Terremoto in Emilia: il bisogno di comunità
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Terremoto in Emilia: il bisogno di comunità
Idee e opinioni 2 Sabato, 9 giugno 2012 L a notizia è di fonte autorevole e rassicurante. Un ulteriore recente studio pubblicato su rivista scientifica prestigiosa di livello mondiale scagiona l’utilizzo normale del telefono cellulare come responsabile di tumori al cervello. Restano dubbi per chi ne fa un uso smodato, di diverse ore al giorno. Ne siamo ovviamente contenti, e l’informazione ci dà l’occasione per alcune riflessioni sull’uso e abuso dei cosiddetti telefonini. Ormai sono entrati come locomotive lanciate senza guidatore nelle nostre vite e per la verità se ne sono in parte impossessati. In Italia ci sono più cellulari che persone. Non si può neppure più parlare di telefoni e basta, sono “smartphone” cioè piccole centraline in grado di svolgere diverse operazioni: memoria, calcolo, smistamento posta, musica, fotografia, filmati, orologio, navigatori, ed altre centinaia di impensabili applicazioni, per le funzioni ✎ L’opinione | Uso e abuso del telefono cellulare di Mario Guidotti più disparate. Siamo sinceri: ne facciamo un uso esagerato, che va sicuramente oltre il necessario. Tutto questo ci fa bene? Vediamo alcuni esempi. E limitiamoci inizialmente alla funzione base: la telefonia. Pensate un attimo ad una coda in banca o alle poste o al supermercato. Una persona su tre parla al cellulare. E’ sempre così urgente e necessario? Anche senza volerlo siamo obbligati a sentire il contenuto della conversazione: racconta che cosa si è fatto la sera prima. Molto socievole e forse umanamente utile, ma è indispensabile? Ancora. Un automobilista su 4 è al telefono (badate bene, non SPIGOLATURE | di Stefano Malagoli in vivavoce ma all’orecchio, cioè vietatissimo). Sempre in auto, 1 su 5 manda messaggi mentre guida, evento tra i più nefasti e pericolosi per l’incolumità, propria ed altrui. Fateci caso, quando la macchina che avete davanti sbanda lentamente su un lato, potete scommettere che il guidatore sta mandando un sms. E poi in bicicletta: ciclisti dal viso smagliante sfrecciano (spesso sul marciapiede) con una mano bene incollata con il cellulare all’orecchio, allegramente vocianti. Terribile poi in treno: non si riesce a leggere e studiare perché costretti ad ascoltare le conversazioni urlate del Terremoto in Emilia: il bisogno di comunità L unedì 4 giugno è stata una giornata di lutto nazionale per le vittime del terremoto che continua ancora a frustare l’Emilia, è una giornata piovosa che sembra voler piangere anch’essa per il dramma che sta vivendo la bassa pianura emiliana. Pianto e preghiera per i morti, 17 solo in provincia di Modena dopo la scossa di martedì 29 maggio che si aggiungono alle 7 vittime del 20 maggio, ci saranno le case, le chiese, le aziende, i monumenti e le stalle da ricostruire; tutta l’economia di questa terra abitata da gente intraprendente e coraggiosa da far ripartire. Sarà dura, ma certamente ce la faremo, grazie anche alla solidarietà, grandissima, che si è messa in moto in queste giornate e che gli emiliani stanno sperimentando concretamente ogni giorno. Verrà il tempo di rimettere i mattoni uno sull’altro: la forza e la tenacia aiuteranno e sosterranno gli animi. Oggi, però, dopo la scossa che ancora ieri sera ha colpito con magnitudo 5.1, quello che occorre maggiormente è ricostruire speranza, infondere coraggio e fiducia. Sì, perchè questo “terremoto continuo” alla fine rischia di far crollare, insieme ai muri, anche e soprattutto il morale, la forza interiore che ognuno ha, le certezze di poter riprendere il cammino che le onde sismiche hanno in qualche modo interrotto in ognuno di noi. Smarriti e spaesati: nei giorni scorsi un passaggio a Cavezzo, Medolla e nelle altre località colpite il 29 maggio lasciava questa sensazione nella gente incontrata. Insieme, però, a segnali che invitano alla speranza e, all’insegna della solidarietà, dicono altro. Prima di tutto della voglia di dirimpettaio. E che dire delle suonerie: da canzoni inascoltabili a cacofoniche marcette, passando per strani latrati e nitriti fino a finte risate di bimbi, un guazzabuglio di suoni che si sentono ovunque, accompagnati da frenetici movimenti di mani femminili nelle borse o di uomini alla caccia di una tasca della giacca nelle circostanze più varie, spesso anche alla Messa. Per non parlare dei posti di lavoro: uffici, ospedali, negozi, banche, quanti sono sempre al telefono! E poi, sempre allegri e ridacchianti mentre parlano, salvo poi invece rivolgersi a noi con un grugno inquietante un secondo dopo che hanno chiuso il magico telefonino. Come se il cellulare fosse un mondo incantato dove regna sempre il sorriso, che svanisce come il vestito di Cenerentola a mezzanotte appena si torna alla realtà. Non è forse così anche per gli automobilisti? Allegroni al telefono, arrabbiati neri con gli altri guidatori e pedoni. C’è però un’eccezione che toglie il sorriso all’abusatore di cellulare: la telefonata della madre che riporta alla realtà o dei figli che chiedono un permesso o di andare oltre l’orario di rientro a casa. Allora diciamola tutta: il telefonino si è trasformato. Da semplice strumento a mezzo per proiettarci fuori dalla realtà che ci circonda. Non se ne spiegherebbe altrimenti un uso così smodato. E allora perché demonizzarlo se ci fa stare bene per qualche minuto? E oltretutto non sembra fare male alla salute? Se il tutto poi non confliggesse con la sicurezza ed il rispetto degli altri ne saremmo ovviamente più contenti. La terra continua a tremare e la gente si sostiene incontrandosi. è la riscoperta di un antico spirito di fratellanza ricostituirsi come comunità. Lo abbiamo visto a Cavezzo, dove in un parco cittadino, un gruppo di persone ha allestito una mini-tendopoli dove ogni sera si celebra la messa e, durante gli ultimi giorni di maggio, si recitava il rosario prima di condividere la cena. Oppure a Medolla dove don Davide, il parroco, pantaloncini e maglietta, ci ha accolto mentre stava allestendo all’aperto, nel cortile delle suore, per la celebrazione di chiusura del mese di maggio. E ci ha detto che i ragazzi dell’Agesci, dopo le prime scosse, sono stati di grande, grandissimo aiuto per l’intera comunità medollese. “Non abbiamo vergogna a confessare il nostro bisogno reciproco di consolazione, di conforto, di speranza”, ha detto qualche giorno prima l’arcivescovo di Modena, mons. Antonio Lanfranchi, presiedendo a Finale Emilia, sotto una tenda, la veglia di Pentecoste che solitamente si celebra in Duomo a Modena. “Il terremoto – ha aggiunto – ha reso inagibili le nostre chiese di pietra ma non ha distrutto (anzi ha consolidato) quella Chiesa formata da pietre vive che sono le persone, i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti, gli anziani”. Una Chiesa viva per poter ricostruire anche la chiesa di pietra “ben sapendo – ha detto ancora mons. Lanfranchi – il valore che il tempio di pietra ha avuto lungo i secoli per formare la coscienza dell’essere comunità”. Essere comunità, ecco il punto. È anche in momenti difficili come questi che se ne scopre l’importanza; la bellezza e la consolazione che viene dal sentirsi insieme a qualcuno, dal condividere fatica e dolore ma anche dallo sperimentare la solidarietà, non solo a parole, offerta senza nulla chiedere in cambio. È così che il coordinamento diocesano attivato per far fronte all’emergenza del terremoto, affiancandosi all’opera preziosissima e insostituibile della Protezione Civile, vede in campo la Caritas diocesana con compiti di coordinamento per la lettura dei bisogni, con i parroci delle zone colpite che diventano un insostituibile punto di riferimento, soprattutto per le comunità loro affidate. E poi anche altre realtà come il Centro sportivo italiano di Modena impegnato nell’animazione delle giornate dei bambini nelle tendopoli. Oppure l’Azione Cattolica modenese che mette a disposizione delle popolazioni terremotate un propria casa in Appennino e si adopera per raccogliere tende e quanto serve. O la parrocchia di Fiorano modenese, nella pedemontana, che in una struttura a fianco del santuario della B.V. del Castello ospita soprattutto anziani e disabili che non potrebbero reggere a lungo nelle tendopoli della Bassa. Senza contare la solidarietà che tanti altri, albergatori dell’appennino o anche semplici privati, hanno da subito dimostrato. Essere e sentirsi comunità, appunto, è anche questo. Quasi una risposta concreta alla preghiera rivolta dall’arcivescovo a Maria e distribuita domenica scorsa nelle parrocchie dell’arcidiocesi su un pieghevole che riportava in copertina il trittico cinquecentesco “L’Incoronazione della Vergine” di Bernardino Loschi, “salvato” dalla chiesa distrutta di San Felice sul Panaro: “Risveglia le coscienze di tutti noi, perché sappiamo rispondere alle necessità degli altri, con giustizia, misericordia e amore”. ◆ Stella polaredi don angelo riva Pedalando verso casa. Un popolo e il suo papà P assione per la bicicletta tanta. Per il Santo Padre: altrettanta. Detto fatto. Domenica 3 giugno, sveglia presto, colazione energetica, pronto lo zaino con il camice per la concelebrazione e la copertura anti pioggia (il meteo dà brutto nel pomeriggio). Alle 6.30 via, destinazione l’autoporto di Bresso, incontro mondiale delle famiglie col Papa. Partenza dal Seminario di Muggiò. Dopo 800 metri il Gran Premio della Montagna di Albate Trecallo, la “cima Coppi” del tragitto…“da qui in avanti è tutta discesa” – ci diciamo per farci coraggio (e anche per zittire quella vocina, fastidiosa come una zanzara, secondo cui certe ragazzate sarebbe poi ora di appenderle al chiodo…). Attraversiamo Cantù e Mariano ancora addormentate, poi Seregno, dove assonnati ambulanti stanno allestendo le bancarelle del mercato rionale, quindi Desio, con un pensiero al grande papa Pio XI, Nova Milanese, e, finalmente, Cusano Milanino e Bresso. Le strade deserte si son fatte man mano affollate. Gente a piedi e in bicicletta, cori e bandiere, sciamare di bimbi e di passeggini, papà muniti di zaino e bebè in braccio. E’ il popolo della famiglia, in cammino verso il Padre della fede. La spianata di Bresso, immensa – si parla di un milione di persone – evoca suggestioni bibliche. Famiglie di tutte le fogge e provenienze, un tavolozzo variopinto, vociante e festoso. Ci sono anche i politici impettiti, proprio dietro noi, da Monti a Bossi, passando per Formigoni e Pisapia. Ma il centro magnetico è lui, il Papa. La conosciamo, quella vibrazione calda che ti afferra, quando lui appare sulla papa-mobile, accolto dal Tu es Petrus. Tante voci, la sua voce: umile e alta, mansueta e serena. Tanti volti, il suo volto: pulito e scavato dal giogo tremendo e soave di Vicario di Cristo. Che gran cosa, il Papato: l’unità della Chiesa cattolica, lì, in quell’uomo! So che qualcuno mi accuserà di “papolatrìa”, ma la cosa proprio non mi sfiora. Preferisco l’amore della gente per il suo Papa, quella fede semplice e popolare che sventola il suo affetto filiale, e non sa che farsene dei “corvi”, delle piccinerie curiali e degli intrighi dentro le mura leonine. Il rito si srotola intenso e perfetto. Un brivido quando le antiche note del Credo gregoriano si appoggiano, sincopate, e paiono adagiarsi, quasi una gettata di cemento armato, su quell’unam, sanctam, catholicam, et apostolicam Ecclesiam: ti sembra di poggiare i piedi sul terreno solido, sulla roccia di Pietro. E poi quelle famiglie linde che salgono dal papa all’offertorio: papà e mamma bellissimi, il bimbo più grande che dà la mano al papà, le due sorelline, vestite uguali nella loro camicetta fiorata, a zampettare vispe davanti all’altare, l’ultimo arrivato ancora in fasce e in braccio alla mamma…sembra quasi che la famiglia del Mulino Bianco esista per davvero! Eppure – intuiamo – chissà quante fatiche, quanti silenzi, quante tensioni anche dentro quel lieto grembo familiare… ma ora quale gioia, quale tenerezza incrociare, come un balsamo rinfrescante, lo sguardo penetrante e paterno del Papa. Che benedice, rassicura, incoraggia… La festa è finita e ci avviamo all’uscita. Sul varco i ragazzi del servizio d’ordine dicono a tutti “grazie di essere venuti”: cose dell’altro mondo! Non piove, e la bici è lì per un salto in piazza Duomo, cappuccino e cornetto prima di ripartire. Perché a noi cattolici piacciono tutte le cose belle. Me gusta la vida, recita una maglietta ispanica davanti a me. Prosit al Papa!