leggi in pdf - Cultura Commestibile

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direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello, aldo
frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
Con la cultura
non si mangia
29
N° 1
“La mia prima proposta
sarà di permettere
a tutti i consiglieri di vestire
una fascia tricolore
come quella dei sindaci
nei momenti
di rappresentanza
dell’istituzione”
“Noi rappresentiamo
la novità”
Eugenio Giani
dal discorso di insediamento
come presidente del Consiglio regionale
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
27
giugno
2015
pag. 2
Que viva Mexico
Simone Siliani
[email protected]
di
L
’intervista con Alessandro
Raveggi inizia all’uscita
dalla Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze, dove svolge
parte del suo insegnamento alla
New York University e continua in
via dell’Agnolo, fra un trancio di
pizza con lievito madre, chinotto
bio, progetti narrativi, e incontri
sorprendenti. Alessandro Raveggi,
classe 1980, è autore di “Calvino
americano” (Le Lettere, 2012), del
romanzo “Nella vasca dei terribili
piranha” (Effigie, 2012), della
prima introduzione italiana a “David Foster Wallace” (Doppiozero,
2014), e di “La trasfigurazione
degli animali in bestie” (Transeuropa, 2011). Animatore dei
movimenti culturali “Firenze delle
Letterature” e “Generazione TQ”,
è stato ricercatore borsista dal 2009
al 2011 in Letteratura italiana della
Universidad Nacional Autonoma
del Messico. Dove si accinge a
tornare per 2 mesi per un progetto particolare, da cui iniziamo la
nostra intervista.
Siamo all’inizio di un’avventura
letteraria, agli albori di un possibile
romanzo al quale vai a lavorare in
Messico: perché il Messico? Come è
iniziato questo lavoro?
Io, siccome ho vissuto in Messico
per più di tre anni, mi ero sempre
ripromesso di scrivere un omaggio
al Messico. Nel senso più lato del
termine: non qualcosa di necessariamente adulatorio o un apologo
per turisti, ma una mia idea ambientata a Città del Messico. Che è
una città che rappresenta molto del
Messico, ma allo stesso tempo è relativamente diversa dal paese stesso. Ma, visto che non pretendo di
essere un tuttologo del Messico, mi
fermo ad una grande megalopoli
e ho deciso di seguire una traccia
che avevo già iniziato ad elaborare,
cioè quella della presenza degli
italiani in Messico. Non alla Pino
Capucci, più legato alle coste, ma
buttandomi nella metropoli. E qui
gli italiani che trovi non sono solamente pizzaioli e ristoratori, ma
ci sono figure particolari: militanti,
professori accademici, studenti. E
proprio la figura degli studenti per
me è importante perché questo romanzo parte dall’esperienza di un
giovane studente bolognese, che si
trova a 20 anni a fare una specie di
Erasmus a Città del Messico, poi
si incontra con l’esperienza tragica
dei 43 studenti desaparecidos.
Il progetto di romanzo si chiama “44” perché lui diventerà in
qualche modo il quarantaquattresimo studente scomparso. Come,
non lo posso dire adesso, però è la
ricerca del contrasto fra meraviglia,
passione e disdetta, violenza di
cui un italiano può fare esperienza
in Messico. L’altro motivo è che,
avendo insegnato là, ho avuto
molti studenti che mi suggerivano
di scrivere un romanzo messicano.
Solo con la distanza, forse, è stato
possibile.
C’è un movimento in Messico legato
alla vicenda dei 43 desaparecidos: tu
pensi anche, nello scrivere il tuo romanzo, di incontrarlo, di interagire
con questo movimento e quindi di
far assumere al tuo lavoro anche un
aspetto politico?
Quando scrivo, di solito, non
faccio letteratura politica. Come
diceva anche Bolaño “ho sempre
voluto fare lo scrittore politico, ma
gli scrittori politici sono i peggiori”: proprio Bolaño ci rappresenta
un’idea di politica diversa. Infatti
sto lavorando sulle immagini delle
manifestazioni: vorrei presentare
quelle che sono le forze politiche
messicane senza caricarle di ideologia, vedendole come movimenti
studenteschi, ma non solo: pensiamo che i 43 scomparsi sono i
famosi “normalistas”, cioè studenti
delle scuole rurali, spesso poverissimi, la cui educazione si basa
su un’esperienza molto di base e
quindi loro stessi si definiscono più
come manifestanti che come studenti. Quindi io sto cercando una
serie di fotografie, non solo quella
emblematica delle 43 facce, e da
lì cerco di capire come a questi
stimoli potrebbe reagire un occhio
italiano, di un ragazzo di 20 anni,
che emblematicamente viene da
Bologna, cioè una città che negli
anni ha visto militanza, contestazione ma anche sconfitte. C’è più,
forse, un fattore antropologico:
descrivere questa violenza messicana come emblematica: non ci sono
soltanto i 43 desaparecidos, ma
anche la strage di Piazza Tlatelolco
del 3 ottobre 1968, c’è purtroppo
una quantità sterminata di massacri, di nefandezze che emergono
come dei fantasmi, in continuazione, nella storia messicana e l’esperienza di un italiano le attraversa.
Quindi non c’è necessità di fare un
lavoro di documentazione politica,
bensì di immagini, di fotografie,
di sensazioni. E per questo scelgo
il punto di vista di un italiano,
proprio per evitare anche possibili
retoriche. Credo che il ruolo di un
osservatore straniero debba essere
valutato con attenzione perché non
sempre chi è straniero e si trova in
un paese come il Messico credo
che possa al 100% intervenire sulle
vicende politiche perché appartengono alla cittadinanza del luogo;
anche per una sorta di rispetto io
mi sono sempre ritrovato al margine rispetto ad altri che talvolta
intervengono anche più degli stessi
messicani (penso alle famose Tute
Bianche nel movimento zapatista).
Ecco io mi vedo più come osservatore, forse per indole, ma anche
perché l’intervento di uno scrittore
straniero in una situazione politica
di un paese diverso è delicato.
Quindi un engagement diverso...
Sì, per questo ho scelto Città del
Messico, che è una realtà molto
complessa. Non è Oaxaca, non è la
costa, non è Guerrero; è una città
ambigua ed è proprio in quella
ambiguità che sia interessante andare a indagare. Ambigua perché ci
sono manifestazioni studentesche
ogni giorno che si fondono con
manifestazioni di maestri delle
realtà più rurali; allo stesso tempo
una società ipermoderna. La retorica lì è difficile farla.
Nel frattempo prima di partire e durante la permanenza in Messico, stai
realizzando un progetto per l’Estate
Fiorentina. Questa mi sembra una
novità per la manifestazione.
Sull’Estate Fiorentina, e in particolare sul tema dell’Arno che sarà
poi l’alveo in cui mi muover, stavo
da tempo pensando perché c’era
bisogno di raccontarla. Perché
secondo me è una zona ricchissima e allo stesso tempo un po’
morta di Firenze. Si dice sempre
che l’estate è altrove, non in città.
L’idea è venuta dall’esperienza
che ho fatto con la Notte Bianca
durante la quale ho scritto quattro
racconti, quattro ritratti narrativi
ispirati ad altrettante fotografie
che venivano fatte durante la
notte e quindi molto d’impatto,
d’assalto. E’ stato un esperimento
riuscito. L’idea è quello di diluire il
rapporto fra fotografo e narratore
nella narrazione dell’Estate e, in
particolare, quella dell’Arno. La
prima idea è stata quella di fare
un romanzo feuilleton, il romanzo
d’appendice che nell’estate di solito
trova il suo massimo compimento:
una cosa apparentemente leggera.
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Da lì è nata l’idea di lavorare con
il fotografo Francesco Natali per
dialogare attorno a questo racconto, diciamo, d’amore, di passione,
attorno all’Arno. Il fotografo andrà
a fare questi sopralluoghi settimanali e io scriverò ogni settimana
un racconto che, un po’ ironicamente, ho chiamato “romanzo da
spiaggia”. Si parla spesso, durante
l’estate, dei consigli di lettura, dei
romanzi da spiaggia che di solito
sono dei mattoni scritti da autori
irlandesi che non riguardano mai
le spiagge: volevo un po’ ironizzare
anche su questo, visto che spesso
mi si accusa di essere un autore
troppo difficile e sperimentale, o
massimalista nel senso un po’ barocco. Ogni settimana verrà fuori
un racconto, cinque o sei ritratti
di personaggi, ambienti, simboli
incagliati tra i flussi dell’Arno.
Che uscirà dove? In che modo?
Sicuramente si manifesterà sulla
spiaggia stessa, perché il progetto
nasce voluto da Riccardo Ventrella e da Easy Living per l’Estate
Fiorentina 2015, con un evento
finale. Il romanzo sarà distribuito,
in una modalità che ancora non
possiamo svelare; non sappiamo
ancora se soltanto online, oppure
anche in forma cartacea, legata
a qualche quotidiano. Uscirà da
metà luglio a metà settembre.
Ci lavorerai anche dal Messico?
Anche. Per me stare in Messico e
allo stesso tempo a Firenze è stato
un mio sogno. Sono stato tanti
anni là e ad un certo punto ho
pensato anche di rimanerci, ma
non ce l’ho fatta per nostalgia di
Firenze. Ma quando sono a Firenze
ho nostalgia del Messico.
È uno dei privilegi degli scrittori,
poter stare contemporaneamente in
più posti e tempi diversi, no?
Peccato che non si moltiplichino
i compensi. Però, scherzi a parte,
stare in molti luoghi per uno scrittore sarebbe fantastico.
Hai accennato ai compensi: uno
scrittore non sempre riesca a vivere di
ciò che scrive. Tu fai anche il professore e insegni letteratura italiana in
queste “mitiche” università americane a Firenze. Di cui tutti parliamo
senza, forse, avere ben chiara l’idea
di cosa parliamo: un’occasione, un
problema. Però chi ci lavora, come
te, forse può dirci qualcosa di più.
Immagino che sia un’esperienza anche per certi aspetti straniante perché
sei professore in un altro sistema
educativo.
Io sono destinato allo strania-
Intervista a Alessandro Raveggi, scrittore
diviso tra Città del Messico e Firenze
mento: in Italia ero l’italiano in
Messico con tutti i problemi del
lost in translation; poi quando ho
iniziato a insegnare in spagnolo
insegnavo letteratura italiana
in spagnolo; quando mi sono
abituato un po’ anche a pensare
in spagnolo ho deciso di tornare
in Italia; sono tornato a Firenze
e quello che faccio è insegnare
letteratura italiana a studenti
americani in università statunitensi
che sono a 10.000 chilometri di
distanza da qui. Un’esperienza
anche questa formativa: passare
dall’insegnare in spagnolo a farlo
in inglese; forse un giorno riuscirò
a farlo anche in italiano. Un’esperienza stupenda che faccio ormai
da quasi due anni e in alcuni casi
con università di alto livello dove
si può fare anche un discorso con
gli studenti di integrazione con la
città, come sto facendo con questo
festival letterario che dura alcuni
giorni in cui gli autori americani
incontrano gli autori italiani. Gli
studenti si trovano in questo limbo
positivo nel quale ascoltano gli
autori italiani e quelli americani,
si confrontano sulla scrittura: in
questo caso il rapporto è virtuoso.
Certo, questa grande quantità di
studenti americani dovrebbe essere
accolta meglio, da tutti i punti
di vista. Non dimentichiamoci
che sono studenti di 20 anni che,
come gli studenti italiani a Praga,
vengono anche per fare una espe-
rienza sociale, divertente....
A questo punto il colloquio è
interrotto dall’improvviso arrivo di
Francesco Recami, scrittore fiorentino
di successo, e il dialogo “degenera”
scherzando, ma anche parlando di
nuovi libri in uscita (Recami ha da
poco pubblicato “Piccola enciclopedia delle ossessioni” e “L’uomo con
la valigia”, entrambi per Sellerio),
di come lavorano le case editrici e
la distribuzione, le vendite dei libri
(Recami è uno che vende dalle 5
alle 30 mila copie, una enormità
in Italia per il genere). Interessante
la parte sull’utilizzo dell’editor, che
Recami vorrebbe come persona con
cui litigare nella fase di scrittura del
libro, ma che Sellerio non gli concede, che però non gli ha mai chiesto
di intervenire pesantemente sul
manoscritto per tagliere o caratterizzare diversamente dei personaggi a
fini di cassetta. Ma testimonia anche
di editor che suggeriscono a questo o
a quello scrittore di inserire scene di
massacri, aggiungere qualche morto
in più per rendere più attraente il
libro. Si parla dei figli, dei progetti
letterari, di trattorie convenienti
nella zona. Terminata l’incursione recamiana, riprendiamo dagli
studenti americani...
Mi rendo conto che, al netto
degli eventi promozionali, questa
è una grande risorsa, ma se viene
fatta interagire con Firenze, sia dal
punto di vista accademico che dei
contenuti; se la stessa università
fiorentina si aprisse di più a realtà
universitarie importanti (NYU,
Stanford, ecc.) e si avviassero degli
scambi, sarebbe costruttivo per
tutti. Qualcuno lo fa e io appoggio
la scelta di consentire agli studenti
americani di frequentare i corsi
universitari per gli italiani. E’ difficile, anche perché le stesse università americane dovrebbero riuscire
a concepire Firenze non solo come
un luogo in cui mandare i propri
studenti all’estero, ma anche occasione per fare ricerca. Per esempio,
noi professori italiani presso le
università americane abbiamo
contratti di insegnamento e non di
ricerca, mentre invece sarebbe più
utile che ci fossero anche persone
assunte per fare ricerca all’estero.
Ma purtroppo l’Italia è ancora
vista come un gran luogo dove fare
vacanze.
Un ultimo flashback: tu il romanzo
messicano lo scrivi in italiano per
un editore italiano, che ancora non
c’è. Ma prenderesti in considerazione
anche un’edizione messicana?
La cosa particolare è che questo
progetto si manifesta come una
residenza durante la quale io
intervisto tre italiani in Messico, di
cui due ho già selezionato e il terzo
sarà suggerito da loro: uno è un
alpinista italiano che vive a Città
del Messico, fra i maggiori del
mondo, e l’altra è una burattinaia.
Entrambe figure particolari. Di
solito pensiamo che i burattinai
siano figure legate ad un luogo,
tradizionali e non che vadano
all’estero a lavorare. Da queste
interviste, loro diventeranno alcuni
dei personaggi che descriverò nel
romanzo. La scrittura verrà esposta
in due luoghi molto importanti,
un museo e una casa del libro,
perché questo è un progetto
finanziato dal governo messicano.
I brani che scriverò nella settimana
in cui ci sarà l’esposizione pubblica
verranno tradotti anche in spagnolo, dando modo al pubblico di
discuterne e di confrontare le varie
prospettive. Questo metodo “dossier” letterario l’avevo usato per
“Cinque ritratti” su la Repubblica
Firenze, sui toscani esuli all’estero:
anche lì le domande che ponevo
a queste persone da cui traevo il
ritratto letterario erano domande
stressanti, legate anche a oggetti e
foto che ricordavano loro l’Italia, e
da lì elaboravo il racconto. Questo
metodo l’ho applicato anche a
questo progetto da cui emergerà
un romanzo
riunione
di
famiglia
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Le Sorelle Marx
Questo papa Francesco ci sembra
che stia davvero esagerando!
Come è possibile mettere in discussione la Madonna di Medjugorje, addirittura dicendo che la
Madonna “non è un capo ufficio
della posta, per inviare messaggi tutti i giorni”?! Soprattutto
quando i miracoli sono sotto gli
occhi di tutti noi, ogni giorno. In
questa settimana poi se ne sono
concentrati alcuni su personaggi
di nostra conoscenza.
Valdo Spini parla al Papa! Durante la visita al tempio Valdese
di Torino, addirittura Valdo,
come ex ministro per l’ambiente
lo ringraziava anche per la sua
recente enciclica: miracolo!!!
Poi, Erasmo D’Angelis, noto
esperto di dissesti tanto da
essere nominato da Renzi capo
dell’unità di missione di Palazzo
Chigi contro il dissesto idrogeologico, viene evocato, chiamato,
eletto sempre da Renzi alla
Miracoli della madonna
direzione della risorgente Unità:
miracolo!!! Ma il vero miracolo
sarà se l’Unità a guida D’Angelis si salverà dal dissesto del
suo direttore (anche se per certo,
qualora si profilasse l’infausta
evenienza, Erasmo D’Angelis
sarà già passato ad altro incarico
un minuto prima della rottura
delle dighe).
Terzo miracolo di Medjugore di
Toscana: il Nostro adorato e imprescindibile Eugenio Giani che
diventa presidente del Consiglio
Regionale della Toscana, aggiungendo così questo titolo ai ventidue che lui ce ne ha...miracolo!!!
A questo punto è attesa per
lunedì la nomina di quella
Gialla dei Teletubbies a giudice
della Corte Costituzionale. Così
anche papa Francesco dovrà
arrendersi all’evidenza dei fatti:
la Madonna di Medjugorje fa i
miracoli!
I Cugini Engels
Mi par più catecumeno lui
Sinceramente non sappiamo
come funziona tra i neocatecumeni. Alla parola catecumeno
ci torna in mente la scena di
Amici Miei del battesimo del
Melandri (convertitosi per
amore di una bella fanciulla) e
poco altro. Quindi non sappiamo se abbiano, come l’Arci, dei
circolini in cui trovarsi la sera,
discutere, fare attività ma anche rilassarsi e bersi un grappino. Li avessero consiglieremmo
loro di lasciare in tali ameni
spazi Kiko Arguello, il pittore
spagnolo intervenuto al family
day per dire che i femminicidi
sono colpa delle donne. Ecco un
tipo così, al bancone del bar del
circolino è un innocuo, seppur
un po’ molesto, fastidio che tocca sopportare. A farlo parlare
in una piazza, persino quella
piazza, rischia di far passare
per coglioni non solo lui ma
anche chi ce l’ha portato.
Lo Zio di Trotzky
Oh, my God
Breve scenetta teatrale dedicata a
John Hagee, fondatore e pastore
della chiesa di Cornerstone a San
Antonio, in Texas
Le 2 di notte, distretto di polizia
di San Antonio, Texas. Squilla il
telefono.
“911, agente Lopez dica pure”.
“Dovrei denunciare un uso
improprio del mio nome”.
“Chi parla? Prego, si identifichi”.
“Sono DIo”.
“?!? Mi può fare lo spelling, la
sento lontano”.
“D-I-O, G-O-D, D-I-O-S, se
preferisce visto le sue origini
latine”.
“Ok. E di nome?”.
“La questione è complessa, le
consiglio di leggere un paio di
libri di teologia, oltre che la
Bibbia”.
“Vabbé, lasciamo perdere. Andiamo avanti nella denuncia”.
“Allora nella camera da letto dell’appartamento, sito in
Lexington Avenue di John Green
e Francis Delaware durante un
amplesso, abbastanza rumoroso
(e senza finalità riproduttive, ma
questo è un altro problema) la
Delaware ha gridato, e cito ‘oh,
mio Dio sì’ senza che ce ne fosse
una reale necessità”.
“Sì capisco, una chiara violazione della legge Hagee sull’uso del
nome di Dio durante il sesso. Mi
faccia controllare se hanno precedenti e mando una pattuglia”.
“Ok, aspetto in linea, intanto do
un’occhiata che anche al 10 di
Camden street hanno iniziato a
copulare”.
Un minuto dopo il poliziotto con
voce sommessa: “Ehm, mi scusi
mr. Dio, abbiamo un problema.
Dai dati in nostro possesso, risulta che la Delaware in realtà è il
Delaware, insomma è un uomo.
Sicuro di aver visto bene, sa con
l’età, la distanza, il buio…”.
“…”.
“E stando così le cose la legge
Hagee non è applicabile, ci
vuole una donna, mica possiamo
limitare la libertà d’espressione
dell’uomo è anticostituzionale”.
Dall’altro capo del telefono silenzio, imbarazzante, ma l’agente
Lopez ha il colpo di genio: “Se
vuole per risolvere il problema
le do un numero, gente di qui
fidata, anche molto scenografica
con i loro cappucci e mantelli
bianchi. Gente di chiesa, ma a
loro agio con linciaggi e pestaggi.
La loro specialità sono i neri,
ma se glielo chiede lei non penso
diranno di no a fare una visitina
a questa coppietta…”
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Laura Monaldi
[email protected]
di
N
on v’è dubbio che di
fronte alla complessità e
alla totalità delle riflessioni culturali risulta sempre
più difficile dominare l’attuale
mondo dell’Arte. Non a caso
l’articolata struttura dei linguaggi artistici degli ultimi
decenni ha posto l’accento
sul carattere aperto, velleitario e soggettivo di un sistema
culturale problematico, che ha
reso gli atteggiamenti espressivi
degli artisti sempre più inclini
all’analisi dei meccanismi visivi,
in virtù di una progettualità tesa
a rinnovare la fruizione estetica
dell’opera d’arte contemporanea. La sperimentazione sulle
potenzialità dell’immagine si
è espressa, in tal senso, nella
direzione della multimedialità,
chiamando in causa strumenti
e pratiche estranee al Sistema
artistico: si allude, naturalmente, all’impiego sistematico
– benché estremo ed estremizzante – dell’informatica e della
tecnologia digitale, considerati
non più oggetti elitari, ma alla
portata della cultura popolare.
Arti e discipline continuano,
ciononostante, a dialogare ininterrottamente e a influenzarsi a
vicenda, con la consapevolezza
di restituire all’idea d’immagine il suo valore puro, nitido e
incontaminato. Non a caso, fin
dai suoi albori, la fotografia ha
ricoperto un ruolo importante
nel Sistema artistico, qualificandosi come mezzo attraverso
il quale sviluppare idee e opere
d’arte. Nel momento in cui la
riflessione artistica ha aperto i
propri orizzonti e ha permesso
di non cedere alle dispute che
invocavano con forza la perdita
di valore, lo scatto fotografico si
è manifestato come una nuova
forma di libertà espressiva,
dando modo all’artista di dar
voce alla propria sensibilità personale, attraverso la democratizzazione dei criteri formali di
un’Arte, da sempre considerata
elitaria e circoscritta alla pratica
pittorica. Proprio negli anni del
Concettualismo e dell’indagine
sul linguaggio comunicativo,
James Collins si avvicinò alla
fotografia con l’obiettivo di
cogliere le convenzioni sociali,
agire direttamente e all’interno
nello smantellamento dei codici
James
Collins
il
guardone
Sopra Watching Joyce (Diptych), 1976, Fotografia a colori, cm. 76x100,5 cadauna
Sotto Watching Shem, 1974, Fotografia a colori, cm 73x100,5
Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
e delle etichette culturali, catalizzare nello scatto fotografico
istanti precisi e puntuali, presi
a prestito dal mondo quotidiano, per esplicare il proprio
punto di vista. Personaggio
originalissimo, eclettico e perennemente stimolato dall’interdisciplinarietà della cultura,
l’artista si muove nella direzione
della fusione degli interessi: la
fotografia è il mezzo attraverso
il quale sviluppare una ricca
varietà di livelli di significati e
di associazioni. Quella di James
Collins è una modalità operativa che indaga e si amalgama
alla realtà circostante: cultura
e società divengono per James
Collins un unicum quotidiano,
un unico spazio vitale nel quale
far progredire le tendenze e
approfondire la propria ricerca
espressiva.
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pag. 6
Marco Travaglio ha pubblicato un articolo (“Lotta contigua”, su il Fatto Quotidiano del 24 giugno
2015) ferocemente polemico nei confronti di Adriano Sofri, chiamato dal Ministro della Giustizia
a contribuire agli Stati Generali sull’Esecuzione della Pena in virtù del suo impegno e della sua
esperienza in materia di carceri. Sergio Staino, come noi della redazione di Cultura Commestibile, è
sconcertato dalle argomentazioni e dalla virulenza di questa polemica e ha scritto questa lettera che,
con l’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo
Dei
delitti
e delle
pene
(altrui)
Cari amici,
ancora oggi alcuni di voi mi chiedono perché io,
uomo di sinistra, sia così acerrimo nel contrastare
le idee di Marco Travaglio. Vi invio per questo
l’esemplare editoriale uscito un paio di giorni fa sul
Fatto, giornale di cui il nostro è adesso anche direttore. Non vi chiedo ovviamente una solidarietà
per Adriano Sofri che è al centro di questo editoriale:ormai su questi fatti ognuno avrà elaborato una
propria opinione ed è bene guardare avanti senza
sempre rimestare nel passato. Vi chiedo un giudizio
sul taglio generale, vi domando se questa è una
prosa di una persona che ama il prossimo suo, che
guarda il mondo con gentilezza come io mi aspetto
da chiunque si dichiari uomo di sinistra. Qui non
troverete l’indignazione verso l’ingiustizia, troverete
solo il gusto perverso di un maniaco, sadico, che
gode solo nel comminare pene e torture a chiunque non sia a lui riverente. Credo che un qualsiasi
psicanalista potrebbe trovarci tanto materiale di
perversione e qualunque persona che segue la realtà
ci troverà tanta falsità. Pensate solo all’accenno
fatto alla malattia di Adriano Sofri: un esofago
squarciato, oltre un mese di coma farmacologico,
una lunga convalescenza in contemporanea con la
morte della sua cara compagna. Ebbene, tutto questo il signor Travaglio lo fa passare come ingegnoso
inghippo per farla franca e avere a gratis gli arresti
domiciliari. Devo invece un ringraziamento ad
Alessandro Campi, intellettuale di destra già molto
vicino a Gianfranco Fini. Nella rassegna stampa
su Radio Tre di questa mattina ha notato, lui di
destra ripeto, la stranezza che in Italia si continui a
giudicare uomo di sinistra un personaggio così diagnosticamente fascista, e del fascismo più estremo
e più cattivo.
Un caro abbraccio,
Sergio
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pag. 7
Danilo Cecchi
[email protected]
di
L
a storia della fotografia
italiana, essendo cosa diversa
dalla storia dei fotografi
italiani, ha la tendenza ad esaltare
la figura dei fotografi stranieri che
in Italia hanno lavorato, stabilendovisi fino da metà Ottocento,
come i vari Anderson, MacPherson, Sommer, Von Gloeden
ed altri, oppure limitandosi ad
un veloce passaggio come Paul
Strand (Un Paese - 1955) o William Klein (Rome - 1958), ma ha
anche la tendenza a trascurare ed
escludere i fotografi italiani che
hanno vissuto e lavorato esclusivamente all’estero. Per una Tina
Modotti, che viene comunque
ricordata e celebrata, ma ponendola al di fuori dal contesto
storico, molti altri fotografi
italiani vengono sistematicamente ignorati. Fra i tanti, mi piace
ricordare Adolfo Farsari (18411898), nato e morto Vicenza,
ma con una vita contraddistinta
da lunghe parentesi in paesi
molto lontani. A diciotto anni
si imbarca per l’America, dove si
arruola nel 1863 come volontario nell’esercito dell’Unione, per
combattere contro i Confederati
nella Guerra di Secessione, e dove
contrae uno sfortunato matrimonio. Nel 1873 lascia la moglie e
due figli e si imbarca, a vent’anni
dall’impresa dell’ammiraglio
Perry, per il lontano Giappone,
dove apre a Yokohama un’attività commerciale ed editoriale,
pubblicando giornali, riviste,
romanzi, cartes de visite, mappe,
guide, dizionari ed un manuale
di conversazione anglo-giapponese, oltre alla prima guida per
viaggiare in Giappone nel 1880,
ed inizia a produrre ed a commercializzare anche immagini
fotografiche, almeno a partire dal
1883. Nel 1885 si associa con il
fotografo Tomamura Kozaburo
(1856-1923) per rilevare lo studio Stillfried & Andersen, noto
come Japan Photographic Asociation, proprietario fra l’altro dei
negativi di Felice Beato (attivo a
Yokohama dal 1863 al 1877), e
successivamente rileva la Yokohama Photographic Company di
David Welsh, aprendo succursali
a Kobe e Nagasaki. Nel 1886 si
associa per un breve periodo con
il fotografo cinese Tong Cheong,
e dopo la sua partenza rimane il
solo fotografo straniero realmen-
Adolfo Farsari
fotografo in Giappone
te attivo in Giappone. Nel 1886
un incendio distrugge il suo
archivio, ed Adolfo Farsari, per
ricostituirlo nelle parti essenziali,
percorre nell’arco di cinque mesi
le principali località giapponesi. Nel 1887 riapre lo studio,
arrivando nel 1889 a disporre
di oltre un migliaio di lastre che
riproducono paesaggi, monumenti, personaggi e scene di vita,
ed il suo studio diventa uno dei
principali punti di riferimento
per la fotografia in Giappone.
Secondo la moda dell’epoca,
Farsari raccoglie le stampe in preziosi album tematici che, rilegati
e messi in commercio, vengono
apprezzati da visitatori e viaggiatori. Nel 1889 il suo atelier viene
visitato da Ruyard Kipling, e
nello stesso anno uno dei suoi album viene offerto in dono al Re
d’Italia. L’attività fotografica di
Adolfo Farsari influenza molto la
pratica della fotografia in Giappone, dando vita alla così detta
“Yokohama Shashin” (Yokohama
Fotografia), e fra i suoi assistenti
spiccano i nomi di alcuni dei pionieri della fotografia giapponese,
come Kusakabe Kimbej (18411934), Ogawa Katzumasa (18601929) e Uchida Kuichi (18441875). Il rapporto fra fotografo
italiano e la fotografia e l’arte
giapponese è biunivoco, perché
la vicinanza con la tradizione
pittorica giapponese ukiyo-e e
dell’acquarello spingono Farsari,
come Felice Beato in precedenza,
a dipingere con colori delicati e
soffusi le proprie stampe all’albumina, ottenendo immagini
uniche e preziose. I temi sono
quelli apprezzati dai viaggiatori
dell’epoca, trattati con gusto e
raffinatezza, paesaggi naturali
o urbani, monumenti celebri o
meno noti, personaggi tipici della
cultura giapponese, dai samurai
alle geishe, dai monaci ai lottatori
di sumo, suonatrici e danzatrici, di ma anche personaggi più
umili, piccoli artigiani o venditori, e scene di vita urbana, fermate
senza mai scadere nel bozzetto
facile o nel “giapponesismo” a
tutti i costi.
Desideroso di riacquistare la cittadinanza italiana, e nella speranza
di ricevere in patria qualche onorificenza, Farsari affida lo studio
a Tonokura Tsunetaro e torna in
Italia nel 1890, insieme alla figlia
Kiku, nata nel 1885 dalla relazione con una donna giapponese.
27
giugno
2015
pag. 8
La crisi greca?
Parte 1
Ilaria Sabbatini
[email protected]
di
S
ono appena tornata dalla
Grecia dove ero per lavoro con mio marito. No,
non ci hanno accolto legioni
di non-morti che miravano a
sbranarci le carni ma persone
vive e progettuali che ci hanno
trasmesso voglia di fare. Una
volta tornati a casa, però, ci
siamo resi conto che la percezione del paese e della sua
situazione, vista dall’Italia,
è completamente stravolta
rispetto a quando stavamo in
loco. Ed è così che nascono
questi appunti di viaggio.
Non ho la pretesa di testimoniare chissà cosa, ma non ero
in Grecia per turismo. Questo
cambia profondamente la
prospettiva e il punto d’osservazione. Significa che guardi
altro, non semplicemente i
resti archeologici e i musei.
Guardi anche quelli perché
fanno parte, a tutti gli effetti,
del panorama socioculturale
ed economico di un paese. Ma
l’attenzione è spostata altrove e
il cervello non è blandito dalle
endorfine da ombrellone. Con
le persone che ho conosciuto
là - professionisti non turisti ho parlato sempre di lavoro, di
tasse, di prospettive. Sono in
gran parte operatori del settore
cultura. Ciò non significa che
vivano al di fuori del mondo
reale e che abbiano una percezione meno concreta di ciò che
li circonda.
Quello che ho visto della
Grecia non corrisponde affatto
a come viene descritta dalla
stampa italiana e anche il clima
sociale che si respira è diverso.
Il nostro lavoro si è svolto al
centro culturale Onassis per un
progetto con cinque musicisti
e un videoartista. Lo spettacolo
si chiama Trascendence, dal
titolo dell’album della musicista greca Tania Giannouli, e
l’esecuzione era accompagnata
dalle immagini del videoartista
italiano Marcantonio Lunardi.
Potete averne un assaggio qui.
Il teatro era pieno: è andato
sold out in quattro e quattr’otto. Lo spettacolo è finito oltre
l’una eppure il pubblico era
ben sveglio. Tanto che ci siamo
intrattenuti a parlare con gli
spettatori ben dopo la fine. Il
centro culturale Onassis è un
edificio sorprendente: ha due
teatri su due piani diversi e un
design luminoso e moderno
che a me è piaciuto molto.
Subito dopo l’esibizione, i
colleghi greci di mio marito si
sono dati da fare per progettare la prossima collaborazione perché il centro non solo
espone cultura ma finanzia
cultura. E non è esattamente la
stessa cosa. Stando lì abbiamo
scoperto che ad Atene sta per
aprire un museo d’arte contemporanea nuovo di zecca
finanziato da Onassis. Dice:
facile, visto il nome. Ma in
realtà non c’è solo quello: basta
leggere il pezzo di Ginevra Bria
per Artribune “E la Grecia
ci prova” e l’altro di Michele
Stefanile per Huffington “La
Grecia in crisi pensa a costruire
musei”.
Direi che, a prescindere dalle
valutazioni su tali scelte, non
è affatto realistica l’immagine
che io stessa avevo della Grecia
prima di salire sull’aereo. In
effetti scherzando, ma non
troppo, dicevo ai miei amici
italiani che se le cose andavano
male con l’Europa mi venissero
a recuperare in qualche modo.
Ma non è stato così, anzi: è
successo l’esatto contrario di
quanto mi sarei aspettata. E
mi è rimasta solo la voglia di
tornare.
La metro è pulita e puntuale. A
me piacciono le metro, se un
città ha la metro guadagna subito un sacco di punti nel mio
gradimento personale. Non
commento quelle di Roma e di
Milano. Sono rimasta estasiata della metro di superficie a
Losanna, utile per una scappata sul lago in un momento
rubato al lavoro. A me piace
viaggiare così: meravigliandomi non solo quando vedo
cose culturali. Ho una formazione classica ma apprezzo la
contemporaneità in tutte le
sue forme.
La metro di Parigi è sporca e
mi ha ricordato inevitabilmente Victor Hugo: si sente tutto
il peso della storia lì sotto. A
Istanbul invece della metro
prendevo il trenino fino alla
stazione di Sirkeci. Mi piaceva la sua tekka sufi e le sue
architetture mi faceva pensare
ad Agatha Christie. La metro
di Atene accende un altro
immaginario, più moderno ed
efficiente. Non ho ancora trovato il suo richiamo letterario
ma se usi i mezzi puoi andare
ovunque, ad Atene.
Da quello che ho constatato le
persone, lì, non se la scialano.
Ma non si incontrano nemmeno gli zombies che si trascinano per la via. Onestamente
pensavo che fosse proprio così.
Mi aspettavo di incontrare
persone depresse e oppresse dal
peso della situazione internazionale. So che ci sono stati
molti suicidi e non metto in
dubbio i disagi. So perfettamente che ci sono sacche di
povertà molto grandi. Ma puoi
vedere dormire gli homeless
nei porticati delle chiese ortodosse sulla collina dell’Acropoli
e nessuno li scaccia nè si sente
minacciato.
Le tasse sono molto inferiori
e gli stipendi non sono certo
milionari. Però i beni essenziali
costano poco perciò la sera c’è
pieno di ragazzi e famiglie che
si fanno un souvlaki e magari
un gelato. Gli amici ci prendevano un po’ in giro perché
conoscevamo solo lo tzatziki e
la feta. Ci sono negozi chiusi,
certo, come da noi. Ma le piazze sono pulite, le biblioteche
funzionano, la gente lavora, la
televisione nazionale è riaperta.
Al di là delle analisi sull’economia si percepisce chiaramente
la voglia di andare avanti.
27
giugno
2015
pag. 9
Simonetta Zanuccoli
[email protected]
di
U
no dei luoghi più romantici, senz’altro il più
segreto, di Parigi si trova
in avenue de la Belle Gabrielle,
vicino al castello di Vincennes
e al suo bosco, riserva di caccia
di Luigi XIV. E’ uno strano,
selvaggio giardino dove nei
suoi 4,5 ettari, in una cornice
di decadenza tra la vegetazione
lussureggiante emergono frammenti di memorie, di edifici
e terre lontane. E’ il giardino
d’Agronomie Tropical, un
luogo esotico, oggi conosciuto
e frequentato da pochissime
persone, creato nel 1899 al
fine di aumentare la produzione agricola nelle allora tante
colonie francesi. In questo
luogo dove si fondeva scienza e
natura, popolato di laboratori,
una biblioteca specializzata,
case per gli scienziati, giardinieri e agronomi, si cercava
di migliorare la qualità dei
semi e di sperimentare nuovi
innesti attraverso lo studio
delle piante di caffè, cacao,
the, vaniglia, noce moscata,
cotone e delle tante spezie che
crescevano al riparo dal clima
rigido nelle innumerevoli serre
riscaldate, vero cuore pulsante del giardino. Ogni anno
venivano spediti nelle colonia
più di 40.000 semi e, dentro
geniali piccole serre portatili,
10.000 tra piantine e talee. Un
catalogo annuale, distribuito
nei diversi giardini botanici
d’Europa, presentava le piante
acclimatate a disposizione per
essere acquistate. Nel 1907 il
giardino fu ritenuto la location,
come si direbbe oggi, ideale per
ospitare la Mostra Coloniale.
Diviso idealmente in due zone,
quella asiatica e quella africana,
da un portale in legno in stile
orientale intagliato con draghi,
animali e fiori, tra alberi esotici
e collezioni di piante grasse,
furono ricostruiti interi villaggi
indocinesi, campi tuareg, fattorie sudanesi, una piccola pagoda con un laghetto circondato
da rocce. C’erano poi il Gran
Bazar Tunisia, bianco palazzo
moresco con in esposizione
tappeti, mobili gioielli e tessuti,
il Gazebo per le degustazioni
costruito con pannelli in legno
dei Caraibi, i padiglioni con
esposti i prodotti della cultura
L’attrazione
perversa
del giardino
coloniale
Lido Contemori
[email protected]
alimentare dei vari paesi, quelli
dedicati agli strumenti musicali
e alle differenti tecniche di tessitura ....La mostra ebbe molto
successo e in sei mesi fu visitata
da oltre 2 milioni di persone.
Molto di quello che era stato
costruito per l’occasione venne
lasciato come decoro del giardino. Con la progressiva perdita
da parte dello stato francese
delle colonie e il trasferimento
della ricerca agricola su piante
tropicali a Montpellier, il giardino fu abbandonato, molte
serre e i padiglioni furono danneggiati dalle intemperie e le
piante tropicali, non più curate, pian piano sparirono. Oggi
di queste rimangono solo un
ciuffo di bambù, un’eucomya e
alcuni cachi. Per molto tempo
chiuso al pubblico per motivi
di sicurezza è oggi di nuovo
visitabile e sembra che in
futuro ci sarà un programma di
sviluppo e restauro da parte del
Comune di Parigi. Così, lontano dai rumori della città, nella
fitta vegetazione spontanea
dove ogni tanto appare il rosso
di una pagoda, un drago, i resti
di antiche divinità, è di nuovo
possibile perdersi nei labirinti
della fantasia di un mondo
ormai lontano.
di
Il migliore dei Lidi possibili
Florencepolis
durante
la prestigiosa
manifestazione
di PittiInsetti,
2100 ca
Disegno
di Lido Contemori
Didascalia di Aldo Frangioni
27
giugno
2015
pag. 10
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
Museo dell’ambra, che ha sede
a Vilnius. Col passare del tempo l’artigiano ha deciso di utilizzare la
propria creatività per costruire
anche strumenti musicali. Realizzate in ambra e legno,
queste creazioni risultano più
pesanti degli strumenti convenzionali: un violino, per
esempio, pesa circa un chilo e
mezzo, cioè il triplo del normale, mentre un violoncello sfiora
i sei chili.
La lavorazione richiede molto
tempo e molti chili di ambra:
circa 10 per un violino, almeno
40 per un violoncello.
A questo punto, coerentemente, è nato l’Amber Quartet,
un quartetto d’archi diretto da
Vytautas Mikeliunas, amico e
collaboratore di Davainis.
Il 26 settembre 2014 le creazioni di Davainis sono state
presentate all’ultima edizione di
Mondomusica (Fiera di Cremona), dove il pubblico ha potuto
ammirare due violini e una
chitarra costruiti dall’artigiano
lituano. La sua ditta è stata fra
gli espositori presenti a un’altra
manifestazione prestigiosa, la
Musikmesse di Francoforte (1518 aprile 2015).
La geniale idea dell’artigiano
baltico conferma che il patrimonio tradizionale non è
una sterile sopravvivenza del
passato, ma può essere adattato
ai tempi e trasformato in una
forza viva che ci proietta nel
futuro.
date da Pompeo, Rainaldo e
Camartino.
I sei comandanti stabilirono
i loro campi intorno a Fiesole: Camartino ovviamente a
Camerata, Rainaldo sull’attuale
Monte Rinaldi (non proprio
in prima linea, a onor del vero,
fra lui e Fiesole c’era la valle
Faentina), Macrino sul Monte
Macrino (non so dove sia, ma
essendo tutti i cronisti concordi,
da qualche parte ci deve pur
essere). Fra Cesare e Cicerone si
accapigliarono per dare il nome
a Monte Ceceri, come scrive il
Villani, in maniera devo dire
un po’ confusa:
“Cesare si pose in
campo sul monte
che sovrastava la
città, ch’è oggi
chiamata Monte
Cecero, ma
prima ebbe nome
Monte Cesaro
per lo suo nome,
ovvero per lo
nome di Cicerone; ma innanzi
tengono per Cesaro, perocch’era
maggiore signore nell’oste”:
ora, detto che l’”oste” non è il
padrone dell’osteria ma l’esercito, per il resto non ci ho capito
nulla. Pompeo non pervenuto.
Espugnata finalmente Fiesole,
Cesare, considerato che Cicerone sembrava averla avuta vinta
per Monte Ceceri, calò a valle
nel 59 a.C. “e in quello luogo
cominciò a edificare una città
che appellavano Floria perché
ivi Fiorino fu morto” e “gli
abitanti furono consenzienti
di chiamarla Floria, siccome in
fiori edificata, cioè con molte
delizie”.
I
materiali che vengono
utilizzati per la costruzione
degli strumenti musicali
sono tanti: da quelli di riciclo
ai legni, dalle fibre sintetiche ai
metalli. Ma si tratta di un campo dove c’è ancora molto spazio
per la fantasia: lo dimostra
Šarūnas Davainis, un gioielliere
lituano che da alcuni anni crea
e costruisce strumenti utilizzando l’ambra. Nota fin dai tempi più antichi,
questa resina fossile viene utilizzata nella lavorazione di anelli,
braccialetti, collane e orecchini.
La si trova in molte parti del
mondo, dalla Polonia all’America centrale, ma i depositi più
estesi sono quelli baltici: non a
caso esiste la Via dell’ambra, un
percorso di oltre 400 km che
attraversa la regione baltica
e la Russia. Secondo certe stime, queste foreste della regione
baltica ne avrebbero fornito
oltre 100.000 tonnellate.
Davainis, nato a Vilnius nel
1945, si è costruito una solida
fama come creatore di gioielli,
realizzati in prevalenza con
Fabrizio Pettinelli
[email protected]
di
Ci sono diverse ipotesi sull’origine del nome di Firenze, la
più accreditata delle quali fa
risalire l’etimologia al termine
latino “florentes” (fertile), da
cui Florentia che, come tale,
compare nella “Tabula Peutingeriana”, antichissima mappa
delle strade militari romane,
che risale ai primi secoli dopo
Cristo. C’è però anche un’altra
ipotesi, avanzata per primo dal
cronista fiorentino del ‘200
Ricordano Malespini, subito
ripresa da Giovanni Villani e,
molti secoli dopo, da Ludovico
Antonio Muratori. Quest’ipotesi, per quanto fantasiosa, ha il
merito di spiegare in un colpo
solo, oltre a quella di Firenze,
l’origine di altri toponimi.
Cominciamo da Catilina che, in
fuga da Roma, combattè la sua
ultima battaglia vicino a Pistoia,
dove trovò la morte. Alcuni
fedelissimi, già prima della
battaglia, si erano asserragliati
nella città di Fiesole; Roma non
perdona (nessun riferimento,
lungi da me, a un fortunato
slogan politico) e, ucciso Catili-
L’ambra
che suona
questo materiale. Dalla fine degli anni Ottanta
la sua ditta UAB Amber crea
gioielli, collane, sculture e altri
oggetti in ambra.
Successivamente questa attività
commerciale è stata integrata
da un impegno culturale: nel
1997 Davainis e i suoi collaboratori hanno fondato il
Via di Camerata
L’assedio
di Fiesole
na, cinse d’assedio l’antica città
etrusca. Comandante delle truppe assedianti era tale Fiorino
che, con tutta la buona volontà,
non riuscì però ad avere ragione
delle mura fiesolane, tant’è
vero che da Roma arrivarono
altre tre legioni comandate da
Cicerone, Cesare e Macrino. Sei
anni d’assedio ma nulla da fare:
i rinforzi tornarono a Roma ma
quel testardo di Fiorino resto
lì finché i fiesolani, essendosi
giustamente stufati, fecero una
sortita e sterminarono Fiorino
e tutti i suoi, oltre a distruggere l’accampamento fortificato
che i romani avevano costruito
in quegli anni. Non l’avessero
mai fatto; Roma si innervosì
talmente da mandare addirittura sei legioni: oltre alle tre che
non avevano cavato un ragno
dal buco negli anni precedenti,
arrivarono anche quelle coman-
27
giugno
2015
pag. 11
Giacomo Aloigi
[email protected]
di
Addio Malizia
tuta in carcere, a questi attori
gli fa bene un po’ di gattabuia,
poi dopo dieci anni assolta.
Era già morta allora, il resto è
una fastidiosa appendice che
ha costretto noi a sopportare
le rare immagini che qualche
valente paparazzo pieno di
sensibilità ha rubato negli anni
del disfacimento fisico di Laura.
Un disfacimento esteriore che
doveva essere per forza specchio
del suo crollo interiore, era
diventata una mezza pazza, una
mezza santona, una mezza barbona. Poverina, che brutta fine,
meno male che è andata, meno
male che ce la siamo tolta dalle
palle anche st’Antonelli che poi
ma te lo ricordi te che film ha
fatto? Sì, quello con Gasmann
che fa il cieco. Ah sì, quello che
ha rifatto De Niro, o forse era
Al Pacino? Ma no, quella di Gasmann era Agostina Belli, suona
quasi uguale ma non è lei. E
allora? “Malizia” roba di più di
quarant’anni fa. Ma com’è, che
fa scopa? No, si vedono un po’
di tette, un po’ di pelo, poco
però. Capirai, allora mi guardo
Belen su youporn, vuoi mettere? Ciao Laura, quando mi
passa l’incazzatura, forse riesco
anche a piangere un po’.
F
inalmente se n’è andata.
Proprio come c’era da
augurarsi, sola come un
cane, sdraiata in terra chissà da
quanto. A perfetto coronamento della favola all’incontrario
in cui tutti l’avevano ormai
collocata. Poverina, era ormai
brutta, grassa, povera, abbandonata dal bel mondo di cui
aveva fatto parte. Non poteva
finire che così, era già scritto.
“Addio Divina creatura” è il
commento più originale che ho
sentito, figuriamoci gli altri. A
“Porta a Porta” Vespa dice sbrigativamente che parlerà della
“sfortunata attrice” dopo che
la Serracchiani e Fedriga (non
esattamente Bobbio) avranno
commentato l’esito della riunione dell’eurogruppo sulla crisi
greca. Tra Rai, Mediaset e LA7,
una quindicina di canali digitali
in tutto, neanche un suo film
in prima serata. Canale 5 alle
23.30 trasmette “Viuuuulentemente…mia” una vera stronzata. Ce ne voleva per trovare,
tra i circa cinquanta titoli della
sua vita cinematografica, uno
così brutto. Tutti i telegiornali
hanno ampiamente parlato
dell’icona erotica dell’Italia anni
70, di “Malizia”, di Belmondo
e, ovviamente, dell’arresto per
droga, del volto deturpato da
una sostanza che doveva mitigarne le rughe, della depressione. Poverina, com’era bella,
sinuosa, ricca, circondata dal
bel mondo. Visto che fine ha
fatto? Maledetta questa giustizia
infame che ti tiene sotto scacco
per un decennio e poi ti assolve
e tante scuse! Che poi è quella
stessa giustizia sommaria che le
bolge sdegnate di retti cittadini
auspicano per i potenti in odor
di malaffare, stonate neo-avanguardie di tircoteuse che non si
rendono conto che la ghigliottina preventiva invocata per la
casta è la stessa che si abbatte
sui comuni mortali, gli unici
che poi la testa ce la rimettono
davvero. E Laura Antonelli
è stata decapitata in quella
lontana notte del 25 aprile
1991, quando il maresciallo in
borghese Mario Sollazzi suona
il campanello di villa “Trovarsi”
a Cerveteri e lei gli consegna
spontaneamente i 36 grammi di
cocaina che ha in casa. Sbat-
Michele Morrocchi
twitter @michemorr
di
Premetto che porto gli occhiali.
Per cui qualche diottria persa
potrebbe essere pure colpa
dell’oggetto del libro curato da
Pippo Russo, Moana la santa
peccatrice, appena uscito per le
Edizioni Clichy. Moana Pozzi
– è la tesi di Russo – è stata
molto di più di una pornostar, è
stata l’immagine di un periodo,
l’estremo apice di una liberalizzazione dei costumi. Una
promessa di libertà, di superamento del bigottismo. Promessa
tradita, perché è proprio con la
sparizione di Moana che avviene
il riflusso, in cui la liberazione
dei costumi, apparentemente
enorme, è retrocessa sempre
più, nella società come nella politica. Sono proprio gli enormi
manifesti pubblicitari col corpo
di Moana a rendere manifesto
lo sdoganamento della pornografia dal ghetto. Dopo quella
stagione, quel tentativo, fatto
anche dell’elezione nelle file del
partito radicale di Cicciolina,
gli anni ’80 della Milano da
Moana icona
di un tempo
di libertà
bere, rimettono al loro posto la
libertà dei costumi. La confinano ancora una volta all’interno
della dimensione individuale,
nel privato del peccato, in cui
ritorna prepotente il cattolicissimo senso di colpa e l’ipocrita “si
fa ma non si dice”. E’ la censura, preventiva e autoimposta, a
Matrioska di Antonio Ricci (in
cui Moana doveva comparire
completamente nuda) a segnare,
secondo l’autore, il momento
di rottura. La fine della libertà,
il ritorno alle proprie camerette. Forse, andrebbe aggiunto,
che un ruolo su questo ritorno
alla dimensione privata della
pornografia lo giocherà in modo
pesante la diffusione di internet
e la morte della pornografia
cinematografica; aspetto questo
che l’autore non tocca, coscientemente, visto che richiederebbe
saggi appositi. No l’oggetto
del libro rimane, giustamente,
Moana, la sua specificità (per
provenienza familiare, per scelte
professionali) che manifestano,
più di mille analisi, una stagione
del nostro Paese. Quella in cui
avremmo potuto esser più liberi
e non lo siamo stati.
27
giugno
2015
pag. 12
Michele Morrocchi
twitter @michemorr
di
I
l progetto 4wheels è un
progetto culturale curato da
Francesca Merz e Leonardo
Perugini, rispettivamente storica
dell’arte e fotografo, che hanno
realizzato un’esperienza fotografica sulla disabilità. Leonardo ha
preso una carrozzina, Francesca
lo ha portato a giro per Firenze e
insieme hanno fotografato la città
da un altro punto di vista. Questa giornata particolare sarà in
mostra dal 28 giugno al 5 luglio
al Circolo Arci Lazzeretto di Cerreto Guidi. Abbiamo incontrati i
due ideatori per farci raccontare
questa esperienza.
La prima cosa che avete imparato
in questa giornata?
Francesca: la prospettiva cambia,
i tempi per percorrere le strade si
allungano. Il progetto non voleva
essere un reportage fotografico
sulla disabilità, ma un reportage
fotografico esperienziale sul cambiamento dell’ottica nel vedere il
mondo con una nuova prospettiva, che non è solo la nuova posizione “seduta”, ma una matassa
di innovazioni visive composta da
elementi di disturbo, fatica, ma
anche sorrisi, pacche sulle spalle,
un mondo che ancora si commuove, e si prodiga per portare
un sollievo ad una difficoltà.
E dal punto di vista del fotografo
quanto è stato differente lavorare
così?
Leonardo: quando ti viene proposto un lavoro fotografico in cui
viene chiesto di trattare un tema
specifico, il primo approccio in
genere è quello di fotografare dal
tuo punto di vista il soggetto che
ti viene presentato. Questo invece
era un caso diverso, poiché dovevo
occuparmi di un tema delicato ma
allo stesso tempo anche ampiamente trattato: la disabilità. Una
disabilità tale da costringerti in
carrozzina. Quindi ho scelto di
fotografare dal punto di vista del
soggetto, facendo in modo che
fosse la quotidianità il centro della
mia attenzione ma vissuta dal suo
punto di vista. Dunque mi sono
seduto io stesso su una sedia a
rotelle e ho fatto ciò che normalmente faccio: ho fotografato quello che mi sta intorno e che attrae
il mio occhio di fotografo. Fin da
subito è stato strano, non lo nego.
In un primo momento ho provato
imbarazzo ma è durato molto
poco. Non appena ho iniziato a
4wheels uno sguardo diverso
della disabilità e Firenze
La foto dalla carrozzina
“guardare”, tutto è si è rivelato
molto diverso. La mia prospettiva
era completamente stravolta e non
solo da un punto di vista prospettico. Tutto mi sembrava lontano,
distante e difficile da raggiungere.
Il mio primo pensiero è stato: “Io
non posso fotografare da qui!”
Invece poi…
Leonardo: mi sembrava impossibile, quando faccio la mia
fotografia,sono rapido, veloce,
cerco sempre di cogliere l’attimo e
di farlo dalla migliore prospettiva
possibile, curando l’angolo di
ripresa per valorizzare al meglio
la scena che fotografo. Adesso
invece mi ritrovavo immobile,
lento, goffo e impacciato, con un
solo punto di vista. Inoltre ero alle
prese con la difficoltà di manovrare la carrozzina. Stavo perdendo
le speranze e non mi vergogno ad
ammettere che quando è persino
incominciato a piovere ho quasi
pensato di mollare. Poi mi sono
fatto forza e ho scattato la prima
foto. E poi un’altra. E un’altra
ancora. Dopo un’ora ero tornato
a essere un fotografo. Quasi tutto
era più alto di me, le carrozze con
i cavalli mi parevano enormi, per
non parlare dell’effetto che fa un
furgone quando ti passa accanto.
Vedevo tutto dal basso verso l’alto.
Tutto tranne i bambini: alcuni di
loro erano proprio alla mia altezza
ed è capitato di lanciarci occhiate
furtive mentre ci studiavamo
a vicenda. Nonostante tutto
però dopo poco mi sono sentito
completamente a mio agio, tanto
concentrato su ciò che facevo
che una turista giapponese mi ha
persino chiesto di fotografarla con
il suo cellulare mentre lei posava
accanto a uno dei cavalli dei tipici
cocchi fiorentini. È stato un bel
momento perché era assolutamente normale.
Francesca: abbiamo davvero fatto
tanta fatica, ma anche trovato
il sorriso e la disponibilità di un
custode degli Uffizi che ci ha chie-
sto con cordialità se poteva darci
una mano per entrare, le pacche
sulla spalla di turisti distratti che
inciampavano sulla carrozzina, ma
che dopo con mille scuse ricordavano la loro umanità e si riperdevano nelle bellezze fiorentine, i
bambini alla Loggia dei Lanzi che
rispondevano ad un saluto di Leonardo, prima straniti, guardando
le due grandi ruote di quel mezzo
sconosciuto, poi muovendo veloci
le mani in cenno di risposta. Ma
abbiamo visto anche un mondo
che può migliorare, che ha gli
strumenti per farlo, e soprattutto
ho compreso la fatica, ed io ero
solo colei che accompagnava: ero
stremata per i tempi lunghissimi
di ogni percorso, per la fatica fisica
del peso da spingere, e mi accorgevo di come ogni movimento, ogni
gesto, ogni passo scontato e fatto,
rifatto, da anni, ogni giorno nella
mia città, era invece elaborato,
complesso, pensato. E’ stata un’esperienza formativa, un giorno
non cambia la vita né la prospettiva di nessuno, ma un giorno “nei
panni degli altri” servirebbe credo
per meglio comprendere le tante
tantissime situazioni di disagio
sociale e disabilità nella nostra
società.
Cosa vi resta di questa esperienza?
Leonardo: non posso certo dire
che questa esperienza mi abbia
fatto comprendere il reale disagio
delle persone costrette a muoversi
su una sedia a rotelle, ma di certo
mi ha fatto capire ancora di più
quanta forza possa avere l’uomo
di fronte alle difficoltà e quanto
queste ti rendano senza alcun
dubbio più forte.
Francesca: non cercavamo il
patetismo, la denuncia, nulla di
quello che era già stato fatto ci
interessava, volevamo metterci
in quei panni, e raccontarli non
dal punto di vista della disabilità, ma dal punto di vista del
cambiamento della condizione,
entrare in quello straordinario
e complesso mondo per poche
ore, per poi rientrare nelle nostre
vite e raccontare un’esperienza
di viaggio, di un viaggio nuovo,
diverso, modificato non solo dalla prospettiva fotografica ma da
una nuova prospettiva psicologica
con la quale siamo stati costretti a
confrontarci.
27
giugno
2015
pag. 13
Sergio Favilli
[email protected]
di
P
ervaso da una morbosa
curiosità, ho letto quasi
interamente il Rapporto Barca sullo stato del PD
romano, quasi interamente
perché giunto oltre la metà del
testo mi sono sentito sollevare
da terra e librare verso l’alto ,
mi sono aggrappato all’armadio
ma, nonostante ciò, rischiavo
di essere schiacciato sul soffitto,
cosa stava succedendo? Semplice, un vorticoso giramento di
scatole(per non dir peggio) mi
spingeva verso l’alto e l’unica
soluzione è stata quella di gettare al vento la parte finale della
relazione che stringevo ancora
in mano.
Ma dove era la classe dirigente
del PD del periodo 2009/2013??
Dove era Rosy Bindi, Presidente del partito? Forse aveva
Stefano Vannucchi
[email protected]
di
Entrare al Caffè Pasticceria
“Mangini” è fare un salto
nell’atmosfera della Genova
di fine ‘800. Fondato nel
1846 e affacciato sulla bellissima Piazza Corvetto, il locale conserva gli arredi originali
(restaurati nel 1946) che ne
fanno un piccolo tempio del
Liberty: splendido bancone
di rovere, sfarzosi lampadari
e grandi specchiere, quadri e
pavimento a scacchiera.
Il locale divenne ben presto
uno dei luoghi di riferimento
per la cultura cittadina e vanta in particolare un prestigioso passato giornalistico.
Negli anni seguenti alla II
Guerra mondiale si trasformò
infatti in una vera e propria
redazione dei quotidiani Il
Secolo XIX e Il Lavoro. Fra
uno scambio di opinioni,
un articolo e un caffè, tanti
storici giornalisti e direttori, fra cui Cavassa e Pertini,
affollarono le sue sale. Sandro
Pertini, direttore del giornale
socialista “Il Lavoro” dal ‘46
al ‘68, spesso organizzava
riunioni di redazione in una
saletta del locale che oggi è a
lui dedicata. Una targa all’esterno ricorda invece la pausa
che il Presidente si prese al
Mangini di ritorno da Savona
dopo aver svolto il dovere
Polenta Fritta
Caffè Letterario
Il Caffè di Pertini
Massimo cavezzali
[email protected]
di
Scavezzacollo
già iniziato a dare la caccia alle
piccole pagliuzze senza vedere il
trave che aveva in casa? E dove
era il buon Bersani? Forse stava
cercando la trielina per poter
smacchiare il giaguaro? E dove
stava il baffino nazionale ex leader maximo? Forse ad occuparsi
di italiani ed europei aveva perso
di vista i concittadini romani?
Dopo tutto questo trambusto
andiamo a votare , il PD perde
2 milioni di voti e questi signori
danno la colpa alla nuova classe
dirigente che non sarà ottima,
ma sicuramente non responsabile del casotto romano : nel
vecchio PCI prima si faceva
autocritica poi, dopo un sonoro
calcio in culo si tornava a frigger
polenta alla Feste dell’Unità!!
Fassina, con tempismo da
record, ha immediatamente
lasciato il PD : forse non sapeva
friggere la polenta!!
civico di elettore: “3/9/79 Il
Presidente della Repubblica
Sandro Pertini di ritorno da
Savona per adempimento
elettorale ha onorato con una
lunga sosta questo secolare
esercizio”.
Fra i suoi frequentatori vi
furono pure Scalfaro, Cossiga, Spadolini e molti artisti,
anche per la presenza del
vicino Politeama Genovese.
Fra i principali Gilberto Govi
e il pittore Caminati, autore
degli affreschi del foyer del
Teatro Carlo Felice.
Fra le tante specialità pasticcere del locale una menzione
speciale la merita la torta Sacripantina, dolce tipico ligure
e fra i preferiti di Sandro
Pertini, con i suoi strati di
pandispagna imbevuti di liquore, caffè, cacao e crema di
burro. Ingredienti che non si
fa fatica a comprendere siano
stati associati a un guerriero
dalla robusta corporatura e
dal temperamento sbruffone. La torta deve infatti il
suo nome a Sacripante, eroe
della letteratura cavalleresca
e personaggio dell’Orlando
innamorato del Boiardo e
dell’Orlando Furioso di Ariosto dove, come re saraceno di
Circassia, compie numerose
imprese nel tentativo di conquistare la bella Angelica.
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giugno
2015
pag. 14
di
Elisabetta Trincherini
nuova dotata di senso in sé.
La natura intesa nell’insieme
della sfera animale e vegetale, realizza, perché completa,
quello che gli uomini ‘mandano in rovina’. Sorta di
deviazione dalla temporalità
canonica è la gabbia vuota
dello zoo, dove è proprio
l’assenza dell’animale che
normalmente la occupa, a
instillare un’incrinatura prospettando la rovina. Assenze
e presenze in queste tele
connotano la rovina come
l’irrompere casuale della natura nella sfera della forma,
proiettandosi nell’universo
sconosciuto dei processi in
divenire.
Palermo, Giuseppe Veniero
Project - 29 giugno – 12
luglio 2015 - Inaugura sabato
27 giugno, ore 19
T
he king of the ruins,
personale di Marco
Pace, è una riflessione
intorno al concetto di rovina
che segue il filo conduttore,
già delineato dall’autore,
a partire dalla dimensione
animale di matrice derridiana. Qui il gorilla, che prima
abitava la metropolitana,
lo ritroviamo sovrano di
un rudere contemporaneo.
Se, in accordo con Simmel,
un edificio è considerato
in rovina quando l’ideale
equilibrio di natura e spirito
si rompe a favore della sfera
naturale che tende a prendere il sopravvento, qui la
presenza del Gorilla avvalora oltremodo la tesi. Pur
suscitando senso del tragico,
per l’idea di deperimento,
non siamo di fronte solo alla
rappresentazione di un tutto
che non è più dato nella
sua integrità, ma a un’entità
Il tema della “macchina” si è
più volte intersecato con l’arte
contemporanea, dai Futuristi a
Duchamp, da Fluxus alla Net
Art. La mostra, curata dall’associazione culturale BAU di
Viareggio in collaborazione con
la GAMC, si inserisce in questa
prospettiva, coniugando il genio
leonardesco con problematiche
attuali. L’esposizione coincide
con la pubblicazione e presentazione in anteprima del numero
Dodici della singolare rivista
d’autore BAU Contenitore di
Cultura Contemporanea.
In aggiunta ai lavori di BAU
Dodici, la mostra include opere
a tema leonardesco di numerosi
artisti storici, provenienti dal
Museo Ideale “Leonardo Da
Vinci” di Vinci e dalla Collezione Carlo Palli di Prato. Tra
questi, figurano alcuni protagonisti di primo piano della
ricerca letteraria, artistica: da
Joseph Beuys a Eugenio Miccini, da Hermann Nitsch a Orlan,
da Nam June Paik a Stelarc. Un
percorso che coniuga in modo
sorprendente arte e tecnologia,
visionari marchingegni e curiosità storiche.
All’evento interverranno Alessandra Belluomini Pucci (Responsabile GAMC), Alessandro
Sul concetto di rovina
Leo ex machina
A Viareggio cento artisti interpretano
le nuove macchine leonardesche
Vezzosi (direttore del Museo
Ideale “Leonardo Da Vinci”), il
collezionista Carlo Palli e lLaura
Monaldi (critico d’arte e archivista della Collezione Palli).
Alcuni autori di BAU Dodici
animeranno l’inaugurazione con
originali performance: Paolo
Albani, Ingegneria fantastica |
Leonardo Bossio, No Army |
Antonino Bove con Ida Terracciano, La borsa di Mnemosine
| Jakob De Chirico, Marcel
Duchamp, Joseph Beuys, Pablo
Picasso, figli di Leonardo da
Vinci, emigrati ad Amboise |
ForA, P.O.M.A. | Kiki Franceschi, Hollow Men (Omaggio a
T.S. Eliot) | I Santini Del Prete,
I Santini Del Prete sub machina
| Roberto Rossini, Sandroing azione estetico rituale | Giacomo Verde, Dimostrazione
del Marchingegno Elettronico
EPAD. Video proiezioni:
Maurizio Cesarini, The White
Shadow | Glauco Di Sacco,
Simmetrie infrante | Danilo
Sergiampietri, Una macchina
che non fa un tubo | Emiliano
Zucchini, Capturing Memories.
Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Lorenzo Viani
Palazzo delle Muse - Piazza
Mazzini - Viareggio
28 giugno - 11 ottobre 2015
27
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Scottex
Aldo Frangioni presenta
L’arte del riciclo di Paolo della Bella
Le opere, che della Bella realizza rappallando fogli di scottex, assumono spesso aspetti
zoomorfi o antropomorfi, non avendo
possibilità di parlare con l’artista, poiché
non risponde mai a domande relative le
sue opere, non sappiamo se è lui che cerca
di dare alla carta forme di animali o di
uomini o se siamo noi che ce le vediamo.
Comunque sia, questo lavoro ci appare
come “Il ritratto di barboncino in gonnella”.
26
Scultura
leggera
Michele Rescio
[email protected]
di
Imburrate due terrine monoporzione e poi spolveratele con
lo zucchero semolato in modo
che aderisca bene a tutte le
pareti, togliendo poi l’eccesso.
In una terrina unite la farina,
il burro e il sale (se non amate
troppo i contrasti dolci salati,
diminuite la quantità di sale. In
questa ricetta la quantità di sale,
infatti, è spinta al limite, proprio
perché si percepisca il contrasto); con le mani lavorate il
tutto fino a ottenere un composto unito e omogeneo. Scaldate
il latte con 38 g di zucchero
e portate a bollore su fuoco
medio. Versate il composto di
farina e burro nel latte bollente
e mescolando con una frusta
cuocete abbassando la fiamma
al minimo per 4 minuti, finché
avrete ottenuto un composto
denso e colloso. Unite a questo
punto il cioccolato fatto a pezzetti e mescolate con una frusta
per amalgamare completamente,
dopodiché aggiungete i tuorli e
mescolate fino a che si saranno
amalgamati completamente. Lasciate raffreddare completamente il composto. Quando la base
del soufflé sarà completamente
fredda, montate gli albumi a
neve bene ferma, poi unite 12
g di zucchero e continuate a
montare finché otterrete una
spuma ferma e lucida. Unite la
meringa appena fatta alla base di
cioccolata mescolando dal basso
Un respiro di cioccolata
verso l’alto per non smontare il
tutto. Versate il composto nelle
terrine di ceramica riempiendole
fino all’orlo, poi con il resto di
un coltello passate sul bordo
ed eliminate l’eccesso. Con un
pezzetto di carta assorbente pulite i bordi. Poi adagiate le due
terrine su una teglia e infornate
per 17-18 minuti al massimo se
desiderate un soufflé fondente
dal cuore fluido, altrimenti per
un paio di minuti in più per
avere un soufflé spugnoso.
Appena i soufflé usciranno dal
forno, spolverateli con zucchero
a velo e serviteli subito altrimenti piano piano si sgonfieranno.
Se volete preparare dei soufflé da
servire in un secondo momento,
preparate a base al cioccolato,
conservatela in frigo, poi prima
di servire procedete unendo la
meringa e cuocendo sul momento.Ingredienti per 2 terrine
di ceramica monoporzione da
8cm di diametro e 4,5cm di
altezza:
Ingredienti:
95 g di latte intero
18 g di farina 0 per pane
18 g di burro
50 g di zucchero semolato
2 tuorli d’uovo
2 di albume
70 g di cioccolato fondente al
70%
3,5 g di sale
in
giro
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2015
pag. 16
lectura
dantis
27
giugno
2015
pag. 17
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
E mi sovvenne, in quel loco ancor fresco,
che a ragionar con le belve crudeli
forse mi ci volea il Gran Francesco
Papa o santo che fosse pe’ fedeli;
l’important’era di salvar la pelle
dicontro alle bestiacce pien di peli.
L
immagine
ultima
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pag. 18
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
E
cco un ragazzino dall’aria simpatica e accattivante con il simbolo pacifista appuntato su una T-shirt che ritrae Huey P. Newton, co-fondatore assieme a Bobby Seale, del famoso “Black Panther Party” per l’autodifesa dei neri. Così recitava il loro famoso manifesto. Il
giovanissimo era piazzato a questo incrocio di Times Square e cercava di distribuire a tutti i passanti una copia dell’omonima testata.
Era abbastanza curioso e affascinante vederlo così dinamico e motivato mentre proponeva il “suo giornale” a quella distratta folla di persone
che sino all’ora di chiusura degli uffici rende così frenetico questo mitico angolo della città.
NY City, Times Square,1969