PROPERZIO, VERTUMNO E I MORES PUBBLICI

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PROPERZIO, VERTUMNO E I MORES PUBBLICI
MAURIZIO BETTINI
PROPERZIO, VERTUMNO E I MORES PUBBLICI
Per sviluppare il tema che mi è stato assegnato dal comitato scientifico di questo convegno, ho scelto una via che a prima vista potrà sembrare indiretta. Parlerò infatti di un dio, Vertumno, e quindi di una
celebre elegia di Properzio, la seconda del quarto libro. Ma che cosa
c’entrano i mores pubblici con il dio trasformista? A mio giudizio c’entrano, e molto, perché questa divinità ha tutta l’aria di rappresentarli – sia
pure in un modo decisamente originale, e che certo non sarebbe piaciuto a Catone censore. Parlare dei mores in connessione con Vertumno, ci
permetterà inoltre di svolgere qualche osservazione su un tema più generale, ma comunque di grande rilevanza per gli studi sul mondo antico,
che è quello della comparazione. Ma vediamo di che si tratta.
Vertumno è un dio bizzarro. “Heavenly Harlequin”, Arlecchino celeste, lo definiva James George Frazer 1. Né ci pare un caso che questo
singolare dio abbia fornito il soggetto per uno dei dipinti più celebri di
Arcimboldo, a sua volta uno dei più bizzarri fra i pittori italiani del XVI
secolo. Ma chi è propriamente Vertumno? In una sede così ‘properziana’, basteranno certo poche notizie. Si tratta di una divinità metamorfica, la cui statua si ergeva nel Vicus Tuscus e, a quanto pare, era essa
stessa dotata di capacità metamorfiche. Di Vertumno ci parlano soprattutto Properzio, come ben sappiamo, e Ovidio, i quali concordemente
ce lo descrivono come capace di qualsiasi trasformazione: “la mia natura si adatta a qualunque sembiante (figuris)” dice la statua parlante di
Properzio “mutami (verte) come vuoi, farò bella figura (decorus ero)”.
Mentre in Ovidio il dio, stavolta interprete di un racconto mitologico
che lo vede innamorato della bella Pomona, viene descritto così: “può
assumere qualsiasi aspetto (formas), e ciò che tu gli chiederai di diventare,
1
Frazer 1929, 258.
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qualsiasi cosa sia, lo diventerà” 2. Per conoscere i poteri metamorfici di
Vertumno, comunque, la cosa migliore è leggere la descrizione che ce
ne dà Properzio 3:
La mia natura si adatta a qualunque sembiante (figuris): mutami (verte)
come vuoi, farò bella figura (decorus ero). Mettimi vesti di Cos, sarò una
fanciulla che si lascia amare; e se indosso la toga, chi potrà negare che io
sia un uomo (vir)? Dammi una falce e cingimi la fronte di fieno intrecciato:
giurerai che la biada è stata tagliata per mano nostra. Un tempo indossai le
armi, e ricordo che venivo ammirato anche in questo arnese – ma con
addosso un corbello pesante ero mietitore. Sono sobrio se attendo a liti
giudiziarie, ma se ho sul capo una corona griderai che il vino mi ha dato
alla testa. Mettimi in testa una mitra, ruberò le sembianze a Bacco – ruberò
perfino quelle di Febo, se mi darai in mano un plettro. Quando ho in
spalla le reti (cassibus impositis), sono un cacciatore, ma se prendo la pania,
nel catturare i pennuti sono un dio come Fauno. Vertumno può assumere
anche l’apparenza di un auriga (est etiam aurigae species Vertumno), o quello di
un acrobata che libra il suo peso leggero da un cavallo all’altro. Datemi una
canna e farò strage di pesci, ma subito dopo incederò (ibo) con la tunica
discinta, alla maniera di un bel mercante. Posso anche curvarmi sul bastone
del pastore, oppure, sempre io, portare canestri di rose fra mezzo alla polvere. E che motivo avrei di aggiungere ciò per cui ho fama maggiore, ossia
i doni degli orti apprezzati dalle mie mani? Mi contrassegna (me notat) il
verde cetriolo e la zucca dal ventre rigonfio, e il cavolo legato con giunco
sottile. Né fiore sboccia nei prati senza che, prima, languisca con eleganza
sulla mia fronte.
Ecco dunque Vertumno assumere a suo piacimento l’aspetto di chiunque – perfino quello di un altro dio, come Bacco o Apollo, ovvero di
una vecchia donna e subito dopo di un giovane uomo, come nel racconto di Ovidio. Da buona divinità romana, in cui nomen, numen o officium si corrispondono 4, Vertumno reca inscritta la metamorfosi nel suo
stesso nome: il verbo vertere, al quale i Romani riconnettevano il nome
Vertumno, significa infatti “mutare” “trasformare”. In aggiunta alla pro-
2
Properzio, Elegiae, 4; Ovidio, Metamorphoses, 14, 685 sg. Ampia discussione in Boldrer 1999.
3
Properzio, Elegiae, 4, 2, 21. Per l’interpretazione dei vv. 35 sg. cfr. la nota di
Boldrer 1999, ad locum. La traduzione che abbiamo dato differisce in qualche punto da
quella della Boldrer che tende a non accettare le emendazioni proposte per il testo (in più
punti incerto).
4
Servio, ad Vergilii Georgica, 1, 21: nomina numinibus ex officiis constat imposita, “le
potenze divine (numina) ricevono i loro nomi (nomina) a partire dai propri compiti (officia)”.
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vincia della metamorfosi personale, sembra poi che a Vertumno, conformemente al nome che porta, fossero attribuite anche ulteriori relazioni
con la sfera del vertere, del mutare: sovraintendeva infatti ai frutti e gli
orti (che “mutano” colore e sapore maturando), all’innesto (che “trasforma” la natura originaria di una pianta), al mutare delle stagioni, allo
scambio commerciale e agli affari (in cui merce e danaro si “mutano”
l’una nell’altro), al mutare degli eventi e, almeno una volta, alla “mutazione” subita dal corso del Tevere. Non abbiamo tempo di discutere
questi ulteriori segmenti in cui si articola l’officium metamorfico del dio.
Limitiamoci a sottolineare che, anche alla base di queste provincie collaterali, sta comunque il processo della mutazione e della trasformazione.
Vertumno resta sempre un dio del vertere.
A questo punto però, come anticipavamo, sorge una domanda di
tipo comparativo: la religione greca possiede qualcosa di simile?
Inutile dire che tutte le divinità antiche hanno capacità metamorfica – o meglio che, non disponendo di una propria identità personale,
possono assumere quella che più desiderano. A parte ciò, però, parlando di uno specialista della metamorfosi come Vertumno è difficile non
pensare subito, sul versante greco, all’altro grande specialista di quest’arte: Proteo, “il gran vecchio del mare” che, come racconta Omero,
aveva il potere di “mutarsi in tutto ciò che si muove sulla terra, e acqua, e fuoco che fiammeggia meraviglioso”. Tant’è vero che, una volta
afferrato da Menelao e dai suoi compagni, i quali volevano conoscere
da lui la via del ritorno, “per prima cosa si fece leone dalla folta criniera, poi serpente, pantera ed enorme cinghiale; diventò liquida acqua,
albero dall’alta chioma” 5.
Se le analogie fra Proteo e Vertumno – divinità entrambe caratterizzate da un’eccezionale capacità metamorfica – sono evidenti, altrettanto
evidenti sono però le differenze che le separano. In primo luogo Proteo è
una divinità dotata di poteri profetici, che si serve delle proprie capacità
5
Omero, Odyssea, 4, 41 sgg., 456 sg. Quando l’Aristeo di Virgilio dovrà compiere la
medesima impresa, per interrogare Proteo a proposito della morte delle sue api, si
troverà ad affrontare un dio che possiede l’arte di mutarsi “nei modi più mirabili: fuoco,
orribile belva e fiume che scorre via”: Virgilio, Georgica, 4, 405 sgg., 441 sg. Luciano, De
saltatione, 19, interpretava ‘evemeristicamente’ il mito di Proteo come originato da un
pantomimo, “capace di assumere la forma di qualsiasi cosa e di trasformarsi, di imitare
la fluidità dell’acqua e la veemenza del fuoco ...” Lo stesso discorso vale per il Periclymenus
di Ovidio, Metamorphoses 12, 556 sgg., a cui il padre Nettuno aveva donato la capacità di
assumere omnes formae – particolarmente animali: leone formica serpente, sciame di api,
aquila – e usando queste arti metamorfiche si scontra con Eracle.
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metamorfiche per sfuggire alle pretese degli interroganti; al contrario
Vertumno non si occupa di profezia e le sue metamorfosi non sono di
carattere difensivo. In secondo luogo Proteo è una divinità marina, un
“pastore di foche” che divide la sua vita fra gli abissi e le grotte della
costa di Pharos; al contrario di Proteo però – e di altre divinità greche
al tempo stesso acquatiche e metamorfiche come Métis e Thétis – Vertumno non ha nulla a che fare con le acque. È vero che una volta ha
deviato il corso del Tevere, ma lo ha fatto, per citare John Scheid Jesper
Svenbro, “comme le principe divin de l’action de Tiberinus, incapable
de ‘se détourner’ par lui-même” 6. Infine, le metamorfosi di una divinità
come Proteo sembrano avere qualcosa di curiosamente ‘programmato’,
se così possiamo dire. Sono organizzate secondo un ordine preciso
– leone, serpente, pantera, cinghiale ... – esaurito il quale la divinità
torna ad essere se stessa. Al contrario, le metamorfosi di cui è capace
Vertumno sembrano procedere sia in modo disordinato sia, soprattutto,
in modo aperto: il dio dà l’impressione di potersi trasformare ad infinitum. Proteo e Vertumno, divinità certamente comparabili per il loro comune riferimento al mondo della metamorfosi, sono dunque separate
da almeno tre macroscopiche differenze – talmente visibili da rischiare
però di metterne in ombra una quarta: molto più interessante, almeno
dal mio punto di vista. Contrastando i due modi di far metamorfosi,
quello di Proteo e quello di Vertumno, possiamo infatti accorgerci che il
primo ricopre la sfera della natura, il secondo quella della società. Il dio
romano non si muta in leone, albero o fuoco, le sembianze che assume
rientrano tutte non solo all’interno della dimensione umana ma, meglio
ancora, all’interno del cerchio che racchiude la civitas. Rivediamo rapidamente le varie formae che Vertumno ha la capacità di assumere: fanciulla dalle vesti di Cos, cittadino togato, mietitore, bovaro, potatore,
soldato, pescatore, cacciatore, auriga, cavallerizzo acrobatico, Bacco, Apollo, vecchia, giovane uomo e così di seguito ad infinitum. Il vertere di
Vertumno si realizza attraversando una pluralità di ruoli interni alla comunità, egli è decisamente un funambolo delle identità ‘civiche’. Guidati dal dio romano della metamorfosi, dunque, siamo penetrati nel territorio che più ci riguarda: quello della società, e dunque dei mores. Ma
proseguiamo.
Che per Vertumno il raggio della metamorfosi non superi quello
costituito dalle identità umane e sociali, è dimostrato anche da un’interessante testimonianza di Orazio. In alcuni versi delle Satire, Davo
6
Scheid-Svenbro 2004, 176 sgg.
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descrive il carattere di Prisco, un personaggio che “visse da incostante”
(vixit inaequalis). Vediamo in che forma e per quale motivo 7:
A volte lo si vedeva contrassegnato (notatus) al dito da tre anelli, altre
con la sinistra nuda. Visse da incostante. Da un’ora all’altra mutava la banda (clavus) della tunica, lasciava un grande palazzo (aedibus ex magnis) per
andarsi a nascondere in posti da cui un liberto appena decente sarebbe
uscito disonorato. Oggi donnaiolo (moechus) a Roma, domani filosofo (doctus)
ad Atene. Era nato con i Vertumni sfavorevoli, tutti quanti sono (Vertumnis
quotquot sunt natus iniquis).
Davo ci parla qui non di Vertumno personaggio mitologico, alla
maniera di Ovidio, o della sua statua, alla maniera di Properzio. In
gioco adesso c’è esplicitamente la vis numenque del dio, la sua capacità
di influire sulla vita degli uomini. Dunque ci viene detto che, se al
momento della nascita i Vertumni si presentano sfavorevoli, il carattere
del nuovo nato ne risentirà e sarà dominato dalla inaequalitas: l’incostanza 8.
La caratteristica plurale inaspettatamente assunta da Vertumno – si
parla di Vertumni ... iniqui, non di un Vertumno iniquus – potrebbe forse
creare qualche sconcerto. In realtà ci troviamo di fronte a un fenomeno
piuttosto normale all’interno della religione romana, in cui molte divinità possono presentarsi indifferentemente in forma singolare o plurale:
al Lar fanno infatti riscontro i Lares, a Semo i Semones, a Silvanus i Silvani, a Faunus i Fauni, a Carmentis (o Carmenta) le Carmentes, alla Camena
le Camenae, a Ceres le Cereres, a Venus le Veneres, a Iuno le Iunones, e così
via. Dunque non ci soffermeremo su questo tema. In ogni caso, è un
altro l’aspetto che ci preme sottolineare. Non c’è dubbio infatti che il
carattere ‘vertumnico’ di Prisco si esplichi specificamente sul piano della
sua identità sociale, decisamente mutevole. Nascere “con tutti i Vertumni
sfavorevoli”, vuol dire essere condannati a mutarsi, a trasformarsi, ad
essere continuamente ‘qualcun altro’ all’interno della civitas: in una parola, ad essere privi di un’identità sociale stabile. Nella fattispecie, sembra anzi che Prisco fosse spinto ad assumere ruoli decisamente contrastanti fra loro, addirittura polari. Cominciamo dagli anelli.
7
Orazio, Saturae, 2, 7, 14; cfr. Fedeli 1994.
L’espressione Vertumnis ... natus iniquis sembra corrispondere a quella, di carattere
proverbiale, dis nasci iratis, adversis, inimicis, bonis etc. (cfr. Otto 1962, 110, 9: KiesslingHeinze 1921, ad locum, 321; Fedeli 1994, ad locum, 593); cfr. lo stesso Orazio, Carmina, 4,
5, 1 divis orte bonis, optume Romule (Fraenkel 1993, 598 sgg.).
8
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A Roma l’uso di questo ornamento era oggetto di una complessa
codificazione simbolica. Il metallo di cui gli anelli erano composti, il
loro numero, il loro disegno erano espressione tanto di ricchezza, quanto di rango o posizione sociale. L’uso romano tradizionale era, sembra,
il seguente: i comuni cittadini portavano un semplice anello di ferro,
mentre a senatori e cavalieri ne era concesso uno d’oro. Plinio però ci
dice che, al tempo suo, i Romani ricchi tendevano ormai a “caricarsi le
dita di pingui fortune”, e sono molte le voci che ci parlano di uomini
le cui dita rigurgitano di anelli. Marziale, chiedendosi come mai Carino non si toglie mai – neppure di notte, neppure al bagno – i sei
anelli che porta a ciascun dito, risponderà così: “semplice, perché non
possiede una dactyliotheca” 9. Per altro verso Ateio Capitone, esperto di
diritto pontificale, sosteneva che gli schiavi “non avevano diritto (ius)
di portare anelli”, cosa che spiega forse perché Plinio trovasse così disdicevole il fatto che “ormai anche gli schiavi adornano d’oro i loro
anelli di ferro” 10.
Con questo suo oscillare nell’uso degli anelli, dunque, Prisco lanciava ambigui segnali di appartenenza sociale – a volte ricco signore, a
volte addirittura servo, o giù di lì. La stessa cosa accade con un’altra
tipica marca di status, la casa. Prisco, lasciando un grande palazzo per
cacciarsi in una dimora indegna perfino di un umile liberto, altera bruscamente la propria collocazione all’interno della civitas; ancora più esplicitamente, cambiando la banda (clavus) che orna la tunica, egli oscilla
fra il rango senatorio (latus clavus) e quello equestre (angustus clavus): e
lo fa addirittura “da un’ora all’altra” 11! Come se non bastasse, Prisco
9
Plinio, Naturalis historia, 33, 22 (tutti i paragrafi 14-31 sono interamente dedicati
all’uso e ai valori simbolici connessi agli anelli, e sono ricchissimi di informazioni al
riguardo); Marziale, Epigrammaton, 11, 59: cfr. anche 37; Ovidio, Ars amatoria, 3, 445 sg.;
Seneca, Naturales quaestiones, 7, 31, 2; Quintiliano, Institutio oratoria, 11, 3, 142; Isidoro,
Etymologiae, 19, 22; etc.
10
Quanto all’uso di indossare l’anello, o gli anelli, alla mano sinistra e non alla
destra, secondo Macrobio, Saturnalia, 7, 12, 11 sgg., si tratterebbe di un’evoluzione del
costume ugualmente dovuta agli eccessi del lusso: i “frequenti movimenti” (creber motus)
della destra, infatti, avrebbero infatti rischiato di rovinare le pietre preziose che ornavano gli anuli, mentre il carattere “più ozioso” (otiosior) della sinistra li avrebbe salvaguardati. Si tratta di un’abitudine connotata probabilmente anche da effeminatezza: Mevio,
che indossa anelli alla sinistra, viene accusato da Sempronio Gracco di essersi ornatus ut
mulier (C. Sempronius Gracchus, In Maevium, fr. 20 Malcovati: Malcovati 1967, 195); cfr.
Plinio, Naturalis historia, 33, 23.
11
Per l’interpretazione di questo continuo ‘mutar banda’ cfr. la nota di Kiessling Heinze 1921, ad locum.
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poteva perfino alternare il ruolo di libertino nella capitale del piacere,
Roma, con quello, decisamente opposto, di intellettuale nella capitale
della cultura, Atene. Allo stesso modo del dio che gli ha voluto male
alla nascita, dunque, anche Prisco possiede la capacità di assumere le
identità sociali più disparate. In questa singolare inclinazione del personaggio oraziano, possiamo immediatamente cogliere la cifra del vertere
di Vertumno. In un certo senso, Prisco rassomiglia a un simulacro vivente
di Vertumno.
Torniamo per un momento al tema della comparazione, e vediamo
un’ulteriore differenza che intercorre fra le metamorfosi di Proteo e quelle di Vertumno. Quando il vecchio del mare si trasforma, nessuno si
preoccupa di dirci “come” o “per mezzo di che cosa”: il vecchio del
mare diventa direttamente acqua, fuoco, albero, leone, cinghiale e così
via, semplicemente egli assume queste forme. Al contrario, per passare
da un’identità all’altra, da un ruolo sociale all’altro, Vertumno sembra
aver bisogno di ricevere uno specifico attributo: che potrà essere costituito, di volta in volta, da una veste leggera (fanciulla), da una toga (cittadino), da una falce (mietitore), dalle armi (soldato), dalla mitra (Bacco)
e così via. Le metamorfosi di Vertumno sembrano insomma essere legate
alla presenza di una “marca” specifica, capace di contrassegnare ciascuno dei ruoli che vengono assunti. Scheid e Svenbro parlano giustamente, a questo proposito, di “transformation par métonymie”, nel senso
che le metamorfosi di Vertumno si realizzano attraverso l’attribuzione
alla statua del dio, ovvero al suo personaggio mitologico nel racconto
ovidiano, di qualcosa che ha “un rapport existentiel” con i vari personaggi dei quali viene assunta l’identità. Noi però preferiremmo parlare,
a questo proposito, di un processo metamorfico a carattere semiotico, e
per questo motivo.
Al momento in cui il Vertumno di Properzio designa se stesso nel
ruolo di ortolano, si esprime in questo modo: “mi contrassegna (me
notat) il verde cetriolo e la zucca dal ventre rigonfio, e il cavolo legato
con giunco sottile”. Ora notare è un verbo assai specifico, un derivato da
nota “segno”: parola che nella terminologia semiotica dei Romani indica
un tipo particolare di segno, quello non ambiguo, facilmente interpretabile perché convenuto o comunque ben codificato. Se sottolineo l’aspetto specificamente semiotico delle metamorfosi di Vertumno – di volta in
volta il dio è notatus dalla presenza di un certo attributo – è soprattutto
perché anche Prisco, l’incostante e ‘vertumnico’ personaggio di Orazio,
per manifestare le proprie metamorfosi sociali fa ricorso allo stesso procedimento. Come dice Orazio, “a volte lo si vedeva contrassegnato (notatus) al dito da tre anelli, altre con la sinistra nuda”. Anche Prisco
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dunque muta identità sociale attraverso un meccanismo di notae. A questo proposito vale anzi la pena di aggiungere che per indicare il clavus
della tunica – quello che Prisco mutava da un’ora all’altra, passando
così dal rango di senatore a quello di cavaliere e viceversa – i Greci si
servivano proprio del termine seméion “segno”. Anche il clavus, come
l’anello, costituisce dunque esplicitamente un “segno” che indica identità, rango, appartenenza e così via. Lo stesso discorso vale ovviamente
anche per tutti gli altri ornatus attraverso i quali Vertumno muta la propria identità. Se la toga è notoriamente “segno” di appartenenza alla
città di Roma, la mitra di Bacco o il plettro di Apollo fanno parte di
quegli attributi divini che i Romani, non a caso, definivano insignia (termine derivato da signum) della divinità: ossia quelle marche che, come
le stelle auree per Castore e Polluce o la “corona murale” per la Magna
Mater, permettevano di identificare un’immagine divina.
Perché insistiamo tanto su queste notae, insignia o come altro vogliamo chiamarle, che caratterizzano il processo metamorfico di Vertumno,
mentre sono del tutto assenti nelle trasformazioni di Proteo? Perché la
maggior parte di questi “segni” sono tratti da un campo particolare,
l’abbigliamento. Ora, per i Romani l’abbigliamento rientra esplicitamente
nella sfera che ci interessa: quella dei mores, i costumi condivisi da un
gruppo o da una comunità. Pochi esempi basteranno.
Il fatto che le donne, nella famiglia dei Quinti, non usassero portare oro, è definito mos da Plinio, così come nella famiglia dei Serrani
era costume gentilizio (gentilicium erat) che le donne non portassero
vesti di lino. Allo stesso modo viene definito mos il fatto che i Cethegi
non indossassero mai la tunica, così come, secondo Cicerone, “gli attori di teatro hanno tanto rispetto per il pudore che, secondo una loro
antica usanza (mos), nessuno di essi andrebbe in scena senza indossare
la fascia che copre l’inguine”. Forse però l’esempio migliore di questo
stretto rapporto che i Romani stabilivano fra l’abbigliamento da un
lato, i mores dall’altro, ce lo fornisce Virgilio. Siamo quasi alla fine del
poema, al momento in cui Giove e Giunone negoziano la futura identità del popolo che sorgerà dalla fusione fra Latini e Troiani. Giunone
non vuole che questa nuova stirpe rinunzi all’identità latina, come oggi
diremmo, a vantaggio di quella troiana, per cui detta a Giove una
serie di condizioni: in particolare chiede che i discendenti di questi
matrimoni misti non mutino né “lingua” né “modo di vestire” rispetto
ai Latini (uocem ... aut ... uestem). Di fronte a questa richiesta della sorella, Giove la rassicura in questo modo: essi conserveranno sia la “patria lingua” sia i “costumi” dei Latini (sermonem ... patrium moresque).
Ciò che Giunone definiva vestis, Giove lo sostituisce direttamente con
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mores: e ciò avviene in un contesto decisamente ‘caldo’ dal punto di
vista culturale, la definizione dell’identità collettiva di un popolo. Il
fatto è che la vestis è direttamente mos, oggi diremmo che la vestis, in
quanto mos, “fa identità” 12.
Questa valenza ‘identitaria’ dell’abbigliamento a Roma, il suo rinviare esplicitamente alla sfera dei mores, rende ancora più evidente la caratterizzazione sociale delle metamorfosi di Vertumno: mutando le notae
di abbigliamento che lo identificano, questa divinità muta di volta in
volta altrettanti mores di riferimento. Ciò detto, torniamo a contrastare
ancora una volta Vertumno sulla silhouette di Proteo.
Il tipo di metamorfosi praticato dal vecchio del mare, come abbiamo visto, rimanda essenzialmente al mondo della natura: è come se le
sue trasformazioni costituissero una spia della nascosta circolarità che
lega fra loro “tutti gli esseri che nel mondo si muovono”, come dice
Omero, anzi una prova della inesistenza di barriere capaci di tener
separato ciò che all’occhio umano appare irriducibilmente diverso – il
fuoco dall’acqua, il leone dal cinghiale o dal serpente. In altre parole,
Proteo ci appare una divinità che sovverte le identità naturali, negando
le separazioni fra i generi e le specie in cui la natura si articola. Vertumno al contrario è una divinità che sovverte le identità sociali. Allorché questo dio trasformista entra in scena, vengono meno le opposizioni fra la fanciulla e il cittadino togato, fra il senatore e il cavaliere,
fra la vecchia e il giovane, e così di seguito. Le barriere che separano
i sessi, le età, i differenti ranghi sociali, i mestieri, le condizioni umane in genere, vengono cancellati tramite un disinvolto e acrobatico
passaggio da un mos all’altro. Esibendo le proprie metamorfosi Vertumno sembra insomma testimoniare la possibilità che i differenti ruoli
sociali, così rigidamente codificati nella cultura e nella società romana,
siano in realtà fra loro equivalenti e possano essere tranquillamente
sostituiti l’uno dall’altro. Vertumno sarebbe forse una divinità ironica,
che nel mondo degli dei si diverte a realizzare liberamente ciò che in
città non sarebbe mai permesso? Oppure questo dio manifesta un bi-
12
Plinio, Naturalis historia 33, 21: in Quintiorum vero familia aurum ne feminas quidem
habere mos fuerit; 19, 8: qua admonitione succurrit quod M. Varro tradit, in Serranorum familia
gentilicium esse feminas lintea veste non uti. Porfirione, ad Horatii Artem poeticam 50: Non
servaverunt eius, qui inter omnes hi Cethegi unum morem servaverunt; cinctuti non exaudita kái
tá exés: omnes hi Cethegi ... numquam enim tunica usi sunt; Cicerone, De officiis, 1, 129: scaenicorum quidem mos tantam habet vetere disciplina verecundiam, ut in scenam sine subligaculo
prodeat nemo”. Virgilio, Aeneis, 12, 825 sgg.
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sogno profondo, e altrimenti inespresso, dei Romani? Un desiderio di
libertà? La tentazione di trasgredire? Il moralismo di Davo, da buon
servo oraziano, condannava l’inaequalitas di Prisco. Solo che ci farebbe
piacere poter ascoltare anche il parere dell’interessato. Chi ci dice infatti che questo incostante non fosse soddisfatto dei propri vagabondaggi identitari?
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BIBLIOGRAFIA
Boldrer 1999 = F. Boldrer, L’elegia di Vertumnus (Properzio 4, 2), Amsterdam
Hakkert 1999.
Fedeli 1994 = Q. Orazio Flacco. Le Opere, vol. II, tomo I: Le Satire, testo critico
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Hildesheim Olms 1973.
Fraenkel 1993 = E. Fraenkel, Orazio, tr. it. Roma Salerno Editrice 1993.
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Otto 1962 = A. Otto, Die Sprichworter und Sprichwortlichen Redensarten der Romer,
Hildesheim Georg Olms, 1962.
Scheid-Svenbro 2004 = J. Scheid e J. Svenbro, Le mythe de Vertumne, Europe 82,
2004.
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