L`Apemaia - la sua grande storia
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L`Apemaia - la sua grande storia
L'Apemaia - la sua grande storia. di Waldemar Bonsels. I Vita nell’alveare. Il sole nasceva dietro la collina, illuminando a poco a poco tutto l'alveare. La vita si svegliava e si svegliavano anche le api che da anni ormai abitavano al limite del prato, vicino al bosco. L'Uomo aveva costruito un alveare per assicurarsi ogni anno una buona quantità di miele, e le api lo rifornivano puntualmente non solo di ottimo miele ma anche di cera. L'alveare era molto popolato; organizzato quasi come una città, ospitava circa 60 mila api. Ogni ape svolgeva un compito preciso e determinato, ma tutte lavoravano insieme aiutandosi a vicenda. C'erano api operaie che raccoglievano il nettare dei fiori per trasformarlo in miele, api che raccoglievano il polline per nutrire tutto il popolo dell'alveare, api esploratrici che cercavano nuovi luoghi per fare altri nidi; c'erano i fuchi guerrieri addetti alla sorveglianza e alla difesa e i fuchi servitori al servizio della Regina. Sì, perché come in ogni alveare c'era una Regina che governava tutte le api. Ogni anno, all'inizio della stagione, la Regina deponeva le uova, dalle quali nascevano nuove api. Ed è proprio a questo punto che comincia la meravigliosa storia di Apemaia. Era un gran giorno per l'alveare: le uova deposte dalla Regina stavano per aprirsi. Tutti avevano un gran da fare. Le api più anziane correvano a destra e a sinistra, chi portando acqua calda, chi informandosi sul numero delle nuove nate e sul loro stato di salute, chi distribuendo preziose cucchiaiate di pappa reale. Cassandra, la maestra delle api, correva da una celletta all'altra facendo l'appello. A un certo punto sentì una vocina: "Buongiorno! Che succede qui? Perché tutti corrono?". Era un'ape appena nata che non aveva ancora messo fuori completamente le ali e già faceva domande. "Buongiorno, Apemaia. Tutto bene? Aspetta un momentino e sarò da te", disse Cassandra correndo con un'ampolla di miele verso altre celle. Apemaia era impaziente. Per lei tutto era una novità. A chiunque passasse vicino alla sua cella faceva una quantità di domande. "A che cosa serve questo? Dove vai con quell'arnese? Come ti chiami? Perché hai cosi fretta?". Ma nessuno aveva il tempo di risponderle. Fu così che si decise a uscir fuori, allargò le ali e si sentì capace di volare. "Evviva! Mi sollevo! Volo!"; e, facendo alcuni giretti intorno alla sua cella, sperimentò per la prima volta l'ebbrezza del volo. Si accorse che vicino a lei c'era qualcuno che dormiva ancora, coperto da una minuscola foglia. "Sveglia! È ora! Cosa fai ancora a letto?", urlò nelle orecchie di un'ape piccola quanto lei. "Guarda, ho le ali e riesco a volare. Prova anche tu". Willi allora aprì gli occhi e vide le ali di Apemaia. "Accidenti! Chi mi ha svegliato da questo sogno meraviglioso?", disse, sottolineando il disappunto con un solenne sbadiglio. Apemaia si presentò e i due fecero subito amicizia. Andarono a curiosare lungo i corridoi, spiarono le api più anziane che si affannavano presso le nuove nate e, come due veterane, imboccarono il corridoio che portava verso l'uscita. Willi aveva spiegato le ali e, dopo qualche tentativo mal riuscito, prese anche lui il volo. Com'era bello non dover usare le gambe per spostarsi ma affidarsi alle ali, che sollevavano da terra e portavano da un posto all'altro con la minima fatica! Apemaia vide una grande porta oltre la quale si poteva scorgere una cosa tutta azzurra. "Guarda Willi, forse quello è il cielo! Andiamo a vedere", e con una bella planata atterrarono proprio davanti alla grande porta. "Alto là! Dove andate?", intimò un guerriero armato di lancia. "Non sapete che non si può uscire soli alla vostra età, senza essere accompagnati dalla vostra maestra?". Willi fece una faccia preoccupata, non aveva mai sentito parlare di maestra. Apemaia, che aveva già conosciuto Cassandra, lo rassicurò: "Willi, non ti preoccupare, la nostra maestra si chiama Cassandra ed è un tipo simpatico. Andiamo a cercarla, vedrai che ci porterà lei a volare nel cielo". Avevano fretta di imparare tante cose e Cassandra fu ben felice di essere la loro maestra. Quella mattina erano nate altre api, e tutte insieme formarono un'allegra scolaresca, pronta ad entrare nella già grande famiglia dell'alveare. Cassandra sapeva come trattare le novelline, ma non aveva mai trovato tra le sue alunne dei tipi svegli quanto Apemaia. Faceva sempre domande, voleva sapere tutto, voleva ficcare il naso in tutti gli angoli dell'alveare. Willi invece era un pacioccone. E dall'alleanza tra i due nasceva una gran quantità di pasticci. Apemaia chiese a Cassandra di portarle a fare una passeggiata all'aria aperta, per conoscere un po' di mondo. Fu cosi che la prima lezione si svolse tra i petali di un fiore e il verde di una foglia. C'erano tante cose da imparare. Cassandra iniziò con la spiegazione di tutti i lavori che si facevano nell'alveare. Ogni ape doveva saper fare qualsiasi lavoro. "La mattina appena sveglie", disse Cassandra alle sue alunne, "dovrete occuparvi della pulizia della vostra cella. L'alveare deve essere sempre lindo, e visto che siamo in tante ognuna dovrà provvedere personalmente a tenere in ordine le sue cose". Apemaia arricciò il naso. "Uffa, si comincia proprio bene!", diceva tra sé, "io con la scopa non vado molto d'accordo. Speriamo che ci sia qualche cosa di più interessante da fare". Cassandra continuò la sua lezione spiegando che un altro importante compito delle api era quello di costruire nuovi favi, e di mantenere in buono stato i favi più vecchi. "Ma che cos'è un favo?", domandò Willi saltando sul suo fiore. "È la casa in cui sei nato", spiegò Cassandra, "e che domani servirà per mettervi il miele. Sai Willi, il favo è fatto con la cera, e anche questo è un risultato del nostro lavoro". "Ma con che cosa si fa il miele", s'interessò Apemaia, "e con che cosa si fa la cera?". Cassandra rispondeva pazientemente a tutte quelle domande. "Quando sarete più grandi, andrete a raccogliere quella goccia di acqua dolce che c'è nel cuore del fiore. Si chiama nettare, e serve per fare il miele. Ma prima...". "Ecco! Sempre quando saremo grandi! Possibile che adesso non possiamo fare nient'altro che venire a scuola? Uffa, io mi annoio". Inutile dire che era Apemaia a protestare. Non le piaceva l'idea di aspettare tanto tempo, prima di fare qualcosa di concreto. Vedeva le altre api andare e venire con le loro ampolle piene di nettare e moriva dalla voglia di provare anche lei. Ma non tanto per lavorare, quanto per scoprire com'era il mondo. Cassandra capì questo desiderio e incominciò a parlare degli amici delle api... ma anche dei loro nemici. "Intorno all'alveare ci sono i prati e c'è il bosco. Non siamo solo noi ad abitare qui. Ci sono tanti altri animali. Prima di andare ad esplorare il mondo dovete imparare a comportarvi bene con coloro che incontrerete". L'idea di incontrare altra gente piaceva molto ad Apemaia, e anche Willi era attento alle spiegazioni di Cassandra. "Gli animali non sono cattivi, e neanche l'Uomo è cattivo", continuò Cassandra, "ma bisogna saperci fare. Non serve litigare, non serve dire sempre e solo tutto quello che non ci piace o non ci va. Quando incontrerete altri animali, cercate di vedere in loro anche i lati buoni. Curt, per esempio, è grande e grosso e non si può certo dire che sia bello. Ma ha un cuore d'oro, e difende sempre i più deboli. Max, il verme, vede sempre tutto nero, si lagna di molte cose, ma è disposto a farsi in quattro quando gli si chiede aiuto. E cosi è l'Uomo. Se non gli andate tanto vicino e non lo molestate con il vostro ronzio, l'Uomo vi sarà d'aiuto. L'inverno, quando i fiori non ci sono, è lui che ci porta la melassa per nutrirci. È lui che costruisce altri alveari per ospitare il nuovo sciame". Nessuno della scolaresca osava fiatare. Certo, Cassandra ne sapeva di cose! Peccato però che non si potesse cominciare subito a cercare gli amici del bosco. Cassandra infatti aveva riportato le api all'alveare per il pranzo, e aveva deciso di dimostrare loro come si costruisce un favo. Apemaia avrebbe voluto restare all'aria aperta ancora un po', ma anche l'idea di andare a tavola non era male. Quanto alla costruzione del favo... avrebbe cercato di trasformare quel lavoro in un gioco. La cera infatti era morbida e ci si poteva giocare bene. Ci si potevano modellare delle statuine, la si poteva spalmare sul pavimento rendendolo lucido e scivoloso. "Scivoloso... che idea!", pensò Apemaia, e rovesciò tutta la cera per terra cercando di spalmarla il più possibile con l'aiuto di uno spazzolone. Poi si nascose dietro l'angolo e... aspettò. Il primo a cadere nella trappola fu Willi. Arrivava di corsa, non si accorse del pavimento lucido e scivol... "Bum!!!". Era finito gambe all'aria, le ali accartocciate, un gran bernoccolo sulla testa. Dietro di lui Apemaia rideva a crepapelle. "Che buffo sei, Willi, non sai più camminare!", esclamò divertita alle spalle dell'amico. Cassandra, che aveva visto la scena, andò su tutte le furie. "Apemaia, ti sembra bello quello che hai fatto? Willi è tuo amico, e avrebbe potuto farsi male! ". "Ma io... ", si giustificò Apemaia, "non volevo fargli male, volevo divertirmi". "Scherzi sciocchi!", tuonò Cassandra, "non vedo cosa ci trovi di divertente in uno che rischia l'osso del collo". Intanto Willi giaceva con il sedere per aria, lamentandosi debolmente. "Ohi, mamma, vedo le stelle!". Cassandra, molto seria, intimò ad Apemaia di ripulire il pavimento dalla cera e di presentarsi subito dopo in classe. Aveva intenzione di darle una punizione; ma in quel momento non sapeva ancora quale. Poi si ricordò che quella mattina erano state usate molte ampolle per la raccolta del nettare e che non erano ancora state pulite. Così, quando Apemaia arrivò in classe, la spedì a pulire le ampolle. Era un lavoro ingrato. Il nettare è appiccicoso, non è facile toglierlo per bene. Bisognava strofinare e strofinare ancora, e non si finiva mai di pulire a fondo ogni ampolla. Era già sera quando Apemaia finì di lustrare quelle stramaledette pentole. Ma la lezione era servita. Adesso, prima di fare un altro scherzo, ci avrebbe pensato due volte. L'indomani Cassandra riprese le sue lezioni all'aperto. Voleva insegnare alle api a orientarsi servendosi del sole. "Guardate il sole. Nasce a Oriente e cala a Occidente. A Oriente dell'alveare ci sono la grande quercia, il tiglio e il bosco. A Occidente c'è la casa dell'Uomo. Noi stiamo proprio in mezzo". "Anche di notte c'è il sole?", domandò Willi, senza pensare troppo a quello che diceva. "Che sciocco!", disse Cassandra, "di notte è tutto buio, proprio perché il sole non c'è. Ma ci si può orientare con le stelle. È un po' più difficile, ma ci si riesce. Comunque, le api non escono di notte". Quel giorno Cassandra aveva deciso di restare a pranzare all'aria aperta. Ogni tanto il sole andava a nascondersi dietro qualche nuvola, ma non c'era ancora il pericolo della pioggia. Apemaia e Willi erano così contenti. Gironzolavano qua e là chiamandosi a vicenda: "Willi, guarda questo fiore!", "Apemaia, guarda questo buco nella terra: chissà chi ci abita". Ad un tratto sentirono un rumore strano: "Tong... tong... tong... ", qualcuno si stava avvicinando saltando da un fiore all'altro. "Buongiorno, mie care api. Già al lavoro?". "Buongiorno Flip", rispose Cassandra, "questa è la nuova scolaresca. Sono api nate ieri, ma sono già in gamba. Questa è Apemaia, questo è Willi, questa è... ", e presentò tutta la classe a Flip, che si tolse il cilindro e salutò con un inchino. "Chi sei tu?", domandò Apemaia curiosa. "Sono Flip, professore di spettacolo, amico delle api, e gran girovago". "Conosci anche l'Uomo?", continuò Apemaia con molto interesse. "Io con l'Uomo non ho mai avuto molto a che fare però sì, lo conosco; cioè, voglio dire che l'ho visto un paio di volte. È così grande e grosso rispetto a noi... ha due occhi così grandi, e due gambe così lunghe... ". Apemaia ascoltava estasiata. Possibile che l'Uomo fosse proprio così grande come diceva Flip? Chissà quando ne avrebbe incontrato uno? Stava ancora fantasticando sulla grandezza dell'Uomo quando arrivò Willi di corsa. "Apemaia!!! Vieni subito! Ho trovato un altro buco, ma dentro c'è qualcuno, perché si sente fare crac-crac, e si vede un pezzo di coda. Può essere... ". "Willi, calma. Dov'è questo buco?"; e insieme volarono su un grosso tronco forato da tanti piccoli buchini. "Sssst, fai piano... non sappiamo se è un amico o un nemico". Apemaia camminava in punta di piedi, seguita da Willi, che aveva davvero un bel po' di fifa. "Speriamo che non mangi le api, quel coso lì... speriamo che... Mamma! Il mostro!". L'urlo di Willi fece accorrere Cassandra; ma non si trattava di un mostro, bensì di un tarlo, che scavava la sua galleria nella corteccia del vecchio tronco. "Calma, non urlare così", disse Cassandra prendendo per mano il povero Willi tremante di paura, "non ci sono mostri. Questo è il signor Tarlo, saluta... ". "Ehm... buongiorno, cosa ci fa dentro quel buco?", domandò Willi con un filo di voce. "Care api, faccio il mio lavoro: scavo gallerie nel legno, mi costruisco una casa bella e comoda per l'inverno". Il tarlo aveva proprio un'aria inoffensiva. Chiacchierarono un po' del più e del meno, tanto per fare amicizia, e poi Cassandra invitò le api a tornare a casa. Forse per lo spavento, forse per la giornata all'aria aperta, rientrarono tutti volentieri nell'alveare. Willi aveva tanta fame e si precipitò verso un vaso di miele per fare un'abbondante merenda. Era proprio buono il miele, dolce, filante, gustoso. Willi non avrebbe smesso mai... ma anche le api possono fare indigestione e lui sapeva che troppo miele fa venire il mal di pancia. "Per ora basta così", pensò, "più tardi verrò a prendermi l'aperitivo... ". Mentre riponeva il vaso al suo posto sopra la grande mensola, si ricordò che il giorno prima Apemaia gli aveva fatto lo scherzo della cera sul pavimento. "Devo trovare il modo di fargliela pagare... ", disse tra sé, "chi la fa l'aspetti!". E se ne andò in cerca di uno scherzo geniale da giocare all'amica. Ma di genio Willi ne aveva un po' poco. Nonostante cercasse dentro la sua testolina qualcosa di divertente, non riusciva a trovare altro che vecchi scherzi fatti e rifatti. "Vediamo... potrei cucirle le maniche del pigiama... potrei appenderle un campanello sotto il letto, così quando va a dormire, eh eh!, ogni volta che si muove, il campanello suona... potrei mettere un catino d'acqua sopra la porta della sua celletta, che bagno ragazzi! Potrei... ", e continuava a spremersi le meningi. Era quasi sera, quando Apemaia si sentì chiamare: "Apemaia, vieni a giocare a nascondino?", domandò Willi con un'aria sorniona. "A nascondino? Ma è un gioco da piccoli, e poi è quasi buio". "Proprio qui sta il bello", obiettò Willi, "al buio il gioco è ancora più difficile!". Corsero verso l'uscita dell'alveare e cominciarono a giocare. "Mi nascondo io", propose Willi, "e tu mi cerchi". Apemaia contò fino a cento e poi andò a cercare Willi. C'era un gran silenzio, e di Willi nemmeno l'ombra. Apemaia guardò dietro la porta, sotto il tavolo, fece un rapido giro fuori. Le sembrò di sentire un fruscio. "Lo sento, ma non lo vedo", diceva tra sé. "Eppure non mi scapperà!". Mentre ritornava verso l'alveare, vide davanti a sé una cosa tutta bianca. Si muoveva lentamente e, quel che è peggio, si muoveva verso di lei. Apemaia ebbe paura. Quella cosa strana faceva un verso tenebroso: "Uuhh! Uuhh! Uuhh!". Non aveva mai visto animali di quel genere; era bianco dalla testa ai piedi e non aveva una forma precisa; era come se fosse ricoperto da un gran lenzuolo. Cercò di scappare, ma la cosa strana le andava dietro. Cercò di tornare in fretta all'alveare, ma la cosa strana le tagliò la strada e dovette correre da un'altra parte. Non sapeva più che cosa fare. Aveva veramente paura. Ce l'aveva fatta ad arrivare fin sulla terrazza dell'alveare ma non le riusciva di infilare la porta d'entrata. La cosa bianca era lì, davanti a lei, e le si avvicinava lentamente. Apemaia incominciò a camminare all'indietro, passo dopo passo. Senza accorgersene, arrivò fino al bordo estremo della terrazza. A quel punto la cosa bianca cacciò un urlo feroce: "Uuaauuhh!", e Apemaia cadde all'indietro, precipitando nel prato. Stava là, con le antenne abbassate, la lingua penzoloni e le gambe che tremavano: stentava a riprendersi dallo spavento. Sopra la sua testa invece c'era qualcuno che rideva a più non posso. "Ah, ah, ah, che scherzo geniale! Che volo!". Willi si teneva la pancia per il troppo ridere. "Un fantasma, il fantasma della notte!". A quel punto Apemaia capì tutto. Altro che cosa bianca, quello non era altro che Willi travestito da fantasma. E lei, che non aveva capito! "Accidenti, Willi, sei diventato matto? Ti sembrano scherzi da fare a quest'ora?". Willi continuava a ridere e Apemaia ad inveire contro di lui, quando arrivò Cassandra. "Che fate voi due lì fuori? È un'ora che vi cerco! Cosa avete combinato?", domandò con aria di rimprovero. Willi era tanto ingenuo da non saper nemmeno nascondere le sue malefatte. Fu così che raccontò a Cassandra lo scherzo del fantasma, il capitombolo di Apemaia e tutto il resto. Cassandra andò su tutte le furie. "Ve la faccio vedere io... altro che fantasma, voi due filate a letto immediatamente", e indicò la direzione delle loro celle. Più tardi li raggiunse e fece loro una bella predica: "Ieri vi avevo avvisato: niente scherzi di cattivo gusto. E oggi ci risiamo! Che razza di amici siete? Possibile che dobbiate sempre combinare guai?". Non fu facile addormentarsi quella sera. Apemaia pensava: "Se non avessi cominciato io, forse Willi non avrebbe fatto il fantasma oggi... ". E Willi diceva tra se: "Avrei anche potuto lasciar perdere. Apemaia si è così spaventata... ". Entrambi fecero il buon proposito di non architettare altri scherzi, e solo allora riuscirono a prendere sonno. Il giorno dopo, Cassandra lavorò alacremente. Stava costruendo nuovi favi per raccogliere il miele, e lo faceva con molto impegno. Era ancora così infastidita da quello che era successo la sera prima. che non rivolse una parola ne a Willi né ad Apemaia. I due le giravano intorno con un fare servizievole per farsi perdonare i loro misfatti. Portavano le scaglie di cera per rendere più solido il nuovo favo, raccoglievano i pezzi caduti, portavano le ampolle di miele da travasare, passavano a Cassandra tutti gli attrezzi necessari. Avevano capito la lezione e si impegnavano ad essere delle brave api. Il pomeriggio andarono a lezione e fecero i compiti con molta attenzione. Era bello imparare a diventare una vera ape, ed erano contenti di far parte di una così laboriosa famiglia. Cassandra spiegava come l'alveare funzionasse a perfezione grazie al lavoro di tutti quanti. Durante le altre lezioni Apemaia e Willi avevano conosciuto le varie mansioni di un'ape: la nutrice che si cura dei piccoli, l'esploratrice che indica il luogo dove trovare nuovi fiori, la bottinatrice che raccoglie il nettare e il polline rifornendo di cibo l'alveare, la costruttrice che fabbrica i favi, l'ape della pulizia che prepara le celle vuote per il deposito delle uova e le pulisce con una sostanza simile alla lacca, l'ape guardiana che sorveglia l'entrata dell'arnia. Ogni ape, secondo la sua età, svolgeva ognuna di queste mansioni: prima una, poi l'altra, poi l'altra ancora. "Ma", disse Cassandra, "non è tutto qui. Ci sono delle api che, specie d'estate, si occupano del raffreddamento dell'alveare". "Raffreddamento?", domandò Willi, "che cosa vuol dire?". "Vuol dire", rispose Cassandra, "far circolare l'aria fresca dentro l'alveare, altrimenti con il caldo la cera si scioglie. Per questo alcune api agitano rapidamente le ali per raffreddare l'aria e, se questo non basta, vanno a prendere l'acqua". "L'acqua? E cosa ci fanno con l'acqua?", domandò Apemaia incuriosita. "Vedi, Apemaia", continuò Cassandra, "l'acqua con il caldo evapora, e rinfresca l'ambiente. Hai mai visto le api spruzzatrici? Ecco, proprio loro spruzzano l'acqua portata all'alveare dalle più anziane, e in questo modo la cera non si scioglie". "Senti, Cassandra", intervenne Willi, "non ci hai mai parlato delle api guerriere". "È vero", disse Cassandra, "ma aspettavo il momento giusto. L'ape guerriera è colei che ci difende, quando veniamo attaccate da un nemico. È un'ape eroica. Dà la sua vita per proteggere quella di tutte noi. Conosce tutti i trucchi del nemico: la rapidità della lingua del rospo, lo scricchiolio del tarlo della cera, il passo dell'orso, il verso dell'uccello tiranno che succhia il nettare dall'alveare, il passo felpato della moffetta, che non riuscendo ad entrare nell'alveare ci disturba per farci uscire e poi ci assale". "E con che cosa combatte", domandò Apemaia, "dove tiene le sue armi?". "Ecco il punto. Ognuna di noi ha un'arma, e anche voi presto l'avrete. Ma bisogna saperla usare bene. L'ape guerriera combatte con il suo pungiglione. È un'arma formidabile. Punge il nemico, a volte in modo mortale. Ma punge una volta sola perché, dopo aver sferrato il colpo, l'ape muore. Per questo vi ho detto che l'ape guerriera è eroica". "E noi, quando avremo il nostro pungiglione", domandò Willi, "e quando potremo combattere come le api guerriere?". "Calma, Willi", rispose Cassandra, "prima o poi spunterà anche a te. Ma ricorda: dovrai usarlo solo per difenderti e mai per attaccare". Quella sera, Apemaia andò a dormire pensando al suo pungiglione. Non era ancora spuntato, e non c'era proprio alcun segno che potesse anticiparne la comparsa. Fece un sogno strano. Difendeva l'alveare da un'invasione di calabroni e per combatterli usava tutti i mezzi che poteva: scope, cera sul pavimento per fare scivolare il nemico, reti davanti alle porte e alle finestre, così che non potessero entrare. Alla fine il nemico se ne andò in tutta fretta, ma quanta fatica per fargli fronte. Apemaia si svegliò con le ossa tutte rotte; aveva l'impressione di averla combattuta veramente quella battaglia, e non riusciva a spiegarsi il perché di tanta stanchezza, visto che si trattava solo di un sogno. Si alzò con fatica dal suo letto, fece qualche passo e andò a specchiarsi. "E questo che cos'è?", disse, guardando quella cosa nera che non s'era mai vista. "Vuoi vedere che... ma sì, evviva! Sono diventata grande! Mi è spuntato il pungiglione! ". Con il pungiglione nuovo, Apemaia era davvero un'ape adulta. Poteva volare verso le avventure più belle. II Gli amici del bosco. In occasione del compleanno della Regina, Cassandra aveva deciso di sospendere le lezioni della scuola per un'intera settimana. Le sue alunne avevano lavorato sodo negli ultimi giorni e meritavano davvero un po' di vacanza. Inutile dire che tutti accolsero con entusiasmo la notizia. "Urrà, niente scuola!", gridò Apemaia, buttando per aria tutti i suoi quaderni. "Willi, presto, organizziamo qualcosa di bello!". E, preso l'amico per mano, lo trascinò in un angolo della classe. "Che cos'hai in mente?", domandò Willi. "Dove vuoi andare?". Apemaia gli si avvicinò e gli mormorò qualcosa all'orecchio: "... prima nel bosco... e chiediamo a Flip... tutti, capisci?". Willi non capiva niente. "Perché dobbiamo andare nel bosco? Chi sono quelli che vuoi conoscere? Che cosa dobbiamo sapere da Flip?". "Uffa", rispose Apemaia, "inutile perdere tempo in chiacchiere, vieni con me e vedrai". Volarono nelle loro celle a prendere tutto l'occorrente: sacco a pelo, viveri, lampada per la notte, astuccio del pronto soccorso, carta e matita per scrivere e per disegnare. "Ma Apemaia, quanto pensi che resteremo via? Sei sicura che ci occorra tutta questa roba?", domandò Willi un po' preoccupato dal peso del suo bagaglio. In realtà Willi era un pigrone e non gli piaceva tanto l'idea di fare a meno di certe comodità. La sua cella era calda e accogliente e l'alveare lo faceva sentire al sicuro. Non capiva perché dovesse rinunciare a tutte queste cose per andare a dormire dentro un sacco a pelo, sotto un tetto di stelle, senza l'acqua calda e senza la colazione pronta. Apemaia, invece, amava l'avventura. Aveva voglia di conoscere tutti gli abitanti del bosco e voleva chiedere a Flip di accompagnarla a fare questo giro. Flip sapeva molte cose: con lui, era sicura, non c'era da aver paura. Era così eccitata all'idea dell'avventura che non si preoccupò di uscire dalla porta ma infilò la finestra e volò via nel cielo azzurro. Aveva una settimana di tempo, e non voleva sprecare nemmeno un minuto. "Willi, muoviti!", disse rivolta all'amico, "vedrai che vacanze meravigliose!". Volarono fino al prato di trifoglio, dove abitava Flip, e lo chiamarono a gran voce. Flip stava prendendo il sole del mattino sopra una grossa margherita. Era un po' stanco perché quella notte aveva cantato una serenata alla luna, con l'arte e l'impegno che si addicono ad un nobile grillo. Apemaia si posò su una foglia vicina e cominciò a spiegare a Flip il suo progetto. "Cassandra ci ha parlato della gente del bosco, ma noi non la conosciamo. Adesso che siamo in vacanza vorremmo esplorare i dintorni, per farci nuovi amici e per...". "Alto là!", disse Flip, "facciamo le cose con ordine. Innanzitutto nel bosco ci sono amici e ci sono nemici: bisogna stare attenti. Sapete come fare per difendervi? Sapete da quali animali stare alla larga?". "Be'", rispose Willi, "Cassandra ci ha spiegato che l'orso è un gran mangiatore di miele e a volte attacca l'alveare... il rospo mangia le api e...". "Ma tu sai com'è fatto un orso, e che faccia ha un rospo?", domandò Flip, con aria da maestro. Apemaia e Willi si guardarono: che cosa rispondere?" "Noi non abbiamo paura", disse Apemaia mostrando fiera il suo nuovo pungiglione. "Siamo armati e sapremo come difenderci!". "D'accordo, miei cari, ma bisogna essere prudenti. Oggi comincerò a farvi conoscere alcuni amici di vecchia data. Con loro non c'è nulla da temere". E si incamminò sul sentiero che portava nel cuore del bosco. Ai piedi di un castagno, dentro un fungo dal cappello rosso e bianco, abitavano i signori Settepunti, due coccinelle ormai anziane che passavano la maggior parte del tempo a raccontarsi storie di quand'erano giovani. Flip salutò il signor Settepunti che sedeva davanti alla sua casa, fumando la pipa. "Vorrei presentarle due miei amici, Apemaia e Willi. Sono api dell'alveare qui vicino e sono in vacanza. Vorrebbero conoscere gli animali del bosco". "Ma con piacere", rispose il signor Settepunti facendo uscire quattro nuvolette di fumo dalla pipa. Si avvicinò alla campana posta all'ingresso della casa e la suonò tre volte. La signora Settepunti si affacciò alla finestra della sua camera e salutò gli ospiti: "Scusate se non scendo, ma le mie gambe faticano a fare le scale; ormai sono vecchia e i reumatismi mi costringono quasi sempre a letto...". "Eh sì", commentò il signor Settepunti, "mia moglie soffre di uno strano mal di ossa. Non c'è nulla che possa guarirla. Abbiamo provato tante erbe, tanti unguenti, ma senza successo...". L'espressione triste e rassegnata del signor Settepunti toccò il cuore di Apemaia. Le dispiaceva sapere che la coccinella non poteva uscire di casa a causa del suo mal di ossa, e avrebbe voluto poterla aiutare. "All'alveare abbiamo un dottore molto bravo. Si chiama dottor Bua, ed è sempre alla ricerca di nuove medicine. Potremmo chiedergli di venire a visitare la signora Settepunti. Chissà che non riesca a farle passare il suo male". "Certo! È un'ottima idea!", continuò Willi, "il dottor Bua, poi, ha delle medicine così buone, tutte dolci...". Il signor Settepunti ringraziò le api del loro interesse e accettò ben volentieri di sottoporre sua moglie alle cure del dottor Bua. Sapeva che la causa dei mali di sua moglie era l'umidità del fungo, ma si erano ormai tanto affezionati alla loro casa che non volevano andare a cercarne un'altra più calda e più asciutta. Forse, con una medicina giusta, avrebbero potuto continuare ad abitare nel fungo per il resto dei loro giorni. Mentre Apemaia e Willi scrivevano un biglietto al dottor Bua chiedendogli di passare dalla signora Settepunti, Flip e il padrone di casa fecero una partitina a carte. Si stava bene all'ombra del fungo ed era piacevole l'arietta fresca che veniva dal bosco. "I rapporti con i vicini di casa non sono facili", diceva il signor Settepunti; "alcuni sono gentili, si fermano a salutare, chiedono notizie di mia moglie; altri non si degnano nemmeno di una parola e, quel che è peggio, vengono a calpestare il mio giardino, in cerca di qualcosa da mangiare. L'altra notte sembrava ci fosse il terremoto: tremava tutta la casa, e la campana dell'ingresso si era messa a suonare da sola. Ma non era il terremoto, era una certa talpa che aveva deciso di venire a scavare proprio qui sotto. Che educazione, disturbare la gente che dorme...". Flip sapeva che il signor Settepunti era un po' brontolone e lo stava ad ascoltare con pazienza. Intanto anche Apemaia si era unita alla conversazione; le piacevano le storie e le lamentele della coccinella e voleva sapere chi era la talpa, che cosa facesse sottoterra, perché scavasse in continuazione. "Signori, la compagnia è bella e piacevole", disse Flip, "ma noi dobbiamo continuare il nostro giro. Arrivederci, signor Settepunti!". "Arrivederci, tornate presto!", rispose la coccinella. Apemaia, Willi e Flip lasciarono la strada del bosco e camminarono lungo il limitare del prato. C'era in quel luogo un albero di mele che aveva tanti frutti sui rami. Alcuni erano ancora verdi, altri erano già maturi, altri ancora erano caduti per terra in un giorno di vento ed erano diventati la casa di alcuni vermiciattoli. Flip si avvicinò ad una mela e bussò: "C'è nessuno?", domandò, "c'è nessuno in casa?". Da un buchino nero spuntò fuori un vermiciattolo. "Non si può mai stare in santa pace! Che cosa volete? Chi siete?". L'accoglienza non era delle migliori, ma Apemaia e Willi si presentarono ugualmente. "Api?", fece il verme. "Mai sentito che delle api volessero fare amicizia con dei vermi...". Ma nonostante il tono scortese della sua voce si sentiva lusingato del fatto che qualcuno volesse fare la sua conoscenza. Senza che nessuno gli avesse chiesto niente, il vermiciattolo iniziò a raccontare la storia dei suoi nobili antenati: le prodezze degli eroi della sua famiglia, l'aristocrazia del suo casato e le ricchezze della sua stirpe. "Uffa, che barba", sospirò Willi, annoiato da tante chiacchiere. Apemaia era dello stesso parere, ma non sapeva come fare per interrompere quella valanga di parole. "... E poi", continuava imperterrito il verme, "volete mettere il vantaggio di poter conoscere tutti i meandri della terra? Non ci sono segreti per noi. Io, io sono fiero di sentirmi un verme!". Una pausa, finalmente. Apemaia ne approfittò per sviare il discorso, ma quello riprese subito: "Noi vermi di qui, noi vermi di là...". Non se ne poteva proprio più. Apemaia ebbe un'idea. "Signor Verme de' Vermis, potrei venire ad intervistarla? Un altro giorno, s'intende. Ma sarei proprio felice di inserirla nel libro dei grandi personaggi del bosco che ho intenzione di scrivere...". "Io? La mia storia in un libro?", balbettò emozionato il verme. "Ma con piacere, con vero piacere... mi lasci però qualche giorno, per riordinare le idee, e poi potrò fissarle un appuntamento...". Era fatta. Con la scusa del libro, Apemaia era riuscita a metter fine a quella noiosa conversazione. Salutarono in fretta per paura che il verme potesse ricordarsi qualche altra battaglia, qualche altro antenato o qualche altro particolare dimenticato nel suo lungo racconto. Appena furono fuori tiro, si fermarono vicino allo stagno per riposarsi. "Avete capito la lezione?", domandò Flip asciugandosi la fronte. "Sì, la lezione di storia dei vermi! Però a me piace di più la storia delle api". "Macché storia dei vermi, Willi", replicò Flip, "la lezione è un'altra. Mai parlare troppo di sé, altrimenti gli altri si annoiano. Mai parlare sempre di seguito, altrimenti non si lascia spazio agli altri per inserirsi nella conversazione. E poi...". "Poi che cosa?", domandò Apemaia con molto interesse. "Poi, quando si sta con la gente, se si vuole diventare amici, bisogna saper ascoltare le opinioni degli altri, oltrechè dire le proprie". "Accidenti!", esclamò Apemaia, "questa sì che è un'arte!". E avrebbe voluto saperne ancora di più se non fosse stata interrotta da un rumore che non aveva mai sentito prima. "Cra - cra, cra - cra, cra - cra". "Flip, di chi è questa voce?", domandò Apemaia avvicinandosi all'amico. "Della rana dello stagno. Venite, andiamo a salutarla". Willi li seguì ma non era tranquillo. Quello strano gracidare non lo faceva sentire a suo agio. "Flip, sei sicuro che questa rana non sia una mangiatrice di api?", domandò Willi, con la voce un po' tremante per la paura. Si avvicinarono allo stagno: la rana era dietro ad un fiore di ninfea. "Perché ha quattro zampe verdi", domandò Apemaia a Flip, "e perché nell'acqua ci sono quegli animali strani con una grande testa e una coda lunga?". Flip si fermò su una foglia che galleggiava sull'acqua dello stagno e cominciò a spiegare: "Quello che tu, Apemaia, chiami animale strano non è che un piccolo della rana. Si chiama girino, e fra qualche giorno sarà anche lui grande e grosso e tutto verde come sua madre, perderà la coda, gli cresceranno le zampe e sarà allora una rana. Le zampe servono per saltare da una foglia all'altra e per nuotare. Lo sai che nuota in un modo tutto particolare, tanto che esiste uno stile chiamato "a rana"?". Apemaia e Willi ascoltavano l'amico stupefatti. Possibile che la natura fosse così ingegnosa e così meravigliosa? Un girino diventa una rana, la rana può stare nell'acqua e può stare all'aria aperta... Era veramente tutto molto bello. "Ma attenzione", concluse Flip, "le rane a volte mangiano le api, ed hanno un cugino che è particolarmente ghiotto di questi bocconi. Si chiama rospo". "Cassandra ce lo aveva detto", intervenne Willi, "ma non immaginavo che un rospo fosse fatto così...". I tre amici lasciarono lo stagno e ritornarono verso il bosco. Era ormai tardi e decisero che quella notte l'avrebbero passata al riparo della grande quercia. Prima di dormire, Flip fece una miniserenata alla luna che splendeva grande nel cielo. "Cri cri - cri - cri...", cantava Flip, "cri cri - cri - cri...". Apemaia e Willi si addormentarono in fretta, cullati da quella dolce ninna nanna. Il giorno dopo, quando Apemaia aprì gli occhi, vide accanto a sé Willi che, come al solito, dormiva ancora profondamente. Flip non c'era. Ma si sentiva qualcuno fischiettare allegramente. Apemaia fece un voletto d'ispezione e trovò Flip comodamente seduto dentro la sua vasca da bagno. L'amico aveva trovato dei fiori colmi di rugiada mattutina e si era accomodato. "Niente di meglio di un bel bagno rinfrescante", disse Flip quando vide Apemaia, "dà forza e vigore, lava via la pigrizia e rende ancora più giovani". Era proprio buffo! Aveva appeso il cilindro alla punta di una foglia e sguazzava felice nell'acqua. Anche Willi, con la faccia ancora sonnacchiosa, era venuto a godersi lo spettacolo. "Ma non è troppo fredda?", domandò tra uno sbadiglio e l'altro. "All'alveare avevamo la doccia calda e...". Ma non fece in tempo a finire la frase perché Apemaia con una spinta lo buttò dentro al fiore, in compagnia di Flip. "Brrrrrr... è ghiacciata! Aiuto! Tiratemi fuori!". "Willi", chiamò Apemaia, e quando l'amico alzò la testa lo innaffiò abbondantemente con una campanula piena d'acqua. "Ecco, adesso sei pulito e puoi anche uscire", sentenziò fiera della sua opera. "Fra cinque minuti si parte!". Flip e Willi si asciugarono con una foglia e seguirono Apemaia. Volarono a lungo sopra il prato e scesero a far colazione vicino all'albero di mele dove il giorno prima avevano fatto la conoscenza del signor Verme de' Vermis. "Guarda là", disse Flip, "quello lo conosco. È Max, il lombrico. Andiamogli incontro". Max strisciava vicino ad una mela. "Buongiorno Max", esordì Apemaia, "Cassandra ci ha parlato di te, alla scuola delle api. Come va la vita?". "Sempre rasoterra", mugugnò Max, "e sempre a far danni. Non posso toccare una mela, né una foglia, che subito diventano inservibili". Max era famoso per le sue depressioni. Ogni tanto andava giù di morale, diventava triste e non si riusciva a farlo divertire. Apemaia gli raccontò della loro vacanza, degli amici che volevano conoscere e gli propose di unirsi al gruppo. "Vieni anche tu, ci sarai d'aiuto e ti divertirai". Max accettò, l'idea di poter essere d'aiuto a qualcuno lo faceva sentire importante. Era così contento che fece vedere ai nuovi amici l'ultima sua trovata: riusciva a fare un nodo arrotolandosi sul suo lungo corpo. Era davvero molto abile: non era facile fare un nodo con un lombrico. Si incamminarono, chi svolazzando, chi saltellando, chi strisciando, verso il sentiero del bosco. Max aveva proposto di far visita a Curt, uno scarabeo che abitava in una rosa. Apemaia e Willi erano ansiosi di fare la sua conoscenza perché lo avevano sentito nominare tante volte all'alveare. Cassandra aveva raccontato che Curt era lo scarabeo più forte di tutto il prato. Lo trovarono che si allenava a sollevare pesi. Era un esercizio che Curt faceva ogni mattina per rinforzare i muscoli delle braccia: "L'allenamento quotidiano è il segreto di ogni sportivo. Ogni giorno aggiungo qualche grammo al peso da sollevare. Guardate!". E con tre movimenti precisi sollevò da terra un grosso macigno. Apemaia rimase a bocca aperta. Non aveva mai visto nessuno compiere una simile prodezza. Curt era grande e grosso, quasi il doppio di Apemaia, e si muoveva pesantemente. Max diceva che a volte brontolava un po' troppo, ma in fondo era uno scarabeo molto buono: aiutava chiunque ne avesse bisogno, difendeva i più deboli, era sempre pronto a battersi quando si trattava di fare giustizia. Non volendo interrompere i suoi allenamenti, Curt promise agli amici che li avrebbe raggiunti più tardi. Lo lasciarono alle sue flessioni, alle sue corsette, al suo "un - due - tre" che scandiva ogni volta che sollevava il peso da terra. Mentre si allontanavano Flip riferì agli amici alcune voci che circolavano nel bosco a proposito di Curt. Si diceva che si fosse innamorato. "Curt innamorato!", esclamò Apemaia. "E chi sarebbe la prediletta?". "Questo non si sa", ammise Flip, "ma è stato visto più di una volta nelle vicinanze della casa di una certa signorina. Comunque nessuno sa nulla di preciso. E poi, bisogna diffidare dei pettegolezzi". Stavano chiacchierando di Curt e della sua innamorata, quando udirono la voce dittatoriale di qualcuno che guidava una marcia. "Un-due, un-due, un-due, PASSO! Un-due, undue, un-due, per fila SINIST!!!". Era Leo Signor Sì, che guidava l'esercito delle formiche. In fila indiana avanzavano lungo il sentiero del bosco, armate fino ai denti e in perfetta uniforme. "Ci siamo", esclamò Max. "Ecco quel fanatico di Leo Signor Sì che costringe i suoi soldati alla marcia forzata". Willi si informò: "Cos'è una marcia forzata? Perché camminano tanto?". Anche Apemaia era curiosa di sapere perché quel tizio strillasse così. Si avvicinò allora a Leo Signor Sì, e cominciò a fare domande. Ma quella specie di generale, senza neppure voltare la testa, le fece capire che non era il caso di disturbare il suo lavoro. Apemaia stava per andarsene quando sentì l'ordine di Leo: "Squadra ALT! Riposo!". Le formiche si accasciarono sfinite sull'erba e Leo si avvicinò ad Apemaia. "Lo sa che non si rivolge la parola a un soldato che marcia? Possibile che non gliel'abbiano mai insegnato?". Apemaia si presentò ignorando il rimprovero. Voleva sapere da Leo a che cosa servisse quell'esercito in assetto di guerra. Allora Leo, fiero di poter illustrare il suo compito, spiegò ad Apemaia e a Willi che l'esercito delle formiche proteggeva le scorte di viveri ammassate nel formicaio. "Sapete, lavoriamo tutta l'estate e non possiamo permetterci di farci derubare, altrimenti l'inverno non potremmo sopravvivere", disse aggiustandosi l'elmetto sulla testa. E ritornò al comando della sua armata. "Le formiche sono organizzate quasi come noi api", commentò Apemaia. "Anche noi abbiamo le api guerriere che difendono l'alveare". "Sì", rispose Willi, "ma da noi non ci sono certi generali che costringono alle marce forzate...". Il ricordo dell'alveare aveva fatto venire un po' di nostalgia a Willi. Camminava con la testa bassa, pensando a Cassandra, alle merende di miele e alla sua celletta. Era contento della vacanza ma sentiva dentro un po' di rimpianto per la vita dell'alveare. Era assorto nei suoi pensieri quando si accorse che sul sentiero c'erano delle orme strane. "Guarda, Apemaia, di chi saranno queste impronte?", e si chinò per studiare meglio il terreno. "Sembra un animale con tanti piedi", disse Apemaia, "seguiamo le impronte e vediamo dove portano". I due amici, dopo qualche passo, si trovarono di fronte a un albero. "Accidenti, le impronte finiscono qui", esclamò Willi. Chiunque fosse il proprietario di tante zampe, non poteva essere molto lontano. Apemaia si alzò in volo e vide sopra una foglia una specie di verme con tanti piedi. "Buongiorno amico", disse, "qual è il suo nome?". "E come mi potrei chiamare se non Millepiedi!", esclamò quello, con quattrocentoquarantaquattro piedi sulla foglia e cinquecentocinquantasei piedi sul ramo. "Millepiedi? E come fa la mattina per mettersi le scarpe", domandò Willi, "quanto tempo ci impiega? ". "Dici bene, Willi", rispose il Millepiedi, "proprio questo è il mio problema. Ma ormai ci ho fatto l'abitudine e mi alzo ogni mattina due ore prima". Apemaia pensò alla fatica del Millepiedi: alzarsi due ore prima ogni giorno solo per mettersi le scarpe! E quanti nodi doveva fare! Non doveva essere poi così comodo avere tanti piedi. Apemaia e Willi tornarono da Flip e da Max che li aspettavano vicino al pozzo dell'Uomo. Si erano dati appuntamento lì, nella speranza di riuscire almeno una volta a vedere com'era fatto questo famoso Uomo. Flip spiegava agli amici che il pozzo era una specie di magazzino d'acqua, e che l'Uomo vi andava una volta al giorno per attingerla. Aspettarono a lungo, senza però vedere arrivare nessuno. Soltanto una magnifica farfalla si era posata sul bordo del pozzo, aveva messo in mostra le sue belle ali ed era volata via. Max intanto aveva cominciato a raccontare una storia che affascinava Apemaia. Aveva incontrato un giorno la coda di un altro lombrico che gli aveva narrato le cattiverie dell'Uomo. La coda del lombrico era riuscita a sfuggire ad una morte per annegamento. Raccontava che l'Uomo aveva scavato nella terra per catturare dei vermi e li aveva portati allo stagno. Là aveva appeso i vermi ad un uncino e li aveva buttati nell'acqua. La coda del lombrico spiegava che questo era il sistema che l'Uomo usava per catturare i pesci. I pesci avrebbero mangiato i vermi ma, non potendo sfuggire all'uncino, sarebbero finiti in padella. Il racconto di Max aveva fatto passare a tutti la voglia di aspettare ancora l'Uomo. Decisero di tornare nel bosco e di prepararsi una buona cenetta. Apparecchiarono la tavola dentro il calice di un fiore. Stavano per mettersi a cenare quando sotto di loro sentirono una vocina che augurava buon appetito. "Chi è così gentile?", domandò Apemaia, affacciandosi tra un petalo e l'altro. "Sono il Bruco. Passavo di qua e ho sentito il profumino della vostra cena. Disturbo?". "Per niente", fece Willi che aveva fretta di mettersi a tavola. Si accomodi pure". Il Bruco era veramente simpatico. Un po' goffo e impacciato, riusciva a far divertire l'allegra compagnia ad ogni mossa. Il sole era tramontato da un pezzo quando gli amici si addormentarono. Il Bruco dormiva vicino ad Apemaia, Flip e Willi si erano accomodati nello stesso fiore e Max aveva scavato una buca nel terreno e vi si era arrotolato dentro. Non era ancora l'alba quando passarono dei giovanotti che si erano dati alla vita notturna. Vedendo il Bruco incominciarono a ridere e a prenderlo in giro: "Com'è brutto! Com'è ridicolo! Ma chi crede di essere quello lì, la bella addormentata nel bosco? Ah, ah, ah!". Apemaia protestò vivacemente: "Mascalzoni! Maleducati! Non si ride così alle spalle di un altro!". E si avvicinò alla banda, mostrando il pungiglione. In un attimo sparirono. Ma ormai il guaio era fatto. Il Bruco piangeva in un angolo: "Mi prendono sempre in giro, mi deridono perché sono brutto. Oh, povero me!". Nessuno riusciva a consolarlo. Aveva deciso di chiudersi in un bozzolo e di non farsi più vedere da nessuno. Apemaia era molto triste. Aveva perso un amico e non era riuscita a fare niente per lui. Willi cercava di distrarla ma senza successo. Non aveva più senso ormai continuare quella vacanza. Come si poteva girovagare nel bosco, conoscere altra gente quando il Bruco era là, chiuso nel suo bozzolo, disperato, inconsolabile? Apemaia e Willi tornarono all'alveare. Passarono alcuni giorni, ed Apemaia era sempre triste. Poi, una mattina, Willi corse a chiamarla. "Apemaia, vieni! C'è qualcuno che ti cerca. C'è una farfalla che chiede di te". "Ma io non conosco nessuna farfalla", rispose Apemaia. In quel momento si fece avanti una farfalla dalle grandi ali colorate. "Sei sicura di non conoscermi?", domandò ad Apemaia. "Eppure una volta eravamo amici!". Apemaia non credeva ai suoi occhi: quella farfalla magnifica aveva la voce del Bruco, la faccia del Bruco, era... era proprio lui! "Come sei diventato bello!", esclamò Apemaia. Aveva ritrovato l'amico che credeva perduto. III Una nuova conquista. L'estate stava ormai per arrivare e l'alveare era affollato dalle api che si affaccendavano nella raccolta del nettare, nella costruzione di nuovi favi e nell'istruzione delle nuove nate. Apemaia e Willi, amici inseparabili, cercavano di rendersi utili. Non erano ancora abbastanza grandi per uscire con le api operaie a raccogliere il polline e il nettare dei fiori, non erano ancora abbastanza grandi per montare la guardia all'ingresso dell'alveare, non erano ancora abbastanza grandi per aiutare il dottor Bua nella ricerca di nuove medicine. Insomma, erano due api in attesa di diventare vere api. Passavano la maggior parte del loro tempo insieme con le compagne, nella scuola di Cassandra, e quando non erano a scuola gironzolavano per il bosco in cerca di avventure, di amici e, a volte, anche di guai. "Uffa, Willi, io mi annoio", disse Apemaia all'amico, "cerchiamo di inventare qualcosa per divertirci". Ma divertirsi non era una cosa facile, perché nell'alveare non era permesso giocare liberamente. Se si correva per i corridoi, c'era sempre qualche operaia che protestava perché si intralciava il suo lavoro; se si chiudevano le porte per giocare a nascondino, erano le api ventilatrici a protestare perché le porte chiuse impedivano all'aria fresca di circolare e di raffreddare i favi dell'arnia. L'unica soluzione era quella di andare a giocare nel prato. Apemaia si alzò in volo e con un'ampia giravolta andò a posarsi ai piedi di un fiore che aveva gli stami lunghi lunghi. Si fermò ad osservare pensierosa la forma di quei fili che pendevano dall'alto e ad un tratto esclamò: "Ci sono! Facciamo la giostra!". Willi dovette farsi spiegare più volte il progetto e alla fine provò a mettere in pratica l'idea dell'amica. Apemaia aveva pensato di utilizzare gli stami del fiore proprio come delle liane. Bastava una leggera spinta, e il gioco era fatto. Sedute sull'estremità dello stame, le api giravano vorticosamente: "Vooomm! Dài, più forte! Vooommm!", gridava Apemaia, felice della sua trovata. Ma, come si sa, dei giochi ci si stanca presto. Bisognava inventare qualcos'altro. Willi era sdraiato con la pancia in aria a guardare le nuvole. "Guarda, Apemaia, quella nuvola sembra un barboncino!". "Un barboncino? Ma no, Willi, sembra una pecora!", rispose Apemaia con il naso per aria. "E io dico che è un barboncino!", replicò Willi. "E io dico che è una pecora", insistette Apemaia. Ben presto tutte le api stavano con il naso per aria a guardare la nuvola che ad alcuni sembrava un barboncino, per altri somigliava ad una pecora. "Andiamo a vedere da vicino", propose Apemaia, "se voliamo in alto in alto forse riusciamo a stabilire chi ha ragione". Partirono tutti insieme e volarono in direzione della nuvola. Salirono sempre più in alto, ma alla nuvola non si arrivava mai. "Apemaia, guarda giù! Mamma, come è diventato piccolo il mondo", disse Willi che incominciava ad avere paura. Da quell'altezza la farfalla dalle grandi ali, che si riposava su un fiore, non sembrava più grande di un moscerino, e l'alveare somigliava alla casetta dei nani. La nuvola, al contrario, diventava sempre più grande. Non aveva né la forma di una pecora né quella di un barboncino. Vista da vicino sembrava una grande montagna tutta di latte e miele. Ritornarono sulla terra lasciandosi portare dal vento e quando atterrarono sul prato tutti si accorsero della faccia verde di Willi. Il poverino soffriva di vertigini, e quell'escursione verso la nuvola gli aveva fatto venire un bel capogiro. Camminava barcollando a destra e a sinistra e non riusciva a stare in equilibrio; inciampava nell'erba, urtava i fiori, sembrava un ubriaco. Apemaia lo guardava stupita. Non aveva mai visto nessuno ridotto in quelle condizioni. "Vedo doppio", gemeva Willi, "mi manca la terra sotto i piedi!". Lo fecero sdraiare all'ombra di una grande foglia, e cercarono di coprirlo con i petali di un fiore. "Povero amico mio", lo confortò Apemaia, "stai proprio male!". Le altre api sventolavano delle foglie di menta sotto il naso del poveretto, cercando di fargli riprendere i sensi. Qualcuno era andato allo stagno a prendere un po' d'acqua; ma anche gli impacchi con il muschio non servirono a rianimare il malcapitato. Apemaia allora decise di andare all'alveare a chiamare il dottor Bua, che certamente avrebbe saputo come curare il mal di vertigini. Stava dando le ultime istruzioni alle amiche quando vide arrivare Flip. "Flip, presto, vieni qui!", gridò. "Willi sta molto male, dobbiamo correre a chiamare il dottor Bua". "Vieni, sali sulla mia schiena", rispose Flip, "in tre salti saremo all'alveare". E, così dicendo, spiccò un balzo sulle sue agili zampe e partì alla volta dell'arnia. Il dottor Bua ascoltò il racconto di Apemaia e, presa la borsa dei suoi arnesi, volò da Willi. "Altro che mal di vertigini", sentenziò dopo aver visitato il malato, "questo è un classico caso di mal di fifa. Una buona iniezione di coraggio sistemerà tutto!". Alla parola "iniezione", Willi aprì gli occhi, scattò in piedi e urlò ai quattro venti: "Sto benissimo, sono guarito, mi è passato tutto". E approfittando dello stupore dei presenti si allontanò in fretta e furia dalla siringa del dottor Bua. "Meno male", disse Apemaia, "quel buffone ci aveva fatto prendere uno spavento!". Ritornarono tutti insieme all'alveare, commentando le avventure di quella mattina. Cassandra aveva rimproverato Apemaia perché non avrebbe dovuto portare Willi così in alto: "Oggi resterete qui vicino, non voglio che corriate altri rischi". Infatti quel pomeriggio Apemaia e Willi si dedicarono all'esplorazione dello stagno. Descrissero sul loro quaderno tutte le piante che nascevano nell'acqua, disegnarono i fiori delle ninfee, si divertirono a far rimbalzare sulla superficie dello stagno alcuni sassolini larghi e piatti. "Il mio ha fatto quattro salti", diceva Willi. "Guarda questo", rispondeva Apemaia facendo rimbalzare un sassolino sull'acqua cinque volte. Lo stagno affascinava i due amici. Con una foglia, un rametto e un guscio di noce Apemaia aveva costruito una barchetta che galleggiava dolcemente. Willi la spingeva verso il largo e Apemaia volava a riprenderla e la riportava verso la riva. Faceva caldo quel giorno, e la superficie dell'acqua dello stagno era liscia e splendente come uno specchio. I due amici incominciarono a scherzare: "Io sono l'ape più bella! Guarda come l'acqua riflette la mia immagine!", diceva Apemaia sfilando davanti a Willi e imitando il passo di una perfetta indossatrice. "Io sono il mostro delle acque!", rispondeva Willi, facendo le boccacce che l'acqua, appena increspata, rendeva ancora più comiche. Ad un tratto, un'ombra scura scivolò sotto di loro. Era un pesce che da tempo studiava i movimenti delle due api. Aveva intenzione di farsi un bel pranzetto e quelle due sciocchine capitavano a proposito. "Cosa sarà", domandò Willi un po' preoccupato, "l'hai visto anche tu?". "Ma dài, fifone, oggi basta con gli scherzi", rispose Apemaia. "Sarà l'ombra di... ". Ma mentre parlava, il pesce saltò fuori dall'acqua e aprì la sua grande bocca cercando di catturarla. Fu questione di un momento: Apemaia si aggrappò con tutte le forze alla foglia di una canna, che la rilanciò per aria. Il pesce era ritornato nell'acqua con la pancia vuota. "Che paura!", esclamò Apemaia. "Io non sapevo che i pesci mangiassero le api... Willi, andiamo via, questo non è un posto per noi". L'amico era ben felice di allontanarsi dallo stagno; l'idea di finire nella pancia di un pesce non gli piaceva affatto. Quella sera preferirono non raccontare a nessuno quello che era successo. Temevano un altro rimprovero di Cassandra e non volevano rischiare di finire subito a letto senza la cena. "Domani saremo più prudenti", disse Apemaia, "è ora di renderci utili. Vedrai, Willi, troveremo il modo di dimostrare che non siamo più soltanto degli scolari". Si dice che la notte porti consiglio ma di consigli Apemaia, quella notte, non ne aveva trovati. Il giorno dopo decise di andare a trovare Curt, lo scarabeo della rosa, per chiedergli qualche idea in prestito. "Non sappiamo come fare per dimostrare che siamo cresciuti", disse Apemaia a Curt, "ci trattano sempre come neonati... ". Curt aggrottò la fronte, ci pensò un momentino e poi rispose: "Potreste rendervi utili segnalando i pericoli che ci sono. Voi andate sempre in giro... ecco, ho trovato! Potreste annotare tutti i posti che vi sembrano pericolosi e riferire alle api operaie di fare attenzione... ". "Ottima idea", esclamò Apemaia, "partiamo subito!". Era un compito rischioso: per segnalare i pericoli bisognava andarli a cercare. Sarebbero stati abbastanza prudenti quei due? Curt era grande e grosso e sapeva difendersi, ma Apemaia e Willi erano così distratti! Quando Flip seppe che le due api volevano ficcarsi nei guai, decise di andare con loro, per evitare il peggio. Arrivò al momento giusto. Apemaia aveva trovato, tesa tra due rami, una vecchia ragnatela abbandonata dal suo padrone, e si divertiva a saltarvi sopra. "Guarda Flip, è meglio di un tappeto elastico, rimbalza che è un piacere!", esclamò quando vide l'amico. Fece un salto, poi ancora un salto, finché un filo della ragnatela non si ruppe e cominciò ad imprigionarle le ali. Apemaia non riusciva a districarsi da quel groviglio. Ci volle l'aiuto di Willi e di Flip per liberarla. "Accidenti", esclamò, "non riuscivo più a muovermi!". Allora Flip le spiegò che il ragno tesseva la sua tela proprio allo scopo di catturare le prede. "Sei stata fortunata, perché questa ragnatela non è abitata. Se ci fosse stato il ragno, avresti fatto una brutta fine!". Flip stava concludendo la sua predica quando videro avvicinarsi di gran corsa un topo con gli occhiali. Arrivava tutto trafelato e si proteggeva con il cappello di un fungo. "A-a-a-aiuto! I ne-ne-nemici!", gridava balbettando, "di-di-dicono che c'è la-lal'attacco!". Apemaia lo fermò e volle sapere chi erano i nemici che attaccavano. Il topo non era certo veloce nelle sue spiegazioni. Balbettava così tanto che gli ci voleva un'eternità a mettere insieme un'intera frase. Ma il succo era chiaro. Aveva sentito qualcuno nel bosco dire che fra breve l'alveare sarebbe stato rapinato. Non era riuscito a sapere chi fosse l'artefice di un simile piano ma aveva sentito chiaramente la parola "rapina". "L'alveare è in pericolo", esclamò Apemaia. "Willi, corriamo ad avvisare le api guerriere!". E spiccarono il volo alla volta dell'alveare. Non fu facile convincere le api guerriere, sempre prudenti, che l'alveare era in pericolo. Nessuno voleva credere a quei due mocciosi perditempo che se ne stavano tutto il giorno a zonzo. "Su, tornate a giocare, piccine, a difendere l'alveare ci pensiamo noi!", risposero le api guerriere. Apemaia insisteva. Non voleva andarsene e così dovettero usare la minaccia delle loro lance per togliere di mezzo quella piccola peste. Willi convinse l'amica che non c'era altro da fare che tornare nel bosco dove avrebbero cercato di sapere qualcosa di più preciso. Se il topo aveva sentito parlare di una rapina all'alveare, forse c'era qualche altro animale che sapeva qualcosa. Andarono a casa di Flip e studiarono bene il da farsi. Innanzitutto bisognava interrogare più gente possibile, ma non a caso; bisognava consultare animali della terra e animali del cielo per stabilire da dove potessero provenire questi nemici. pemaia si recò a trovare due signorine scarabee note per la loro arte nel pettegolare. "Sapete nulla riguardo a una rapina all'alveare?", domandò Apemaia ansiosa di scoprire la verità. "Rapina?", fecero quelle in coro. "Ma non si tratta di rapina, mia cara, circola voce che si prepari un attentato alla vostra Regina". "Un attentato? E chi ve lo ha detto?", indagò Apemaia. "Oh, nessuno in particolare, mia cara. È una voce, e le voci circolano, ma non si sa mai da dove vengano". Era troppo. Prima una rapina, ora un attentato. A questo punto la cosa era grossa per davvero. "Potete indicarmi qualcuno che possa darci altre informazioni?", domandò Apemaia alle signorine scarabee. "Forse Puch, la mosca, ma non prendete per oro colato tutto quello che dice. Quelle lenti che porta sugli occhi le fanno vedere le cose un po' deformate...". Chissà dov'era Puch in quel momento. Apemaia sapeva che Puch passava la maggior parte del suo tempo nella casa dell'Uomo a curiosare. E, se non era là, poteva essere dappertutto. Come fare a rintracciarla? Tornò da Flip e da Willi, che nel frattempo avevano indagato presso alcune lucciole. "Si dice", raccontò Flip, "che qualcuno voglia incendiare l'alveare". "Incredibile", disse Apemaia, "a me hanno detto che vogliono fare un attentato alla Regina. Ma chi ha intenzione di disfarsi delle api?". Willi, che fino a quel momento era rimasto in disparte, espose i suoi dubbi: "Questa storia puzza! Prima la rapina, poi l'attentato, adesso l'incendio. C'è qualcuno che si diverte alle nostre spalle". "Sarà", rispose Apemaia, "comunque è uno scherzo di cattivo gusto. E poi non si può mai sapere; potrebbe essere tutto vero... ". Decisero di andare a cercare Max e di sentire se nelle viscere della terra, dove lui abitava, si raccontasse qualcosa del genere. Ma, mentre volavano verso la tana di Max, dal cielo incominciarono a scendere alcune gocce di pioggia. "Impossibile volare con questo tempo", disse Apemaia, "come facciamo?". Flip aveva una soluzione per tutto. Fece riparare gli amici sotto il calice di un fiore in attesa che il tempo tornasse bello. Che strana la natura quando piove! Apemaia osservava il verde dell'erba, che sotto la pioggia era diventato ancora più brillante. I petali dei fiori ricevevano le goccioline d'acqua e le facevano rotolare dentro il calice, come se fossero preziose perle da raccogliere. La terra profumava di pulito e tutt'intorno risuonava una musica lieve. "Din-din-din", facevano le gocce di pioggia dentro lo stagno. "Flap, flap, flap", suonavano al contatto con le foglie della grande quercia. Com'era bella la natura! "È proprio un bel regalo", pensava Apemaia sotto il suo fiore, "deve essere proprio buono chi ha fatto tutto questo!". Non era possibile credere che in un mondo così bello ci fosse qualcuno che progettasse rapine, attentati, incendi. Eppure, quel giorno non aveva sentito parlare d'altro. Appena la pioggia cessò, Flip, Willi e Apemaia andarono alla tana di Max. Anche lui aveva sentito parlare di qualcosa ma non aveva capito bene e non sapeva spiegare se si trattasse di una rapina piuttosto che di un attentato o di un incendio. Non restava che andare a cercare Puch, per sapere da lei qualcosa di più preciso. L'aria era ancora umida e Apemaia non riusciva a volare bene. "Attaccati alla mia coda", disse Max, "ti porterò io". Apemaia non era mai andata a cavallo di un lombrico e trovava il viaggio abbastanza piacevole, anche se gli scossoni non mancavano. Nessuno aveva visto Puch quel giorno. "Forse, a causa della pioggia", pensò Apemaia, "sarà rimasta nella casa dell'Uomo. Dovremo rinunciare a sapere qualcosa da lei". Era quasi buio, e Willi insisteva per fare ritorno all'alveare. Gli amici si diedero appuntamento per il giorno dopo e si salutarono. Quando Apemaia entrò nell'alveare incontrò due api operaie che parlavano tra loro. "Eppure li ho sentiti con le mie orecchie", diceva una, "raccoglievo il nettare da una rosa e ho sentito che parlavano proprio di noi, dell'alveare. Dicevano che molto presto ci sarà una rapina". Apemaia allora andò a cercare Cassandra. Voleva parlarle di tutta questa storia piena di rapine e attentati, e chiederle consiglio. La trovò che parlava con un'ancella della Regina, a bassa voce per non farsi sentire dal resto della scolaresca. Anche se non era una cosa molto educata, Apemaia si nascose dietro alla porta e stette ad origliare. Cassandra diceva che nel bosco aveva inteso parlare di un incendio. "Capirai, se appiccano il fuoco all'alveare è la fine". "Bisogna informare la Regina", rispose l'ancella. "Ma no, forse è meglio aspettare", la rassicurò Cassandra con prudenza. "Dunque i sospetti non sono solo miei", pensava Apemaia. Prima di andare a letto si accorse che davanti ad ogni porta e dietro ogni finestra era stato rafforzato il numero delle guardie. Erano tutte molto nervose, camminavano avanti e indietro, attente ad ogni rumore sospetto, ad ogni ombra e ad ogni spostamento d'aria. Nessuno dormì bene, quella notte: Willi per paura dei ladri, Cassandra per paura dell'incendio, Apemaia per paura che qualcuno potesse far del male alla Regina. E le api guerriere non dormirono affatto. La mattina dopo ognuno riprese il suo lavoro e Apemaia e Willi si recarono all'appuntamento con Flip e Max. Anche loro non erano riusciti a dormire quella notte. Max, in particolare, si era arrotolato nella sua tana senza riuscire a prendere sonno e aveva continuato a pensare a quelle strane storie. Si era ricordato che da un paio di giorni non aveva più visto Tecla, un losco personaggio sempre avido di bottino e desideroso di prendere nella sua rete anche Apemaia. "Ci siamo", esclamò Flip, "quando quella scompare, nessuno riesce più a dormire tranquillo!". Come fare a scovarla? Apemaia era decisa a tutto. "Muoviamoci, chiederemo notizie a tutti gli animali del bosco", disse col solito entusiasmo. E si diresse verso lo stagno. Quando arrivarono sulla riva videro uno spettacolo strano: tutte le rane scappavano a gran velocità. Uscivano dall'acqua e si nascondevano dentro i cespugli tutt'attorno allo stagno, gracidando a perdifiato. "Che cosa succede?", domandò Flip ad una rana che gli passava accanto. "Qualcuno dice", rispose quella affannata, "che l'acqua dello stagno è stata avvelenata!". "Povere noi", gemeva la più anziana, "come faremo senz'acqua?". "Anche questa è una storia che puzza", esclamò Willi, "se l'acqua fosse avvelenata i pesci sarebbero morti già da un pezzo. Invece non c'è alcun segno di pesce morto!". "Bravo Willi, questo è vero", ammise Apemaia, "ma chi può avere interesse a far scappare le rane dallo stagno?". Flip era pensieroso. Tutta quella storia non gli piaceva. C'era qualcuno che voleva allontanare gli animali del bosco per restarne l'unico proprietario. "Mi sembra di conoscerlo questo tipo", disse Flip preoccupato, "di certo a mettere in piedi tutta questa storia è stata Tecla. Ma come possiamo fare per smascherarla? ". Apemaia pensava. Willi pensava, Max pensava, Flip pensava. Ma tanti pensatori non riuscivano a produrre tutt'insieme neanche una mezza idea. Ad un certo punto Flip parlò. Era calmo e aveva l'aria di un vecchio saggio. "Sentite", disse agli amici, "quello che ha fatto Tecla non è bello ma noi non possiamo proprio agire allo stesso modo. Non servirebbe. Dobbiamo cercarla e parlarle, con molta semplicità, facendole capire che non le serbiamo rancore per il suo misfatto". Apemaia era d'accordo con Flip. Bisognava andare a cercare Tecla e dimostrarle che si può essere buoni con chi ha sbagliato. Dove poteva essersi rifugiato un vecchio ragno, in attesa che il suo malvagio progetto si realizzasse fino in fondo? Certo, in un posto da cui si potesse dominare la situazione e tenere sott'occhio tutti i vari spostamenti. "Dalla grande quercia", disse Max, "si può vedere tutto il prato, il bosco e l'alveare. Io lo so perché quando sono triste striscio fin lassù e cerco di guardare la vita sotto un'altra prospettiva...". Sicuro, Tecla non poteva essere che lassù. Si affrettarono a raggiungere la grande quercia e senza fare rumore salirono fin sulla cima. Tecla dormiva dentro un nido abbandonato, con il vecchio cappello in testa e il naso tutto rosso come al solito. "Povera vecchia", pensò Apemaia, "come dev'essere triste vivere così soli, senza nessun amico". Flip chiamò Tecla e le disse che alcuni amici le volevano parlare. Fu davvero molto conciliante. "Amici? Io non ho amici! Presto sarò la padrona di tutto il bosco...". "Lo sappiamo", rispose Apemaia, "hai cercato di spaventarci perché volevi restare sola. Volevi prenderti tutto il nostro miele, tutti i moscerini dello stagno, e avere il bosco tutto per te". "Ma", interruppe Flip, "non ce l'abbiamo con te per quello che hai fatto. Noi vogliamo esserti amici". "Se tutti se ne fossero andati come volevi tu", disse Willi con fare commovente, "nel bosco non ci sarebbero più il grillo che canta, gli uccellini al mattino, le lucciole la notte. Come faresti a vivere così da sola?". Tecla guardava quei quattro e cominciava a sentirsi dentro qualcosa di strano. Era vero quello che diceva Apemaia: lei aveva messo in giro quelle voci perché voleva restare l'unica padrona del bosco. Ma era vero anche quello che diceva Willi: la vita senza gli altri animali sarebbe stata ben triste. Quella povera vecchia, in fondo, aveva il cuore buono. Era stata la solitudine della sua vita a ridurla così. Chiese perdono agli amici per quello che aveva fatto, e pregò Apemaia di aiutarla ad essere come loro, una di loro. "Ma certo", esclamò Apemaia, "coraggio, vieni con noi!". E salì sulle sue spalle, felice di aver riportato l'armonia nella vita del bosco e di aver conquistato un amico in più. IV La festa. Quella mattina Cassandra si dava un gran da fare. Aveva un appuntamento con l'Ape Regina. "Chissà che cosa vorrà", si domandava lustrandosi le ali per farle sembrare ancora più belle. "Ape Regina non chiama mai così presto il mattino... speriamo non sia nulla di grave...". E volò verso l'appartamento reale. Un fuco servitore con tre squilli di tromba annunciò alla Regina la presenza di Cassandra. "Entra Cassandra, voglio parlarti", disse la Regina seduta pomposamente sul suo trono. "Maestà, sono felice di poterla servire", rispose Cassandra con un inchino. Il cuore le batteva forte forte e l'emozione le faceva tremare le gambe. L'Ape Regina la fece accomodare vicino a sé e le parlò a lungo di un suo progetto: voleva dare una grande festa per celebrare l'arrivo dell'estate. "Dovrà essere una bella festa, con gli invitati, la banda, il coro e...". "E cosa, maestà?", domandò Cassandra con curiosità. "E... tanti fuochi d'artificio! Te ne occuperai tu stessa. Ti nomino organizzatrice della festa". Cassandra balbettò qualche parola di ringraziamento, fece frettolosamente un inchino e uscì, rossa come un pomodoro. Ma non era orgoglio, era semplicemente imbarazzo. "Una festa? Tanti invitati? Anche la banda?", diceva tra sé. "E poi, dove li vado a trovare i fuochi d'artificio? Ho paura che il caldo abbia dato alla testa anche alla Regina". All'alveare di feste così non se n 'erano mai date. E poi le api non avevano una banda, non avevano un salone per gli ospiti, non avevano un coro. I fuochi d'artificio poi... cose da uomini! Cassandra non sapeva da che parte cominciare. Ebbe un'idea: "Ma certo! Apemaia! Lei può darmi una mano. La cercherò prima di andare a raccogliere il nettare". E, presa la sua ampolla, si affrettò verso l'uscita dell'alveare. Apemaia volava felice tra un raggio e l'altro del sole del mattino. Stava planando verso il prato che circondava l'alveare quando vide Cassandra. "Buongiorno, dormito bene?". "Dormito un corno! Devi aiutarmi. Bisogna sparare gli invitati, suonare i fuochi d'artificio, e avvisare...". Apemaia non capiva: Cassandra era la sua maestra, possibile che parlasse in questo modo? Sparare gli invitati? Suonare i fuochi d'artificio? Forse il caldo le aveva allentato qualche rotella. Con un batter d'ali si posò sulla terrazza dell'alveare. Seduta vicino a Cassandra si fece spiegare meglio quello che la maestra voleva dire. Così, con un po' più di calma e di ordine, venne a sapere del progetto della Regina. "Magnifico!", esclamò. "Questa sì che è una bella idea. Una festa, con la banda, il coro e tutto il resto!". Apemaia pensava già all'indigestione di cose buone che avrebbe fatto. Era così contenta che non si accorse dell'espressione preoccupata di Cassandra: "Non fare l'ingenua, Apemaia, questa festa va preparata ed io non so da che parte cominciare". Ma Apemaia, che prendeva tutte le cose sportivamente, disse: "Ci penso io". E partì come un razzo. Armata di carta e penna, fece l'elenco delle cose da fare: trovare tutti gli indirizzi degli amici del bosco, fare le prove di canto con le sue compagne, trovare gli strumenti per la banda, e poi trovare anche i suonatori, e poi... e poi i fuochi d'artificio. Come si fanno i fuochi d'artificio? "Questo problema lo risolverò dopo", disse tra sé, e corse alla scuola per parlarne con le sue amiche. "Ragazze, tutte a raccolta, dobbiamo organizzare un coro". Nessuno all'alveare aveva mai organizzato un coro. I grandi lavoravano e i piccoli preferivano la vita all'aria aperta, dopo le lezioni su come diventare un'ape laboriosa tenute da Cassandra. I primi tentativi furono un fiasco. Tutto quello che veniva fuori non erano note, ma un noioso Zzzz... Zzzz... Zzzz. Ci voleva qualcuno che insegnasse loro i primi elementi della musica. "Willi, che cosa possiamo fare?", domandò Apemaia all'amico. "E che ne so io? Non sono mica Flip che sa tutto", rispose Willi seccato. "Ci sono, sei una bomba, Willi!", esclamò Apemaia, e come un fulmine si precipitò fuori dall'alveare. Willi era rimasto a bocca aperta. "Una bomba?", si domandava senza capirci niente. "Apemaia è proprio tocca". La sua amica invece aveva avuto un'idea geniale. Flip, grande intenditore di musica, avrebbe potuto aiutarla. Lo trovò che faceva la ginnastica mattutina saltando su un vecchio tronco d'albero, vispo e arzillo come al solito nonostante la sua età. In tre parole gli spiegò le difficoltà della situazione, e insieme studiarono il da farsi. "Il problema non è tanto il coro", sosteneva Flip, "perché cantare non è una cosa difficile. Il problema è piuttosto la banda: bisogna trovare gli strumenti e chi li suona. Incontriamoci più tardi all'alveare e ti dirò quello che occorre fare". Apemaia gli mise una mano sulla spalla: "Flip, sei un amico. Ti aspetto più tardi". Intanto Willi, che voleva rendersi utile, incominciò a scrivere in bella grafia gli inviti per la festa. Aveva raccolto delle foglie piccoline, lisce e lucide, sulle quali si poteva scrivere da una parte l'invito, dall'altra l'indirizzo dell'invitato. Quando Apemaia tornò all'alveare lo trovò seduto sulla cattedra di Cassandra, con il naso sporco di inchiostro, tutto preso dal suo lavoro. "Bravo, Willi", disse Apemaia, "vedo che ne hai già scritti tanti. Ma come facciamo a sapere gli indirizzi di tutta questa gente?". Willi, che non amava essere disturbato quando lavorava, rispose in malo modo: "Uffa, come faccio a sapere dove abita tutta la gente del bosco. Non sono mica come Max che sta sempre in giro...". "Evviva", urlò Apemaia, "sei una bomba!". E fece per andarsene. Ma Willi questa volta la fermò. "Senti, io non capisco: perché sono una bomba, che cosa ho detto di tanto strano?". Apemaia spiegò: senza volerlo, le aveva ricordato che Max, appunto perché stava sempre in giro, conosceva sicuramente tutti gli indirizzi degli amici del bosco. Così volarono insieme alla ricerca di Max. Come si sa, i vermi sono un po' dormiglioni: trovare Max quel giorno non fu facile. Apemaia e Willi sapevano che più o meno abitava in un prato di trifoglio vicino alla grande quercia, ma dovettero domandare a molti dove fosse esattamente la sua tana. "Sveglia, poltrone! Ci sono novità", gridò Apemaia davanti alla sua porta. "Max, vieni fuori, è urgentissimo!", aggiunse Willi con tutto il fiato che aveva. "Oh mamma, che c'è? Chi mi sveglia?", mugugnò Max uscendo dal suo buco. "È scoppiata la guerra?". "Macchè guerra", rispose Apemaia, "ci devi aiutare. La Regina vuol dare una festa e noi non sappiamo l'indirizzo della gente del bosco per mandare gli inviti". "Ah, capisco", disse Max tirando fuori dalla tana gli ultimi cinque centimetri della sua coda. "Ma non preoccupatevi. Li posso distribuire io che conosco tutte le case. Però...". "Però cosa?", domandarono insieme Willi e Apemaia. "Però vorrei suonare anch'io uno strumento. Far parte della banda insomma". "Uffa, Max, sei il solito ricattatore", lo rimproverò Apemaia, "mi dici che strumento sai suonare?". Max infatti non sapeva suonare nessuno strumento. Ma si ricordava di un suo lontano parente, un certo Serpente a Sonagli, che con tre anelli sulla coda riusciva a far musica. Lo disse agli amici e giunsero all'accordo: Max avrebbe distribuito gli inviti e avrebbe poi fatto parte della banda. "A proposito di banda: Willi, dobbiamo tornare all'alveare, perché Flip ci aspetta. Ciao Max, vieni a prendere gli inviti e ti diremo quando si riunisce la banda". Apemaia e Willi volarono verso l'alveare. Sulla strada del ritorno trovarono Flip e Curt che camminavano con due grossi fiori in mano. Flip aveva scoperto che le campanule avevano un bel suono, un suono diverso secondo la grandezza e il colore del fiore. Curt, da parte sua, sapeva che esistono i fiori-trombetta e i fiori-trombone. Era un bel passo avanti. La banda cominciava a prendere forma, anche se bisognava aspettare ancora un po', per sentirla suonare al completo. La notizia della festa si era diffusa rapidamente tra tutti gli amici del bosco. Cassandra aveva il suo bel da fare: scegliere il posto per la festa, ordinare i dolci e le bibite, cucire la divisa per il coro e ricevere tutti quelli che chiedevano il permesso di recitare, di cantare, di ballare, ecc. Artisti improvvisati, insomma, che speravano di far colpo sull'Ape Regina e avere in dono un po' della sua famosa pappa reale. E di notte, quando Cassandra andava a dormire nella sua cella, non riusciva a prendere sonno: pensava ai fuochi d'artificio. Nessuno sapeva dove trovarli. Nessuno sapeva come fabbricarli. Eppure la Regina aveva chiesto proprio i fuochi d'artificio. Apemaia invece dormiva sonni beati. Aveva dato a Willi una buona dose di medicina contro il mal di pancia perché l'amico, scrivendo le foglie degli inviti, aveva leccato un po' troppe volte la penna, ingoiando così una quantità di inchiostro. Passato il mal di pancia, i due erano volati nelle loro celle e riposavano sognando la festa, la banda, il coro e tutto il resto. L'indomani il sole fece capolino prima del solito, e la vita riprese con il ritmo di sempre. Puch, la mosca che conosceva a pennello la casa degli uomini, cercava inutilmente di sapere qualcosa sui famosi fuochi d'artificio. Si era alleata con un topino che abitava nella cucina, e insieme frugarono dappertutto alla ricerca di qualcosa che almeno somigliasse a un fuoco d'artificio. Avevano visto che l'Uomo, per accendere la pipa, usava uno strano bastoncino con la testa rossa: quando lo si strofinava contro il muro o sul pavimento, si accendeva e diventava di fuoco. Ma sia Puch sia il topino non riuscivano a fare uscire il fuoco da quei bastoncini. Ci voleva troppa forza. E poi, era pericoloso. Avrebbero rischiato di incendiare tutto il prato dove ci sarebbe stata la festa. Puch volò all'alveare per dire ad Apemaia che i fuochi non si trovavano. "È difficile, sai, sapere come fanno gli uomini a fare i fuochi d'artificio. Io li ho visti una volta e so che volano nel cielo, sono tutti colorati e lucenti, lasciano una scia luminosa lunga come quella della signora Lumaca, e fanno un gran rumore. Ma non saprei proprio come fabbricarli". Apemaia ascoltava attentamente la descrizione di Puch. L'idea della scia della Lumaca non era da scartare. Forse la signora Lumaca che abitava nel bosco avrebbe potuto confidarle il segreto della sua scia e forse così si sarebbe trovata la soluzione per i fuochi d'artificio. Puch e Apemaia approfittarono dell'occasione per fare una gara di velocità. "Vediamo chi arriva prima alla quercia del bosco", propose Apemaia all'amica. Tra loro queste sfide erano frequenti. Puch sosteneva che le mosche sono più veloci delle api, Apemaia diceva che nessuno può battere un'ape in volo. Al via partirono rapide in direzione del bosco, e come sempre arrivarono quasi insieme. Tra l'erba fresca di rugiada, la signora Lumaca portava a passeggio suo figlio Lumachino. "Buongiorno, signora Lumaca, come va la vita?". "Buongiorno, Apemaia, come mai da queste parti?". Apemaia le raccontò quanto fosse difficile sapere qualcosa sui fuochi d'artificio. "È una cosa complicata", disse la signora Lumaca, "io mi intendo solo di striscie sulla terra, perché sono anni che me le lascio dietro. Ma non saprei proprio come fare a lasciare una scia di luce nel cielo". Apemaia la ringraziò e tornò all'alveare un po' sconsolata. L'amico Willi, a causa del mal di pancia della sera prima, si era alzato solo in quel momento. Apemaia lo informò della visita alla signora Lumaca e dei risultati per nulla soddisfacenti. Insieme decisero di andare a vedere come procedevano le prove della banda e del coro. In un angolo del prato, a ridosso dell'alveare, Flip e Curt erano tutti presi dalla loro musica. Flip col suo cilindro in testa dirigeva impeccabilmente la banda. Curt, aiutato da una piccola fisarmonica, cercava di dare il tempo ai gorgheggi del coro. L'effetto era buono. Sembrava impossibile che quel coro di stonati fosse riuscito ad arrivare a tanta bravura. Anche Flip aveva messo insieme una bella banda. Con le castagne secche dell'inverno passato aveva costruito viole, violini e chitarre. I gusci di noce erano diventati due grossi tamburi, i fiori-trombetta e i fioritrombone scoperti da Curt suonavano magnificamente, e ormai alla banda non mancava proprio niente. Cassandra aveva trovato un angolo di prato, vicino ai cespugli di gelsomino, che si adattava a meraviglia per la grande festa. Insomma era tutto pronto: dolci e bibite, spettacoli e canti, invitati e curiosi. Apemaia però non era ancora riuscita a risolvere il problema dei fuochi d'artificio. Aveva riunito i suoi amici più fedeli intorno ad un tavolo per affrontare la questione e da ore discutevano senza sosta. Willi proponeva di far cambiare idea alla Regina, ma non era possibile perché tutti all'alveare avevano sempre cercato di soddisfare ogni desiderio di Sua Maestà. Flip voleva proporre alle lucciole di fare una danza ma, anche se non era una cattiva idea, la danza delle lucciole non avrebbe certo potuto sostituire i fuochi d'artificio. Quel fifone di Max, sempre pessimista, vedeva tutto nero. "Oh, non ce la faremo mai. Sarà un disastro!", gemeva strisciando tra Apemaia e Flip. "Non fare così Max, vedrai che all'ultimo momento mi verrà un'idea", diceva Apemaia, cercando di risollevare il morale di tutti. Il giorno della festa era ormai arrivato. L'armata delle formiche si era assunta l'incarico del servizio d'ordine. Ricevevano gli invitati, li accompagnavano ai loro posti, erano attente che nulla potesse turbare il clima della festa. Due formiche in perfetta divisa da combattimento facevano la guardia all'ingresso della loro casa, attente che i nemici non approfittassero dell'assenza delle altre per svaligiare i magazzini. Anche l'alveare era ben sorvegliato. I fuchi guardiani proteggevano la cera, il miele e la pappa reale dandosi i turni come veri soldati. L'ora della festa era stata fissata verso il tramonto. La Regina fece il suo ingresso sul palco reale, scortata da una schiera di fuchi servitori. In quel momento si levò un solenne applauso; tutti gli amici del bosco, tutte le api, tutte le formiche, tutti gli uccelli sui rami gridavano a gran voce: "Viva la Regina! Viva la Regina!". Cassandra, che presentava lo spettacolo, era molto emozionata. Fece un bel discorso per salutare la Regina e per ricordare agli invitati che quella festa voleva celebrare l'inizio dell'estate, come augurio per tutti di una buona stagione. In piedi, al centro di un magnifico fiore, recitava la sua parte con molta eleganza. Si era preoccupata della linea e aveva fatto un po' di digiuno, per apparire ancora più in forma. Dopo il discorso di apertura della festa, Cassandra presentò alla Regina e agli invitati gli artisti della serata. Le prime ad esibirsi furono sei formiche giocoliere, molto abili nel prendere al volo una serie di anelli e palline. Erano veramente brave. Poi si accesero le luci sul palcoscenico e Puch, la mosca, recitò un lungo poema che riguardava l'Uomo. Era una storia interessante, un misto di filosofia e di tragedia, che appassionò molto l'Ape Regina. I piccoli, invece, si annoiarono. Non capivano che cosa ci fosse di così interessante in quello che Puch, con fare serio e cupo, stava declamando. E furono molto felici quando Puch ebbe finito di recitare il suo poema. Cassandra annunciò allora il divo del momento: Pop la rana. I riflettori puntarono su una foglia di ninfea dello stagno. Pop la rana era là, in attesa dell'approvazione dei suoi fans che non si fece attendere. Fischi e urla invasero l'aria. Mentre Pop cominciava a cantare e a ballare secondo il suo stile all'ultima moda, affascinando tutto il pubblico dei più giovani, Apemaia si grattava la testa cercando di risolvere il dilemma dei fuochi d'artificio. Tutto andava a gonfie vele, ma cosa avrebbe pensato la Regina se alla fine fosse mancato lo spettacolo pirotecnico? Apemaia cercò Willi. "Dove s'è cacciato quel buono a nulla? Quando serve non lo si trova mai". Willi infatti era in estasi. Era un folle ammiratore di Pop e dei suoi spettacoli. Stonato com'era, si sentiva un po' più adatto a quei gridolini senza senso piuttosto che alla musica vera e propria. Non sentiva Apemaia che lo chiamava e ci volle uno strattone per distrarlo dalle sue fantasie. "Dài, muoviti, è un'ora che ti cerco", disse Apemaia prendendolo per un braccio. "Dobbiamo pensare ai fuochi e non abbiamo molto tempo. Fra poco tocca a me". "Uffa, proprio adesso che c'è questa musica divina...". Stavano per allontanarsi quando udirono la voce di Cassandra che annunciava il numero di Apemaia con le campane. "Hai visto, tocca a me! Aspettami, faccio presto", disse all'amico, e volò sul palcoscenico a grande velocità. Sapeva che alla Regina piaceva il suono delle campane, e aveva preparato un numero d'eccezione. Quella mattina aveva raccolto tre campanule diverse e aveva provato a suonare la canzone preferita della Regina. Veniva proprio bene. Dal palco reale la sovrana ascoltava estasiata la sua canzone suonata con le campane. "Din-din-don, dindin-dan". Apemaia era felice. E fu più felice ancora quando la Regina si alzò in piedi per applaudirla. Era un onore, un grande onore. Quando ritornò da Willi lo trovò molto pensieroso. "La Regina è stata contenta della tua canzone, ma adesso come facciamo per i fuochi d'artificio? ". "Ho pensato a una cosa. Forse riusciamo a risolvere questo dramma. Willi, mi devi aiutare", sussurrò Apemaia all'orecchio dell'amico. Confabularono un po' in questo modo senza che i vicini potessero capire quello che stavano progettando. Alla fine Apemaia concluse: "E mi raccomando, ricordati del tamburo, il tamburo, hai capito?". Intanto lo spettacolo s'era interrotto per la merenda. Erano tutti affamati e le provviste fatte da Cassandra sparirono presto. Tanti dolci, tante torte, tanti panini, tanti litri di latte dolce, tante cose buone finivano tutte nella pancia degli invitati. Le formiche avevano un bel lavoro: porta a destra, ritira a sinistra, dài con i biscotti, avanti con i bicchieri. In più c'era la signora Lumaca che intralciava il traffico. Si era messa in mente di aiutare a distribuire la merenda e lo faceva con tanta buona volontà, ma anche con tanta lentezza. Tuttavia non si poteva certo litigare con la signora Lumaca, o chiederle di fare un po' più in fretta. Quando Cassandra presentò la banda, ringraziò pubblicamente Flip per tutto quello che aveva fatto. Flip era commosso e si nascose dietro il suo trombone per non far vedere quanto arrossiva. Willi e Apemaia gli erano vicini e volavano allegramente intorno all'amico, che con una potente soffiata faceva cantare lo strumento. Era arrivato il momento tanto aspettato. Cassandra, rivolgendosi alla Regina, disse: "Maestà, questa festa e stata proprio bella. Abbiamo avuto l'onore di ospitare tanti artisti che ci hanno fatto divertire. Adesso...". "Adesso ci sono io". Chi era colui che osava interrompere? Cassandra si voltò e vide Max, tutto vestito a nuovo, che strisciava sul palco. Bisbigliò qualcosa a Cassandra, che per ascoltarlo aveva dovuto abbassarsi fino a terra. "Maestà, Max vuole esibirsi con un numero mai visto finora: la danza del serpente!". E mentre Max si dimenava al suono di una musica orientale, Apemaia e Cassandra studiavano la situazione. "Allora", domandò Cassandra, "tutto pronto?". "Tutto pronto, puoi annunciare i fuochi d'artificio!", rispose Apemaia molto soddisfatta. Appena Max ebbe terminato la sua danza, Cassandra chiese un attimo di silenzio e poi annunciò: "Signori e signore... i fuochi d'artificio!". E in quel momento nel cielo si vide una scia luminosa accompagnata da una grande esplosione. Erano tutti naso all'aria, e non sapevano dire altro che "OOOHH...!". Uno, due, tre, quattro fiori colorati esplodevano nel cielo. Nessuno riusciva a capire come tutto ciò potesse avvenire. Nessuno, tranne Apemaia e Willi: l'avevano proprio inventata bella. Apemaia aveva raccolto in un prato vicino al ruscello un bel mazzo di fiori pon-pon. I fiori pon-pon sono quelli che, se soffiati, distribuiscono nell'aria tanti semini bianchi con una morbida coda. Apemaia aveva visto la zia Giuliana della fattoria far divertire i suoi nipotini con quel gioco. Ma come potevano quei fiori scendere dal cielo facendo tanto rumore? Il segreto è presto svelato. Era Willi che faceva: "Bumm! Bumm! Bumm!", battendo forte sul suo tamburo. E scendevano dal cielo perché Apemaia li portava in picchiata proprio sopra al luogo delle festa. I riflessi della luna e delle stelle, un po' di immaginazione e forse il vino bevuto in abbondanza facevano tutto il resto. L'Ape Regina era stupefatta. Non aveva mai visto una festa così ben organizzata. Quella sera, tornando all'alveare, pensava: "Cassandra merita un premio. Ma anche Apemaia ne merita uno. È stata così geniale con quei fuochi fatti con i fiori pon-pon. Domani le farò chiamare e le ringrazierò di persona. Vediamo... Cassandra potrei nominarla... sì, la nominerò consigliera speciale della Regina, e le regalerò una doppia dose di pappa reale. Apemaia poi... eh sì, Apemaia merita qualcosa di speciale... ci penserò...". Il giorno dopo Cassandra e Apemaia si presentarono alla Regina, nel salone del trono. Cassandra era molto fiera della sua nomina e soprattutto le faceva piacere la doppia dose di pappa reale che avrebbe contribuito a mantenere snella la sua linea. Apemaia si domandava che cosa le avrebbe donato la Regina. "Io non ho desideri particolari...", pensava, "non mi interessano le nomine, le medaglie e i riconoscimenti ufficiali". La Regina chiamò uno dei suoi fedeli servitori che le consegnò un bigliettino piccolo piccolo. "Ecco, Apemaia, questo è il premio che ti spetta. È la patente di ape esploratrice, che ti autorizza a circolare liberamente per tutto il nostro regno". Apemaia fu sorpresa. "Una patente di esploratrice? Regina, vuoi forse dire che posso andare all'avventura quanto mi pare e piace? E che non ho l'obbligo di andare a scuola durante le vacanze? Evviva! È magnifico!". Era veramente un bel regalo. Nessuno aveva mai avuto la patente di esploratrice alla sua età. E con la patente di esploratrice Apemaia poteva girare liberamente per tutto il regno delle api, alla ricerca di nuovi amici e di nuove avventure. Era così felice che uscì correndo dalla sala del trono, infilò la grande scala dell'appartamento reale e in un batter d'occhio si trovò nel cielo azzurro dell'estate. Volava veloce, così veloce che il battere delle sue ali lasciava nel cielo una nuvoletta bianca; con mille piroette disegnò nell'azzurro il suo nome. Apemaia.