5MB - Pollicino Gnus

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5MB - Pollicino Gnus
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 – CN/RE – iscrizione al ROC n. 24782 del 13/08/2014
pace solidarietà ambiente convivenza
pollicino
Reggio Emilia, n°
238
lug
ago
2015
La “questione curda”
e la resistenza di Rojava
inoltre » 13 luglio 1920, Daniele Barbieri —
Profughi , Saverio Morselli ...e altro ancora!
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Kobane: quale resistenza?
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13 luglio 1920 - Daniele Barbieri
Kobane è la rivoluzione
Geografia del Kurdistan
Breve storia della resistenza curda
La resistenza di Kobane
Teoria e gineologia
Primo maggio 2015
Ma questa è una vera rivoluzione
Solidarietà e ricostruzione
La costituzione dei cantoni della Rojava
Attacco suicida a Suruc all’Amar Cultural Center
La costrizione della regolamentazione giuridica
Profughi - Saverio Morselli
Immigrazione al di là dei problemi e delle opportunità
Il cemento, un vizio di famiglia - Edoardo Salzano
pollicino
pace solidarietà ambiente convivenza
Kobane: quale resistenza?
è una rivista associata all’Uspi
Questo numero di Pollicino Gnus è dedicato ad una questione di cui ogni tanto ci arrivano gli echi
anche dalla stampa mainstream. Che siano la ricaduta delle notizie legate allo sviluppo dell’Isis o
per la forza intrinseca che questa lotta ha, fatto sta che ognuno di noi avrà sentito parlare qualche
volta di Kobane e della resistenza curda nelle regioni siriane della Rojava.
Ma tutto resta distante, avvolto da quello strano alone che ricopre le tante resistenze popolari che
continuano ad esserci in giro per il mondo e che, come del resto tutto quello che non tocchiamo
con mano, dopo un po’ cade nel dimenticatoio.
Direttore responsabile
Daniele Barbieri
Perché quindi Pollicino ha pensato di occuparsi della resistenza curda all’avanzata del fascismo
islamista dell’Isis nei cantoni del Rojava?
In Redazione
Annalisa Govi, Leonardo Zen,
Lollo Beltrami, Lorenzo Bassi,
Marco Iori, Mariangela Belloni,
Matthias Durchfeld, Nicola Guarino,
Renato Moschetti, Roberta Tondelli,
Roberto Galantini, Silvia Iori,
Tarsicio Matheus Rocha
Personalmente devo dire che l’interesse per questa storia me l’ha messa la lettura di alcuni articoli
apparsi su una rivista tutt’altro che mainstream, “A Rivista Anarchica”, di cui qualcosa riportiamo
anche in queste pagine.
Incuriosito quindi in particolare dalle parole di David Graeber su “A”, ho partecipato ad una serata
informativa su questi temi che si è tenuta lo scorso inverno al circolo Arci di Pontenovo, località
San Polo d’Enza in provincia di Reggio Emilia.
A margine della serata, risultata molto interessante, chiacchierando con alcuni amici e abbonati
è venuta fuori l’idea di dedicare un numero di Pollicino alla questione curda e in particolare al
nuovo corso libertario che la Resistenza di Kobane e dintorni sta assumendo, stimolata delle
nuove riflessioni del “comandante” Ocalan, indiscusso riferimento politico del movimento di
liberazione curdo che, abbandonando la vecchia visione marxista ortodossa, si è aperto ad un’idea
di “rivoluzione” molto vicina alle teorie dell’ecologia sociale dell’anarchico americano Murray
Bookchin.
Proprietario
Associazione Pollicino Gnus
Redazione
via Vittorangeli 7/d
42122 Reggio Emilia
tel./fax: 0522 454832
[email protected]
www.pollicinognus.it
Sono questi i presupposti che ci hanno convinti ad affrontare un argomento che per alcuni nostri
lettori potrebbe anche risultare un po’ ostico, nel senso che pur sempre di una lotta di resistenza
armata stiamo parlando.
Dove va quindi a finire il nostro pacifismo, ci si potrebbe chiedere, se poi andiamo a sostenere chi
di fatto sta portando avanti una lotta che comporta anche azioni di guerra?
Beh, ci sembra importante provare a discutere di questo fatto che, al
di là della Resistenza europea al nazifascismo degli anni ‘40, alla quale
ognuno di noi è consapevole di dovere ancora tanto, ci possano essere
oggi altre giuste rivolte popolari che scelgono di utilizzare anche la forza
per difendersi contro la violenza e l’ingiustizia.
Nel già citato articolo di Graeber leggiamo che nel percorso di formazione
della Polizia curda dei Cantoni liberati è obbligatorio “seguire un corso di
risoluzione non violenta dei conflitti e di teoria femminista prima di essere
autorizzati a toccare un fucile”.
Questo proprio perché ci si rende conto che la gestione dei conflitti deve
avere innanzitutto un approccio di rispetto per la vita altrui e che nella
società che si vuole costruire, la violenza si deve tenere sotto controllo e
ridurre al minimo.
Per tendere a questo traguardo, una formazione non violenta della Polizia
è uno dei tasselli indispensabili. Una scelta quindi che ci consegna una
tensione verso la costruzione di una società tollerante e pacifica…
Una conferma che troviamo anche in diversi passaggi della nuova Carta
Costituzionale approvata nelle città curde liberate lo scorso ottobre e di cui
riportiamo alcuni stralci anche in queste pagine.
L’incombenza di tentare questa incursione difficile se la sono presa i nostri
amici e compagni di Alternativa Libertaria di Reggio Emilia che ringraziamo
ancora una volta per la disponibilità nei confronti della nostra rivista.
Buona lettura!
Renato Moschetti
(Redazione Pollicino Gnus)
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Questo numero di Pollicino Gnus esce come sempre
mensilmente, gli articoli risentono quindi del mutare delle
condizioni di una situazione in evoluzione, il caso del
Rojava testimonia che nulla è consolidato, la liberazione
dei territori ora sotto controllo della difesa curda non ha
impedito incursioni sanguinarie delle milizie IS, la Turchia
conferma il proprio ruolo nella disputa medio orientale e
minaccia ormai esplicitamente la possibile nascita di una
reale autonomia politica dei curdi.
Bibliografia consigliata
Per comprendere il nuovo corso del PKK
• Difesa di un uomo libero (Melagrana Onlus 2005)
• Guerra e pace in Kurdistan (Iniziativa internazionale 2010)
• Gli Eredi di Gilgamesh, dai Sumeri alla civiltà democratica (Edizioni
Punto Rosso 2011)
• Il PKK e la questione kurda nel XXI secolo (Edizioni Punto Rosso 2013)
• La road map verso i negoziati (Edizioni Punto Rosso 2014)
• Confederalismo Democratico (Iniziativa Internazionale 2013)
• La rivoluzione delle Donne (iniziativa Internazionale 2013)
Altri riferimenti consultati
• KURDI, il dramma di un popolo e la comunità internazionale, di Jasim
Tawfik Mustafa (BFS 1994)
• “L’ingerenza umanitaria: il caso dei Kurdi” di Jasim Tawfik Mustafa BFS
1996
• Anarkismo.net
• UIKI, Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia
• Rete Kurdistan
• Anarkismo.net www.anarkismo.net
• UIKI, Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia www.uikionlus.com
• Rete Kurdistan www.retekurdistan.it
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Kobane
è la rivoluzione
di Gino Caraffi, Alternativa Libertaria
Ha indubbiamente ragione David Graeber in merito alla rivoluzione di
Kobane e dei curdi, ma non solo, nel Rojava, le sue affermazioni hanno
avuto conferma diretta dalla sua partecipazione a incontri sul campo, le
analogie da lui delineate tra le donne, guerrigliere del YPJ e le mujeres
llibre della Spagna del 1936 non sono poi così campate in aria.
La conferma del processo rivoluzionario nei cantoni curdi del nord della
Siria ha nella partecipazione delle donne la propria conferma, da sempre le
rivoluzioni esprimono desideri che i percorsi della lotta possono trasformare
in realtà, desideri che trovano robuste gambe con cui camminare, la
rivoluzione che tronca ingerenze altrui e progetti imperialisti, donne
e uomini che si mettono di traverso e ridisegnano una comunità ed
un mondo dove anche i desideri ed i sogni possano vivere, nel Rojava
l’avanzamento delle donne per la conquista dei loro diritti è enorme, la
libertà dalla schiavitù di genere vive e si è data le proprie strutture, in
ogni quartiere di fianco alla Casa del Popolo si trova la Casa delle Donne,
sono nate Accademie delle Donne, e naturalmente le brigate armate delle
donne.
Nel nuovo sistema di autogoverno almeno il 40% del congresso sono
donne ed in ogni ente istituzionale vige un accordo di co-presidenza, un
uomo ed una donna sono il doppio presidente di partiti, associazioni e
municipalità, le donne del Rojava hanno riaperto il cammino contro la
società patriarcale, non solo le donne curde, diventando uno dei grandi
nemici del fascismo islamista.
Quando la democrazia viene praticata diventa autogoverno, nel momento
in cui il simulacro che la ricopre è smantellato si ha la possibilità di aprire
nuovi spazi di sperimentazione sociale e politica, questo è quanto accaduto
a Kobane nella lotte di resistenza contro il califfato islamico, la democrazia
come mezzo vincolante per la costruzione di una società laica ed inclusiva,
non confessionale, antipatriarcale, socialista perché non ha mai smesso di
agire in una società divisa in classi, anche nel mondo curdo, che finalmente
ritrova linfa per vivere una esperienza di riscatto che forse non ha mai
avuto.
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La consacrazione del con federalismo
democratico, che tanto deve al pensiero
libertario, è una scoperta per buona parte
del mondo così attento alle vicende curde,
l’abbandono del socialismo autoritario che
si fa Stato come paradigma della lotta di
liberazione di un popolo ne è la dimostrazione.
La nuova elaborazione teorica di Abdullah
Ocalan e del PKK ha avuto successo, in
una area del mondo, il medio oriente, così
selvaggiamente straziato da un violento
massacro imposto dai nuovi equilibri
internazionali determinati dall’imperialismo di
vecchi e nuovi attori, un area dove 25 anni di
guerra hanno prodotto centinaia di migliaia
di morti, milioni di profughi e dove è oggi
quasi impossibile vivere, ebbene l’esperienza
di Kobane resta l’unico faro che ne possa
illuminare il cammino, per una uscita dal caos
sistemico che riprenda la strada per il diritto
di vivere.
La vittoria di Kobane deve il proprio successo
ai suoi combattenti, morti per una giusta
causa, quella della libertà di tutti e di tutte,
ha misurato la capacità in tutto il mondo
della solidarietà internazionalista, centinaia di
circoli, associazioni e partiti in tutto il mondo
hanno difeso ed appoggiato la rivoluzione
nel Rojava, hanno dato la possibilità ai curdi
di riconquistare uno spazio politico sociale
e culturale altrimenti negato dalle dispute
imperialiste, la presenza su Kobane nei duri
momenti dei combattimenti di
combattenti e non, provenienti
continenti del mondo ha dato alla
di Kobane un nuovo spirito di
internazionalista.
testimoni,
da tutti i
rivoluzione
fratellanza
È grazie anche alla presenza sul terreno di
testimoni e di combattenti di altri paesi che si
è potuto verificare la situazione dei profughi,
in quelli gestiti dai curdi, aperti e solidali ed a
quelli gestiti dall’esercito turco, delle prigioni
vere e proprie che assomigliano tanto ai campi
di “accoglienza” europei, con l’aggravante
del dileggio e del disprezzo delle popolazioni
rinchiuse.
La costatazione e lo smascheramento di certa
propaganda, che serve solo a santificare il
profitto di grandi corporation, ha messo in
luce che un confine come quello turco è
permeabile solamente alle forniture ed alle
milizie dell’ISIS, un confine che rinchiude chi
vuol fuggire dalla guerra e condanna agli stenti
chi ha deciso di combattere, con l’esercito
turco sempre intento alla provocazione ed alla
prevaricazione militare contro i curdi dl Rojava.
Ora si tratta di ricostruire una regione
dalle macerie della guerra, la solidarietà
internazionale è l’elemento indispensabile
perché questa luce non si spenga.
Il nome Kurdistan risale alla parola
sumerica “Kur” con la quale oltre 5000
anni fa si definiva la “montagna”.
Il suffisso “ti” stava ad indicare
l’appartenenza.
La parola “Kurti” significa quindi “tribù
della montagna” o “popolo della
montagna”.
I Luvi, un popolo che viveva nell’Anatolia
occidentale circa 3000 anni fa,
chiamavano il Kurdistan “Gondwana”
che nella loro lingua significava “terra dei
villaggi”.
In curdo ancora oggi “gond” significa
“villaggio”.
Durante il dominio degli Assiri i Curdi
vennero chiamati “Nairi” che significava
“il popolo vicino al fiume”…
I sultani dei Selgiuchidi che parlavano
persiano furono i primi ad introdurre
nei loro comunicati ufficiali la parola
“Kurdistan”, la terra dei Curdi.
Anche i sultani ottomani chiamarono
Kurdistan la regione dove erano insediati
i Curdi.
Nome che venne usato comunemente
fino agli anni venti del secolo scorso.
A partire dal 1925 l’esistenza dei Curdi fu
negata, soprattutto in Turchia.
Tratto da Guerra e Pace in Kurdistan
di Abdullah Ocalan)
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Geografia del
Kurdistan
Materiali tratti da “I Curdi nella Storia”, di Mirella Galletti (Vecchio
Faggio Editore, 1990)
Il Kurdistan, “Paese dei curdi”, occupa una vasta area montagnosa di
circa 475 mila kmq. È una regione geograficamente compatta del Vicino
e Medio Oriente. Si estende tra il mar Nero, le steppe della Mesopotamia,
l’Anti-Tauro e l’altopiano iranico.
Il Kurdistan non è uno Stato. Non ha status legale. È un territorio di
“frontiera”, ai margini di quattro mondi culturali, etnici e politici da
sempre antagonisti: arabo, persiano, turco, russo. È diviso tra Turchia, Iran,
Iraq e Siria.
Il Kurdistan settentrionale comprende 18 delle 67 province (vilayet) turche:
Adiyaman, Agri, Bingól, Bitlis, Diyarbakir, Elázià, Erzincan, Erzurum,
Gaziantep, Hakkári, Kars, Malatya, Mardin, Mus, Siirt, Tunceli, Urfa, Van.
Ufficialmente viene chiamato Regione dell’Est (Dogu) o Anatolia Orientale
(Doáu Anadolu).
Il Kurdistan orientale si estende su quattro delle 24 province (ostân) iraniane:
Azerbaigian occidentale, Kermanshah, Ilam, Kurdistan. Ufficialmente solo
quest’ultima provincia viene riconosciuta curda.
Il Kurdistan meridionale comprende quattro delle 18 province (muhafadha)
irachene: Erbil, Sulaimaniya, Dehok, Kirkuk. Le prime tre province formano
la Regione autonoma curda costituita in Iraq nel 1974 e chiamata anche
Regione del Nord. Invece non sono riconosciute come curde la muhafadha
di Kirkuk, la capitale petrolifera dell’Iraq e alcune aree con popolazione a
maggioranza curda nelle muhafadha di Ninive, Dyala, Waset.
Il Kurdistan sud-occidentale congloba anche la regione curda nella
Siria settentrionale. Dal punto di vista geografico il Kurdistan siriano è
considerato un’espansione del Kurdistan turco, essendo costituito da tre
enclavi all’interno della Siria, divise da territori arabi.
Le tre aree sono: Kurd Dagh “montagna dei curdi” a nord-ovest di Aleppo;
la regione di jarablus e Kobane (Ain al-Arab in arabo, Arab-Pinar in turco) a
nord-est di Aleppo; Cezire (in arabo Giazirah – isola) tra il Tigri e l’Eufrate,
nella parte settentrionale della muhafadha siriana di al-Hasakah. Cezire
annovera la presenza più numerosa di curdi siriani. Comprende 700 villaggi
lungo 280 km di frontiera turca tra Rais al-Ain a occidente e il Kurdistan
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iracheno. È una striscia di pianura profonda mediamente una ventina
di km, ma può talora raggiungere i 60 km. Forma un becco d’anatra al
confine tra Siria, Turchia, Iraq: frontiera solcata dal Tigri. Il Kurdistan siriano
si contraddistingue per il frazionamento territoriale. Per affinità linguistiche
e culturali i curdi siriani fanno riferimento al Kurdistan settentrionale.
Nel cuore del Kurdistan settentrionale sgorgano le sorgenti dei due fiumi
biblici Tigri ed Eufrate che con gli affluenti bagnano vallate molto fertili.
Questa regione è caratterizzata da una notevole omogeneità dei sistemi
orografici ed idrografici che hanno avuto un ruolo importante per la
sedentarizzazione e distribuzione della popolazione.
I corsi d’acqua hanno andamento radiale e sono tributari attraverso il Tigri
e l’Eufrate del Golfo Arabo. I bacini interni sono spesso occupati, sia in
Turchia che in Iran, da laghi per lo più salati di estensione variabile.
Merita di essere ricordato il lago di Van, il maggiore della Turchia, che
si estende su 3764 kmq, a 1720 metri sul mare. Ha origine tettonica,
ma le acque sono trattenute pure da Coltri di lava. È privo di emissari. In
quest’area, soggetta a frequenti terremoti, prevalgono le forme vulcaniche
con aspetti grandiosi.
Il lago salato di Urmia (Rezaiyeh in persiano) delimita in parte il Kurdistan
iraniano. Si trova a un’ altitudine di 1250 m. Ha forti oscillazioni di livello
e la superficie varia da 4500 a 7000 kmq circa nelle piene primaverili. La
salinità è altissima (oltre 200 per mille) e non permette la vita ai pesci.
I rilievi periferici spesso restituiscono le precipitazioni cadute nei massicci
più elevati sotto forma di grosse sorgenti che sgorgano copiose nel Tauro
e nello Zagros, a contatto di strati impermeabili. Una riserva d’acqua è
costituita dalla coltre nevosa sui rilievi più alti.
Il problema dell’acqua è vitale e per un utilizzo razionale sono state
costruite delle dighe soprattutto sul Tigri ed Eufrate nei tre Stati interessati
(Turchia, Siria, Iraq).
Tra Van e il Golfo di Alessandretta, il Kurdistan è formato da colline e da
un altopiano con aspetti diversi: praterie, steppe, aree irrigue. Tra i 600 e
i 1000 metri si trovano Gaziantep e Diyarbakir, città protese verso Siria e
Mesopotamia. Diyarbakir sovrasta una fertile pianura dove scorre il Tigri.
È un importante centro commerciale, viario e carovaniero che da secoli
comunica con Mosul in Iraq per mezzo di kelek (zattere) che discendono
il Tigri.
Il Kurdistan turco è nel suo insieme un territorio di alte montagne. Il
grande Ararat, sul quale si arenò l’arca di Noé, oltrepassa i 5 mila metri ed
è ai confini tra Turchia, Iran e Unione Sovietica. Hezargol, “mille laghi”, è
un’ alta montagna piena di miti e misteri. Secondo una leggenda curda
ogni monte ha la sua stella, ma la montagna di Hezargol ne ha due. È
considerata la sede della felicità e il rifugio dell’amore puro.
Un’altra leggenda spiega le origini del nome. Un tempo c’era un lago che
simboleggiava la vita eterna. All’alba un vecchio pastore notò un serpente
ferito che, seguito da altri serpenti, cercava di raggiungere il lago. Si
immerse nell’acqua; quando ne usci era guarito ed aveva ottenuto la vita
eterna. Era ringiovanito ed in ottime condizioni.
Il pastore, vedendo questo miracolo, andò dal principe malato da lungo
tempo e gli riferì le proprietà delle acque. Insieme tornarono a Hezargol
dove, con grande sorpresa, invece di trovare il lago videro un migliaio di
laghi. Ogni goccia d’acqua caduta dal serpente si era trasformata in un
lago. Fu impossibile ritrovare lo specchio d’acqua originario e così l’umanità
perse l’immortalità (IV, K.A. Bedir Khan, 1949:238).
Le montagne del Kurdistan iracheno formano un gigantesco arco
appartenente al corrugamento del terziario. Scendono quasi a picco
sul bassopiano. Sono incise da gole e si presentano aride e nude per la
diffusione dei fenomeni carsici. La montagna è grigia, nuda e selvaggia,
mentre ai piedi si stendono delle fasce steppose, dove la coltura è possibile
senza bisogno di irrigazione. Sono frequenti valli e conche interne, come
quelle di Rawanduz e Sulaimaniya.
L’erosione superficiale dà luogo a un paesaggio desolato, simile ai calanchi
dell’Appennino, da cui emergono spuntoni di roccia. Nelle zone montuose
quando affiorano rocce utilizzabili, la casa è costruita in pietra. Per esempio
intorno al lago di Vari si usa la lava.
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Breve storia della
resistenza curda
a/c Alternativa Libertaria
Oggi la “Questione Curda” guadagna nuovamente spazio nelle
discussioni politiche internazionali, il “Caos Sistemico” a cui è sottoposto
il Medio Oriente, frutto come sempre della disputa imperialista, ha
portato in primo piano, per molte delle potenze coinvolte nel conflitto
armato vistosamente controvoglia, la condizione dei curdi.
Per individuare le caratteristiche del conflitto che vede la partecipazione
de curdi nel conflitto armato contro il nascente ed autoproclamato
Califfato Islamico del Levante (ISIS), dovremo fare un salto indietro,
almeno al trattato di Sevres (Francia) dove il 10 agosto 1920 si definivano,
tra le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale e lo sconfitto Impero
Ottomano, le nuove aree di influenza economica e militare secondo le
più classiche tendenze dell’imperialismo colonialista.
Nel corso delle trattative si discusse della possibilità della nascita di uno
Stato Curdo, le dinamiche contraddittorie della spartizione dell’area che
avevano di fatto già imposto lo smembramento del Kurdistan, lasciando
la maggioranza della popolazione rinchiusa nei confini della nuova
Turchia con l’isolamento politico e militare delle popolazioni curde che si
trovavano a vivere in Iran, nell’Iraq colonia inglese e nella Siria francese.
Infatti il trattato di Sevres rimandava ad un futuro prossimo la possibilità
dei curdi di realizzare la loro nazione, e da questo punto fino al trattato
di Losanna di alcuni anni dopo si coltivò da parte curda l’illusione
dell’autonomia nazionale dopo lo sfacelo dell’impero ottomano.
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Alcuni eventi legati alla nascita del movimento nazionalista Turco di Kemal
Pasha rimisero in discussione le linee guida delle trattative di Sevres, fino
a giungere nel 1923 al trattato di Losanna, che sanciva la divisione del
Kurdistan così come la conosciamo oggi, inglobando la maggior parte
del territorio curdo nei confini della rinata Turchia nazionalista.
I trattati che sancivano la spartizione di quello che fu l’Impero Ottomano
non affrontarono mai la questione della rinascita nazionalista turca, che
dal 1915, all’inizio del 1° conflitto mondiale mise in atto lo sterminio del
popolo Armeno, quasi due milioni di Armeni vennero uccisi e fatti morire
di fame, atroci violenze spinsero i sopravvissuti a rifugiarsi nella attuale
Armenia entro i confini della ex Unione Sovietica.
Tra le molte contraddizioni che segnarono l’olocausto degli Armeni
bisogna segnalare la partecipazione di bande e di militari curdi che si
unirono alle operazioni di sterminio e di saccheggio.
Migliaia di armeni vennero arruolati, molti volontariamente, nell’esercito
turco che combatteva contro la Russia dello Zar e la pianificazione del
loro sterminio avvenne proprio nel 1915, in piena guerra mondiale,
quando l’esercito turco cercò di attuare il massacro degli armeni già sul
fronte di guerra.
L’esercito turco iniziò una campagna di diffamazione contro gli armeni
che vennero accusati di connivenza con il nemico russo, iniziarono i
saccheggi dei loro villaggi da parte sia delle forze dell’esercito turco che
di bande di predoni curdi.
I militari armeni che tornavano dal fronte venivano sistematicamente
uccisi; nella sola Diyarbakir migliaia di soldati armeni vennero
selvaggiamente assassinati da reparti misti turco-curdi... un’altra pagina
di storia triste ed agghiacciante che vide anche le bande curde partecipi
del primo grande massacro del secolo scorso.
Negli anni che seguirono gli accordi di Losanna i curdi tentarono in
più occasioni la strada della lotta e della rivolta armata. Nella Turchia
di Mustafà Kemal (Ataturk) il diffondersi del “Kemalismo” come nuova
ideologia di un regime autoritario e laico di stampo fascista aveva come
obiettivo la laicizzazione della Turchia sul modello occidentale contro
i tentativi di rinascita di un Islam politico e concentrando nelle mani
dell’esercito il potere reale del nuovo Stato Turco.
La repressione delle attività e delle aspirazioni nazionali dei curdi
segnarono profondamente, nei decenni a venire e fino ai nostri giorni, la
politica dello Stato turco.
Violenze, saccheggi, tentativi di disgregazione delle comunità, divieto
ad usare e ad insegnare la propria lingua, un violento processo di
“turchizzazione” militare, economico e politico non hanno spento le
speranze del popolo curdo, che tra mille contraddizioni è sopravvissuto
e mostra ancora oggi una capacità di elaborazione strategica in grado di
sfidare il gigante turco.
Nella guerra tra Iraq e Iran del 1980-1988, più di un milione di curdi
irakeni si rifugiarono in Iran e la divisione tra i curdi di Talabani e di
Barzani furono utilizzate abilmente dai paesi in conflitto.
In Iraq la prospettiva dell’indipendentismo curdo ha avuto degli importanti
risvolti politici e militari.
Quella irachena è la seconda comunità curda dopo quella turca per
numero di abitanti, le proprie vicende sono state contraddistinte negli
ultimi decenni dalla presenza organizzata del Partito democratico del
Kurdistan di Barzani e della Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal
Talabani (Presidente dell’Iraq dal 2004 al 2014).
Dopo il massacro di Dersim tra il 1937-38, quando l’esercito turco
distrusse decine di villaggi provocando la morte di migliaia di uomini e di
donne e imprigionando centinaia di curdi, molti dei quali furono costretti
a lasciare il territorio vi fu, nei decenni successivi, un susseguirsi di rivolte
armate in tutto il Kurdistan.
Tra il 1994 ed il 1997 le due fazioni si combatterono ferocemente.
L’invasione e la distruzione dell’Iraq di Saddam Hussein era già iniziata
con l’intervento USA, la lotta tra curdi per la gestione delle ingenti risorse
petrolifere fu cruenta; Barzani chiese l’aiuto di Saddam Hussein nella
guerra contro Jalal Talebani, quello che solo alcuni anni prima aveva
bombardato i villaggi curdi con gas asfissianti provocandone migliaia di
morti.
La repressione turca è stata particolarmente violenta quando i militari
hanno preso potere, durante i golpe del 1960, del 1971 ed in particolare
del 1980, quando la repressione alla resistenza curda, organizzata dal
PKK di Abdullah Ocalan, si scatenò con una violenza devastante sulle
comunità curde.
Nel 1992 un accordo tra la Turchia e il governo del Kurdistan irakeno
permise alle forze armate turche di compiere azioni militari contro il
PKK che aveva insediato basi della guerriglia nei territori del Kurdistan
iracheno e anche in questo caso si arrivò ad un conflitto interno alle forze
della resistenza curda.
Rivolte curde vi furono anche in Iran. Nel 1946 fu fondata, dal Partito
democratico curdo di Mustafa Barzani (padre dell’attuale presidente del
Kurdistan irakeno), l’effimera repubblica di Mahabad.
Fu il primo tentativo di costruzione di un Kurdistan indipendente e
nasceva nello scenario della nuova spartizione del mondo dopo Yalta,
con l’appoggio iniziale dell’Unione Sovietica e dell’Iraq.
La repubblica venne schiacciata dalle truppe di Teheran e Barzani ed il
suo gruppo di peshmerga rientrarono in Iraq.
In Siria i curdi abitano le regioni nord orientali, lungo il confine turco,
luogo di rifugio delle popolazioni curde sottoposte alla repressione turca.
È in queste regioni che si sviluppa e si articola il nuovo corso della
resistenza curda; a Kobane e nel Rojava sembra infatti sia iniziata una
nuova storia.
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La resistenza di
Kobane
di Gino Caraffi, Alternativa Libertaria
Nella guerra civile che insanguina la Siria, le tre regioni curde del nord est
hanno trovato un accordo con il governo di Damasco e dal 2012 le Unità
di Protezione del Popolo hanno combattuto a fianco della 104^ Brigata
leale a Basher al Assad.
L’autonomia della Rojava nasce dalla vittoria militare delle milizie delle
YPG/YPJ contro le forze fondamentaliste di Al-Nusra e contro l’Esercito
Libero di Siria nella battaglia di Ras Al-Ayn (Serêkanî in curdo).
Da una parte abbiamo le formazioni curde dell’YPG con le combattenti del
YPJ e dall’altra le forze islamiste di Al-Nusra, nate nel gennaio 2012 nel bel
mezzo della guerra civile siriana finanziata dai paesi del Golfo con l’intento
di creare un emirato islamico in Siria. Queste forze islamiste sono affiliate
alla rete di Al Quada in Siria ed in Libano e sono ora considerate da molti
paesi una organizzazione terrorista.
L’esercito libero di Siria (acronimo FSA in inglese) è invece la milizia anti
Assad che ha ricevuto i maggiori aiuti internazionali, in armi e danaro, dai
paesi occidentali nella loro operazione di destabilizzazione siriana. Anche
la Turchia non ha mai fatto mancare il proprio aiuto a questo esercito
“sunnita moderato”. Il FSA ha almeno il 15% di curdi combattenti nonché
drusi ed alawiti tra le sue fila.
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Questa lunga battaglia ha avuto tre fasi: la prima dall’8 novembre al 17
dicembre 2012, la seconda dal 17 gennaio al 19 Febbraio 2013 e la terza e
ultima fase tra il 16 e il 17 luglio 2013. Alla fine, è stato firmato un accordo
di cessate il fuoco con l’Esercito Libero di Siria (acronimo FSA in inglese) ed
è stata riconosciuta la sovranità curda dalla principale forza di opposizione
al clan di Assad, appunto l’Esercito Libero di Siria.
Questo per il semplice motivo che le operazioni dirette dalla Turchia e
dai suoi alleati sullo scacchiere siriano, non prevedevano nessun tipo di
autonomia ai curdi e i finanziamenti ed il sostegno dato all’ISIS da Turchia,
Arabia Saudita, USA e Gran Bretagna avrebbero garantito la continuità
nella repressione delle popolazioni curde sul territorio siriano. Va anche
ricordato che diversi curdi, in altre città della Siria, si sono arruolati
nell’esercito islamico.
In questo contesto dopo l’attacco dell’ISIS a Kobane anche il Governo
Regionale Kurdo dell’Iraq ha inviato i suoi peshmerga in aiuto della
resistenza di Kobane, fino ad allora osteggiata.
Nel settembre del 2014 inizia l’assedio di Kobane da parte dell’ISIS, miglia
di persone si riversano in Turchia per fuggire dalla guerra, quello che segue
è uno dei primi report sulla resistenza di Kobane scritto dagli attivisti
anarchici turchi del DAF, impegnati a permettere il passaggio in Turchia dei
curdi in fuga dalla guerra:
“4 ottobre: ultime da Kobane
Lo Stato turco, che si sta preparando ad intervenire per evitare il pericolo
ISIS, è al tempo stesso infingardo verso l’offensiva portata dai sostenitori
di ISIS attraverso i confini turchi, dimostrando così l’ipocrisia della politica
di Istanbul.
...
Dal momento che il governo di Urfa ha chiuso il confine verso Suruc,
i nostri compagni si sono uniti agli altri attivisti del DAF attraverso altri
percorsi andando a rafforzare lo scudo umano. Al tempo stesso l’esercito
turco ha aumentato i bombardamenti sulla gente di Kobane che cerca di
entrare in Turchia dal confine di Müsritpınar.
Dopo avere respinto l’ISIS dalle colline a 500 metri dal confine, nei giorni
seguenti le YPG si sono ritirate dal fronte occidentale. Questa ritirata
strategica è una mossa efficace nei confronti degli armamenti pesanti
dell’ISIS. Gli scontri sono aumentati nel corso della notte.
Un appello a “fermare la città” è stato raccolto nella città di Amed in
solidarietà con la resistenza a Kobane, con la chiusura di negozi e scuole in
Amed e nel resto del Kurdistan.
La vigilanza lungo il confine è sempre più importante dato che l’ISIS sta
ricevendo in questi giorni altri rifornimenti proprio attraverso la frontiera
turca. Dai compagni veniamo a sapere che gli abitanti di Kobane sono
vittime di persecuzioni nei pressi del confine a Yumurtalik. Molti i malati ed
i feriti. Bambini senza cibo ed acqua. Molti feriti aspettano per ore senza
nessuna assistenza e vengono portati a Suruc sul rimorchio dei camion.
I soliti sciacalli cercano di vendere cibo agli abitanti di Kobane a prezzi
maggiorati. Il gruppo di scudo umano cerca di intervenire contro questi
opportunisti. L’ISIS ha intensificato i bombardamenti sui villaggi ad 1-2 km
da Kobane ed insiste a ovest della città.
Il fuoco di sbarramento dell’esercito turco delle prime ore del 3 ottobre è
alquanto significativo considerando che i piani militari prevedevano sinora
la protezione del mausoleo di Solimano ed i presidi militari. La Turchia che
ha lasciato per mesi che l’ISIS si rifornisse attraverso i suoi confini sta ora
puntando ad altri vantaggi strategici mascherati da aiuti.
La polizia militare turca minaccia lo scudo umano di cui fanno parte i nostri
compagni e continua gli attacchi destinati a far evacuare la città.
Lo Stato turco che si sta preparando ad intervenire per evitare il pericolo
ISIS è al tempo stesso infingardo verso l’offensiva portata dai sostenitori
di ISIS attraverso i confini turchi, dimostrando così l’ipocrisia della politica
di Istanbul.
Come anarchici rivoluzionari, in questi giorni in cui vediamo la lotta del
popolo di Kobane lotta per la libertà come nostra lotta per la libertà,
stiamo diffondendo i principi della Azadî/Libertà in tutta l’area. Non
permetteremo a nessuno stato, a nessun capitalista ed a nessuna gang di
assassini di nuocere al popolo di Kobane.
Le donne compagne anarchiche (Organizzazione della Donne Anarchiche)
sono sulla strada per diffondere la solidarietà rivoluzionaria dicendo: “tutte
a Kobane per la distruzione dei confini e per la costruzione della libertà!”.
Lunga vita alla resistenza di Kobane!
Lunga vita alla rivoluzione in Rojava”
134 giorni di assedio. La resistenza di Kobane è divenuta patrimonio
di tutti, la solidarietà internazionale si è estesa, fino a proclamare per il
1^novembre 2014 una giornata internazionale per Kobane ed il Kurdistan;
tra i promotori dell’appello Noam Chomsky, Desmond Tutu e Perez Esquivel.
La lotta dei curdi ha ripreso il cammino e il nuovo approccio politico
scaturito dalla nuova elaborazione teorica del PKK e di Abdullah Ocal ha
trovato nei cantoni curdi della Siria del nord il proprio banco di prova.
La lotta armata nella resistenza contro l’avanzata del fascismo islamico
ha ridato dignità a quelle popolazioni, gli ha permesso di diventare un
riferimento importante per tutta l’area medio orientale; il ruolo delle
donne, il riemergere di rivendicazioni di genere in una società fortemente
caratterizzata da forme di maschilismo e nutrita nei secoli dall’equivoco
patriarcale è stato possibile grazie alle nuove teorie scaturite dall’isola
di Imrali, l’isola-prigione dove Öcalan, il leader del Partito dei lavoratori
del Kurdistan (Pkk), ha elaborato le nuove teorie “libertarie” che stanno
dando una importante svolta politica e culturale alla resistenza curda e
quindi alla storia dell’intera area.
Una storia che ha visto, nel corso dei decenni precedenti, le popolazioni
curde come vittime sacrificali nella definizione degli equilibri imperialisti
dell’area, di volta in volta complici e vittime di disegni egemonici altrui, di
tentativi armati e rivoluzionari soffocati nel sangue, accompagnati anche
da forti contraddizioni.
Tentativi armati che ricevettero nuovi impulsi con la creazione del PKK
(fondato nel 1978 dopo il golpe militare fascista del 1971), che fondava la
sua base progettuale su un approccio socialista e indipendentista.
11
12
Le operazioni della guerriglia si intensificano in particolare a partire
dal 1984 e gli scontri armati tra PKK ed esercito turco producono circa
40.000 morti...
Ma siamo al tramonto delle contraddizioni politiche del mondo bipolare,
l’Urss di li a poco cesserà di esistere.
Se da una parte la repressione condotta dall’esercito turco in Kurdistan
si macchierà di saccheggi e violenze inaudite a carico della popolazione
civile, dall’altra le azioni del PKK vennero spesso osteggiate e denunciate
dalla sinistra turca antinazionalista.
È da questa premessa e da questa sconfitta che inizia la nova
elaborazione teorica e strategica di Abdullah Ocalan (APO), una
elaborazione contraddistinta da una feroce autocritica rivolta al ruolo
del PKK dei decenni precedenti, dall’abbandono della lettura “coloniale”
dell’oppressione dei curdi e, più gramscianamente, dalla riscoperta
dell’analisi sociale, approfondita e coraggiosa, della e sulla società curda,
sul ruolo nefasto della religione, sulle divisioni claniche che perdurano ed
impediscono un nuovo e più democratico assetto sociale ed economico,
sulla lotta per l’egemonia del partito riconosciuta come deleteria al
progredire di pratiche democratiche ed inclusive, sulla negazione dello
Stato Nazione in quanto strumento di oppressione e di perpetuazione
del privilegio.
I temi affrontati ci riportano alle elaborazioni libertarie di Murray
Bookchin, il ruolo delle comunità di base, del municipalismo libertario
come spazio vitale sociale e politico, la pratica democratica come
antidoto alla prevaricazione, la donna in un ruolo da protagonista nella
sua vita sociale in una feroce critica della società patriarcale.
Questi elementi e queste teorie, che verranno amalgamate nel nuovo
processo politico del Confederalismo Democratico, come dicevamo,
ridanno una nuova capacità di lotta al popolo curdo.
Nessuna forma di spontaneismo ha generato questo processo, che si è
dipanato ed ha trovato nel battesimo del fuoco di Kobane e di Rojava la
sua prima sperimentazione pratica.
Due sono le organizzazioni politiche curde con i loro bracci militari che
stanno consentendo di mettere in pratica le nuove teorie elaborate
da Ocalan, il PKK e le Unità di Protezione del Popolo curdo (YPG/YPJ),
espressione delle forze militari e popolari presenti sul campo.
Le YPG/YPJ, l’organizzazione politica e militare che gestisce i tre cantoni
di Rojava che hanno conquistato la loro autonomia con la ribellione del
2012; il Partito di Unità Democratica (PYD), fondato nel 2003 frutto di
nuove alleanze politiche e sociali multi religiose e inserito a pieno nel
nuovo corso e nel nuovo orientamento strategico del PKK.
Nella dichiarazione dell’11° Congresso, tenutosi tra il 5 e il 13 settembre
2014, con la partecipazione di 125 delegati provenienti dalle quattro
regioni del Kurdistan e dall’estero, le elaborazioni espresse dal
Confederalismo Democratico sono state approvate come linea centrale
dell’organizzazione.
Il PKK ha di fatto influenza diretta sugli avvenimenti, la leadership di
Ocalan non è in discussione, così come è riconosciuto il ruolo “egemone”
del PDY e delle milizie YPG/YPJ sul territorio.
Oggi, che la resistenza all’avanzata dell’Isis ha vinto, dobbiamo aprire
canali per la cooperazione e per la ricostruzione di Kobane e delle zone
distrutte dalla guerra. Le campagne per la raccolta fondi sono iniziate
in mote parti del mondo e se vogliamo che questa esperienza possa
sedimentare speranze e modificare l’esistente, dovremo contribuire alla
ricostruzione.
Qualcuno ha visto nella lotta armata di Kobane una nuova Stalingrado,
moti anarchici una nuova Barcellona nel suo momento rivoluzionario;
qualcuno ha assimilato quanto avvenuto nel nord della Siria alla rivolta
del Chiapas.
Il richiamo simbolico ha il suo fascino, crediamo che comunque vada, la
lotta dei curdi sia da sostenere, la grande rivoluzione di Kobane è di aver
affermato principi di laicità, confederali, socialisti ed anticapitalisti, per
questo la battaglia per il Kurdistan e per la libertà di Abdullah Ocalan
deve continuare.
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Teoria e gineologia
di Arin Mirkam (Pseudonimo collettivo di militanti del collettivo
“Solidarietà donne” di Kobane. Un omaggio a Arin Miriam, combattente
JPG uccisa a Kobane il 5 ottobre 2014)
Tratto dal numero di marzo 2015 di “Alternative Libertaire”
www.alternativelibertaire.org
Il movimento femminile curdo vuole ovviamente distruggere il patriarcato
e riferirsi alle esperienze del movimento femminista, ma si sforza anche
di costruire una teoria originale adatta al contesto del kurdistan.
La teoria curda di liberazione delle donne ha un nome: teoria della
rottura. I suoi principi essenziali sono: agire indipendentemente dagli
uomini, contare sulle proprie forze, sviluppare la propria coscienza di
genere, creare organizzazioni delle donne. La liberazione femminile è
considerata il fondamento della lotta per la democrazia, la condizione si
ne qua non per l’uscita del capitalismo.
L’armarsi delle donne è giustificato in primo luogo dalla legittima
difesa contro il sistema di dominio maschile. In effetti la teoria della
rottura comprende anche un progetto d’azione delle donne per la
trasformazione dell’uomo. Questo significa lottare contro il maschilismo
nelle organizzazioni miste e non lasciare agli uomini altra scelta che il
cambiamento.
Jin vuol dire donna in kurdo, e la ginealogia è la scienza delle donne.
Vuole innalzare la coscienza di genere nelle donne mettendo al centro
le loro esperienze, senza sovvenzioni dallo Stato e appoggiandosi
unicamente alle proprie forze. La ginealogia vuole far convergere
l’esperienza delle donne del mondo piuttosto che accettare la teoria
femminile occidentalmente centrata e subire le ricerche androcentriche
statali e universitarie.
L’egemonia maschile in campo scientifico ha troppo spesso condotto
a trovare degli alibi pseudo scientifici che giustifichino la posizione di
secondo sesso accordata alle donne. Ai nostri giorni l’università è uno
dei principali rappresentanti del patriarcato. Bisogna rimettere in gioco
le verità stabilite e privilegiare le ricerche e la scrittura della storia fatta
dalle donne per loro stesse. In questo campo esiste un autentico bisogno
di autodifesa. È per questo motivo che sono state istituite le Accademie
delle Donne che portano avanti le loro ricerche in tutte le direzioni
compresa la critica alle nozioni estetiche e di bellezza costruite a spese
della donne.
14
Primo maggio 2015
Amministrazione del Cantone di Kobane
30 aprile 2015
Lavoratrici e lavoratori,
associazioni, sindacati!
compagne
e
compagni!
Organizzazioni,
Un affettuoso saluto dalle lavoratrici e dai lavoratori del Cantone di Kobane,
il cantone della rivoluzione, della resistenza e dei martiri, in occasione del
1 maggio, la giornata che ricorda la lotta e la resistenza delle lavoratrici
e dei lavoratori contro la tirannia e l’oppressione, lo sfruttamento del
capitalismo!
La rivoluzione del Rojava è stata uno storico punto di partenza per la lotta
delle lavoratrici e dei lavoratori e dei popoli oppressi nel Medio Oriente e in
tutto il mondo, per riappropriarsi della propria autorità politica; e è stata la
rivoluzione delle donne, dei giovani, delle lavoratrici e dei lavoratori che ha
costruito un nuovo sistema basato sul trasferimento del potere al popolo
che ne è il vero proprietario. La nostra resistenza contro i terroristi di ISIS e
i loro sostenitori a livello internazionale non è solo per proteggere la vita e
dignità umana, ma è anche la resistenza per difendere le conquiste della
rivoluzione e del sistema di autogoverno che è basato sulla democrazia
radicale e sull’eliminazione delle organizzazioni gerarchiche.
Ora, grazie alle eroiche battaglie dei nostri compagni e delle nostre
compagne nelle “Unità di Difesa del Popolo” (YPG) e “Unità di Difesa
delle Donne” (YPJ), i terroristi sono stati scacciati dalla città, ma gli attacchi
contro i sobborghi e il blocco delle strade del cantone stanno ancora
continuando. La nostra resistenza è entrata in una fase nuova più difficile,
la fase del ripristino della vita sociale a Kobane, sotto attacco e assedio
economico e logistico, in una situazione in cui oltre l’80% delle strutture e
delle infrastrutture vitali della città sono state distrutte.
La storia della lotta di classe mostra che l’unione delle lavoratrici e dei
lavoratori non ha confini geografici, così come intendiamo la nostra
resistenza contro il terrorismo selvaggio e i suoi sponsor internazionali
come la resistenza che rappresenta tutti popoli del mondo. Crediamo che
la rivoluzione come rottura dei fondamenti del dominio e fondazione di
un nuovo mondo, richieda pratica e una lotta dura. Allo stesso modo la
solidarietà internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori è la necessità
storica e un terreno di azione concreto per difendere le conquiste di
classe e per lottare fianco a fianco contro il dominio e l’oppressione del
capitalismo.
Noi, lavoratrici e lavoratori e associazioni del Cantone di Kobane, nel
ricordare le lotte di liberazione e ugualitarie delle lavoratrici e dei lavoratori
e dei popoli oppressi in tutto il mondo e apprezzando il vostro sostegno e
la vostra solidarietà con la nostra resistenza contro gli attacchi terroristici,
invitiamo le nostre compagne lavoratrici e i nostri compagni lavoratori,
associazioni, sindacati e tutti i libertari a partecipare alla solidarietà concreta
con la rivoluzione e la resistenza di Kobane e vi invitiamo a unirvi a noi in
questa situazione storica per proteggere le conquiste della rivoluzione!
Viva le lotte di liberazione dei popoli di tutto il mondo!
Viva l’unione delle lavoratrici e dei lavoratori di tutto il mondo!
15
Ma questa è una vera
rivoluzione
Intervista a David Graeber, a cura di Pinar Ogunc (Arivista anarchica,
marzo 2015)
Dopo un viaggio in Rojava, David Graeber ritorna sull’importanza della
lotta – e soprattutto delle sue modalità libertarie – in quella regione
martoriata dalla guerra. E in quest’intervista a un quotidiano turco
evidenzia il ruolo delle donne.
Questa intervista è stata pubblicata dal quotidiano Evrensel in turco.
Traduzione di Francesco D’Alessandro
zcomm.org/znetarticle/no-this-is-a-genuine-revolution
David Graeber è professore di antropologia alla London School of
Economics, è un attivista anarchico. Lo scorso ottobre scrisse un articolo
per il quotidiano inglese The Guardian, la prima settimana dell’attacco di
ISIS a Kobane (Siria del nord) e si chiese perché il mondo continuasse a
ignorare i curdi siriani rivoluzionari.
Rifacendosi a suo padre che aveva partecipato come volontario nelle
Brigate Internazionali nella difesa della Repubblica Spagnola nel 1937,
egli chiese: “se oggi esiste un parallelo tra gli assassini falangisti, devoti
superficiali di Franco, chi potrebbe essere se non ISIS? Se esistesse un
parallelo con le Mujeres Libres in Spagna, chi potrebbe essere se non le
coraggiose donne che difendono le barricate a Kobane?”.
Questo mondo – e questa volta la più scandalosa di tutte, la sinistra
internazionale – si renderà complice nel lasciare che la storia si ripeta
ancora una volta?”.
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Secondo Graeber, la regione autonoma di Rojava dichiarata con un
“contratto sociale” nel 2011 come tre cantoni anti-stato e anti-capitalisti,
costituisce un esperimento democratico importantissimo della nostra era.
Agli inizi dello scorso dicembre, con un gruppo di otto persone, studenti,
attivisti, accademici provenienti da paesi diversi dell’Europa e degli USA,
Graeber passò dieci giorni a Cizire – uno dei tre cantoni di Rojava. Egli
ebbe la possibilità di osservare in pratica la “autonomia democratica” sul
luogo e di fare dozzine di domande. Adesso ci dice le sue impressioni
su questo viaggio con domande e risposte ancora più grandi sul perché
questo “esperimento” dei curdi siriani sia ignorato dal mondo intero.
Pinar Ogunc - Nel tuo articolo per il Guardian ti chiedevi perché il mondo
intero stesse ignorando “l’esperimento di democrazia” dei curdi siriani.
Dopo averla vissuta per dieci giorni, hai qualche nuova domanda o, forse,
una risposta alla domanda precedente?
David Graeber - Allora, se qualcuno avesse in testa qualche dubbio
sulla veridicità di questa rivoluzione, io gli direi che la mia visita ha
completamente chiuso la questione.
C’è ancora gente che si esprime in questi termini: questa è di nuovo
una parata del PKK (il partito dei lavoratori curdi); essi sono in realtà
un’organizzazione stalinista autoritaria che pretende di aver adottato la
democrazia radicale.
No. Sono assolutamente veri. Questa è una rivoluzione vera e genuina.
Ma, in un certo qual modo quello è esattamente il problema. I poteri
maggioritari hanno accettato un’ideologia che dice che vere rivoluzioni
non possono più avvenire.
Allo stesso tempo, molti a sinistra, anche nella sinistra radicale, sembrano
aver tacitamente adottato una politica che assume lo stesso concetto,
anche se essi fanno ancora qualche rumore rivoluzionario superficiale una
volta ogni tanto.
Essi dipingono un quadro, quasi puritano, che assume che i giocatori
importanti siano i governi e i capitalisti e quella è l’unica partita di cui
valga la pena parlare. La partita dove si fa la guerra, si creano villani mitici,
si sequestra il petrolio e altre risorse.
Noi non vogliamo giocare a quel gioco. Vogliamo creare un nuovo gioco.
Un sacco di gente trova questo discorso confuso e inquietante e così sceglie
di credere che non stia succedendo nella realtà, o che queste persone
siano illuse, disoneste o ingenue.
Pinar Ogunc - Dallo scorso ottobre abbiamo assistito a una solidarietà in
aumento da parte di movimenti politici diversi da tutto il mondo.
C’è stata un’enorme copertura giornalistica veramente entusiasta della
resistenza di Kobane da parte dei mass media importanti del mondo.
L’atteggiamento politico riguardante Rojava è cambiato in Occidente, in
qualche modo. Sono tutti segnali importanti ma pensi che l’autonomia
democratica e ciò che si sta sperimentando nei cantoni a Rojava vengano
discussi abbastanza?
Quanto è importante la percezione generale di “alcune persone coraggiose
che combattono contro il male dei nostri tempi, ISIS” nel guidare questo
supporto e il fascino generale?
David Graeber - Io trovo incredibile come quanta gente in Occidente
veda queste femministe armate, per esempio, e non pensi neanche alle
idee che ci devono essere dietro a esse. Pensano solo che stia succedendo
in qualche modo. “Credo possa essere una tradizione curda”. In qualche
misura si tratta di orientalismo, per forza, oppure semplicemente di
razzismo.
Non gli succede mai di pensare che la gente del Kurdistan magari sta anche
leggendo Judith Butler. Nell’ipotesi migliore essi pensano “oh, stanno
tentando di ottenere degli standard di democrazia di tipo occidentale e di
diritti delle donne. Mi chiedo se tutto ciò sia reale o solo per il consumo
estero”.
Non gli viene da pensare che questa gente stia portando queste cose
molto oltre quanto gli “standard occidentali” abbiano mai fatto; che
essi possano credere veramente in quei principi che gli stati occidentali
professano solo a parole.
Pinar Ogunc - Tu hai menzionato l’approccio della sinistra verso Rojava.
Come è stato ricevuto dalla comunità anarchica internazionale?
David Graeber - La reazione delle comunità anarchiche internazionali è
stata decisamente confusa. Lo trovo decisamente difficile da capire.
C’è un gruppo sostanziale di anarchici – di solito gli elementi più settari
– che insistono che il PKK sia ancora un gruppo “stalinista” autoritario e
nazionalista che ha adottato Bookchin e altre idee della sinistra libertaria
per corteggiare la sinistra anti-autoritaria in Europa e in America.
Sono sempre stato colpito dal fatto che questa è una delle idee più stupide
e narcisistiche che io abbia mai sentito.
Anche se le premesse fossero corrette, e un gruppo marxista-leninista
decidesse di fingere di avere un’ideologia per ottenere supporto straniero,
perché mai essi sceglierebbero proprio le idee anarchiche sviluppate da
Murray Bookchin?
Sarebbe il bluff più stupido mai fatto. Ovviamente essi fingerebbero
di essere islamisti o liberali perché quelle sono le organizzazioni che
ottengono le armi e il materiale di supporto.
Ad ogni modo, io penso che un sacco di gente nella sinistra internazionale,
e la sinistra anarchica inclusa, praticamente non vogliano vincere. Non
riescono ad immaginare che una rivoluzione possa realmente accadere
e, segretamente, non la vogliono nemmeno, perché significherebbe
il dover condividere il loro club alla moda con gente ordinaria; essi non
sarebbero più gente speciale. Così, in questo modo è meglio separare i veri
rivoluzionari da quelli che si “sparano solo le pose”.
Ma i veri rivoluzionari sono rimasti compatti.
Pinar Ogunc - Che cosa ti ha impressionato di più a Rojava in termini della
pratica dell’autonomia democratica?
David Graeber - C’erano molte cose interessanti. Non credo di aver mai
sentito, in qualsiasi altra parte del mondo, di una situazione di potere
duale dove le stesse forze politiche creano tutte e due le sponde. C’è la
“auto-amministrazione democratica”, che mantiene tutte le forme e le
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trappole di uno stato-parlamento-ministeri, e così via ma che fu creato per
essere specificamente separato dai mezzi del potere coercitivo.
In più c’è il TEV-DEM (Il Movimento della Società Democratica), istituzioni
democratiche guidate dal basso verso l’alto. Infine – e questa è la chiave
– le forze di sicurezza rispondono alle strutture di base e non a quelle
dall’alto in basso.
Uno dei primi posti che abbiamo visitato è stata l’accademia di polizia
(Asayis). Tutti dovevano seguire un corso di risoluzione non violenta dei
conflitti e di teoria femminista prima di essere autorizzati a toccare un
fucile. I co-direttori hanno spiegato che il loro fine ultimo sarebbe di dare
a tutta la popolazione la possibilità di seguire un corso di addestramento
in tecniche poliziesche di sei settimane, in modo da eliminare la polizia
completamente.
Pinar Ogunc - Come rispondi alle critiche diverse riguardanti Rojava? Per
esempio: “i curdi non avrebbero potuto fare questo in tempi di pace. È
grazie allo stato di guerra...”
David Graeber - Credo che molti movimenti, di fronte a terribili condizioni
di guerra, non abolirebbero, nonostante tutto, immediatamente la pena
capitale, non scioglierebbero la polizia segreta e non democratizzerebbero
l’esercito. Le unità militari, per esempio, eleggono i loro ufficiali.
Pinar Ogunc - E c’è pure un’altra critica, che è abbastanza favorita nei
circoli che sono a favore del governo qui in Turchia: “Il modello che i curdi
– nella linea del PKK e del PYD (Il Partito Curdo di Unione Democratica) –
stanno tentando di mettere in pratica non è veramente accettato da tutti i
popoli che vivono in Kurdistan. Quella multi-struttura è solo sulla superficie
come un simbolo”.
David Graeber - Beh, il Presidente del cantone di Cizire infatti è un arabo,
capo di una delle più grosse tribù locali. Si potrebbe argomentare che
questi sia solo una figura di facciata. In un certo senso l’intero governo
lo è.
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Ma anche se si guarda alle strutture costruite dalla base in su, si nota che
di sicuro non sono solo i curdi che stanno partecipando.
Mi è stato detto che l’unico problema reale è costituito da alcuni
insediamenti nella “cintura araba”, gente che fu portata in quell’area dal
partito Ba’ath negli anni ‘50 e ‘60 da altre parti della Siria come parte di
una politica intenzionale di marginalizzazione e assimilazione dei curdi.
Alcune di quelle comunità sono piuttosto ostili alla rivoluzione.
Ma gli arabi le cui famiglie hanno vissuto in Kurdistan per generazioni, o
gli assiri, i kirghizi, gli armeni e i ceceni sono molto entusiasti. Gli assiri che
abbiamo menzionato dicono che, dopo una lunga e difficile relazione con
il regime, finalmente sentono garantiti i loro diritti all’autonomia culturale
e religiosa.
Probabilmente il problema più difficile potrebbe essere costituito dalla
liberazione delle donne. Il PYD e il TEV-DEM concepiscono questa
questione come assolutamente centrale alla loro idea di rivoluzione, ma
essi si trovano anche a dover affrontare il problema di avere a che fare con
larghe alleanze con comunità arabe che pensano che questo viola i loro
principi religiosi di base.
Per esempio, mentre coloro che parlano siriano hanno le loro proprie
organizzazioni delle donne, gli arabi non le hanno, e le ragazze arabe
interessate ad organizzarsi intorno a questioni di genere o anche nel
seguire seminari femministi devono mettersi in coda alle donne assire o
anche a quelle curde. [...]
Pinar Ogunc - Sebbene l’autonomia democratica non sembra essere
chiaramente sul tavolo dei negoziati in Turchia, il Movimento Politico
Curdo tuttavia ci sta lavorando da parecchio, specialmente a livello sociale.
Essi cercano di trovare soluzioni in termini legali ed economici per possibili
modelli.
Quando si mette a confronto, diciamo, la struttura di classe e il livello
del capitalismo nel Kurdistan Occidentale (Rojava) e nel Nord Kurdistan
(Turchia), che cosa pensi delle differenze di questi due processi per una
società anti-capitalista o per un capitalismo minimizzato, come essi lo
descrivono?
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David Graeber - Io credo che la lotta dei curdi sia esplicitamente anticapitalista in tutte e due le nazioni. È il loro punto di partenza. Sono stati
capaci di arrivare a un tipo di formula: non si può eliminare il capitalismo
senza eliminare lo stato, non si può eliminare lo stato senza liberarsi del
patriarcato.
Tuttavia, per la popolazione di Rojava è abbastanza facile in termini di classe
perché la borghesia reale, come era in una regione essenzialmente agricola,
scappò con il collasso del regime del partito Ba’ath. Essi si troveranno di
fronte a un problema che durerà a lungo se non svilupperanno il loro
sistema educativo per evitare che lo strato tecnocratico dedito solo allo
sviluppo eventualmente tenterà di assumere il potere; nel frattempo, è
comprensibile che si stiano focalizzando di più sui problemi di genere.
Sulla Turchia non ne so molto di più ma ho la sensazione che le cose siano
molto più complicate.
Pinar Ogunc - In un periodo in cui i popoli del mondo non riescono a
respirare per ovvie ragioni, il tuo viaggio in Rojava ti ha dato ispirazioni per
il futuro? Quale pensi sia la “medicina” necessaria alla gente per respirare?
David Graeber - Era incredibile. Ho passato tutta la vita pensando proprio
a come potremmo fare cose esattamente come queste in qualche era
remota del futuro e molta gente pensa che io sia pazzo a immaginare che
possano mai succedere.
Questa gente lo sta facendo adesso. Se provano che può essere fatto,
che una società veramente egualitaria e democratica è possibile,
trasformeranno completamente il senso umano delle possibilità della
gente. Io stesso mi sento dieci anni più giovane per aver passato solo 10
giorni in quei luoghi.
Pinar Ogunc - Quale immagine ricorderai del tuo viaggio a Cizire?
David Graeber - Ci sono molte immagini impressionanti, così tante idee.
Mi è piaciuta moltissimo la differenza tra il modo in cui la gente appare
esteriormente e le cose che dice. Tu incontri un tipo, un dottore, che
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fa un po’ paura perché sembra un militare, con un giubbotto di pelle e
un’espressione austera e severa.
Poi parli un po’ con lui e ti spiega: “noi pensiamo che il miglior approccio per
la salute della gente sia quello preventivo, la maggior parte delle malattie
sono causate da stress. Pensiamo che riducendo lo stress abbasseremo
l’incidenza delle malattie cardiache, del diabete, anche i tumori. Quindi
il nostro disegno ultimo è la riorganizzazione delle città perché abbiano il
70% di spazi verdi...”.
Ci sono tutte queste idee brillanti, un po’ pazze. Poi vai a trovare un altro
dottore che ti spiega come, a causa dell’embargo turco, non riescono
a ottenere le medicine di base o l’equipaggiamento e tutti i pazienti in
dialisi che non sono riusciti a trasportare al di là del confine sono morti...
La disgiunzione tra le loro ambizioni e le loro circostanze incredibilmente
provate.
La signora che ci stava facendo effettivamente da guida era un viceministro degli esteri di nome Amina. Ad un certo punto, noi ci scusammo
per non essere riusciti a portare con noi dei regali migliori per aiutare gli
abitanti di Rojava che stanno soffrendo sotto l’embargo. E lei disse: “in
fondo non è molto importante. Noi abbiamo una cosa che nessuno può
mai darti. Noi abbiamo la nostra libertà. Voi no. Vorremmo solo che ci
fosse un modo per noi per darla anche a voi”.
Pinar Ogunc - Tu vieni criticato a volte per essere troppo ottimista e
entusiasta per ciò che sta avvenendo a Rojava. È così? O quelli che ti
criticano non capiscono qualcosa?
David Graeber - Di temperamento sono un ottimista, cerco delle situazioni
che sembrano avere delle promesse. Non credo che ci sia nessuna garanzia
che funzionerà, che non verrà schiacciata, ma certamente lo sarà se tutti
decidiamo, fin dall’inizio, che nessuna rivoluzione è possibile, rifiutiamo di
aiutare attivamente o l’attacchiamo, aumentando il suo isolamento, come
fanno in molti.
Se c’è qualcosa di cui io sono cosciente, mentre altri non lo sono, è il fatto
che, forse, la storia non è ancora finita. I capitalisti hanno fatto uno sforzo
sovrumano in questi ultimi 30 o 40
anni per convincere la gente che la
situazione economica presente –
non solo il capitalismo, ma quella
forma di capitalismo peculiare,
finanziarizzato, semi-feudale che
abbiamo oggi – è il solo sistema
economico possibile.
Hanno fatto molti più sforzi nel
provare tutto questo di quanto
abbiano fatto per cercare di creare
un sistema capitalistico globale e
vitale. Come risultato il sistema sta
crollando tutto intorno a noi proprio
nel momento in cui tutti hanno
perduto la capacità di immaginare
qualsiasi altra cosa. Bene, io penso
che sia abbastanza ovvio che fra 50
anni il capitalismo, in qualsiasi forma
lo identifichiamo, e probabilmente in
tutte le sue forme, sarà scomparso.
Qualcos’altro lo avrà rimpiazzato.
Quel qualcos’altro potrebbe non
essere meglio. Potrebbe anche
essere peggio. Allora mi sembra
che questa sia la vera ragione per
cui è nostra responsabilità, come
intellettuali, o anche come semplici
esseri umani pensanti, cercare
almeno di immaginare qualcosa che
potrebbe essere migliore. E se c’è
gente che sta veramente tentando di
creare quelle cose migliori, è nostra
responsabilità aiutarli.
21
Solidarietà e
ricostruzione
di Gino Caraffi, Alternativa Libertaria
22
Non vi sarà nessun piano internazionale per ricostruire Kobane
e le città del Rojava distrutte dall’attacco dei fascisti islamici, le
dinamiche dell’imperialismo non permettono nessun appoggio
o contributo dagli organismi e dagli Stati nazionali, e sarebbe
utopistico chiedere aiuto a quanti sono parte del problema e
non possono in nessun modo esserne la soluzione.
Per questo ancora una volta ci dovremo affidare alle sole nostre forze, di
chi vede nella lotta dei curdi e nell’esperienza rivoluzionaria di Kobane un
tassello importante per la lotta di liberazione di tutti dalla schiavitù dal
pregiudizio e dal sistema del capitale, a questo proposito si è costituita
anche in Italia da pochissimi mesi la Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia il cui
presidente è Alican Yldiz.
Passano attraverso questa Onlus i contributi economici per i progetti
di ricostruzione delle devastazioni della guerra, l’associazione non ha
bisogno di essere caratterizzata da elementi politici ed ideologici, chi oggi
contribuisce alla costruzione dei territori distrutti ha già fatto una scelta di
campo, umanitaria sì ma che vede anche nella ricostruzione un momento
fondamentale per l’appoggio all’esperienza rivoluzionaria in atto e per
darle continuità difendendo gli spazi conquistati dai combattenti di YPG/
YPJ.
Alcune stime ci dicono che il 70% di Kobane è completamente distrutta,
19 scuole sono seriamente danneggiate, 4 sono completamente distrutte,
4 ospedali danneggiati in modo importante e 2 completamente distrutti,
cliniche e farmacie hanno subito danni ingenti, la rete idrica e quella
fognaria hanno subito danni ingenti, la rete elettrica è completamente da
ricostruire la centrale elettrica è distrutta.
Gli edifici pubblici e della amministrazione sono distrutti, le campagne sono
state saccheggiate il bestiame portato via dalle truppe dell’Isis (in molti
casi attraverso il confine turco), l’approvvigionamento idrico arriva dalla
cittadina di Suruc, nei pressi di Kobane, città a maggioranza arabo sunnita
sotto il controllo delle truppe siriane che arbitrariamente interrompono
le forniture per creare conflitto tra le città, questo accade anche con la
vicina Sirrin, a conferma delle dinamiche che hanno contribuito a cingere
d’assedio Kobane anche mediante il frazionamento ed il ricatto sulle
forniture dei generi di prima necessità.
La richiesta alla Turchia di aprire un corridoio per gli aiuti umanitari continua
ad essere negata, nonostante il tanto sbandierato accordo per combattere
l’Isis la cui minaccia resta incombente sulla regione appena liberata.
Si dovranno fare I conti anche con il pericolo degli ordigni bellici e delle
mine disseminate nell’area, che avrà bisogno di un profondo piano di
bonifica.
I profughi di Kobane e di Sengal continuano a non avere nessun tipo di
riconoscimento e di aiuto dagli organismi internazionali, si sta approntando
attraverso la solidarietà internazionale il rientro di 4000 profughi a Kobane.
Intanto si è tenuto ad Amed (Diyarbakir) nel Kurdistan turco (militarizzata
oltremodo dalla presenza massiccia dell’esercito turco) la prima conferenza
internazionale per la ricostruzione, 350 delegati provenienti da Kobane,
Kurdistan ed Europa si sono soffermati sulla situazione ed hanno lanciato
un appello internazionale per la ricostruzione, delineando una mappa
della distruzione e chiedendo un impegno internazionale per sostenere la
ricostruzione, la seconda conferenza internazionale e prevista in luglio, a
Bruxelles.
La solidarietà internazionale è quindi indispensabile, chiedere l’apertura
di un corridoio umanitario con la Turchia per favorire l’arrivo degli aiuti
ed il rientro delle persone, rinforzare la rivoluzione con la ricostruzione
materiale delle città distrutte per fermare definitivamente le truppe dell’Isis
che cingono il territorio a sud del Rojava, chiedere l’eliminazione del PKK
dalle liste delle organizzazioni terroristiche, contribuire alla campagna per
la liberazione dei detenuti politici curdi e per la liberazione di Abdullah
Ocalan (Apo).
Le iniziative si stanno moltiplicando ed i progetti da finanziare a da
sostenere sono tanti, invitiamo quanti vorranno contribuire in modo
solidale alla rinascita di Kobane a sostenerli con il loro lavoro e con il loro
impegno.
Coordinate bancarie per donazioni: Conto: 1000 / 00132226,
intestato a Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus
IBAN: IT63 P033 5901 6001 0000 0132 226
email: [email protected]
23
La costituzione
dei cantoni della Rojava
Il Contratto Sociale dei Cantoni della
Rojava nel Kurdistan occidentale (Siria)
Riportiamo una breve sintesi della Costituzione approvata nel corso
del 2014 dalle popolazioni resistenti de Cantoni di Rojava. Da queste
poche pagine possiamo rilevare quanto delle cose scritte in questo
monografico costituiscano davvero le concrete aspettative dei cittadini
di questa piccola ma importante porzione di mondo.
Preambolo
Noi, popoli delle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Jazira e
Kobane, una confederazione di Curdi, Arabi, Siriaci, Aramaici, Turkmeni,
Armeni, e Ceceni, liberamente e solennemente approviamo ed adottiamo
questa Carta.
Nel perseguimento della libertà, della giustizia, della dignità e della
democrazia ed ispirata dai principi di uguaglianza e sostenibilità
ambientale, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, fondato sulla
mutua e pacifica coesistenza e sull’intesa tra tutte le componenti della
società. La Carta tutela le libertà ed i diritti umani fondamentali e ribadisce
il diritto dei popoli alla autodeterminazione.
Nel nome di questa Carta, noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo
nello spirito della riconciliazione, del pluralismo e della partecipazione
democratica affinché tutti possano esprimersi liberamente nella vita
24
pubblica. Nella costruzione di una società libera dall’autoritarismo, dal
militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nelle
questioni pubbliche, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria ed
aspira a mantenere la pace tanto a livello nazionale che internazionale.
Nell’approvare tale Carta, noi adottiamo un sistema politico ed
amministrativo civile basato su un contratto sociale che riconcili il ricco
mosaico della Siria attraverso una fase di transizione che dalla dittatura,
dalla guerra civile e dalle distruzioni porti ad una nuova società democratica
in cui siano preservate la vita civile e la giustizia sociale.
I - Principi Generali
[…] Articolo 3: a - La Siria è uno stato libero, sovrano e democratico,
governato da un sistema parlamentare fondato su principi di decentramento
e pluralismo.
b - Le Regioni Autonome sono composte dai tre cantoni di Afrin, Jazira
e Kobane, che sono parte integrante del territorio siriano. I centri
amministrativi di ogni Cantone sono: la città di Afrin per il Cantone di
Afrin; la città di Qamishli per il Cantone di Jazira; la città di Kobane per il
Cantone di Kobane.
c - Il Cantone di Jazira è diversificato dal punto di vista etnico e
religioso essendo popolato da comunità di Curdi, Arabi, Siriaci, Ceceni,
Armeni, Musulmani, Cristiani e Yazidi che coesistono pacificamente e
fraternamente. L’Assemblea Legislativa elettiva rappresenta tutti e tre i
Cantoni delle Regioni Autonome.
[…] Articolo 6: Tutte le persone e le comunità sono uguali di fronte alla
legge in diritti e responsabilità.
Articolo 7: Tutte i centri, le città ed i villaggi siriani che aderiscono a
questa Carta possono costituire Cantoni entrando a far parte delle Regioni
Autonome.
Articolo 8: Tutti i Cantoni nelle Regioni Autonome si fondano sul
principio dell’autogoverno. I Cantoni possono liberamente eleggere i loro
rappresentanti ed i loro organismi rappresentativi, e possono perseguire
i loro diritti purché non siano in contraddizione con gli articoli di questa
Carta.
Articolo 9: Le lingue ufficiali del Cantone di Jazira sono il curdo, l’arabo
ed il siriaco. Tutte le comunità hanno il diritto di insegnare ed imparare le
loro lingue native.
Articolo 10: Le Regioni Autonome non interferiranno negli affari interni
degli altri paesi ed avranno cura delle loro relazioni con gli Stati vicini,
risolvendo ogni conflitto in forma pacifica.
[…] Articolo 12: Le Regioni Autonome costituiscono parte integrante della
Siria. Si pongono come modello per un futuro sistema decentralizzato di
governo federale della Siria.
alcuna e di cercare, ricevere e diffondere informazioni ed idee tramite
qualsiasi mezzo di comunicazione senza limiti di frontiere. (...)
Articolo 25: a - Ogni individuo ha il diritto alla libertà ed alla sicurezza della
propria persona.
b - Tutte le persone private della loro libertà saranno trattate con umanità
e con rispetto per l’intrinseca dignità della persona umana. Nessuno potrà
essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
c - I prigionieri hanno il diritto a umane condizioni di detenzione, a
protezione della loro intrinseca dignità. Le carceri devono perseguire gli
obiettivi fondamentali del recupero, della rieducazione e della riabilitazione
sociale dei detenuti.
Articolo 26: Ogni essere umano ha il diritto intrinseco alla vita. All’interno
della giurisdizione delle Regioni Autonome a nessuno verrà applicata la
pena di morte.
Articolo 27: Le donne hanno il diritto inviolabile a prendere parte alla vita
politica, sociale economica e culturale.
[…] III - Diritti e Libertà
Articolo 21: La Carta incorpora la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, il Patto Internazionale sui
Diritti Economici, Sociali e Culturali, come pure altri accordi sui diritti umani
riconosciuti a livello internazionale.
[…] Articolo 23: a - Ogni individuo ha il diritto di esprimersi in base alle sue
prerogative etniche, culturali, linguistiche e di genere.
b - Ogni individuo ha il diritto di vivere in un ambiente sano, grazie al
perseguimento di un equilibrio ecologico.
Articolo 24: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di
espressione; inclusa la libertà di avere proprie opinioni senza interferenza
Articolo 28: Gli uomini e le donne sono uguali davanti alla legge. La
Carta garantisce l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza delle donne
e dà mandato alle pubbliche istituzioni di agire per l’eliminazione delle
discriminazioni di genere.
Articolo 29: La Carta garantisce i diritti dell’infanzia. In particolare i
bambini non dovranno essere sottoposti a sfruttamento economico,
né avviati al lavoro minorile, né subire tortura o trattamenti e punizioni
crudeli, disumane o degradanti, e non potranno essere sposati prima di
raggiungere la maggiore età.
Articolo 30: Tutte le persone hanno il diritto
1. alla sicurezza personale in una società pacifica e stabile.
2. alla libera ed obbligatoria istruzione primaria e secondaria.
25
3. al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, ad un’abitazione adeguata.
4. a proteggere la maternità e l’assistenza materna e pediatrica.
5. ad adeguare la sanità e l’assistenza sociale per i disabili, per gli
anziani e per i portatori di bisogni speciali.
Articolo 31: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di culto, a praticare
la sua propria religione sia individualmente che in associazione con
altri. Nessuno potrà essere soggetto a persecuzioni sulla base della sue
credenze religiose.
Articolo 32: a - Ogni individuo ha il diritto alla libertà di associazione
con altri, incluso il diritto a liberamente istituire o aderire a partiti
politici, associazioni, sindacati e/o civiche assemblee.
b - Nell’esercizio del diritto alla libertà di associazione, è protetta
l’espressione economica e culturale di tutte le comunità. Allo scopo
di proteggere la ricchezza e la diversità delle tradizioni dei popoli delle
Regioni Autonome.
c - La religione degli Yazidi è religione riconosciuta ed è esplicitamente
protetto il diritto dei suoi fedeli alla libertà di associazione e di
espressione. La tutela della vita religiosa, sociale e culturale degli
Yazidi può essere garantita tramite passaggio normativo da parte dalla
Assemblea Legislativa.
[…] Articolo 34: Ogni individuo ha il diritto di riunione pacifica,
compreso il diritto di pacifica protezione, di manifestazione e di
sciopero.
[…] Articolo 36: Ogni individuo ha il diritto di voto e di candidarsi a
cariche pubbliche, nell’ambito delle leggi.
Articolo 37: Ogni individuo ha il diritto di chiedere asilo politico. Le
persone possono essere espulse solo a seguito di una decisione di un
organo giudiziario competente, imparziale e regolarmente costituito,
in cui abbiano avuto tutti diritto al giusto processo.
26
Articolo 38: Tutte le persone sono uguali davanti alla legge ed hanno titolo
ad eguali opportunità nella vita pubblica e professionale.
Articolo 39: Le risorse naturali, che si trovano sopra e sotto terra, sono la
ricchezza pubblica della società. Processi estrattivi, gestione, concessione
di licenze e altri accordi contrattuali connessi a tali risorse devono essere
regolati dalla legge.
[Consigli Municipali], compresi il bilancio e le finanze, i servizi pubblici e le
elezioni di sindaco, è regolata dalla legge.
3 - I Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali] sono eletti
direttamente dal popolo con voto segreto.
[…] Articolo 87: Tutti gli organi direttivi, istituzioni e commissioni sono
composti da almeno il quaranta per cento (40%), di entrambi i sessi.
Articolo 40: Tutti gli edifici ed i terreni nelle Regioni Autonome sono di
proprietà dall’amministrazione transitoria e sono di proprietà pubblica. Il
loro uso e distribuzione sono determinati per legge.
[…] Articolo 90: La Carta garantisce la tutela dell’ambiente e considera
lo sviluppo sostenibile degli ecosistemi naturali come scelta etica e sacro
dovere nazionale.
Articolo 41: Ogni individuo ha diritto all’utilizzo ed al godimento della sua
proprietà privata. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non
dietro pagamento di un giusto indennizzo, per motivi di pubblica utilità o
di interesse sociale, e nei casi e secondo le forme stabilite dalla legge.
Articolo 91: Il sistema di istruzione delle Regioni Autonome si basa sui
valori della riconciliazione, della dignità e del pluralismo. Si tratta di una
marcata presa di distanza dalle politiche educative precedenti fondate su
principi razzisti e sciovinisti.
L’educazione nelle Regioni Autonome respinge le politiche di istruzione
precedenti basate su principi razzisti e sciovinisti. Essa si fonda invece sui
valori della riconciliazione, dignità, e pluralismo. (...)
Articolo 42: Il sistema economico nelle province deve essere indirizzato a
fornire il benessere generale e in particolare a garantire il finanziamento
delle scienze e delle tecnologie. Esso è finalizzato a garantire le esigenze
quotidiane delle persone per assicurare una vita dignitosa. Il monopolio è
vietato dalla legge. Sono tutelati i diritti del lavoro e lo sviluppo sostenibile.
Articolo 43: Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà
di scegliere la propria residenza all’interno delle Regioni Autonome.
[…] I Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali]:
1 - I Cantoni delle Regioni Autonome sono composti di Consigli
Amministrativi Provinciali [Consigli Municipali] e sono gestiti dal Consiglio
Esecutivo pertinente che mantiene il potere di modificare le sue funzioni
ed i regolamenti;
2 - I poteri ed i doveri dei Consigli Amministrativi Provinciali [Consigli
Municipali] sono fondati in adesione alla politica di decentramento. La
supervisione cantonale dell’autorità dei Consigli amministrativi provinciali
Articolo 92: a - La Carta sancisce il principio della separazione tra religione
e Stato.
b - La libertà di religione è protetta. Devono essere rispettate tutte le
religioni e le fedi nelle Regioni Autonome. Il diritto di esercitare le credenze
religiose deve essere garantito, in quanto non influisce negativamente sul
bene pubblico.
Articolo 93: a - La promozione del progresso culturale, sociale ed economico
dalle istituzioni amministrative assicura la stabilità e il benessere pubblico
all’interno delle Regioni Autonome.
b - Non vi è alcuna legittimità per l’autorità che contraddice questa carta.
[…] Traduzione a cura di FdCA - Ufficio Relazioni Internazionali.
27
Attacco suicida a Suruc
all’Amar Cultural Center
Il comunicato di Rojava Calling,
da www.globalproject.info – 20 luglio 2015
Al momento i media turchi e curdi parlano di 27 morti e decine di feriti
all’Amara Cultural Center di Suruc contro i giovani socialisti del SGDF che
stavano per iniziare una conferenza stampa proprio nell’area antistante
al centro. Meno di un mese fa l’SGDF aveva lanciato una campagna di
solidarietà con i curdi siriani dal nome “Giovani di Gezi vanno a Kobane”.
I ragazzi e le ragazze morte oggi avevano intenzione di andare a Kobane
per costruire un museo della resistenza e una biblioteca. Ma ad essere
colpito non è soltanto una iniziativa solidale e attivisti più o meno giovani.
Amara Center in questi mesi è stato ed è tuttora il luogo di incontro e di
accoglienza per decine di giovani internazionali, turchi o curdi, ma anche
per centinaia di europei tra cui decine di italiani che si spingevano fino al
confine turco-siriano per solidarizzare con Kobane.
Suruc, amministrata dal partito filo-curdo e che da sempre è stata in
prima fila per l’accoglienza di chi era in fuga da Kobane, subisce un nuovo
attentato proprio in quel luogo che in questi mesi è stato da una parte il
centro nevralgico della logistica della resistenza e dall’altra la porta verso il
Rojava per tutti gli attivisti internazionali che volevano portare sostegno e
solidarietà a Kobane, prima alla resistenza e poi alla ricostruzione. La stessa
staffetta italiana “Rojava calling”, così come tutte le carovane partite
dall’Europa dopo la liberazione e a ridosso del Newroz di Marzo, devono
all’esistenza di quello spazio la possibilità di costruzione delle relazioni che
poi hanno permesso di mettere in piedi i progetti di solidarietà e i passaggi
oltre-confine.
28
Amara era uno spazio instancabilmente attivo e vivo, in cui le storie
dei kurdi siriani che entravano ed uscivano dal Rojava e si fermavano a
risposare e rifocillarsi si incrociavano con quelle dei tantissimi attivisti che
si spingevano sul confine.
Ad Amara si parlava di confederalismo democratico e di Rojava, ma
anche della manifestazioni di Francoforte sotto la BCE, di centri sociali, di
battaglie ambientali, di Gramsci, di femminismo e di autodifesa.
Chi ha attraversato quel luogo, chi ha trascorso qualche ora ascoltando le
parole di Fayza, la co-presidentessa dell’assemblea legislativa del cantone
di Kobane o giocando con le decine di bambini profughi di guerra che in
quel cortile oggi pieno di sangue e morte trovavano spazio di divertimento,
non può non rimanere scioccato davanti le immagini, drammatiche
dell’attentato di oggi. Erdogan e il governo turco, che i curdi, soprattutto
dopo le prove schiaccianti del 25 giugno, accusano di collaborare con
Daesh (IS), ha inviato il proprio primo ministro e il ministro degli interni per
indagare sull’attentato di oggi.
Mossa politica che preannuncia un nuovo giro di vite nei confronti
della comunità curda. Nel frattempo si parla di un’attentatrice appena
maggiorenne “vicina all’IS” come responsabile dell’attentato mentre
questa mattina si è registrato il solito comportamento provocatorio e
violento della polizia turca che ha più volte respinto i curdi che tentavano
di raggiungere l’Amara per prestare soccorso ritardando così l’intervento
delle ambulanze e del personale medico.
Kobane è stata liberata ma è tuttora stretta tra la morsa dell’IS e la Turchia.
I territori della frontiera turco-siriana vengono sistematicamente scossi da
tentativi di assalti, attentatati, che mirano a destabilizzare le forza politiche
e combattenti curde.
L’Amara Cultural Center era ed è tuttora uno spazio fondamentale per i
solidali e le solidali. Un centro di iniziativa politica e sociale per i giovani
curdi di questa città di frontiera e uno spazio laico dove curdi, turchi e
internazionali si incontravano e organizzavano le iniziative di solidarietà:
staffette sanitarie, materiale medico, scolastico o ludico, vengono
raccolti in questo centro che si trova sulla via principale della cittadina
di Suruc, riconosciuto da tutti, soprattutto dall’amministrazione
politica cittadina, degnamente rappresentata da Zuhal Elenez, Il copresidente della municipalità di Soruç, una giovane donna eletta
con il Dbp, il Partito democratico delle regioni.
Un piano di questo edificio ormai era adibito a centro raccolta e
magazzino dei medicinali che i vari internazionali inviavano oppure
portavano direttamente durante i loro transiti. Medicinali che poi
venivano distribuiti nei vari campi profughi costruiti intorno alla
città di Suruc.
Ecco perché sembra evidente che la scelta di colpire proprio Amara
è funzionale alla costruzione del clima di terrore che serve a isolare
non solo Kobane ma l’esperienza del Rojava tutta e ad allontanare
quanto più possibile la solidarietà internazionale che si è costruita
in questi mesi. Così come colpire proprio la solidarietà turca ai
curdi è una scelta altrettanto funzionale all’inasprimento del clima
da guerra civile che si è diffuso in Turchia l’indomani delle elezioni
politiche, quelle in cui l’HDP (partito filo-Kurdo) ha guadagnato il
13% dei consensi e Erdogan ha perso la maggioranza assoluta.
Che tipo di ripercussioni ci saranno sulle attività del Centro Culturale
al momento non è dato sapere. È presto e forse in questo preciso
momento è importante altro: ad esempio che vari iniziative di
solidarietà vengano messe in moto non soltanto in Turchia, dove
proprio in queste ore si annunciano manifestazioni, ma anche nei
paesi e nelle città da dove in questi mesi si sono mosse decine di
attiviste e attivisti.
Nel frattempo il Congresso Nazionale Curdo in un durissimo
comunicato ha accusato AKP e il governo turco di essere i mandanti
della strage che ha colpito decine di giovani.
Io vado
di Abdulla Goran, poeta curdo 1904 -1962
Io vado, madre.
Se non torno,
sarò fiore di questa montagna,
frammento di terra per un mondo
più grande di questo.
Io vado, madre.
Se non torno,
il corpo esploderà là dove si tortura
e lo spirito flagellerà,
come l’uragano, tutte le porte.
Io vado... madre...
Se non torno,
la mia anima sarà parola...
per tutti i poeti.
Neve
di Sherko Bekas, poeta curdo 1940 - 2013
Poveri “montanari”,
il vostro amore è una neve...
una neve di quattro stagioni...
Nevica e m’imbianca il verso...
come posso lasciare che cada
nel male, e che si imbronci
il nostro cielo con me?
E come può ingrigire la polvere nera della rabbia
il suo candore bianco?
Abbassare la fronte
per rispetto al Halgurt dei vostri cuori.
Non c’è vita in me se non esplode il tempo
di quella vostra neve, ma non voglio
se non in quella neve morire.
29
s c o r d a t e
a/c di Daniele Barbieri
danielebarbieri.wordpress.com
13 luglio
1920
Trieste
gli squadristi incendiano
il Narodni dom
Di Daniele Barbieri
30
Il periodo immediatamente successivo alla
guerra, parallelamente alle trattative per la
definizione dei confini, vide nella Venezia
Giulia la rapida affermazione del «fascismo
di confine».
Caratteristica
peculiare
del
fascismo
di confine fu la violenza organizzata e
sistematica contro le istituzioni culturali e
politiche slovene e croate, che si affiancò e
talvolta si sovrappose alla violenza contro il
movimento operaio e le sue organizzazioni.
Nel «fascismo di confine» si incontrarono le
mire espansionistiche della grande borghesia
nazionale e dell’élite politica e militare
italiana, le aspirazioni della borghesia locale
(desiderosa di riempire il vuoto di potere
lasciato dalla dissoluzione dell’impero austroungarico, e preoccupata dall’avanzare delle
idee socialiste e comuniste), la frustrazione
degli ex-combattenti per la cosiddetta
“vittoria mutilata”, infine lo spaesamento
prodotto dalla guerra fra i ceti popolari, in
un tessuto economico e sociale devastato
da anni di economia di guerra, di distruzioni
materiali, di occupazione militare, di
spostamenti forzati di intere comunità, e di
immigrazione.
La data simbolo, il punto di svolta, del
«fascismo di confine» fu il 13 luglio del 1920:
quel giorno a Trieste gli squadristi capitanati
da Francesco Giunta incendiarono il Narodni
dom, nel corso di quello che Renzo De Felice
definì «il vero battesimo dello squadrismo
organizzato».
Per allargare il discorso alle conseguenze di
quella politica riporto qui sotto alcuni brani
di un lungo post di Gianni Fresu che prende
spunto da un articolo di Eugenio Curiel sul
genocidio dei popoli slavi
Eugenio Curiel, scienziato e partigiano
triestino morto a soli 32 anni nel febbraio 1945,
aveva sempre dedicato molta attenzione,
sin dall’adolescenza, al genocidio umano e
culturale delle popolazioni slave inglobate
a forza nel regno d’Italia dopo la prima
guerra mondiale. Se ne occupò nuovamente
nell’ottobre del ’44, quando la vittoria contro
i nazifascisti da parte dell’Esercito nazionale
di liberazione jugoslavo (Belgrado fu liberata
il 20 ottobre), determinò una situazione
nuova di fondamentale importanza per
la guerra a Hitler e soci in tutto il resto
d’Europa.
[…] In tempi recenti, proprio gli accadimenti
di questo periodo (1943-45), hanno suscitato
l’attenzione del “nostro” mondo politico e
culturale per le sorti degli italiani costretti
alla fuga dalle terre occupate e soprattutto
per quelli tragicamente finiti nelle “foibe”,
un’esigenza ritenuta tanto forte da spingere
le autorità governative a dedicargli una
giornata commemorativa ufficiale. Senza
voler entrare in dettaglio su questo
argomento, sul quale del resto esiste una
vastissima bibliografia, fa riflettere che nella
gran parte dei casi la trattazione di questi
fatti finisca per omettere o trascurare del
tutto la durezza dell’occupazione italiana:
i crimini compiuti negli anni del regime
fascista a danno delle popolazioni slave, fino
ai massacri compiuti con i rastrellamenti, le
deportazioni, l’uso sistematico dei campi di
concentramento prima e durante la guerra.
Su tutto ciò tornò invece Eugenio Curiel in un
articolo, «La nuova Jugoslavia» (pubblicato
su «La Nostra Lotta» […] Secondo il suo
giudizio, con la fine della prima guerra
mondiale, il regno jugoslavo fu il risultato
di un compromesso deteriore tra le potenze
occidentali interessate a spartirsi quanto
più possibile i vecchi domini asburgici nei
Balcani.
Il piccolo regno, costruito attorno a Serbia
e Montenegro, si vide privato di parte
significativa del suo territorio a favore degli
Stati confinanti, all’Italia venne assegnata
la fetta più consistente di territorio. Per
croati e sloveni iniziò da subito un periodo
drammatico, ben più duro e disumano del
già pesante dominio austriaco, segnato
da violenze e prevaricazioni finalizzate a
sradicare le tradizioni culturali slave dei
territori appena assimilati.
L’italianizzazione forzata con l’avvento del
fascismo si fece ancora più brutale, insieme
alla proibizione dei partiti e la soppressione
della loro vivacissima stampa, a croati e
sloveni venne impedito l’utilizzo della loro
lingua, nelle scuole come nei luoghi di culto.
Alla massiccia occupazione militare e
burocratica fascista si accompagnò la
consapevole distruzione della struttura
economico-sociale locale: annientato il
«ricco patrimonio cooperativo», le casse
artigianali e l’articolazione sociale e culturale
del mondo contadino, sulle regioni dell’Istria
e della Carsia il capitale bancario italiano
finì per stritolare ogni residuo di vivacità
autonoma fino a fare di queste le regioni
con il più alto debito ipotecario in Italia,
queste le parole di Curiel in proposito:
“Chi non ricorda con orrore lo strazio che
il fascismo ha fatto del popolo sloveno e
del popolo croato, chi non ricorda la loro
indomita volontà di liberazione che il regime
di terrore non riusciva a fiaccare, chi non
ricorda i martiri di Pola del 1929, i martiri
di Basovizza del 1931 e tutti gli altri eroici
caduti fino al compagno Tomasic e a tutti i
fucilati di Trieste del 1941”…
[…] Con lo scoppio della guerra e la fine
del debole regno jugoslavo la brutalità
dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi si
fece assoluta, ciò nonostante dal basso si
formò da subito, con le divisioni partigiane
guidate da Tito, una fortissima resistenza
armata popolare capace di sconfiggere
truppe di occupazione e fiancheggiatori,
ancora Curiel: “A decine di migliaia gli
arditi combattenti del popolo, a migliaia
le coraggiose donne del popolo jugoslavo
venivano massacrati e seppelliti nei campi di
concentramento. Le truppe d’occupazione,
ma anche le truppe dell’esercito fascista,
italiani vesti dell’uniforme disonorante
dell’aggressione e dell’infamia, distrussero
villaggi, incendiarono case, decimarono
intere regioni: ma per l’eroico popolo
jugoslavo la brutalità, la barbarie scatenata
furono la gran diana per la lotta di riscossa
popolare”.
In un contesto di guerra i torti si sommano ai
torti e, per quanto possa essere più o meno
condivisibile, prima o poi arriva il momento
del “redde rationem”. È assolutamente
corretto studiare storicamente e far
conoscere politicamente quanto accaduto
nelle Foibe, ma lo è altrettanto ricordare che
prima quelle stesse Foibe furono utilizzate per
le popolazioni slave: sottoposte (dal 1918 al
1943) a deportazioni di massa, cancellazione
della propria specificità culturale, linguistica
ed economica; soggette a operazioni di
pulizia etnica di massa e su larga scala.
Portare in rilievo solo il tragico epilogo di
una brutta pagina storica, omettendo tutto
quel che l’ha preceduta e, soprattutto,
cancellando
la
responsabilità
del
nazionalismo italiano (affermatosi in quelle
terre ben prima dell’avvento fascista),
significa fare opera di mistificazione dei fatti.
31
benven
g a m a g
a/c della Redazione
La costrizione della
regolamentazione
giuridica ovvero come
distruggere gli spazi di
sperimentazione sociale
Riportiamo in queste pagine una lettera
aperta diffusa dal circuito delle Mag italiane
in merito alla “nuova” regolamentazione
che lo stato italiano ha deciso di dare al
comparto finanziario, il cui esito finale sarà
quello di rendere sempre più difficile la
vita a quelle esperienze di autogestione in
campo finanziario attive nel corpo sociale
italiano da trent’anni a questa parte, quali
sono appunto le Mag. L’ennesimo attacco
a chi tenta di costruire spazi e pratiche di
sperimentazione sociale dal basso.
32
Da luglio 2009 a dicembre 2014 abbiamo
interamente attraversato il percorso di un
iter legislativo di questo Stato e ci siamo
sentite in dovere di narrare questo percorso
estenuante, non tanto perché toccate nella
nostra sfera individuale della possibilità
di esistere, ma soprattutto per mettere in
evidenza la necessità di una riforma di una
politica ormai incapace di aprirsi alle istanze
che provengono dal basso, dalla cittadinanza,
anche quando queste trovano supporto,
come in questo caso, da pareri favorevoli di
ben tre commissioni parlamentari.
Chi scrive?
A scrivere sono le MAG (Mutue Autogestione),
strutture cooperative che si occupano da oltre
trent’anni di Finanza Mutualistica e Solidale.
Attualmente le MAG che in Italia esercitano
l’attività di finanza autogestita sono cinque
(Mag 2 Finance di Milano, Mag 4 Piemonte di
Torino, Mag 6 di Reggio Emilia, Mag Venezia
e la neonata Mag Firenze), ma sono in atto
percorsi di costituzione di nuove MAG anche
a Roma e in Calabria. Mag Verona, la prima
nata, ha sviluppato nel tempo servizi culturali,
formativi e aziendali rivolti all’Economia
Solidale ed opera in via accessoria l’attività
finanziaria. Questo a dimostrazione che
l’iter legislativo è intervenuto su una realtà
viva, dotata di strutture solide e capaci di
raccogliere intorno a loro quel desiderio
della società civile per una finanza di
nuovo al servizio dell’economia reale:
stiamo parlando di circa 6.000 soci e socie
compartecipi a questo modo di fare finanza
e di circa 8.000.000,00 di euro interamente
investiti in progettualità che si pongono in
un’ottica di cambiamento sociale. Le Mag
svolgono un’attività finanziaria che si fonda
sui principi del credito come diritto umano,
della trasparenza, della mutualità, della
partecipazione alle decisioni da parte dei
soci e delle socie, della responsabilità sociale
e ambientale, come criteri vincolanti per gli
impieghi, di un’adesione globale e coerente
di tutta l’attività del soggetto finanziario,
escludendo l’arricchimento basato sul solo
possesso e scambio di denaro e ogni tipo
di prestito nei confronti di quelle attività
economiche che ostacolano lo sviluppo
umano e contribuiscono a violare i diritti
fondamentali della persona.
Cosa è successo?
Nel 2009 è iniziato in Italia un iter legislativo
di riforma dell’intermediazione finanziaria
non bancaria, che ha modificato il decreto
legislativo 1° settembre 1993, n.385 (Testo
Unico Bancario -TUB) e che vede coinvolte
le MAG, iscritte nell’elenco previsto dall’art.
106 del TUB per gli intermediari finanziari
non bancari.
Coordinandosi tra loro per veder riconosciuta
una trentennale esperienza di Finanza
Mutualistica e Solidale, il 28 luglio 2009 le
MAG riescono ad ottenere un incontro presso
la Banca d’Italia: comincia un lungo calvario
fatto di promesse e mancanza di risposte
che si alternano in maniera imbarazzante,
cominciando a delineare l’assoluta ignoranza
e l’assoluto disinteresse ad un’idea di finanza
come strumento al servizio dell’economia
reale.
Senza che si concretizzi un secondo incontro
che ci era stato prospettato, il Ministero
dell’Economia e delle Finanze nel maggio
2010 pone in consultazione un testo
legislativo in cui non è presente alcuna traccia
della Finanza Mutualistica e Solidale, ma solo
l’inserimento di un articolo per intermediari
che effettuano microcredito, con parametri
e criteri che non farebbero rientrare nessuna
MAG in questa categoria.
Nonostante
la
risposta
corale
alla
consultazione con un documento in cui viene
richiesto l’esplicito riconoscimento della
Finanza Mutualistica e Solidale, il decreto va
in discussione alle commissioni parlamentari
senza raccogliere la richiesta.
Completamente ignorate dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze, le MAG si sono
attivate con un appello inviato a tutti i membri
delle commissioni, riuscendo ad interagire
con alcuni parlamentari. In particolare
l’Onorevole Massimo Vannucci ha posto
l’attenzione sul tema del riconoscimento della
Finanza Mutualistica e Solidale all’interno
dell’esame del testo nella Commissione
Bilancio, Tesoro e Programmazione della
Camera che poi, in data 6 luglio 2010, ha
valutato favorevolmente lo schema di decreto
legislativo con la seguente osservazione:
“valuti la Commissione di merito l’opportunità
di prevedere nell’ambito delle disposizioni del
provvedimento un adeguato riconoscimento
della finanza mutualistica e solidale che, nel
rispetto delle modalità operative determinate
dalla Banca d’Italia, ne salvaguardi i caratteri
qualificanti e l’operatività, in considerazione
del rilevante ruolo sociale dalla stessa
svolto”.
Successivamente,
anche
la
commissione Finanze del 20 luglio 2010 ha
valutato favorevolmente il riconoscimento
della Finanza Mutualistica e Solidale e lo
stesso avverrà nel luglio 2012 da parte della
Commissione Finanze del Senato.
Come se niente fosse successo, sulla Gazzetta
Ufficiale del 04/09/2010 viene pubblicato il
decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141,
dove la Finanza Mutualistica e Solidale non
viene riconosciuta come meritevole di tutela
autonoma.
Poi un lungo silenzio, una totale assenza
di interlocuzione politica, fino a quando,
mentre al Ministero dell’Economia e delle
Finanze scatta il gioco del passaggio di
competenza, Banca d’Italia risponde alla
nostra richiesta d’incontro anticipandoci via
fax (gennaio 2011) già l’impostazione e il
risultato finale dell’incontro: “...si osserva che
il decreto legislativo 141/2010 realizza una
complessiva razionalizzazione del comparto
dell’intermediazione finanziaria non bancaria,
rafforza gli strumenti e i presidi di vigilanza
per renderli proporzionati alla rischiosità
dell’attività concretamente svolta; un regime
alleggerito è previsto soltanto per coloro
che operano nel comparto del microcredito
o, più in generale, della finanza mutualistica
e solidale. Il nuovo articolo 111 del Testo
Unico Bancario disciplina in modo puntuale
l’attività di microcredito e [...]. In questo
comparto potranno rientrare le Mag, tenuto
anche conto che la normativa ministeriale
di attuazione potrà essere sufficientemente
flessibile per tutelare le specificità.[...]”
Traduzione: i giochi sono fatti, la macchina
tecnocratica non accetta complicazioni e
perdite di tempo rispetto ad un obiettivo che
non contempla elementi di democraticità e
non gradisce un eccesso di “biodiversità”
in campo finanziario, perché potrebbe
intaccarne la capacità di controllo. La Finanza
Mutualistica e Solidale non può’ avere nessun
riconoscimento a livello di normativa primaria:
l’unica speranza rimane la “sufficientemente
flessibile”
normativa
ministeriale
di
attuazione, ovvero la normativa secondaria.
Nel marzo 2011, dove aver continuato più
volte a sollecitare un incontro, arriva finalmente
una risposta dal Ministero dell’Economia
e delle Finanze: una email! Questo il testo:
“Gent.ma dott.ssa [...], le volevo comunicare
che, anche se non ci sono frequenti contatti,
la questione del riconoscimento della finanza
mutualistica è sempre seguita. A breve ci
sarà un incontro Ministero dell’Economia e
delle Finanze Banca d’Italia nella quale verrà
inserito all’ordine del giorno la problematica
in oggetto.”
33
Il resto del tempo è tutto un reiterarsi delle
cose già scritte: risoluzioni parlamentari che
si susseguono alla Camera e al Senato e
che impegnano il Governo ad un esplicito
riconoscimento dell’attività di Finanza
Mutualistica e Solidale, specificando che
tale attività, pur rientrando probabilmente
nell’alveo normativo del microcredito, non
è riconducibile in alcun modo ad esso
e rischia pertanto di uscire fortemente
ridimensionata, se non di scomparire,
dalle previsioni dell’attuale normativa che
propongono stringenti limitazioni; richieste
di interlocuzione politica che non trovano
risposta alcuna; messa in consultazione della
famigerata
“sufficientemente
flessibile”
normativa ministeriale di attuazione che
regola l’art. 111 del nuovo Testo Unico
Bancario; risposta da parte delle Mag alla
consultazione; approvazione definitiva anche
del regolamento attuativo dell’art. 111 del
TUB, che entra in vigore in data 16 dicembre
2014.
Risultato finale di tutto questo iter legislativo:
nel rispetto di una parvenza democratica,
la Finanza Mutualistica e Solidale viene
formalmente riconosciuta all’interno della
normativa secondaria ma, nella sostanza, i
vincoli previsti dal nuovo regolamento sono
tali da mettere seriamente in discussione
l’operatività e la sostenibilità economica delle
MAG. Con la muova normativa circa il 50%
degli attuali finanziamenti delle MAG sarebbe
irrealizzabile, comportando la mancata
34
concessione di finanziamento a soggetti
meritevoli di portare avanti progettualità
sociali, che spesso risultano “non bancabili”
nel mercato del credito bancario.
Una lettura sicuramente parziale dell’iter
legislativo
È ammissibile che una legge dello Stato
intervenga a normare un settore senza
conoscerlo in tutte le sue sfaccettature? È
ammissibile che una lettura complessa della
realtà sia sacrificata per esigenze di controllo?
È ammissibile che una legge sia causa di
interruzione di una sperimentazione sociale
funzionante e apprezzata?
Da cosa trae fondamento il diritto? Dalla
dimensione logica del suo costrutto o dalle
prassi sociali, al di fuori delle quali resta lettera
morta?
Le leggi non dovrebbero essere in grado di
corrispondere alle esigenze degli individui,
riconoscendole a livello istituzionale?
In un quadro malinconico e desolante
come quello attuale, dove forte è il bisogno
generalizzato di ricostruzione di un senso
di esistenza, di sperimentazione di nuove
pratiche di relazione, di ricomposizione del
tessuto comunitario, continuare a procedere
con l’obiettivo unico di razionalizzazione e
difesa dell’esistente, considerando come
minaccia ogni proposta innovativa, ci sembra
veramente paradossale.
E lo è ancor più quando questa difesa
dell’esistente avviene nel campo su cui più
di ogni altro si sta concentrando il malumore
della società civile: quello finanziario.
Come è possibile che un iter legislativo
ignori i pareri di ben tre commissioni
parlamentari? Com’è possibile che un
organo importante dello Stato (il Ministero
dell’Economia e delle Finanze) neghi l’ascolto
ed il confronto ad istanze che provengono
dal basso, dalla cittadinanza, per mancanza
di “rilevanza sistemica”? La sensazione è
che “la complessiva razionalizzazione del
comparto dell’intermediazione finanziaria
non bancaria” sia stata messa in atto per
soddisfare esclusivamente le esigenze del
sistema bancario.
È importante chiedersi allora chi fa le leggi in
questo Stato: perché se le decisioni vengono
prese altrove, in una sfera di potere opaca
nella quale pubblico e privato si confondono,
la politica perde inevitabilmente possibilità di
azione e credibilità. Se una legittima richiesta
della società civile viene commissariata in
nome dello stato di necessità, a essere messa
in discussione è la credenza stessa dei cittadini
nel valore della democrazia.
La salvaguardia della sperimentazione
sociale
Scrive Stefano Rodotà: “La democrazia
è vitale solo se non nega i problemi e le
aspettative dei cittadini, se non si chiude in
un bunker, ma accetta il conflitto delle idee
e degli interessi (ovviamente non violento
né distruttivo), riconoscendolo come un
decisivo fattore vivificante, che può e deve
essere portato a sintesi politica solo se viene
preso sul serio. La democrazia è l’opposto
della passivizzazione. Se il bisogno di essere
ascoltati, attivi, partecipi non trova degli
alvei adeguati, che il diritto può contribuire
a costruire, le forme democratiche soffrono e
rischiano di non tenere più”.
Ma dov’è un luogo democratico dove si forma
l’agenda politica di una comunità, sia essa
un comune, una regione, una nazione o un
continente? Esistono spazi politici reali e non
formali dove il primo obiettivo sia quello di
favorire la discussione, il confronto aperto tra
visioni diverse della società? La questione di
fondo però è che i cittadini organizzati danno
fastidio e la velocità dei processi economici
considera i procedimenti democratici più un
ostacolo che un’opportunità: è evidente che
stiamo assistendo dunque a un’involuzione
autoritaria.
La crisi che stiamo attraversando, non solo
economica, richiede invenzioni a livello
comunitario, sociale, politico, artistico e
spirituale che investono la capacità di guida,
l’etica, l’immaginazione e il coraggio: tutte
qualità che non appartengono a modelli di
razionalizzazione totale dei sistemi sociali.
Certamente la legge può istituzionalizzare
il cambiamento, dargli forza e dirigere e
ordinare il progresso sociale, ma non può fare
a meno di radicarsi nelle prassi concrete in
grado di soddisfare i bisogni ma anche i valori
delle persone e delle comunità.
Molte iniziative che si stanno diffondendo
all’interno della società civile sono di difficile
realizzazione a causa di normative che non ne
permettono lo sviluppo essendo configurate
per realtà di grandi dimensioni e con logiche
solo di profitto e di controllo, a garanzia di
standard di tutela pensati per un individuo
visto come mero consumatore: questo genera
una fissità sociale che non si apre alle esigenze
e alle richieste degli individui, sempre più
desiderosi di processi partecipativi e di
autogoverno.
La tenace costruzione di percorsi di
trasformazione
Se la politica, come appare evidente, risulta
essere oggi l’ambito più resistente alla
democratizzazione, occorre ripartire dalla
capacità trasformatrice delle esperienze
più vicine a noi. Occorre trovare il modo di
organizzarsi per salvaguardare tutti quegli
spazi di sperimentazione sociale nati per
ricercare un altro modo di costruire la società.
Ma esiste nelle nostre molteplici progettualità,
nate da desideri di trasformazione e
cambiamento, una forza sufficiente per
organizzarsi? E se sì, come?
Come organizzarsi, senza creare un’ennesima
organizzazione?
Come
organizzarsi
in
molteplici maniere per vivere i mondi che
vogliamo creare?
Partendo dalla loro esperienza di autogestione
del denaro, dalla loro attività di finanza
mutualistica e solidale che in oltre trent’anni
di attività ha incrociato e sostenuto tantissime
sperimentazioni sociali, le Mag italiane, pur
non sapendo se la loro operatività futura potrà
essere garantita in seguito alle modifiche
legislative del Testo Unico Bancario, lanciano
un appello a tutti gli attori e le attrici che
stanno lavorando per la costruzione di un
mondo non solo più sostenibile, ma anche
profondamente desiderabile, con lo scopo di
aprire uno spazio politico capace di mettere
in moto una necessaria ricomposizione sociale
di tutte quelle pratiche di sperimentazione
della società civile nate per la creazione di
spazi di soggettività, di crescita, di autonomia,
che hanno al centro il perseguimento del
“benvivere” di tutti.
Ci piace immaginarci insieme ad un “corpo
sociale” capace, pur nella specificità dei
vari ambiti di intervento, di connettersi in
maniera armoniosa con un senso della vita
più profondo, dove non possa trovare spazio
né la stupidità del potere né la logica di
sopraffazione sugli altri che da esso discende.
E quindi? Nessuna ricetta: potremmo però
cominciare a contarci e capire, con chi ci
sta, come indire una sorta di “Stati generali
dell’autogestione
e
dell’autogoverno”,
per riappropriarci responsabilmente di
quegli spazi di senso che quest’ondata di
regolamentazione aggressiva, con la scusa di
volerci tutelare, ci sta sottraendo.
35
vocidic
orridoio
a/c della Redazione
Profughi
di Saverio Morselli
segnalidipace.wordpress.com
“Vediamo espandersi come un contagio in
tutta l’Europa questo clima di ostilità verso
l’altro, soprattutto se povero, di gretto
egoismo tribale, in un continente di cui solo
pochi anni fa si decantavano le profonde
radici cristiane e la cultura solidaristica dei
ceti operai e dello stato sociale” (Enzo
Bianchi, su La Stampa del 26/04/2015).
“Lo straniero al quale sia impedito nel
suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione
italiana ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite
dalle legge”. È vero, la Costituzione italiana
è composta da 139 articoli e pensare di
conoscerli tutti, uno a uno, risulta piuttosto
36
arduo. Tuttavia, ciò che sta accadendo
nel Mar Mediterraneo e sulle nostre coste
impone di ricordare l’esistenza dell’art.10,
in verità mai particolarmente pubblicizzato,
non fosse altro che per evidenziare che il
dovere dell’accoglienza trova riscontro e
dignità nella più alta fonte normativa e non
solo nei convincimenti etici di qualcuno.
Il massiccio arrivo di profughi provenienti
dalle zone dell’Africa orientale e subsahariana e del medioriente, sta infatti
provocando nell’opinione pubblica una
reazione emotiva contraddittoria, che va
dal dovere dell’accoglienza al cinismo del
respingimento, da un partecipato sentimento
di orrore per le stragi in mare all’idea malata
dell’affondamento delle imbarcazioni ancora
prima della partenza e della chiusura delle
frontiere.
Il tutto accompagnato e scandito dai
numeri: 170.000 arrivi in Italia nel 2014,
100.000 soccorsi con l’operazione Mare
Nostrum in un anno di attività e oltre 1.700
morti annegati nel Mediterraneo dall’inizio
dell’anno.
Nei primi quattro mesi del 2015 sono
sbarcate in Italia 34.000 persone, il 15%
in più dello stesso periodo dello scorso
anno, e il trend è in aumento. Di fronte a
quei volti sconvolti, a quei corpi smagriti e
a quegli occhi spalancati è comprensibile
chiedersi che cosa spinga questa gente
ad affrontare le violenze, le privazioni, il
pericolo di perdere la loro stessa vita pur di
partire. Ed allora, si dovrà finalmente fare
uno sforzo per comprendere che questa
gente fugge dalla guerra, dalla fame, dalla
negazione della libertà e dei più elementari
diritti umani, dalla mancanza di un futuro
degno di questo nome. Si dovrà pur capire
che chi non ha più nulla da perdere accetta
ogni tipo di rischio pur di sopravvivere. E si
dovrà convenire, prima o poi, che la fuga da
queste aree devastate dell’altra parte del
Mediterraneo non può essere considerato
un fatto temporaneo o emergenziale, bensì
un evento strutturale che potrà essere
affrontato con soluzioni altrettanto strutturali
di lunga e complessa gestione.
Il dibattito nel nostro Paese, stretto tra
pietà, indifferenza e spietatezza, si muove
all’interno di un assioma banale ma
comunque condiviso: “accogliere tutti è
impossibile”. Certo che è impossibile, per
quanto vi siano Nazioni (Libano, Giordania
e soprattutto Turchia, per fare qualche
esempio) che si fanno attualmente carico
di un numero impressionante di sfollati.
Più correttamente, dovremmo dire che è
concettualmente “impossibile” pensare
che tutti coloro che sbarcano in Italia siano
destinati a restare (cosa che per altro molti di
loro neppure vorrebbero), magari per mesi
o anni a carico dello Stato in attesa di veder
riconosciuto il proprio status di rifugiato.
Non è certo pensabile che chi fugge dalla
disperazione ambisca a soggiornare in una
sorta di carcere in un altro Paese. Eppure
accade: l’anacronistico Regolamento di
Dublino, in vigore negli Stati che aderiscono
all’UE, limita la destinazione dei profughi
disponendo che lo Stato competente
all’esame della domanda di asilo sia quello
in cui il richiedente mette piede per la
prima volta. La decisione delle autorità sulla
richiesta del richiedente può arrivare dopo
sei mesi e, in caso di diniego, è soggetta a
ricorso e in quell’anno-anno e mezzo che
trascorre il rifugiato deve rimanere rinchiuso
in una struttura di “accoglienza”.
In presenza di questa norma, è stato facile per
tanti Stati europei esprimere una solidarietà
di facciata all’Italia per il ruolo che svolge
nel Mediterraneo e – contestualmente
– chiamarsi fuori dall’offrire ospitalità.
L’inefficacia di Triton, una sorta di Mare
Nostrum sottocosto fallita miseramente,
unita all’aumento esponenziale degli sbarchi
e delle vittime pare tuttavia aver dato
una scossettina all’immobilismo europeo,
determinando un piano articolato che
prevede, tra l’altro, un sistema di quote
obbligatorio attraverso il quale assegnare
ai diversi stati quelli che “hanno diritto di
restare” e il sostegno a una non meglio
definita “operazione antiscafisti” da attuarsi
sotto copertura ONU.
Se la attribuzione delle quote ha trovato
immediatamente l’opposizione di alcuni
Stati membri che non ne vogliono sapere
perché – dicono – di stranieri ne hanno già
abbastanza (in primis Gran Bretagna, Francia,
Ungheria e Polonia) e attende di essere
ulteriormente definita (*), una agevole intesa
è stata trovata in ambito UE nell’agitare lo
spettro di azioni militari “preventive” sulle
coste libiche da dove partono le carrette
del mare, che vanno dal blocco navale
alla distruzione delle imbarcazioni in porto
sino ad azioni di commando, droni da
combattimento e quant’altro. Autentici atti
di guerra da condurre disinvoltamente con
autorizzazione ONU (data per scontata)
in base al Capo VII della Carta istitutiva,
evocando “tutte le misure necessarie” già
utilizzate in un vergognoso recente passato
per sgominare i trafficanti di esseri umani,
come se i “flussi migratori” esistessero
perché ci sono gli scafisti e non il contrario,
ovvero che gli scafisti esistono perché
esiste il problema della gestione di quanti
fuggono da guerre e ingiustizia. Nonostante
l’evidente insensatezza dell’opzione militare
(è possibile essere certi che una imbarcazione
viene usata per fini criminali solo quando è
in mare, altro che “bombardare i barconi in
porto”!), la UE prova a rispondere ai cultori
della semplificazione e ai pensatori di pancia
con una immagine muscolare che vorrebbe
fermare l’esodo invertendo causa ed effetto.
In realtà, non può esistere una soluzione
militare alla tragedia che si sta consumando
nel Mediterraneo. La soluzione – complessa,
faticosa, dispendiosa – può essere
credibilmente ipotizzata da un lato lavorando
diplomaticamente per la stabilizzazione
della Libia, favorendo nel medio periodo
il dialogo tra la miriade di parti in causa, al
fine di porre rimedio a una frammentazione
che rende impossibile la realizzazione di
accordi per una accoglienza in quel Paese
dei profughi che non sia solo violenza,
detenzione e sfruttamento.
Dall’altro, nel lungo, lunghissimo periodo,
solo un epocale mutamento di strategia
politica ed economica dell’Occidente e
delle altre potenze mondiali nei confronti
dell’Africa può favorire la già esistente
crescita di quel continente e contribuire
contestualmente alla normalizzazione di
quelle aree di ingiustizia e prevaricazione
che avvelenano la vita delle popolazioni.
Insomma, un “miracolo”.
Nell’attesa, esiste una credibile alternativa
alla attivazione di corridoi umanitari?
(*) Le notizie di questi giorni hanno tuttavia
rimesso il dubbio l’assegnazione per quote,
ipotizzando esclusivamente l’accoglienza di
profughi da parte dei Paesi UE solo su base
volontaria.
37
Immigrazione
al di là dei problemi
e delle opportunità
Karim Metref, 29 luglio 2015,
www.labottegadelbarbieri.org
Questi giorni con gli eventi di Ventimiglia,
Roma e Treviso, torna la questione
immigrazione sulla prima pagina dei giornali.
Torna la sindrome dell’assedio. Torna lo
scontro tra “buoni” e “cattivi”. Molti, anche
tra i buoni, cominciano a pensarla con la
Merkel: “non possiamo portarli tutti qui da
noi.” Altri hanno già fatto il passo e hanno
superato la barriera del “non siamo razzisti
ma…” per andare verso un discorso e un
atteggiamento apertamente razzisti, violenti,
esclusivi, perché ormai tale discorso è
sdoganato a alti esponenti delle istituzioni.
Se il vice presidente del senato può dare
della scimmia a una parlamentare nera, se
un parlamentare europeo può dire che i Rom
sono la feccia dell’umanità… senza subire
conseguenze, allora perché non si potrebbero
bruciare i campi Rom? Perché non si possono
aggredire i profughi? Perché non si potrebbe
esultare se muoiono in mare? Nel frattempo il
paese va a frantumi e 80 mila giovani vanno a
cercare futuro altrove.
38
L’uomo “nero” è sempre in agguato
In Italia, la paura “dell’uomo nero” torna
ciclicamente poi scompare per un po’ poi
torna di nuovo. Ci ricordiamo tutti la paura
del romeno stupratore che ha preceduto
la rielezione del governo Berlusconi nel
2008. Sembrava che dietro ogni albero si
nascondesse un romeno in calore, pronto ad
assalire la dolce ragazza o la brava massaia
(italiane ovviamente) di passaggio. Il dibattito
andò avanti per mesi. Vi partecipò tutta la
stampa. E anche quella presunta di sinistra
non si tirò indietro e lanciò la sua pietra
sull’immigrato cattivo e ingrato come ad
esempio nel dibattito avvelenato lanciato su
La Repubblica dalla lettera intitolata: Aiuto,
sono di sinistra ma sto diventando razzista.
Il razzismo si stava svelando un ottimo
fondo di commercio elettorale e il Centro
sinistra italiano voleva anche lui partecipare
al banchetto. Poco dopo il governo Prodi
adottava “Provvedimenti immediati e forti
contro la violenza nelle strade delle città
italiane” facilitando l’espulsione, perché è
ovvio che la violenza sono gli stranieri. E
Walter Veltroni allora in campagna elettorale
per un nuovo mandato alla testa del Comune
di Roma contro un Alemanno che era alla testa
dei cori razzisti, dichiarò: «prima dell’ingresso
della Romania nell’Unione europea, Roma era
la città più sicura del mondo». Peccato per loro
che ogni volta che la sinistra imita la destra,
la gente preferisce votare l’originale invece
che la fotocopia. E nonostante il loro discorso
razzista persero entrambe quelle elezioni. Poi
durante l’era Berlusconi, l’immigrato violento
è scomparso dalle prime pagine. Il paese era
di nuovo tornato ad essere il più tranquillo del
mondo.
Oggi l’immigrazione torna in prima pagina.
Perché ci sono aumenti drammatici dei
numeri? Le statistiche non lo dimostrano. Anzi
vedremo più avanti che è l’esatto contrario.
Cosa succede allora? Cosa spinge la gente
a uscire per le strade contro i Rom, contro i
profughi, contro i migranti? C’è la crisi. Una
crisi senza precedenti e alla quale la classe
politica non è assolutamente in grado di dare
risposte. Allora ci vuole il capro espiatorio, ci
vogliono gli scontri di strada, lo spauracchio
dell’estrema destra che sale, sale. E va a finire
che l’estrema destra sale per davvero.
Invece di affrontare i problemi alla base ci
si scontra sul destino di qualche migliaia di
profughi: buttiamoli a mare, dice la destra;
accogliamoli come fratelli, dice la chiesa;
facciamone una risorsa, dice la sinistra.
Cos’è l’immigrato o il profugo che sbarca da
un gommone a Lampedusa o scende da un
aereo o da un pullman a Roma o Milano? È
un problema? Un occasione per fare opera
di carità e meritarsi il paradiso? Oppure è
una opportunità, una risorsa economica
e culturale? Sono decenni che il dibattito
sull’immigrazione non solo in Europa ma in tutti
i paesi ricchi del mondo, si riassume in queste
tre posizioni. Sono decenni che la politica sia
livello locale, nazionale che mondiale rifiuta
di guardare il problema alle sue radici. Rifiuta
di superare la domanda: Cosa farne una volta
arrivati ai confini del mondo ricco? Rifiuta di
porsi la domanda: perché partono? E perché
in condizioni sempre più disperate?
Ma perché partono?
Mi ricordo come oggi, quando verso fine anni
80, il Signor Michel Camdessus girava l’Africa
per dettare le condizioni del Fondo monetario
Internazionale riguardo ai debiti accumulati
dai paesi del continente. La cortina di ferro
era caduta e il pericolo di una adesione di
massa dell’Africa al blocco socialista non
c’era più. E allora le banche sono venute a
chiedere il rimborso delle somme versate ai
governi africani “amici”. Somme in realtà in
larga parte ritornate nelle casse delle stesse
banche ma sui conti personali dei dittatori e
delle loro famiglie. La ricetta che proponeva
il Sig. Camdessus era molto semplice: meno
scuola, meno cultura, meno sanità pubblica,
meno settore pubblico… privatizzare tutto.
Nessuna riforma costituzionale, nessuna
lotta alla corruzione, nessuna esigenza di
trasparenza, nessuna riduzione degli sprechi
dei governanti…
L’Africa emigrava già da un paio di secoli.
Volontariamente o involontariamente, la
mano d’opera africana era esportata verso il
resto del mondo. Ma almeno dalla fine della
tratta degli schiavi fino ad allora, la gente
aveva migrato in condizioni dignitose. Chi
se lo poteva permettere, prendeva l’aereo
o la nave e si recava in Europa o in America
per cercare un lavoro meglio retribuito. Chi
restava in paese aveva riusciva a costruirsi una
vita dignitosa.
All’inizio degli anni 90 comincia ad apparire il
fenomeno dei “desperados” della migrazione.
Giovani che dai paesi dell’Africa subsahariana
partono a piedi o con mezzi di trasporto di
fortuna, senza documenti e con pochi soldi
in tasca: direzione Nord. Sono decine, poi
centinaia poi migliaia. Mi ricordo che nel
1992 sono andato in vacanza a Tamanrasset,
nell’estremo sud dell’Algeria. E già c’era un
ghetto di migranti. Gente che sostava lì in una
specie di bidonville indescrivibile, in attesa di
trovare una occasione verso il mare. Si entrava
da Bordj Bagi Mokhtar, la punta più a Sud
del Maghreb, ma la destinazione era verso il
Nord del Marocco o verso la Tunisia e la Libia,
laddove le coste del Nord Africa e dell’Europa
si sfiorano. Nonostante le condizioni disumane
del viaggio, nonostante le aggressioni, le
violenze, le umiliazioni e la morte in agguato,
i numeri di candidati all’immigrazione a tutti i
costi sono aumentati in modo costante.
È già a quella epoca che bisognava porsi la
domanda. Non “perché arrivano da noi e cosa
ne facciamo?” ma “perché partono?”
Problema o risorsa?
“L’immigrazione è una risorsa, non un
problema.” ha sempre ribadito la sinistra
italiana dall’adozione di quella prima legge
sull’immigrazione firmata nel lontano 1990 dal
socialista Claudio Martelli.
In effetti l’immigrazione è stata una risorsa
economica ma a favore del padronato e
delle mafie della falsa accoglienza e della
vera repressione. L’Italia doveva il suo
miracolo economico a una formula che
assomiglia a quella cinese di oggi: fare
prodotti in concorrenza con quelli dei
grandi paesi industriali ma con una mano
d’opera che costava meno della metà. Negli
anni 90 quella formula era ormai obsoleta.
Da una parte, grazie alle lotte, l’operaio
italiano aveva acquisito molti vantaggi e
migliorato di molto la propria condizione.
Dall’altra entravano in scena nuove potenze
economiche i cui lavoratori guadagnavano
10 volte meno di quello italiano. Le leggi
sull’immigrazione adottate in Italia furono fate
su misura per fornire all’industria, all’edilizia
e all’agricoltura italiana una nuova mano
d’opera portatrice di meno diritti e pretese.
L’arrivo di milioni di immigrati ha permesso ai
padroni italiani di rimandare per qualche anno
la delocalizzazione o la chiusura. Ma non ha
fatto che rimandare i problemi a oggi.
Come al solito, invece di affrontare il
problema alla base. Riformare, modernizzare
il sistema produttivo, investire sulla ricerca e
l’innovazione, incoraggiare la qualità… si è
scelto un escamotage. Intanto c’era questa
39
mana di dio che premeva alla porta e ogni
anno confindustria faceva pressione sul
governo per aumentare le quote di ingresso.
Ma siccome si trattava anche di mantenere
queste popolazioni nella precarietà e lo
stato di forza lavoro usa e getta, bisognava
lamentarsi in continuazione dei numeri troppo
alti, dell’eterna emergenza immigrazione.
L’immigrato non è né un problema né
una risorsa. É un essere umano. Un essere
umano che come tutti gli altri è portatore di
potenziale positivo e negativo. É spesso una
persona forte, decisa e pronta a fare di tutto
per farcela. Quello che farà dipende da quello
che troverà nella società di arrivo. Se la società
è onesta e laboriosa, l’immigrato si integrerà
tramite il lavoro e il rispetto delle regole. Se
è una società corrotta e criminogena allora
l’integrazione si farà anche tramite le attività
illegali, la violenza, la corruzione, la criminalità
organizzata. L’immigrato è sempre l’ultimo
arrivato, quello che ha diritto ai lavori meno
pagati e più difficili, sporchi e pericolosi. E
questo in tutti i settori dell’economia formale
e informale. E se alcuni di questi settori sono
lo spaccio di droga e la prostituzione (ad
esempio) allora l’immigrato sarà la parte più
esposta e più visibile di queste industrie: lo
spacciatore e la prostituta di strada. e nei settori
economici formali se basati sul lavoro nero
(com’è buona parte dell’economia italiana)
allora l’immigrato sarà il bracciante sudanese
senza contratto, pagato 2 euro all’ora, che si
accascia sotto il sole cocente del Gargano.
40
Sarà il marocchino che pomperà i pesticidi
senza protezioni sotto le serre a Imperia o a
San Remo o il romeno che si arrampica senza
adeguate protezioni sull’impalcatura di casa
tua.
Ma se lo fanno è perché un sistema malato
glielo impone, non perché a loro piace lavorare
e vivere (o morire) in quelle condizioni.
governo razionale delle questioni legate
all’immigrazione rende la convivenza più
facile e i processi di interazione più benefici.
Ma la questione della “governance” (come si
dice in certi ambienti bene) non può essere
posta per la sola immigrazione.
Questo non vuol dire che dietro all’arrivo in
massa di popolazioni diverse non ci siano
problemi. I problemi ci sono e sono numerosi.
E il ritmo e i quantitativi di popolazioni in
spostamento negli ultimi decenni rendono
questi problemi sempre più duri da risolvere,
con tempi più stretti e sempre meno risorse.
Ma vuol dire due cose in particolare:
2. la questione dei flussi è globale e riguarda
quasi tutti i paesi del mondo. I paesi più
colpiti con i flussi di migranti e di profughi
non sono i paesi ricchi (Europa, Nord America,
Giappone, Australia, Paesi del Golfo Persico..)
anche se sono spesso quelli che si lamentano
di più. Le masse più impressionanti di migranti
e profughi sono nei paesi poveri. Quelli giusto
un po’ meno poveri del paese vicino o quelli
che stanno accanto a nazioni che subiscono
una situazione di guerra o di calamità naturali.
Basta pensare a paesi come il Libano o la
Giordania che subiscono da anni la presenza
di milioni di profughi palestinesi, iracheni e
siriani, mentre l’Europa fa a botte per spartirsi
quelle poche decine di migliaia che riescono
ad arrivarci. Quindi le questioni dei flussi
vanno affrontate a livello globale e alla base.
Ed è questo problema globale che la politica
rifiuta di guardare in faccia.
1. il problema dell’immigrazione in un
territorio si adegua alla gestione del territorio
stesso. In un territorio gestito bene anche
l’immigrazione porterà un suo contributo alla
ricchezza generale. In un territorio mal gestito
anche l’immigrazione porterà il suo contributo
al disordine generale. Ed è certo che un
Che fare se non vuoi affrontare i tuoi
problemi?
Oggi non solo la situazione del Sud del mondo
è peggiorata ma i mali che lo colpiscono stanno
arrivando alle porte dell’Europa. L’Africa è
tutto un rogo. Guerre ovunque. La terra e
le risorse sono sempre più monopolizzate
Il problema è solo nostro?
L’emigrazione è un grande problema
innanzitutto per i paesi di partenza più che
per quelli di arrivo. Campagne abbandonate,
economia svuotata, partenza dei giovani,
dei talenti, dei potenziali, delle intelligenze,
demotivazione, smembramento delle famiglie,
bambini che crescono senza genitori…
dalle multinazionali senza nessuna ricaduta
positiva sul territorio. Guerra e multinazionali
sembra essere il destino di tutti i paesi in
via di sviluppo e non solo. Ormai parte del
Nord Africa e del Medio oriente si trova nella
stessa situazione. Guerre e multinazionali che
continuano a pompare ricchezze in mezzo
alla confusione. Ma la brutta notizia è che
quelli che hanno messo in moto la macchina
infernale per il terzo mondo, oggi sono seduti
al capezzale della Grecia, del Portogallo,
della Spagna e dell’Italia. La Signora Lagarde
ha sostituito il Signor Camdessus, ma la lista
delle raccomandazioni del fondo monetario
sono rimaste le stesse: meno scuola, meno
sanità, meno cultura…
Non appena arrivate le politiche di austerità,
i giovani del Sud Europa hanno ripreso la
strada dell’emigrazione. In Italia per la prima
volta da 20 anni i flussi in arrivo diminuiscono
e aumenta il numero di residenti stranieri che
lasciano l’Italia. Invece è notevole l’aumento
di emigranti (anche se la parola è ormai
scomparsa dal vocabolario sostituita da
“italiani residenti all’estero”) italiani verso
l’estero (vedere rapporti Istat e Aire del 2014).
Un giorno dopo la morte di Mohammed che
raccoglieva pomodori nella pianura di Foggia,
Ilario, un giovane italiano della provincia di
Sondrio, cadeva in un canale di irrigazione e
moriva annegato in una diga nei pressi della
tenuta agricola australiana dove lavorava
come bracciante. Ilario non è morto per le
condizioni particolarmente dure del lavoro
come Mohammad. Ma la sua morte mette in
luce i circa 15.000 giovani italiani sfruttati nelle
piantagioni australiane come braccia a basso
costo. L’emergenza è quindi di emigrazione
o di immigrazione? Di che cosa stiamo
parlando tutti i giorni in Tv? Perché si affronta
il problema immigrazione invece di guardare
alle radici stesse della crisi? Perché la politica
(e quindi anche la stampa a lei collegata) non
ha risposte da dare. E quindi? E quindi, la
formula è vecchia come il mondo: “sbatti il
mostro in prima pagina!”
La Grecia insegna
L’esempio della Grecia ce lo racconta molto
chiaramente come la questione immigrazione
sia un fattore di distrazione dai problemi veri.
All’inizio della crisi, in Grecia crescevano i
pogrom contro gli immigrati. Alba dorata
apparsa dal nulla era diventata il primo partito
del paese. Ma quando una coalizione di sinistra
ha preso le proprie responsabilità e tentato
una narrazione della crisi che non è quella
delle lobby e delle banche la speranza è rinata
e la gente ha smesso di vedere nei migranti la
fonte di tutti i loro mali. Questo almeno fino
alla nuova impasse in cui è entrata la trattativa
tra il governo greco e le istanze europee.
Ora, se saranno solo i poveri a pagare la crisi,
sicuramente i pogrom riprenderanno e Alba
dorata ricomincerà a brillare.
In Italia, dall’Inizio della crisi, Salvini è in Tv
tutti i giorni e a tutte le ore. La Lega che era
quasi morta è resuscitata miracolosamente. E
con lei sono risuscitati spettri di altri tempi che
finora erano nascosti nelle catacombe della
storia. Ce n’è bisogno. The show must go on!
É chiaro quindi che la questione immigrazione,
pur non priva di problematicità, sembra la
madre di tutti i problemi soltanto perché chi
ne ha la capacità e i mezzi: politica e media,
lo usa per togliere l’attenzione da quelli veri.
Per continuare a gestire giorno dopo giorno
un sistema che sta mandando il pianeta in
frantumi. Per distogliere l’attenzione dal fatto
che le risorse si stanno raccogliendo tra le mani
di una fetta sempre più ridotta di persone e
che le frontiere tra la povertà e la ricchezza
si stanno muovendo velocemente. Il dibattito
che si fa qui sugli africani, gli est-europei e i
mediorientali, in svizzera si fa già sugli europei
del sud. E il referendum dell’anno scorso per
limitare le quote di immigrati non riguardavano
quella extracomunitaria che era da sempre
limitata ma quella europea. Nel mirino erano
gli Italiani, Spagnoli e Portoghesi sempre più
numerosi nelle città della Confederazione
elvetica.
Insomma dire che non esiste il problema delle
migrazioni o che l’immigrazione è solo un
bene è una menzogna. Dire che esiste solo
il problema dell’immigrazione è una truffa.
Una truffa che per farci dimenticare il fatto
che la casa ci sta crollando addosso concentra
tutta l’attenzione sull’opportunità o meno di
blindare le porte e le finestre.
41
sollecit
/azioni
a/c della Redazione
Il cemento
un vizio di famiglia
Di Edoardo Salzano, tratto da:
“Rottama Italia. Perché il decreto
Sblocca-Italia è una minaccia per la
democrazia e per il nostro futuro”,
edizioni Altreconomia, 2015
42
Craxi, Berlusconi, Renzi. Tre autori del
disastro.
Tutti gli elementi nefasti della controriforma
iniziata trent’anni fa sono presenti nel
decreto Sblocca-Italia.
Ho parlato di una controriforma iniziata
trent’anni fa: Matteo Renzi è il prolungatore
e completatore di un processo iniziato
in Italia tra la fine degli anni Settanta e
l’inizio degli Ottanta. Non è casuale la
coincidenza temporale tra quel processo
e l’affermazione del dominio di quello che
chiamiamo “neoliberismo”, e che Luciano
Gallino ha definito “Finanzcapitalismo”.
Mentre in Gran Bretagna e negli Usa
trionfano Margaret Thatcher e Ronald
Reagan, mentre Milton Friedman e i Chicago
boys diventano, dopo l’esperienza cilena, i
consiglieri dei governi del Primo mondo, in
Italia sale al potere Bettino Craxi.
È l’inizio dell’affermazione di un’ ideologia e
una prassi che si riveleranno vincenti. “Meno
Stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli”,
“privato è bello” ne sono gli slogan,
proclamati non solo dai “modernizzatori”
craxiani ma anche nella sinistra.
Tra gli strumenti principali della prassi
craxiana ecco apparire, e presto dominare,
l’“urbanistica contrattata” (cioè l’assunzione
degli interessi immobiliari come motori
delle scelte sull’uso del territorio), e la
deroga sempre più ampia degli interventi
sul territorio dalla logica e dalle regole della
pianificazione.
La benemerita azione del pool Mani Pulite
svela il pauroso intreccio di reati contro
l’interesse collettivo che quella prassi ha
generato, nel quadro di un più ampio
asservimento delle funzioni pubbliche agli
interessi privati di persone, partiti, fazioni.
Ma l’Italia politica non è pronta a raccogliere
il messaggio tacitamente lanciato da
quell’indagine.
Ecco invece “scendere in campo” Silvio
Berlusconi.
Meglio di Craxi ha saputo forgiare il cervello
degli italiani, con l’uso sapiente del suo
potere mediatico e la capacità di cogliere,
nelle pieghe del carattere degli italiani,
i lati peggiori e più utili all’affermazione
della sua strategia di potere: l’insofferenza
alle regole valide per tutti, il clientelismo
familistico, il dolore nel pagare le tasse (a
metà del ventennio berlusconiano un uomo
che, come Tommaso Padoa-Schioppa,
affermava “Le tasse? Bellissime. Un modo
civile di contribuire ai servizi” appariva del
tutto fuori dal mondo.)
È inutile dilungarsi troppo sulla concezione
e sulle pratiche della fase berlusconiana nel
governo del territorio: lo hanno criticato in
molti, compresa una buona parte di quelli
che oggi applaudono al suo successore.
Un’immagine e due slogan sono sufficienti a
sintetizzarle. L’immagine è quella che espose
nello studio televisivo del suo scudiero
Bruno Vespa: l’Italia delle mille autostrade
e del trionfo delle Grandi opere. Gli slogan
sono: “Ciascuno è padrone a casa sua” e “È
giusto non pagare le tasse”.
Un atto amministrativo (che ha avuto e
continua ad avere un effetto dirompente
quanto lo Sblocca-Italia) è il cosiddetto
“Piano casa”. Un provvedimento mai
tradotto in legge nazionale ma che ha
condotto le Regioni di tutte le latitudini
politiche
a
legiferare
conferendo
“premialità” a moltissimi proprietari di
immobili che volessero “valorizzare” i
propri edifici aumentandone la cubatura e
modificandone l’utilizzazione.
In deroga, salvo in pochi casi virtuosi, alle
regole urbanistiche e di edilizia vigenti (e
perfino, in Sardegna, ai precetti di tutela
paesaggistica). L’accodarsi dei governi
regionali
agli
indirizzi
berlusconiani
testimoniano il carattere quasi egemonico
della strategia craxiano-berlusconiana.
Il fatto che nel Lazio, oggi governato dal
centrosinistra, si voglia prorogare (ultra
legem) il “Piano casa” della precedente
giunta di destra è una delle molte prove
della continuità della politica del Pd con
quella dei due precedenti leader.
Renzi rappresenta certamente la piena
continuità con la strategia d’uso del territorio
espressa e praticata da Craxi e Berlusconi.
A quella dei due antenati Matteo aggiunge
però qualcosa di suo: al di là del linguaggio,
dell’appeal giovanilistico e scanzonato,
dell’uso di strumenti comunicativi idonei
alla percezione della “società liquida”, egli
coglie – come rafforzativo delle sua linea –
l’occasione offerta dell’austerity della troika
europea.
“L’Europa lo chiede” è uno slogan che
supera la necessità, per Matteo, di ricorrere
alle diverse, occasionali “emergenze”
utilizzate (e spesso artatamente provocate)
da Bettino e da Silvio.
È facile individuare nello Sblocca-Italia
le idee forza della strategia renziana.
Il primato dell’economia sulla politica
(e di un’economia che premia i ricchi
e punisce i poveri). La riduzione della
politica a strumento del potere dell’“asso
pigliatutto”, dove l’asso può essere bicipite
(Matteo+Silvio). La demonizzazione della
storia, come strumento per far apparire
migliore tutto ciò che è “innovativo” solo
perché è diverso da quel che è stato prima.
Ecco alcune delle conseguenze nei precetti
del decreto.
La sua visione cancella la molteplicità e la
ricchezza delle sue dimensioni del territorio:
l’essere la pelle del pianeta e l’habitat della
società.
Il territorio non è un patrimonio delle cui
qualità possano godere tutti e da accrescere
nel succedersi delle generazioni: è una
risorsa da sfruttare per accrescere il PIL (quel
totem contro cui Robert Kennedy pronunciò
nel 1968 il famoso anatema), per costruire
autostrade e altre infrastrutture per il
trasporto, centri commerciali, e direzionali,
grandi opere spesso inutili, o addirittura
dannose per gli stessi fini per cui vengono
proposte, ma utili per i gruppi finanziari che
ne raccolgono le rendite, spesso prodotte
dal danaro pubblico (cioè dalle tasse versate
da chi non le evade).
L’abitare non è un diritto di tutti gli
abitanti, quale che sia il livello di reddito:
è lo strumento per accrescere lo spreco del
territorio, e soprattutto il valore commerciale
della proprietà immobiliare.
Gli spazi e i servizi pubblici (a partire
dall’acqua, fino all’università) non sono
elementi spaziali e funzionali ai quali
chiunque può accedere per soddisfare
le esigenze, personali e sociali, non
soddisfacibili nell’ambito della propria
abitazione, ma diventano prestazioni
erogabili da operatori interessati non alla
qualità del servizio reso all’“utente”, ma dal
vantaggio economico che possono trarre
dal “cliente”.
È del tutto evidente che questa visione
comporta la necessità di indebolire, o
meglio scardinare, qualsiasi ostacolo che si
opponga al libero arbitrio dei saccheggiatori
del territorio. Ed ecco spazzare via le regole
che limitavano, e ancora tentano di limitare,
43
il potere dei proprietari immobiliari di modificare
a loro piacimento il suolo.
Ecco la generalizzazione delle deroghe,
dei “silenzi assensi”, degli altri strumenti di
deregolazione inventati agli albori del craxismo
e rafforzati negli anni successivi. Ecco, con
Renzi, riprendere quota e vigore quella perversa
invenzione del centrosinistra pre-renziano che è il
riconoscimento di “diritti edificatori”, spettanti a
ciascun proprietario fondiario.
Ma per eliminare le regole sull’uso del territorio
occorre abbattere i due baluardi che sorreggono la
loro efficacia: la pianificazione urbana e territoriale
come metodo e strumento dell’azione pubblica,
e la burocrazia delle istituzioni (quella privata si
moltiplica a dismisura).
Quella burocrazia pubblica che è essenziale
perché le regole stabilite nell’interesse pubblico
siano effettivamente rispettate.
Tutto ciò è chiaramente leggibile negli atti e nelle
parole di Matteo Renzi, fino al monstrum dello
Sblocca-Italia.
Ma il sigillo finale, dovrebbe fornirlo la proposta
di legge urbanistica di Maurizio Lupi. Quest’ultima
non è solo la ciliegina sulla torta: è la sintesi, e
insieme la traduzione in sistema permanente (al
di là dell’emergenza) di un nuovo regolazione del
rapporto tra gli attori nel processo di governo
delle trasformazioni del territorio.
Una regolazione che rovescia il rapporto tra privato
e pubblico elaborato nel corso di oltre due secoli.
Bravo Matteo, sei un gigante; ma noi aspettiamo
un Davide, possibilmente collettivo.
44
Il monografico è stato realizzato in collaborazione
con il gruppo di Alternativa Libertaria di Reggio Emilia;
per contatti: [email protected]
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