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[email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci Con la cultura non si mangia 29 N° 1 “La mia prima proposta sarà di permettere a tutti i consiglieri di vestire una fascia tricolore come quella dei sindaci nei momenti di rappresentanza dell’istituzione” “Noi rappresentiamo la novità” Eugenio Giani dal discorso di insediamento come presidente del Consiglio regionale editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Da non saltare 27 giugno 2015 pag. 2 Que viva Mexico Simone Siliani [email protected] di L ’intervista con Alessandro Raveggi inizia all’uscita dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove svolge parte del suo insegnamento alla New York University e continua in via dell’Agnolo, fra un trancio di pizza con lievito madre, chinotto bio, progetti narrativi, e incontri sorprendenti. Alessandro Raveggi, classe 1980, è autore di “Calvino americano” (Le Lettere, 2012), del romanzo “Nella vasca dei terribili piranha” (Effigie, 2012), della prima introduzione italiana a “David Foster Wallace” (Doppiozero, 2014), e di “La trasfigurazione degli animali in bestie” (Transeuropa, 2011). Animatore dei movimenti culturali “Firenze delle Letterature” e “Generazione TQ”, è stato ricercatore borsista dal 2009 al 2011 in Letteratura italiana della Universidad Nacional Autonoma del Messico. Dove si accinge a tornare per 2 mesi per un progetto particolare, da cui iniziamo la nostra intervista. Siamo all’inizio di un’avventura letteraria, agli albori di un possibile romanzo al quale vai a lavorare in Messico: perché il Messico? Come è iniziato questo lavoro? Io, siccome ho vissuto in Messico per più di tre anni, mi ero sempre ripromesso di scrivere un omaggio al Messico. Nel senso più lato del termine: non qualcosa di necessariamente adulatorio o un apologo per turisti, ma una mia idea ambientata a Città del Messico. Che è una città che rappresenta molto del Messico, ma allo stesso tempo è relativamente diversa dal paese stesso. Ma, visto che non pretendo di essere un tuttologo del Messico, mi fermo ad una grande megalopoli e ho deciso di seguire una traccia che avevo già iniziato ad elaborare, cioè quella della presenza degli italiani in Messico. Non alla Pino Capucci, più legato alle coste, ma buttandomi nella metropoli. E qui gli italiani che trovi non sono solamente pizzaioli e ristoratori, ma ci sono figure particolari: militanti, professori accademici, studenti. E proprio la figura degli studenti per me è importante perché questo romanzo parte dall’esperienza di un giovane studente bolognese, che si trova a 20 anni a fare una specie di Erasmus a Città del Messico, poi si incontra con l’esperienza tragica dei 43 studenti desaparecidos. Il progetto di romanzo si chiama “44” perché lui diventerà in qualche modo il quarantaquattresimo studente scomparso. Come, non lo posso dire adesso, però è la ricerca del contrasto fra meraviglia, passione e disdetta, violenza di cui un italiano può fare esperienza in Messico. L’altro motivo è che, avendo insegnato là, ho avuto molti studenti che mi suggerivano di scrivere un romanzo messicano. Solo con la distanza, forse, è stato possibile. C’è un movimento in Messico legato alla vicenda dei 43 desaparecidos: tu pensi anche, nello scrivere il tuo romanzo, di incontrarlo, di interagire con questo movimento e quindi di far assumere al tuo lavoro anche un aspetto politico? Quando scrivo, di solito, non faccio letteratura politica. Come diceva anche Bolaño “ho sempre voluto fare lo scrittore politico, ma gli scrittori politici sono i peggiori”: proprio Bolaño ci rappresenta un’idea di politica diversa. Infatti sto lavorando sulle immagini delle manifestazioni: vorrei presentare quelle che sono le forze politiche messicane senza caricarle di ideologia, vedendole come movimenti studenteschi, ma non solo: pensiamo che i 43 scomparsi sono i famosi “normalistas”, cioè studenti delle scuole rurali, spesso poverissimi, la cui educazione si basa su un’esperienza molto di base e quindi loro stessi si definiscono più come manifestanti che come studenti. Quindi io sto cercando una serie di fotografie, non solo quella emblematica delle 43 facce, e da lì cerco di capire come a questi stimoli potrebbe reagire un occhio italiano, di un ragazzo di 20 anni, che emblematicamente viene da Bologna, cioè una città che negli anni ha visto militanza, contestazione ma anche sconfitte. C’è più, forse, un fattore antropologico: descrivere questa violenza messicana come emblematica: non ci sono soltanto i 43 desaparecidos, ma anche la strage di Piazza Tlatelolco del 3 ottobre 1968, c’è purtroppo una quantità sterminata di massacri, di nefandezze che emergono come dei fantasmi, in continuazione, nella storia messicana e l’esperienza di un italiano le attraversa. Quindi non c’è necessità di fare un lavoro di documentazione politica, bensì di immagini, di fotografie, di sensazioni. E per questo scelgo il punto di vista di un italiano, proprio per evitare anche possibili retoriche. Credo che il ruolo di un osservatore straniero debba essere valutato con attenzione perché non sempre chi è straniero e si trova in un paese come il Messico credo che possa al 100% intervenire sulle vicende politiche perché appartengono alla cittadinanza del luogo; anche per una sorta di rispetto io mi sono sempre ritrovato al margine rispetto ad altri che talvolta intervengono anche più degli stessi messicani (penso alle famose Tute Bianche nel movimento zapatista). Ecco io mi vedo più come osservatore, forse per indole, ma anche perché l’intervento di uno scrittore straniero in una situazione politica di un paese diverso è delicato. Quindi un engagement diverso... Sì, per questo ho scelto Città del Messico, che è una realtà molto complessa. Non è Oaxaca, non è la costa, non è Guerrero; è una città ambigua ed è proprio in quella ambiguità che sia interessante andare a indagare. Ambigua perché ci sono manifestazioni studentesche ogni giorno che si fondono con manifestazioni di maestri delle realtà più rurali; allo stesso tempo una società ipermoderna. La retorica lì è difficile farla. Nel frattempo prima di partire e durante la permanenza in Messico, stai realizzando un progetto per l’Estate Fiorentina. Questa mi sembra una novità per la manifestazione. Sull’Estate Fiorentina, e in particolare sul tema dell’Arno che sarà poi l’alveo in cui mi muover, stavo da tempo pensando perché c’era bisogno di raccontarla. Perché secondo me è una zona ricchissima e allo stesso tempo un po’ morta di Firenze. Si dice sempre che l’estate è altrove, non in città. L’idea è venuta dall’esperienza che ho fatto con la Notte Bianca durante la quale ho scritto quattro racconti, quattro ritratti narrativi ispirati ad altrettante fotografie che venivano fatte durante la notte e quindi molto d’impatto, d’assalto. E’ stato un esperimento riuscito. L’idea è quello di diluire il rapporto fra fotografo e narratore nella narrazione dell’Estate e, in particolare, quella dell’Arno. La prima idea è stata quella di fare un romanzo feuilleton, il romanzo d’appendice che nell’estate di solito trova il suo massimo compimento: una cosa apparentemente leggera. Da non saltare 27 giugno 2015 pag. 3 Da lì è nata l’idea di lavorare con il fotografo Francesco Natali per dialogare attorno a questo racconto, diciamo, d’amore, di passione, attorno all’Arno. Il fotografo andrà a fare questi sopralluoghi settimanali e io scriverò ogni settimana un racconto che, un po’ ironicamente, ho chiamato “romanzo da spiaggia”. Si parla spesso, durante l’estate, dei consigli di lettura, dei romanzi da spiaggia che di solito sono dei mattoni scritti da autori irlandesi che non riguardano mai le spiagge: volevo un po’ ironizzare anche su questo, visto che spesso mi si accusa di essere un autore troppo difficile e sperimentale, o massimalista nel senso un po’ barocco. Ogni settimana verrà fuori un racconto, cinque o sei ritratti di personaggi, ambienti, simboli incagliati tra i flussi dell’Arno. Che uscirà dove? In che modo? Sicuramente si manifesterà sulla spiaggia stessa, perché il progetto nasce voluto da Riccardo Ventrella e da Easy Living per l’Estate Fiorentina 2015, con un evento finale. Il romanzo sarà distribuito, in una modalità che ancora non possiamo svelare; non sappiamo ancora se soltanto online, oppure anche in forma cartacea, legata a qualche quotidiano. Uscirà da metà luglio a metà settembre. Ci lavorerai anche dal Messico? Anche. Per me stare in Messico e allo stesso tempo a Firenze è stato un mio sogno. Sono stato tanti anni là e ad un certo punto ho pensato anche di rimanerci, ma non ce l’ho fatta per nostalgia di Firenze. Ma quando sono a Firenze ho nostalgia del Messico. È uno dei privilegi degli scrittori, poter stare contemporaneamente in più posti e tempi diversi, no? Peccato che non si moltiplichino i compensi. Però, scherzi a parte, stare in molti luoghi per uno scrittore sarebbe fantastico. Hai accennato ai compensi: uno scrittore non sempre riesca a vivere di ciò che scrive. Tu fai anche il professore e insegni letteratura italiana in queste “mitiche” università americane a Firenze. Di cui tutti parliamo senza, forse, avere ben chiara l’idea di cosa parliamo: un’occasione, un problema. Però chi ci lavora, come te, forse può dirci qualcosa di più. Immagino che sia un’esperienza anche per certi aspetti straniante perché sei professore in un altro sistema educativo. Io sono destinato allo strania- Intervista a Alessandro Raveggi, scrittore diviso tra Città del Messico e Firenze mento: in Italia ero l’italiano in Messico con tutti i problemi del lost in translation; poi quando ho iniziato a insegnare in spagnolo insegnavo letteratura italiana in spagnolo; quando mi sono abituato un po’ anche a pensare in spagnolo ho deciso di tornare in Italia; sono tornato a Firenze e quello che faccio è insegnare letteratura italiana a studenti americani in università statunitensi che sono a 10.000 chilometri di distanza da qui. Un’esperienza anche questa formativa: passare dall’insegnare in spagnolo a farlo in inglese; forse un giorno riuscirò a farlo anche in italiano. Un’esperienza stupenda che faccio ormai da quasi due anni e in alcuni casi con università di alto livello dove si può fare anche un discorso con gli studenti di integrazione con la città, come sto facendo con questo festival letterario che dura alcuni giorni in cui gli autori americani incontrano gli autori italiani. Gli studenti si trovano in questo limbo positivo nel quale ascoltano gli autori italiani e quelli americani, si confrontano sulla scrittura: in questo caso il rapporto è virtuoso. Certo, questa grande quantità di studenti americani dovrebbe essere accolta meglio, da tutti i punti di vista. Non dimentichiamoci che sono studenti di 20 anni che, come gli studenti italiani a Praga, vengono anche per fare una espe- rienza sociale, divertente.... A questo punto il colloquio è interrotto dall’improvviso arrivo di Francesco Recami, scrittore fiorentino di successo, e il dialogo “degenera” scherzando, ma anche parlando di nuovi libri in uscita (Recami ha da poco pubblicato “Piccola enciclopedia delle ossessioni” e “L’uomo con la valigia”, entrambi per Sellerio), di come lavorano le case editrici e la distribuzione, le vendite dei libri (Recami è uno che vende dalle 5 alle 30 mila copie, una enormità in Italia per il genere). Interessante la parte sull’utilizzo dell’editor, che Recami vorrebbe come persona con cui litigare nella fase di scrittura del libro, ma che Sellerio non gli concede, che però non gli ha mai chiesto di intervenire pesantemente sul manoscritto per tagliere o caratterizzare diversamente dei personaggi a fini di cassetta. Ma testimonia anche di editor che suggeriscono a questo o a quello scrittore di inserire scene di massacri, aggiungere qualche morto in più per rendere più attraente il libro. Si parla dei figli, dei progetti letterari, di trattorie convenienti nella zona. Terminata l’incursione recamiana, riprendiamo dagli studenti americani... Mi rendo conto che, al netto degli eventi promozionali, questa è una grande risorsa, ma se viene fatta interagire con Firenze, sia dal punto di vista accademico che dei contenuti; se la stessa università fiorentina si aprisse di più a realtà universitarie importanti (NYU, Stanford, ecc.) e si avviassero degli scambi, sarebbe costruttivo per tutti. Qualcuno lo fa e io appoggio la scelta di consentire agli studenti americani di frequentare i corsi universitari per gli italiani. E’ difficile, anche perché le stesse università americane dovrebbero riuscire a concepire Firenze non solo come un luogo in cui mandare i propri studenti all’estero, ma anche occasione per fare ricerca. Per esempio, noi professori italiani presso le università americane abbiamo contratti di insegnamento e non di ricerca, mentre invece sarebbe più utile che ci fossero anche persone assunte per fare ricerca all’estero. Ma purtroppo l’Italia è ancora vista come un gran luogo dove fare vacanze. Un ultimo flashback: tu il romanzo messicano lo scrivi in italiano per un editore italiano, che ancora non c’è. Ma prenderesti in considerazione anche un’edizione messicana? La cosa particolare è che questo progetto si manifesta come una residenza durante la quale io intervisto tre italiani in Messico, di cui due ho già selezionato e il terzo sarà suggerito da loro: uno è un alpinista italiano che vive a Città del Messico, fra i maggiori del mondo, e l’altra è una burattinaia. Entrambe figure particolari. Di solito pensiamo che i burattinai siano figure legate ad un luogo, tradizionali e non che vadano all’estero a lavorare. Da queste interviste, loro diventeranno alcuni dei personaggi che descriverò nel romanzo. La scrittura verrà esposta in due luoghi molto importanti, un museo e una casa del libro, perché questo è un progetto finanziato dal governo messicano. I brani che scriverò nella settimana in cui ci sarà l’esposizione pubblica verranno tradotti anche in spagnolo, dando modo al pubblico di discuterne e di confrontare le varie prospettive. Questo metodo “dossier” letterario l’avevo usato per “Cinque ritratti” su la Repubblica Firenze, sui toscani esuli all’estero: anche lì le domande che ponevo a queste persone da cui traevo il ritratto letterario erano domande stressanti, legate anche a oggetti e foto che ricordavano loro l’Italia, e da lì elaboravo il racconto. Questo metodo l’ho applicato anche a questo progetto da cui emergerà un romanzo riunione di famiglia 27 giugno 2015 pag. 4 Le Sorelle Marx Questo papa Francesco ci sembra che stia davvero esagerando! Come è possibile mettere in discussione la Madonna di Medjugorje, addirittura dicendo che la Madonna “non è un capo ufficio della posta, per inviare messaggi tutti i giorni”?! Soprattutto quando i miracoli sono sotto gli occhi di tutti noi, ogni giorno. In questa settimana poi se ne sono concentrati alcuni su personaggi di nostra conoscenza. Valdo Spini parla al Papa! Durante la visita al tempio Valdese di Torino, addirittura Valdo, come ex ministro per l’ambiente lo ringraziava anche per la sua recente enciclica: miracolo!!! Poi, Erasmo D’Angelis, noto esperto di dissesti tanto da essere nominato da Renzi capo dell’unità di missione di Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico, viene evocato, chiamato, eletto sempre da Renzi alla Miracoli della madonna direzione della risorgente Unità: miracolo!!! Ma il vero miracolo sarà se l’Unità a guida D’Angelis si salverà dal dissesto del suo direttore (anche se per certo, qualora si profilasse l’infausta evenienza, Erasmo D’Angelis sarà già passato ad altro incarico un minuto prima della rottura delle dighe). Terzo miracolo di Medjugore di Toscana: il Nostro adorato e imprescindibile Eugenio Giani che diventa presidente del Consiglio Regionale della Toscana, aggiungendo così questo titolo ai ventidue che lui ce ne ha...miracolo!!! A questo punto è attesa per lunedì la nomina di quella Gialla dei Teletubbies a giudice della Corte Costituzionale. Così anche papa Francesco dovrà arrendersi all’evidenza dei fatti: la Madonna di Medjugorje fa i miracoli! I Cugini Engels Mi par più catecumeno lui Sinceramente non sappiamo come funziona tra i neocatecumeni. Alla parola catecumeno ci torna in mente la scena di Amici Miei del battesimo del Melandri (convertitosi per amore di una bella fanciulla) e poco altro. Quindi non sappiamo se abbiano, come l’Arci, dei circolini in cui trovarsi la sera, discutere, fare attività ma anche rilassarsi e bersi un grappino. Li avessero consiglieremmo loro di lasciare in tali ameni spazi Kiko Arguello, il pittore spagnolo intervenuto al family day per dire che i femminicidi sono colpa delle donne. Ecco un tipo così, al bancone del bar del circolino è un innocuo, seppur un po’ molesto, fastidio che tocca sopportare. A farlo parlare in una piazza, persino quella piazza, rischia di far passare per coglioni non solo lui ma anche chi ce l’ha portato. Lo Zio di Trotzky Oh, my God Breve scenetta teatrale dedicata a John Hagee, fondatore e pastore della chiesa di Cornerstone a San Antonio, in Texas Le 2 di notte, distretto di polizia di San Antonio, Texas. Squilla il telefono. “911, agente Lopez dica pure”. “Dovrei denunciare un uso improprio del mio nome”. “Chi parla? Prego, si identifichi”. “Sono DIo”. “?!? Mi può fare lo spelling, la sento lontano”. “D-I-O, G-O-D, D-I-O-S, se preferisce visto le sue origini latine”. “Ok. E di nome?”. “La questione è complessa, le consiglio di leggere un paio di libri di teologia, oltre che la Bibbia”. “Vabbé, lasciamo perdere. Andiamo avanti nella denuncia”. “Allora nella camera da letto dell’appartamento, sito in Lexington Avenue di John Green e Francis Delaware durante un amplesso, abbastanza rumoroso (e senza finalità riproduttive, ma questo è un altro problema) la Delaware ha gridato, e cito ‘oh, mio Dio sì’ senza che ce ne fosse una reale necessità”. “Sì capisco, una chiara violazione della legge Hagee sull’uso del nome di Dio durante il sesso. Mi faccia controllare se hanno precedenti e mando una pattuglia”. “Ok, aspetto in linea, intanto do un’occhiata che anche al 10 di Camden street hanno iniziato a copulare”. Un minuto dopo il poliziotto con voce sommessa: “Ehm, mi scusi mr. Dio, abbiamo un problema. Dai dati in nostro possesso, risulta che la Delaware in realtà è il Delaware, insomma è un uomo. Sicuro di aver visto bene, sa con l’età, la distanza, il buio…”. “…”. “E stando così le cose la legge Hagee non è applicabile, ci vuole una donna, mica possiamo limitare la libertà d’espressione dell’uomo è anticostituzionale”. Dall’altro capo del telefono silenzio, imbarazzante, ma l’agente Lopez ha il colpo di genio: “Se vuole per risolvere il problema le do un numero, gente di qui fidata, anche molto scenografica con i loro cappucci e mantelli bianchi. Gente di chiesa, ma a loro agio con linciaggi e pestaggi. La loro specialità sono i neri, ma se glielo chiede lei non penso diranno di no a fare una visitina a questa coppietta…” 27 giugno 2015 pag. 5 Laura Monaldi [email protected] di N on v’è dubbio che di fronte alla complessità e alla totalità delle riflessioni culturali risulta sempre più difficile dominare l’attuale mondo dell’Arte. Non a caso l’articolata struttura dei linguaggi artistici degli ultimi decenni ha posto l’accento sul carattere aperto, velleitario e soggettivo di un sistema culturale problematico, che ha reso gli atteggiamenti espressivi degli artisti sempre più inclini all’analisi dei meccanismi visivi, in virtù di una progettualità tesa a rinnovare la fruizione estetica dell’opera d’arte contemporanea. La sperimentazione sulle potenzialità dell’immagine si è espressa, in tal senso, nella direzione della multimedialità, chiamando in causa strumenti e pratiche estranee al Sistema artistico: si allude, naturalmente, all’impiego sistematico – benché estremo ed estremizzante – dell’informatica e della tecnologia digitale, considerati non più oggetti elitari, ma alla portata della cultura popolare. Arti e discipline continuano, ciononostante, a dialogare ininterrottamente e a influenzarsi a vicenda, con la consapevolezza di restituire all’idea d’immagine il suo valore puro, nitido e incontaminato. Non a caso, fin dai suoi albori, la fotografia ha ricoperto un ruolo importante nel Sistema artistico, qualificandosi come mezzo attraverso il quale sviluppare idee e opere d’arte. Nel momento in cui la riflessione artistica ha aperto i propri orizzonti e ha permesso di non cedere alle dispute che invocavano con forza la perdita di valore, lo scatto fotografico si è manifestato come una nuova forma di libertà espressiva, dando modo all’artista di dar voce alla propria sensibilità personale, attraverso la democratizzazione dei criteri formali di un’Arte, da sempre considerata elitaria e circoscritta alla pratica pittorica. Proprio negli anni del Concettualismo e dell’indagine sul linguaggio comunicativo, James Collins si avvicinò alla fotografia con l’obiettivo di cogliere le convenzioni sociali, agire direttamente e all’interno nello smantellamento dei codici James Collins il guardone Sopra Watching Joyce (Diptych), 1976, Fotografia a colori, cm. 76x100,5 cadauna Sotto Watching Shem, 1974, Fotografia a colori, cm 73x100,5 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato e delle etichette culturali, catalizzare nello scatto fotografico istanti precisi e puntuali, presi a prestito dal mondo quotidiano, per esplicare il proprio punto di vista. Personaggio originalissimo, eclettico e perennemente stimolato dall’interdisciplinarietà della cultura, l’artista si muove nella direzione della fusione degli interessi: la fotografia è il mezzo attraverso il quale sviluppare una ricca varietà di livelli di significati e di associazioni. Quella di James Collins è una modalità operativa che indaga e si amalgama alla realtà circostante: cultura e società divengono per James Collins un unicum quotidiano, un unico spazio vitale nel quale far progredire le tendenze e approfondire la propria ricerca espressiva. 27 giugno 2015 pag. 6 Marco Travaglio ha pubblicato un articolo (“Lotta contigua”, su il Fatto Quotidiano del 24 giugno 2015) ferocemente polemico nei confronti di Adriano Sofri, chiamato dal Ministro della Giustizia a contribuire agli Stati Generali sull’Esecuzione della Pena in virtù del suo impegno e della sua esperienza in materia di carceri. Sergio Staino, come noi della redazione di Cultura Commestibile, è sconcertato dalle argomentazioni e dalla virulenza di questa polemica e ha scritto questa lettera che, con l’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo Dei delitti e delle pene (altrui) Cari amici, ancora oggi alcuni di voi mi chiedono perché io, uomo di sinistra, sia così acerrimo nel contrastare le idee di Marco Travaglio. Vi invio per questo l’esemplare editoriale uscito un paio di giorni fa sul Fatto, giornale di cui il nostro è adesso anche direttore. Non vi chiedo ovviamente una solidarietà per Adriano Sofri che è al centro di questo editoriale:ormai su questi fatti ognuno avrà elaborato una propria opinione ed è bene guardare avanti senza sempre rimestare nel passato. Vi chiedo un giudizio sul taglio generale, vi domando se questa è una prosa di una persona che ama il prossimo suo, che guarda il mondo con gentilezza come io mi aspetto da chiunque si dichiari uomo di sinistra. Qui non troverete l’indignazione verso l’ingiustizia, troverete solo il gusto perverso di un maniaco, sadico, che gode solo nel comminare pene e torture a chiunque non sia a lui riverente. Credo che un qualsiasi psicanalista potrebbe trovarci tanto materiale di perversione e qualunque persona che segue la realtà ci troverà tanta falsità. Pensate solo all’accenno fatto alla malattia di Adriano Sofri: un esofago squarciato, oltre un mese di coma farmacologico, una lunga convalescenza in contemporanea con la morte della sua cara compagna. Ebbene, tutto questo il signor Travaglio lo fa passare come ingegnoso inghippo per farla franca e avere a gratis gli arresti domiciliari. Devo invece un ringraziamento ad Alessandro Campi, intellettuale di destra già molto vicino a Gianfranco Fini. Nella rassegna stampa su Radio Tre di questa mattina ha notato, lui di destra ripeto, la stranezza che in Italia si continui a giudicare uomo di sinistra un personaggio così diagnosticamente fascista, e del fascismo più estremo e più cattivo. Un caro abbraccio, Sergio 27 giugno 2015 pag. 7 Danilo Cecchi [email protected] di L a storia della fotografia italiana, essendo cosa diversa dalla storia dei fotografi italiani, ha la tendenza ad esaltare la figura dei fotografi stranieri che in Italia hanno lavorato, stabilendovisi fino da metà Ottocento, come i vari Anderson, MacPherson, Sommer, Von Gloeden ed altri, oppure limitandosi ad un veloce passaggio come Paul Strand (Un Paese - 1955) o William Klein (Rome - 1958), ma ha anche la tendenza a trascurare ed escludere i fotografi italiani che hanno vissuto e lavorato esclusivamente all’estero. Per una Tina Modotti, che viene comunque ricordata e celebrata, ma ponendola al di fuori dal contesto storico, molti altri fotografi italiani vengono sistematicamente ignorati. Fra i tanti, mi piace ricordare Adolfo Farsari (18411898), nato e morto Vicenza, ma con una vita contraddistinta da lunghe parentesi in paesi molto lontani. A diciotto anni si imbarca per l’America, dove si arruola nel 1863 come volontario nell’esercito dell’Unione, per combattere contro i Confederati nella Guerra di Secessione, e dove contrae uno sfortunato matrimonio. Nel 1873 lascia la moglie e due figli e si imbarca, a vent’anni dall’impresa dell’ammiraglio Perry, per il lontano Giappone, dove apre a Yokohama un’attività commerciale ed editoriale, pubblicando giornali, riviste, romanzi, cartes de visite, mappe, guide, dizionari ed un manuale di conversazione anglo-giapponese, oltre alla prima guida per viaggiare in Giappone nel 1880, ed inizia a produrre ed a commercializzare anche immagini fotografiche, almeno a partire dal 1883. Nel 1885 si associa con il fotografo Tomamura Kozaburo (1856-1923) per rilevare lo studio Stillfried & Andersen, noto come Japan Photographic Asociation, proprietario fra l’altro dei negativi di Felice Beato (attivo a Yokohama dal 1863 al 1877), e successivamente rileva la Yokohama Photographic Company di David Welsh, aprendo succursali a Kobe e Nagasaki. Nel 1886 si associa per un breve periodo con il fotografo cinese Tong Cheong, e dopo la sua partenza rimane il solo fotografo straniero realmen- Adolfo Farsari fotografo in Giappone te attivo in Giappone. Nel 1886 un incendio distrugge il suo archivio, ed Adolfo Farsari, per ricostituirlo nelle parti essenziali, percorre nell’arco di cinque mesi le principali località giapponesi. Nel 1887 riapre lo studio, arrivando nel 1889 a disporre di oltre un migliaio di lastre che riproducono paesaggi, monumenti, personaggi e scene di vita, ed il suo studio diventa uno dei principali punti di riferimento per la fotografia in Giappone. Secondo la moda dell’epoca, Farsari raccoglie le stampe in preziosi album tematici che, rilegati e messi in commercio, vengono apprezzati da visitatori e viaggiatori. Nel 1889 il suo atelier viene visitato da Ruyard Kipling, e nello stesso anno uno dei suoi album viene offerto in dono al Re d’Italia. L’attività fotografica di Adolfo Farsari influenza molto la pratica della fotografia in Giappone, dando vita alla così detta “Yokohama Shashin” (Yokohama Fotografia), e fra i suoi assistenti spiccano i nomi di alcuni dei pionieri della fotografia giapponese, come Kusakabe Kimbej (18411934), Ogawa Katzumasa (18601929) e Uchida Kuichi (18441875). Il rapporto fra fotografo italiano e la fotografia e l’arte giapponese è biunivoco, perché la vicinanza con la tradizione pittorica giapponese ukiyo-e e dell’acquarello spingono Farsari, come Felice Beato in precedenza, a dipingere con colori delicati e soffusi le proprie stampe all’albumina, ottenendo immagini uniche e preziose. I temi sono quelli apprezzati dai viaggiatori dell’epoca, trattati con gusto e raffinatezza, paesaggi naturali o urbani, monumenti celebri o meno noti, personaggi tipici della cultura giapponese, dai samurai alle geishe, dai monaci ai lottatori di sumo, suonatrici e danzatrici, di ma anche personaggi più umili, piccoli artigiani o venditori, e scene di vita urbana, fermate senza mai scadere nel bozzetto facile o nel “giapponesismo” a tutti i costi. Desideroso di riacquistare la cittadinanza italiana, e nella speranza di ricevere in patria qualche onorificenza, Farsari affida lo studio a Tonokura Tsunetaro e torna in Italia nel 1890, insieme alla figlia Kiku, nata nel 1885 dalla relazione con una donna giapponese. 27 giugno 2015 pag. 8 La crisi greca? Parte 1 Ilaria Sabbatini [email protected] di S ono appena tornata dalla Grecia dove ero per lavoro con mio marito. No, non ci hanno accolto legioni di non-morti che miravano a sbranarci le carni ma persone vive e progettuali che ci hanno trasmesso voglia di fare. Una volta tornati a casa, però, ci siamo resi conto che la percezione del paese e della sua situazione, vista dall’Italia, è completamente stravolta rispetto a quando stavamo in loco. Ed è così che nascono questi appunti di viaggio. Non ho la pretesa di testimoniare chissà cosa, ma non ero in Grecia per turismo. Questo cambia profondamente la prospettiva e il punto d’osservazione. Significa che guardi altro, non semplicemente i resti archeologici e i musei. Guardi anche quelli perché fanno parte, a tutti gli effetti, del panorama socioculturale ed economico di un paese. Ma l’attenzione è spostata altrove e il cervello non è blandito dalle endorfine da ombrellone. Con le persone che ho conosciuto là - professionisti non turisti ho parlato sempre di lavoro, di tasse, di prospettive. Sono in gran parte operatori del settore cultura. Ciò non significa che vivano al di fuori del mondo reale e che abbiano una percezione meno concreta di ciò che li circonda. Quello che ho visto della Grecia non corrisponde affatto a come viene descritta dalla stampa italiana e anche il clima sociale che si respira è diverso. Il nostro lavoro si è svolto al centro culturale Onassis per un progetto con cinque musicisti e un videoartista. Lo spettacolo si chiama Trascendence, dal titolo dell’album della musicista greca Tania Giannouli, e l’esecuzione era accompagnata dalle immagini del videoartista italiano Marcantonio Lunardi. Potete averne un assaggio qui. Il teatro era pieno: è andato sold out in quattro e quattr’otto. Lo spettacolo è finito oltre l’una eppure il pubblico era ben sveglio. Tanto che ci siamo intrattenuti a parlare con gli spettatori ben dopo la fine. Il centro culturale Onassis è un edificio sorprendente: ha due teatri su due piani diversi e un design luminoso e moderno che a me è piaciuto molto. Subito dopo l’esibizione, i colleghi greci di mio marito si sono dati da fare per progettare la prossima collaborazione perché il centro non solo espone cultura ma finanzia cultura. E non è esattamente la stessa cosa. Stando lì abbiamo scoperto che ad Atene sta per aprire un museo d’arte contemporanea nuovo di zecca finanziato da Onassis. Dice: facile, visto il nome. Ma in realtà non c’è solo quello: basta leggere il pezzo di Ginevra Bria per Artribune “E la Grecia ci prova” e l’altro di Michele Stefanile per Huffington “La Grecia in crisi pensa a costruire musei”. Direi che, a prescindere dalle valutazioni su tali scelte, non è affatto realistica l’immagine che io stessa avevo della Grecia prima di salire sull’aereo. In effetti scherzando, ma non troppo, dicevo ai miei amici italiani che se le cose andavano male con l’Europa mi venissero a recuperare in qualche modo. Ma non è stato così, anzi: è successo l’esatto contrario di quanto mi sarei aspettata. E mi è rimasta solo la voglia di tornare. La metro è pulita e puntuale. A me piacciono le metro, se un città ha la metro guadagna subito un sacco di punti nel mio gradimento personale. Non commento quelle di Roma e di Milano. Sono rimasta estasiata della metro di superficie a Losanna, utile per una scappata sul lago in un momento rubato al lavoro. A me piace viaggiare così: meravigliandomi non solo quando vedo cose culturali. Ho una formazione classica ma apprezzo la contemporaneità in tutte le sue forme. La metro di Parigi è sporca e mi ha ricordato inevitabilmente Victor Hugo: si sente tutto il peso della storia lì sotto. A Istanbul invece della metro prendevo il trenino fino alla stazione di Sirkeci. Mi piaceva la sua tekka sufi e le sue architetture mi faceva pensare ad Agatha Christie. La metro di Atene accende un altro immaginario, più moderno ed efficiente. Non ho ancora trovato il suo richiamo letterario ma se usi i mezzi puoi andare ovunque, ad Atene. Da quello che ho constatato le persone, lì, non se la scialano. Ma non si incontrano nemmeno gli zombies che si trascinano per la via. Onestamente pensavo che fosse proprio così. Mi aspettavo di incontrare persone depresse e oppresse dal peso della situazione internazionale. So che ci sono stati molti suicidi e non metto in dubbio i disagi. So perfettamente che ci sono sacche di povertà molto grandi. Ma puoi vedere dormire gli homeless nei porticati delle chiese ortodosse sulla collina dell’Acropoli e nessuno li scaccia nè si sente minacciato. Le tasse sono molto inferiori e gli stipendi non sono certo milionari. Però i beni essenziali costano poco perciò la sera c’è pieno di ragazzi e famiglie che si fanno un souvlaki e magari un gelato. Gli amici ci prendevano un po’ in giro perché conoscevamo solo lo tzatziki e la feta. Ci sono negozi chiusi, certo, come da noi. Ma le piazze sono pulite, le biblioteche funzionano, la gente lavora, la televisione nazionale è riaperta. Al di là delle analisi sull’economia si percepisce chiaramente la voglia di andare avanti. 27 giugno 2015 pag. 9 Simonetta Zanuccoli [email protected] di U no dei luoghi più romantici, senz’altro il più segreto, di Parigi si trova in avenue de la Belle Gabrielle, vicino al castello di Vincennes e al suo bosco, riserva di caccia di Luigi XIV. E’ uno strano, selvaggio giardino dove nei suoi 4,5 ettari, in una cornice di decadenza tra la vegetazione lussureggiante emergono frammenti di memorie, di edifici e terre lontane. E’ il giardino d’Agronomie Tropical, un luogo esotico, oggi conosciuto e frequentato da pochissime persone, creato nel 1899 al fine di aumentare la produzione agricola nelle allora tante colonie francesi. In questo luogo dove si fondeva scienza e natura, popolato di laboratori, una biblioteca specializzata, case per gli scienziati, giardinieri e agronomi, si cercava di migliorare la qualità dei semi e di sperimentare nuovi innesti attraverso lo studio delle piante di caffè, cacao, the, vaniglia, noce moscata, cotone e delle tante spezie che crescevano al riparo dal clima rigido nelle innumerevoli serre riscaldate, vero cuore pulsante del giardino. Ogni anno venivano spediti nelle colonia più di 40.000 semi e, dentro geniali piccole serre portatili, 10.000 tra piantine e talee. Un catalogo annuale, distribuito nei diversi giardini botanici d’Europa, presentava le piante acclimatate a disposizione per essere acquistate. Nel 1907 il giardino fu ritenuto la location, come si direbbe oggi, ideale per ospitare la Mostra Coloniale. Diviso idealmente in due zone, quella asiatica e quella africana, da un portale in legno in stile orientale intagliato con draghi, animali e fiori, tra alberi esotici e collezioni di piante grasse, furono ricostruiti interi villaggi indocinesi, campi tuareg, fattorie sudanesi, una piccola pagoda con un laghetto circondato da rocce. C’erano poi il Gran Bazar Tunisia, bianco palazzo moresco con in esposizione tappeti, mobili gioielli e tessuti, il Gazebo per le degustazioni costruito con pannelli in legno dei Caraibi, i padiglioni con esposti i prodotti della cultura L’attrazione perversa del giardino coloniale Lido Contemori [email protected] alimentare dei vari paesi, quelli dedicati agli strumenti musicali e alle differenti tecniche di tessitura ....La mostra ebbe molto successo e in sei mesi fu visitata da oltre 2 milioni di persone. Molto di quello che era stato costruito per l’occasione venne lasciato come decoro del giardino. Con la progressiva perdita da parte dello stato francese delle colonie e il trasferimento della ricerca agricola su piante tropicali a Montpellier, il giardino fu abbandonato, molte serre e i padiglioni furono danneggiati dalle intemperie e le piante tropicali, non più curate, pian piano sparirono. Oggi di queste rimangono solo un ciuffo di bambù, un’eucomya e alcuni cachi. Per molto tempo chiuso al pubblico per motivi di sicurezza è oggi di nuovo visitabile e sembra che in futuro ci sarà un programma di sviluppo e restauro da parte del Comune di Parigi. Così, lontano dai rumori della città, nella fitta vegetazione spontanea dove ogni tanto appare il rosso di una pagoda, un drago, i resti di antiche divinità, è di nuovo possibile perdersi nei labirinti della fantasia di un mondo ormai lontano. di Il migliore dei Lidi possibili Florencepolis durante la prestigiosa manifestazione di PittiInsetti, 2100 ca Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni 27 giugno 2015 pag. 10 Alessandro Michelucci [email protected] di Museo dell’ambra, che ha sede a Vilnius. Col passare del tempo l’artigiano ha deciso di utilizzare la propria creatività per costruire anche strumenti musicali. Realizzate in ambra e legno, queste creazioni risultano più pesanti degli strumenti convenzionali: un violino, per esempio, pesa circa un chilo e mezzo, cioè il triplo del normale, mentre un violoncello sfiora i sei chili. La lavorazione richiede molto tempo e molti chili di ambra: circa 10 per un violino, almeno 40 per un violoncello. A questo punto, coerentemente, è nato l’Amber Quartet, un quartetto d’archi diretto da Vytautas Mikeliunas, amico e collaboratore di Davainis. Il 26 settembre 2014 le creazioni di Davainis sono state presentate all’ultima edizione di Mondomusica (Fiera di Cremona), dove il pubblico ha potuto ammirare due violini e una chitarra costruiti dall’artigiano lituano. La sua ditta è stata fra gli espositori presenti a un’altra manifestazione prestigiosa, la Musikmesse di Francoforte (1518 aprile 2015). La geniale idea dell’artigiano baltico conferma che il patrimonio tradizionale non è una sterile sopravvivenza del passato, ma può essere adattato ai tempi e trasformato in una forza viva che ci proietta nel futuro. date da Pompeo, Rainaldo e Camartino. I sei comandanti stabilirono i loro campi intorno a Fiesole: Camartino ovviamente a Camerata, Rainaldo sull’attuale Monte Rinaldi (non proprio in prima linea, a onor del vero, fra lui e Fiesole c’era la valle Faentina), Macrino sul Monte Macrino (non so dove sia, ma essendo tutti i cronisti concordi, da qualche parte ci deve pur essere). Fra Cesare e Cicerone si accapigliarono per dare il nome a Monte Ceceri, come scrive il Villani, in maniera devo dire un po’ confusa: “Cesare si pose in campo sul monte che sovrastava la città, ch’è oggi chiamata Monte Cecero, ma prima ebbe nome Monte Cesaro per lo suo nome, ovvero per lo nome di Cicerone; ma innanzi tengono per Cesaro, perocch’era maggiore signore nell’oste”: ora, detto che l’”oste” non è il padrone dell’osteria ma l’esercito, per il resto non ci ho capito nulla. Pompeo non pervenuto. Espugnata finalmente Fiesole, Cesare, considerato che Cicerone sembrava averla avuta vinta per Monte Ceceri, calò a valle nel 59 a.C. “e in quello luogo cominciò a edificare una città che appellavano Floria perché ivi Fiorino fu morto” e “gli abitanti furono consenzienti di chiamarla Floria, siccome in fiori edificata, cioè con molte delizie”. I materiali che vengono utilizzati per la costruzione degli strumenti musicali sono tanti: da quelli di riciclo ai legni, dalle fibre sintetiche ai metalli. Ma si tratta di un campo dove c’è ancora molto spazio per la fantasia: lo dimostra Šarūnas Davainis, un gioielliere lituano che da alcuni anni crea e costruisce strumenti utilizzando l’ambra. Nota fin dai tempi più antichi, questa resina fossile viene utilizzata nella lavorazione di anelli, braccialetti, collane e orecchini. La si trova in molte parti del mondo, dalla Polonia all’America centrale, ma i depositi più estesi sono quelli baltici: non a caso esiste la Via dell’ambra, un percorso di oltre 400 km che attraversa la regione baltica e la Russia. Secondo certe stime, queste foreste della regione baltica ne avrebbero fornito oltre 100.000 tonnellate. Davainis, nato a Vilnius nel 1945, si è costruito una solida fama come creatore di gioielli, realizzati in prevalenza con Fabrizio Pettinelli [email protected] di Ci sono diverse ipotesi sull’origine del nome di Firenze, la più accreditata delle quali fa risalire l’etimologia al termine latino “florentes” (fertile), da cui Florentia che, come tale, compare nella “Tabula Peutingeriana”, antichissima mappa delle strade militari romane, che risale ai primi secoli dopo Cristo. C’è però anche un’altra ipotesi, avanzata per primo dal cronista fiorentino del ‘200 Ricordano Malespini, subito ripresa da Giovanni Villani e, molti secoli dopo, da Ludovico Antonio Muratori. Quest’ipotesi, per quanto fantasiosa, ha il merito di spiegare in un colpo solo, oltre a quella di Firenze, l’origine di altri toponimi. Cominciamo da Catilina che, in fuga da Roma, combattè la sua ultima battaglia vicino a Pistoia, dove trovò la morte. Alcuni fedelissimi, già prima della battaglia, si erano asserragliati nella città di Fiesole; Roma non perdona (nessun riferimento, lungi da me, a un fortunato slogan politico) e, ucciso Catili- L’ambra che suona questo materiale. Dalla fine degli anni Ottanta la sua ditta UAB Amber crea gioielli, collane, sculture e altri oggetti in ambra. Successivamente questa attività commerciale è stata integrata da un impegno culturale: nel 1997 Davainis e i suoi collaboratori hanno fondato il Via di Camerata L’assedio di Fiesole na, cinse d’assedio l’antica città etrusca. Comandante delle truppe assedianti era tale Fiorino che, con tutta la buona volontà, non riuscì però ad avere ragione delle mura fiesolane, tant’è vero che da Roma arrivarono altre tre legioni comandate da Cicerone, Cesare e Macrino. Sei anni d’assedio ma nulla da fare: i rinforzi tornarono a Roma ma quel testardo di Fiorino resto lì finché i fiesolani, essendosi giustamente stufati, fecero una sortita e sterminarono Fiorino e tutti i suoi, oltre a distruggere l’accampamento fortificato che i romani avevano costruito in quegli anni. Non l’avessero mai fatto; Roma si innervosì talmente da mandare addirittura sei legioni: oltre alle tre che non avevano cavato un ragno dal buco negli anni precedenti, arrivarono anche quelle coman- 27 giugno 2015 pag. 11 Giacomo Aloigi [email protected] di Addio Malizia tuta in carcere, a questi attori gli fa bene un po’ di gattabuia, poi dopo dieci anni assolta. Era già morta allora, il resto è una fastidiosa appendice che ha costretto noi a sopportare le rare immagini che qualche valente paparazzo pieno di sensibilità ha rubato negli anni del disfacimento fisico di Laura. Un disfacimento esteriore che doveva essere per forza specchio del suo crollo interiore, era diventata una mezza pazza, una mezza santona, una mezza barbona. Poverina, che brutta fine, meno male che è andata, meno male che ce la siamo tolta dalle palle anche st’Antonelli che poi ma te lo ricordi te che film ha fatto? Sì, quello con Gasmann che fa il cieco. Ah sì, quello che ha rifatto De Niro, o forse era Al Pacino? Ma no, quella di Gasmann era Agostina Belli, suona quasi uguale ma non è lei. E allora? “Malizia” roba di più di quarant’anni fa. Ma com’è, che fa scopa? No, si vedono un po’ di tette, un po’ di pelo, poco però. Capirai, allora mi guardo Belen su youporn, vuoi mettere? Ciao Laura, quando mi passa l’incazzatura, forse riesco anche a piangere un po’. F inalmente se n’è andata. Proprio come c’era da augurarsi, sola come un cane, sdraiata in terra chissà da quanto. A perfetto coronamento della favola all’incontrario in cui tutti l’avevano ormai collocata. Poverina, era ormai brutta, grassa, povera, abbandonata dal bel mondo di cui aveva fatto parte. Non poteva finire che così, era già scritto. “Addio Divina creatura” è il commento più originale che ho sentito, figuriamoci gli altri. A “Porta a Porta” Vespa dice sbrigativamente che parlerà della “sfortunata attrice” dopo che la Serracchiani e Fedriga (non esattamente Bobbio) avranno commentato l’esito della riunione dell’eurogruppo sulla crisi greca. Tra Rai, Mediaset e LA7, una quindicina di canali digitali in tutto, neanche un suo film in prima serata. Canale 5 alle 23.30 trasmette “Viuuuulentemente…mia” una vera stronzata. Ce ne voleva per trovare, tra i circa cinquanta titoli della sua vita cinematografica, uno così brutto. Tutti i telegiornali hanno ampiamente parlato dell’icona erotica dell’Italia anni 70, di “Malizia”, di Belmondo e, ovviamente, dell’arresto per droga, del volto deturpato da una sostanza che doveva mitigarne le rughe, della depressione. Poverina, com’era bella, sinuosa, ricca, circondata dal bel mondo. Visto che fine ha fatto? Maledetta questa giustizia infame che ti tiene sotto scacco per un decennio e poi ti assolve e tante scuse! Che poi è quella stessa giustizia sommaria che le bolge sdegnate di retti cittadini auspicano per i potenti in odor di malaffare, stonate neo-avanguardie di tircoteuse che non si rendono conto che la ghigliottina preventiva invocata per la casta è la stessa che si abbatte sui comuni mortali, gli unici che poi la testa ce la rimettono davvero. E Laura Antonelli è stata decapitata in quella lontana notte del 25 aprile 1991, quando il maresciallo in borghese Mario Sollazzi suona il campanello di villa “Trovarsi” a Cerveteri e lei gli consegna spontaneamente i 36 grammi di cocaina che ha in casa. Sbat- Michele Morrocchi twitter @michemorr di Premetto che porto gli occhiali. Per cui qualche diottria persa potrebbe essere pure colpa dell’oggetto del libro curato da Pippo Russo, Moana la santa peccatrice, appena uscito per le Edizioni Clichy. Moana Pozzi – è la tesi di Russo – è stata molto di più di una pornostar, è stata l’immagine di un periodo, l’estremo apice di una liberalizzazione dei costumi. Una promessa di libertà, di superamento del bigottismo. Promessa tradita, perché è proprio con la sparizione di Moana che avviene il riflusso, in cui la liberazione dei costumi, apparentemente enorme, è retrocessa sempre più, nella società come nella politica. Sono proprio gli enormi manifesti pubblicitari col corpo di Moana a rendere manifesto lo sdoganamento della pornografia dal ghetto. Dopo quella stagione, quel tentativo, fatto anche dell’elezione nelle file del partito radicale di Cicciolina, gli anni ’80 della Milano da Moana icona di un tempo di libertà bere, rimettono al loro posto la libertà dei costumi. La confinano ancora una volta all’interno della dimensione individuale, nel privato del peccato, in cui ritorna prepotente il cattolicissimo senso di colpa e l’ipocrita “si fa ma non si dice”. E’ la censura, preventiva e autoimposta, a Matrioska di Antonio Ricci (in cui Moana doveva comparire completamente nuda) a segnare, secondo l’autore, il momento di rottura. La fine della libertà, il ritorno alle proprie camerette. Forse, andrebbe aggiunto, che un ruolo su questo ritorno alla dimensione privata della pornografia lo giocherà in modo pesante la diffusione di internet e la morte della pornografia cinematografica; aspetto questo che l’autore non tocca, coscientemente, visto che richiederebbe saggi appositi. No l’oggetto del libro rimane, giustamente, Moana, la sua specificità (per provenienza familiare, per scelte professionali) che manifestano, più di mille analisi, una stagione del nostro Paese. Quella in cui avremmo potuto esser più liberi e non lo siamo stati. 27 giugno 2015 pag. 12 Michele Morrocchi twitter @michemorr di I l progetto 4wheels è un progetto culturale curato da Francesca Merz e Leonardo Perugini, rispettivamente storica dell’arte e fotografo, che hanno realizzato un’esperienza fotografica sulla disabilità. Leonardo ha preso una carrozzina, Francesca lo ha portato a giro per Firenze e insieme hanno fotografato la città da un altro punto di vista. Questa giornata particolare sarà in mostra dal 28 giugno al 5 luglio al Circolo Arci Lazzeretto di Cerreto Guidi. Abbiamo incontrati i due ideatori per farci raccontare questa esperienza. La prima cosa che avete imparato in questa giornata? Francesca: la prospettiva cambia, i tempi per percorrere le strade si allungano. Il progetto non voleva essere un reportage fotografico sulla disabilità, ma un reportage fotografico esperienziale sul cambiamento dell’ottica nel vedere il mondo con una nuova prospettiva, che non è solo la nuova posizione “seduta”, ma una matassa di innovazioni visive composta da elementi di disturbo, fatica, ma anche sorrisi, pacche sulle spalle, un mondo che ancora si commuove, e si prodiga per portare un sollievo ad una difficoltà. E dal punto di vista del fotografo quanto è stato differente lavorare così? Leonardo: quando ti viene proposto un lavoro fotografico in cui viene chiesto di trattare un tema specifico, il primo approccio in genere è quello di fotografare dal tuo punto di vista il soggetto che ti viene presentato. Questo invece era un caso diverso, poiché dovevo occuparmi di un tema delicato ma allo stesso tempo anche ampiamente trattato: la disabilità. Una disabilità tale da costringerti in carrozzina. Quindi ho scelto di fotografare dal punto di vista del soggetto, facendo in modo che fosse la quotidianità il centro della mia attenzione ma vissuta dal suo punto di vista. Dunque mi sono seduto io stesso su una sedia a rotelle e ho fatto ciò che normalmente faccio: ho fotografato quello che mi sta intorno e che attrae il mio occhio di fotografo. Fin da subito è stato strano, non lo nego. In un primo momento ho provato imbarazzo ma è durato molto poco. Non appena ho iniziato a 4wheels uno sguardo diverso della disabilità e Firenze La foto dalla carrozzina “guardare”, tutto è si è rivelato molto diverso. La mia prospettiva era completamente stravolta e non solo da un punto di vista prospettico. Tutto mi sembrava lontano, distante e difficile da raggiungere. Il mio primo pensiero è stato: “Io non posso fotografare da qui!” Invece poi… Leonardo: mi sembrava impossibile, quando faccio la mia fotografia,sono rapido, veloce, cerco sempre di cogliere l’attimo e di farlo dalla migliore prospettiva possibile, curando l’angolo di ripresa per valorizzare al meglio la scena che fotografo. Adesso invece mi ritrovavo immobile, lento, goffo e impacciato, con un solo punto di vista. Inoltre ero alle prese con la difficoltà di manovrare la carrozzina. Stavo perdendo le speranze e non mi vergogno ad ammettere che quando è persino incominciato a piovere ho quasi pensato di mollare. Poi mi sono fatto forza e ho scattato la prima foto. E poi un’altra. E un’altra ancora. Dopo un’ora ero tornato a essere un fotografo. Quasi tutto era più alto di me, le carrozze con i cavalli mi parevano enormi, per non parlare dell’effetto che fa un furgone quando ti passa accanto. Vedevo tutto dal basso verso l’alto. Tutto tranne i bambini: alcuni di loro erano proprio alla mia altezza ed è capitato di lanciarci occhiate furtive mentre ci studiavamo a vicenda. Nonostante tutto però dopo poco mi sono sentito completamente a mio agio, tanto concentrato su ciò che facevo che una turista giapponese mi ha persino chiesto di fotografarla con il suo cellulare mentre lei posava accanto a uno dei cavalli dei tipici cocchi fiorentini. È stato un bel momento perché era assolutamente normale. Francesca: abbiamo davvero fatto tanta fatica, ma anche trovato il sorriso e la disponibilità di un custode degli Uffizi che ci ha chie- sto con cordialità se poteva darci una mano per entrare, le pacche sulla spalla di turisti distratti che inciampavano sulla carrozzina, ma che dopo con mille scuse ricordavano la loro umanità e si riperdevano nelle bellezze fiorentine, i bambini alla Loggia dei Lanzi che rispondevano ad un saluto di Leonardo, prima straniti, guardando le due grandi ruote di quel mezzo sconosciuto, poi muovendo veloci le mani in cenno di risposta. Ma abbiamo visto anche un mondo che può migliorare, che ha gli strumenti per farlo, e soprattutto ho compreso la fatica, ed io ero solo colei che accompagnava: ero stremata per i tempi lunghissimi di ogni percorso, per la fatica fisica del peso da spingere, e mi accorgevo di come ogni movimento, ogni gesto, ogni passo scontato e fatto, rifatto, da anni, ogni giorno nella mia città, era invece elaborato, complesso, pensato. E’ stata un’esperienza formativa, un giorno non cambia la vita né la prospettiva di nessuno, ma un giorno “nei panni degli altri” servirebbe credo per meglio comprendere le tante tantissime situazioni di disagio sociale e disabilità nella nostra società. Cosa vi resta di questa esperienza? Leonardo: non posso certo dire che questa esperienza mi abbia fatto comprendere il reale disagio delle persone costrette a muoversi su una sedia a rotelle, ma di certo mi ha fatto capire ancora di più quanta forza possa avere l’uomo di fronte alle difficoltà e quanto queste ti rendano senza alcun dubbio più forte. Francesca: non cercavamo il patetismo, la denuncia, nulla di quello che era già stato fatto ci interessava, volevamo metterci in quei panni, e raccontarli non dal punto di vista della disabilità, ma dal punto di vista del cambiamento della condizione, entrare in quello straordinario e complesso mondo per poche ore, per poi rientrare nelle nostre vite e raccontare un’esperienza di viaggio, di un viaggio nuovo, diverso, modificato non solo dalla prospettiva fotografica ma da una nuova prospettiva psicologica con la quale siamo stati costretti a confrontarci. 27 giugno 2015 pag. 13 Sergio Favilli [email protected] di P ervaso da una morbosa curiosità, ho letto quasi interamente il Rapporto Barca sullo stato del PD romano, quasi interamente perché giunto oltre la metà del testo mi sono sentito sollevare da terra e librare verso l’alto , mi sono aggrappato all’armadio ma, nonostante ciò, rischiavo di essere schiacciato sul soffitto, cosa stava succedendo? Semplice, un vorticoso giramento di scatole(per non dir peggio) mi spingeva verso l’alto e l’unica soluzione è stata quella di gettare al vento la parte finale della relazione che stringevo ancora in mano. Ma dove era la classe dirigente del PD del periodo 2009/2013?? Dove era Rosy Bindi, Presidente del partito? Forse aveva Stefano Vannucchi [email protected] di Entrare al Caffè Pasticceria “Mangini” è fare un salto nell’atmosfera della Genova di fine ‘800. Fondato nel 1846 e affacciato sulla bellissima Piazza Corvetto, il locale conserva gli arredi originali (restaurati nel 1946) che ne fanno un piccolo tempio del Liberty: splendido bancone di rovere, sfarzosi lampadari e grandi specchiere, quadri e pavimento a scacchiera. Il locale divenne ben presto uno dei luoghi di riferimento per la cultura cittadina e vanta in particolare un prestigioso passato giornalistico. Negli anni seguenti alla II Guerra mondiale si trasformò infatti in una vera e propria redazione dei quotidiani Il Secolo XIX e Il Lavoro. Fra uno scambio di opinioni, un articolo e un caffè, tanti storici giornalisti e direttori, fra cui Cavassa e Pertini, affollarono le sue sale. Sandro Pertini, direttore del giornale socialista “Il Lavoro” dal ‘46 al ‘68, spesso organizzava riunioni di redazione in una saletta del locale che oggi è a lui dedicata. Una targa all’esterno ricorda invece la pausa che il Presidente si prese al Mangini di ritorno da Savona dopo aver svolto il dovere Polenta Fritta Caffè Letterario Il Caffè di Pertini Massimo cavezzali [email protected] di Scavezzacollo già iniziato a dare la caccia alle piccole pagliuzze senza vedere il trave che aveva in casa? E dove era il buon Bersani? Forse stava cercando la trielina per poter smacchiare il giaguaro? E dove stava il baffino nazionale ex leader maximo? Forse ad occuparsi di italiani ed europei aveva perso di vista i concittadini romani? Dopo tutto questo trambusto andiamo a votare , il PD perde 2 milioni di voti e questi signori danno la colpa alla nuova classe dirigente che non sarà ottima, ma sicuramente non responsabile del casotto romano : nel vecchio PCI prima si faceva autocritica poi, dopo un sonoro calcio in culo si tornava a frigger polenta alla Feste dell’Unità!! Fassina, con tempismo da record, ha immediatamente lasciato il PD : forse non sapeva friggere la polenta!! civico di elettore: “3/9/79 Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini di ritorno da Savona per adempimento elettorale ha onorato con una lunga sosta questo secolare esercizio”. Fra i suoi frequentatori vi furono pure Scalfaro, Cossiga, Spadolini e molti artisti, anche per la presenza del vicino Politeama Genovese. Fra i principali Gilberto Govi e il pittore Caminati, autore degli affreschi del foyer del Teatro Carlo Felice. Fra le tante specialità pasticcere del locale una menzione speciale la merita la torta Sacripantina, dolce tipico ligure e fra i preferiti di Sandro Pertini, con i suoi strati di pandispagna imbevuti di liquore, caffè, cacao e crema di burro. Ingredienti che non si fa fatica a comprendere siano stati associati a un guerriero dalla robusta corporatura e dal temperamento sbruffone. La torta deve infatti il suo nome a Sacripante, eroe della letteratura cavalleresca e personaggio dell’Orlando innamorato del Boiardo e dell’Orlando Furioso di Ariosto dove, come re saraceno di Circassia, compie numerose imprese nel tentativo di conquistare la bella Angelica. 27 giugno 2015 pag. 14 di Elisabetta Trincherini nuova dotata di senso in sé. La natura intesa nell’insieme della sfera animale e vegetale, realizza, perché completa, quello che gli uomini ‘mandano in rovina’. Sorta di deviazione dalla temporalità canonica è la gabbia vuota dello zoo, dove è proprio l’assenza dell’animale che normalmente la occupa, a instillare un’incrinatura prospettando la rovina. Assenze e presenze in queste tele connotano la rovina come l’irrompere casuale della natura nella sfera della forma, proiettandosi nell’universo sconosciuto dei processi in divenire. Palermo, Giuseppe Veniero Project - 29 giugno – 12 luglio 2015 - Inaugura sabato 27 giugno, ore 19 T he king of the ruins, personale di Marco Pace, è una riflessione intorno al concetto di rovina che segue il filo conduttore, già delineato dall’autore, a partire dalla dimensione animale di matrice derridiana. Qui il gorilla, che prima abitava la metropolitana, lo ritroviamo sovrano di un rudere contemporaneo. Se, in accordo con Simmel, un edificio è considerato in rovina quando l’ideale equilibrio di natura e spirito si rompe a favore della sfera naturale che tende a prendere il sopravvento, qui la presenza del Gorilla avvalora oltremodo la tesi. Pur suscitando senso del tragico, per l’idea di deperimento, non siamo di fronte solo alla rappresentazione di un tutto che non è più dato nella sua integrità, ma a un’entità Il tema della “macchina” si è più volte intersecato con l’arte contemporanea, dai Futuristi a Duchamp, da Fluxus alla Net Art. La mostra, curata dall’associazione culturale BAU di Viareggio in collaborazione con la GAMC, si inserisce in questa prospettiva, coniugando il genio leonardesco con problematiche attuali. L’esposizione coincide con la pubblicazione e presentazione in anteprima del numero Dodici della singolare rivista d’autore BAU Contenitore di Cultura Contemporanea. In aggiunta ai lavori di BAU Dodici, la mostra include opere a tema leonardesco di numerosi artisti storici, provenienti dal Museo Ideale “Leonardo Da Vinci” di Vinci e dalla Collezione Carlo Palli di Prato. Tra questi, figurano alcuni protagonisti di primo piano della ricerca letteraria, artistica: da Joseph Beuys a Eugenio Miccini, da Hermann Nitsch a Orlan, da Nam June Paik a Stelarc. Un percorso che coniuga in modo sorprendente arte e tecnologia, visionari marchingegni e curiosità storiche. All’evento interverranno Alessandra Belluomini Pucci (Responsabile GAMC), Alessandro Sul concetto di rovina Leo ex machina A Viareggio cento artisti interpretano le nuove macchine leonardesche Vezzosi (direttore del Museo Ideale “Leonardo Da Vinci”), il collezionista Carlo Palli e lLaura Monaldi (critico d’arte e archivista della Collezione Palli). Alcuni autori di BAU Dodici animeranno l’inaugurazione con originali performance: Paolo Albani, Ingegneria fantastica | Leonardo Bossio, No Army | Antonino Bove con Ida Terracciano, La borsa di Mnemosine | Jakob De Chirico, Marcel Duchamp, Joseph Beuys, Pablo Picasso, figli di Leonardo da Vinci, emigrati ad Amboise | ForA, P.O.M.A. | Kiki Franceschi, Hollow Men (Omaggio a T.S. Eliot) | I Santini Del Prete, I Santini Del Prete sub machina | Roberto Rossini, Sandroing azione estetico rituale | Giacomo Verde, Dimostrazione del Marchingegno Elettronico EPAD. Video proiezioni: Maurizio Cesarini, The White Shadow | Glauco Di Sacco, Simmetrie infrante | Danilo Sergiampietri, Una macchina che non fa un tubo | Emiliano Zucchini, Capturing Memories. Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Lorenzo Viani Palazzo delle Muse - Piazza Mazzini - Viareggio 28 giugno - 11 ottobre 2015 27 giugno 2015 pag. 15 Scottex Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella Le opere, che della Bella realizza rappallando fogli di scottex, assumono spesso aspetti zoomorfi o antropomorfi, non avendo possibilità di parlare con l’artista, poiché non risponde mai a domande relative le sue opere, non sappiamo se è lui che cerca di dare alla carta forme di animali o di uomini o se siamo noi che ce le vediamo. Comunque sia, questo lavoro ci appare come “Il ritratto di barboncino in gonnella”. 26 Scultura leggera Michele Rescio [email protected] di Imburrate due terrine monoporzione e poi spolveratele con lo zucchero semolato in modo che aderisca bene a tutte le pareti, togliendo poi l’eccesso. In una terrina unite la farina, il burro e il sale (se non amate troppo i contrasti dolci salati, diminuite la quantità di sale. In questa ricetta la quantità di sale, infatti, è spinta al limite, proprio perché si percepisca il contrasto); con le mani lavorate il tutto fino a ottenere un composto unito e omogeneo. Scaldate il latte con 38 g di zucchero e portate a bollore su fuoco medio. Versate il composto di farina e burro nel latte bollente e mescolando con una frusta cuocete abbassando la fiamma al minimo per 4 minuti, finché avrete ottenuto un composto denso e colloso. Unite a questo punto il cioccolato fatto a pezzetti e mescolate con una frusta per amalgamare completamente, dopodiché aggiungete i tuorli e mescolate fino a che si saranno amalgamati completamente. Lasciate raffreddare completamente il composto. Quando la base del soufflé sarà completamente fredda, montate gli albumi a neve bene ferma, poi unite 12 g di zucchero e continuate a montare finché otterrete una spuma ferma e lucida. Unite la meringa appena fatta alla base di cioccolata mescolando dal basso Un respiro di cioccolata verso l’alto per non smontare il tutto. Versate il composto nelle terrine di ceramica riempiendole fino all’orlo, poi con il resto di un coltello passate sul bordo ed eliminate l’eccesso. Con un pezzetto di carta assorbente pulite i bordi. Poi adagiate le due terrine su una teglia e infornate per 17-18 minuti al massimo se desiderate un soufflé fondente dal cuore fluido, altrimenti per un paio di minuti in più per avere un soufflé spugnoso. Appena i soufflé usciranno dal forno, spolverateli con zucchero a velo e serviteli subito altrimenti piano piano si sgonfieranno. Se volete preparare dei soufflé da servire in un secondo momento, preparate a base al cioccolato, conservatela in frigo, poi prima di servire procedete unendo la meringa e cuocendo sul momento.Ingredienti per 2 terrine di ceramica monoporzione da 8cm di diametro e 4,5cm di altezza: Ingredienti: 95 g di latte intero 18 g di farina 0 per pane 18 g di burro 50 g di zucchero semolato 2 tuorli d’uovo 2 di albume 70 g di cioccolato fondente al 70% 3,5 g di sale in giro 27 giugno 2015 pag. 16 lectura dantis 27 giugno 2015 pag. 17 Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni E mi sovvenne, in quel loco ancor fresco, che a ragionar con le belve crudeli forse mi ci volea il Gran Francesco Papa o santo che fosse pe’ fedeli; l’important’era di salvar la pelle dicontro alle bestiacce pien di peli. L immagine ultima 27 giugno 2015 pag. 18 Dall’archivio di Maurizio Berlincioni [email protected] E cco un ragazzino dall’aria simpatica e accattivante con il simbolo pacifista appuntato su una T-shirt che ritrae Huey P. Newton, co-fondatore assieme a Bobby Seale, del famoso “Black Panther Party” per l’autodifesa dei neri. Così recitava il loro famoso manifesto. Il giovanissimo era piazzato a questo incrocio di Times Square e cercava di distribuire a tutti i passanti una copia dell’omonima testata. Era abbastanza curioso e affascinante vederlo così dinamico e motivato mentre proponeva il “suo giornale” a quella distratta folla di persone che sino all’ora di chiusura degli uffici rende così frenetico questo mitico angolo della città. NY City, Times Square,1969