5MB - Pollicino Gnus
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5MB - Pollicino Gnus
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 – CN/RE – iscrizione al ROC n. 24782 del 13/08/2014 pace solidarietà ambiente convivenza pollicino Reggio Emilia, n° 238 lug ago 2015 La “questione curda” e la resistenza di Rojava inoltre » 13 luglio 1920, Daniele Barbieri — Profughi , Saverio Morselli ...e altro ancora! 1 4 6 8 10 14 15 16 22 24 28 Kobane: quale resistenza? 30 32 36 38 42 13 luglio 1920 - Daniele Barbieri Kobane è la rivoluzione Geografia del Kurdistan Breve storia della resistenza curda La resistenza di Kobane Teoria e gineologia Primo maggio 2015 Ma questa è una vera rivoluzione Solidarietà e ricostruzione La costituzione dei cantoni della Rojava Attacco suicida a Suruc all’Amar Cultural Center La costrizione della regolamentazione giuridica Profughi - Saverio Morselli Immigrazione al di là dei problemi e delle opportunità Il cemento, un vizio di famiglia - Edoardo Salzano pollicino pace solidarietà ambiente convivenza Kobane: quale resistenza? è una rivista associata all’Uspi Questo numero di Pollicino Gnus è dedicato ad una questione di cui ogni tanto ci arrivano gli echi anche dalla stampa mainstream. Che siano la ricaduta delle notizie legate allo sviluppo dell’Isis o per la forza intrinseca che questa lotta ha, fatto sta che ognuno di noi avrà sentito parlare qualche volta di Kobane e della resistenza curda nelle regioni siriane della Rojava. Ma tutto resta distante, avvolto da quello strano alone che ricopre le tante resistenze popolari che continuano ad esserci in giro per il mondo e che, come del resto tutto quello che non tocchiamo con mano, dopo un po’ cade nel dimenticatoio. Direttore responsabile Daniele Barbieri Perché quindi Pollicino ha pensato di occuparsi della resistenza curda all’avanzata del fascismo islamista dell’Isis nei cantoni del Rojava? In Redazione Annalisa Govi, Leonardo Zen, Lollo Beltrami, Lorenzo Bassi, Marco Iori, Mariangela Belloni, Matthias Durchfeld, Nicola Guarino, Renato Moschetti, Roberta Tondelli, Roberto Galantini, Silvia Iori, Tarsicio Matheus Rocha Personalmente devo dire che l’interesse per questa storia me l’ha messa la lettura di alcuni articoli apparsi su una rivista tutt’altro che mainstream, “A Rivista Anarchica”, di cui qualcosa riportiamo anche in queste pagine. Incuriosito quindi in particolare dalle parole di David Graeber su “A”, ho partecipato ad una serata informativa su questi temi che si è tenuta lo scorso inverno al circolo Arci di Pontenovo, località San Polo d’Enza in provincia di Reggio Emilia. A margine della serata, risultata molto interessante, chiacchierando con alcuni amici e abbonati è venuta fuori l’idea di dedicare un numero di Pollicino alla questione curda e in particolare al nuovo corso libertario che la Resistenza di Kobane e dintorni sta assumendo, stimolata delle nuove riflessioni del “comandante” Ocalan, indiscusso riferimento politico del movimento di liberazione curdo che, abbandonando la vecchia visione marxista ortodossa, si è aperto ad un’idea di “rivoluzione” molto vicina alle teorie dell’ecologia sociale dell’anarchico americano Murray Bookchin. Proprietario Associazione Pollicino Gnus Redazione via Vittorangeli 7/d 42122 Reggio Emilia tel./fax: 0522 454832 [email protected] www.pollicinognus.it Sono questi i presupposti che ci hanno convinti ad affrontare un argomento che per alcuni nostri lettori potrebbe anche risultare un po’ ostico, nel senso che pur sempre di una lotta di resistenza armata stiamo parlando. Dove va quindi a finire il nostro pacifismo, ci si potrebbe chiedere, se poi andiamo a sostenere chi di fatto sta portando avanti una lotta che comporta anche azioni di guerra? Beh, ci sembra importante provare a discutere di questo fatto che, al di là della Resistenza europea al nazifascismo degli anni ‘40, alla quale ognuno di noi è consapevole di dovere ancora tanto, ci possano essere oggi altre giuste rivolte popolari che scelgono di utilizzare anche la forza per difendersi contro la violenza e l’ingiustizia. Nel già citato articolo di Graeber leggiamo che nel percorso di formazione della Polizia curda dei Cantoni liberati è obbligatorio “seguire un corso di risoluzione non violenta dei conflitti e di teoria femminista prima di essere autorizzati a toccare un fucile”. Questo proprio perché ci si rende conto che la gestione dei conflitti deve avere innanzitutto un approccio di rispetto per la vita altrui e che nella società che si vuole costruire, la violenza si deve tenere sotto controllo e ridurre al minimo. Per tendere a questo traguardo, una formazione non violenta della Polizia è uno dei tasselli indispensabili. Una scelta quindi che ci consegna una tensione verso la costruzione di una società tollerante e pacifica… Una conferma che troviamo anche in diversi passaggi della nuova Carta Costituzionale approvata nelle città curde liberate lo scorso ottobre e di cui riportiamo alcuni stralci anche in queste pagine. L’incombenza di tentare questa incursione difficile se la sono presa i nostri amici e compagni di Alternativa Libertaria di Reggio Emilia che ringraziamo ancora una volta per la disponibilità nei confronti della nostra rivista. Buona lettura! Renato Moschetti (Redazione Pollicino Gnus) 2 Questo numero di Pollicino Gnus esce come sempre mensilmente, gli articoli risentono quindi del mutare delle condizioni di una situazione in evoluzione, il caso del Rojava testimonia che nulla è consolidato, la liberazione dei territori ora sotto controllo della difesa curda non ha impedito incursioni sanguinarie delle milizie IS, la Turchia conferma il proprio ruolo nella disputa medio orientale e minaccia ormai esplicitamente la possibile nascita di una reale autonomia politica dei curdi. Bibliografia consigliata Per comprendere il nuovo corso del PKK • Difesa di un uomo libero (Melagrana Onlus 2005) • Guerra e pace in Kurdistan (Iniziativa internazionale 2010) • Gli Eredi di Gilgamesh, dai Sumeri alla civiltà democratica (Edizioni Punto Rosso 2011) • Il PKK e la questione kurda nel XXI secolo (Edizioni Punto Rosso 2013) • La road map verso i negoziati (Edizioni Punto Rosso 2014) • Confederalismo Democratico (Iniziativa Internazionale 2013) • La rivoluzione delle Donne (iniziativa Internazionale 2013) Altri riferimenti consultati • KURDI, il dramma di un popolo e la comunità internazionale, di Jasim Tawfik Mustafa (BFS 1994) • “L’ingerenza umanitaria: il caso dei Kurdi” di Jasim Tawfik Mustafa BFS 1996 • Anarkismo.net • UIKI, Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia • Rete Kurdistan • Anarkismo.net www.anarkismo.net • UIKI, Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia www.uikionlus.com • Rete Kurdistan www.retekurdistan.it 3 Kobane è la rivoluzione di Gino Caraffi, Alternativa Libertaria Ha indubbiamente ragione David Graeber in merito alla rivoluzione di Kobane e dei curdi, ma non solo, nel Rojava, le sue affermazioni hanno avuto conferma diretta dalla sua partecipazione a incontri sul campo, le analogie da lui delineate tra le donne, guerrigliere del YPJ e le mujeres llibre della Spagna del 1936 non sono poi così campate in aria. La conferma del processo rivoluzionario nei cantoni curdi del nord della Siria ha nella partecipazione delle donne la propria conferma, da sempre le rivoluzioni esprimono desideri che i percorsi della lotta possono trasformare in realtà, desideri che trovano robuste gambe con cui camminare, la rivoluzione che tronca ingerenze altrui e progetti imperialisti, donne e uomini che si mettono di traverso e ridisegnano una comunità ed un mondo dove anche i desideri ed i sogni possano vivere, nel Rojava l’avanzamento delle donne per la conquista dei loro diritti è enorme, la libertà dalla schiavitù di genere vive e si è data le proprie strutture, in ogni quartiere di fianco alla Casa del Popolo si trova la Casa delle Donne, sono nate Accademie delle Donne, e naturalmente le brigate armate delle donne. Nel nuovo sistema di autogoverno almeno il 40% del congresso sono donne ed in ogni ente istituzionale vige un accordo di co-presidenza, un uomo ed una donna sono il doppio presidente di partiti, associazioni e municipalità, le donne del Rojava hanno riaperto il cammino contro la società patriarcale, non solo le donne curde, diventando uno dei grandi nemici del fascismo islamista. Quando la democrazia viene praticata diventa autogoverno, nel momento in cui il simulacro che la ricopre è smantellato si ha la possibilità di aprire nuovi spazi di sperimentazione sociale e politica, questo è quanto accaduto a Kobane nella lotte di resistenza contro il califfato islamico, la democrazia come mezzo vincolante per la costruzione di una società laica ed inclusiva, non confessionale, antipatriarcale, socialista perché non ha mai smesso di agire in una società divisa in classi, anche nel mondo curdo, che finalmente ritrova linfa per vivere una esperienza di riscatto che forse non ha mai avuto. 4 La consacrazione del con federalismo democratico, che tanto deve al pensiero libertario, è una scoperta per buona parte del mondo così attento alle vicende curde, l’abbandono del socialismo autoritario che si fa Stato come paradigma della lotta di liberazione di un popolo ne è la dimostrazione. La nuova elaborazione teorica di Abdullah Ocalan e del PKK ha avuto successo, in una area del mondo, il medio oriente, così selvaggiamente straziato da un violento massacro imposto dai nuovi equilibri internazionali determinati dall’imperialismo di vecchi e nuovi attori, un area dove 25 anni di guerra hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi e dove è oggi quasi impossibile vivere, ebbene l’esperienza di Kobane resta l’unico faro che ne possa illuminare il cammino, per una uscita dal caos sistemico che riprenda la strada per il diritto di vivere. La vittoria di Kobane deve il proprio successo ai suoi combattenti, morti per una giusta causa, quella della libertà di tutti e di tutte, ha misurato la capacità in tutto il mondo della solidarietà internazionalista, centinaia di circoli, associazioni e partiti in tutto il mondo hanno difeso ed appoggiato la rivoluzione nel Rojava, hanno dato la possibilità ai curdi di riconquistare uno spazio politico sociale e culturale altrimenti negato dalle dispute imperialiste, la presenza su Kobane nei duri momenti dei combattimenti di combattenti e non, provenienti continenti del mondo ha dato alla di Kobane un nuovo spirito di internazionalista. testimoni, da tutti i rivoluzione fratellanza È grazie anche alla presenza sul terreno di testimoni e di combattenti di altri paesi che si è potuto verificare la situazione dei profughi, in quelli gestiti dai curdi, aperti e solidali ed a quelli gestiti dall’esercito turco, delle prigioni vere e proprie che assomigliano tanto ai campi di “accoglienza” europei, con l’aggravante del dileggio e del disprezzo delle popolazioni rinchiuse. La costatazione e lo smascheramento di certa propaganda, che serve solo a santificare il profitto di grandi corporation, ha messo in luce che un confine come quello turco è permeabile solamente alle forniture ed alle milizie dell’ISIS, un confine che rinchiude chi vuol fuggire dalla guerra e condanna agli stenti chi ha deciso di combattere, con l’esercito turco sempre intento alla provocazione ed alla prevaricazione militare contro i curdi dl Rojava. Ora si tratta di ricostruire una regione dalle macerie della guerra, la solidarietà internazionale è l’elemento indispensabile perché questa luce non si spenga. Il nome Kurdistan risale alla parola sumerica “Kur” con la quale oltre 5000 anni fa si definiva la “montagna”. Il suffisso “ti” stava ad indicare l’appartenenza. La parola “Kurti” significa quindi “tribù della montagna” o “popolo della montagna”. I Luvi, un popolo che viveva nell’Anatolia occidentale circa 3000 anni fa, chiamavano il Kurdistan “Gondwana” che nella loro lingua significava “terra dei villaggi”. In curdo ancora oggi “gond” significa “villaggio”. Durante il dominio degli Assiri i Curdi vennero chiamati “Nairi” che significava “il popolo vicino al fiume”… I sultani dei Selgiuchidi che parlavano persiano furono i primi ad introdurre nei loro comunicati ufficiali la parola “Kurdistan”, la terra dei Curdi. Anche i sultani ottomani chiamarono Kurdistan la regione dove erano insediati i Curdi. Nome che venne usato comunemente fino agli anni venti del secolo scorso. A partire dal 1925 l’esistenza dei Curdi fu negata, soprattutto in Turchia. Tratto da Guerra e Pace in Kurdistan di Abdullah Ocalan) 5 Geografia del Kurdistan Materiali tratti da “I Curdi nella Storia”, di Mirella Galletti (Vecchio Faggio Editore, 1990) Il Kurdistan, “Paese dei curdi”, occupa una vasta area montagnosa di circa 475 mila kmq. È una regione geograficamente compatta del Vicino e Medio Oriente. Si estende tra il mar Nero, le steppe della Mesopotamia, l’Anti-Tauro e l’altopiano iranico. Il Kurdistan non è uno Stato. Non ha status legale. È un territorio di “frontiera”, ai margini di quattro mondi culturali, etnici e politici da sempre antagonisti: arabo, persiano, turco, russo. È diviso tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Il Kurdistan settentrionale comprende 18 delle 67 province (vilayet) turche: Adiyaman, Agri, Bingól, Bitlis, Diyarbakir, Elázià, Erzincan, Erzurum, Gaziantep, Hakkári, Kars, Malatya, Mardin, Mus, Siirt, Tunceli, Urfa, Van. Ufficialmente viene chiamato Regione dell’Est (Dogu) o Anatolia Orientale (Doáu Anadolu). Il Kurdistan orientale si estende su quattro delle 24 province (ostân) iraniane: Azerbaigian occidentale, Kermanshah, Ilam, Kurdistan. Ufficialmente solo quest’ultima provincia viene riconosciuta curda. Il Kurdistan meridionale comprende quattro delle 18 province (muhafadha) irachene: Erbil, Sulaimaniya, Dehok, Kirkuk. Le prime tre province formano la Regione autonoma curda costituita in Iraq nel 1974 e chiamata anche Regione del Nord. Invece non sono riconosciute come curde la muhafadha di Kirkuk, la capitale petrolifera dell’Iraq e alcune aree con popolazione a maggioranza curda nelle muhafadha di Ninive, Dyala, Waset. Il Kurdistan sud-occidentale congloba anche la regione curda nella Siria settentrionale. Dal punto di vista geografico il Kurdistan siriano è considerato un’espansione del Kurdistan turco, essendo costituito da tre enclavi all’interno della Siria, divise da territori arabi. Le tre aree sono: Kurd Dagh “montagna dei curdi” a nord-ovest di Aleppo; la regione di jarablus e Kobane (Ain al-Arab in arabo, Arab-Pinar in turco) a nord-est di Aleppo; Cezire (in arabo Giazirah – isola) tra il Tigri e l’Eufrate, nella parte settentrionale della muhafadha siriana di al-Hasakah. Cezire annovera la presenza più numerosa di curdi siriani. Comprende 700 villaggi lungo 280 km di frontiera turca tra Rais al-Ain a occidente e il Kurdistan 6 iracheno. È una striscia di pianura profonda mediamente una ventina di km, ma può talora raggiungere i 60 km. Forma un becco d’anatra al confine tra Siria, Turchia, Iraq: frontiera solcata dal Tigri. Il Kurdistan siriano si contraddistingue per il frazionamento territoriale. Per affinità linguistiche e culturali i curdi siriani fanno riferimento al Kurdistan settentrionale. Nel cuore del Kurdistan settentrionale sgorgano le sorgenti dei due fiumi biblici Tigri ed Eufrate che con gli affluenti bagnano vallate molto fertili. Questa regione è caratterizzata da una notevole omogeneità dei sistemi orografici ed idrografici che hanno avuto un ruolo importante per la sedentarizzazione e distribuzione della popolazione. I corsi d’acqua hanno andamento radiale e sono tributari attraverso il Tigri e l’Eufrate del Golfo Arabo. I bacini interni sono spesso occupati, sia in Turchia che in Iran, da laghi per lo più salati di estensione variabile. Merita di essere ricordato il lago di Van, il maggiore della Turchia, che si estende su 3764 kmq, a 1720 metri sul mare. Ha origine tettonica, ma le acque sono trattenute pure da Coltri di lava. È privo di emissari. In quest’area, soggetta a frequenti terremoti, prevalgono le forme vulcaniche con aspetti grandiosi. Il lago salato di Urmia (Rezaiyeh in persiano) delimita in parte il Kurdistan iraniano. Si trova a un’ altitudine di 1250 m. Ha forti oscillazioni di livello e la superficie varia da 4500 a 7000 kmq circa nelle piene primaverili. La salinità è altissima (oltre 200 per mille) e non permette la vita ai pesci. I rilievi periferici spesso restituiscono le precipitazioni cadute nei massicci più elevati sotto forma di grosse sorgenti che sgorgano copiose nel Tauro e nello Zagros, a contatto di strati impermeabili. Una riserva d’acqua è costituita dalla coltre nevosa sui rilievi più alti. Il problema dell’acqua è vitale e per un utilizzo razionale sono state costruite delle dighe soprattutto sul Tigri ed Eufrate nei tre Stati interessati (Turchia, Siria, Iraq). Tra Van e il Golfo di Alessandretta, il Kurdistan è formato da colline e da un altopiano con aspetti diversi: praterie, steppe, aree irrigue. Tra i 600 e i 1000 metri si trovano Gaziantep e Diyarbakir, città protese verso Siria e Mesopotamia. Diyarbakir sovrasta una fertile pianura dove scorre il Tigri. È un importante centro commerciale, viario e carovaniero che da secoli comunica con Mosul in Iraq per mezzo di kelek (zattere) che discendono il Tigri. Il Kurdistan turco è nel suo insieme un territorio di alte montagne. Il grande Ararat, sul quale si arenò l’arca di Noé, oltrepassa i 5 mila metri ed è ai confini tra Turchia, Iran e Unione Sovietica. Hezargol, “mille laghi”, è un’ alta montagna piena di miti e misteri. Secondo una leggenda curda ogni monte ha la sua stella, ma la montagna di Hezargol ne ha due. È considerata la sede della felicità e il rifugio dell’amore puro. Un’altra leggenda spiega le origini del nome. Un tempo c’era un lago che simboleggiava la vita eterna. All’alba un vecchio pastore notò un serpente ferito che, seguito da altri serpenti, cercava di raggiungere il lago. Si immerse nell’acqua; quando ne usci era guarito ed aveva ottenuto la vita eterna. Era ringiovanito ed in ottime condizioni. Il pastore, vedendo questo miracolo, andò dal principe malato da lungo tempo e gli riferì le proprietà delle acque. Insieme tornarono a Hezargol dove, con grande sorpresa, invece di trovare il lago videro un migliaio di laghi. Ogni goccia d’acqua caduta dal serpente si era trasformata in un lago. Fu impossibile ritrovare lo specchio d’acqua originario e così l’umanità perse l’immortalità (IV, K.A. Bedir Khan, 1949:238). Le montagne del Kurdistan iracheno formano un gigantesco arco appartenente al corrugamento del terziario. Scendono quasi a picco sul bassopiano. Sono incise da gole e si presentano aride e nude per la diffusione dei fenomeni carsici. La montagna è grigia, nuda e selvaggia, mentre ai piedi si stendono delle fasce steppose, dove la coltura è possibile senza bisogno di irrigazione. Sono frequenti valli e conche interne, come quelle di Rawanduz e Sulaimaniya. L’erosione superficiale dà luogo a un paesaggio desolato, simile ai calanchi dell’Appennino, da cui emergono spuntoni di roccia. Nelle zone montuose quando affiorano rocce utilizzabili, la casa è costruita in pietra. Per esempio intorno al lago di Vari si usa la lava. 7 Breve storia della resistenza curda a/c Alternativa Libertaria Oggi la “Questione Curda” guadagna nuovamente spazio nelle discussioni politiche internazionali, il “Caos Sistemico” a cui è sottoposto il Medio Oriente, frutto come sempre della disputa imperialista, ha portato in primo piano, per molte delle potenze coinvolte nel conflitto armato vistosamente controvoglia, la condizione dei curdi. Per individuare le caratteristiche del conflitto che vede la partecipazione de curdi nel conflitto armato contro il nascente ed autoproclamato Califfato Islamico del Levante (ISIS), dovremo fare un salto indietro, almeno al trattato di Sevres (Francia) dove il 10 agosto 1920 si definivano, tra le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale e lo sconfitto Impero Ottomano, le nuove aree di influenza economica e militare secondo le più classiche tendenze dell’imperialismo colonialista. Nel corso delle trattative si discusse della possibilità della nascita di uno Stato Curdo, le dinamiche contraddittorie della spartizione dell’area che avevano di fatto già imposto lo smembramento del Kurdistan, lasciando la maggioranza della popolazione rinchiusa nei confini della nuova Turchia con l’isolamento politico e militare delle popolazioni curde che si trovavano a vivere in Iran, nell’Iraq colonia inglese e nella Siria francese. Infatti il trattato di Sevres rimandava ad un futuro prossimo la possibilità dei curdi di realizzare la loro nazione, e da questo punto fino al trattato di Losanna di alcuni anni dopo si coltivò da parte curda l’illusione dell’autonomia nazionale dopo lo sfacelo dell’impero ottomano. 8 Alcuni eventi legati alla nascita del movimento nazionalista Turco di Kemal Pasha rimisero in discussione le linee guida delle trattative di Sevres, fino a giungere nel 1923 al trattato di Losanna, che sanciva la divisione del Kurdistan così come la conosciamo oggi, inglobando la maggior parte del territorio curdo nei confini della rinata Turchia nazionalista. I trattati che sancivano la spartizione di quello che fu l’Impero Ottomano non affrontarono mai la questione della rinascita nazionalista turca, che dal 1915, all’inizio del 1° conflitto mondiale mise in atto lo sterminio del popolo Armeno, quasi due milioni di Armeni vennero uccisi e fatti morire di fame, atroci violenze spinsero i sopravvissuti a rifugiarsi nella attuale Armenia entro i confini della ex Unione Sovietica. Tra le molte contraddizioni che segnarono l’olocausto degli Armeni bisogna segnalare la partecipazione di bande e di militari curdi che si unirono alle operazioni di sterminio e di saccheggio. Migliaia di armeni vennero arruolati, molti volontariamente, nell’esercito turco che combatteva contro la Russia dello Zar e la pianificazione del loro sterminio avvenne proprio nel 1915, in piena guerra mondiale, quando l’esercito turco cercò di attuare il massacro degli armeni già sul fronte di guerra. L’esercito turco iniziò una campagna di diffamazione contro gli armeni che vennero accusati di connivenza con il nemico russo, iniziarono i saccheggi dei loro villaggi da parte sia delle forze dell’esercito turco che di bande di predoni curdi. I militari armeni che tornavano dal fronte venivano sistematicamente uccisi; nella sola Diyarbakir migliaia di soldati armeni vennero selvaggiamente assassinati da reparti misti turco-curdi... un’altra pagina di storia triste ed agghiacciante che vide anche le bande curde partecipi del primo grande massacro del secolo scorso. Negli anni che seguirono gli accordi di Losanna i curdi tentarono in più occasioni la strada della lotta e della rivolta armata. Nella Turchia di Mustafà Kemal (Ataturk) il diffondersi del “Kemalismo” come nuova ideologia di un regime autoritario e laico di stampo fascista aveva come obiettivo la laicizzazione della Turchia sul modello occidentale contro i tentativi di rinascita di un Islam politico e concentrando nelle mani dell’esercito il potere reale del nuovo Stato Turco. La repressione delle attività e delle aspirazioni nazionali dei curdi segnarono profondamente, nei decenni a venire e fino ai nostri giorni, la politica dello Stato turco. Violenze, saccheggi, tentativi di disgregazione delle comunità, divieto ad usare e ad insegnare la propria lingua, un violento processo di “turchizzazione” militare, economico e politico non hanno spento le speranze del popolo curdo, che tra mille contraddizioni è sopravvissuto e mostra ancora oggi una capacità di elaborazione strategica in grado di sfidare il gigante turco. Nella guerra tra Iraq e Iran del 1980-1988, più di un milione di curdi irakeni si rifugiarono in Iran e la divisione tra i curdi di Talabani e di Barzani furono utilizzate abilmente dai paesi in conflitto. In Iraq la prospettiva dell’indipendentismo curdo ha avuto degli importanti risvolti politici e militari. Quella irachena è la seconda comunità curda dopo quella turca per numero di abitanti, le proprie vicende sono state contraddistinte negli ultimi decenni dalla presenza organizzata del Partito democratico del Kurdistan di Barzani e della Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani (Presidente dell’Iraq dal 2004 al 2014). Dopo il massacro di Dersim tra il 1937-38, quando l’esercito turco distrusse decine di villaggi provocando la morte di migliaia di uomini e di donne e imprigionando centinaia di curdi, molti dei quali furono costretti a lasciare il territorio vi fu, nei decenni successivi, un susseguirsi di rivolte armate in tutto il Kurdistan. Tra il 1994 ed il 1997 le due fazioni si combatterono ferocemente. L’invasione e la distruzione dell’Iraq di Saddam Hussein era già iniziata con l’intervento USA, la lotta tra curdi per la gestione delle ingenti risorse petrolifere fu cruenta; Barzani chiese l’aiuto di Saddam Hussein nella guerra contro Jalal Talebani, quello che solo alcuni anni prima aveva bombardato i villaggi curdi con gas asfissianti provocandone migliaia di morti. La repressione turca è stata particolarmente violenta quando i militari hanno preso potere, durante i golpe del 1960, del 1971 ed in particolare del 1980, quando la repressione alla resistenza curda, organizzata dal PKK di Abdullah Ocalan, si scatenò con una violenza devastante sulle comunità curde. Nel 1992 un accordo tra la Turchia e il governo del Kurdistan irakeno permise alle forze armate turche di compiere azioni militari contro il PKK che aveva insediato basi della guerriglia nei territori del Kurdistan iracheno e anche in questo caso si arrivò ad un conflitto interno alle forze della resistenza curda. Rivolte curde vi furono anche in Iran. Nel 1946 fu fondata, dal Partito democratico curdo di Mustafa Barzani (padre dell’attuale presidente del Kurdistan irakeno), l’effimera repubblica di Mahabad. Fu il primo tentativo di costruzione di un Kurdistan indipendente e nasceva nello scenario della nuova spartizione del mondo dopo Yalta, con l’appoggio iniziale dell’Unione Sovietica e dell’Iraq. La repubblica venne schiacciata dalle truppe di Teheran e Barzani ed il suo gruppo di peshmerga rientrarono in Iraq. In Siria i curdi abitano le regioni nord orientali, lungo il confine turco, luogo di rifugio delle popolazioni curde sottoposte alla repressione turca. È in queste regioni che si sviluppa e si articola il nuovo corso della resistenza curda; a Kobane e nel Rojava sembra infatti sia iniziata una nuova storia. 9 La resistenza di Kobane di Gino Caraffi, Alternativa Libertaria Nella guerra civile che insanguina la Siria, le tre regioni curde del nord est hanno trovato un accordo con il governo di Damasco e dal 2012 le Unità di Protezione del Popolo hanno combattuto a fianco della 104^ Brigata leale a Basher al Assad. L’autonomia della Rojava nasce dalla vittoria militare delle milizie delle YPG/YPJ contro le forze fondamentaliste di Al-Nusra e contro l’Esercito Libero di Siria nella battaglia di Ras Al-Ayn (Serêkanî in curdo). Da una parte abbiamo le formazioni curde dell’YPG con le combattenti del YPJ e dall’altra le forze islamiste di Al-Nusra, nate nel gennaio 2012 nel bel mezzo della guerra civile siriana finanziata dai paesi del Golfo con l’intento di creare un emirato islamico in Siria. Queste forze islamiste sono affiliate alla rete di Al Quada in Siria ed in Libano e sono ora considerate da molti paesi una organizzazione terrorista. L’esercito libero di Siria (acronimo FSA in inglese) è invece la milizia anti Assad che ha ricevuto i maggiori aiuti internazionali, in armi e danaro, dai paesi occidentali nella loro operazione di destabilizzazione siriana. Anche la Turchia non ha mai fatto mancare il proprio aiuto a questo esercito “sunnita moderato”. Il FSA ha almeno il 15% di curdi combattenti nonché drusi ed alawiti tra le sue fila. 10 Questa lunga battaglia ha avuto tre fasi: la prima dall’8 novembre al 17 dicembre 2012, la seconda dal 17 gennaio al 19 Febbraio 2013 e la terza e ultima fase tra il 16 e il 17 luglio 2013. Alla fine, è stato firmato un accordo di cessate il fuoco con l’Esercito Libero di Siria (acronimo FSA in inglese) ed è stata riconosciuta la sovranità curda dalla principale forza di opposizione al clan di Assad, appunto l’Esercito Libero di Siria. Questo per il semplice motivo che le operazioni dirette dalla Turchia e dai suoi alleati sullo scacchiere siriano, non prevedevano nessun tipo di autonomia ai curdi e i finanziamenti ed il sostegno dato all’ISIS da Turchia, Arabia Saudita, USA e Gran Bretagna avrebbero garantito la continuità nella repressione delle popolazioni curde sul territorio siriano. Va anche ricordato che diversi curdi, in altre città della Siria, si sono arruolati nell’esercito islamico. In questo contesto dopo l’attacco dell’ISIS a Kobane anche il Governo Regionale Kurdo dell’Iraq ha inviato i suoi peshmerga in aiuto della resistenza di Kobane, fino ad allora osteggiata. Nel settembre del 2014 inizia l’assedio di Kobane da parte dell’ISIS, miglia di persone si riversano in Turchia per fuggire dalla guerra, quello che segue è uno dei primi report sulla resistenza di Kobane scritto dagli attivisti anarchici turchi del DAF, impegnati a permettere il passaggio in Turchia dei curdi in fuga dalla guerra: “4 ottobre: ultime da Kobane Lo Stato turco, che si sta preparando ad intervenire per evitare il pericolo ISIS, è al tempo stesso infingardo verso l’offensiva portata dai sostenitori di ISIS attraverso i confini turchi, dimostrando così l’ipocrisia della politica di Istanbul. ... Dal momento che il governo di Urfa ha chiuso il confine verso Suruc, i nostri compagni si sono uniti agli altri attivisti del DAF attraverso altri percorsi andando a rafforzare lo scudo umano. Al tempo stesso l’esercito turco ha aumentato i bombardamenti sulla gente di Kobane che cerca di entrare in Turchia dal confine di Müsritpınar. Dopo avere respinto l’ISIS dalle colline a 500 metri dal confine, nei giorni seguenti le YPG si sono ritirate dal fronte occidentale. Questa ritirata strategica è una mossa efficace nei confronti degli armamenti pesanti dell’ISIS. Gli scontri sono aumentati nel corso della notte. Un appello a “fermare la città” è stato raccolto nella città di Amed in solidarietà con la resistenza a Kobane, con la chiusura di negozi e scuole in Amed e nel resto del Kurdistan. La vigilanza lungo il confine è sempre più importante dato che l’ISIS sta ricevendo in questi giorni altri rifornimenti proprio attraverso la frontiera turca. Dai compagni veniamo a sapere che gli abitanti di Kobane sono vittime di persecuzioni nei pressi del confine a Yumurtalik. Molti i malati ed i feriti. Bambini senza cibo ed acqua. Molti feriti aspettano per ore senza nessuna assistenza e vengono portati a Suruc sul rimorchio dei camion. I soliti sciacalli cercano di vendere cibo agli abitanti di Kobane a prezzi maggiorati. Il gruppo di scudo umano cerca di intervenire contro questi opportunisti. L’ISIS ha intensificato i bombardamenti sui villaggi ad 1-2 km da Kobane ed insiste a ovest della città. Il fuoco di sbarramento dell’esercito turco delle prime ore del 3 ottobre è alquanto significativo considerando che i piani militari prevedevano sinora la protezione del mausoleo di Solimano ed i presidi militari. La Turchia che ha lasciato per mesi che l’ISIS si rifornisse attraverso i suoi confini sta ora puntando ad altri vantaggi strategici mascherati da aiuti. La polizia militare turca minaccia lo scudo umano di cui fanno parte i nostri compagni e continua gli attacchi destinati a far evacuare la città. Lo Stato turco che si sta preparando ad intervenire per evitare il pericolo ISIS è al tempo stesso infingardo verso l’offensiva portata dai sostenitori di ISIS attraverso i confini turchi, dimostrando così l’ipocrisia della politica di Istanbul. Come anarchici rivoluzionari, in questi giorni in cui vediamo la lotta del popolo di Kobane lotta per la libertà come nostra lotta per la libertà, stiamo diffondendo i principi della Azadî/Libertà in tutta l’area. Non permetteremo a nessuno stato, a nessun capitalista ed a nessuna gang di assassini di nuocere al popolo di Kobane. Le donne compagne anarchiche (Organizzazione della Donne Anarchiche) sono sulla strada per diffondere la solidarietà rivoluzionaria dicendo: “tutte a Kobane per la distruzione dei confini e per la costruzione della libertà!”. Lunga vita alla resistenza di Kobane! Lunga vita alla rivoluzione in Rojava” 134 giorni di assedio. La resistenza di Kobane è divenuta patrimonio di tutti, la solidarietà internazionale si è estesa, fino a proclamare per il 1^novembre 2014 una giornata internazionale per Kobane ed il Kurdistan; tra i promotori dell’appello Noam Chomsky, Desmond Tutu e Perez Esquivel. La lotta dei curdi ha ripreso il cammino e il nuovo approccio politico scaturito dalla nuova elaborazione teorica del PKK e di Abdullah Ocal ha trovato nei cantoni curdi della Siria del nord il proprio banco di prova. La lotta armata nella resistenza contro l’avanzata del fascismo islamico ha ridato dignità a quelle popolazioni, gli ha permesso di diventare un riferimento importante per tutta l’area medio orientale; il ruolo delle donne, il riemergere di rivendicazioni di genere in una società fortemente caratterizzata da forme di maschilismo e nutrita nei secoli dall’equivoco patriarcale è stato possibile grazie alle nuove teorie scaturite dall’isola di Imrali, l’isola-prigione dove Öcalan, il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), ha elaborato le nuove teorie “libertarie” che stanno dando una importante svolta politica e culturale alla resistenza curda e quindi alla storia dell’intera area. Una storia che ha visto, nel corso dei decenni precedenti, le popolazioni curde come vittime sacrificali nella definizione degli equilibri imperialisti dell’area, di volta in volta complici e vittime di disegni egemonici altrui, di tentativi armati e rivoluzionari soffocati nel sangue, accompagnati anche da forti contraddizioni. Tentativi armati che ricevettero nuovi impulsi con la creazione del PKK (fondato nel 1978 dopo il golpe militare fascista del 1971), che fondava la sua base progettuale su un approccio socialista e indipendentista. 11 12 Le operazioni della guerriglia si intensificano in particolare a partire dal 1984 e gli scontri armati tra PKK ed esercito turco producono circa 40.000 morti... Ma siamo al tramonto delle contraddizioni politiche del mondo bipolare, l’Urss di li a poco cesserà di esistere. Se da una parte la repressione condotta dall’esercito turco in Kurdistan si macchierà di saccheggi e violenze inaudite a carico della popolazione civile, dall’altra le azioni del PKK vennero spesso osteggiate e denunciate dalla sinistra turca antinazionalista. È da questa premessa e da questa sconfitta che inizia la nova elaborazione teorica e strategica di Abdullah Ocalan (APO), una elaborazione contraddistinta da una feroce autocritica rivolta al ruolo del PKK dei decenni precedenti, dall’abbandono della lettura “coloniale” dell’oppressione dei curdi e, più gramscianamente, dalla riscoperta dell’analisi sociale, approfondita e coraggiosa, della e sulla società curda, sul ruolo nefasto della religione, sulle divisioni claniche che perdurano ed impediscono un nuovo e più democratico assetto sociale ed economico, sulla lotta per l’egemonia del partito riconosciuta come deleteria al progredire di pratiche democratiche ed inclusive, sulla negazione dello Stato Nazione in quanto strumento di oppressione e di perpetuazione del privilegio. I temi affrontati ci riportano alle elaborazioni libertarie di Murray Bookchin, il ruolo delle comunità di base, del municipalismo libertario come spazio vitale sociale e politico, la pratica democratica come antidoto alla prevaricazione, la donna in un ruolo da protagonista nella sua vita sociale in una feroce critica della società patriarcale. Questi elementi e queste teorie, che verranno amalgamate nel nuovo processo politico del Confederalismo Democratico, come dicevamo, ridanno una nuova capacità di lotta al popolo curdo. Nessuna forma di spontaneismo ha generato questo processo, che si è dipanato ed ha trovato nel battesimo del fuoco di Kobane e di Rojava la sua prima sperimentazione pratica. Due sono le organizzazioni politiche curde con i loro bracci militari che stanno consentendo di mettere in pratica le nuove teorie elaborate da Ocalan, il PKK e le Unità di Protezione del Popolo curdo (YPG/YPJ), espressione delle forze militari e popolari presenti sul campo. Le YPG/YPJ, l’organizzazione politica e militare che gestisce i tre cantoni di Rojava che hanno conquistato la loro autonomia con la ribellione del 2012; il Partito di Unità Democratica (PYD), fondato nel 2003 frutto di nuove alleanze politiche e sociali multi religiose e inserito a pieno nel nuovo corso e nel nuovo orientamento strategico del PKK. Nella dichiarazione dell’11° Congresso, tenutosi tra il 5 e il 13 settembre 2014, con la partecipazione di 125 delegati provenienti dalle quattro regioni del Kurdistan e dall’estero, le elaborazioni espresse dal Confederalismo Democratico sono state approvate come linea centrale dell’organizzazione. Il PKK ha di fatto influenza diretta sugli avvenimenti, la leadership di Ocalan non è in discussione, così come è riconosciuto il ruolo “egemone” del PDY e delle milizie YPG/YPJ sul territorio. Oggi, che la resistenza all’avanzata dell’Isis ha vinto, dobbiamo aprire canali per la cooperazione e per la ricostruzione di Kobane e delle zone distrutte dalla guerra. Le campagne per la raccolta fondi sono iniziate in mote parti del mondo e se vogliamo che questa esperienza possa sedimentare speranze e modificare l’esistente, dovremo contribuire alla ricostruzione. Qualcuno ha visto nella lotta armata di Kobane una nuova Stalingrado, moti anarchici una nuova Barcellona nel suo momento rivoluzionario; qualcuno ha assimilato quanto avvenuto nel nord della Siria alla rivolta del Chiapas. Il richiamo simbolico ha il suo fascino, crediamo che comunque vada, la lotta dei curdi sia da sostenere, la grande rivoluzione di Kobane è di aver affermato principi di laicità, confederali, socialisti ed anticapitalisti, per questo la battaglia per il Kurdistan e per la libertà di Abdullah Ocalan deve continuare. 13 Teoria e gineologia di Arin Mirkam (Pseudonimo collettivo di militanti del collettivo “Solidarietà donne” di Kobane. Un omaggio a Arin Miriam, combattente JPG uccisa a Kobane il 5 ottobre 2014) Tratto dal numero di marzo 2015 di “Alternative Libertaire” www.alternativelibertaire.org Il movimento femminile curdo vuole ovviamente distruggere il patriarcato e riferirsi alle esperienze del movimento femminista, ma si sforza anche di costruire una teoria originale adatta al contesto del kurdistan. La teoria curda di liberazione delle donne ha un nome: teoria della rottura. I suoi principi essenziali sono: agire indipendentemente dagli uomini, contare sulle proprie forze, sviluppare la propria coscienza di genere, creare organizzazioni delle donne. La liberazione femminile è considerata il fondamento della lotta per la democrazia, la condizione si ne qua non per l’uscita del capitalismo. L’armarsi delle donne è giustificato in primo luogo dalla legittima difesa contro il sistema di dominio maschile. In effetti la teoria della rottura comprende anche un progetto d’azione delle donne per la trasformazione dell’uomo. Questo significa lottare contro il maschilismo nelle organizzazioni miste e non lasciare agli uomini altra scelta che il cambiamento. Jin vuol dire donna in kurdo, e la ginealogia è la scienza delle donne. Vuole innalzare la coscienza di genere nelle donne mettendo al centro le loro esperienze, senza sovvenzioni dallo Stato e appoggiandosi unicamente alle proprie forze. La ginealogia vuole far convergere l’esperienza delle donne del mondo piuttosto che accettare la teoria femminile occidentalmente centrata e subire le ricerche androcentriche statali e universitarie. L’egemonia maschile in campo scientifico ha troppo spesso condotto a trovare degli alibi pseudo scientifici che giustifichino la posizione di secondo sesso accordata alle donne. Ai nostri giorni l’università è uno dei principali rappresentanti del patriarcato. Bisogna rimettere in gioco le verità stabilite e privilegiare le ricerche e la scrittura della storia fatta dalle donne per loro stesse. In questo campo esiste un autentico bisogno di autodifesa. È per questo motivo che sono state istituite le Accademie delle Donne che portano avanti le loro ricerche in tutte le direzioni compresa la critica alle nozioni estetiche e di bellezza costruite a spese della donne. 14 Primo maggio 2015 Amministrazione del Cantone di Kobane 30 aprile 2015 Lavoratrici e lavoratori, associazioni, sindacati! compagne e compagni! Organizzazioni, Un affettuoso saluto dalle lavoratrici e dai lavoratori del Cantone di Kobane, il cantone della rivoluzione, della resistenza e dei martiri, in occasione del 1 maggio, la giornata che ricorda la lotta e la resistenza delle lavoratrici e dei lavoratori contro la tirannia e l’oppressione, lo sfruttamento del capitalismo! La rivoluzione del Rojava è stata uno storico punto di partenza per la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori e dei popoli oppressi nel Medio Oriente e in tutto il mondo, per riappropriarsi della propria autorità politica; e è stata la rivoluzione delle donne, dei giovani, delle lavoratrici e dei lavoratori che ha costruito un nuovo sistema basato sul trasferimento del potere al popolo che ne è il vero proprietario. La nostra resistenza contro i terroristi di ISIS e i loro sostenitori a livello internazionale non è solo per proteggere la vita e dignità umana, ma è anche la resistenza per difendere le conquiste della rivoluzione e del sistema di autogoverno che è basato sulla democrazia radicale e sull’eliminazione delle organizzazioni gerarchiche. Ora, grazie alle eroiche battaglie dei nostri compagni e delle nostre compagne nelle “Unità di Difesa del Popolo” (YPG) e “Unità di Difesa delle Donne” (YPJ), i terroristi sono stati scacciati dalla città, ma gli attacchi contro i sobborghi e il blocco delle strade del cantone stanno ancora continuando. La nostra resistenza è entrata in una fase nuova più difficile, la fase del ripristino della vita sociale a Kobane, sotto attacco e assedio economico e logistico, in una situazione in cui oltre l’80% delle strutture e delle infrastrutture vitali della città sono state distrutte. La storia della lotta di classe mostra che l’unione delle lavoratrici e dei lavoratori non ha confini geografici, così come intendiamo la nostra resistenza contro il terrorismo selvaggio e i suoi sponsor internazionali come la resistenza che rappresenta tutti popoli del mondo. Crediamo che la rivoluzione come rottura dei fondamenti del dominio e fondazione di un nuovo mondo, richieda pratica e una lotta dura. Allo stesso modo la solidarietà internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori è la necessità storica e un terreno di azione concreto per difendere le conquiste di classe e per lottare fianco a fianco contro il dominio e l’oppressione del capitalismo. Noi, lavoratrici e lavoratori e associazioni del Cantone di Kobane, nel ricordare le lotte di liberazione e ugualitarie delle lavoratrici e dei lavoratori e dei popoli oppressi in tutto il mondo e apprezzando il vostro sostegno e la vostra solidarietà con la nostra resistenza contro gli attacchi terroristici, invitiamo le nostre compagne lavoratrici e i nostri compagni lavoratori, associazioni, sindacati e tutti i libertari a partecipare alla solidarietà concreta con la rivoluzione e la resistenza di Kobane e vi invitiamo a unirvi a noi in questa situazione storica per proteggere le conquiste della rivoluzione! Viva le lotte di liberazione dei popoli di tutto il mondo! Viva l’unione delle lavoratrici e dei lavoratori di tutto il mondo! 15 Ma questa è una vera rivoluzione Intervista a David Graeber, a cura di Pinar Ogunc (Arivista anarchica, marzo 2015) Dopo un viaggio in Rojava, David Graeber ritorna sull’importanza della lotta – e soprattutto delle sue modalità libertarie – in quella regione martoriata dalla guerra. E in quest’intervista a un quotidiano turco evidenzia il ruolo delle donne. Questa intervista è stata pubblicata dal quotidiano Evrensel in turco. Traduzione di Francesco D’Alessandro zcomm.org/znetarticle/no-this-is-a-genuine-revolution David Graeber è professore di antropologia alla London School of Economics, è un attivista anarchico. Lo scorso ottobre scrisse un articolo per il quotidiano inglese The Guardian, la prima settimana dell’attacco di ISIS a Kobane (Siria del nord) e si chiese perché il mondo continuasse a ignorare i curdi siriani rivoluzionari. Rifacendosi a suo padre che aveva partecipato come volontario nelle Brigate Internazionali nella difesa della Repubblica Spagnola nel 1937, egli chiese: “se oggi esiste un parallelo tra gli assassini falangisti, devoti superficiali di Franco, chi potrebbe essere se non ISIS? Se esistesse un parallelo con le Mujeres Libres in Spagna, chi potrebbe essere se non le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobane?”. Questo mondo – e questa volta la più scandalosa di tutte, la sinistra internazionale – si renderà complice nel lasciare che la storia si ripeta ancora una volta?”. 16 Secondo Graeber, la regione autonoma di Rojava dichiarata con un “contratto sociale” nel 2011 come tre cantoni anti-stato e anti-capitalisti, costituisce un esperimento democratico importantissimo della nostra era. Agli inizi dello scorso dicembre, con un gruppo di otto persone, studenti, attivisti, accademici provenienti da paesi diversi dell’Europa e degli USA, Graeber passò dieci giorni a Cizire – uno dei tre cantoni di Rojava. Egli ebbe la possibilità di osservare in pratica la “autonomia democratica” sul luogo e di fare dozzine di domande. Adesso ci dice le sue impressioni su questo viaggio con domande e risposte ancora più grandi sul perché questo “esperimento” dei curdi siriani sia ignorato dal mondo intero. Pinar Ogunc - Nel tuo articolo per il Guardian ti chiedevi perché il mondo intero stesse ignorando “l’esperimento di democrazia” dei curdi siriani. Dopo averla vissuta per dieci giorni, hai qualche nuova domanda o, forse, una risposta alla domanda precedente? David Graeber - Allora, se qualcuno avesse in testa qualche dubbio sulla veridicità di questa rivoluzione, io gli direi che la mia visita ha completamente chiuso la questione. C’è ancora gente che si esprime in questi termini: questa è di nuovo una parata del PKK (il partito dei lavoratori curdi); essi sono in realtà un’organizzazione stalinista autoritaria che pretende di aver adottato la democrazia radicale. No. Sono assolutamente veri. Questa è una rivoluzione vera e genuina. Ma, in un certo qual modo quello è esattamente il problema. I poteri maggioritari hanno accettato un’ideologia che dice che vere rivoluzioni non possono più avvenire. Allo stesso tempo, molti a sinistra, anche nella sinistra radicale, sembrano aver tacitamente adottato una politica che assume lo stesso concetto, anche se essi fanno ancora qualche rumore rivoluzionario superficiale una volta ogni tanto. Essi dipingono un quadro, quasi puritano, che assume che i giocatori importanti siano i governi e i capitalisti e quella è l’unica partita di cui valga la pena parlare. La partita dove si fa la guerra, si creano villani mitici, si sequestra il petrolio e altre risorse. Noi non vogliamo giocare a quel gioco. Vogliamo creare un nuovo gioco. Un sacco di gente trova questo discorso confuso e inquietante e così sceglie di credere che non stia succedendo nella realtà, o che queste persone siano illuse, disoneste o ingenue. Pinar Ogunc - Dallo scorso ottobre abbiamo assistito a una solidarietà in aumento da parte di movimenti politici diversi da tutto il mondo. C’è stata un’enorme copertura giornalistica veramente entusiasta della resistenza di Kobane da parte dei mass media importanti del mondo. L’atteggiamento politico riguardante Rojava è cambiato in Occidente, in qualche modo. Sono tutti segnali importanti ma pensi che l’autonomia democratica e ciò che si sta sperimentando nei cantoni a Rojava vengano discussi abbastanza? Quanto è importante la percezione generale di “alcune persone coraggiose che combattono contro il male dei nostri tempi, ISIS” nel guidare questo supporto e il fascino generale? David Graeber - Io trovo incredibile come quanta gente in Occidente veda queste femministe armate, per esempio, e non pensi neanche alle idee che ci devono essere dietro a esse. Pensano solo che stia succedendo in qualche modo. “Credo possa essere una tradizione curda”. In qualche misura si tratta di orientalismo, per forza, oppure semplicemente di razzismo. Non gli succede mai di pensare che la gente del Kurdistan magari sta anche leggendo Judith Butler. Nell’ipotesi migliore essi pensano “oh, stanno tentando di ottenere degli standard di democrazia di tipo occidentale e di diritti delle donne. Mi chiedo se tutto ciò sia reale o solo per il consumo estero”. Non gli viene da pensare che questa gente stia portando queste cose molto oltre quanto gli “standard occidentali” abbiano mai fatto; che essi possano credere veramente in quei principi che gli stati occidentali professano solo a parole. Pinar Ogunc - Tu hai menzionato l’approccio della sinistra verso Rojava. Come è stato ricevuto dalla comunità anarchica internazionale? David Graeber - La reazione delle comunità anarchiche internazionali è stata decisamente confusa. Lo trovo decisamente difficile da capire. C’è un gruppo sostanziale di anarchici – di solito gli elementi più settari – che insistono che il PKK sia ancora un gruppo “stalinista” autoritario e nazionalista che ha adottato Bookchin e altre idee della sinistra libertaria per corteggiare la sinistra anti-autoritaria in Europa e in America. Sono sempre stato colpito dal fatto che questa è una delle idee più stupide e narcisistiche che io abbia mai sentito. Anche se le premesse fossero corrette, e un gruppo marxista-leninista decidesse di fingere di avere un’ideologia per ottenere supporto straniero, perché mai essi sceglierebbero proprio le idee anarchiche sviluppate da Murray Bookchin? Sarebbe il bluff più stupido mai fatto. Ovviamente essi fingerebbero di essere islamisti o liberali perché quelle sono le organizzazioni che ottengono le armi e il materiale di supporto. Ad ogni modo, io penso che un sacco di gente nella sinistra internazionale, e la sinistra anarchica inclusa, praticamente non vogliano vincere. Non riescono ad immaginare che una rivoluzione possa realmente accadere e, segretamente, non la vogliono nemmeno, perché significherebbe il dover condividere il loro club alla moda con gente ordinaria; essi non sarebbero più gente speciale. Così, in questo modo è meglio separare i veri rivoluzionari da quelli che si “sparano solo le pose”. Ma i veri rivoluzionari sono rimasti compatti. Pinar Ogunc - Che cosa ti ha impressionato di più a Rojava in termini della pratica dell’autonomia democratica? David Graeber - C’erano molte cose interessanti. Non credo di aver mai sentito, in qualsiasi altra parte del mondo, di una situazione di potere duale dove le stesse forze politiche creano tutte e due le sponde. C’è la “auto-amministrazione democratica”, che mantiene tutte le forme e le 17 trappole di uno stato-parlamento-ministeri, e così via ma che fu creato per essere specificamente separato dai mezzi del potere coercitivo. In più c’è il TEV-DEM (Il Movimento della Società Democratica), istituzioni democratiche guidate dal basso verso l’alto. Infine – e questa è la chiave – le forze di sicurezza rispondono alle strutture di base e non a quelle dall’alto in basso. Uno dei primi posti che abbiamo visitato è stata l’accademia di polizia (Asayis). Tutti dovevano seguire un corso di risoluzione non violenta dei conflitti e di teoria femminista prima di essere autorizzati a toccare un fucile. I co-direttori hanno spiegato che il loro fine ultimo sarebbe di dare a tutta la popolazione la possibilità di seguire un corso di addestramento in tecniche poliziesche di sei settimane, in modo da eliminare la polizia completamente. Pinar Ogunc - Come rispondi alle critiche diverse riguardanti Rojava? Per esempio: “i curdi non avrebbero potuto fare questo in tempi di pace. È grazie allo stato di guerra...” David Graeber - Credo che molti movimenti, di fronte a terribili condizioni di guerra, non abolirebbero, nonostante tutto, immediatamente la pena capitale, non scioglierebbero la polizia segreta e non democratizzerebbero l’esercito. Le unità militari, per esempio, eleggono i loro ufficiali. Pinar Ogunc - E c’è pure un’altra critica, che è abbastanza favorita nei circoli che sono a favore del governo qui in Turchia: “Il modello che i curdi – nella linea del PKK e del PYD (Il Partito Curdo di Unione Democratica) – stanno tentando di mettere in pratica non è veramente accettato da tutti i popoli che vivono in Kurdistan. Quella multi-struttura è solo sulla superficie come un simbolo”. David Graeber - Beh, il Presidente del cantone di Cizire infatti è un arabo, capo di una delle più grosse tribù locali. Si potrebbe argomentare che questi sia solo una figura di facciata. In un certo senso l’intero governo lo è. 18 Ma anche se si guarda alle strutture costruite dalla base in su, si nota che di sicuro non sono solo i curdi che stanno partecipando. Mi è stato detto che l’unico problema reale è costituito da alcuni insediamenti nella “cintura araba”, gente che fu portata in quell’area dal partito Ba’ath negli anni ‘50 e ‘60 da altre parti della Siria come parte di una politica intenzionale di marginalizzazione e assimilazione dei curdi. Alcune di quelle comunità sono piuttosto ostili alla rivoluzione. Ma gli arabi le cui famiglie hanno vissuto in Kurdistan per generazioni, o gli assiri, i kirghizi, gli armeni e i ceceni sono molto entusiasti. Gli assiri che abbiamo menzionato dicono che, dopo una lunga e difficile relazione con il regime, finalmente sentono garantiti i loro diritti all’autonomia culturale e religiosa. Probabilmente il problema più difficile potrebbe essere costituito dalla liberazione delle donne. Il PYD e il TEV-DEM concepiscono questa questione come assolutamente centrale alla loro idea di rivoluzione, ma essi si trovano anche a dover affrontare il problema di avere a che fare con larghe alleanze con comunità arabe che pensano che questo viola i loro principi religiosi di base. Per esempio, mentre coloro che parlano siriano hanno le loro proprie organizzazioni delle donne, gli arabi non le hanno, e le ragazze arabe interessate ad organizzarsi intorno a questioni di genere o anche nel seguire seminari femministi devono mettersi in coda alle donne assire o anche a quelle curde. [...] Pinar Ogunc - Sebbene l’autonomia democratica non sembra essere chiaramente sul tavolo dei negoziati in Turchia, il Movimento Politico Curdo tuttavia ci sta lavorando da parecchio, specialmente a livello sociale. Essi cercano di trovare soluzioni in termini legali ed economici per possibili modelli. Quando si mette a confronto, diciamo, la struttura di classe e il livello del capitalismo nel Kurdistan Occidentale (Rojava) e nel Nord Kurdistan (Turchia), che cosa pensi delle differenze di questi due processi per una società anti-capitalista o per un capitalismo minimizzato, come essi lo descrivono? 19 David Graeber - Io credo che la lotta dei curdi sia esplicitamente anticapitalista in tutte e due le nazioni. È il loro punto di partenza. Sono stati capaci di arrivare a un tipo di formula: non si può eliminare il capitalismo senza eliminare lo stato, non si può eliminare lo stato senza liberarsi del patriarcato. Tuttavia, per la popolazione di Rojava è abbastanza facile in termini di classe perché la borghesia reale, come era in una regione essenzialmente agricola, scappò con il collasso del regime del partito Ba’ath. Essi si troveranno di fronte a un problema che durerà a lungo se non svilupperanno il loro sistema educativo per evitare che lo strato tecnocratico dedito solo allo sviluppo eventualmente tenterà di assumere il potere; nel frattempo, è comprensibile che si stiano focalizzando di più sui problemi di genere. Sulla Turchia non ne so molto di più ma ho la sensazione che le cose siano molto più complicate. Pinar Ogunc - In un periodo in cui i popoli del mondo non riescono a respirare per ovvie ragioni, il tuo viaggio in Rojava ti ha dato ispirazioni per il futuro? Quale pensi sia la “medicina” necessaria alla gente per respirare? David Graeber - Era incredibile. Ho passato tutta la vita pensando proprio a come potremmo fare cose esattamente come queste in qualche era remota del futuro e molta gente pensa che io sia pazzo a immaginare che possano mai succedere. Questa gente lo sta facendo adesso. Se provano che può essere fatto, che una società veramente egualitaria e democratica è possibile, trasformeranno completamente il senso umano delle possibilità della gente. Io stesso mi sento dieci anni più giovane per aver passato solo 10 giorni in quei luoghi. Pinar Ogunc - Quale immagine ricorderai del tuo viaggio a Cizire? David Graeber - Ci sono molte immagini impressionanti, così tante idee. Mi è piaciuta moltissimo la differenza tra il modo in cui la gente appare esteriormente e le cose che dice. Tu incontri un tipo, un dottore, che 20 fa un po’ paura perché sembra un militare, con un giubbotto di pelle e un’espressione austera e severa. Poi parli un po’ con lui e ti spiega: “noi pensiamo che il miglior approccio per la salute della gente sia quello preventivo, la maggior parte delle malattie sono causate da stress. Pensiamo che riducendo lo stress abbasseremo l’incidenza delle malattie cardiache, del diabete, anche i tumori. Quindi il nostro disegno ultimo è la riorganizzazione delle città perché abbiano il 70% di spazi verdi...”. Ci sono tutte queste idee brillanti, un po’ pazze. Poi vai a trovare un altro dottore che ti spiega come, a causa dell’embargo turco, non riescono a ottenere le medicine di base o l’equipaggiamento e tutti i pazienti in dialisi che non sono riusciti a trasportare al di là del confine sono morti... La disgiunzione tra le loro ambizioni e le loro circostanze incredibilmente provate. La signora che ci stava facendo effettivamente da guida era un viceministro degli esteri di nome Amina. Ad un certo punto, noi ci scusammo per non essere riusciti a portare con noi dei regali migliori per aiutare gli abitanti di Rojava che stanno soffrendo sotto l’embargo. E lei disse: “in fondo non è molto importante. Noi abbiamo una cosa che nessuno può mai darti. Noi abbiamo la nostra libertà. Voi no. Vorremmo solo che ci fosse un modo per noi per darla anche a voi”. Pinar Ogunc - Tu vieni criticato a volte per essere troppo ottimista e entusiasta per ciò che sta avvenendo a Rojava. È così? O quelli che ti criticano non capiscono qualcosa? David Graeber - Di temperamento sono un ottimista, cerco delle situazioni che sembrano avere delle promesse. Non credo che ci sia nessuna garanzia che funzionerà, che non verrà schiacciata, ma certamente lo sarà se tutti decidiamo, fin dall’inizio, che nessuna rivoluzione è possibile, rifiutiamo di aiutare attivamente o l’attacchiamo, aumentando il suo isolamento, come fanno in molti. Se c’è qualcosa di cui io sono cosciente, mentre altri non lo sono, è il fatto che, forse, la storia non è ancora finita. I capitalisti hanno fatto uno sforzo sovrumano in questi ultimi 30 o 40 anni per convincere la gente che la situazione economica presente – non solo il capitalismo, ma quella forma di capitalismo peculiare, finanziarizzato, semi-feudale che abbiamo oggi – è il solo sistema economico possibile. Hanno fatto molti più sforzi nel provare tutto questo di quanto abbiano fatto per cercare di creare un sistema capitalistico globale e vitale. Come risultato il sistema sta crollando tutto intorno a noi proprio nel momento in cui tutti hanno perduto la capacità di immaginare qualsiasi altra cosa. Bene, io penso che sia abbastanza ovvio che fra 50 anni il capitalismo, in qualsiasi forma lo identifichiamo, e probabilmente in tutte le sue forme, sarà scomparso. Qualcos’altro lo avrà rimpiazzato. Quel qualcos’altro potrebbe non essere meglio. Potrebbe anche essere peggio. Allora mi sembra che questa sia la vera ragione per cui è nostra responsabilità, come intellettuali, o anche come semplici esseri umani pensanti, cercare almeno di immaginare qualcosa che potrebbe essere migliore. E se c’è gente che sta veramente tentando di creare quelle cose migliori, è nostra responsabilità aiutarli. 21 Solidarietà e ricostruzione di Gino Caraffi, Alternativa Libertaria 22 Non vi sarà nessun piano internazionale per ricostruire Kobane e le città del Rojava distrutte dall’attacco dei fascisti islamici, le dinamiche dell’imperialismo non permettono nessun appoggio o contributo dagli organismi e dagli Stati nazionali, e sarebbe utopistico chiedere aiuto a quanti sono parte del problema e non possono in nessun modo esserne la soluzione. Per questo ancora una volta ci dovremo affidare alle sole nostre forze, di chi vede nella lotta dei curdi e nell’esperienza rivoluzionaria di Kobane un tassello importante per la lotta di liberazione di tutti dalla schiavitù dal pregiudizio e dal sistema del capitale, a questo proposito si è costituita anche in Italia da pochissimi mesi la Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia il cui presidente è Alican Yldiz. Passano attraverso questa Onlus i contributi economici per i progetti di ricostruzione delle devastazioni della guerra, l’associazione non ha bisogno di essere caratterizzata da elementi politici ed ideologici, chi oggi contribuisce alla costruzione dei territori distrutti ha già fatto una scelta di campo, umanitaria sì ma che vede anche nella ricostruzione un momento fondamentale per l’appoggio all’esperienza rivoluzionaria in atto e per darle continuità difendendo gli spazi conquistati dai combattenti di YPG/ YPJ. Alcune stime ci dicono che il 70% di Kobane è completamente distrutta, 19 scuole sono seriamente danneggiate, 4 sono completamente distrutte, 4 ospedali danneggiati in modo importante e 2 completamente distrutti, cliniche e farmacie hanno subito danni ingenti, la rete idrica e quella fognaria hanno subito danni ingenti, la rete elettrica è completamente da ricostruire la centrale elettrica è distrutta. Gli edifici pubblici e della amministrazione sono distrutti, le campagne sono state saccheggiate il bestiame portato via dalle truppe dell’Isis (in molti casi attraverso il confine turco), l’approvvigionamento idrico arriva dalla cittadina di Suruc, nei pressi di Kobane, città a maggioranza arabo sunnita sotto il controllo delle truppe siriane che arbitrariamente interrompono le forniture per creare conflitto tra le città, questo accade anche con la vicina Sirrin, a conferma delle dinamiche che hanno contribuito a cingere d’assedio Kobane anche mediante il frazionamento ed il ricatto sulle forniture dei generi di prima necessità. La richiesta alla Turchia di aprire un corridoio per gli aiuti umanitari continua ad essere negata, nonostante il tanto sbandierato accordo per combattere l’Isis la cui minaccia resta incombente sulla regione appena liberata. Si dovranno fare I conti anche con il pericolo degli ordigni bellici e delle mine disseminate nell’area, che avrà bisogno di un profondo piano di bonifica. I profughi di Kobane e di Sengal continuano a non avere nessun tipo di riconoscimento e di aiuto dagli organismi internazionali, si sta approntando attraverso la solidarietà internazionale il rientro di 4000 profughi a Kobane. Intanto si è tenuto ad Amed (Diyarbakir) nel Kurdistan turco (militarizzata oltremodo dalla presenza massiccia dell’esercito turco) la prima conferenza internazionale per la ricostruzione, 350 delegati provenienti da Kobane, Kurdistan ed Europa si sono soffermati sulla situazione ed hanno lanciato un appello internazionale per la ricostruzione, delineando una mappa della distruzione e chiedendo un impegno internazionale per sostenere la ricostruzione, la seconda conferenza internazionale e prevista in luglio, a Bruxelles. La solidarietà internazionale è quindi indispensabile, chiedere l’apertura di un corridoio umanitario con la Turchia per favorire l’arrivo degli aiuti ed il rientro delle persone, rinforzare la rivoluzione con la ricostruzione materiale delle città distrutte per fermare definitivamente le truppe dell’Isis che cingono il territorio a sud del Rojava, chiedere l’eliminazione del PKK dalle liste delle organizzazioni terroristiche, contribuire alla campagna per la liberazione dei detenuti politici curdi e per la liberazione di Abdullah Ocalan (Apo). Le iniziative si stanno moltiplicando ed i progetti da finanziare a da sostenere sono tanti, invitiamo quanti vorranno contribuire in modo solidale alla rinascita di Kobane a sostenerli con il loro lavoro e con il loro impegno. Coordinate bancarie per donazioni: Conto: 1000 / 00132226, intestato a Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus IBAN: IT63 P033 5901 6001 0000 0132 226 email: [email protected] 23 La costituzione dei cantoni della Rojava Il Contratto Sociale dei Cantoni della Rojava nel Kurdistan occidentale (Siria) Riportiamo una breve sintesi della Costituzione approvata nel corso del 2014 dalle popolazioni resistenti de Cantoni di Rojava. Da queste poche pagine possiamo rilevare quanto delle cose scritte in questo monografico costituiscano davvero le concrete aspettative dei cittadini di questa piccola ma importante porzione di mondo. Preambolo Noi, popoli delle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Jazira e Kobane, una confederazione di Curdi, Arabi, Siriaci, Aramaici, Turkmeni, Armeni, e Ceceni, liberamente e solennemente approviamo ed adottiamo questa Carta. Nel perseguimento della libertà, della giustizia, della dignità e della democrazia ed ispirata dai principi di uguaglianza e sostenibilità ambientale, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, fondato sulla mutua e pacifica coesistenza e sull’intesa tra tutte le componenti della società. La Carta tutela le libertà ed i diritti umani fondamentali e ribadisce il diritto dei popoli alla autodeterminazione. Nel nome di questa Carta, noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo nello spirito della riconciliazione, del pluralismo e della partecipazione democratica affinché tutti possano esprimersi liberamente nella vita 24 pubblica. Nella costruzione di una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nelle questioni pubbliche, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria ed aspira a mantenere la pace tanto a livello nazionale che internazionale. Nell’approvare tale Carta, noi adottiamo un sistema politico ed amministrativo civile basato su un contratto sociale che riconcili il ricco mosaico della Siria attraverso una fase di transizione che dalla dittatura, dalla guerra civile e dalle distruzioni porti ad una nuova società democratica in cui siano preservate la vita civile e la giustizia sociale. I - Principi Generali […] Articolo 3: a - La Siria è uno stato libero, sovrano e democratico, governato da un sistema parlamentare fondato su principi di decentramento e pluralismo. b - Le Regioni Autonome sono composte dai tre cantoni di Afrin, Jazira e Kobane, che sono parte integrante del territorio siriano. I centri amministrativi di ogni Cantone sono: la città di Afrin per il Cantone di Afrin; la città di Qamishli per il Cantone di Jazira; la città di Kobane per il Cantone di Kobane. c - Il Cantone di Jazira è diversificato dal punto di vista etnico e religioso essendo popolato da comunità di Curdi, Arabi, Siriaci, Ceceni, Armeni, Musulmani, Cristiani e Yazidi che coesistono pacificamente e fraternamente. L’Assemblea Legislativa elettiva rappresenta tutti e tre i Cantoni delle Regioni Autonome. […] Articolo 6: Tutte le persone e le comunità sono uguali di fronte alla legge in diritti e responsabilità. Articolo 7: Tutte i centri, le città ed i villaggi siriani che aderiscono a questa Carta possono costituire Cantoni entrando a far parte delle Regioni Autonome. Articolo 8: Tutti i Cantoni nelle Regioni Autonome si fondano sul principio dell’autogoverno. I Cantoni possono liberamente eleggere i loro rappresentanti ed i loro organismi rappresentativi, e possono perseguire i loro diritti purché non siano in contraddizione con gli articoli di questa Carta. Articolo 9: Le lingue ufficiali del Cantone di Jazira sono il curdo, l’arabo ed il siriaco. Tutte le comunità hanno il diritto di insegnare ed imparare le loro lingue native. Articolo 10: Le Regioni Autonome non interferiranno negli affari interni degli altri paesi ed avranno cura delle loro relazioni con gli Stati vicini, risolvendo ogni conflitto in forma pacifica. […] Articolo 12: Le Regioni Autonome costituiscono parte integrante della Siria. Si pongono come modello per un futuro sistema decentralizzato di governo federale della Siria. alcuna e di cercare, ricevere e diffondere informazioni ed idee tramite qualsiasi mezzo di comunicazione senza limiti di frontiere. (...) Articolo 25: a - Ogni individuo ha il diritto alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. b - Tutte le persone private della loro libertà saranno trattate con umanità e con rispetto per l’intrinseca dignità della persona umana. Nessuno potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti. c - I prigionieri hanno il diritto a umane condizioni di detenzione, a protezione della loro intrinseca dignità. Le carceri devono perseguire gli obiettivi fondamentali del recupero, della rieducazione e della riabilitazione sociale dei detenuti. Articolo 26: Ogni essere umano ha il diritto intrinseco alla vita. All’interno della giurisdizione delle Regioni Autonome a nessuno verrà applicata la pena di morte. Articolo 27: Le donne hanno il diritto inviolabile a prendere parte alla vita politica, sociale economica e culturale. […] III - Diritti e Libertà Articolo 21: La Carta incorpora la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, come pure altri accordi sui diritti umani riconosciuti a livello internazionale. […] Articolo 23: a - Ogni individuo ha il diritto di esprimersi in base alle sue prerogative etniche, culturali, linguistiche e di genere. b - Ogni individuo ha il diritto di vivere in un ambiente sano, grazie al perseguimento di un equilibrio ecologico. Articolo 24: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione; inclusa la libertà di avere proprie opinioni senza interferenza Articolo 28: Gli uomini e le donne sono uguali davanti alla legge. La Carta garantisce l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza delle donne e dà mandato alle pubbliche istituzioni di agire per l’eliminazione delle discriminazioni di genere. Articolo 29: La Carta garantisce i diritti dell’infanzia. In particolare i bambini non dovranno essere sottoposti a sfruttamento economico, né avviati al lavoro minorile, né subire tortura o trattamenti e punizioni crudeli, disumane o degradanti, e non potranno essere sposati prima di raggiungere la maggiore età. Articolo 30: Tutte le persone hanno il diritto 1. alla sicurezza personale in una società pacifica e stabile. 2. alla libera ed obbligatoria istruzione primaria e secondaria. 25 3. al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, ad un’abitazione adeguata. 4. a proteggere la maternità e l’assistenza materna e pediatrica. 5. ad adeguare la sanità e l’assistenza sociale per i disabili, per gli anziani e per i portatori di bisogni speciali. Articolo 31: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di culto, a praticare la sua propria religione sia individualmente che in associazione con altri. Nessuno potrà essere soggetto a persecuzioni sulla base della sue credenze religiose. Articolo 32: a - Ogni individuo ha il diritto alla libertà di associazione con altri, incluso il diritto a liberamente istituire o aderire a partiti politici, associazioni, sindacati e/o civiche assemblee. b - Nell’esercizio del diritto alla libertà di associazione, è protetta l’espressione economica e culturale di tutte le comunità. Allo scopo di proteggere la ricchezza e la diversità delle tradizioni dei popoli delle Regioni Autonome. c - La religione degli Yazidi è religione riconosciuta ed è esplicitamente protetto il diritto dei suoi fedeli alla libertà di associazione e di espressione. La tutela della vita religiosa, sociale e culturale degli Yazidi può essere garantita tramite passaggio normativo da parte dalla Assemblea Legislativa. […] Articolo 34: Ogni individuo ha il diritto di riunione pacifica, compreso il diritto di pacifica protezione, di manifestazione e di sciopero. […] Articolo 36: Ogni individuo ha il diritto di voto e di candidarsi a cariche pubbliche, nell’ambito delle leggi. Articolo 37: Ogni individuo ha il diritto di chiedere asilo politico. Le persone possono essere espulse solo a seguito di una decisione di un organo giudiziario competente, imparziale e regolarmente costituito, in cui abbiano avuto tutti diritto al giusto processo. 26 Articolo 38: Tutte le persone sono uguali davanti alla legge ed hanno titolo ad eguali opportunità nella vita pubblica e professionale. Articolo 39: Le risorse naturali, che si trovano sopra e sotto terra, sono la ricchezza pubblica della società. Processi estrattivi, gestione, concessione di licenze e altri accordi contrattuali connessi a tali risorse devono essere regolati dalla legge. [Consigli Municipali], compresi il bilancio e le finanze, i servizi pubblici e le elezioni di sindaco, è regolata dalla legge. 3 - I Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali] sono eletti direttamente dal popolo con voto segreto. […] Articolo 87: Tutti gli organi direttivi, istituzioni e commissioni sono composti da almeno il quaranta per cento (40%), di entrambi i sessi. Articolo 40: Tutti gli edifici ed i terreni nelle Regioni Autonome sono di proprietà dall’amministrazione transitoria e sono di proprietà pubblica. Il loro uso e distribuzione sono determinati per legge. […] Articolo 90: La Carta garantisce la tutela dell’ambiente e considera lo sviluppo sostenibile degli ecosistemi naturali come scelta etica e sacro dovere nazionale. Articolo 41: Ogni individuo ha diritto all’utilizzo ed al godimento della sua proprietà privata. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non dietro pagamento di un giusto indennizzo, per motivi di pubblica utilità o di interesse sociale, e nei casi e secondo le forme stabilite dalla legge. Articolo 91: Il sistema di istruzione delle Regioni Autonome si basa sui valori della riconciliazione, della dignità e del pluralismo. Si tratta di una marcata presa di distanza dalle politiche educative precedenti fondate su principi razzisti e sciovinisti. L’educazione nelle Regioni Autonome respinge le politiche di istruzione precedenti basate su principi razzisti e sciovinisti. Essa si fonda invece sui valori della riconciliazione, dignità, e pluralismo. (...) Articolo 42: Il sistema economico nelle province deve essere indirizzato a fornire il benessere generale e in particolare a garantire il finanziamento delle scienze e delle tecnologie. Esso è finalizzato a garantire le esigenze quotidiane delle persone per assicurare una vita dignitosa. Il monopolio è vietato dalla legge. Sono tutelati i diritti del lavoro e lo sviluppo sostenibile. Articolo 43: Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scegliere la propria residenza all’interno delle Regioni Autonome. […] I Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali]: 1 - I Cantoni delle Regioni Autonome sono composti di Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali] e sono gestiti dal Consiglio Esecutivo pertinente che mantiene il potere di modificare le sue funzioni ed i regolamenti; 2 - I poteri ed i doveri dei Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali] sono fondati in adesione alla politica di decentramento. La supervisione cantonale dell’autorità dei Consigli amministrativi provinciali Articolo 92: a - La Carta sancisce il principio della separazione tra religione e Stato. b - La libertà di religione è protetta. Devono essere rispettate tutte le religioni e le fedi nelle Regioni Autonome. Il diritto di esercitare le credenze religiose deve essere garantito, in quanto non influisce negativamente sul bene pubblico. Articolo 93: a - La promozione del progresso culturale, sociale ed economico dalle istituzioni amministrative assicura la stabilità e il benessere pubblico all’interno delle Regioni Autonome. b - Non vi è alcuna legittimità per l’autorità che contraddice questa carta. […] Traduzione a cura di FdCA - Ufficio Relazioni Internazionali. 27 Attacco suicida a Suruc all’Amar Cultural Center Il comunicato di Rojava Calling, da www.globalproject.info – 20 luglio 2015 Al momento i media turchi e curdi parlano di 27 morti e decine di feriti all’Amara Cultural Center di Suruc contro i giovani socialisti del SGDF che stavano per iniziare una conferenza stampa proprio nell’area antistante al centro. Meno di un mese fa l’SGDF aveva lanciato una campagna di solidarietà con i curdi siriani dal nome “Giovani di Gezi vanno a Kobane”. I ragazzi e le ragazze morte oggi avevano intenzione di andare a Kobane per costruire un museo della resistenza e una biblioteca. Ma ad essere colpito non è soltanto una iniziativa solidale e attivisti più o meno giovani. Amara Center in questi mesi è stato ed è tuttora il luogo di incontro e di accoglienza per decine di giovani internazionali, turchi o curdi, ma anche per centinaia di europei tra cui decine di italiani che si spingevano fino al confine turco-siriano per solidarizzare con Kobane. Suruc, amministrata dal partito filo-curdo e che da sempre è stata in prima fila per l’accoglienza di chi era in fuga da Kobane, subisce un nuovo attentato proprio in quel luogo che in questi mesi è stato da una parte il centro nevralgico della logistica della resistenza e dall’altra la porta verso il Rojava per tutti gli attivisti internazionali che volevano portare sostegno e solidarietà a Kobane, prima alla resistenza e poi alla ricostruzione. La stessa staffetta italiana “Rojava calling”, così come tutte le carovane partite dall’Europa dopo la liberazione e a ridosso del Newroz di Marzo, devono all’esistenza di quello spazio la possibilità di costruzione delle relazioni che poi hanno permesso di mettere in piedi i progetti di solidarietà e i passaggi oltre-confine. 28 Amara era uno spazio instancabilmente attivo e vivo, in cui le storie dei kurdi siriani che entravano ed uscivano dal Rojava e si fermavano a risposare e rifocillarsi si incrociavano con quelle dei tantissimi attivisti che si spingevano sul confine. Ad Amara si parlava di confederalismo democratico e di Rojava, ma anche della manifestazioni di Francoforte sotto la BCE, di centri sociali, di battaglie ambientali, di Gramsci, di femminismo e di autodifesa. Chi ha attraversato quel luogo, chi ha trascorso qualche ora ascoltando le parole di Fayza, la co-presidentessa dell’assemblea legislativa del cantone di Kobane o giocando con le decine di bambini profughi di guerra che in quel cortile oggi pieno di sangue e morte trovavano spazio di divertimento, non può non rimanere scioccato davanti le immagini, drammatiche dell’attentato di oggi. Erdogan e il governo turco, che i curdi, soprattutto dopo le prove schiaccianti del 25 giugno, accusano di collaborare con Daesh (IS), ha inviato il proprio primo ministro e il ministro degli interni per indagare sull’attentato di oggi. Mossa politica che preannuncia un nuovo giro di vite nei confronti della comunità curda. Nel frattempo si parla di un’attentatrice appena maggiorenne “vicina all’IS” come responsabile dell’attentato mentre questa mattina si è registrato il solito comportamento provocatorio e violento della polizia turca che ha più volte respinto i curdi che tentavano di raggiungere l’Amara per prestare soccorso ritardando così l’intervento delle ambulanze e del personale medico. Kobane è stata liberata ma è tuttora stretta tra la morsa dell’IS e la Turchia. I territori della frontiera turco-siriana vengono sistematicamente scossi da tentativi di assalti, attentatati, che mirano a destabilizzare le forza politiche e combattenti curde. L’Amara Cultural Center era ed è tuttora uno spazio fondamentale per i solidali e le solidali. Un centro di iniziativa politica e sociale per i giovani curdi di questa città di frontiera e uno spazio laico dove curdi, turchi e internazionali si incontravano e organizzavano le iniziative di solidarietà: staffette sanitarie, materiale medico, scolastico o ludico, vengono raccolti in questo centro che si trova sulla via principale della cittadina di Suruc, riconosciuto da tutti, soprattutto dall’amministrazione politica cittadina, degnamente rappresentata da Zuhal Elenez, Il copresidente della municipalità di Soruç, una giovane donna eletta con il Dbp, il Partito democratico delle regioni. Un piano di questo edificio ormai era adibito a centro raccolta e magazzino dei medicinali che i vari internazionali inviavano oppure portavano direttamente durante i loro transiti. Medicinali che poi venivano distribuiti nei vari campi profughi costruiti intorno alla città di Suruc. Ecco perché sembra evidente che la scelta di colpire proprio Amara è funzionale alla costruzione del clima di terrore che serve a isolare non solo Kobane ma l’esperienza del Rojava tutta e ad allontanare quanto più possibile la solidarietà internazionale che si è costruita in questi mesi. Così come colpire proprio la solidarietà turca ai curdi è una scelta altrettanto funzionale all’inasprimento del clima da guerra civile che si è diffuso in Turchia l’indomani delle elezioni politiche, quelle in cui l’HDP (partito filo-Kurdo) ha guadagnato il 13% dei consensi e Erdogan ha perso la maggioranza assoluta. Che tipo di ripercussioni ci saranno sulle attività del Centro Culturale al momento non è dato sapere. È presto e forse in questo preciso momento è importante altro: ad esempio che vari iniziative di solidarietà vengano messe in moto non soltanto in Turchia, dove proprio in queste ore si annunciano manifestazioni, ma anche nei paesi e nelle città da dove in questi mesi si sono mosse decine di attiviste e attivisti. Nel frattempo il Congresso Nazionale Curdo in un durissimo comunicato ha accusato AKP e il governo turco di essere i mandanti della strage che ha colpito decine di giovani. Io vado di Abdulla Goran, poeta curdo 1904 -1962 Io vado, madre. Se non torno, sarò fiore di questa montagna, frammento di terra per un mondo più grande di questo. Io vado, madre. Se non torno, il corpo esploderà là dove si tortura e lo spirito flagellerà, come l’uragano, tutte le porte. Io vado... madre... Se non torno, la mia anima sarà parola... per tutti i poeti. Neve di Sherko Bekas, poeta curdo 1940 - 2013 Poveri “montanari”, il vostro amore è una neve... una neve di quattro stagioni... Nevica e m’imbianca il verso... come posso lasciare che cada nel male, e che si imbronci il nostro cielo con me? E come può ingrigire la polvere nera della rabbia il suo candore bianco? Abbassare la fronte per rispetto al Halgurt dei vostri cuori. Non c’è vita in me se non esplode il tempo di quella vostra neve, ma non voglio se non in quella neve morire. 29 s c o r d a t e a/c di Daniele Barbieri danielebarbieri.wordpress.com 13 luglio 1920 Trieste gli squadristi incendiano il Narodni dom Di Daniele Barbieri 30 Il periodo immediatamente successivo alla guerra, parallelamente alle trattative per la definizione dei confini, vide nella Venezia Giulia la rapida affermazione del «fascismo di confine». Caratteristica peculiare del fascismo di confine fu la violenza organizzata e sistematica contro le istituzioni culturali e politiche slovene e croate, che si affiancò e talvolta si sovrappose alla violenza contro il movimento operaio e le sue organizzazioni. Nel «fascismo di confine» si incontrarono le mire espansionistiche della grande borghesia nazionale e dell’élite politica e militare italiana, le aspirazioni della borghesia locale (desiderosa di riempire il vuoto di potere lasciato dalla dissoluzione dell’impero austroungarico, e preoccupata dall’avanzare delle idee socialiste e comuniste), la frustrazione degli ex-combattenti per la cosiddetta “vittoria mutilata”, infine lo spaesamento prodotto dalla guerra fra i ceti popolari, in un tessuto economico e sociale devastato da anni di economia di guerra, di distruzioni materiali, di occupazione militare, di spostamenti forzati di intere comunità, e di immigrazione. La data simbolo, il punto di svolta, del «fascismo di confine» fu il 13 luglio del 1920: quel giorno a Trieste gli squadristi capitanati da Francesco Giunta incendiarono il Narodni dom, nel corso di quello che Renzo De Felice definì «il vero battesimo dello squadrismo organizzato». Per allargare il discorso alle conseguenze di quella politica riporto qui sotto alcuni brani di un lungo post di Gianni Fresu che prende spunto da un articolo di Eugenio Curiel sul genocidio dei popoli slavi Eugenio Curiel, scienziato e partigiano triestino morto a soli 32 anni nel febbraio 1945, aveva sempre dedicato molta attenzione, sin dall’adolescenza, al genocidio umano e culturale delle popolazioni slave inglobate a forza nel regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale. Se ne occupò nuovamente nell’ottobre del ’44, quando la vittoria contro i nazifascisti da parte dell’Esercito nazionale di liberazione jugoslavo (Belgrado fu liberata il 20 ottobre), determinò una situazione nuova di fondamentale importanza per la guerra a Hitler e soci in tutto il resto d’Europa. […] In tempi recenti, proprio gli accadimenti di questo periodo (1943-45), hanno suscitato l’attenzione del “nostro” mondo politico e culturale per le sorti degli italiani costretti alla fuga dalle terre occupate e soprattutto per quelli tragicamente finiti nelle “foibe”, un’esigenza ritenuta tanto forte da spingere le autorità governative a dedicargli una giornata commemorativa ufficiale. Senza voler entrare in dettaglio su questo argomento, sul quale del resto esiste una vastissima bibliografia, fa riflettere che nella gran parte dei casi la trattazione di questi fatti finisca per omettere o trascurare del tutto la durezza dell’occupazione italiana: i crimini compiuti negli anni del regime fascista a danno delle popolazioni slave, fino ai massacri compiuti con i rastrellamenti, le deportazioni, l’uso sistematico dei campi di concentramento prima e durante la guerra. Su tutto ciò tornò invece Eugenio Curiel in un articolo, «La nuova Jugoslavia» (pubblicato su «La Nostra Lotta» […] Secondo il suo giudizio, con la fine della prima guerra mondiale, il regno jugoslavo fu il risultato di un compromesso deteriore tra le potenze occidentali interessate a spartirsi quanto più possibile i vecchi domini asburgici nei Balcani. Il piccolo regno, costruito attorno a Serbia e Montenegro, si vide privato di parte significativa del suo territorio a favore degli Stati confinanti, all’Italia venne assegnata la fetta più consistente di territorio. Per croati e sloveni iniziò da subito un periodo drammatico, ben più duro e disumano del già pesante dominio austriaco, segnato da violenze e prevaricazioni finalizzate a sradicare le tradizioni culturali slave dei territori appena assimilati. L’italianizzazione forzata con l’avvento del fascismo si fece ancora più brutale, insieme alla proibizione dei partiti e la soppressione della loro vivacissima stampa, a croati e sloveni venne impedito l’utilizzo della loro lingua, nelle scuole come nei luoghi di culto. Alla massiccia occupazione militare e burocratica fascista si accompagnò la consapevole distruzione della struttura economico-sociale locale: annientato il «ricco patrimonio cooperativo», le casse artigianali e l’articolazione sociale e culturale del mondo contadino, sulle regioni dell’Istria e della Carsia il capitale bancario italiano finì per stritolare ogni residuo di vivacità autonoma fino a fare di queste le regioni con il più alto debito ipotecario in Italia, queste le parole di Curiel in proposito: “Chi non ricorda con orrore lo strazio che il fascismo ha fatto del popolo sloveno e del popolo croato, chi non ricorda la loro indomita volontà di liberazione che il regime di terrore non riusciva a fiaccare, chi non ricorda i martiri di Pola del 1929, i martiri di Basovizza del 1931 e tutti gli altri eroici caduti fino al compagno Tomasic e a tutti i fucilati di Trieste del 1941”… […] Con lo scoppio della guerra e la fine del debole regno jugoslavo la brutalità dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi si fece assoluta, ciò nonostante dal basso si formò da subito, con le divisioni partigiane guidate da Tito, una fortissima resistenza armata popolare capace di sconfiggere truppe di occupazione e fiancheggiatori, ancora Curiel: “A decine di migliaia gli arditi combattenti del popolo, a migliaia le coraggiose donne del popolo jugoslavo venivano massacrati e seppelliti nei campi di concentramento. Le truppe d’occupazione, ma anche le truppe dell’esercito fascista, italiani vesti dell’uniforme disonorante dell’aggressione e dell’infamia, distrussero villaggi, incendiarono case, decimarono intere regioni: ma per l’eroico popolo jugoslavo la brutalità, la barbarie scatenata furono la gran diana per la lotta di riscossa popolare”. In un contesto di guerra i torti si sommano ai torti e, per quanto possa essere più o meno condivisibile, prima o poi arriva il momento del “redde rationem”. È assolutamente corretto studiare storicamente e far conoscere politicamente quanto accaduto nelle Foibe, ma lo è altrettanto ricordare che prima quelle stesse Foibe furono utilizzate per le popolazioni slave: sottoposte (dal 1918 al 1943) a deportazioni di massa, cancellazione della propria specificità culturale, linguistica ed economica; soggette a operazioni di pulizia etnica di massa e su larga scala. Portare in rilievo solo il tragico epilogo di una brutta pagina storica, omettendo tutto quel che l’ha preceduta e, soprattutto, cancellando la responsabilità del nazionalismo italiano (affermatosi in quelle terre ben prima dell’avvento fascista), significa fare opera di mistificazione dei fatti. 31 benven g a m a g a/c della Redazione La costrizione della regolamentazione giuridica ovvero come distruggere gli spazi di sperimentazione sociale Riportiamo in queste pagine una lettera aperta diffusa dal circuito delle Mag italiane in merito alla “nuova” regolamentazione che lo stato italiano ha deciso di dare al comparto finanziario, il cui esito finale sarà quello di rendere sempre più difficile la vita a quelle esperienze di autogestione in campo finanziario attive nel corpo sociale italiano da trent’anni a questa parte, quali sono appunto le Mag. L’ennesimo attacco a chi tenta di costruire spazi e pratiche di sperimentazione sociale dal basso. 32 Da luglio 2009 a dicembre 2014 abbiamo interamente attraversato il percorso di un iter legislativo di questo Stato e ci siamo sentite in dovere di narrare questo percorso estenuante, non tanto perché toccate nella nostra sfera individuale della possibilità di esistere, ma soprattutto per mettere in evidenza la necessità di una riforma di una politica ormai incapace di aprirsi alle istanze che provengono dal basso, dalla cittadinanza, anche quando queste trovano supporto, come in questo caso, da pareri favorevoli di ben tre commissioni parlamentari. Chi scrive? A scrivere sono le MAG (Mutue Autogestione), strutture cooperative che si occupano da oltre trent’anni di Finanza Mutualistica e Solidale. Attualmente le MAG che in Italia esercitano l’attività di finanza autogestita sono cinque (Mag 2 Finance di Milano, Mag 4 Piemonte di Torino, Mag 6 di Reggio Emilia, Mag Venezia e la neonata Mag Firenze), ma sono in atto percorsi di costituzione di nuove MAG anche a Roma e in Calabria. Mag Verona, la prima nata, ha sviluppato nel tempo servizi culturali, formativi e aziendali rivolti all’Economia Solidale ed opera in via accessoria l’attività finanziaria. Questo a dimostrazione che l’iter legislativo è intervenuto su una realtà viva, dotata di strutture solide e capaci di raccogliere intorno a loro quel desiderio della società civile per una finanza di nuovo al servizio dell’economia reale: stiamo parlando di circa 6.000 soci e socie compartecipi a questo modo di fare finanza e di circa 8.000.000,00 di euro interamente investiti in progettualità che si pongono in un’ottica di cambiamento sociale. Le Mag svolgono un’attività finanziaria che si fonda sui principi del credito come diritto umano, della trasparenza, della mutualità, della partecipazione alle decisioni da parte dei soci e delle socie, della responsabilità sociale e ambientale, come criteri vincolanti per gli impieghi, di un’adesione globale e coerente di tutta l’attività del soggetto finanziario, escludendo l’arricchimento basato sul solo possesso e scambio di denaro e ogni tipo di prestito nei confronti di quelle attività economiche che ostacolano lo sviluppo umano e contribuiscono a violare i diritti fondamentali della persona. Cosa è successo? Nel 2009 è iniziato in Italia un iter legislativo di riforma dell’intermediazione finanziaria non bancaria, che ha modificato il decreto legislativo 1° settembre 1993, n.385 (Testo Unico Bancario -TUB) e che vede coinvolte le MAG, iscritte nell’elenco previsto dall’art. 106 del TUB per gli intermediari finanziari non bancari. Coordinandosi tra loro per veder riconosciuta una trentennale esperienza di Finanza Mutualistica e Solidale, il 28 luglio 2009 le MAG riescono ad ottenere un incontro presso la Banca d’Italia: comincia un lungo calvario fatto di promesse e mancanza di risposte che si alternano in maniera imbarazzante, cominciando a delineare l’assoluta ignoranza e l’assoluto disinteresse ad un’idea di finanza come strumento al servizio dell’economia reale. Senza che si concretizzi un secondo incontro che ci era stato prospettato, il Ministero dell’Economia e delle Finanze nel maggio 2010 pone in consultazione un testo legislativo in cui non è presente alcuna traccia della Finanza Mutualistica e Solidale, ma solo l’inserimento di un articolo per intermediari che effettuano microcredito, con parametri e criteri che non farebbero rientrare nessuna MAG in questa categoria. Nonostante la risposta corale alla consultazione con un documento in cui viene richiesto l’esplicito riconoscimento della Finanza Mutualistica e Solidale, il decreto va in discussione alle commissioni parlamentari senza raccogliere la richiesta. Completamente ignorate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, le MAG si sono attivate con un appello inviato a tutti i membri delle commissioni, riuscendo ad interagire con alcuni parlamentari. In particolare l’Onorevole Massimo Vannucci ha posto l’attenzione sul tema del riconoscimento della Finanza Mutualistica e Solidale all’interno dell’esame del testo nella Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera che poi, in data 6 luglio 2010, ha valutato favorevolmente lo schema di decreto legislativo con la seguente osservazione: “valuti la Commissione di merito l’opportunità di prevedere nell’ambito delle disposizioni del provvedimento un adeguato riconoscimento della finanza mutualistica e solidale che, nel rispetto delle modalità operative determinate dalla Banca d’Italia, ne salvaguardi i caratteri qualificanti e l’operatività, in considerazione del rilevante ruolo sociale dalla stessa svolto”. Successivamente, anche la commissione Finanze del 20 luglio 2010 ha valutato favorevolmente il riconoscimento della Finanza Mutualistica e Solidale e lo stesso avverrà nel luglio 2012 da parte della Commissione Finanze del Senato. Come se niente fosse successo, sulla Gazzetta Ufficiale del 04/09/2010 viene pubblicato il decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141, dove la Finanza Mutualistica e Solidale non viene riconosciuta come meritevole di tutela autonoma. Poi un lungo silenzio, una totale assenza di interlocuzione politica, fino a quando, mentre al Ministero dell’Economia e delle Finanze scatta il gioco del passaggio di competenza, Banca d’Italia risponde alla nostra richiesta d’incontro anticipandoci via fax (gennaio 2011) già l’impostazione e il risultato finale dell’incontro: “...si osserva che il decreto legislativo 141/2010 realizza una complessiva razionalizzazione del comparto dell’intermediazione finanziaria non bancaria, rafforza gli strumenti e i presidi di vigilanza per renderli proporzionati alla rischiosità dell’attività concretamente svolta; un regime alleggerito è previsto soltanto per coloro che operano nel comparto del microcredito o, più in generale, della finanza mutualistica e solidale. Il nuovo articolo 111 del Testo Unico Bancario disciplina in modo puntuale l’attività di microcredito e [...]. In questo comparto potranno rientrare le Mag, tenuto anche conto che la normativa ministeriale di attuazione potrà essere sufficientemente flessibile per tutelare le specificità.[...]” Traduzione: i giochi sono fatti, la macchina tecnocratica non accetta complicazioni e perdite di tempo rispetto ad un obiettivo che non contempla elementi di democraticità e non gradisce un eccesso di “biodiversità” in campo finanziario, perché potrebbe intaccarne la capacità di controllo. La Finanza Mutualistica e Solidale non può’ avere nessun riconoscimento a livello di normativa primaria: l’unica speranza rimane la “sufficientemente flessibile” normativa ministeriale di attuazione, ovvero la normativa secondaria. Nel marzo 2011, dove aver continuato più volte a sollecitare un incontro, arriva finalmente una risposta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze: una email! Questo il testo: “Gent.ma dott.ssa [...], le volevo comunicare che, anche se non ci sono frequenti contatti, la questione del riconoscimento della finanza mutualistica è sempre seguita. A breve ci sarà un incontro Ministero dell’Economia e delle Finanze Banca d’Italia nella quale verrà inserito all’ordine del giorno la problematica in oggetto.” 33 Il resto del tempo è tutto un reiterarsi delle cose già scritte: risoluzioni parlamentari che si susseguono alla Camera e al Senato e che impegnano il Governo ad un esplicito riconoscimento dell’attività di Finanza Mutualistica e Solidale, specificando che tale attività, pur rientrando probabilmente nell’alveo normativo del microcredito, non è riconducibile in alcun modo ad esso e rischia pertanto di uscire fortemente ridimensionata, se non di scomparire, dalle previsioni dell’attuale normativa che propongono stringenti limitazioni; richieste di interlocuzione politica che non trovano risposta alcuna; messa in consultazione della famigerata “sufficientemente flessibile” normativa ministeriale di attuazione che regola l’art. 111 del nuovo Testo Unico Bancario; risposta da parte delle Mag alla consultazione; approvazione definitiva anche del regolamento attuativo dell’art. 111 del TUB, che entra in vigore in data 16 dicembre 2014. Risultato finale di tutto questo iter legislativo: nel rispetto di una parvenza democratica, la Finanza Mutualistica e Solidale viene formalmente riconosciuta all’interno della normativa secondaria ma, nella sostanza, i vincoli previsti dal nuovo regolamento sono tali da mettere seriamente in discussione l’operatività e la sostenibilità economica delle MAG. Con la muova normativa circa il 50% degli attuali finanziamenti delle MAG sarebbe irrealizzabile, comportando la mancata 34 concessione di finanziamento a soggetti meritevoli di portare avanti progettualità sociali, che spesso risultano “non bancabili” nel mercato del credito bancario. Una lettura sicuramente parziale dell’iter legislativo È ammissibile che una legge dello Stato intervenga a normare un settore senza conoscerlo in tutte le sue sfaccettature? È ammissibile che una lettura complessa della realtà sia sacrificata per esigenze di controllo? È ammissibile che una legge sia causa di interruzione di una sperimentazione sociale funzionante e apprezzata? Da cosa trae fondamento il diritto? Dalla dimensione logica del suo costrutto o dalle prassi sociali, al di fuori delle quali resta lettera morta? Le leggi non dovrebbero essere in grado di corrispondere alle esigenze degli individui, riconoscendole a livello istituzionale? In un quadro malinconico e desolante come quello attuale, dove forte è il bisogno generalizzato di ricostruzione di un senso di esistenza, di sperimentazione di nuove pratiche di relazione, di ricomposizione del tessuto comunitario, continuare a procedere con l’obiettivo unico di razionalizzazione e difesa dell’esistente, considerando come minaccia ogni proposta innovativa, ci sembra veramente paradossale. E lo è ancor più quando questa difesa dell’esistente avviene nel campo su cui più di ogni altro si sta concentrando il malumore della società civile: quello finanziario. Come è possibile che un iter legislativo ignori i pareri di ben tre commissioni parlamentari? Com’è possibile che un organo importante dello Stato (il Ministero dell’Economia e delle Finanze) neghi l’ascolto ed il confronto ad istanze che provengono dal basso, dalla cittadinanza, per mancanza di “rilevanza sistemica”? La sensazione è che “la complessiva razionalizzazione del comparto dell’intermediazione finanziaria non bancaria” sia stata messa in atto per soddisfare esclusivamente le esigenze del sistema bancario. È importante chiedersi allora chi fa le leggi in questo Stato: perché se le decisioni vengono prese altrove, in una sfera di potere opaca nella quale pubblico e privato si confondono, la politica perde inevitabilmente possibilità di azione e credibilità. Se una legittima richiesta della società civile viene commissariata in nome dello stato di necessità, a essere messa in discussione è la credenza stessa dei cittadini nel valore della democrazia. La salvaguardia della sperimentazione sociale Scrive Stefano Rodotà: “La democrazia è vitale solo se non nega i problemi e le aspettative dei cittadini, se non si chiude in un bunker, ma accetta il conflitto delle idee e degli interessi (ovviamente non violento né distruttivo), riconoscendolo come un decisivo fattore vivificante, che può e deve essere portato a sintesi politica solo se viene preso sul serio. La democrazia è l’opposto della passivizzazione. Se il bisogno di essere ascoltati, attivi, partecipi non trova degli alvei adeguati, che il diritto può contribuire a costruire, le forme democratiche soffrono e rischiano di non tenere più”. Ma dov’è un luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente? Esistono spazi politici reali e non formali dove il primo obiettivo sia quello di favorire la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società? La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità: è evidente che stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. La crisi che stiamo attraversando, non solo economica, richiede invenzioni a livello comunitario, sociale, politico, artistico e spirituale che investono la capacità di guida, l’etica, l’immaginazione e il coraggio: tutte qualità che non appartengono a modelli di razionalizzazione totale dei sistemi sociali. Certamente la legge può istituzionalizzare il cambiamento, dargli forza e dirigere e ordinare il progresso sociale, ma non può fare a meno di radicarsi nelle prassi concrete in grado di soddisfare i bisogni ma anche i valori delle persone e delle comunità. Molte iniziative che si stanno diffondendo all’interno della società civile sono di difficile realizzazione a causa di normative che non ne permettono lo sviluppo essendo configurate per realtà di grandi dimensioni e con logiche solo di profitto e di controllo, a garanzia di standard di tutela pensati per un individuo visto come mero consumatore: questo genera una fissità sociale che non si apre alle esigenze e alle richieste degli individui, sempre più desiderosi di processi partecipativi e di autogoverno. La tenace costruzione di percorsi di trasformazione Se la politica, come appare evidente, risulta essere oggi l’ambito più resistente alla democratizzazione, occorre ripartire dalla capacità trasformatrice delle esperienze più vicine a noi. Occorre trovare il modo di organizzarsi per salvaguardare tutti quegli spazi di sperimentazione sociale nati per ricercare un altro modo di costruire la società. Ma esiste nelle nostre molteplici progettualità, nate da desideri di trasformazione e cambiamento, una forza sufficiente per organizzarsi? E se sì, come? Come organizzarsi, senza creare un’ennesima organizzazione? Come organizzarsi in molteplici maniere per vivere i mondi che vogliamo creare? Partendo dalla loro esperienza di autogestione del denaro, dalla loro attività di finanza mutualistica e solidale che in oltre trent’anni di attività ha incrociato e sostenuto tantissime sperimentazioni sociali, le Mag italiane, pur non sapendo se la loro operatività futura potrà essere garantita in seguito alle modifiche legislative del Testo Unico Bancario, lanciano un appello a tutti gli attori e le attrici che stanno lavorando per la costruzione di un mondo non solo più sostenibile, ma anche profondamente desiderabile, con lo scopo di aprire uno spazio politico capace di mettere in moto una necessaria ricomposizione sociale di tutte quelle pratiche di sperimentazione della società civile nate per la creazione di spazi di soggettività, di crescita, di autonomia, che hanno al centro il perseguimento del “benvivere” di tutti. Ci piace immaginarci insieme ad un “corpo sociale” capace, pur nella specificità dei vari ambiti di intervento, di connettersi in maniera armoniosa con un senso della vita più profondo, dove non possa trovare spazio né la stupidità del potere né la logica di sopraffazione sugli altri che da esso discende. E quindi? Nessuna ricetta: potremmo però cominciare a contarci e capire, con chi ci sta, come indire una sorta di “Stati generali dell’autogestione e dell’autogoverno”, per riappropriarci responsabilmente di quegli spazi di senso che quest’ondata di regolamentazione aggressiva, con la scusa di volerci tutelare, ci sta sottraendo. 35 vocidic orridoio a/c della Redazione Profughi di Saverio Morselli segnalidipace.wordpress.com “Vediamo espandersi come un contagio in tutta l’Europa questo clima di ostilità verso l’altro, soprattutto se povero, di gretto egoismo tribale, in un continente di cui solo pochi anni fa si decantavano le profonde radici cristiane e la cultura solidaristica dei ceti operai e dello stato sociale” (Enzo Bianchi, su La Stampa del 26/04/2015). “Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalle legge”. È vero, la Costituzione italiana è composta da 139 articoli e pensare di conoscerli tutti, uno a uno, risulta piuttosto 36 arduo. Tuttavia, ciò che sta accadendo nel Mar Mediterraneo e sulle nostre coste impone di ricordare l’esistenza dell’art.10, in verità mai particolarmente pubblicizzato, non fosse altro che per evidenziare che il dovere dell’accoglienza trova riscontro e dignità nella più alta fonte normativa e non solo nei convincimenti etici di qualcuno. Il massiccio arrivo di profughi provenienti dalle zone dell’Africa orientale e subsahariana e del medioriente, sta infatti provocando nell’opinione pubblica una reazione emotiva contraddittoria, che va dal dovere dell’accoglienza al cinismo del respingimento, da un partecipato sentimento di orrore per le stragi in mare all’idea malata dell’affondamento delle imbarcazioni ancora prima della partenza e della chiusura delle frontiere. Il tutto accompagnato e scandito dai numeri: 170.000 arrivi in Italia nel 2014, 100.000 soccorsi con l’operazione Mare Nostrum in un anno di attività e oltre 1.700 morti annegati nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno. Nei primi quattro mesi del 2015 sono sbarcate in Italia 34.000 persone, il 15% in più dello stesso periodo dello scorso anno, e il trend è in aumento. Di fronte a quei volti sconvolti, a quei corpi smagriti e a quegli occhi spalancati è comprensibile chiedersi che cosa spinga questa gente ad affrontare le violenze, le privazioni, il pericolo di perdere la loro stessa vita pur di partire. Ed allora, si dovrà finalmente fare uno sforzo per comprendere che questa gente fugge dalla guerra, dalla fame, dalla negazione della libertà e dei più elementari diritti umani, dalla mancanza di un futuro degno di questo nome. Si dovrà pur capire che chi non ha più nulla da perdere accetta ogni tipo di rischio pur di sopravvivere. E si dovrà convenire, prima o poi, che la fuga da queste aree devastate dell’altra parte del Mediterraneo non può essere considerato un fatto temporaneo o emergenziale, bensì un evento strutturale che potrà essere affrontato con soluzioni altrettanto strutturali di lunga e complessa gestione. Il dibattito nel nostro Paese, stretto tra pietà, indifferenza e spietatezza, si muove all’interno di un assioma banale ma comunque condiviso: “accogliere tutti è impossibile”. Certo che è impossibile, per quanto vi siano Nazioni (Libano, Giordania e soprattutto Turchia, per fare qualche esempio) che si fanno attualmente carico di un numero impressionante di sfollati. Più correttamente, dovremmo dire che è concettualmente “impossibile” pensare che tutti coloro che sbarcano in Italia siano destinati a restare (cosa che per altro molti di loro neppure vorrebbero), magari per mesi o anni a carico dello Stato in attesa di veder riconosciuto il proprio status di rifugiato. Non è certo pensabile che chi fugge dalla disperazione ambisca a soggiornare in una sorta di carcere in un altro Paese. Eppure accade: l’anacronistico Regolamento di Dublino, in vigore negli Stati che aderiscono all’UE, limita la destinazione dei profughi disponendo che lo Stato competente all’esame della domanda di asilo sia quello in cui il richiedente mette piede per la prima volta. La decisione delle autorità sulla richiesta del richiedente può arrivare dopo sei mesi e, in caso di diniego, è soggetta a ricorso e in quell’anno-anno e mezzo che trascorre il rifugiato deve rimanere rinchiuso in una struttura di “accoglienza”. In presenza di questa norma, è stato facile per tanti Stati europei esprimere una solidarietà di facciata all’Italia per il ruolo che svolge nel Mediterraneo e – contestualmente – chiamarsi fuori dall’offrire ospitalità. L’inefficacia di Triton, una sorta di Mare Nostrum sottocosto fallita miseramente, unita all’aumento esponenziale degli sbarchi e delle vittime pare tuttavia aver dato una scossettina all’immobilismo europeo, determinando un piano articolato che prevede, tra l’altro, un sistema di quote obbligatorio attraverso il quale assegnare ai diversi stati quelli che “hanno diritto di restare” e il sostegno a una non meglio definita “operazione antiscafisti” da attuarsi sotto copertura ONU. Se la attribuzione delle quote ha trovato immediatamente l’opposizione di alcuni Stati membri che non ne vogliono sapere perché – dicono – di stranieri ne hanno già abbastanza (in primis Gran Bretagna, Francia, Ungheria e Polonia) e attende di essere ulteriormente definita (*), una agevole intesa è stata trovata in ambito UE nell’agitare lo spettro di azioni militari “preventive” sulle coste libiche da dove partono le carrette del mare, che vanno dal blocco navale alla distruzione delle imbarcazioni in porto sino ad azioni di commando, droni da combattimento e quant’altro. Autentici atti di guerra da condurre disinvoltamente con autorizzazione ONU (data per scontata) in base al Capo VII della Carta istitutiva, evocando “tutte le misure necessarie” già utilizzate in un vergognoso recente passato per sgominare i trafficanti di esseri umani, come se i “flussi migratori” esistessero perché ci sono gli scafisti e non il contrario, ovvero che gli scafisti esistono perché esiste il problema della gestione di quanti fuggono da guerre e ingiustizia. Nonostante l’evidente insensatezza dell’opzione militare (è possibile essere certi che una imbarcazione viene usata per fini criminali solo quando è in mare, altro che “bombardare i barconi in porto”!), la UE prova a rispondere ai cultori della semplificazione e ai pensatori di pancia con una immagine muscolare che vorrebbe fermare l’esodo invertendo causa ed effetto. In realtà, non può esistere una soluzione militare alla tragedia che si sta consumando nel Mediterraneo. La soluzione – complessa, faticosa, dispendiosa – può essere credibilmente ipotizzata da un lato lavorando diplomaticamente per la stabilizzazione della Libia, favorendo nel medio periodo il dialogo tra la miriade di parti in causa, al fine di porre rimedio a una frammentazione che rende impossibile la realizzazione di accordi per una accoglienza in quel Paese dei profughi che non sia solo violenza, detenzione e sfruttamento. Dall’altro, nel lungo, lunghissimo periodo, solo un epocale mutamento di strategia politica ed economica dell’Occidente e delle altre potenze mondiali nei confronti dell’Africa può favorire la già esistente crescita di quel continente e contribuire contestualmente alla normalizzazione di quelle aree di ingiustizia e prevaricazione che avvelenano la vita delle popolazioni. Insomma, un “miracolo”. Nell’attesa, esiste una credibile alternativa alla attivazione di corridoi umanitari? (*) Le notizie di questi giorni hanno tuttavia rimesso il dubbio l’assegnazione per quote, ipotizzando esclusivamente l’accoglienza di profughi da parte dei Paesi UE solo su base volontaria. 37 Immigrazione al di là dei problemi e delle opportunità Karim Metref, 29 luglio 2015, www.labottegadelbarbieri.org Questi giorni con gli eventi di Ventimiglia, Roma e Treviso, torna la questione immigrazione sulla prima pagina dei giornali. Torna la sindrome dell’assedio. Torna lo scontro tra “buoni” e “cattivi”. Molti, anche tra i buoni, cominciano a pensarla con la Merkel: “non possiamo portarli tutti qui da noi.” Altri hanno già fatto il passo e hanno superato la barriera del “non siamo razzisti ma…” per andare verso un discorso e un atteggiamento apertamente razzisti, violenti, esclusivi, perché ormai tale discorso è sdoganato a alti esponenti delle istituzioni. Se il vice presidente del senato può dare della scimmia a una parlamentare nera, se un parlamentare europeo può dire che i Rom sono la feccia dell’umanità… senza subire conseguenze, allora perché non si potrebbero bruciare i campi Rom? Perché non si possono aggredire i profughi? Perché non si potrebbe esultare se muoiono in mare? Nel frattempo il paese va a frantumi e 80 mila giovani vanno a cercare futuro altrove. 38 L’uomo “nero” è sempre in agguato In Italia, la paura “dell’uomo nero” torna ciclicamente poi scompare per un po’ poi torna di nuovo. Ci ricordiamo tutti la paura del romeno stupratore che ha preceduto la rielezione del governo Berlusconi nel 2008. Sembrava che dietro ogni albero si nascondesse un romeno in calore, pronto ad assalire la dolce ragazza o la brava massaia (italiane ovviamente) di passaggio. Il dibattito andò avanti per mesi. Vi partecipò tutta la stampa. E anche quella presunta di sinistra non si tirò indietro e lanciò la sua pietra sull’immigrato cattivo e ingrato come ad esempio nel dibattito avvelenato lanciato su La Repubblica dalla lettera intitolata: Aiuto, sono di sinistra ma sto diventando razzista. Il razzismo si stava svelando un ottimo fondo di commercio elettorale e il Centro sinistra italiano voleva anche lui partecipare al banchetto. Poco dopo il governo Prodi adottava “Provvedimenti immediati e forti contro la violenza nelle strade delle città italiane” facilitando l’espulsione, perché è ovvio che la violenza sono gli stranieri. E Walter Veltroni allora in campagna elettorale per un nuovo mandato alla testa del Comune di Roma contro un Alemanno che era alla testa dei cori razzisti, dichiarò: «prima dell’ingresso della Romania nell’Unione europea, Roma era la città più sicura del mondo». Peccato per loro che ogni volta che la sinistra imita la destra, la gente preferisce votare l’originale invece che la fotocopia. E nonostante il loro discorso razzista persero entrambe quelle elezioni. Poi durante l’era Berlusconi, l’immigrato violento è scomparso dalle prime pagine. Il paese era di nuovo tornato ad essere il più tranquillo del mondo. Oggi l’immigrazione torna in prima pagina. Perché ci sono aumenti drammatici dei numeri? Le statistiche non lo dimostrano. Anzi vedremo più avanti che è l’esatto contrario. Cosa succede allora? Cosa spinge la gente a uscire per le strade contro i Rom, contro i profughi, contro i migranti? C’è la crisi. Una crisi senza precedenti e alla quale la classe politica non è assolutamente in grado di dare risposte. Allora ci vuole il capro espiatorio, ci vogliono gli scontri di strada, lo spauracchio dell’estrema destra che sale, sale. E va a finire che l’estrema destra sale per davvero. Invece di affrontare i problemi alla base ci si scontra sul destino di qualche migliaia di profughi: buttiamoli a mare, dice la destra; accogliamoli come fratelli, dice la chiesa; facciamone una risorsa, dice la sinistra. Cos’è l’immigrato o il profugo che sbarca da un gommone a Lampedusa o scende da un aereo o da un pullman a Roma o Milano? È un problema? Un occasione per fare opera di carità e meritarsi il paradiso? Oppure è una opportunità, una risorsa economica e culturale? Sono decenni che il dibattito sull’immigrazione non solo in Europa ma in tutti i paesi ricchi del mondo, si riassume in queste tre posizioni. Sono decenni che la politica sia livello locale, nazionale che mondiale rifiuta di guardare il problema alle sue radici. Rifiuta di superare la domanda: Cosa farne una volta arrivati ai confini del mondo ricco? Rifiuta di porsi la domanda: perché partono? E perché in condizioni sempre più disperate? Ma perché partono? Mi ricordo come oggi, quando verso fine anni 80, il Signor Michel Camdessus girava l’Africa per dettare le condizioni del Fondo monetario Internazionale riguardo ai debiti accumulati dai paesi del continente. La cortina di ferro era caduta e il pericolo di una adesione di massa dell’Africa al blocco socialista non c’era più. E allora le banche sono venute a chiedere il rimborso delle somme versate ai governi africani “amici”. Somme in realtà in larga parte ritornate nelle casse delle stesse banche ma sui conti personali dei dittatori e delle loro famiglie. La ricetta che proponeva il Sig. Camdessus era molto semplice: meno scuola, meno cultura, meno sanità pubblica, meno settore pubblico… privatizzare tutto. Nessuna riforma costituzionale, nessuna lotta alla corruzione, nessuna esigenza di trasparenza, nessuna riduzione degli sprechi dei governanti… L’Africa emigrava già da un paio di secoli. Volontariamente o involontariamente, la mano d’opera africana era esportata verso il resto del mondo. Ma almeno dalla fine della tratta degli schiavi fino ad allora, la gente aveva migrato in condizioni dignitose. Chi se lo poteva permettere, prendeva l’aereo o la nave e si recava in Europa o in America per cercare un lavoro meglio retribuito. Chi restava in paese aveva riusciva a costruirsi una vita dignitosa. All’inizio degli anni 90 comincia ad apparire il fenomeno dei “desperados” della migrazione. Giovani che dai paesi dell’Africa subsahariana partono a piedi o con mezzi di trasporto di fortuna, senza documenti e con pochi soldi in tasca: direzione Nord. Sono decine, poi centinaia poi migliaia. Mi ricordo che nel 1992 sono andato in vacanza a Tamanrasset, nell’estremo sud dell’Algeria. E già c’era un ghetto di migranti. Gente che sostava lì in una specie di bidonville indescrivibile, in attesa di trovare una occasione verso il mare. Si entrava da Bordj Bagi Mokhtar, la punta più a Sud del Maghreb, ma la destinazione era verso il Nord del Marocco o verso la Tunisia e la Libia, laddove le coste del Nord Africa e dell’Europa si sfiorano. Nonostante le condizioni disumane del viaggio, nonostante le aggressioni, le violenze, le umiliazioni e la morte in agguato, i numeri di candidati all’immigrazione a tutti i costi sono aumentati in modo costante. È già a quella epoca che bisognava porsi la domanda. Non “perché arrivano da noi e cosa ne facciamo?” ma “perché partono?” Problema o risorsa? “L’immigrazione è una risorsa, non un problema.” ha sempre ribadito la sinistra italiana dall’adozione di quella prima legge sull’immigrazione firmata nel lontano 1990 dal socialista Claudio Martelli. In effetti l’immigrazione è stata una risorsa economica ma a favore del padronato e delle mafie della falsa accoglienza e della vera repressione. L’Italia doveva il suo miracolo economico a una formula che assomiglia a quella cinese di oggi: fare prodotti in concorrenza con quelli dei grandi paesi industriali ma con una mano d’opera che costava meno della metà. Negli anni 90 quella formula era ormai obsoleta. Da una parte, grazie alle lotte, l’operaio italiano aveva acquisito molti vantaggi e migliorato di molto la propria condizione. Dall’altra entravano in scena nuove potenze economiche i cui lavoratori guadagnavano 10 volte meno di quello italiano. Le leggi sull’immigrazione adottate in Italia furono fate su misura per fornire all’industria, all’edilizia e all’agricoltura italiana una nuova mano d’opera portatrice di meno diritti e pretese. L’arrivo di milioni di immigrati ha permesso ai padroni italiani di rimandare per qualche anno la delocalizzazione o la chiusura. Ma non ha fatto che rimandare i problemi a oggi. Come al solito, invece di affrontare il problema alla base. Riformare, modernizzare il sistema produttivo, investire sulla ricerca e l’innovazione, incoraggiare la qualità… si è scelto un escamotage. Intanto c’era questa 39 mana di dio che premeva alla porta e ogni anno confindustria faceva pressione sul governo per aumentare le quote di ingresso. Ma siccome si trattava anche di mantenere queste popolazioni nella precarietà e lo stato di forza lavoro usa e getta, bisognava lamentarsi in continuazione dei numeri troppo alti, dell’eterna emergenza immigrazione. L’immigrato non è né un problema né una risorsa. É un essere umano. Un essere umano che come tutti gli altri è portatore di potenziale positivo e negativo. É spesso una persona forte, decisa e pronta a fare di tutto per farcela. Quello che farà dipende da quello che troverà nella società di arrivo. Se la società è onesta e laboriosa, l’immigrato si integrerà tramite il lavoro e il rispetto delle regole. Se è una società corrotta e criminogena allora l’integrazione si farà anche tramite le attività illegali, la violenza, la corruzione, la criminalità organizzata. L’immigrato è sempre l’ultimo arrivato, quello che ha diritto ai lavori meno pagati e più difficili, sporchi e pericolosi. E questo in tutti i settori dell’economia formale e informale. E se alcuni di questi settori sono lo spaccio di droga e la prostituzione (ad esempio) allora l’immigrato sarà la parte più esposta e più visibile di queste industrie: lo spacciatore e la prostituta di strada. e nei settori economici formali se basati sul lavoro nero (com’è buona parte dell’economia italiana) allora l’immigrato sarà il bracciante sudanese senza contratto, pagato 2 euro all’ora, che si accascia sotto il sole cocente del Gargano. 40 Sarà il marocchino che pomperà i pesticidi senza protezioni sotto le serre a Imperia o a San Remo o il romeno che si arrampica senza adeguate protezioni sull’impalcatura di casa tua. Ma se lo fanno è perché un sistema malato glielo impone, non perché a loro piace lavorare e vivere (o morire) in quelle condizioni. governo razionale delle questioni legate all’immigrazione rende la convivenza più facile e i processi di interazione più benefici. Ma la questione della “governance” (come si dice in certi ambienti bene) non può essere posta per la sola immigrazione. Questo non vuol dire che dietro all’arrivo in massa di popolazioni diverse non ci siano problemi. I problemi ci sono e sono numerosi. E il ritmo e i quantitativi di popolazioni in spostamento negli ultimi decenni rendono questi problemi sempre più duri da risolvere, con tempi più stretti e sempre meno risorse. Ma vuol dire due cose in particolare: 2. la questione dei flussi è globale e riguarda quasi tutti i paesi del mondo. I paesi più colpiti con i flussi di migranti e di profughi non sono i paesi ricchi (Europa, Nord America, Giappone, Australia, Paesi del Golfo Persico..) anche se sono spesso quelli che si lamentano di più. Le masse più impressionanti di migranti e profughi sono nei paesi poveri. Quelli giusto un po’ meno poveri del paese vicino o quelli che stanno accanto a nazioni che subiscono una situazione di guerra o di calamità naturali. Basta pensare a paesi come il Libano o la Giordania che subiscono da anni la presenza di milioni di profughi palestinesi, iracheni e siriani, mentre l’Europa fa a botte per spartirsi quelle poche decine di migliaia che riescono ad arrivarci. Quindi le questioni dei flussi vanno affrontate a livello globale e alla base. Ed è questo problema globale che la politica rifiuta di guardare in faccia. 1. il problema dell’immigrazione in un territorio si adegua alla gestione del territorio stesso. In un territorio gestito bene anche l’immigrazione porterà un suo contributo alla ricchezza generale. In un territorio mal gestito anche l’immigrazione porterà il suo contributo al disordine generale. Ed è certo che un Che fare se non vuoi affrontare i tuoi problemi? Oggi non solo la situazione del Sud del mondo è peggiorata ma i mali che lo colpiscono stanno arrivando alle porte dell’Europa. L’Africa è tutto un rogo. Guerre ovunque. La terra e le risorse sono sempre più monopolizzate Il problema è solo nostro? L’emigrazione è un grande problema innanzitutto per i paesi di partenza più che per quelli di arrivo. Campagne abbandonate, economia svuotata, partenza dei giovani, dei talenti, dei potenziali, delle intelligenze, demotivazione, smembramento delle famiglie, bambini che crescono senza genitori… dalle multinazionali senza nessuna ricaduta positiva sul territorio. Guerra e multinazionali sembra essere il destino di tutti i paesi in via di sviluppo e non solo. Ormai parte del Nord Africa e del Medio oriente si trova nella stessa situazione. Guerre e multinazionali che continuano a pompare ricchezze in mezzo alla confusione. Ma la brutta notizia è che quelli che hanno messo in moto la macchina infernale per il terzo mondo, oggi sono seduti al capezzale della Grecia, del Portogallo, della Spagna e dell’Italia. La Signora Lagarde ha sostituito il Signor Camdessus, ma la lista delle raccomandazioni del fondo monetario sono rimaste le stesse: meno scuola, meno sanità, meno cultura… Non appena arrivate le politiche di austerità, i giovani del Sud Europa hanno ripreso la strada dell’emigrazione. In Italia per la prima volta da 20 anni i flussi in arrivo diminuiscono e aumenta il numero di residenti stranieri che lasciano l’Italia. Invece è notevole l’aumento di emigranti (anche se la parola è ormai scomparsa dal vocabolario sostituita da “italiani residenti all’estero”) italiani verso l’estero (vedere rapporti Istat e Aire del 2014). Un giorno dopo la morte di Mohammed che raccoglieva pomodori nella pianura di Foggia, Ilario, un giovane italiano della provincia di Sondrio, cadeva in un canale di irrigazione e moriva annegato in una diga nei pressi della tenuta agricola australiana dove lavorava come bracciante. Ilario non è morto per le condizioni particolarmente dure del lavoro come Mohammad. Ma la sua morte mette in luce i circa 15.000 giovani italiani sfruttati nelle piantagioni australiane come braccia a basso costo. L’emergenza è quindi di emigrazione o di immigrazione? Di che cosa stiamo parlando tutti i giorni in Tv? Perché si affronta il problema immigrazione invece di guardare alle radici stesse della crisi? Perché la politica (e quindi anche la stampa a lei collegata) non ha risposte da dare. E quindi? E quindi, la formula è vecchia come il mondo: “sbatti il mostro in prima pagina!” La Grecia insegna L’esempio della Grecia ce lo racconta molto chiaramente come la questione immigrazione sia un fattore di distrazione dai problemi veri. All’inizio della crisi, in Grecia crescevano i pogrom contro gli immigrati. Alba dorata apparsa dal nulla era diventata il primo partito del paese. Ma quando una coalizione di sinistra ha preso le proprie responsabilità e tentato una narrazione della crisi che non è quella delle lobby e delle banche la speranza è rinata e la gente ha smesso di vedere nei migranti la fonte di tutti i loro mali. Questo almeno fino alla nuova impasse in cui è entrata la trattativa tra il governo greco e le istanze europee. Ora, se saranno solo i poveri a pagare la crisi, sicuramente i pogrom riprenderanno e Alba dorata ricomincerà a brillare. In Italia, dall’Inizio della crisi, Salvini è in Tv tutti i giorni e a tutte le ore. La Lega che era quasi morta è resuscitata miracolosamente. E con lei sono risuscitati spettri di altri tempi che finora erano nascosti nelle catacombe della storia. Ce n’è bisogno. The show must go on! É chiaro quindi che la questione immigrazione, pur non priva di problematicità, sembra la madre di tutti i problemi soltanto perché chi ne ha la capacità e i mezzi: politica e media, lo usa per togliere l’attenzione da quelli veri. Per continuare a gestire giorno dopo giorno un sistema che sta mandando il pianeta in frantumi. Per distogliere l’attenzione dal fatto che le risorse si stanno raccogliendo tra le mani di una fetta sempre più ridotta di persone e che le frontiere tra la povertà e la ricchezza si stanno muovendo velocemente. Il dibattito che si fa qui sugli africani, gli est-europei e i mediorientali, in svizzera si fa già sugli europei del sud. E il referendum dell’anno scorso per limitare le quote di immigrati non riguardavano quella extracomunitaria che era da sempre limitata ma quella europea. Nel mirino erano gli Italiani, Spagnoli e Portoghesi sempre più numerosi nelle città della Confederazione elvetica. Insomma dire che non esiste il problema delle migrazioni o che l’immigrazione è solo un bene è una menzogna. Dire che esiste solo il problema dell’immigrazione è una truffa. Una truffa che per farci dimenticare il fatto che la casa ci sta crollando addosso concentra tutta l’attenzione sull’opportunità o meno di blindare le porte e le finestre. 41 sollecit /azioni a/c della Redazione Il cemento un vizio di famiglia Di Edoardo Salzano, tratto da: “Rottama Italia. Perché il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro”, edizioni Altreconomia, 2015 42 Craxi, Berlusconi, Renzi. Tre autori del disastro. Tutti gli elementi nefasti della controriforma iniziata trent’anni fa sono presenti nel decreto Sblocca-Italia. Ho parlato di una controriforma iniziata trent’anni fa: Matteo Renzi è il prolungatore e completatore di un processo iniziato in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Non è casuale la coincidenza temporale tra quel processo e l’affermazione del dominio di quello che chiamiamo “neoliberismo”, e che Luciano Gallino ha definito “Finanzcapitalismo”. Mentre in Gran Bretagna e negli Usa trionfano Margaret Thatcher e Ronald Reagan, mentre Milton Friedman e i Chicago boys diventano, dopo l’esperienza cilena, i consiglieri dei governi del Primo mondo, in Italia sale al potere Bettino Craxi. È l’inizio dell’affermazione di un’ ideologia e una prassi che si riveleranno vincenti. “Meno Stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli”, “privato è bello” ne sono gli slogan, proclamati non solo dai “modernizzatori” craxiani ma anche nella sinistra. Tra gli strumenti principali della prassi craxiana ecco apparire, e presto dominare, l’“urbanistica contrattata” (cioè l’assunzione degli interessi immobiliari come motori delle scelte sull’uso del territorio), e la deroga sempre più ampia degli interventi sul territorio dalla logica e dalle regole della pianificazione. La benemerita azione del pool Mani Pulite svela il pauroso intreccio di reati contro l’interesse collettivo che quella prassi ha generato, nel quadro di un più ampio asservimento delle funzioni pubbliche agli interessi privati di persone, partiti, fazioni. Ma l’Italia politica non è pronta a raccogliere il messaggio tacitamente lanciato da quell’indagine. Ecco invece “scendere in campo” Silvio Berlusconi. Meglio di Craxi ha saputo forgiare il cervello degli italiani, con l’uso sapiente del suo potere mediatico e la capacità di cogliere, nelle pieghe del carattere degli italiani, i lati peggiori e più utili all’affermazione della sua strategia di potere: l’insofferenza alle regole valide per tutti, il clientelismo familistico, il dolore nel pagare le tasse (a metà del ventennio berlusconiano un uomo che, come Tommaso Padoa-Schioppa, affermava “Le tasse? Bellissime. Un modo civile di contribuire ai servizi” appariva del tutto fuori dal mondo.) È inutile dilungarsi troppo sulla concezione e sulle pratiche della fase berlusconiana nel governo del territorio: lo hanno criticato in molti, compresa una buona parte di quelli che oggi applaudono al suo successore. Un’immagine e due slogan sono sufficienti a sintetizzarle. L’immagine è quella che espose nello studio televisivo del suo scudiero Bruno Vespa: l’Italia delle mille autostrade e del trionfo delle Grandi opere. Gli slogan sono: “Ciascuno è padrone a casa sua” e “È giusto non pagare le tasse”. Un atto amministrativo (che ha avuto e continua ad avere un effetto dirompente quanto lo Sblocca-Italia) è il cosiddetto “Piano casa”. Un provvedimento mai tradotto in legge nazionale ma che ha condotto le Regioni di tutte le latitudini politiche a legiferare conferendo “premialità” a moltissimi proprietari di immobili che volessero “valorizzare” i propri edifici aumentandone la cubatura e modificandone l’utilizzazione. In deroga, salvo in pochi casi virtuosi, alle regole urbanistiche e di edilizia vigenti (e perfino, in Sardegna, ai precetti di tutela paesaggistica). L’accodarsi dei governi regionali agli indirizzi berlusconiani testimoniano il carattere quasi egemonico della strategia craxiano-berlusconiana. Il fatto che nel Lazio, oggi governato dal centrosinistra, si voglia prorogare (ultra legem) il “Piano casa” della precedente giunta di destra è una delle molte prove della continuità della politica del Pd con quella dei due precedenti leader. Renzi rappresenta certamente la piena continuità con la strategia d’uso del territorio espressa e praticata da Craxi e Berlusconi. A quella dei due antenati Matteo aggiunge però qualcosa di suo: al di là del linguaggio, dell’appeal giovanilistico e scanzonato, dell’uso di strumenti comunicativi idonei alla percezione della “società liquida”, egli coglie – come rafforzativo delle sua linea – l’occasione offerta dell’austerity della troika europea. “L’Europa lo chiede” è uno slogan che supera la necessità, per Matteo, di ricorrere alle diverse, occasionali “emergenze” utilizzate (e spesso artatamente provocate) da Bettino e da Silvio. È facile individuare nello Sblocca-Italia le idee forza della strategia renziana. Il primato dell’economia sulla politica (e di un’economia che premia i ricchi e punisce i poveri). La riduzione della politica a strumento del potere dell’“asso pigliatutto”, dove l’asso può essere bicipite (Matteo+Silvio). La demonizzazione della storia, come strumento per far apparire migliore tutto ciò che è “innovativo” solo perché è diverso da quel che è stato prima. Ecco alcune delle conseguenze nei precetti del decreto. La sua visione cancella la molteplicità e la ricchezza delle sue dimensioni del territorio: l’essere la pelle del pianeta e l’habitat della società. Il territorio non è un patrimonio delle cui qualità possano godere tutti e da accrescere nel succedersi delle generazioni: è una risorsa da sfruttare per accrescere il PIL (quel totem contro cui Robert Kennedy pronunciò nel 1968 il famoso anatema), per costruire autostrade e altre infrastrutture per il trasporto, centri commerciali, e direzionali, grandi opere spesso inutili, o addirittura dannose per gli stessi fini per cui vengono proposte, ma utili per i gruppi finanziari che ne raccolgono le rendite, spesso prodotte dal danaro pubblico (cioè dalle tasse versate da chi non le evade). L’abitare non è un diritto di tutti gli abitanti, quale che sia il livello di reddito: è lo strumento per accrescere lo spreco del territorio, e soprattutto il valore commerciale della proprietà immobiliare. Gli spazi e i servizi pubblici (a partire dall’acqua, fino all’università) non sono elementi spaziali e funzionali ai quali chiunque può accedere per soddisfare le esigenze, personali e sociali, non soddisfacibili nell’ambito della propria abitazione, ma diventano prestazioni erogabili da operatori interessati non alla qualità del servizio reso all’“utente”, ma dal vantaggio economico che possono trarre dal “cliente”. È del tutto evidente che questa visione comporta la necessità di indebolire, o meglio scardinare, qualsiasi ostacolo che si opponga al libero arbitrio dei saccheggiatori del territorio. Ed ecco spazzare via le regole che limitavano, e ancora tentano di limitare, 43 il potere dei proprietari immobiliari di modificare a loro piacimento il suolo. Ecco la generalizzazione delle deroghe, dei “silenzi assensi”, degli altri strumenti di deregolazione inventati agli albori del craxismo e rafforzati negli anni successivi. Ecco, con Renzi, riprendere quota e vigore quella perversa invenzione del centrosinistra pre-renziano che è il riconoscimento di “diritti edificatori”, spettanti a ciascun proprietario fondiario. Ma per eliminare le regole sull’uso del territorio occorre abbattere i due baluardi che sorreggono la loro efficacia: la pianificazione urbana e territoriale come metodo e strumento dell’azione pubblica, e la burocrazia delle istituzioni (quella privata si moltiplica a dismisura). Quella burocrazia pubblica che è essenziale perché le regole stabilite nell’interesse pubblico siano effettivamente rispettate. Tutto ciò è chiaramente leggibile negli atti e nelle parole di Matteo Renzi, fino al monstrum dello Sblocca-Italia. Ma il sigillo finale, dovrebbe fornirlo la proposta di legge urbanistica di Maurizio Lupi. Quest’ultima non è solo la ciliegina sulla torta: è la sintesi, e insieme la traduzione in sistema permanente (al di là dell’emergenza) di un nuovo regolazione del rapporto tra gli attori nel processo di governo delle trasformazioni del territorio. Una regolazione che rovescia il rapporto tra privato e pubblico elaborato nel corso di oltre due secoli. Bravo Matteo, sei un gigante; ma noi aspettiamo un Davide, possibilmente collettivo. 44 Il monografico è stato realizzato in collaborazione con il gruppo di Alternativa Libertaria di Reggio Emilia; per contatti: [email protected] Stampato su carta riciclata dalla Tipografia San Martino con inchiostri vegetali e matrici ecologiche prodotte senza bagni chimici San Martino in Rio (RE) - tel. 0522 698968 www.tipografiasanmartino.it il tuo abbonamento a Pollicino Gnus è ? SCADUTO Le modalità per ricevere Pollicino Gnus sono cambiate! 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