Poste Italiane va al bar. Acquisita IndaBox, una rete per ritirare

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Poste Italiane va al bar. Acquisita IndaBox, una rete per ritirare
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COR RIERECONO MIA
LUNEDÌ 20 FEBBRAIO 2017
Uomini & Strategie
Finanza
Grandi patrimoni
Investimenti I piani del più grande strumento di private equity tricolore ora controllato dalla famiglia
Pesenti «La nuova vita di Clessidra
Così Italmobiliare è diventata 3.0»
Il fondo potrà muovere fino a 500 milioni. La sede in Piazza Affari, pronta la squadra
ca sede di via del Lauro a Milano dove
Claudio Sposito aveva lanciato Clessidra. Dal primo maggio il fondo approderà in Piazza Affari, nell’ex sede di Telecom Italia. Il timone del private equity
è in mano a Mario Fera, una carriera da
banker tra Lazard, Hsbc e Ubs, a Londra
e in Medio Oriente, da sette anni nella
holding quotata dei Pesenti. Ne ha seguito il riassetto ed è stato l’architetto
della cessione delle attività alla Heidelberg Cement.
DI DANIELA POLIZZI
S
i allena a bordo campo, in attesa
di chiudere l’«affare» giusto.
Forte di munizioni che arrivano
ad almeno 500 milioni, tra i 300
di dotazione e altri 200 che potrebbero
arrivare sotto forma di coinvestimento
dai sottoscrittori internazionali del fondo. Nomi come il fondo pensioni olandese Pggm, il Gic di Singapore, Pantheon e Partners group. Eccola la nuova
Clessidra, il più grande private equity di
matrice italiana, passato sotto le insegne della Italmobiliare del gruppo Pesenti. Il braccio degli investimenti è il
terzo fondo che ha completato la raccolta con una dotazione complessiva di 607
milioni, di cui la metà già investiti.
«Clessidra ha rappresentato la prima
operazione per quella che abbiamo definito la “Italmobiliare 3.0”, la nuova vita della nostra investment holding dopo
la conclusione dell’operazione Italcementi. Clessidra è stata l’acceleratore di
questa fase che nei fatti ci riporta un po’
alle origini di Italmobiliare, nata proprio per gestire la diversificazione da
quello che per anni è stato il core business», spiega Carlo Pesenti, consigliere
delegato della holding di famiglia e presidente di Clessidra.
Complementari
Dopo la cessione di Italcementi alla
tedesca Heidelberg (di cui possiede attorno al 3%, essenzialmente una quota
finanziaria) e l’investimento di circa 90
milioni nel terzo fondo di Clessidra, Italmobiliare ha una liquidità di oltre 550
milioni. «La cassa rappresenta circa un
terzo del nostro net asset value. Tenendo anche conto delle ulteriori fonti disponibili per sviluppare nuovi progetti,
possiamo contare su una capacità di investimento diretto nell’ordine di un miliardo. Siamo quindi ben attrezzati per
cogliere nuove opportunità e i lavori di
valutazione attualmente in corso stanno
già mettendo a fuoco possibili operazioni», racconta Pesenti. Il focus è su investimenti di matrice industriale, anche
nell’energia, settore ben conosciuto dalla famiglia che ha un presidio strategico
nelle rinnovabili della Italgen.
«Italmobiliare e Clessidra hanno due
strategie di investimento complementa-
Il team
Famiglia Carlo Pesenti, presidente di Clessidra e ad di Italmobiliare
ri. Se per il fondo l’orizzonte temporale è
nell’arco medio di cinque anni, con un
bacino di riferimento di possibili affari
nel mercato italiano, Italmobiliare ha
una visione di più ampio respiro, sia
sotto il punto di vista temporale che del
mercato geografico di sbocco. Oltre all’Italia guarda infatti ai mercati europei
e del Nord America. Abbiamo anche
una forte esperienza nella gestione industriale e una capacità finanziaria che
ci permettono di valutare anche operazioni di taglia decisamente più significativa di quelle di Clessidra, anche investimenti in minoranze qualificate», spiega
ancora Pesenti.
Imminente (e simbolico del passaggio di consegne) è il trasloco dalla storis.F.
IL PORTAFOGLIO
Così hanno investito gli ultimi due fondi di Clessidra
FONDO 2
Camfin-Pirelli
Anima
19%
H&B
5%
Bitolea
18%
Totale
investimenti
795
Buccellati
12%
MARIO FERA,
ceo Clessidra
milioni
7%
Balconi
8%
Cerved
FONDO 3: 607 milioni di dotazione
9%
300 milioni pronti da investire
Acetum
20%
ICBPI
13%
ABM
17%
Cavalli
10%
Euticals-Amri
12%
Totale
investimenti
376
milioni
In via di perfezionamento è la squadra che vede in cabina di regia, oltre a
Fera nel ruolo di amministratore delegato, i managing director Manuel Catalano, Simone Cucchetti, Matteo Ricatti e
Marco Carotenuto. Mentre ha lasciato
nei giorni scorsi Riccardo Bruno. È un
team snello cui si affiancherà anche una
squadra di profili più junior. E sarà rafforzato anche il board che oggi include
nel ruolo di «indipendenti» anche l’ex
numero uno di Unicredit, Federico
Ghizzoni, e Alessandra Manuli, a fianco
del vice presidente Galeazzo Pecori Giraldi. Poi c’è l’advisory board con gli
esponenti di Generali, Unicredit, Poste
Vita, Unipol, Cassa Forense e dei fondi
internazionali, tutti sottoscrittori di
Clessidra. «Italmobiliare si è impegnata
a giocare il ruolo di “investitore silente”
e non ha diritti di voto sulle materie che
regolano il fondo. La nostra sarà una
squadra indipendente», spiega Fera. Ci
saranno le cessioni del secondo fondo
(il primo è stato liquidato con un Irr del
67%), tra le quali è ipotizzabile la quota
nella farmaceutica quotata Euticals.
«Non partecipiamo ad aste, valutiamo
piuttosto operazioni che possono per
esempio scaturire da passaggi generazionali in aziende esportatrici. Con un
ruolo di consolidatore del mercato —
spiega Fera —. Il private equity si è trasformato in profondità. Ora ci vuole più
pazienza e un forte approccio industriale. In questo senso noi portiamo 150 anni di storia. Abbiamo a disposizione circa 300 milioni di liquidità residua nel
terzo fondo. Se riusciamo a mantenere
lo stesso appeal verso i coinvestitori, a
chiusura del piano ne avremo mobilitati
500».
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Shopping online
Poste Italiane va al bar
Acquisita IndaBox, una rete
per ritirare merce sotto casa
DI FABIO SOTTOCORNOLA
L
e Poste Italiane vanno al bar. Ma anche in edicola, alla
tabaccheria o cartoleria sotto casa. Insomma, in tremila spazi fisici di prossimità che possono essere usati
come punto di consegna e ritiro dei pacchi, per chi fa
shopping online. La società guidata dal ceo Francesco Caio, infatti, ha rilevato il 100% di IndaBox, una startup
nata quattro anni fa dall’idea di Giovanni Riviera e Michele Calvo: creare una rete di centri per il ritiro dei pacchi
portati in giro sui furgoni da spedizionieri, fattorini, addetti alla logistica. Come insegna l’esperienza comune,
accade spesso e per vari motivi, che la merce non venga
consegnata.
Dagli inizi, con l’aggregazione dei bar nel loro quartiere e poi in città (Torino), l’idea di IndaBox è cresciuta fino
a toccare altri grandi centri urbani come Roma, Milano,
Napoli, Bologna. Ma non solo: i giovani fondatori hanno
trovato sulla loro strada il sostegno finanziario del Club
degli Investitori, l’associazione di venture capitalist che
ha puntato oltre 400 mila euro sul progetto. E fornito agli
startupper un supporto consulenziale e un affiancamento
per far crescere l’impresa. «Perché ci è sembrata da subito
un’idea semplice ma geniale — spiega Giancarlo Rocchietti (nella foto), presidente del Club — senza contare
che Riviera e Calvo si
sono dimostrati molto bravi nell’execution del loro progetto, cresciuto in tutta
Italia». Che infatti
non è sfuggito all’attenzione delle Poste.
I numeri dell’operazione condotta in
porto da Rocchietti
sono top secret, anche se il presidente
racconta che «non
abbiamo certo realizzato un ritorno del 200% sull’investimento come magari avviene nella Silicon valley ma
neanche soltanto del 20%. Comunque siamo soddisfatti
dell’operazione: un colosso come Poste non acquista così
di frequente le competenze di una giovane impresa».
Molto semplice è il meccanismo di funzionamento di
IndaBox: chi si registra sulla piattaforma, al momento di
fare acquisti online su qualsiasi marketplace può decidere di farsi consegnare la merce in uno dei punti già affiliato. Dove potrà ritirare il pacco comodamente. Altrettanto semplice è il modello di business: su ogni consegna
il cliente paga 3 euro che vengono divisi tra IndaBox e il
gestore del bar (o altro esercente). «Per questi ultimi è
anche un modo con cui fidelizzare la clientela», è convinto il presidente. Il suo Club, di cui fanno parte imprenditori dell’area piemontese o top manager come Carlo Callieri (ex Fiat) è sempre alla ricerca di nuove idee su cui
investire. «Quello che guardiamo nei giovani è la visione
di lungo periodo e la capacità di cambiare modello di business anche in fretta», racconta Rocchietti, convinto che i
giovani italiani, sul fronte delle idee, non abbiano da invidiare niente a nessuno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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L’intervento
Mega compensi, quella cura è necessaria
Giusto pubblicare il rapporto tra gli stipendi dei ceo e dei dipendenti. Anche se gli Usa...
DI SANDRO CATANI*
E SEVERINO SALVEMINI**
C
hissà cosa direbbe oggi
Adriano Olivetti leggendo che Dara Khosrowshahi, ceo di Expedia, con
94 milioni di dollari di retribuzione nel 2015 ha raggiunto il
favoloso record di 4.756 volte
quella degli altri dipendenti
della popolare agenzia viaggi
web!
L’imprenditore del canavese considerava infatti come
soglia massima accettabile un
rapporto retributivo di 10 a 1
tra capo azienda e il lavoratore
medio, non molto dissimile dal
multiplo che teorizzava anche
il guru del management americano Peter Drucker. Stiamo
parlando della «pay-ratio rule», cioè del rapporto tra
quanto guadagna il massimo
dirigente e la remunerazione
mediana di tutti gli altri dipendenti. Indicatore che la Sec
nel 2015, dopo un dibattito
lungo e controverso, ha approvato come meccanismo di
trasparenza di governance per
le società quotate statunitensi.
Da Obama a Trump
Il differenziale retributivo
tra vertice e base organizzativa è finito sotto la lente all’inizio della crisi economica,
quando i governi, sotto la
spinta anche dei mass media,
hanno inserito i compensi manageriali nell’agenda politica,
alla pari del clima o del commercio internazionale.
Cavallo di battaglia della
prima campagna elettorale di
Obama (ricordiamo il G20 di
Pittsburgh del 2009 e poi la
riforma Dodd-Frank), l’idea di
dare trasparenza ai compensi
pagati ai vertici attraverso la
«pay-ratio rule» è stata una
regola a prima vista semplice
e efficace. In tal modo si dava
evidenza a decisioni che potevano scivolare facilmente in
stridenti diseguaglianze e in
accumulazioni di fortune senza un merito specifico.
Di fatto la regola approvata
dalla Sec, allora a maggioranza democratica, ha sollevato
una marea di contestazioni: la
tecnicalità del calcolo; la scarsa significatività per un confronto tra settori (cosa accomuna, ad esempio, Goldman
Sachs e Walmart oppure
Amazon e Dow Chemical?); la
volatilità nel tempo dell’indicatore; i costi amministrativi
stimati in 1,5 miliardi di dollari. E così via. Obiezioni che na-
scondono di fatto le vere preoccupazioni: la reputazione
dei board, le risposte agli azionisti e, non ultimo, le temute
reazioni dei dipendenti. Ma
l’idea ormai è in marcia ed è
difficile invertire la rotta.
La nuova amministrazione
a stelle e strisce tuttavia potrebbe correggere il tiro. Uno
dei primi atti di Donald Trump
è stata la nomina di Jay
Clayton, un avvocato con solide radici nel mondo di Wall
Street, al posto di Mary Jo
White, la riformatrice insediata da Obama. Inoltre, il nuovo
presidente tycoon, dovendo
nominare i due commissari
mancanti, disporrebbe di una
maggioranza schiacciante
nell’influente Authority e così
la stessa Sec potrebbe decretare l’abolizione del pay-ratio
o diluirne gli effetti.
Trasparenza
E in Europa? E in Italia?
Sebbene in Svizzera il referendum per fissare il rapporto
massimo a 12 sia stato bocciato dal popolo, la Comunità
europea sta elaborando una
Direttiva sui diritti degli azionisti che prevede la pubblicazione dei rapporti retributivi e
la conservatrice Theresa May
ha promesso (o minacciato) di
introdurre la regola per le
aziende quotate nella City.
Da noi, in assenza di un obbligo, solo alcune rare aziende
offrono trasparenza su quel
differenziale: nel 2015, ad
esempio, Ubi Banca con un
multiplo di 33 volte, o Atlantia
con 44,4 volte.
Indizi che la nostra situazione è più equilibrata e non
presenta le disuguaglianze del
mondo anglosassone? Sì, for-
se in parte vero. Ma, guardando la medaglia dall’altro verso,
ciò mostra anche un fattore di
debolezza: la governance delle
grandi società quotate italiane
deve fare ancora un bel pezzo
di strada. E lo deve fare proprio nella valutazione del
comportamento dei massimi
dirigenti.
I comitati di remunerazione, ormai attori rispettati nelle
aziende quotate, si cimentano
poco sulla valutazione manageriale e sul virtuoso collegamento tra comportamento
degli stessi «executive» e risultati aziendali di mediolungo termine. Questi comitati, laddove avessero specifica
competenza, potrebbero svolgere la funzione preziosa di cui
si parla da anni nei convegni:
ampliare la sorveglianza oltre
il perimetro tradizionale del
presidente e del Ceo e contribuire alla gestione del capitale
umano dell’impresa.
Perché, in conclusione,
pubblicare il pay-ratio è giusto e può essere sano suggerire al Codice di Autodisciplina
di aggiornarsi su questa buona pratica. Ma la regola della
glasnost dell’indicatore da sola non è sufficiente per cambiare le cose. E’ una condizione per evitare ingiuste iniquità
delle dinamiche retributive,
ma il vero benessere delle
aziende e delle loro comunità
va ricercato nella giusta correlazione tra remunerazione di
tutti e la performance dell’impresa. Correlazione che necessita di una misurazione oggi
ancora imperfetta.
*Mercer Italia
**Università Bocconi
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