ma di supplica a prendere parte alla festa. Il padre espone le sue ragioni, apre il cuore anche se sa di non essere
compreso. Ma per entrambi i fratelli la scelta finale è un agire in libertà a seguito dell’offerta della propria tristezza al genitore. Ritorna il tema del maturare la padronanza dei
propri atti e del compiere le proprie nel qui e ora, anche se non ci è nota la decisione
del maggiore.
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PROPOSTA DI ATTIVITÀ
MODALITÀ OPERATIVE
Lo schema che si suggerisce è partire da un lancio del tema, raccogliere le impressioni
e le esperienze dei ragazzi, presentare la Parola e confrontare la loro esperienza con gli
insegnamenti del Vangelo e le riflessioni illustrate.
Il lancio dell’attività è sempre delicato. Non tutti parlano, non tutti sentono di aver qualcosa da dire. Si presenta del materiale utile in questo senso.
1) Per chi il gioco è una cosa seria.
Si chiede a ciascun ragazzo di disegnare su delle carte degli episodi felici del passato e
delle speranze personali per il futuro (3 per tipo a testa). Con questo mazzo di carte si
improvvisa una gara a chi si atteggia a vero “bello e dannato”, magari partendo proprio
dal racconto di Chabron presentato all’inizio. A turno ogni giocatore pesca una carta
e dichiara di sapere che cosa sia la tristeza inventandosi una frase sulla base dell’elemento pescato. Per converso deve intristire il proprio o altrui momento felice. Il gioco
è puramente creativo e interpretativo ma aiuta a smascherare in modo simpatico certi
meccanismi che saranno poi oggetto di riflessione nei testi successivi. Ad ogni motivazione giudicata idonea, simpatica o semplicemente vincente assegna un punto.
2) Possibili integrazioni o percorsi alternativi
1) Visione del video “ A brief history of melancholy - Courtney Stephens” (sottotitoli in
italiano attivabili) Si presenta in chiusura la posizione del filosofo D. Pearce.
https://www.youtube.com/watch?v=8li-3pRrA5Y
2) Una provocazione: e se l’isola che non c’è dove fare solo pensieri felici fosse scientificamente raggiungibile? Il progetto abolizionista, di David Pearce
Semplificando, sostiene che la sofferenza non è una condizione necessaria all’uomo. la
sofferenza e la tristezza sono i meccanismi base tale per cui l’uomo si è evoluto, si è organizzato in società, progredisce. Ma oggi, con il progresso scientifico, siamo arrivati ad
una condizione in cui possiamo geneticamente o chimicamente privarci della capacità
di soffrire. La sofferenza trova ragione d’essere in meccanismi vecchi ed antiquati. Un
animatore potrebbe impersonare il filoso ed esporre le sue teorie. I ragazzi potrebbero
prendere parte al dibattito, chi a favore, chi contro. E’ interessante innescare il meccanismo tale per cui non diamo valore alla nostra tristezza ed alla nostra capacità di soffrire
fino a che non è effettivamente possibile che ci venga tolta. Interessante il parallelismo
con la storia di Peter Pan. Per non voler crescere ci si priva della tristezza, si vivono momenti belli ma a che prezzo?
In merito al punto 2, si veda anche l’articolo “Noi ammalati di tristezza” di U. Galimberti
NOI , MALATI DI TRISTEZZA - Umberto Galimberti
Un filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, che vive da molti anni a Parigi,
le cui opere sono in parte tradotte anche in italiano, e un professore di psichiatria infantile e dell’ adolescenza Gérard Schmit che insegna all’ università di Reims, hanno posto
sotto osservazione i servizi di consulenza psicologica e psichiatrica diffusi in Francia
e si sono accorti che a frequentarli, per la gran parte, sono persone le cui sofferenze
non hanno una vera e propria origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che
caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente
di insicurezza e di precarietà. Quali «tecnici della sofferenza» si sono sentiti impreparati
ad affrontare problemi che non fossero di natura psicopatologica. E invece di adagiarsi
tranquillamente sui farmaci a loro disposizione per curare il disordine molecolare e così
stabilizzare la crisi, si sono messi a studiare e a pensare il senso che si nasconde nel
TRISTEZZA
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cuore del sintomo, quando la crisi non è tanto del singolo, quanto il riflesso nel singolo
della crisi della società. Ne è nato un libro bellissimo, la cui lettura consiglierei a tutti i
giovani e a tutti quelli che ne hanno cura. Il titolo è L’ epoca delle passioni tristi (Feltrinelli pagg. 130, euro 15). Si tratta di passioni che lasciano le famiglie disarmate e angosciate all’ idea di non essere in grado di provvedere al problema che affligge uno dei loro
componenti, quindi di non essere una «buona famiglia», quando invece le passioni tristi
hanno la loro origine nella crisi della società che, senza preavviso, fa il suo ingresso nei
centri di consulenza psicologica e psichiatrica, lasciando gli operatori disarmati.
In che consiste questa crisi? Da un cambiamento di segno del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia». E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a
differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale
tutta concentrata sul presente) quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo
per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora «il terribile è già
accaduto», perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’ energia vitale implode. Per i due psichiatri francesi, e io concordo con
loro, tutto ciò è incominciato con la morte di Dio che ha segnato la fine dell’ ottimismo
teologico, che visualizzava il passato come male, il presente come redenzione, il futuro
come salvezza. La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi. La scienza,
l’ utopia e la rivoluzione hanno proseguito, in forma laicizzata, questa visione ottimistica
della storia, dove la triade: colpa, redenzione, salvezza trovava la sua riformulazione in
quell’ omologa prospettiva dove il passato appare come male, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o sociologico) come salvezza. Il positivismo di fine Ottocento era infatti animato da una sorta di messianesimo scientifico, che
assicurava un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza. Sul versante
sociologico Marx evidenziava le contraddizioni del capitalismo in vista di una radicale
trasformazione del mondo, sul versante psicologico Freud ipotizzava un prosciugamento delle forze inconsce non controllate dall’ Io, perché «dov’ era l’ Es deve subentrare l’
Io. Questa è l’ opera della civiltà».
L’ Occidente, abbandonato il pessimismo degli antichi greci che, a sentire Nietzsche:
«Sono stati gli unici ad avere la forza di guardare in faccia il dolore», si è consegnato
senza riserve all’ ottimismo della tradizione giudaico-cristiana che, sia nella versione
religiosa, sia nelle forme laicizzate della scienza, dell’ utopia e della rivoluzione, ha guardato l’ avvenire sorretta dalla convinzione che la storia dell’ umanità è inevitabilmente
una storia di progresso e quindi di salvezza. Oggi questa visione ottimistica è crollata.
Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) hanno mancato la promessa. Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa
di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi,
pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare il futuro dall’ estrema positività della tradizione giudaico-cristiana all’ estrema negatività di un tempo affidato alla casualità senza direzione e orientamento. Il futuro da «promessa» è diventato «minaccia». E
questo perché se è vero che la tecnoscienza progredisce nella conoscenza del reale,
contemporaneamente ci getta in una forma di ignoranza molto diversa, ma forse più
temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di far fronte alla nostra infelicità e ai
problemi che ci inquietano. Per dirla con Spinoza, viviamo in un’ epoca dominata da
quelle che il filosofo chiamava le «passioni tristi», dove il riferimento non era al dolore
o al pianto, ma all’ impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno
della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’ Occidente ha saputo adattarsi,
perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà. Certo nessuno si
reca a un consultorio psicologico per un adolescente esordendo: «Buongiorno dottore,
soffro molto a causa della crisi storica che stiamo attraversando». In compenso i consultori sono quotidianamente sollecitati da genitori e insegnanti che non sanno più come
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far fronte all’ indolenza dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li
isola nelle loro stanze a stordirsi le orecchie di musica, all’ escalation della violenza, allo
stordimento degli spinelli che intercalano ore di ignavia.
Come sono riconducibili tutti questi sintomi alla «crisi storica»? La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’ assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva. Ciò significa che nell’ adolescente non si
verifica più quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull’ amore di
sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo
passaggio, bisogna spingere gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche,
impostando un’ educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che «ci si salva da soli», con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
La mancanza di un futuro come promessa non conferisce ai genitori e agli insegnanti l’
autorità di indicare la strada. Tra adolescenti e adulti subentra allora un rapporto «contrattualistico» dove genitori e insegnanti si sentono continuamente tenuti a giustificare
le loro scelte nei confronti del giovane, che accetta o meno ciò che gli viene proposto in
un rapporto ugualitario. Ma la relazione tra giovani e adulti non è simmetrica, e trattare l’
adolescente come un proprio pari significa non contenerlo, e soprattutto lasciarlo solo
di fronte alle proprie pulsioni e all’ ansia che ne deriva. Quando i sintomi di disagio si
fanno evidenti l’ atteggiamento dei genitori e degli insegnanti oscilla tra la coercizione
dura (che può avere senso quando le promesse del futuro sono garantite) e la seduzione di tipo commerciale di cui la cultura berlusconiana che si va diffondendo è un esempio. Senonché anche i giovani di oggi devono fare il loro Edipo, devono cioè esplorare
la loro potenza, sperimentare i limiti della società, affrontare tutte le funzioni tipiche dei
riti di passaggio dell’ adolescenza, tra cui uccidere simbolicamente l’ autorità, il padre.
E siccome questo processo non può avvenire in famiglia dove, per effetto dei rapporti
contrattuali tra padri e figli, l’ autorità non esiste più, i giovani finiscono col fare il loro
Edipo con la polizia, scatenando nel quartiere, nello stadio, nella città, nella società la
violenza contenuta in famiglia. Sono, questi, due esempi dei molti che gli autori del
libro illustrano per mostrare il nesso tra il passaggio storico del futuro come promessa
al futuro come minaccia e le manifestazioni psico (pato) logiche del disagio dei giovani
che non riescono più a percepire l’ integrazione sociale, l’ acquisizione dell’ apprendimento, l’ investimento nei progetti, come qualcosa di connesso a un loro desiderio
profondo, che è poi il desiderio di desiderare la vita.
A ciò si aggiunga che le passioni tristi e il fatalismo non mancano di un certo fascino, ed
è facile farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’ attesa del
peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica che, dalla minaccia nucleare a quella
terroristica, cade come un cielo buio su tutti noi. Ma è anche vero che le passioni tristi
sono una costruzione, un modo di interpretare la realtà, non la realtà stessa, che ancora
serba delle risorse se solo non ci facciamo irretire da quel significante oggi dominante
che è l’ insicurezza.
Certo la nostra epoca smaschera l’ illusione della modernità che ha fatto credere all’
uomo di poter cambiare tutto secondo il suo volere. Non è così. Ma l’ insicurezza che
ne deriva non deve portare la nostra società ad aderire massicciamente a un discorso
di tipo paranoico, in cui non si parla d’ altro se non della necessità di proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto che la società si sente libera dai principi e dai
divieti, e allora la barbarie è alle porte. Se l’ estirpazione radicale dell’ insicurezza appartiene ancora all’ utopia modernista dell’ onnipotenza umana, la strada da seguire è un’
altra, e precisamente quella della costruzione dei legami affettivi e di solidarietà, capaci
di spingere le persone fuori dall’ isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle,
in nome degli ideali individualistici che, a partire dall’ America, si vanno paurosamente
diffondendo anche da noi.
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SCHEDA 8
VANAGLORIA
PROPOSTA DI RIFLESSIONE
RIFLESSIONE 1
Abbà Nisteroo il Grande stava camminando nel deserto con un fratello quando videro
un drago e fuggirono. In seguito il fratello gli chiese: «Padre, anche tu avevi paura?». Il
maestro rispose: «Figlio mio, non avevo paura, ma è stato meglio per me fuggire dal
drago, altrimenti non sarei riuscito a scappare dallo spirito di vanagloria».
Scegliamo uno di questi racconti apparentemente ingenui eppure capaci di offrire una
lezione di vita semplice forse ma genuina. Il tema della mini-parabola è la vanagloria,
difetto che lascia una macchia, più o meno estesa, nell’anima di tutti. Alzi la mano chi
non s’è mai lasciato cullare dalle onde dolci di un complimento, di un successo, di un
apprezzamento. Dalla naturale soddisfazione per un risultato positivo è, infatti, facile
passare a sogni di gloria, immaginare di possedere capacità uniche, allargare la ruota
del pavone pensando a un’aureola di luce attorno a sé. La vanagloria ha appunto come
rischio non solo la superbia altezzosa ma soprattutto l’illusione, ed è proprio per questa via che può diventare fin patetica. Lo dice molto bene il poeta romanesco Trilussa
nella sua famosa La lumaca: «La Lumachella de la Vanagloria,/ ch’era strisciata sopra un
obelisco,/ guardò la bava e disse: Già capisco/ che lascerò un’impronta ne la Storia».
L’antidoto alla vanagloria è, allora, prima di tutto il realismo, lo scuotersi dal sogno, il
modesto incidente che ti riporta subito tra i mortali, forse anche tra l’ironia un po’ beffarda degli spettatori che poco prima ti applaudivano.
RIFLESSIONE 2
Una società come la nostra, afflitta dal male oscuro dell’acedia, della nausea del non-senso è paradossalmente malata anche del morbo opposto, la vanagloria, il tarlo che corrode il nostro rapporto con il fare, appiattendolo sull’apparire. Certo l’acedia scaccia la vanagloria e la vanagloria l’acedia, ma entrambi questi vizi saturano l’aria che respiriamo oggi.
Già Evagrio considerava la vanagloria (kenodoxía) all’opposto dell’acedia: “L’acedia
snerva il vigore dell’anima, ma la vanagloria rinvigorisce la mente, se è malata la risana,
e rende il vecchio più robusto del giovane, purché siano presenti numerosi testimoni”.
Così, se l’acedia è atonia, la vanagloria provoca una sorta di iper-tonia: in noi si risvegliano il vigore e la forza, e tutto in vista della lode, dell’applauso altrui. La vanagloria
è davvero una tentazione sottilissima e assai difficile da discernere, un vizio multiforme
che ci attacca da ogni parte, che “come l’edera, si abbarbica e sottrae la linfa che sorge
insieme alle virtù, e non si allontana finché non ne abbia reciso la forza”. La vanagloria,
malattia tipica di chi si crede virtuoso, malattia degli ipocriti, è in fondo una forma di prostituzione: tutto ciò che si fa, lo si fa per farsi vedere, per ostentazione, per “l’immagine”.
Ma qual è la natura profonda della vanagloria? Quali le ragioni del suo sorgere? Fondamentalmente, la vanagloria nasce dall’attribuire più importanza al fare che all’essere,
dal far dipendere il senso della propria vita e la riuscita del proprio agire dal consenso
e dall’applauso altrui. Si mette il proprio io al centro del mondo, come fa il bambino che
esige l’attenzione su di sé di tutti gli sguardi… In tempi di sfrenato attivismo e di ricerca
ossessiva di auto-affermazione, occorre lottare strenuamente contro questa tentazione,
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perché la posta in gioco è capitale: le persone vanno considerate per ciò che sono e
non per ciò che fanno; ogni essere umano è un nome e un volto, non un participio o
una macchina!
Chi si lascia dominare dalla vanagloria misura se stesso solo in base a ciò che fa e mira
ad affermarsi grazie al proprio agire “virtuoso”, ritenendolo non una possibilità di sviluppo della propria personalità o di esercizio dei propri doni per il bene di tutti, ma una via
per imporsi sugli altri. Si crede che gli altri ci valutino per quello che facciamo, e dunque
ci si comporta di conseguenza, finendo per imporre loro questa nostra visione delle
cose: noi esigiamo il riconoscimento altrui, pretendiamo di essere stimati. E non si pensi
che alla base di questo comportamento vi sia una volontà particolarmente perversa: a
volte ciò che scatena l’ansia di emergere è semplicemente – soprattutto per le persone
insicure – un goffo desiderio di essere riconosciuti e valutati.
La vanagloria si manifesta dunque attraverso una sorta di angoscia del fare: per essere
apprezzati dagli altri, si giunge a compiacerli in ogni modo, anche a costo di compiere
il lavoro dello schiavo, mascherando un enorme super-io sotto le spoglie della generosità. Si entra così in un vortice pericolosissimo: se gli altri non ci riconoscono ciò che a
nostro parere dovrebbe esserci riconosciuto, essi divengono degli ingrati, dei nemici,
persone contro cui fare guerra; e tutto questo mentre si perde qualsiasi fiducia in sé e
così appare sempre più difficile ingaggiare la vera lotta, quella contro i fantasmi che
abitano il proprio cuore. Ma chi è preda della vanagloria va incontro a un rischio ancor
più pericoloso: cerca ossessivamente di essere applaudito e ammirato, e così facendo
si prepara a una caduta abissale, nel giorno in cui il fare o l’aver fatto cessano di accompagnare la sua figura, il personaggio che si è abilmente costruito: e la caduta è tanto
più pericolosa, quanto più egli ha compiuto un’inarrestabile ascesa…
E non si dimentichi che questo male è frequente nelle persone religiose che assumono
quei tratti che i Vangeli stigmatizzano nei farisei e negli addetti alla religione. Costoro,
identificandosi alla funzione rivestita, fanno prevalere il ruolo sulla loro realtà, diventano
doppi predicando ciò che non credono possibile e non praticano: organizzano la loro
azione per esibirsi e ogni giorno si sforzano di edificare la propria reputazione morale
e di santità. A costoro Gesù ha annunciato che “prostitute e peccatori li precederanno
nel regno dei cieli”.
Sì, la kenodoxía è tanto grave quanto sottile, perché è facile dissimularla dietro a parvenze di bontà, ascesi e santità; siamo abilissimi a trovare giustificazioni per celare la
vanagloria proprio mentre la coltiviamo in noi con la massima cura. Il rischio estremo
causato da questa passione consiste nell’assumere in permanenza una maschera, affinché gli altri non vedano le nostre debolezze e i nostri limiti. E così si finisce paradossalmente per far emergere in sé l’io autarchico, quello di chi sogna di poter venire a
capo di sé senza dover dipendere dall’agire effettivo, quasi che la realtà e gli altri impedissero sistematicamente il fiorire del proprio immaginario talento nascosto. Ben lo
ha colto Robert Musil nel suo L’uomo senza qualità: “L’abitante di un paese ha almeno
nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di
classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio,
e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in sé, ma essi scompongono lui, ed egli
non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e
poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova.
Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere,
e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette
all’uomo tutte le cose meno una: prendere sul serio ciò che fanno i suoi altri nove carat-
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teri e ciò che accade di loro; vale a dire, con altre parole, che gli vieta precisamente ciò
che lo potrebbe riempire”.
Il passo successivo consiste nell’assumere i modi dell’io minimo, talmente rinchiuso nel
proprio angusto orizzonte da divenire incapace di una minima presa di coscienza della
realtà che lo circonda, fino a cadere in giudizi e comportamenti grossolanamente ridicoli. La lotta contro questa dissoluzione nell’effimero richiede un esame di coscienza
spietato e sincero, a partire da una domanda semplicissima: per chi e per che cosa si
agisce? Per piacere agli uomini o per trovare la propria consistenza nell’essere in verità
se stessi davanti agli altri e all’Altro? Solo per chi accetta di rispondere a tale domanda
si potrà aprire quel cammino finalizzato ad accordare più importanza all’essere che al
fare, nella rinnovata consapevolezza che solo un agire gratuito e trasparente può dare
autenticamente senso alla vita. (Enzo Bianchi La Stampa, 6 gennaio 2008)
PROPOSTA DI ATTIVITÀ
Proponiamo di ascoltare una lezione impegnativa ma magistrale di Umberto Galimberti della durata di 30 minuti (tre parti) sul tema della vanagloria.
Potete trovarla facilmente su you tube.
Consigliamo a voi educatori di ascoltarla prima di proporla ai ragazzi.
Dall’ascolto si può attivare una discussione molto ricca purchè i ragazzi prendano qualche appunto durante l’ascolto.
https://youtu.be/2E3zyDi1fVI (la vanagloria individuale)
https://youtu.be/ADyuA1Hxr1s (la vanagloria collettiva)
https://youtu.be/_dEivR_EMDg
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