2012-05-13 Resoconto Bidda Mores

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2012-05-13 Resoconto Bidda Mores
Club Alpino Italiano – Sezione di Cagliari
Escursione a Bidda Mores – Punta Tiriaxeddu del 13 maggio 2012
di Valentina V.
La giornata era già nel suo pieno fulgore tardo-primaverile, l'aria già piena di farfalle, di
profumi di erbe selvatiche e densa di colori di fiori, di tutte le gradazioni della fantasia
naturale.
Accarezzati da una fresca brezza, abbiamo cominciato il nostro percorso, e, subito all'inizio,
Giorgio ci ha segnalato la prima delle attrazioni di Bidda Mores: un magnifico, quanto raro,
esemplare di lentisco secolare.
Questa
pianta,
l'ho
sempre
conosciuta
come
un'arbusto
cespuglioso, ma mai come albero:
e invece, la natura, ci ha abituati a
sorprenderci,
perchè
eravamo
davanti a un vero e proprio albero,
dal
tronco
marrone
chiaro
massiccio (che quasi gareggiava
col tronco di tanti altri alberi
secolari presenti nella zona, quali
lecci e ginepri), parzialmente
nascosto
dalla
frondosissima
chioma, che quasi toccava il suolo
con le estremità.
La località da noi esplorata era
molto verde e la vegetazione folta,
forte anche della presenza d'acqua
del vicino fiume, al momento, in secca: abbiamo percorso proprio il suo letto sassoso, per
quasi tutta l'escursione, dal fondo a tratti un pò sconnesso. Oltre gli steli "vivaci" di menta
piperita, che si facevano largo tra i cisti bicolori e i cardi mariani in fiore, lungo il cammino, ci
siamo imbattuti anche in una pianta, che, col suo portamento ritto e regale, incuteva quasi
riverenza: il verbasco, dai fiorellini gialli disposti in crescendo verso l'estremità, terminante a
punta, dalle larghe foglie pelose avviluppanti.
Il greto sassoso, diveniva in certi punti più erboso, il fondo diventava meno accidentato da
percorrere e si tramutava in sentiero, punteggiato di margheritine e camomille, del viola dei
capolini di lavanda selvatica e abbondantemente ornato da cespugli di cisto rosa e bianco, che
si spartivano equamente lo spazio, e che, sfiorati al nostro passaggio, lasciavano sugli abiti il
profumo aromatico delle loro foglie. Il fiume, a momenti scompariva, per poi ricomparire alla
nostra vista, man mano che procedevamo, a formare delle cascatelle, e raccogliersi, dando
luogo a degli specchi d’acqua non molto estesi, dove vegetava abbondantemente il crescione,
come ci ha precisato l’amico Giorgio, che coi suoi fiorellini bianchi, formava una sorta di
tappeto sul pelo dell’acqua e dove, ai suoi lati, gli oleandri trovavano la loro massima
espressione vegetativa. Qua e là ginepri dal tronco profondamente solcato e d’aspetto
tormentato, come molte montagne che ci circondavano, e lecci più o meno di vecchia data, cui
le radici risultavano messe a nudo e stranamente avviticchiate da gomitoli di sterpi e tronchetti
affastellati. Il perché di questo strano fenomeno ce l’ha spiegato sempre Giorgio: questi alberi
si trovavano all’interno del fiume in piena durante la terribile alluvione del 2008 e son stati
ricoperti da tutti i detriti che esso ha trascinato violentemente con sé, che erano anche di
dimensioni ragguardevoli, e dei quali se ne vedeva traccia ancora tangibile a riprova della forza
impressionante delle acque.
Dopo aver superato diversi guadi (non sempre era facile spostarsi sulle pietre affioranti per
non bagnarsi gli scarponi) e camminato su substrati sabbiosi a lato del fiume, che assumeva
un corso a volte più lento e a tratti più rapido, e si colorava di capolini bianchi dei numerosi
ranuncoli fluttuanti, cominciavano a sporgere, in lontananza, dal folto della vegetazione, i primi
rilievi, d’aspetto frastagliato e brullo, e noi ci dirigevamo proprio verso di essi.
Man mano che ci avvicinavamo, prendeva sempre più corpo e si ingrandiva, davanti ai nostri
occhi, la sagoma rossiccia di una grande montagna di forma tronco-conica, dalla superficie
ruvida e sedimentata quasi priva di vegetazione: di converso, alle sue pendici, il verde
“fresco”, tipico dei corsi d’acqua abbondava, con alti cespi di rovi, oleandri che formavano delle
boscaglie fitte quasi impenetrabili, alle quali si aggiungevano i “reticolati” di salsapariglia. A
fianco al poderoso torrione rossiccio se ne
fronteggiava un altro simile e le loro pareti
a picco, verticali, chiazzate di giallo,
venivano quasi in contatto e lasciavano solo
uno stretto passaggio: ci trovavamo al
suggestivo “Strintu Antoni Sanna” e
camminavamo sul letto sabbioso e pietroso
del fiume, che in inverno, colma la gola
stessa. Percorrendola, ho notato che il sole
non riusciva a raggiungerla, per cui
rimaneva
ombrosa,
e
il
vento,
incanalandosi nella stessa, ci investiva
acquisendo solo lì più forza, mentre per
tutto il tragitto era molto meno avvertibile;
all’interno dello “stretto”si creava anche
un’effetto sonoro particolare e le nostre
voci rimbombavano. Giorgio ci ha precisato
che sulle sue pareti ripide facevano anche il
nido le rondini: questo particolare la
rendeva ancor più piacevole da visitare e
anche le piante di vite, cresciute spontanee
in gran numero, che si avvolgevano e si
intrecciavano agli oleandri, erano davvero
degne di sorpresa. A proposito di sorprese,
sempre dentro quel piccolo microcosmo,
addossata al costone, ecco ergersi la
sagoma aggraziata ed elegante di una delle
più belle e ricercate piante medicinali
autocto
ne: la
Digitale
purpur
ea.
Essa è interamente velenosa, ma i suoi fiori tubolari rosa a
cascata, delicatamente punteggiati all’interno, e le sue
ruvide foglie disposte con armonia lungo il fusto, le fanno
perdonare
la
sua
tossicità,
ripagando
l’occhio
gradevolmente!
Portandoci verso l’uscita della gola, è riapparso l’esiguo
fiume, dalle limpide acque, che scorreva lievemente,
questa volta tra grandi massi, ai quali ci siamo più in là
anche dovuti affiancare e appigliare per uscire dallo
stretto, che andava riducendosi d’ampiezza: anche qui, a
lato dei blocchi di pietre, un altro leccio dalla base dilatata
“effetto elastico” il quale dava l’idea che si fosse voluto
disperatamente aggrappare al suolo, opponendo la sua
resistenza e forza a una qualche altra esterna più decisa: in effetti, anche le sue radici erano
fasciate di rami e sterpi, come altre che abbiamo visto lungo il cammino, segno inequivocabile
che l’impeto delle acque alluvionali si era fatto sentire anche lì.
Seguendo il corso del fiume, abbiamo lasciato la gola, siamo rientrati nel sentiero del bosco e
giunti a un grande spiazzo, ricoperto di strati di foglie secche, reso ombroso da lecci giovani e
almeno tre secolari, dai tronchi di grande diametro, che con le loro fronde che si
congiungevano formavano un tetto, che non faceva passare i raggi del sole. Sotto di essi, ci
siamo fermati a riposarci un attimo e il tempo di scattare qualche foto ad altri ginepri e lecci
“antichi” (uno di questi aveva il tronco principale e il laterale disposti ad angolo retto e giaceva
curiosamente, come sdraiato sul terreno) e ci siamo rimessi in marcia. Poco più in là, il fiume
riprendeva a scorrere in metà del suo letto originario, lasciando l’altra metà asciutta, sabbiososassosa, che così diveniva sponda percorribile: era talmente ameno e “sereno” questo scorcio,
con il fiume che perveniva e scorreva calmo da dietro i costoni grigi scabri e ripidi, il greto
asciutto a far contrasto col suo colore rosato, che molti di noi son rimasti ammirati e hanno
deciso non solo di soffermarsi per un
istante, ma anche di “catturare” nelle
macchine fotografiche quell’immagine.
Volgendo lo sguardo alla nostra
destra,
si
ergeva
un
possente
complesso
roccioso,
disposto
a
semicerchio, anche questo brullo,
chiazzato, qua e là, di minutissime
crassulacee rossicce, le borracine, che
contribuivano
a
conferirle
una
complessiva
tonalità
grigiastroterracotta. Ci siamo gradatamente
arrampicati verso la sua sommità,
facendoci strada con cautela tra i
pertugi tra le grosse pietre della salita:
una volta su, un po’ ansanti ed
accaldati, anche perché avevamo il
sole addosso, appena visitato un
capanno
di
cacciatori,
ben
“incorniciato”
nel
complesso
del
boschetto di ginepri, lecci e lentisco,
abbiamo
attraversato
il
fiume,
passando, questa volta, sopra un
ponticello di legno, e siamo arrivati,
imboccando un breve pendìo, al suo
punto finale, alberatissimo e fresco
dove, già un po’ sudati, abbiamo fatto
un’altra sosta. Da lì, abbiamo preso
una lunga discesa un po’ sabbiosa e
sdrucciolevole, a tratti anche scanalata
dal
corso
delle
acque
piovane
invernali: l’aria era quasi ferma e c’era una pace e un silenzio immensi… Superata tutta la
discesa, Paolo ci ha avvertiti che se dovevamo far provvista di acqua, addentrandoci
leggermente nella boscaglia a lato della stradina, potevamo intercettare una sorgente (rio Is
Cioffus) dove si poteva attingere.
Ma le salite verso il “paradiso” non erano terminate, e, anzi, a riprova di ciò, è iniziata l’erta
più faticosa della giornata, quasi completamente esposta al sole, che ci ha condotti fino alle
pendici di Punta Tiriaxeddu, splendida cima, che già intravvedevamo nell’inerpicarci, far
capolino tra i lentischi e le filliree. Durante le pause dell’ascesa, dove riprendevo fiato, ma ne
approffittavo anche per “conservare per i ricordi” il meraviglioso paesaggio verde e selvaggio e
per scattare foto, che quasi sempre avevano come degno sfondo le delicate corolle rosa del
cisto, io e gli altri abbiamo anche assistito a un insolito fuori-programma: sono scesi verso di
noi dei motociclisti con mezzi rombanti da motocross, i quali, per com’erano abbigliati,
sembravano quasi degli astronauti, o forse più “extra-nauti” rispetto a quel contesto!
Siamo
giunti
dunque, anche i
“ritardatari” (io
sono
anche
l’ultima di loro!),
a
un
bel
boschetto
fronzuto, scelto
per la pausapranzo,
dal
quale,
al
di
sopra,
spuntavano
le
estremità di una
serie di rilievi
disposti
a
formare
una
sorta
di
“panettone”.
Il
gruppo, a questo
punto,
si
è
diviso:
chi
sentiva
di
farcela, si è ulteriormente spinto, mettendo in conto anche un sole a quell’ora molto alto, fino
alla cima del Tiriaxeddu, non molto schermata da vegetazione, affrontando un altro lungo
dislivello; io assieme ad altri, siamo rimasti alla sua base ad attenderli.
Al loro ritorno, ci hanno raccontato che, dopo tanta fatica, son stati ripagati da uno splendido
panorama, che si godeva di lassù e che spaziava nelle varie direzioni: si poteva scorgere, a
sud-est ,il Canale Scillaras, che abbiamo percorso al ritorno e quello de Is Cioffus, a sud-ovest,
le catene del Monte Santo e Punta Sapienza, ma anche Punta Sebera, dove si notavano i
ripetitori, ad est, il monte Conca d’Oru, tristemente noto per una sciagura aerea, purtroppo
avvenuta nel 1978, e a nord-ovest anche il Monte Lattias: insomma, una veduta, come si suol
dire, a 360°!!...
Per gli amici saliti alla punta è stata una bella ebrezza, che non scorderanno mai, ma anche
noi, giù nel boschetto, seduti sotto i lecci, a conversare e ridere con la scusa del pranzo, è
stato un bel momento di aggregazione e scambio, c’era l’atmosfera classica, gioviale e
spensierata, dei pic-nic da “tovaglia sull’erba” di un tempo!
Dopo un po’, siamo stati raggiunti anche dagli amici di ritorno dalla “punta” e anche loro si
sono concessi un’attimo di
relax, chi, seduto sul morbido
materasso di foglie, chi, come
la simpatica Elsa, su un ramo
laterale quasi orizzontale di un
leccio,
che
si
prestava
egregiamente come “sedile”
rustico!
Ricompattatosi il gruppo, ci
siamo pian piano incamminati
sulla strada in discesa del
rientro,
percorrendo
greti
sassosi, ravvivati ancora una
volta, dalla presenza delle
superbe digitali e dei simpatici
lupini selvatici dai fiori azzurri,
superando piccoli guadi e
passando vicino anche a piccoli
specchi d’acqua, dove abbiamo
visto guizzare tanti brulicanti girini e rientrando di quando in quando all’interno di sentierini del
bosco, dove la facevano da padrone l’aglio selvatico, i ginepri dal fusto contorto e le svariate
piante di scilla.
Volgendomi indietro verso l’orizzonte, alla confluenza di due rilievi, ho notato che se ne ergeva
proprio nel mezzo un altro, di struttura molto singolare: a (quasi perfetto) tronco di cono,
tanto somigliante a quei castelli di sabbia che costruivamo da bambini sulla spiaggia. Vedendo
la mia sorpresa e curiosità, l’amico Paolo, mi è venuto subito in aiuto, spiegandomi che
quell’altura veniva denominata proprio “Su Casteddu”: mai nome dato fu più appropriato!...
Man mano che ci avvicinavamo al punto di arrivo della nostra passeggiata, ritrovavamo il
paesaggio dell’andata, le rocce scoscese bianco-rossiccie venate di scuro, sedimentate a pacchi
obliqui, facevano da sponde al fiume, stavolta più fluente e di maggior portata, che ha
invogliato molti di noi a scalzarci per trovare un po’ di refrigerio nelle sue fresche acque.
Prima di salire nelle auto, un degnissimo quanto gradito finale: l’assaggio della magnifica maxitorta di Eleonora! Quindi, i saluti allegri e la brigata vociante si è sciolta.
Dietro le nuvole dense di polvere, sollevate dalle ruote, nella lunga strada bianca che ci
conduceva all’abitato, pian piano sfumavano e svanivano le maestose montagne, stagliate sul
cielo terso al tramonto, che abbiamo scoperto al loro interno conservassero, come tesori
preziosi e improfanabili, i loro fieri e antichi alberi e mirabili fiori e colori che ci hanno inebriato
gli occhi e l’anima, ma non è svanita la gioia e la serena soddisfazione di averle
“vissute”appieno.