L`Apemaia - la sua grande storia

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L`Apemaia - la sua grande storia
L'Apemaia - la sua grande storia.
di Waldemar Bonsels.
I
Vita nell’alveare.
Il sole nasceva dietro la collina, illuminando a
poco a poco tutto l'alveare. La vita si svegliava
e si svegliavano anche le api che da anni ormai
abitavano al limite del prato, vicino al bosco.
L'Uomo aveva costruito un alveare per
assicurarsi ogni anno una buona quantità di
miele, e le api lo rifornivano puntualmente non
solo di ottimo miele ma anche di cera.
L'alveare era molto popolato; organizzato
quasi come una città, ospitava circa 60 mila api.
Ogni ape svolgeva un compito preciso e
determinato, ma tutte lavoravano insieme
aiutandosi a vicenda.
C'erano api operaie che raccoglievano il
nettare dei fiori per trasformarlo in miele, api
che raccoglievano il polline per nutrire tutto il
popolo dell'alveare, api esploratrici che
cercavano nuovi luoghi per fare altri nidi;
c'erano i fuchi guerrieri addetti alla
sorveglianza e alla difesa e i fuchi servitori al
servizio della Regina. Sì, perché come in ogni
alveare c'era una Regina che governava tutte
le api. Ogni anno, all'inizio della stagione, la
Regina deponeva le uova, dalle quali
nascevano nuove api. Ed è proprio a questo
punto che comincia la meravigliosa storia di
Apemaia.
Era un gran giorno per l'alveare: le uova
deposte dalla Regina stavano per aprirsi. Tutti
avevano un gran da fare. Le api più anziane
correvano a destra e a sinistra, chi portando
acqua calda, chi informandosi sul numero delle
nuove nate e sul loro stato di salute, chi
distribuendo preziose cucchiaiate di pappa
reale. Cassandra, la maestra delle api, correva
da una celletta all'altra facendo l'appello. A un
certo punto sentì una vocina: "Buongiorno!
Che succede qui? Perché tutti corrono?". Era
un'ape appena nata che non aveva ancora
messo fuori completamente le ali e già faceva
domande.
"Buongiorno, Apemaia. Tutto bene? Aspetta
un momentino e sarò da te", disse Cassandra
correndo con un'ampolla di miele verso altre
celle. Apemaia era impaziente. Per lei tutto era
una novità. A chiunque passasse vicino alla sua
cella faceva una quantità di domande. "A che
cosa serve questo? Dove vai con quell'arnese?
Come ti chiami? Perché hai cosi fretta?". Ma
nessuno aveva il tempo di risponderle. Fu così
che si decise a uscir fuori, allargò le ali e si sentì
capace di volare.
"Evviva! Mi sollevo! Volo!"; e, facendo alcuni
giretti intorno alla sua cella, sperimentò per la
prima volta l'ebbrezza del volo.
Si accorse che vicino a lei c'era qualcuno che
dormiva ancora, coperto da una minuscola
foglia. "Sveglia! È ora! Cosa fai ancora a
letto?", urlò nelle orecchie di un'ape piccola
quanto lei. "Guarda, ho le ali e riesco a volare.
Prova anche tu". Willi allora aprì gli occhi e vide
le ali di Apemaia. "Accidenti! Chi mi ha
svegliato da questo sogno meraviglioso?",
disse, sottolineando il disappunto con un
solenne sbadiglio. Apemaia si presentò e i due
fecero subito amicizia. Andarono a curiosare
lungo i corridoi, spiarono le api più anziane che
si affannavano presso le nuove nate e, come
due veterane, imboccarono il corridoio che
portava verso l'uscita. Willi aveva spiegato le ali
e, dopo qualche tentativo mal riuscito, prese
anche lui il volo. Com'era bello non dover
usare le gambe per spostarsi ma affidarsi alle
ali, che sollevavano da terra e portavano da
un posto all'altro con la minima fatica!
Apemaia vide una grande porta oltre la quale
si poteva scorgere una cosa tutta azzurra.
"Guarda Willi, forse quello è il cielo! Andiamo
a vedere", e con una bella planata
atterrarono proprio davanti alla grande porta.
"Alto là! Dove andate?", intimò un guerriero
armato di lancia. "Non sapete che non si può
uscire soli alla vostra età, senza essere
accompagnati dalla vostra maestra?".
Willi fece una faccia preoccupata, non aveva
mai sentito parlare di maestra.
Apemaia, che aveva già conosciuto Cassandra,
lo rassicurò: "Willi, non ti preoccupare, la nostra
maestra si chiama Cassandra ed è un tipo
simpatico. Andiamo a cercarla, vedrai che ci
porterà lei a volare nel cielo".
Avevano fretta di imparare tante cose e
Cassandra fu ben felice di essere la loro
maestra. Quella mattina erano nate altre api, e
tutte insieme formarono un'allegra scolaresca,
pronta ad entrare nella già grande famiglia
dell'alveare. Cassandra sapeva come trattare
le novelline, ma non aveva mai trovato tra le
sue alunne dei tipi svegli quanto Apemaia.
Faceva sempre domande, voleva sapere tutto,
voleva ficcare il naso in tutti gli angoli
dell'alveare. Willi invece era un pacioccone. E
dall'alleanza tra i due nasceva una gran
quantità di pasticci.
Apemaia chiese a Cassandra di portarle a fare
una passeggiata all'aria aperta, per conoscere
un po' di mondo. Fu cosi che la prima lezione si
svolse tra i petali di un fiore e il verde di una
foglia.
C'erano tante cose da imparare. Cassandra
iniziò con la spiegazione di tutti i lavori che si
facevano nell'alveare. Ogni ape doveva saper
fare qualsiasi lavoro.
"La mattina appena sveglie", disse Cassandra
alle sue alunne, "dovrete occuparvi della
pulizia della vostra cella. L'alveare deve essere
sempre lindo, e visto che siamo in tante
ognuna dovrà provvedere personalmente a
tenere in ordine le sue cose". Apemaia arricciò
il naso. "Uffa, si comincia proprio bene!",
diceva tra sé, "io con la scopa non vado molto
d'accordo. Speriamo che ci sia qualche cosa di
più interessante da fare".
Cassandra continuò la sua lezione spiegando
che un altro importante compito delle api era
quello di costruire nuovi favi, e di mantenere in
buono stato i favi più vecchi.
"Ma che cos'è un favo?", domandò Willi
saltando sul suo fiore. "È la casa in cui sei
nato", spiegò Cassandra, "e che domani
servirà per mettervi il miele. Sai Willi, il favo è
fatto con la cera, e anche questo è un risultato
del nostro lavoro". "Ma con che cosa si fa il
miele", s'interessò Apemaia, "e con che cosa si
fa la cera?". Cassandra rispondeva
pazientemente a tutte quelle domande.
"Quando sarete più grandi, andrete a
raccogliere quella goccia di acqua dolce che
c'è nel cuore del fiore. Si chiama nettare, e
serve per fare il miele. Ma prima...". "Ecco!
Sempre quando saremo grandi! Possibile che
adesso non possiamo fare nient'altro che
venire a scuola? Uffa, io mi annoio". Inutile
dire che era Apemaia a protestare. Non le
piaceva l'idea di aspettare tanto tempo, prima
di fare qualcosa di concreto. Vedeva le altre
api andare e venire con le loro ampolle piene
di nettare e moriva dalla voglia di provare
anche lei.
Ma non tanto per lavorare, quanto per
scoprire com'era il mondo. Cassandra capì
questo desiderio e incominciò a parlare degli
amici delle api... ma anche dei loro nemici.
"Intorno all'alveare ci sono i prati e c'è il bosco.
Non siamo solo noi ad abitare qui. Ci sono
tanti altri animali. Prima di andare ad esplorare
il mondo dovete imparare a comportarvi bene
con coloro che incontrerete". L'idea di
incontrare altra gente piaceva molto ad
Apemaia, e anche Willi era attento alle
spiegazioni di Cassandra.
"Gli animali non sono cattivi, e neanche
l'Uomo è cattivo", continuò Cassandra, "ma
bisogna saperci fare. Non serve litigare, non
serve dire sempre e solo tutto quello che non
ci piace o non ci va. Quando incontrerete altri
animali, cercate di vedere in loro anche i lati
buoni. Curt, per esempio, è grande e grosso e
non si può certo dire che sia bello. Ma ha un
cuore d'oro, e difende sempre i più deboli.
Max, il verme, vede sempre tutto nero, si lagna
di molte cose, ma è disposto a farsi in quattro
quando gli si chiede aiuto. E cosi è l'Uomo. Se
non gli andate tanto vicino e non lo molestate
con il vostro ronzio, l'Uomo vi sarà d'aiuto.
L'inverno, quando i fiori non ci sono, è lui che ci
porta la melassa per nutrirci. È lui che costruisce
altri alveari per ospitare il nuovo sciame".
Nessuno della scolaresca osava fiatare.
Certo, Cassandra ne sapeva di cose! Peccato
però che non si potesse cominciare subito a
cercare gli amici del bosco.
Cassandra infatti aveva riportato le api
all'alveare per il pranzo, e aveva deciso di
dimostrare loro come si costruisce un favo.
Apemaia avrebbe voluto restare all'aria
aperta ancora un po', ma anche l'idea di
andare a tavola non era male. Quanto alla
costruzione del favo... avrebbe cercato di
trasformare quel lavoro in un gioco. La cera
infatti era morbida e ci si poteva giocare bene.
Ci si potevano modellare delle statuine, la si
poteva spalmare sul pavimento rendendolo
lucido e scivoloso. "Scivoloso... che idea!",
pensò Apemaia, e rovesciò tutta la cera per
terra cercando di spalmarla il più possibile con
l'aiuto di uno spazzolone. Poi si nascose dietro
l'angolo e... aspettò. Il primo a cadere nella
trappola fu Willi. Arrivava di corsa, non si
accorse del pavimento lucido e scivol...
"Bum!!!". Era finito gambe all'aria, le ali
accartocciate, un gran
bernoccolo sulla testa. Dietro di lui Apemaia
rideva a crepapelle. "Che buffo sei, Willi, non
sai più camminare!", esclamò divertita alle
spalle dell'amico.
Cassandra, che aveva visto la scena, andò su
tutte le furie. "Apemaia, ti sembra bello quello
che hai fatto? Willi è tuo amico, e avrebbe
potuto farsi male! ".
"Ma io... ", si giustificò Apemaia, "non volevo
fargli male, volevo divertirmi".
"Scherzi sciocchi!", tuonò Cassandra, "non
vedo cosa ci trovi di divertente in uno che
rischia l'osso del collo". Intanto Willi giaceva
con il sedere per aria, lamentandosi
debolmente. "Ohi, mamma, vedo le stelle!".
Cassandra, molto seria, intimò ad Apemaia di
ripulire il pavimento dalla cera e di presentarsi
subito dopo in classe. Aveva intenzione di
darle una punizione; ma in quel momento non
sapeva ancora quale. Poi si ricordò che quella
mattina erano state usate molte ampolle per
la raccolta del nettare e che non erano ancora
state pulite. Così, quando Apemaia arrivò in
classe, la spedì a pulire le ampolle. Era un
lavoro ingrato. Il nettare è appiccicoso, non è
facile toglierlo per bene. Bisognava strofinare
e strofinare ancora, e non si finiva mai di pulire
a fondo ogni ampolla.
Era già sera quando Apemaia finì di lustrare
quelle stramaledette pentole.
Ma la lezione era servita. Adesso, prima di fare
un altro scherzo, ci avrebbe pensato due
volte. L'indomani Cassandra riprese le sue
lezioni all'aperto. Voleva insegnare alle api a
orientarsi servendosi del sole.
"Guardate il sole. Nasce a Oriente e cala a
Occidente. A Oriente dell'alveare ci sono la
grande quercia, il tiglio e il bosco. A Occidente
c'è la casa dell'Uomo. Noi stiamo proprio in
mezzo". "Anche di notte c'è il sole?",
domandò Willi, senza pensare troppo a quello
che diceva. "Che sciocco!", disse Cassandra,
"di notte è tutto buio, proprio perché il sole
non c'è. Ma ci si può orientare con le stelle. È
un po' più difficile, ma ci si riesce. Comunque, le
api non escono di notte". Quel giorno
Cassandra aveva deciso di restare a pranzare
all'aria aperta.
Ogni tanto il sole andava a nascondersi dietro
qualche nuvola, ma non c'era ancora il pericolo
della pioggia.
Apemaia e Willi erano così contenti.
Gironzolavano qua e là chiamandosi a
vicenda: "Willi, guarda questo fiore!",
"Apemaia, guarda questo buco nella terra:
chissà chi ci abita".
Ad un tratto sentirono un rumore strano:
"Tong... tong... tong... ", qualcuno si stava
avvicinando saltando da un fiore all'altro.
"Buongiorno, mie care api. Già al lavoro?".
"Buongiorno Flip", rispose Cassandra, "questa
è la nuova scolaresca. Sono api nate ieri, ma
sono già in gamba. Questa è Apemaia, questo
è Willi, questa è... ", e presentò tutta la classe a
Flip, che si tolse il cilindro e salutò con un
inchino.
"Chi sei tu?", domandò Apemaia curiosa.
"Sono Flip, professore di spettacolo, amico
delle api, e gran girovago". "Conosci anche
l'Uomo?", continuò Apemaia con molto
interesse. "Io con l'Uomo non ho mai avuto
molto a che fare però sì, lo conosco; cioè,
voglio dire che l'ho visto un paio di volte. È così
grande e grosso rispetto a noi... ha due occhi
così grandi, e due gambe così lunghe... ".
Apemaia ascoltava estasiata. Possibile che
l'Uomo fosse proprio così grande come diceva
Flip? Chissà quando ne avrebbe incontrato
uno? Stava ancora fantasticando sulla
grandezza dell'Uomo quando arrivò Willi di
corsa.
"Apemaia!!! Vieni subito! Ho trovato un altro
buco, ma dentro c'è qualcuno, perché si sente
fare crac-crac, e si vede un pezzo di coda. Può
essere... ". "Willi, calma. Dov'è questo buco?";
e insieme volarono su un grosso tronco forato
da tanti piccoli buchini. "Sssst, fai piano... non
sappiamo se è un amico o un nemico".
Apemaia camminava in punta di piedi, seguita
da Willi, che aveva davvero un bel po' di fifa.
"Speriamo che non mangi le api, quel coso lì...
speriamo che... Mamma! Il mostro!".
L'urlo di Willi fece accorrere Cassandra; ma
non si trattava di un mostro, bensì di un tarlo,
che scavava la sua galleria nella corteccia del
vecchio tronco. "Calma, non urlare così", disse
Cassandra prendendo per mano il povero Willi
tremante di paura, "non ci sono mostri.
Questo è il signor Tarlo, saluta... ".
"Ehm... buongiorno, cosa ci fa dentro quel
buco?", domandò Willi con un filo di voce.
"Care api, faccio il mio lavoro: scavo gallerie
nel legno, mi costruisco una casa bella e
comoda per l'inverno". Il tarlo aveva proprio
un'aria inoffensiva. Chiacchierarono un po' del
più e del meno, tanto per fare amicizia, e poi
Cassandra invitò le api a tornare a casa. Forse
per lo spavento, forse per la giornata all'aria
aperta, rientrarono tutti volentieri nell'alveare.
Willi aveva tanta fame e si precipitò verso un
vaso di miele per fare un'abbondante
merenda. Era proprio buono il miele, dolce,
filante, gustoso. Willi non avrebbe smesso
mai... ma anche le api possono fare
indigestione e lui sapeva che troppo miele fa
venire il mal di pancia. "Per ora basta così",
pensò, "più tardi verrò a prendermi
l'aperitivo... ". Mentre riponeva il vaso al suo
posto sopra la grande mensola, si ricordò che il
giorno prima Apemaia gli aveva fatto lo
scherzo della cera sul pavimento. "Devo
trovare il modo di fargliela pagare... ", disse
tra sé, "chi la fa l'aspetti!". E se ne andò in
cerca di uno scherzo geniale da giocare
all'amica.
Ma di genio Willi ne aveva un po' poco.
Nonostante cercasse dentro la sua testolina
qualcosa di divertente, non riusciva a trovare
altro che vecchi scherzi fatti e rifatti.
"Vediamo... potrei cucirle le maniche del
pigiama... potrei appenderle un campanello
sotto il letto, così quando va a dormire, eh
eh!, ogni volta che si muove, il campanello
suona... potrei mettere un catino d'acqua
sopra la porta della sua celletta, che bagno
ragazzi! Potrei... ", e continuava a spremersi le
meningi.
Era quasi sera, quando Apemaia si sentì
chiamare: "Apemaia, vieni a giocare a
nascondino?", domandò Willi con un'aria
sorniona.
"A nascondino? Ma è un gioco da piccoli, e poi
è quasi buio".
"Proprio qui sta il bello", obiettò Willi, "al buio
il gioco è ancora più difficile!".
Corsero verso l'uscita dell'alveare e
cominciarono a giocare.
"Mi nascondo io", propose Willi, "e tu mi
cerchi". Apemaia contò fino a cento e poi
andò a cercare Willi. C'era un gran silenzio, e di
Willi nemmeno l'ombra. Apemaia guardò
dietro la porta, sotto il tavolo, fece un rapido
giro fuori. Le sembrò di sentire un fruscio. "Lo
sento, ma non lo vedo", diceva tra sé. "Eppure
non mi scapperà!".
Mentre ritornava verso l'alveare, vide davanti
a sé una cosa tutta bianca. Si muoveva
lentamente e, quel che è peggio, si muoveva
verso di lei. Apemaia ebbe paura. Quella cosa
strana faceva un verso tenebroso: "Uuhh!
Uuhh! Uuhh!". Non aveva mai visto animali di
quel genere; era bianco dalla testa ai piedi e
non aveva una forma precisa; era come se
fosse ricoperto da un gran lenzuolo.
Cercò di scappare, ma la cosa strana le andava
dietro. Cercò di tornare in fretta all'alveare,
ma la cosa strana le tagliò la strada e dovette
correre da un'altra parte. Non sapeva più che
cosa fare.
Aveva veramente paura. Ce l'aveva fatta ad
arrivare fin sulla terrazza dell'alveare ma non
le riusciva di infilare la porta d'entrata.
La cosa bianca era lì, davanti a lei, e le si
avvicinava lentamente. Apemaia incominciò a
camminare all'indietro, passo dopo passo.
Senza accorgersene, arrivò fino al bordo
estremo della terrazza.
A quel punto la cosa bianca cacciò un urlo
feroce: "Uuaauuhh!", e Apemaia cadde
all'indietro, precipitando nel prato. Stava là,
con le antenne abbassate, la lingua penzoloni
e le gambe che tremavano: stentava a
riprendersi dallo spavento. Sopra la sua testa
invece c'era qualcuno che rideva a più non
posso. "Ah, ah, ah, che scherzo geniale! Che
volo!". Willi si teneva la pancia per il troppo
ridere. "Un fantasma, il fantasma della
notte!". A quel punto Apemaia capì tutto.
Altro che cosa bianca, quello non era altro che
Willi travestito da fantasma. E lei, che non
aveva capito! "Accidenti, Willi, sei diventato
matto? Ti sembrano scherzi da fare a
quest'ora?". Willi continuava a ridere e
Apemaia ad inveire contro di lui, quando
arrivò Cassandra.
"Che fate voi due lì fuori? È un'ora che vi
cerco! Cosa avete combinato?", domandò
con aria di rimprovero. Willi era tanto ingenuo
da non saper nemmeno nascondere le sue
malefatte. Fu così che raccontò a Cassandra lo
scherzo del fantasma, il capitombolo di
Apemaia e tutto il resto. Cassandra andò su
tutte le furie. "Ve la faccio vedere io... altro
che fantasma, voi due filate a letto
immediatamente", e indicò la direzione delle
loro celle. Più tardi li raggiunse e fece loro una
bella predica: "Ieri vi avevo avvisato: niente
scherzi di cattivo gusto. E oggi ci risiamo! Che
razza di amici siete? Possibile che dobbiate
sempre combinare guai?". Non fu facile
addormentarsi quella sera. Apemaia pensava:
"Se non avessi cominciato io, forse Willi non
avrebbe fatto il fantasma oggi... ". E Willi
diceva tra se: "Avrei anche potuto lasciar
perdere. Apemaia si è così spaventata... ".
Entrambi fecero il buon proposito di non
architettare altri scherzi, e solo allora
riuscirono a prendere sonno.
Il giorno dopo, Cassandra lavorò alacremente.
Stava costruendo nuovi favi per raccogliere il
miele, e lo faceva con molto impegno.
Era ancora così infastidita da quello che era
successo la sera prima. che non rivolse una
parola ne a Willi né ad Apemaia. I due le
giravano intorno con un fare servizievole per
farsi perdonare i loro misfatti. Portavano le
scaglie di cera per rendere più solido il nuovo
favo, raccoglievano i pezzi caduti, portavano
le ampolle di miele da travasare, passavano a
Cassandra tutti gli attrezzi necessari. Avevano
capito la lezione e si impegnavano ad essere
delle brave api. Il pomeriggio andarono a
lezione e fecero i compiti con molta
attenzione. Era bello imparare a diventare una
vera ape, ed erano contenti di far parte di una
così laboriosa famiglia.
Cassandra
spiegava
come
l'alveare
funzionasse a perfezione grazie al lavoro di
tutti quanti. Durante le altre lezioni Apemaia e
Willi avevano conosciuto le varie mansioni di
un'ape: la nutrice che si cura dei piccoli,
l'esploratrice che indica il luogo dove trovare
nuovi fiori, la bottinatrice che raccoglie il
nettare e il polline rifornendo di cibo l'alveare,
la costruttrice che fabbrica i favi, l'ape della
pulizia che prepara le celle vuote per il
deposito delle uova e le pulisce con una
sostanza simile alla lacca, l'ape guardiana che
sorveglia l'entrata dell'arnia. Ogni ape,
secondo la sua età, svolgeva ognuna di queste
mansioni: prima una, poi l'altra, poi l'altra
ancora.
"Ma", disse Cassandra, "non è tutto qui. Ci
sono delle api che, specie d'estate, si occupano
del raffreddamento dell'alveare".
"Raffreddamento?", domandò Willi, "che
cosa vuol dire?". "Vuol dire", rispose
Cassandra, "far circolare l'aria fresca dentro
l'alveare, altrimenti con il caldo la cera si
scioglie. Per questo alcune api agitano
rapidamente le ali per raffreddare l'aria e, se
questo non basta, vanno a prendere l'acqua".
"L'acqua? E cosa ci fanno con l'acqua?",
domandò Apemaia incuriosita. "Vedi,
Apemaia", continuò Cassandra, "l'acqua con il
caldo evapora, e rinfresca l'ambiente. Hai mai
visto le api spruzzatrici? Ecco, proprio loro
spruzzano l'acqua portata all'alveare dalle più
anziane, e in questo modo la cera non si
scioglie".
"Senti, Cassandra", intervenne Willi, "non ci hai
mai parlato delle api guerriere".
"È vero", disse Cassandra, "ma aspettavo il
momento giusto. L'ape guerriera è colei che ci
difende, quando veniamo attaccate da un
nemico. È un'ape eroica. Dà la sua vita per
proteggere quella di tutte noi. Conosce tutti i
trucchi del nemico: la rapidità della lingua del
rospo, lo scricchiolio del tarlo della cera, il passo
dell'orso, il verso dell'uccello tiranno che
succhia il nettare dall'alveare, il passo felpato
della moffetta, che non riuscendo ad entrare
nell'alveare ci disturba per farci uscire e poi ci
assale". "E con che cosa combatte",
domandò Apemaia, "dove tiene le sue armi?".
"Ecco il punto. Ognuna di noi ha un'arma, e
anche voi presto l'avrete. Ma bisogna saperla
usare bene. L'ape guerriera combatte con il
suo pungiglione. È un'arma formidabile. Punge
il nemico, a volte in modo mortale. Ma punge
una volta sola perché, dopo aver sferrato il
colpo, l'ape muore. Per questo vi ho detto che
l'ape guerriera è eroica". "E noi, quando
avremo il nostro pungiglione", domandò Willi,
"e quando potremo combattere come le api
guerriere?".
"Calma, Willi", rispose Cassandra, "prima o poi
spunterà anche a te. Ma ricorda: dovrai usarlo
solo per difenderti e mai per attaccare".
Quella sera, Apemaia andò a dormire
pensando al suo pungiglione. Non era ancora
spuntato, e non c'era proprio alcun segno che
potesse anticiparne la comparsa.
Fece un sogno strano. Difendeva l'alveare da
un'invasione di calabroni e per combatterli
usava tutti i mezzi che poteva: scope, cera sul
pavimento per fare scivolare il nemico, reti
davanti alle porte e alle finestre, così che non
potessero entrare. Alla fine il nemico se ne
andò in tutta fretta, ma quanta fatica per
fargli fronte. Apemaia si svegliò con le ossa
tutte rotte; aveva l'impressione di averla
combattuta veramente quella battaglia, e non
riusciva a spiegarsi il perché di tanta
stanchezza, visto che si trattava solo di un
sogno. Si alzò con fatica dal suo letto, fece
qualche passo e andò a specchiarsi.
"E questo che cos'è?", disse, guardando
quella cosa nera che non s'era mai vista. "Vuoi
vedere che... ma sì, evviva! Sono diventata
grande! Mi è spuntato il pungiglione! ".
Con il pungiglione nuovo, Apemaia era
davvero un'ape adulta. Poteva volare verso le
avventure più belle.
II
Gli amici del bosco.
In occasione del compleanno della Regina,
Cassandra aveva deciso di sospendere le
lezioni della scuola per un'intera settimana.
Le sue alunne avevano lavorato sodo negli
ultimi giorni e meritavano davvero un po' di
vacanza. Inutile dire che tutti accolsero con
entusiasmo la notizia. "Urrà, niente scuola!",
gridò Apemaia, buttando per aria tutti i suoi
quaderni. "Willi, presto, organizziamo
qualcosa di bello!". E, preso l'amico per mano,
lo trascinò in un angolo della classe.
"Che cos'hai in mente?", domandò Willi.
"Dove vuoi andare?". Apemaia gli si avvicinò e
gli mormorò qualcosa all'orecchio: "... prima
nel bosco... e chiediamo a Flip... tutti, capisci?".
Willi non capiva niente. "Perché dobbiamo
andare nel bosco? Chi sono quelli che vuoi
conoscere? Che cosa dobbiamo sapere da
Flip?". "Uffa", rispose Apemaia, "inutile
perdere tempo in chiacchiere, vieni con me e
vedrai".
Volarono nelle loro celle a prendere tutto
l'occorrente: sacco a pelo, viveri, lampada per
la notte, astuccio del pronto soccorso, carta e
matita per scrivere e per disegnare.
"Ma Apemaia, quanto pensi che resteremo
via? Sei sicura che ci occorra tutta questa
roba?", domandò Willi un po' preoccupato dal
peso del suo bagaglio. In realtà Willi era un
pigrone e non gli piaceva tanto l'idea di fare a
meno di certe comodità. La sua cella era calda
e accogliente e l'alveare lo faceva sentire al
sicuro. Non capiva perché dovesse rinunciare a
tutte queste cose per andare a dormire
dentro un sacco a pelo, sotto un tetto di stelle,
senza l'acqua calda e senza la colazione
pronta.
Apemaia, invece, amava l'avventura. Aveva
voglia di conoscere tutti gli abitanti del bosco e
voleva chiedere a Flip di accompagnarla a fare
questo giro. Flip sapeva molte cose: con lui, era
sicura, non c'era da aver paura.
Era così eccitata all'idea dell'avventura che non
si preoccupò di uscire dalla porta ma infilò la
finestra e volò via nel cielo azzurro.
Aveva una settimana di tempo, e non voleva
sprecare nemmeno un minuto. "Willi,
muoviti!", disse rivolta all'amico, "vedrai che
vacanze meravigliose!".
Volarono fino al prato di trifoglio, dove
abitava Flip, e lo chiamarono a gran voce.
Flip stava prendendo il sole del mattino sopra
una grossa margherita. Era un po' stanco
perché quella notte aveva cantato una
serenata alla luna, con l'arte e l'impegno che si
addicono ad un nobile grillo.
Apemaia si posò su una foglia vicina e cominciò
a spiegare a Flip il suo progetto. "Cassandra ci
ha parlato della gente del bosco, ma noi non
la conosciamo. Adesso che siamo in vacanza
vorremmo esplorare i dintorni, per farci nuovi
amici e per...".
"Alto là!", disse Flip, "facciamo le cose con
ordine. Innanzitutto nel bosco ci sono amici e ci
sono nemici: bisogna stare attenti. Sapete
come fare per difendervi? Sapete da quali
animali stare alla larga?". "Be'", rispose Willi,
"Cassandra ci ha spiegato che l'orso è un gran
mangiatore di miele e a volte attacca
l'alveare... il rospo mangia le api e...". "Ma tu
sai com'è fatto un orso, e che faccia ha un
rospo?", domandò Flip, con aria da maestro.
Apemaia e Willi si guardarono: che cosa
rispondere?"
"Noi non abbiamo paura", disse Apemaia
mostrando fiera il suo nuovo pungiglione.
"Siamo armati e sapremo come difenderci!".
"D'accordo, miei cari, ma bisogna essere
prudenti. Oggi comincerò a farvi conoscere
alcuni amici di vecchia data. Con loro non c'è
nulla da temere". E si incamminò sul sentiero
che portava nel cuore del bosco.
Ai piedi di un castagno, dentro un fungo dal
cappello rosso e bianco, abitavano i signori
Settepunti, due coccinelle ormai anziane che
passavano la maggior parte del tempo a
raccontarsi storie di quand'erano giovani.
Flip salutò il signor Settepunti che sedeva
davanti alla sua casa, fumando la pipa.
"Vorrei presentarle due miei amici, Apemaia e
Willi. Sono api dell'alveare qui vicino e sono in
vacanza. Vorrebbero conoscere gli animali del
bosco". "Ma con piacere", rispose il signor
Settepunti facendo uscire quattro nuvolette di
fumo dalla pipa.
Si avvicinò alla campana posta all'ingresso della
casa e la suonò tre volte. La signora Settepunti
si affacciò alla finestra della sua camera e
salutò gli ospiti: "Scusate se non scendo, ma le
mie gambe faticano a fare le scale; ormai sono
vecchia e i reumatismi mi costringono quasi
sempre a letto...". "Eh sì", commentò il signor
Settepunti, "mia moglie
soffre di uno strano mal di ossa. Non c'è nulla
che possa guarirla. Abbiamo provato tante
erbe, tanti unguenti, ma senza successo...".
L'espressione triste e rassegnata del signor
Settepunti toccò il cuore di Apemaia.
Le dispiaceva sapere che la coccinella non
poteva uscire di casa a causa del suo mal di
ossa, e avrebbe voluto poterla aiutare.
"All'alveare abbiamo un dottore molto bravo.
Si chiama dottor Bua, ed è sempre alla ricerca
di nuove medicine. Potremmo chiedergli di
venire a visitare la signora Settepunti. Chissà
che non riesca a farle passare il suo male".
"Certo! È un'ottima idea!", continuò Willi, "il
dottor Bua, poi, ha delle medicine così buone,
tutte dolci...".
Il signor Settepunti ringraziò le api del loro
interesse e accettò ben volentieri di sottoporre
sua moglie alle cure del dottor Bua. Sapeva
che la causa dei mali di sua moglie era l'umidità
del fungo, ma si erano ormai tanto affezionati
alla loro casa che non volevano andare a
cercarne un'altra più calda e più asciutta. Forse,
con una medicina giusta, avrebbero potuto
continuare ad abitare nel fungo per il resto dei
loro giorni. Mentre Apemaia e Willi scrivevano
un biglietto al dottor Bua chiedendogli di
passare dalla signora Settepunti, Flip e il
padrone di casa fecero una partitina a carte. Si
stava bene all'ombra del fungo ed era
piacevole l'arietta fresca che veniva dal bosco.
"I rapporti con i vicini di casa non sono facili",
diceva il signor Settepunti; "alcuni sono gentili,
si fermano a salutare, chiedono notizie di mia
moglie; altri non si degnano nemmeno di una
parola e, quel che è peggio, vengono a
calpestare il mio giardino, in cerca di qualcosa
da mangiare. L'altra notte sembrava ci fosse il
terremoto: tremava tutta la casa, e la
campana dell'ingresso si era messa a suonare
da sola. Ma non era il terremoto, era una certa
talpa che aveva deciso di venire a scavare
proprio qui sotto. Che educazione, disturbare
la gente che dorme...".
Flip sapeva che il signor Settepunti era un po'
brontolone e lo stava ad ascoltare con
pazienza. Intanto anche Apemaia si era unita
alla conversazione; le piacevano le storie e le
lamentele della coccinella e voleva sapere chi
era la talpa, che cosa facesse sottoterra,
perché scavasse in continuazione.
"Signori, la compagnia è bella e piacevole",
disse Flip, "ma noi dobbiamo continuare il
nostro giro. Arrivederci, signor Settepunti!".
"Arrivederci, tornate presto!", rispose la
coccinella.
Apemaia, Willi e Flip lasciarono la strada del
bosco e camminarono lungo il limitare del
prato. C'era in quel luogo un albero di mele
che aveva tanti frutti sui rami. Alcuni erano
ancora verdi, altri erano già maturi, altri
ancora erano caduti per terra in un giorno di
vento ed erano diventati la casa di alcuni
vermiciattoli. Flip si avvicinò ad una mela e
bussò: "C'è nessuno?", domandò, "c'è
nessuno in casa?". Da un buchino nero spuntò
fuori un vermiciattolo.
"Non si può mai stare in santa pace! Che cosa
volete? Chi siete?". L'accoglienza non era delle
migliori, ma Apemaia e Willi si presentarono
ugualmente. "Api?", fece il verme. "Mai
sentito che delle api volessero fare amicizia
con dei vermi...". Ma nonostante il tono
scortese della sua voce si sentiva lusingato del
fatto che qualcuno volesse fare la sua
conoscenza. Senza che nessuno gli avesse
chiesto niente, il vermiciattolo iniziò a
raccontare la storia dei suoi nobili antenati: le
prodezze degli eroi della sua famiglia,
l'aristocrazia del suo casato e le ricchezze della
sua stirpe.
"Uffa, che barba", sospirò Willi, annoiato da
tante chiacchiere. Apemaia era dello stesso
parere, ma non sapeva come fare per
interrompere quella valanga di parole. "... E
poi", continuava imperterrito il verme, "volete
mettere il vantaggio di poter conoscere tutti i
meandri della terra? Non ci sono segreti per
noi. Io, io sono fiero di sentirmi un verme!".
Una pausa, finalmente. Apemaia ne approfittò
per sviare il discorso, ma quello riprese subito:
"Noi vermi di qui, noi vermi di là...". Non se ne
poteva proprio più. Apemaia ebbe un'idea.
"Signor Verme de' Vermis, potrei venire ad
intervistarla? Un altro giorno, s'intende. Ma
sarei proprio felice di inserirla nel libro dei
grandi personaggi del bosco che ho
intenzione di scrivere...". "Io? La mia storia in
un libro?", balbettò emozionato il verme. "Ma
con piacere, con vero piacere... mi lasci però
qualche giorno, per riordinare le idee, e poi
potrò fissarle un appuntamento...".
Era fatta. Con la scusa del libro, Apemaia era
riuscita a metter fine a quella noiosa
conversazione. Salutarono in fretta per paura
che il verme potesse ricordarsi qualche altra
battaglia, qualche altro antenato o qualche
altro particolare dimenticato nel suo lungo
racconto. Appena furono fuori tiro, si
fermarono vicino allo stagno per riposarsi.
"Avete capito la lezione?", domandò Flip
asciugandosi la fronte. "Sì, la lezione di storia
dei vermi! Però a me piace di più la storia delle
api".
"Macché storia dei vermi, Willi", replicò Flip, "la
lezione è un'altra. Mai parlare troppo di sé,
altrimenti gli altri si annoiano. Mai parlare
sempre di seguito, altrimenti non si lascia
spazio agli altri per inserirsi nella conversazione.
E poi...". "Poi che cosa?", domandò Apemaia
con molto interesse. "Poi, quando si sta con la
gente, se si vuole diventare amici, bisogna
saper ascoltare le opinioni degli altri, oltrechè
dire le proprie". "Accidenti!", esclamò
Apemaia, "questa sì che è un'arte!". E
avrebbe voluto saperne ancora di più se non
fosse stata interrotta da un rumore che non
aveva mai sentito prima. "Cra - cra, cra - cra,
cra - cra". "Flip, di chi è questa voce?",
domandò Apemaia avvicinandosi all'amico.
"Della rana dello stagno. Venite, andiamo a
salutarla". Willi li seguì ma non era tranquillo.
Quello strano gracidare non lo faceva sentire a
suo agio. "Flip, sei sicuro che questa rana non
sia una mangiatrice di api?", domandò Willi,
con la voce un po' tremante per la paura.
Si avvicinarono allo stagno: la rana era dietro
ad un fiore di ninfea.
"Perché ha quattro zampe verdi", domandò
Apemaia a Flip, "e perché nell'acqua ci sono
quegli animali strani con una grande testa e
una coda lunga?". Flip si fermò su una foglia
che galleggiava sull'acqua dello stagno e
cominciò a spiegare: "Quello che tu, Apemaia,
chiami animale strano non è che un piccolo
della rana. Si chiama girino, e fra qualche
giorno sarà anche lui grande e grosso e tutto
verde come sua madre, perderà la coda, gli
cresceranno le zampe e sarà allora una rana.
Le zampe servono per saltare da una foglia
all'altra e per nuotare. Lo sai che nuota in un
modo tutto particolare, tanto che esiste uno
stile chiamato "a rana"?". Apemaia e Willi
ascoltavano l'amico stupefatti. Possibile che la
natura fosse così ingegnosa e così
meravigliosa? Un girino diventa una rana, la
rana può stare nell'acqua e può stare all'aria
aperta... Era veramente tutto molto bello.
"Ma attenzione", concluse Flip, "le rane a volte
mangiano le api, ed hanno un cugino che è
particolarmente ghiotto di questi bocconi. Si
chiama rospo". "Cassandra ce lo aveva
detto", intervenne Willi, "ma non immaginavo
che un rospo fosse fatto così...".
I tre amici lasciarono lo stagno e ritornarono
verso il bosco. Era ormai tardi e decisero che
quella notte l'avrebbero passata al riparo della
grande quercia. Prima di dormire, Flip fece una
miniserenata alla luna che splendeva grande
nel cielo. "Cri cri - cri - cri...", cantava Flip, "cri cri - cri - cri...".
Apemaia e Willi si addormentarono in fretta,
cullati da quella dolce ninna nanna.
Il giorno dopo, quando Apemaia aprì gli occhi,
vide accanto a sé Willi che, come al solito,
dormiva ancora profondamente. Flip non
c'era. Ma si sentiva qualcuno fischiettare
allegramente. Apemaia fece un voletto
d'ispezione e trovò Flip comodamente seduto
dentro la sua vasca da bagno. L'amico aveva
trovato dei fiori colmi di rugiada mattutina e si
era accomodato. "Niente di meglio di un bel
bagno rinfrescante", disse Flip quando vide
Apemaia, "dà forza e vigore, lava via la
pigrizia e rende ancora più giovani".
Era proprio buffo! Aveva appeso il cilindro alla
punta di una foglia e sguazzava felice
nell'acqua.
Anche Willi, con la faccia ancora sonnacchiosa,
era venuto a godersi lo spettacolo.
"Ma non è troppo fredda?", domandò tra
uno sbadiglio e l'altro. "All'alveare avevamo la
doccia calda e...". Ma non fece in tempo a
finire la frase perché Apemaia con una spinta
lo buttò dentro al fiore, in compagnia di Flip.
"Brrrrrr... è ghiacciata! Aiuto! Tiratemi fuori!".
"Willi", chiamò Apemaia, e quando l'amico
alzò la testa lo innaffiò abbondantemente con
una campanula piena d'acqua. "Ecco, adesso
sei pulito e puoi anche uscire", sentenziò fiera
della sua opera. "Fra cinque minuti si parte!".
Flip e Willi si asciugarono con una foglia e
seguirono Apemaia. Volarono a lungo sopra il
prato e scesero a far colazione vicino all'albero
di mele dove il giorno prima avevano fatto la
conoscenza del signor Verme de' Vermis.
"Guarda là", disse Flip, "quello lo conosco. È
Max, il lombrico. Andiamogli incontro". Max
strisciava vicino ad una mela. "Buongiorno
Max", esordì Apemaia, "Cassandra ci ha
parlato di te, alla scuola delle api. Come va la
vita?". "Sempre rasoterra", mugugnò Max, "e
sempre a far danni. Non posso toccare una
mela, né una foglia, che subito diventano
inservibili". Max era famoso per le sue
depressioni. Ogni tanto andava giù di morale,
diventava triste e non si riusciva a farlo
divertire. Apemaia gli raccontò della loro
vacanza, degli amici che volevano conoscere e
gli propose di unirsi al gruppo. "Vieni anche tu,
ci sarai d'aiuto e ti divertirai". Max accettò,
l'idea di poter essere d'aiuto a qualcuno lo
faceva sentire importante. Era così contento
che fece vedere ai nuovi amici l'ultima sua
trovata: riusciva a fare un nodo arrotolandosi
sul suo lungo corpo. Era davvero molto abile:
non era facile fare un nodo con un lombrico.
Si incamminarono, chi svolazzando, chi
saltellando, chi strisciando, verso il sentiero del
bosco. Max aveva proposto di far visita a Curt,
uno scarabeo che abitava in una rosa.
Apemaia e Willi erano ansiosi di fare la sua
conoscenza perché lo avevano sentito
nominare tante volte all'alveare.
Cassandra aveva raccontato che Curt era lo
scarabeo più forte di tutto il prato.
Lo trovarono che si allenava a sollevare pesi.
Era un esercizio che Curt faceva ogni mattina
per rinforzare i muscoli delle braccia:
"L'allenamento quotidiano è il segreto di ogni
sportivo. Ogni giorno aggiungo qualche
grammo al peso da sollevare. Guardate!". E
con tre movimenti precisi sollevò da terra un
grosso macigno. Apemaia rimase a bocca
aperta. Non aveva mai visto nessuno compiere
una simile prodezza. Curt era grande e grosso,
quasi il doppio di Apemaia, e si muoveva
pesantemente.
Max diceva che a volte brontolava un po'
troppo, ma in fondo era uno scarabeo molto
buono: aiutava chiunque ne avesse bisogno,
difendeva i più deboli, era sempre pronto a
battersi quando si trattava di fare giustizia.
Non volendo interrompere i suoi allenamenti,
Curt promise agli amici che li avrebbe raggiunti
più tardi. Lo lasciarono alle sue flessioni, alle sue
corsette, al suo "un - due - tre" che scandiva
ogni volta che sollevava il peso da terra.
Mentre si allontanavano Flip riferì agli amici
alcune voci che circolavano nel bosco a
proposito di Curt. Si diceva che si fosse
innamorato. "Curt innamorato!", esclamò
Apemaia. "E chi sarebbe la prediletta?".
"Questo non si sa", ammise Flip, "ma è stato
visto più di una volta nelle vicinanze della casa
di una certa signorina. Comunque nessuno sa
nulla di preciso. E poi, bisogna diffidare dei
pettegolezzi".
Stavano chiacchierando di Curt e della sua
innamorata, quando udirono la voce
dittatoriale di qualcuno che guidava una
marcia.
"Un-due, un-due, un-due, PASSO! Un-due, undue, un-due, per fila SINIST!!!".
Era Leo Signor Sì, che guidava l'esercito delle
formiche. In fila indiana avanzavano lungo il
sentiero del bosco, armate fino ai denti e in
perfetta uniforme. "Ci siamo", esclamò Max.
"Ecco quel fanatico di Leo Signor Sì che
costringe i suoi soldati alla marcia forzata".
Willi si informò: "Cos'è una marcia forzata?
Perché camminano tanto?". Anche Apemaia
era curiosa di sapere perché quel tizio strillasse
così. Si avvicinò allora a Leo Signor Sì, e
cominciò a fare domande. Ma quella specie di
generale, senza neppure voltare la testa, le
fece capire che non era il caso di disturbare il
suo lavoro. Apemaia stava per andarsene
quando sentì l'ordine di Leo: "Squadra ALT!
Riposo!". Le formiche si accasciarono sfinite
sull'erba e Leo si avvicinò ad Apemaia. "Lo sa
che non si rivolge la parola a un soldato che
marcia? Possibile che non gliel'abbiano mai
insegnato?". Apemaia si presentò ignorando il
rimprovero. Voleva sapere da Leo a che cosa
servisse quell'esercito in assetto di guerra.
Allora Leo, fiero di poter illustrare il suo
compito, spiegò ad Apemaia e a Willi che
l'esercito delle formiche proteggeva le scorte
di viveri ammassate nel formicaio.
"Sapete, lavoriamo tutta l'estate e non
possiamo permetterci di farci derubare,
altrimenti
l'inverno
non
potremmo
sopravvivere", disse aggiustandosi l'elmetto
sulla testa. E ritornò al comando della sua
armata. "Le formiche sono organizzate quasi
come noi api", commentò Apemaia. "Anche
noi abbiamo le api guerriere che difendono
l'alveare".
"Sì", rispose Willi, "ma da noi non ci sono certi
generali che costringono alle marce
forzate...".
Il ricordo dell'alveare aveva fatto venire un po'
di nostalgia a Willi. Camminava con la testa
bassa, pensando a Cassandra, alle merende di
miele e alla sua celletta. Era contento della
vacanza ma sentiva dentro un po' di rimpianto
per la vita dell'alveare. Era assorto nei suoi
pensieri quando si accorse che sul sentiero
c'erano delle orme strane. "Guarda, Apemaia,
di chi saranno queste impronte?", e si chinò
per studiare meglio il terreno. "Sembra un
animale con tanti piedi", disse Apemaia,
"seguiamo le impronte e vediamo dove
portano". I due amici, dopo qualche passo, si
trovarono di fronte a un albero. "Accidenti, le
impronte finiscono qui", esclamò Willi.
Chiunque fosse il proprietario di tante zampe,
non poteva essere molto lontano. Apemaia si
alzò in volo e vide sopra una foglia una specie
di verme con tanti piedi. "Buongiorno amico",
disse, "qual è il suo nome?". "E come mi potrei
chiamare se non Millepiedi!", esclamò quello,
con quattrocentoquarantaquattro piedi sulla
foglia e cinquecentocinquantasei piedi sul
ramo.
"Millepiedi? E come fa la mattina per mettersi
le scarpe", domandò Willi, "quanto tempo ci
impiega? ".
"Dici bene, Willi", rispose il Millepiedi, "proprio
questo è il mio problema. Ma ormai ci ho fatto
l'abitudine e mi alzo ogni mattina due ore
prima".
Apemaia pensò alla fatica del Millepiedi: alzarsi
due ore prima ogni giorno solo per mettersi le
scarpe! E quanti nodi doveva fare! Non
doveva essere poi così comodo avere tanti
piedi.
Apemaia e Willi tornarono da Flip e da Max
che li aspettavano vicino al pozzo dell'Uomo.
Si erano dati appuntamento lì, nella speranza
di riuscire almeno una volta a vedere com'era
fatto questo famoso Uomo. Flip spiegava agli
amici che il pozzo era una specie di magazzino
d'acqua, e che l'Uomo vi andava una volta al
giorno per attingerla. Aspettarono a lungo,
senza però vedere arrivare nessuno. Soltanto
una magnifica farfalla si era posata sul bordo
del pozzo, aveva messo in mostra le sue belle
ali ed era volata via. Max intanto aveva
cominciato a raccontare una storia che
affascinava Apemaia. Aveva incontrato un
giorno la coda di un altro lombrico che gli
aveva narrato le cattiverie dell'Uomo. La coda
del lombrico era riuscita a sfuggire ad una
morte per annegamento. Raccontava che
l'Uomo aveva scavato nella terra per catturare
dei vermi e li aveva portati allo stagno. Là
aveva appeso i vermi ad un uncino e li aveva
buttati nell'acqua. La coda del lombrico
spiegava che questo era il sistema che l'Uomo
usava per catturare i pesci. I pesci avrebbero
mangiato i vermi ma, non potendo sfuggire
all'uncino, sarebbero finiti in padella.
Il racconto di Max aveva fatto passare a tutti la
voglia di aspettare ancora l'Uomo.
Decisero di tornare nel bosco e di prepararsi
una buona cenetta. Apparecchiarono la tavola
dentro il calice di un fiore. Stavano per
mettersi a cenare quando sotto di loro
sentirono una vocina che augurava buon
appetito. "Chi è così gentile?", domandò
Apemaia, affacciandosi tra un petalo e l'altro.
"Sono il Bruco. Passavo di qua e ho sentito il
profumino della vostra cena. Disturbo?". "Per
niente", fece Willi che aveva fretta di mettersi
a tavola. Si accomodi pure". Il Bruco era
veramente simpatico. Un po' goffo e
impacciato, riusciva a far divertire l'allegra
compagnia ad ogni mossa. Il sole era
tramontato da un pezzo quando gli amici si
addormentarono. Il Bruco dormiva vicino ad
Apemaia, Flip e Willi si erano accomodati nello
stesso fiore e Max aveva scavato una buca nel
terreno e vi si era arrotolato dentro.
Non era ancora l'alba quando passarono dei
giovanotti che si erano dati alla vita notturna.
Vedendo il Bruco incominciarono a ridere e a
prenderlo in giro: "Com'è brutto! Com'è
ridicolo! Ma chi crede di essere quello lì, la bella
addormentata nel bosco? Ah, ah, ah!".
Apemaia protestò vivacemente: "Mascalzoni!
Maleducati! Non si ride così alle spalle di un
altro!". E si avvicinò alla banda, mostrando il
pungiglione. In un attimo sparirono. Ma ormai il
guaio era fatto.
Il Bruco piangeva in un angolo: "Mi prendono
sempre in giro, mi deridono perché sono
brutto. Oh, povero me!". Nessuno riusciva a
consolarlo. Aveva deciso di chiudersi in un
bozzolo e di non farsi più vedere da nessuno.
Apemaia era molto triste.
Aveva perso un amico e non era riuscita a fare
niente per lui. Willi cercava di distrarla ma
senza successo.
Non aveva più senso ormai continuare quella
vacanza. Come si poteva girovagare nel
bosco, conoscere altra gente quando il Bruco
era là, chiuso nel suo bozzolo, disperato,
inconsolabile? Apemaia e Willi tornarono
all'alveare. Passarono alcuni giorni, ed
Apemaia era sempre triste. Poi, una mattina,
Willi corse a chiamarla. "Apemaia, vieni! C'è
qualcuno che ti cerca. C'è una farfalla che
chiede di te". "Ma io non conosco nessuna
farfalla", rispose Apemaia. In quel momento si
fece avanti una farfalla dalle grandi ali
colorate. "Sei sicura di non conoscermi?",
domandò ad Apemaia. "Eppure una volta
eravamo amici!". Apemaia non credeva ai suoi
occhi: quella farfalla magnifica aveva la voce
del Bruco, la faccia del Bruco, era... era proprio
lui!
"Come sei diventato bello!", esclamò
Apemaia. Aveva ritrovato l'amico che credeva
perduto.
III
Una nuova conquista.
L'estate stava ormai per arrivare e l'alveare
era affollato dalle api che si affaccendavano
nella raccolta del nettare, nella costruzione di
nuovi favi e nell'istruzione delle nuove nate.
Apemaia e Willi, amici inseparabili, cercavano di
rendersi utili. Non erano ancora abbastanza
grandi per uscire con le api operaie a
raccogliere il polline e il nettare dei fiori, non
erano ancora abbastanza grandi per montare
la guardia all'ingresso dell'alveare, non erano
ancora abbastanza grandi per aiutare il dottor
Bua nella ricerca di nuove medicine. Insomma,
erano due api in attesa di diventare vere api.
Passavano la maggior parte del loro tempo
insieme con le compagne, nella scuola di
Cassandra, e quando non erano a scuola
gironzolavano per il bosco in cerca di
avventure, di amici e, a volte, anche di guai.
"Uffa, Willi, io mi annoio", disse Apemaia
all'amico, "cerchiamo di inventare qualcosa
per divertirci". Ma divertirsi non era una cosa
facile, perché nell'alveare non era permesso
giocare liberamente. Se si correva per i
corridoi, c'era sempre qualche operaia che
protestava perché si intralciava il suo lavoro; se
si chiudevano le porte per giocare a
nascondino, erano le api ventilatrici a
protestare perché le porte chiuse impedivano
all'aria fresca di circolare e di raffreddare i favi
dell'arnia. L'unica soluzione era quella di
andare a giocare nel prato.
Apemaia si alzò in volo e con un'ampia
giravolta andò a posarsi ai piedi di un fiore che
aveva gli stami lunghi lunghi. Si fermò ad
osservare pensierosa la forma di quei fili che
pendevano dall'alto e ad un tratto esclamò:
"Ci sono! Facciamo la giostra!". Willi dovette
farsi spiegare più volte il progetto e alla fine
provò a mettere in pratica l'idea dell'amica.
Apemaia aveva pensato di utilizzare gli stami
del fiore proprio come delle liane. Bastava una
leggera spinta, e il gioco era fatto.
Sedute sull'estremità dello stame, le api
giravano vorticosamente: "Vooomm! Dài, più
forte!
Vooommm!", gridava Apemaia, felice della
sua trovata.
Ma, come si sa, dei giochi ci si stanca presto.
Bisognava inventare qualcos'altro.
Willi era sdraiato con la pancia in aria a
guardare le nuvole. "Guarda, Apemaia, quella
nuvola sembra un barboncino!".
"Un barboncino? Ma no, Willi, sembra una
pecora!", rispose Apemaia con il naso per aria.
"E io dico che è un barboncino!", replicò Willi.
"E io dico che è una pecora", insistette
Apemaia. Ben presto tutte le api stavano con il
naso per aria a guardare la nuvola che ad
alcuni sembrava un barboncino, per altri
somigliava ad una pecora.
"Andiamo a vedere da vicino", propose
Apemaia, "se voliamo in alto in alto forse
riusciamo a stabilire chi ha ragione".
Partirono tutti insieme e volarono in direzione
della nuvola. Salirono sempre più in alto, ma
alla nuvola non si arrivava mai.
"Apemaia, guarda giù! Mamma, come è
diventato piccolo il mondo", disse Willi che
incominciava ad avere paura. Da quell'altezza
la farfalla dalle grandi ali, che si riposava su un
fiore, non sembrava più grande di un
moscerino, e l'alveare somigliava alla casetta
dei nani. La nuvola, al contrario, diventava
sempre più grande. Non aveva né la forma di
una pecora né quella di un barboncino. Vista
da vicino sembrava una grande montagna
tutta di latte e miele.
Ritornarono sulla terra lasciandosi portare dal
vento e quando atterrarono sul prato tutti si
accorsero della faccia verde di Willi. Il poverino
soffriva di vertigini, e quell'escursione verso la
nuvola gli aveva fatto venire un bel capogiro.
Camminava barcollando a destra e a sinistra e
non riusciva a stare in equilibrio; inciampava
nell'erba, urtava i fiori, sembrava un ubriaco.
Apemaia lo guardava stupita. Non aveva mai
visto nessuno ridotto in quelle condizioni.
"Vedo doppio", gemeva Willi, "mi manca la
terra sotto i piedi!". Lo fecero sdraiare
all'ombra di una grande foglia, e cercarono di
coprirlo con i petali di un fiore.
"Povero amico mio", lo confortò Apemaia,
"stai proprio male!". Le altre api sventolavano
delle foglie di menta sotto il naso del
poveretto, cercando di fargli riprendere i sensi.
Qualcuno era andato allo stagno a prendere
un po' d'acqua; ma anche gli impacchi con il
muschio non servirono a rianimare il
malcapitato.
Apemaia allora decise di andare all'alveare a
chiamare il dottor Bua, che certamente
avrebbe saputo come curare il mal di vertigini.
Stava dando le ultime istruzioni alle amiche
quando vide arrivare Flip.
"Flip, presto, vieni qui!", gridò. "Willi sta molto
male, dobbiamo correre a chiamare il dottor
Bua".
"Vieni, sali sulla mia schiena", rispose Flip, "in
tre salti saremo all'alveare".
E, così dicendo, spiccò un balzo sulle sue agili
zampe e partì alla volta dell'arnia.
Il dottor Bua ascoltò il racconto di Apemaia e,
presa la borsa dei suoi arnesi, volò da Willi.
"Altro che mal di vertigini", sentenziò dopo
aver visitato il malato, "questo è un classico
caso di mal di fifa. Una buona iniezione di
coraggio sistemerà tutto!".
Alla parola "iniezione", Willi aprì gli occhi,
scattò in piedi e urlò ai quattro venti: "Sto
benissimo, sono guarito, mi è passato tutto". E
approfittando dello stupore dei presenti si
allontanò in fretta e furia dalla siringa del
dottor Bua.
"Meno male", disse Apemaia, "quel buffone ci
aveva fatto prendere uno spavento!".
Ritornarono
tutti insieme
all'alveare,
commentando le avventure di quella mattina.
Cassandra aveva rimproverato Apemaia
perché non avrebbe dovuto portare Willi così
in alto: "Oggi resterete qui vicino, non voglio
che corriate altri rischi".
Infatti quel pomeriggio Apemaia e Willi si
dedicarono all'esplorazione dello stagno.
Descrissero sul loro quaderno tutte le piante
che nascevano nell'acqua, disegnarono i fiori
delle ninfee, si divertirono a far rimbalzare
sulla superficie dello stagno alcuni sassolini
larghi e piatti.
"Il mio ha fatto quattro salti", diceva Willi.
"Guarda questo", rispondeva Apemaia
facendo rimbalzare un sassolino sull'acqua
cinque volte.
Lo stagno affascinava i due amici. Con una
foglia, un rametto e un guscio di noce
Apemaia aveva costruito una barchetta che
galleggiava dolcemente. Willi la spingeva verso
il largo e Apemaia volava a riprenderla e la
riportava verso la riva.
Faceva caldo quel giorno, e la superficie
dell'acqua dello stagno era liscia e splendente
come uno specchio. I due amici incominciarono
a scherzare: "Io sono l'ape più bella! Guarda
come l'acqua riflette la mia immagine!",
diceva Apemaia sfilando davanti a Willi e
imitando il passo di una perfetta indossatrice.
"Io sono il mostro delle acque!", rispondeva
Willi, facendo le boccacce che l'acqua, appena
increspata, rendeva ancora più comiche.
Ad un tratto, un'ombra scura scivolò sotto di
loro. Era un pesce che da tempo studiava i
movimenti delle due api. Aveva intenzione di
farsi un bel pranzetto e quelle due sciocchine
capitavano a proposito.
"Cosa sarà", domandò Willi un po'
preoccupato, "l'hai visto anche tu?".
"Ma dài, fifone, oggi basta con gli scherzi",
rispose Apemaia. "Sarà l'ombra di... ".
Ma mentre parlava, il pesce saltò fuori
dall'acqua e aprì la sua grande bocca cercando
di catturarla.
Fu questione di un momento: Apemaia si
aggrappò con tutte le forze alla foglia di una
canna, che la rilanciò per aria. Il pesce era
ritornato nell'acqua con la pancia vuota.
"Che paura!", esclamò Apemaia. "Io non
sapevo che i pesci mangiassero le api... Willi,
andiamo via, questo non è un posto per noi".
L'amico era ben felice di allontanarsi dallo
stagno; l'idea di finire nella pancia di un pesce
non gli piaceva affatto. Quella sera preferirono
non raccontare a nessuno quello che era
successo.
Temevano un altro rimprovero di Cassandra e
non volevano rischiare di finire subito a letto
senza la cena.
"Domani saremo più prudenti", disse
Apemaia, "è ora di renderci utili. Vedrai, Willi,
troveremo il modo di dimostrare che non
siamo più soltanto degli scolari".
Si dice che la notte porti consiglio ma di consigli
Apemaia, quella notte, non ne aveva trovati. Il
giorno dopo decise di andare a trovare Curt,
lo scarabeo della rosa, per chiedergli qualche
idea in prestito. "Non sappiamo come fare per
dimostrare che siamo cresciuti", disse Apemaia
a Curt, "ci trattano sempre come neonati... ".
Curt aggrottò la fronte, ci pensò un
momentino e poi rispose: "Potreste rendervi
utili segnalando i pericoli che ci sono. Voi
andate sempre in giro... ecco, ho trovato!
Potreste annotare tutti i posti che vi sembrano
pericolosi e riferire alle api operaie di fare
attenzione... ".
"Ottima idea", esclamò Apemaia, "partiamo
subito!".
Era un compito rischioso: per segnalare i
pericoli bisognava andarli a cercare. Sarebbero
stati abbastanza prudenti quei due?
Curt era grande e grosso e sapeva difendersi,
ma Apemaia e Willi erano così distratti!
Quando Flip seppe che le due api volevano
ficcarsi nei guai, decise di andare con loro, per
evitare il peggio.
Arrivò al momento giusto. Apemaia aveva
trovato, tesa tra due rami, una vecchia
ragnatela abbandonata dal suo padrone, e si
divertiva a saltarvi sopra. "Guarda Flip, è
meglio di un tappeto elastico, rimbalza che è
un piacere!", esclamò quando vide l'amico.
Fece un salto, poi ancora un salto, finché un
filo della ragnatela non si ruppe e cominciò ad
imprigionarle le ali. Apemaia non riusciva a
districarsi da quel groviglio. Ci volle l'aiuto di
Willi e di Flip per liberarla. "Accidenti", esclamò,
"non riuscivo più a muovermi!".
Allora Flip le spiegò che il ragno tesseva la sua
tela proprio allo scopo di catturare le prede.
"Sei stata fortunata, perché questa ragnatela
non è abitata. Se ci fosse stato il ragno, avresti
fatto una brutta fine!".
Flip stava concludendo la sua predica quando
videro avvicinarsi di gran corsa un topo con gli
occhiali. Arrivava tutto trafelato e si
proteggeva con il cappello di un fungo.
"A-a-a-aiuto! I ne-ne-nemici!", gridava
balbettando, "di-di-dicono che c'è la-lal'attacco!". Apemaia lo fermò e volle sapere
chi erano i nemici che attaccavano.
Il topo non era certo veloce nelle sue
spiegazioni. Balbettava così tanto che gli ci
voleva un'eternità a mettere insieme un'intera
frase. Ma il succo era chiaro. Aveva sentito
qualcuno nel bosco dire che fra breve l'alveare
sarebbe stato rapinato. Non era riuscito a
sapere chi fosse l'artefice di un simile piano ma
aveva sentito chiaramente la parola "rapina".
"L'alveare è in pericolo", esclamò Apemaia.
"Willi, corriamo ad avvisare le api guerriere!".
E spiccarono il volo alla volta dell'alveare. Non
fu facile convincere le api guerriere, sempre
prudenti, che l'alveare era in pericolo.
Nessuno voleva credere a quei due mocciosi
perditempo che se ne stavano tutto il giorno a
zonzo. "Su, tornate a giocare, piccine, a
difendere l'alveare ci pensiamo noi!", risposero
le api guerriere.
Apemaia insisteva. Non voleva andarsene e
così dovettero usare la minaccia delle loro
lance per togliere di mezzo quella piccola
peste. Willi convinse l'amica che non c'era altro
da fare che tornare nel bosco dove avrebbero
cercato di sapere qualcosa di più preciso.
Se il topo aveva sentito parlare di una rapina
all'alveare, forse c'era qualche altro animale
che sapeva qualcosa.
Andarono a casa di Flip e studiarono bene il da
farsi. Innanzitutto bisognava interrogare più
gente possibile, ma non a caso; bisognava
consultare animali della terra e animali del cielo
per stabilire da dove potessero provenire
questi nemici.
pemaia si recò a trovare due signorine
scarabee note per la loro arte nel pettegolare.
"Sapete nulla riguardo a una rapina
all'alveare?", domandò Apemaia ansiosa di
scoprire la verità. "Rapina?", fecero quelle in
coro. "Ma non si tratta di rapina, mia cara,
circola voce che si prepari un attentato alla
vostra Regina". "Un attentato? E chi ve lo ha
detto?", indagò Apemaia.
"Oh, nessuno in particolare, mia cara. È una
voce, e le voci circolano, ma non si sa mai da
dove vengano".
Era troppo. Prima una rapina, ora un
attentato.
A questo punto la cosa era grossa per
davvero.
"Potete indicarmi qualcuno che possa darci
altre informazioni?", domandò Apemaia alle
signorine scarabee. "Forse Puch, la mosca, ma
non prendete per oro colato tutto quello che
dice. Quelle lenti che porta sugli occhi le fanno
vedere le cose un po' deformate...". Chissà
dov'era Puch in quel momento.
Apemaia sapeva che Puch passava la maggior
parte del suo tempo nella casa dell'Uomo a
curiosare. E, se non era là, poteva essere
dappertutto. Come fare a rintracciarla?
Tornò da Flip e da Willi, che nel frattempo
avevano indagato presso alcune lucciole.
"Si dice", raccontò Flip, "che qualcuno voglia
incendiare l'alveare".
"Incredibile", disse Apemaia, "a me hanno
detto che vogliono fare un attentato alla
Regina. Ma chi ha intenzione di disfarsi delle
api?". Willi, che fino a quel momento era
rimasto in disparte, espose i suoi dubbi:
"Questa storia puzza! Prima la rapina, poi
l'attentato, adesso l'incendio. C'è qualcuno
che si diverte alle nostre spalle". "Sarà",
rispose Apemaia, "comunque è uno scherzo di
cattivo gusto. E poi non si può mai sapere;
potrebbe essere tutto vero... ".
Decisero di andare a cercare Max e di sentire
se nelle viscere della terra, dove lui abitava, si
raccontasse qualcosa del genere.
Ma, mentre volavano verso la tana di Max, dal
cielo incominciarono a scendere alcune gocce
di pioggia. "Impossibile volare con questo
tempo", disse Apemaia, "come facciamo?".
Flip aveva una soluzione per tutto. Fece
riparare gli amici sotto il calice di un fiore in
attesa che il tempo tornasse bello.
Che strana la natura quando piove! Apemaia
osservava il verde dell'erba, che sotto la
pioggia era diventato ancora più brillante.
I petali dei fiori ricevevano le goccioline
d'acqua e le facevano rotolare dentro il calice,
come se fossero preziose perle da raccogliere.
La terra profumava di pulito e tutt'intorno
risuonava una musica lieve. "Din-din-din",
facevano le gocce di pioggia dentro lo stagno.
"Flap, flap, flap", suonavano al contatto con le
foglie della grande quercia. Com'era bella la
natura! "È proprio un bel regalo", pensava
Apemaia sotto il suo fiore, "deve essere
proprio buono chi ha fatto tutto questo!".
Non era possibile credere che in un mondo
così bello ci fosse qualcuno che progettasse
rapine, attentati, incendi. Eppure, quel giorno
non aveva sentito parlare d'altro.
Appena la pioggia cessò, Flip, Willi e Apemaia
andarono alla tana di Max. Anche lui aveva
sentito parlare di qualcosa ma non aveva
capito bene e non sapeva spiegare se si
trattasse di una rapina piuttosto che di un
attentato o di un incendio.
Non restava che andare a cercare Puch, per
sapere da lei qualcosa di più preciso. L'aria era
ancora umida e Apemaia non riusciva a volare
bene. "Attaccati alla mia coda", disse Max, "ti
porterò io". Apemaia non era mai andata a
cavallo di un lombrico e trovava il viaggio
abbastanza piacevole, anche se gli scossoni
non mancavano.
Nessuno aveva visto Puch quel giorno.
"Forse, a causa della pioggia", pensò
Apemaia, "sarà rimasta nella casa dell'Uomo.
Dovremo rinunciare a sapere qualcosa da lei".
Era quasi buio, e Willi insisteva per fare ritorno
all'alveare. Gli amici si diedero appuntamento
per il giorno dopo e si salutarono. Quando
Apemaia entrò nell'alveare incontrò due api
operaie che parlavano tra loro. "Eppure li ho
sentiti con le mie orecchie", diceva una,
"raccoglievo il nettare da una rosa e ho
sentito che parlavano proprio di noi,
dell'alveare. Dicevano che molto presto ci sarà
una rapina".
Apemaia allora andò a cercare Cassandra.
Voleva parlarle di tutta questa storia piena di
rapine e attentati, e chiederle consiglio.
La trovò che parlava con un'ancella della
Regina, a bassa voce per non farsi sentire dal
resto della scolaresca. Anche se non era una
cosa molto educata, Apemaia si nascose dietro
alla porta e stette ad origliare. Cassandra
diceva che nel bosco aveva inteso parlare di un
incendio. "Capirai, se appiccano il fuoco
all'alveare è la fine". "Bisogna informare la
Regina", rispose l'ancella. "Ma no, forse è
meglio aspettare", la rassicurò Cassandra con
prudenza. "Dunque i sospetti non sono solo
miei", pensava Apemaia.
Prima di andare a letto si accorse che davanti
ad ogni porta e dietro ogni finestra era stato
rafforzato il numero delle guardie. Erano tutte
molto nervose, camminavano avanti e
indietro, attente ad ogni rumore sospetto, ad
ogni ombra e ad ogni spostamento d'aria.
Nessuno dormì bene, quella notte: Willi per
paura dei ladri, Cassandra per paura
dell'incendio, Apemaia per paura che qualcuno
potesse far del male alla Regina. E le api
guerriere non dormirono affatto.
La mattina dopo ognuno riprese il suo lavoro e
Apemaia e Willi si recarono all'appuntamento
con Flip e Max. Anche loro non erano riusciti a
dormire quella notte.
Max, in particolare, si era arrotolato nella sua
tana senza riuscire a prendere sonno e aveva
continuato a pensare a quelle strane storie. Si
era ricordato che da un paio di giorni non
aveva più visto Tecla, un losco personaggio
sempre avido di bottino e desideroso di
prendere nella sua rete anche Apemaia. "Ci
siamo", esclamò Flip, "quando quella
scompare, nessuno riesce più a dormire
tranquillo!".
Come fare a scovarla? Apemaia era decisa a
tutto. "Muoviamoci, chiederemo notizie a tutti
gli animali del bosco", disse col solito
entusiasmo.
E si diresse verso lo stagno.
Quando arrivarono sulla riva videro uno
spettacolo strano: tutte le rane scappavano a
gran velocità. Uscivano dall'acqua e si
nascondevano dentro i cespugli tutt'attorno
allo stagno, gracidando a perdifiato.
"Che cosa succede?", domandò Flip ad una
rana che gli passava accanto. "Qualcuno dice",
rispose quella affannata, "che l'acqua dello
stagno è stata avvelenata!".
"Povere noi", gemeva la più anziana, "come
faremo senz'acqua?".
"Anche questa è una storia che puzza",
esclamò Willi, "se l'acqua fosse avvelenata i
pesci sarebbero morti già da un pezzo. Invece
non c'è alcun segno di pesce morto!".
"Bravo Willi, questo è vero", ammise Apemaia,
"ma chi può avere interesse a far scappare le
rane dallo stagno?".
Flip era pensieroso. Tutta quella storia non gli
piaceva. C'era qualcuno che voleva
allontanare gli animali del bosco per restarne
l'unico proprietario. "Mi sembra di conoscerlo
questo tipo", disse Flip preoccupato, "di certo
a mettere in piedi tutta questa storia è stata
Tecla. Ma come possiamo fare per
smascherarla? ".
Apemaia pensava. Willi pensava, Max pensava,
Flip pensava. Ma tanti pensatori non riuscivano
a produrre tutt'insieme neanche una mezza
idea. Ad un certo punto Flip parlò. Era calmo e
aveva l'aria di un vecchio saggio. "Sentite",
disse agli amici, "quello che ha fatto Tecla non
è bello ma noi non possiamo proprio agire allo
stesso modo. Non servirebbe. Dobbiamo
cercarla e parlarle, con molta semplicità,
facendole capire che non le serbiamo rancore
per il suo misfatto".
Apemaia era d'accordo con Flip. Bisognava
andare a cercare Tecla e dimostrarle che si
può essere buoni con chi ha sbagliato.
Dove poteva essersi rifugiato un vecchio
ragno, in attesa che il suo malvagio progetto si
realizzasse fino in fondo?
Certo, in un posto da cui si potesse dominare la
situazione e tenere sott'occhio tutti i vari
spostamenti.
"Dalla grande quercia", disse Max, "si può
vedere tutto il prato, il bosco e l'alveare. Io lo
so perché quando sono triste striscio fin lassù e
cerco di guardare la vita sotto un'altra
prospettiva...". Sicuro, Tecla non poteva essere
che lassù. Si affrettarono a raggiungere la
grande quercia e senza fare rumore salirono
fin sulla cima.
Tecla dormiva dentro un nido abbandonato,
con il vecchio cappello in testa e il naso tutto
rosso come al solito. "Povera vecchia", pensò
Apemaia, "come dev'essere triste vivere così
soli, senza nessun amico".
Flip chiamò Tecla e le disse che alcuni amici le
volevano parlare. Fu davvero molto
conciliante. "Amici? Io non ho amici! Presto
sarò la padrona di tutto il bosco...".
"Lo sappiamo", rispose Apemaia, "hai cercato
di spaventarci perché volevi restare sola. Volevi
prenderti tutto il nostro miele, tutti i moscerini
dello stagno, e avere il bosco tutto per te".
"Ma", interruppe Flip, "non ce l'abbiamo con
te per quello che hai fatto. Noi vogliamo
esserti amici".
"Se tutti se ne fossero andati come volevi tu",
disse Willi con fare commovente, "nel bosco
non ci sarebbero più il grillo che canta, gli
uccellini al mattino, le lucciole la notte. Come
faresti a vivere così da sola?".
Tecla guardava quei quattro e cominciava a
sentirsi dentro qualcosa di strano.
Era vero quello che diceva Apemaia: lei aveva
messo in giro quelle voci perché voleva restare
l'unica padrona del bosco. Ma era vero anche
quello che diceva Willi: la vita senza gli altri
animali sarebbe stata ben triste. Quella povera
vecchia, in fondo, aveva il cuore buono. Era
stata la solitudine della sua vita a ridurla così.
Chiese perdono agli amici per quello che aveva
fatto, e pregò Apemaia di aiutarla ad essere
come loro, una di loro. "Ma certo", esclamò
Apemaia, "coraggio, vieni con noi!". E salì sulle
sue spalle, felice di aver riportato l'armonia
nella vita del bosco e di aver conquistato un
amico in più.
IV
La festa.
Quella mattina Cassandra si dava un gran da
fare. Aveva un appuntamento con l'Ape
Regina. "Chissà che cosa vorrà", si
domandava lustrandosi le ali per farle
sembrare ancora più belle. "Ape Regina non
chiama mai così presto il mattino... speriamo
non sia nulla di grave...". E volò verso
l'appartamento reale. Un fuco servitore con
tre squilli di tromba annunciò alla Regina la
presenza di Cassandra. "Entra Cassandra,
voglio parlarti", disse la Regina seduta
pomposamente sul suo trono. "Maestà, sono
felice di poterla servire", rispose Cassandra con
un inchino. Il cuore le batteva forte forte e
l'emozione le faceva tremare le gambe.
L'Ape Regina la fece accomodare vicino a sé e
le parlò a lungo di un suo progetto: voleva
dare una grande festa per celebrare l'arrivo
dell'estate. "Dovrà essere una bella festa, con
gli invitati, la banda, il coro e...". "E cosa,
maestà?", domandò Cassandra con curiosità.
"E... tanti fuochi d'artificio! Te ne occuperai tu
stessa. Ti nomino organizzatrice della festa".
Cassandra balbettò qualche parola di
ringraziamento, fece frettolosamente un
inchino e uscì, rossa come un pomodoro. Ma
non era orgoglio, era semplicemente
imbarazzo. "Una festa? Tanti invitati? Anche
la banda?", diceva tra sé. "E poi, dove li vado
a trovare i fuochi d'artificio? Ho paura che il
caldo abbia dato alla testa anche alla Regina".
All'alveare di feste così non se n 'erano mai
date. E poi le api non avevano una banda, non
avevano un salone per gli ospiti, non avevano
un coro. I fuochi d'artificio poi... cose da
uomini! Cassandra non sapeva da che parte
cominciare. Ebbe un'idea: "Ma certo!
Apemaia! Lei può darmi una mano. La
cercherò prima di andare a raccogliere il
nettare". E, presa la sua ampolla, si affrettò
verso l'uscita dell'alveare. Apemaia volava
felice tra un raggio e l'altro del sole del
mattino. Stava planando verso il prato che
circondava l'alveare quando vide Cassandra.
"Buongiorno, dormito bene?". "Dormito un
corno! Devi aiutarmi. Bisogna sparare gli
invitati, suonare i fuochi d'artificio, e
avvisare...". Apemaia non capiva: Cassandra
era la sua maestra, possibile che parlasse in
questo modo? Sparare gli invitati? Suonare i
fuochi d'artificio? Forse il caldo le aveva
allentato qualche rotella. Con un batter d'ali si
posò sulla terrazza dell'alveare. Seduta vicino a
Cassandra si fece spiegare meglio quello che la
maestra voleva dire. Così, con un po' più di
calma e di ordine, venne a sapere del progetto
della Regina. "Magnifico!", esclamò. "Questa
sì che è una bella idea. Una festa, con la
banda, il coro e tutto il resto!". Apemaia
pensava già all'indigestione di cose buone che
avrebbe fatto. Era così contenta che non si
accorse dell'espressione preoccupata di
Cassandra: "Non fare l'ingenua, Apemaia,
questa festa va preparata ed io non so da che
parte cominciare". Ma Apemaia, che prendeva
tutte le cose sportivamente, disse: "Ci penso
io". E partì come un razzo. Armata di carta e
penna, fece l'elenco delle cose da fare: trovare
tutti gli indirizzi degli amici del bosco, fare le
prove di canto con le sue compagne, trovare
gli strumenti per la banda, e poi trovare anche
i suonatori, e poi... e poi i fuochi d'artificio.
Come si fanno i fuochi d'artificio? "Questo
problema lo risolverò dopo", disse tra sé, e
corse alla scuola per parlarne con le sue
amiche.
"Ragazze, tutte a raccolta, dobbiamo
organizzare un coro". Nessuno all'alveare
aveva mai organizzato un coro. I grandi
lavoravano e i piccoli preferivano la vita all'aria
aperta, dopo le lezioni su come diventare
un'ape laboriosa tenute da Cassandra. I primi
tentativi furono un fiasco. Tutto quello che
veniva fuori non erano note, ma un noioso
Zzzz... Zzzz... Zzzz. Ci voleva qualcuno che
insegnasse loro i primi elementi della musica.
"Willi, che cosa possiamo fare?", domandò
Apemaia all'amico. "E che ne so io? Non sono
mica Flip che sa tutto", rispose Willi seccato. "Ci
sono, sei una bomba, Willi!", esclamò
Apemaia, e come un fulmine si precipitò fuori
dall'alveare. Willi era rimasto a bocca aperta.
"Una bomba?", si domandava senza capirci
niente. "Apemaia è proprio tocca". La sua
amica invece aveva avuto un'idea geniale. Flip,
grande intenditore di musica, avrebbe potuto
aiutarla. Lo trovò che faceva la ginnastica
mattutina saltando su un vecchio tronco
d'albero, vispo e arzillo come al solito
nonostante la sua età. In tre parole gli spiegò
le difficoltà della situazione, e insieme
studiarono il da farsi. "Il problema non è tanto
il coro", sosteneva Flip, "perché cantare non è
una cosa difficile. Il problema è piuttosto la
banda: bisogna trovare gli strumenti e chi li
suona. Incontriamoci più tardi all'alveare e ti
dirò quello che occorre fare". Apemaia gli
mise una mano sulla spalla: "Flip, sei un amico.
Ti aspetto più tardi". Intanto Willi, che voleva
rendersi utile, incominciò a scrivere in bella
grafia gli inviti per la festa. Aveva raccolto
delle foglie piccoline, lisce e lucide, sulle quali si
poteva scrivere da una parte l'invito, dall'altra
l'indirizzo dell'invitato. Quando Apemaia tornò
all'alveare lo trovò seduto sulla cattedra di
Cassandra, con il naso sporco di inchiostro,
tutto preso dal suo lavoro.
"Bravo, Willi", disse Apemaia, "vedo che ne
hai già scritti tanti. Ma come facciamo a sapere
gli indirizzi di tutta questa gente?". Willi, che
non amava essere disturbato quando
lavorava, rispose in malo modo: "Uffa, come
faccio a sapere dove abita tutta la gente del
bosco. Non sono mica come Max che sta
sempre in giro...". "Evviva", urlò Apemaia, "sei
una bomba!". E fece per andarsene. Ma Willi
questa volta la fermò. "Senti, io non capisco:
perché sono una bomba, che cosa ho detto di
tanto strano?". Apemaia spiegò: senza
volerlo, le aveva ricordato che Max, appunto
perché stava sempre in giro, conosceva
sicuramente tutti gli indirizzi degli amici del
bosco. Così volarono insieme alla ricerca di
Max. Come si sa, i vermi sono un po'
dormiglioni: trovare Max quel giorno non fu
facile. Apemaia e Willi sapevano che più o
meno abitava in un prato di trifoglio vicino alla
grande quercia, ma dovettero domandare a
molti dove fosse esattamente la sua tana.
"Sveglia, poltrone! Ci sono novità", gridò
Apemaia davanti alla sua porta. "Max, vieni
fuori, è urgentissimo!", aggiunse Willi con tutto
il fiato che aveva. "Oh mamma, che c'è? Chi
mi sveglia?", mugugnò Max uscendo dal suo
buco. "È scoppiata la guerra?". "Macchè
guerra", rispose Apemaia, "ci devi aiutare. La
Regina vuol dare una festa e noi non
sappiamo l'indirizzo della gente del bosco per
mandare gli inviti". "Ah, capisco", disse Max
tirando fuori dalla tana gli ultimi cinque
centimetri della sua coda. "Ma non
preoccupatevi. Li posso distribuire io che
conosco tutte le case. Però...".
"Però cosa?", domandarono insieme Willi e
Apemaia. "Però vorrei suonare anch'io uno
strumento. Far parte della banda insomma".
"Uffa, Max, sei il solito ricattatore", lo
rimproverò Apemaia, "mi dici che strumento
sai suonare?". Max infatti non sapeva suonare
nessuno strumento. Ma si ricordava di un suo
lontano parente, un certo Serpente a Sonagli,
che con tre anelli sulla coda riusciva a far
musica. Lo disse agli amici e giunsero
all'accordo: Max avrebbe distribuito gli inviti e
avrebbe poi fatto parte della banda.
"A proposito di banda: Willi, dobbiamo
tornare all'alveare, perché Flip ci aspetta. Ciao
Max, vieni a prendere gli inviti e ti diremo
quando si riunisce la banda". Apemaia e Willi
volarono verso l'alveare. Sulla strada del
ritorno trovarono Flip e Curt che
camminavano con due grossi fiori in mano. Flip
aveva scoperto che le campanule avevano un
bel suono, un suono diverso secondo la
grandezza e il colore del fiore. Curt, da parte
sua, sapeva che esistono i fiori-trombetta e i
fiori-trombone. Era un bel passo avanti. La
banda cominciava a prendere forma, anche se
bisognava aspettare ancora un po', per
sentirla suonare al completo.
La notizia della festa si era diffusa
rapidamente tra tutti gli amici del bosco.
Cassandra aveva il suo bel da fare: scegliere il
posto per la festa, ordinare i dolci e le bibite,
cucire la divisa per il coro e ricevere tutti quelli
che chiedevano il permesso di recitare, di
cantare, di ballare, ecc. Artisti improvvisati,
insomma, che speravano di far colpo sull'Ape
Regina e avere in dono un po' della sua
famosa pappa reale. E di notte, quando
Cassandra andava a dormire nella sua cella,
non riusciva a prendere sonno: pensava ai
fuochi d'artificio. Nessuno sapeva dove
trovarli. Nessuno sapeva come fabbricarli.
Eppure la Regina aveva chiesto proprio i fuochi
d'artificio.
Apemaia invece dormiva sonni beati. Aveva
dato a Willi una buona dose di medicina
contro il mal di pancia perché l'amico,
scrivendo le foglie degli inviti, aveva leccato un
po' troppe volte la penna, ingoiando così una
quantità di inchiostro. Passato il mal di pancia, i
due erano volati nelle loro celle e riposavano
sognando la festa, la banda, il coro e tutto il
resto.
L'indomani il sole fece capolino prima del
solito, e la vita riprese con il ritmo di sempre.
Puch, la mosca che conosceva a pennello la
casa degli uomini, cercava inutilmente di
sapere qualcosa sui famosi fuochi d'artificio. Si
era alleata con un topino che abitava nella
cucina, e insieme frugarono dappertutto alla
ricerca di qualcosa che almeno somigliasse a
un fuoco d'artificio. Avevano visto che l'Uomo,
per accendere la pipa, usava uno strano
bastoncino con la testa rossa: quando lo si
strofinava contro il muro o sul pavimento, si
accendeva e diventava di fuoco. Ma sia Puch
sia il topino non riuscivano a fare uscire il fuoco
da quei bastoncini. Ci voleva troppa forza. E
poi, era pericoloso. Avrebbero rischiato di
incendiare tutto il prato dove ci sarebbe stata
la festa. Puch volò all'alveare per dire ad
Apemaia che i fuochi non si trovavano. "È
difficile, sai, sapere come fanno gli uomini a
fare i fuochi d'artificio. Io li ho visti una volta e
so che volano nel cielo, sono tutti colorati e
lucenti, lasciano una scia luminosa lunga come
quella della signora Lumaca, e fanno un gran
rumore. Ma non saprei proprio come
fabbricarli". Apemaia ascoltava attentamente
la descrizione di Puch. L'idea della scia della
Lumaca non era da scartare. Forse la signora
Lumaca che abitava nel bosco avrebbe potuto
confidarle il segreto della sua scia e forse così si
sarebbe trovata la soluzione per i fuochi
d'artificio.
Puch e Apemaia approfittarono dell'occasione
per fare una gara di velocità. "Vediamo chi
arriva prima alla quercia del bosco", propose
Apemaia all'amica. Tra loro queste sfide erano
frequenti. Puch sosteneva che le mosche sono
più veloci delle api, Apemaia diceva che
nessuno può battere un'ape in volo. Al via
partirono rapide in direzione del bosco, e
come sempre arrivarono quasi insieme. Tra
l'erba fresca di rugiada, la signora Lumaca
portava a passeggio suo figlio Lumachino.
"Buongiorno, signora Lumaca, come va la
vita?". "Buongiorno, Apemaia, come mai da
queste parti?". Apemaia le raccontò quanto
fosse difficile sapere qualcosa sui fuochi
d'artificio. "È una cosa complicata", disse la
signora Lumaca, "io mi intendo solo di striscie
sulla terra, perché sono anni che me le lascio
dietro. Ma non saprei proprio come fare a
lasciare una scia di luce nel cielo". Apemaia la
ringraziò e tornò all'alveare un po' sconsolata.
L'amico Willi, a causa del mal di pancia della
sera prima, si era alzato solo in quel momento.
Apemaia lo informò della visita alla signora
Lumaca e dei risultati per nulla soddisfacenti.
Insieme decisero di andare a vedere come
procedevano le prove della banda e del coro.
In un angolo del prato, a ridosso dell'alveare,
Flip e Curt erano tutti presi dalla loro musica.
Flip col suo cilindro in testa dirigeva
impeccabilmente la banda. Curt, aiutato da
una piccola fisarmonica, cercava di dare il
tempo ai gorgheggi del coro. L'effetto era
buono.
Sembrava impossibile che quel coro di stonati
fosse riuscito ad arrivare a tanta bravura.
Anche Flip aveva messo insieme una bella
banda. Con le castagne secche dell'inverno
passato aveva costruito viole, violini e chitarre.
I gusci di noce erano diventati due grossi
tamburi, i fiori-trombetta e i fioritrombone
scoperti da Curt suonavano magnificamente, e
ormai alla banda non mancava proprio niente.
Cassandra aveva trovato un angolo di prato,
vicino ai cespugli di gelsomino, che si adattava
a meraviglia per la grande festa.
Insomma era tutto pronto: dolci e bibite,
spettacoli e canti, invitati e curiosi. Apemaia
però non era ancora riuscita a risolvere il
problema dei fuochi d'artificio.
Aveva riunito i suoi amici più fedeli intorno ad
un tavolo per affrontare la questione e da ore
discutevano senza sosta. Willi proponeva di far
cambiare idea alla Regina, ma non era
possibile perché tutti all'alveare avevano
sempre cercato di soddisfare ogni desiderio di
Sua Maestà. Flip voleva proporre alle lucciole di
fare una danza ma, anche se non era una
cattiva idea, la danza delle lucciole non
avrebbe certo potuto sostituire i fuochi
d'artificio. Quel fifone di Max, sempre
pessimista, vedeva tutto nero. "Oh, non ce la
faremo mai. Sarà un disastro!", gemeva
strisciando tra Apemaia e Flip. "Non fare così
Max, vedrai che all'ultimo momento mi verrà
un'idea", diceva Apemaia, cercando di
risollevare il morale di tutti. Il giorno della festa
era ormai arrivato.
L'armata delle formiche si era assunta l'incarico
del servizio d'ordine. Ricevevano gli invitati, li
accompagnavano ai loro posti, erano attente
che nulla potesse turbare il clima della festa.
Due formiche in perfetta divisa da
combattimento
facevano
la
guardia
all'ingresso della loro casa, attente che i nemici
non approfittassero dell'assenza delle altre per
svaligiare i magazzini. Anche l'alveare era ben
sorvegliato. I fuchi guardiani proteggevano la
cera, il miele e la pappa reale dandosi i turni
come veri soldati. L'ora della festa era stata
fissata verso il tramonto. La Regina fece il suo
ingresso sul palco reale, scortata da una
schiera di fuchi servitori.
In quel momento si levò un solenne applauso;
tutti gli amici del bosco, tutte le api, tutte le
formiche, tutti gli uccelli sui rami gridavano a
gran voce: "Viva la Regina! Viva la Regina!".
Cassandra, che presentava lo spettacolo, era
molto emozionata. Fece un bel discorso per
salutare la Regina e per ricordare agli invitati
che quella festa voleva celebrare l'inizio
dell'estate, come augurio per tutti di una
buona stagione. In piedi, al centro di un
magnifico fiore, recitava la sua parte con
molta eleganza. Si era preoccupata della linea
e aveva fatto un po' di digiuno, per apparire
ancora più in forma. Dopo il discorso di
apertura della festa, Cassandra presentò alla
Regina e agli invitati gli artisti della serata. Le
prime ad esibirsi furono sei formiche
giocoliere, molto abili nel prendere al volo una
serie di anelli e palline. Erano veramente brave.
Poi si accesero le luci sul palcoscenico e Puch, la
mosca, recitò un lungo poema che riguardava
l'Uomo. Era una storia interessante, un misto
di filosofia e di tragedia, che appassionò molto
l'Ape Regina. I piccoli, invece, si annoiarono.
Non capivano che cosa ci fosse di così
interessante in quello che Puch, con fare serio
e cupo, stava declamando. E furono molto
felici quando Puch ebbe finito di recitare il suo
poema. Cassandra annunciò allora il divo del
momento: Pop la rana. I riflettori puntarono su
una foglia di ninfea dello stagno. Pop la rana
era là, in attesa dell'approvazione dei suoi fans
che non si fece attendere. Fischi e urla invasero
l'aria. Mentre Pop cominciava a cantare e a
ballare secondo il suo stile all'ultima moda,
affascinando tutto il pubblico dei più giovani,
Apemaia si grattava la testa cercando di
risolvere il dilemma dei fuochi d'artificio. Tutto
andava a gonfie vele, ma cosa avrebbe
pensato la Regina se alla fine fosse mancato lo
spettacolo pirotecnico? Apemaia cercò Willi.
"Dove s'è cacciato quel buono a nulla?
Quando serve non lo si trova mai". Willi infatti
era in estasi. Era un folle ammiratore di Pop e
dei suoi spettacoli. Stonato com'era, si sentiva
un po' più adatto a quei gridolini senza senso
piuttosto che alla musica vera e propria. Non
sentiva Apemaia che lo chiamava e ci volle uno
strattone per distrarlo dalle sue fantasie. "Dài,
muoviti, è un'ora che ti cerco", disse Apemaia
prendendolo per un braccio. "Dobbiamo
pensare ai fuochi e non abbiamo molto
tempo. Fra poco tocca a me". "Uffa, proprio
adesso che c'è questa musica divina...".
Stavano per allontanarsi quando udirono la
voce di Cassandra che annunciava il numero di
Apemaia con le campane.
"Hai visto, tocca a me! Aspettami, faccio
presto", disse all'amico, e volò sul palcoscenico
a grande velocità. Sapeva che alla Regina
piaceva il suono delle campane, e aveva
preparato un numero d'eccezione. Quella
mattina aveva raccolto tre campanule diverse
e aveva provato a suonare la canzone
preferita della Regina.
Veniva proprio bene. Dal palco reale la
sovrana ascoltava estasiata la sua canzone
suonata con le campane. "Din-din-don, dindin-dan". Apemaia era felice. E fu più felice
ancora quando la Regina si alzò in piedi per
applaudirla. Era un onore, un grande onore.
Quando ritornò da Willi lo trovò molto
pensieroso. "La Regina è stata contenta della
tua canzone, ma adesso come facciamo per i
fuochi d'artificio? ".
"Ho pensato a una cosa. Forse riusciamo a
risolvere questo dramma. Willi, mi devi
aiutare", sussurrò Apemaia all'orecchio
dell'amico. Confabularono un po' in questo
modo senza che i vicini potessero capire quello
che stavano progettando. Alla fine Apemaia
concluse: "E mi raccomando, ricordati del
tamburo, il tamburo, hai capito?".
Intanto lo spettacolo s'era interrotto per la
merenda. Erano tutti affamati e le provviste
fatte da Cassandra sparirono presto. Tanti
dolci, tante torte, tanti panini, tanti litri di latte
dolce, tante cose buone finivano tutte nella
pancia degli invitati. Le formiche avevano un
bel lavoro: porta a destra, ritira a sinistra, dài
con i biscotti, avanti con i bicchieri. In più c'era
la signora Lumaca che intralciava il traffico. Si
era messa in mente di aiutare a distribuire la
merenda e lo faceva con tanta buona volontà,
ma anche con tanta lentezza. Tuttavia non si
poteva certo litigare con la signora Lumaca, o
chiederle di fare un po' più in fretta. Quando
Cassandra presentò la banda, ringraziò
pubblicamente Flip per tutto quello che aveva
fatto. Flip era commosso e si nascose dietro il
suo trombone per non far vedere quanto
arrossiva. Willi e Apemaia gli erano vicini e
volavano allegramente intorno all'amico, che
con una potente soffiata faceva cantare lo
strumento. Era arrivato il momento tanto
aspettato. Cassandra, rivolgendosi alla Regina,
disse: "Maestà, questa festa e stata proprio
bella. Abbiamo avuto l'onore di ospitare tanti
artisti che ci hanno fatto divertire. Adesso...".
"Adesso ci sono io". Chi era colui che osava
interrompere? Cassandra si voltò e vide Max,
tutto vestito a nuovo, che strisciava sul palco.
Bisbigliò qualcosa a Cassandra, che per
ascoltarlo aveva dovuto abbassarsi fino a
terra. "Maestà, Max vuole esibirsi con un
numero mai visto finora: la danza del
serpente!".
E mentre Max si dimenava al suono di una
musica orientale, Apemaia e Cassandra
studiavano la situazione.
"Allora", domandò Cassandra, "tutto
pronto?". "Tutto pronto, puoi annunciare i
fuochi d'artificio!", rispose Apemaia molto
soddisfatta. Appena Max ebbe terminato la
sua danza, Cassandra chiese un attimo di
silenzio e poi annunciò: "Signori e signore... i
fuochi d'artificio!". E in quel momento nel cielo
si vide una scia luminosa accompagnata da una
grande esplosione.
Erano tutti naso all'aria, e non sapevano dire
altro che "OOOHH...!". Uno, due, tre, quattro
fiori colorati esplodevano nel cielo. Nessuno
riusciva a capire come tutto ciò potesse
avvenire. Nessuno, tranne Apemaia e Willi:
l'avevano proprio inventata bella. Apemaia
aveva raccolto in un prato vicino al ruscello un
bel mazzo di fiori pon-pon. I fiori pon-pon sono
quelli che, se soffiati, distribuiscono nell'aria
tanti semini bianchi con una morbida coda.
Apemaia aveva visto la zia Giuliana della
fattoria far divertire i suoi nipotini con quel
gioco. Ma come potevano quei fiori scendere
dal cielo facendo tanto rumore? Il segreto è
presto svelato. Era Willi che faceva: "Bumm!
Bumm! Bumm!", battendo forte sul suo
tamburo. E scendevano dal cielo perché
Apemaia li portava in picchiata proprio sopra al
luogo delle festa. I riflessi della luna e delle
stelle, un po' di immaginazione e forse il vino
bevuto in abbondanza facevano tutto il resto.
L'Ape Regina era stupefatta. Non aveva mai
visto una festa così ben organizzata. Quella
sera,
tornando
all'alveare,
pensava:
"Cassandra merita un premio. Ma anche
Apemaia ne merita uno. È stata così geniale
con quei fuochi fatti con i fiori pon-pon.
Domani le farò chiamare e le ringrazierò di
persona. Vediamo... Cassandra potrei
nominarla... sì, la nominerò consigliera speciale
della Regina, e le regalerò una doppia dose di
pappa reale. Apemaia poi... eh sì, Apemaia
merita qualcosa di speciale... ci penserò...".
Il giorno dopo Cassandra e Apemaia si
presentarono alla Regina, nel salone del trono.
Cassandra era molto fiera della sua nomina e
soprattutto le faceva piacere la doppia dose di
pappa reale che avrebbe contribuito a
mantenere snella la sua linea.
Apemaia si domandava che cosa le avrebbe
donato la Regina. "Io non ho desideri
particolari...", pensava, "non mi interessano le
nomine, le medaglie e i riconoscimenti
ufficiali".
La Regina chiamò uno dei suoi fedeli servitori
che le consegnò un bigliettino piccolo piccolo.
"Ecco, Apemaia, questo è il premio che ti
spetta. È la patente di ape esploratrice, che ti
autorizza a circolare liberamente per tutto il
nostro regno". Apemaia fu sorpresa. "Una
patente di esploratrice? Regina, vuoi forse dire
che posso andare all'avventura quanto mi
pare e piace? E che non ho l'obbligo di andare
a scuola durante le vacanze? Evviva! È
magnifico!". Era veramente un bel regalo.
Nessuno aveva mai avuto la patente di
esploratrice alla sua età.
E con la patente di esploratrice Apemaia
poteva girare liberamente per tutto il regno
delle api, alla ricerca di nuovi amici e di nuove
avventure.
Era così felice che uscì correndo dalla sala del
trono, infilò la grande scala dell'appartamento
reale e in un batter d'occhio si trovò nel cielo
azzurro dell'estate.
Volava veloce, così veloce che il battere delle
sue ali lasciava nel cielo una nuvoletta bianca;
con mille piroette disegnò nell'azzurro il suo
nome. Apemaia.