appunti di geografia politica ed economica

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appunti di geografia politica ed economica
APPUNTI DI GEOGRAFIA POLITICA ED ECONOMICA
CAPITOLO XXI – Il Novecento: geopolitica tra funzionalismo e organicismo
Social-imperialismo e “imperialismo straccione”
Diversa evoluzione dello scenario europeo rispetto a quello nordamericano con una commistione tra forme
dell’economia capitalistica e i modi della politica. I nuovi stati si trovano ad avere spazi di espansione molto
ampi sia a livello di politica interna che internazionale. Tendono a saldarsi in un continuum, dove la politica
estera non è più riservata alle elite, ma si fa più vasta, coinvolgendo l’intera popolazione. Diventa
necessario integrare risorse interne (territorio, popolazione) per attuare una politica “esterna”: ultime fasi
della corsa alle colonie alla quale lo sviluppo industriale e politico e la diffusione di tecnologie più potenti
avevano dato nuovo impulso. Nuovi sistemi economici coloniali che diventano centri di attrazione per
nuove ondate di migrazione: formazione di colonie di popolamento, combinate a politiche di imperialismo
sociale, ottenute utilizzando la massa dei migranti come “massa di manovra”. Una competizione sempre
più serrata per acquisire il controllo delle risorse in aree del globo ancora inesplorate con missioni
commerciali, guerre di conquista e flussi di migranti. A questa corsa si aggiungono stati europei nuovi:
Italia, Belgio, Danimarca, Germania.. ma coinvolge anche Usa e Giappone. Coinvolge stati senza politiche
coloniali vere e proprie che vedono in queste conquiste a “basso prezzo” un’occasione, originando forme di
“imperialismo straccione”. In entrambi i casi tendenza delle elite a elaborare politiche “estro-verse” come
diversivi ai problemi interni. Proiettare verso l’esterno i propri problemi senza risolverli.
La geostrategia degli imperi coloniali
Conquiste: stati-imperi in competizione tra di loro  nascono scuole di geografia coloniale, per elaborare
teorie di sostegno e legittimazione all’espansione. Continuità alle idee organicistiche e ratzeliane, con
motivazioni di first arrived, first served. La mappa globale diventa il campo di gioco per le cancellerie
europee. Si vogliono acquisire posizioni di favore conquistando aree inesplorate e bacini di risorse
emarginando e/o riducendo in schiavitù le popolazioni locali. Redazione di nuove carte geografiche con
continua manipolazione delle forme dei territori alla ricerca di nuovi equilibri e linee di espansione.
Obiettivi perseguiti anche tramite la costruzione di reti di collegamenti e infrastrutture che diventano lo
strumento per consolidare il dominio in senso politico delle conquiste militari. Es. ferrovie transcontinentali
(Transiberiana e Progetto della Berlino Bagdad), scavo di canali e taglio di istmi. Elaborazione, dunque, di
nuove geo-strategie e nuove contro strategie, chiedendo alla geografia di redigere la nuova mappa del
globo.
Lo scenario dell’espansione
Scenario lontano dall’Europa, a discapito di popolazioni native, con potenze che impegnandosi nel gioco
coloniale cercano anche di evitare la guerra tra di loro. Le folle metropolitane in patria seguono
appassionatamente il tutto facendo il tifo, mentre la stampa elabora slogan (scramble for africa). Una corsa
a scala globale che include cancellerie, eserciti, centri studi e servizi di informazione impegnati a competere
per i territori non ancora rivendicati e redigere mappe delle risorse con itinerari di espansione. L’obiettivo è
quello di controllare una serie di punti e passaggi critici. In senso militare si avviano manovre tattiche per la
supremazia su interi scenari, con la conseguente affermazione di dottrine geostrategiche tra le quali quella
che vuole evitare o imporre un Hemispheric Denial (il blocco delle rotte transoceaniche alle potenze
continentali). Manovre perseguite militarmente o allestendo capisaldi o controllando indirettamente
tramite stati amici e protettorati (indirect rule) o ancora allestendo linee di infrastrutture con una frontiera
incontrollata che si sposta a discapito delle popolazioni locali. In altri casi ancora si registrano guerre di
distruzione, sterminio e deportazione di massa.
Dallo scramble per le nuove terre al Grande Gioco
Esauriti i margini di espansione, le missioni di esploratori e le avanguardie entrano in contatto tra di loro:
saturazione che apre nuovi scenari. (es. Incidente di Fashoda 1898). Conclusione dell’epoca della redazione
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di una mappa definitiva del globo e necessità di elaborare un nuovo equilibrio. Evoluzione che arriva alla
fine dell’800: limite della corsa agli spazi vuoti (scramble for Africa). Gli imperi coloniali avviano dinamiche
definite di game: un gioco di simulazioni con lo scopo di consolidare le acquisizioni piuttosto che di
allargare i propri confini. La corsa coloniale tende ad esaurirsi, elaborando nuove tensioni e nuovi scenari
sotto l’egida di un’ideologia di consolidamento, per chi aveva un impero, o di chiusura e rivendicazioni per
chi riteneva di non aver ottenuto quanto desiderato.
L’elemento marittimo: Mahan e il potere navale
Fase di progressiva saturazione che porta ad interrogarsi su quali sono i fattori che producono potere e
condizioni di vantaggio. Fino ad allora la geografia politica aveva fornito una teoria dell’espansione bellico
terrestre, con definizioni ratzeliane e teorie di Von Clausewitz: (assunzione di un modo di espansione
concentrico da un centro a una periferia e a una frontiera). Bisogna elaborare una nuova geopolitica che
superi il contesto colonialista: si forma negli USA recependo le trasformazioni nella tecnologia dei trasporti
e il mutato contesto della politica americana stessa. La politica globale post coloniale si trova ad essere
commerciale e marittima: in contrasto con la visione tradizionale di Monroe e dell’isolazionismo. Principale
esponente dell’evoluzione: MAHAN. 1890. Militare che recupera l’idea del sea power riconsiderando la
dimensione marittima come elemento per la strategia di uno stato moderno che deve necessariamente
fondarsi sullo sviluppo di traffici e mercati. Conclusione raggiunta tramite studi empirico deduttivi che
individuano il potere navale come strumento per difendere il commercio internazionale, fonte di vero
vantaggio competitivo di uno stato, riflettente un nuovo clima (neo mercantilista) che considera il
commercio uno strumento per accumulare economia in modo unilaterale. Il controllo del mare è strumento
per il controllo del commercio quindi strumento per perseguire vantaggio politico.
I principi della geostrategia
L’approccio di Mahan è scientista quindi fondato sulla convinzione che l’applicazione sistematica di un
metodo può portare de terministicamente al successo economico politico e militare. Definisce
preliminarmente l’ambito di azione per distinguere tra scale caratteristiche e individuare per ciascuna scala
il modo operativo adeguato. Mahan ritiene che la distinzione in unità di scala (politica, strategia, tattica e
tecnica) sia essenziale per realizzare una possibilità di specializzazione. (es. i militari per la strategia, i
politici per gli obiettivi, ecc.). un fatto ovvio che definisce un problema diffuso nella prassi, che genera
equivoci e conflitti di competenze e confusioni. Si basa su osservazioni e studi di casi con metodo dal
particolare al generale e su definizioni. Es. strategia definita come combinazione di campi di azione e tattica
come campo di azione nel quale è possibile intervenire per cambiare le cose in corso di svolgimento.
Ritiene dunque necessario organizzare l’azione a vari livelli, sulla base di un principio di non interferenza.
Mahan elabora anche una riflessione di tipo politico e ideologico consequenziale alla distinzione per
funzioni: lo schema elaborato non può che realizzarsi in un contesto di regime pluralistico o parlamentare.
Unico modo politico che consente un’organizzazione per controlli interni di tipo reciproco e di
autolimitazione del potere. Visione opposta a quella prevista dall’organicismo europeo continentale.
La dimensione continentale: Mackinder e l’Heartland
Le teorie di Mackinder, geografo e politico britannico, sono un originale tentativo di descrivere gli scenari
dell’epoca e di individuare i rischi che l’impero avrebbe dovuto affrontare in fasi di transizione. Osserva una
mutazione a scala di contesto, con l’affermazione di una serie di potenze continentali che sviluppano un
paradigma politico essenzialmente diverso da quello che ispirava l’imperialismo inglese (vedi Germania e
Russia) e realizzano il potenziale rappresentato dalla nuova tecnologia dei trasporti e delle comunicazioni.
Rilanciano il potere terrestre su quello marittimo allestendo grandi infrastrutture che consolidino il potere
dello stato. Stati-imperi in grado di minacciare il potere britannico, acquisendo vantaggio nella
competizione internazionale, cambiando assetti ed equilibri in modo durevole, portando Mackinder a
concepire una teoria del potere continentale rispetto a quello delle periferie marittime. Come riferimento
prende la capacità della Russia di usare strategicamente un’infrastruttura (La Transiberiana) e realizza il
potere che deriverebbe dal controllo di un ipotetico heartland. Mackinder compone un sillogismo ormai
celebre in merito: “chi domina il cuore della terra domina l’isola del mondo, chi domina l’isola del mondo
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domina il mondo”. Con questa frase definisce la geopolitica come una scienza che considera il territorio e
l’organizzazione territoriale come strumenti per produrre potere, come sequenza di luoghi centrali e
periferici controllando i quali gli stati possono ottenere effetti di moltiplicazione di potenza. Definisce tali
territori “pivot” (leve), sui quali è possibile produrre surplus di potere. Teoria che assume, dunque, il
territorio come una variabile che influisce sull’azione umana, dando opportunità ma anche rischi e assume
la mappa della realtà come una sequenza di discontinuità. Idea della geostrategia che usa la risorsa
territorio per produrre potenza.
Mackinder e i rischi della nuova epoca
Argomentazioni originali ma generiche, inauguranti un modo visionari di fare geopolitica fondato su
previsioni e proiezioni. Mackinder considera l’evoluzione delle politiche di potenza di tipo terrestre e di
controllo dell’Heartland che la Germania e la Russia avrebbero potuto sviluppare a scapito dell’Inghilterra.
Un aspetto dunque di tipo geo-ideologico dell’elaborazione del geografo, piuttosto che geografico in senso
stretto. Opera: “Democratic Ideals and Reality”. In essa prevede il rischio che la combinazione tra capacità
geopolitica, mezzi di comunicazione di massa e politica organicistica possano dare origine a un nuovo
dispotismo  denuncia il rischio di una centralizzazione del potere che, infatti, si realizzerà ben presto nei
due paesi. Ciò sarebbe avvenuto sulla base di ideologie facili e semplificatrice che individuavano dei target
geopolitici per le masse, nella visione di M. Una prospettiva teleologica per popolazioni manipolabili.
I totalitarismi europei:
Mackinder è il simbolo di un’era di contrapposizioni e contraddizioni ma è anche teorico sia del liberalismo
che dell’imperialismo britannici e considera l’espansione coloniale come l’evoluzione diretta di una
condizione di superiorità civile e tecnologica. Una visione social-imperialistica, dunque, di una proiezione
verso l’esterno che, con il tempo, produce un effetto riflessivo (feedback) sulle strutture della politica, con
un compattamento interno a uno stato che tende così a trasformarsi in autoritario; soprattutto in quegli
stati che non erano riusciti nella manovra di espansione coloniale.. M. elabora una teoria di potenza ed
unificazione statalnazionale con società e apparati che piuttosto che aprirsi su nuovi mercati, si chiudono in
blocchi e in complessi militari-industriali. Tali teorie fornirono criteri di legittimazione alle espansioni e alle
teorie deterministiche basate su presupposti razziali, che recuperano i motivi dello spazio vitale. Politiche e
visioni che caratterizzano in particolare gli stati in ritardo di industrializzazione e infrastrutture, che
adottano l’idea della compattezza al loro interno e dell’espansione verso l’esterno. Si prefigura una
riedizione della guerra come strumento di politica interna e internazionale ed una riedizione della teoria
dell’aggressività come manifestazione di vita politica, al pari di un’idea di superiorità facilmente spendibile
tra le masse.
La Geopolitik
Serie di correnti di pensiero che danno continuità alle teorie di Ratzel e di Kjellén, ma anche a concetti
ottocenteschi di stato inteso come fenomeno naturale, mosso da una serie di forze incomprimibili,
destinato a crescere e scontrarsi con altri stati. (recupero anche delle visioni hegeliane e social
darwinistiche: stato costretto a combattere per sopravvivere). Tale visione prefigura un assetto politico in
continua evoluzione con stati perennemente in guerra tra di loro, in un quadro di ciclicità di potenze che
nascono, si combattono, crescono, prevalgono e/o soccombono, fino alla visione limite di una geopolitica di
pan-idee e pan-regioni o di stati imperi che tendono a occupare tutte le superfici disponibili. L’artefice di
tali elaborazioni è Hausofer che ebbe grande influenza sui nazisti. Le sue visioni prefigurano una copertura
ad un recupero di un istinto predatorio alimentato dalle frustrazioni della Germania sconfitta a Versailles.
Tale prospettiva mette in evidenza la vera aberrazione della Geopolitik ed il suo atteggiamento disumano
che assume le istituzioni e la mappa degli stati come un semplice gioco, non come contenitori di umanità,
oggetti da conquistare e distruggere.
L’uso dei mass media e la cartografia persuasiva
La geopolitica inizia a produrre un apparato di strumentazioni e di ideologie per perseguire l’obiettivo di un
effetto totalizzante di unificazione di tutte le forze della società in un unico sforzo e in un’unica politica di
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potenza. Ci si avvale delle nuove tecnologie del potere e della comunicazione: lo stato totalitario moderno
persegue una politica di imposizione, una di consenso e una di persuasione. Tutti aspetti necessari per i
sistemi di massa, in quanto non si può più fare a meno delle popolazioni. Consegue un utilizzo massiccio e
sistematico delle tecnologie della comunicazione sociale, perseguendo obiettivi di persuasione a vasta
scala. Strumenti talmente nuovi da essere estremamente efficaci, fatto che spiega il rapido affermarsi dei
totalitarismi moderni. La geopolitica inizia a fare un uso distorto della cartografia (appunto persuasiva), per
manipolare le masse. Presenta i vari soggetti della politica o come vittime o come aggressori. Utilizzo
distorto dei diversi elementi cartografici (frecce, scritture, disegni, sottolineature, caratteri, stili e
proiezioni). I cartografi della Geopolitik elaborano un catalogo di simboli da usare con un supporto di segni
e di dimensioni proporzionate e fuori scala per manipolare le sensazioni.
Teoria della Gestalt, impressionismo e misticismo
Elaborazione di un catalogo di segni e di manipolazioni per creare un impatto impressionistico sul largo
pubblico affinché tutta la popolazione potesse sentirsi nel contempo soggetto di geopolitica e vittima di un
meccanismo deterministico. Esempio rappresentazione della Germania al centro di qualche cosa.
Concretamente: elaborazione di una cartografia formalista, che considera unicamente l’apparenza dei
fenomeni, per produrre un certo effetto, senza la necessitò di dover elaborare ulteriori giustificazioni. Tra
questi esempi si riporta quello della teoria della Gestalt di ambito psicologico sociale che propone un
metodo di apprendimento per intuizione piuttosto che di tipo razionalistico per prova ed errore,
assumendo la realtà come non scomponibile e percepibile unicamente per forme esteriori da considerare
nella loro interezza. Teoria complementare, dunque, alla geopolitica dell’organicismo, pericolosa se usata
operativamente come strumento di persuasione politica. A conti fatti estremamente efficace in quanto
carica la guerra di motivazioni estremamente potenti rendendola “santa”, creando un “superuomo” e
un’idea di destino inevitabile.
La geopolitica fascista
In Italia negli anni 30 un gruppo di geografi dell’università di Trieste fonda la rivista Geopolitica, che segue
obiettivi e metodi della Geopolitik tedesca. Ambizione di elaborare una mappa per l’ipero di Mussolini,
fornire indicazioni su risorse, direttrici di espansione e modi di realizzare una condizione di indipendenza
geopolitica, complementari all’idea di autarchia. Capitolo della storia della geografia che non produce
innovazioni scientifiche di rilievo ma che nondimeno è utile per mettere in evidenza in prospettiva storica il
ruolo che l’istituzione accademica può assumere come strumento di una politica deviante.
CAPITOLO XXII – Geografia dello scenario bipolare
Lo scenario bipolare
Nel secondo dopoguerra si elaborano le premesse per una nuova divisione tra regimi aperti e chiusi, in
termini est e ovest, in sovrapposizione alle teorie di Mackinder. Contrapposizione tra un mondo interno
continentale e uno esterno, tra libertà e dispotismo. Scontro di due potenze che consolidano il monopolio
sull’iniziativa politica e militare di gran parte dei paesi del mondo, ma anche congelamento delle politiche
internazionali che si combina a un effetto terroristico indotto dal rischio di guerra nucleare. Fase di stallo
nella politica tra le potenze, con l’elaborazione di altre forme di guerra e competizione su scala diversa, in
modo indiretto, ma non per questo meno pericolose. Sviluppo di una serie di guerre locali combattute in
aree deboli del pianeta sostenute a volte neanche ufficialmente dalle due parti.
La mappa geostrategica del confronto
Il campo di battaglia si evolve progressivamente da uno schema di guerra tattica e terrestre verso scenari di
guerra non guerreggiata. La prima fase appena dopo la WWII vede l’impiego del consueto terrain
management, con l’allestimento di un fronte continuo e compatto di difese terrestri. Le fasi successive
registrano l’evoluzione verso assetti e tecniche meno territoriali e sempre più sofisticate scenario di INF
(intermediate Nuclear forces) e di SDI (strategic defense initiative). Spostamento dell’asse del confronto
verso lo spazio esterno alla biosfera e all’atmosfera. Superamento della tradizionale questione
dell’hemispheric denial con entrambi i contendenti pronti alla guerra globale. Conseguimento di una
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capacità che consente di reagire alle iniziative dell’avversario immediatamente e ovunque sullo scenario
planetario. Confronto che prospetta un impegno estremo con effetti paradossali di deterrenza che evitano,
infine, l’escalation nucleare.
Le teoria del gioco bipolare: il “rimland”
La contrapposizione si evolve in forme di competizione di tipo innovativo che escludono lo scontro
distruttivo, cioè la guerra diretta. Lo scenario si frammenta in due blocchi separati da una serie di cortine di
ferro che creano le premesse per uno stallo e per un effetto di ritualizzazione del confronto. In tale
contesto si afferma una nuova generazione di tecnocrati. Le teorie del periodo superano le visioni
precedenti, adattandole al nuovo ambiente tecnologico: rielaborazione di geopolitiche in una serie di
istruzioni concrete militari economiche e strategiche. Ci si ispira alternativamente ai modelli otto e
novecenteschi proponendo adeguamenti e integrazioni. Es. Teoria del potere peninsulare: recupero delle
proiezioni di Mackinder con una visione che individua nel cerchio esterno alla pivot area l’area critica del
sistema internazionale. La geografia definisce una sorta di potere marginale che recupera la
contrapposizione classica tra terra e mare aggiungendo un elemento intermedio, il RIMLAND, che si articola
lungo le coste e le penisole e permette alle potenze che controllano tali corridoi di sfruttare assi di traffico e
collegamento efficienti sviluppando potere e posizioni di vantaggio.
Le teorie del gioco bipolare: dominio, containment e opposizione globale
La mappa globale diventa la base per le politiche della guerra fredda che applicano le succitate
rielaborazioni geostrategiche e teorizzano a seconda dei diversi casi: 1) fronte unico e compatto a scala
planetaria, 2) sistema di barriere diffuse e moduli di difesa statici o mobili, 3) allestimento di un dispositivo
di risposte colpo su colpo o di diversificazione delle risposte. Nel caso 1) si parla di dottrine del containment
(Spykman e Kennan) con scenari a possibile effetto “domino” (Eisenhower). Si rende necessario
l’allestimento di un cordone sanitario da parte dell’occidente nei pressi del territorio nemico per evitare
l’effetto contagio e il rischio di escalation. Le teorie assumono una capacità ideologica dell’avversario che si
pone in grado di perseguire guerre sociali, indirette e politiche. Si assimila l’ideologia del nemico a quella di
una pestilenza a rischio di contaminazione diffusa. Concretamente ciò si trasforma in una serie di trattati di
sicurezza e mutua assicurazione lungo una linea che va dall’EU Occ. all’Esteremo Oriente, dall’Atlantico a
Pacifico, cfr. Nato, Cento, Seato. La dottrina del contenimento si afferma in seguito alle teorizzazioni
geopolitiche di Spykman in contrapposizione o in combinazione ad altre come quella dell’opposizione
globale, con risposta colpo su colpo alle mosse dell’avversario (più dispendiosa cmq). Lo scenario si evolve
in una serie di corse al riarmo con l’esercitazione di una pressione continua e insostenibile sull’avversario.
La mappa della guerra fredda
Lo scenario progressivamente si estende fino a configurare una strategia globale che coinvolge qualsiasi
ambiente immaginabile, dove usa e urss si fronteggiano assumendo l’iniziativa o mantenendo una
posizione di difesa/attesa/risposta immediata o differita. Le teorie adattano le idee geopolitiche allo
scenario bipolare che finisce per interessare qualsiasi campo di battaglia senza degenerare nella guerra
diretta che avrebbe portato all’autodistruzione. Tale scenario di tensioni è sottoposto a tentativi di
manipolazione da parte di usa e urss per diminuire i rischi del contagio. Piuttosto che teorie geopolitiche si
parla di proiezioni e rappresentazioni che delineano una manovra di persuasione da perseguire per
esigenze di mantenimento di fronte interno. La geopolitica perde in senso strategico per diventare una
continua ricerca di vantaggi anche minimi. Si articolano geografie di scenario e di tempi di reazione che
recuperano le definizioni di Mahan tra tecnica, tattica, strategie e politica, applicate incrociando il
confronto su scale diverse. Confronto a qualsiasi dimensione  armi culturali, ideologiche e tecnologiche.
La teoria del potere aereo
La competizione porta ciascun contendente a sviluppare per conto proprio armi e strategie ritenute
congeniali per tentare di attirare l’avversario sul campo di battaglia. Ciò porta la geopolitica USA a
riconsiderare una serie di elaborazioni proposte negli anni pionieristici dello sviluppo dell’aviazione, in
particolare dall’aviatore russo americanizzato De Seversky, che formula una teoria del potere aereo fondata
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sulla possibilità di immobilizzazione dell’alto dell’iniziativa avversaria con l’uso di aerei di bombardamento
per colpire in profondità oltre la linea del fronte. Tale teoria recepisce l’evoluzione di nuove tecnologie e
l’effetto sorpresa che esse provocano. Sviluppo della tecnica di guerra missilistica, sottomarina e oceanica.
Lo sviluppo e l’impiego di vettori a lunga gittata porta all’elaborazione di nuovi scenari. Tutta la capacità
bellica deve concentrarsi sul first strike, il primo colpo, sulla capacità di prevederlo, di dare l’allarme, di
reagire istantaneamente .
La proiezione nelle dimensioni aerospaziali
All’applicazione strategica dell’arma aerea consegue la progressiva estensione del teatro bellico alla
dimensione satellitare aerospaziale. Spostamento della proiezione mackinderiana: dall’isola del mondo agli
oceani e agli spazi siderali, con l’adeguamento della formula geostrategica chi domina lo spazio domina il
mondo. Spostamento del confronto tra usa e urss oltre il limite dell’atmosfera. L’apparato scientifico e
bellico americano elabora un’idea di scudo spaziale SDI, utilizzando le prime tecnologie dell’elettronica che
invece l’urss non riesce ad assimilare. Evoluzione che si sviluppa negli anni 80 nella NATO.
Prestigio degli imperi, geopotere sociale e guerra ideologica
Lo scenario si evolve in una logica di gioco che significa per ciascun attore la necessità di adottare qualsiasi
espediente possa portare a qualche vantaggio, anche minimo, che prevede l’ineludibilità della risposta e la
necessità di reagire comunque a qualsiasi mossa dell’avversario: la mancata risposta porterebbe a uno
svantaggio. I due sistemi diventano sensibili al fattore prestigio (= l’aspettativa di potenza che sono in grado
di indurre). Qualsiasi svantaggio può ora generare un effetto a cascata mettendo a rischio tutto l’impianto.
L’obiettivo del gioco è anticipare le mosse dell’avversario rispondendo in modo proporzionato e mai
distruttivo per far valere vantaggi tattici in senso strategico. All’iniziativa e alla predominanza tecnologica
americana, l’urss risponde con una strategia di guerra sociale e di propaganda tra le classi più deboli. Tale
geopolitica sociale si fonda sul presupposto che il comunismo possa rappresentare un certo appeal per le
masse e i ceti sociali frustrati, ispirando teorie terzomondiste e anticapitaliste una guerra ideologica, la
strategia di espansione dell’urss. A tale tattica l’occidente risponde in tempi differiti, soprattutto post
Helsinki ’75 con un capillare appoggio a forme di dissidenza e di opposizione all’interno del blocco
comunista.
Giochi e rituali dell’era bipolare
Tale quadro si sovrappone allo schema della contrapposizione tra potenze aperte e chiuse. Uno scenario
strutturalmente limitato, dunque, nel quale i contendenti hanno limitate possibilità di manovra, portando
alla conseguente applicazione della “teoria dei giochi” in ambito internazionale, prefigurando un approccio
nuovo e una teoria nuova del confronto politico. Tale metodo dovrebbe rendere prevedibili le mosse
dell’avversario matematizzandone il comportamento. Una matematica nuova né lineare né cumulativa, di
misurazione di effetti circolari e reversibili. Tale gioco si traduce in una ritualizzazione del confronto, tipica
degli scenari chiusi dove nessuno dei contendenti può distruggere o sconfiggere l’avversario. Precedenti:
Atene e Sparta. I due contendenti sembrano addirittura, alle volte, legittimarsi a vicenda in un rituale e una
scacchiera dove qualsiasi mossa non può che significare qualche cosa di reversibile. Tale idea del gioco
assume un significato caratteristico che si sostituisce alla parola guerra, in uno scenario di dissimulazioni e
paradossi.
Il superamento dello scenario bipolare
La fine di tale scenario arriva in modo inatteso, con lo sfumare di giochi e rituali senza sfociare in nuovi
scenari. La fine è dettata dalla semplice uscita dalla scacchiera di uno dei contendenti, quello sovietico, per
semplice esaurimento della capacità politica un suicidio politico. Lo scenario sfuma in una serie di scenari
nazionali e regionali dove i vari soggetti mantengono atteggiamenti di cautela: la fine del gioco bipolare non
annulla il rischio di escalation né quello della proliferazione degli armamenti però. Il gioco non si dissolve
nel nulla ma non lascia nemmeno degli sconfitti. Lo scenario da bipolare si evolve in multipolare rendendo
necessaria l’elaborazione di un nuovo ordine e un nuovo codice di regole tra centri e periferie, tra soggetti
e attori di geografia e di politica.
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Un mondo multipolare o un nuovo impero globale
La scena attuale supera la logica della contrapposizione basata su un’unica frattura planetaria. Il nuovo
ordine recupera le logiche di aggregazione multipolari peculiari del repertorio della geopolitica classica,
superando le strategie del dominio e del containment e prefigurando un’evoluzione meno rigida e
apparentemente meno rischiosa. Una teoria che recupera le mappe macroregionali e disegna il mondo
come suddiviso in regioni geostrategiche, premettendo una nuova riorganizzazione degli stati su scala
interstatale e anticipando le tensioni che si affermano poi con la globalizzazione. Tale gioco di aggregazioni
si sviluppa seguendo assi opposti, dal basso o dall’alto, come unioni spontanee di stati e di sistemi politici
ed economici e con la formazione di unità pluristatali come l’UE. Pan regioni formate non come gioco
geopolitico a come libera unione di stati che cercano di recuperare qualche soglia di coordinamento in un
contesto di aperture e di fenomeni tropo potenti da poter essere affrontati da stati singoli e isolati spesso
in competizione tra di loro. La realtà globale appare in termini talmente complessi da escludere, oggi come
oggi, che qualsiasi stato o superpotenza possa sviluppare una forza sufficiente per imporre un’egemonia sui
meccanismi del governo mondiale e su tutto il pianeta. La politica post bipolare appare nei termini di una
frammentazione complessiva in cui è evidente la tendenza dei singoli stati a perdere in funzionalità in
compattezza, cercando forme di cooperai zone. Tale fatto verifica la teoria geografico politica della
modernità, che definisce gli stati come unità politiche che tengono ad adeguare i propri confini in modo da
rappresentare al meglio il range naturale dei fenomeni. I confini della politica tendono ora a seguire quelli
dell’economia. Tutto ciò porta al’elaborazione di nuove mappe della politica internazionale che
propongono nuovi ordini globali. Nuovo bivio per la geografia politica. Da un lato l’affermazione dei nuovi
modi imperiali con manovre geoeconomiche, culturali e finanziarie, dall’altro una prospettiva multipolare
con stati che si aggregano su scala macroregionale in organizzazioni basate sulla governance e sulla ricerca
di collaborazioni.
CAPITOLO XXV – La crisi della tarda modernità: il passaggio al post-industriale
La crisi del modello industriale e le nuove tendenze localizzative
La crisi del modello per poli di crescita comporta la crisi dell’industria fordista con il passaggio da un
modello economico trainato dall’industria a uno dove prevale il terziario. Presupposti: situazione
insostenibile dell’industria pesante, con città e insediamenti asfissiati da fabbriche e infrastrutture
inefficienti. Apertura di un nuovo paesaggio di attività terziarie che accrescono la domanda di qualità in
tutti i campi dall’ambiente alla cultura. Tali evoluzioni delineano un quadro di incompatibilità che dà
impulso a una serie di trasformazioni fino all’affermazione della civiltà del terziario. Le attività industriali,
emarginate, saranno abbandonate o riconvertite o de localizzate. La riconversione comporta un processo di
riqualificazione urbana e di sconvolgimento degli assetti centro – periferia. Ciò rende disponibili spazi
urbani e industriali che una volta bonificati possono essere utilizzati per nuovi impieghi. Migrazione delle
imprese ad alto consumo di spazio e ad alto impatto dalle aree centrali verso aree meno “costose”. Una
rivoluzione vera e propria che evidenzia la possibilità dello sviluppo come una questione di organizzazione e
di disponibilità di territorio. tale constatazione crea le premesse per una nuova teoria e per una nuova
urbanistica adattabile e flessibile.
La delocalizzazione
La trasformazione riguarda principalmente le lavorazioni pesanti che si rilocalizzano in aree di periferia
spesso contigue alle aree di reperimento delle risorse. Le strutture che lavorano le prime fasi del materiale
grezzo si riavvicinano alle fonti (cokerie, fonderie, ecc). Idem per lavorazioni pericolose, impattanti, con
materiali volatili e infiammabili o ad alta concentrazione di attività e popolazione. Processo di
redistribuzione dell’asse centro periferia che ne consegue e che capovolge l’ordine territoriale delle
precedenti industrializzazioni. Le vecchie città industriali lasciano spazio a nuove aree del terziario e
dell’industria hightech. L’industria ad alto consumo di territorio va a collocarsi dove le risorse ambientali e
gli spazi abbondano e costano meno.
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La tendenza alla de materializzazione
Le aree al centro del sistema dimostrano una tendenza a riconvertirsi in attività del terziario con processi di
deindustrializzazione diffusa, con imprese manifatturiere che tendono a de materializzarsi concentrandosi
nelle fasi meno materiali del ciclo produttivo ed espellendo le fasi pesanti del ciclo industriale. L’evoluzione
dell’industria conduce, dunque, al suo stesso superamento con l’affermazione di una nuova forma di
economia orientata ai servizi e alle fasi immateriali di un dato ciclo industriale, ad alto contenuto di cultura
e conoscenza. L’industria tende a specializzarsi in funzioni a basso consumo di spazio e ad alto contenuto di
cultura con la separazione di attività del terziario industriale e attività pesanti e materiali, trasferite,
robotizzate oppure de localizzate in periferie varie (terzo mondo e paesi emergenti)  stravolgimento
dell’intero modo produttivo. Le attività immateriali assumono un ruolo di traino.
Il mercato del lavoro per sistemi di fine ciclo
L’evoluzione verso modelli e segmenti del mercato del lavoro a maggior reddito e qualificazione
corrisponde a un imborghesimento e alla formazione di categorie di rentier di difficile definizione, spesso a
causa di redistribuzioni di ricchezze accumulate nelle crescite precedenti. I lavoratori e i professionisti di
settori a rischio di delocalizzazione tendono ad assumere atteggiamenti difensivi e di chiusura. I segmenti
di lavoro a minore valore aggiunto, infatti, tendono a essere de localizzati perché meno attrattivi o, dove
non è possibile, vengono occupati da fasce marginali di manodopera, spesso da immigrati con basse
aspettative di reddito. In queste fasi avanzate di ciclo di sviluppo, con de materializzazioni dell’economia, si
ha un declassamento delle funzioni artigianali e manuali con l’allontanamento delle nuove generazioni da
professioni pratiche. Si formano economie subalterne di lavoratori DDD, demanding, dirty e dangerous,
meno apprezzati, ghettizzati ed emarginati. Tali lavori spesso restano comunque ben remunerati perché
indispensabili.
Il passaggio al post industriale
L’affermazione del terziario è un fenomeno che deriva da una serie di ragioni. In primis lo sviluppo di nuove
forme di servizi che sostituiscono il terziario tradizionale amministrativo e commerciale. Poi la risposta alla
richiesta della società evoluta di attività qualitative, meno materiali e meno impattanti. Parallelamente
anche una trasformazione in una società a prevalente ceto medio. Tutto ciò è un fatto conseguente a una
fase di crescita dell’economia che porta all’accumulazione di una certa ricchezza da parte di individui,
famiglie e imprese, con un conseguente sviluppo di maggiori aspettative in termini di qualità della vita 
fenomeno autoalimentante. Si supera l’economia della necessità e si va verso quella del benessere. L’asse
delle attività commerciali tende a spostarsi dalle funzioni materiali a quelle del terziario con il conseguente
passaggio dalle funzioni industriali a quelle dei servizi, dai consumi di tipo pesante come abitazioni e
automobili a quelli leggeri e ai servizi culturali.  stravolgimento della stessa teoria del progresso con la
prospettiva dell’evoluzione in una nuova epoca post industriale.
Il welfare come politica territoriale
La crescita moderna crea le premesse per un’economia dei servizi a causa della spinta dell’offerta e dal
traino della domanda (push and pull), ma anche a causa dell’evoluzione spontanea dell’attività delle
imprese. A tale fenomeno contribuisce anche l’evoluzione del lavoro e della de materializzazione delle
imprese che terziarizzano il ciclo di produzione, esternalizzando le fasi pesanti del ciclo industriale. La
conseguenza è un incremento di produttività che rende possibile la formazione di un surplus da devolvere
nell’economia dei servizi e del superfluo (fenomeno sociale e culturale il ceto medio inizia a percepire
come un diritto le proprie aspettative di benessere). La politica di welfare si rivela necessaria per rimediare
agli squilibri prodotti da tale sviluppo spontaneo: l’apparato della democrazia deve poter rimuovere gli
squilibri garantendo un principio di uguaglianza. Si ha di conseguenza un effetto di terziarizzazione con la
tendenza dell’amm.pubblica a nazionalizzare interi settori dei servizi. Così lo stato moderno realizza il suo
obiettivo di garantire a tutti i cittadini il bene della sicurezza in tutte le accezioni (fisica, personale,
alimentare, ecc). L’effetto di stabilizzazione produce valore aggiunto a scala di sistema e alimenta
ulteriormente lo sviluppo  cittadini che percepiscono il sistema come sicuro tendono a consumare e
investire e rischiare piuttosto che a tesaurizzare sottraendo risorse al mercato.
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Da spesa produttiva a spesa improduttiva: la curva delle utilità
La condizione di sicurezza sopra descritta ha avuto un impatto diretto sull’economia con propensioni ai
consumi che esprimono curve caratteristiche e che appena raggiungono certe soglie di soddisfacimento
invertono tendenza e significati. Oltre tali soglie l’apparato del welfare non produce più utilità e diventa
improduttivo, quasi un espediente per alimentare inefficienze e distorsioni di varia natura. Il welfare è tale
solo quando continua a produrre utilità vera e propria. Oltre tale soglia rischia di produrre un effetto
perverso che si traduce in una considerazione distorta di servizio pubblico “dalla culla alla tomba”. Il
sistema rischia di essere percepito come un ente superiore che dispensa qualsiasi bene. Si forma un’elite
autoreferenziale che tende a consolidarsi in una posizione di rendita al centro del sistema. Tale involuzione
porta all’accumulo di debito pubblico e alla proliferazione di “bias” di vario tipo con sprechi, corruzione e
cattiva gestione delle risorse. Si sottraggono così energie alle imprese innovative e agli strati di popolazione
veramente bisognosa.
CAPITOLO XXVIII – Verso una geografia del post moderno
Gli schemi del post moderno, tra spontaneo e pianificato
In base al paradigma che una società assume (es pianificatorio) l’organizzazione del territorio assume
modelli che possiamo definire compatti, dispersi, lineari, raggruppati, casuali o regolari. Modello compatto:
insediamento sviluppato a cerchi concentrici e reticolari con gli elementi caratteristici dell’urbanistica
christalleriana. In altri casi, es. criterio spontaneo, forme meno regolari e casuali, o lineari con file di edifici
e vetrine, assieme ad una confusione di aree centrali e periferiche. Il modello si diffonde sulla scorta delle
nuove tecnologie della mobilità. Modelli diversi  vantaggi e svantaggi diversi rispetto ai target della
pianificazione ottimale (accessibilità, integrazione, buona gestione di spazio, zonizzazione, sostenibilità..).
L’ottimizzazione della mobilità può essere perseguita con modelli di insediamento e organizzazione
antitetici, oppure con il miglioramento della mobilità pubblica e privata. Quando prevale quella pubblica
bisogna minimizzare le distanze per rendere mezzi e servizi collettivi accessibili, quando prevale quella
individuale si creano le condizioni per diffusione di modelli di insediamento dispersi e più difficili da
organizzare. L’alternativa tra modelli diversi di insediamento configura l’alternativa tra modi di vivere e di
organizzare l’intera società.
Localizzazione per “amenity” e consumismo paesaggistico
Si concretizza uno sviluppo per moduli funzionali che recepisce le forme di terziario culturale e ricreativo
che caratterizzano la post modernità. Economia incentrata sulla qualità e non sulla quantità: economia di
“happiness” che sviluppa funzioni diffuse in epoca di tarda modernità; il dopolavoro, il turismo... si ha un
recupero dell’edilizia di pregio preesistente per rivalutare il paesaggio della natura e della tradizione, ma
anche l’allestimento di un nuovo paesaggio di non luoghi con la ricerca di nuove ambientazioni di
“amenity”, di pregio artistico, emozionale, culturale e ambientale e funzionale . aspetto negativo:
fenomeni di consumo di territorio e di paesaggio con allestimenti provvisori e scarsamente qualitativi,
originanti problemi connessi a effetti di invasione e saturazione (es villaggi costieri, ecc). tale tendenza
diventa la ragione per lo sviluppo di interi sistemi post industriali che si riproduce a scala locale, con
riqualificazione di regioni fino ad allora ritenute periferiche o di quartieri dell’antica industrializzazione. 
politiche di bonifica e di riconversione urbanistica.
Tendenze globali nella mobilità e nei processi di insediamento
Si registrano dei movimenti a scala locale sullo sfondo di tendenze di tipo macro che caratterizzano la realtà
globale, comportando un aumento complessivo della mobilità in generale. Movimenti appena percettibili
ma con verso e direzione precisi. Difficili da misurare e da gestire da parte delle autorità e delle istituzioni
 sono movimenti che si muovono su assi preferenziali. Spesso dall’interno all’esterno; da territori
continentali verso la costa; individui, aziende, istituzioni, ricerca di migliori condizioni di accessibilità, di
lavoro, ecc. spesso dalle città di provincia alle città capitali, alle global cities. Tutto ciò si combina a un
complessivo fenomeno di deruralizzazione con una continua crescita della popolazione urbana su scala
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mondiale. A lato anche un movimento migratorio dal sud al nord del mondo che coinvolge individui in
condizioni di necessità o semplici migranti alla ricerca di nuove opportunità.  spesso nelle forme di
ondate di disperati. Tutti questi movimenti sono in senso esattamente contrario a quelli da nord a sud, che
derivano da semplici dinamiche di sviluppo, di espansione di mercati e di comunicazione. Sono i casi delle
aziende che sviluppano nuovi mercati e nuovi prodotti bombardando il sud del mondo, ma anche i
movimenti turistici.
Una nuova civiltà nomade
Tutti questi movimenti sono dunque difficili da classificare; sono movimenti di ricerca di qualità e di
opportunità, occasionali e periodici, residenziali e non, ecc. ciò si traduce in trasferimenti definitivi, a volte,
dalle aree post industriali al centro del sistema ad aree di provincia fino a creare le premesse per una
generale contro urbanizzazione. Si disegna uno scenario nuovo indotto dal miglioramento delle tecniche
della mobilità, con masse di individui che scelgono dove vivere, lavorare e stabilirsi. Di conseguenza si
procede a una riconversione da insediamenti di tipo funzionale per individui e imprese vicino ai luoghi di
lavoro o alle risorse, verso insediamenti di amenità. Il ceto medio può decidere di risiedere e lavorare diove
vuole costruendo attorno a sé un ambiente su misura o scegliendoselo. Tale tendenza è assecondata da
nuove propensioni e abitudini che a volte provocano la rottura dello schema di localizzazione o la
deterritorializzazione della stessa attività lavorativa. Si fora uno spazio indifferenziato che crea le premesse
per un’evoluzione estrema della mobilità per il lavoro di qualsiasi tipo. Un fenomeno recente che rende
possibile forme di pendolarismo su grandi distanze (ad eccezione dei casi di Trenitalia e Trenord) anche su
base settimanale o giornaliera (ahah certo).
Territori del pubblico e del privato
In tale scenario, restrittivo o pianificatorio o spontaneo, il pubblico e il privato mantengono certi ruoli
oppure prevalgono tendenze spontaneistiche sia nell’organizzazione territoriale che nell’economia. Le
politiche di welfare si combinano a fenomeni di terziarizzazione portando ad una commistione: da un lato il
pubblico recupera un ruolo nell’economia e nella società limitando lo sviluppo del mercato privato,
dall’altra il privato sviluppa le proprie funzioni a volte occupando nicchie che il pubblico non riesce a
gestire. Tale distinzione appare particolarmente evidente sul territorio. si registrano sistemi arretrati da
qualsiasi punto di vista, con inefficienza delle infrastrutture e dell’organizzazione, che necessitano
dell’intervento pubblico per mantenere la loro compattezza. Tutti questi fenomeni configurano nuove
emarginazioni e nuove discontinuità in una mappa che alterna aree di agglomerazione insostenibile e aree
tributarie a rischio di abbandono. Tale scenario individua un contesto di complementarietà tra pubblico e
privato che può funzionare qualora il pubblico si dimostra abbastanza efficiente e il privato abbastanza
strutturato in un contesto di distinzione effettiva, di fatto e di diritto, dei ruoli. Es.: project financing e
finanziamento di opere pubbliche che diano un ritorno, cfr autostrade.
Il terzo settore
La realtà attuale dimostra come certe funzioni, considerate fino a una certa epoca esclusivamente statali,
siano state progressivamente privatizzate, e viceversa. Le cause sono state necessità di budget, eccessi di
debito pubblico e difetti di funzionamento. Es.: varie funzioni del controllo a qualsiasi scala della sicurezza,
dell’amministrazione e della produzione. Idem per varie funzioni di governance internazionale,
cooperazione allo sviluppo, assistenza in aree di crisi, protezione civile, ecc. tali funzioni tendono a essere
gestite in regimi destatalizzati e deaziendalizzati, da organizzazioni non governative e non profit che
contribuiscono a delineare un terzo settore in forte sviluppo ovunque nel mondo. Alcuni interpretano
questo fenomeno come una tendenza autoregolatoria delle società, altri come investimenti in aiuti e
beneficienza a copertura di investimenti di tipo strategico con un ritorno nel lunghissimo termine. Difficile
distinguere tra investimenti e motivazioni filantropiche.
I residui dei monopoli statal-nazionali
L’evoluzione sopra delineata dipende dal funzionamento della società civile e dalla presenza di un effettivo
civil auditing, unico modo per far funzionare veramente il pubblico tanto in un ambiente pluralista quanto
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nel lungo periodo: un controllo, dunque, che avviene dal basso attraverso gruppi, associazioni del terzo
settore, espressioni di opinione pubblica, enti locali, singoli individui, consumatori e utenti. Tutti svolgono
un ruolo attraverso procedure di partecipazione e di dialogo razionale. Il dialogo tra il pubblico e il privato
rappresenta un aspetto cruciale: il territorio dei sistemi di fine ciclo sembra occupato da reti e da monopoli
statalnazionali che perdono in efficienza ma mantengono potere. Si vedano, ad es., le grandi organizzazioni
di cui la stessa casta politica si alimenta, inefficienti e pesanti, addirittura non riformabili, che con la loro
presenza bloccano l’iniziativa di nuovi attori e nuove imprese, pubbliche e private. Es.: energia, ferrovie,
università.. tale complessa evoluzione è caratteristica della tarda modernità e probabilmente di tutti i
sistemi di “fine ciclo”: amministrazioni pubbliche che degenerano in apparati inservibili e insostenibili, che
nondimeno sono in grado, a causa della loro dimensione, di soffocare e bloccare qualsiasi tentativo di
rinnovamento.
L’alternativa tra competizione e coesione territoriale
Bisogna condurre una riflessione sul ruolo dello stato e sui principi che devono ispirare l’azione del pubblico
in un’epoca di transizioni: ad es. politiche di coesione e di integrazione tra territori, per limitare la
competition delle imprese e garantire alla popolazione una base di servizi che assicurino condizioni di pari
opportunità sul territorio. tale politica di integrazione è caratteristiche della tarda modernità dopo la WWII
 sforzo di allestire uno stato sociale al fine di evitare degenerazioni rivoluzionarie. Esempio lampante
nella politica europea del trattato di Roma 1957: principio di coesione sociale e territoriale e di sviluppo
armonioso (contrapposto al principio della competition). Si privilegia il coordinamento piuttosto che la
competizione. Tale tipo di politica manca nel nuovo mondo caratterizzato da abbondanza di territorio e da
una cultura della frontiera che porta la competition a rappresentare l’aspetto caratteristico di un contesto
sociale estremamente mobile.
Le frontiere del terziario: nuove attività e nuove funzioni
Le tensioni descritte generano elementi per nuove differenziazioni e nuove sovrapposizioni
centro/periferia, pubblico/privato. In epoca post moderna si tende ad espellere attività a basso valore
aggiunto come quelle industriali, grandi infrastrutture ricollocate in aree esterne (porti, aeroporti, ecc) e
riorganizzate in modo migliore. A volte certe attività (fabbriche, impianti vari, inceneritori) vengono de
localizzate in aree di Terzo Mondo a costi fondiari, sociali e ambientali più redditizi. Bisogna distinguere tra
attività terziarie di tipo tradizionale riorganizzate secondo schemi industriali (centri commerciali periferici,
ecc) e attività di tipo innovativo (servizi alle imprese, culturali, ricreativi, ecc). attività, queste ultime,
decisive nella competition tra aziende, tra sistemi e aree di sistema. A lato si configurano anche un terziario
avanzato, o quaternario, di attività direzionali con un significato strategico diventa sempre più difficile
distinguere tra funzioni autenticamente manifatturiere sempre meno materiali e attività di servizio,
all’interno del terziario stesso.
L’ambiente post-produttivista
Si configurano attività che perdono significati e funzioni che prima avevano; agricoltura di qualità e
intensiva accanto a una di tipo hobbistico non redditizia; attività di amenity e di happiness; ecc. tutte
queste attività, e altre, per quanto apparentemente non abbiano un senso monetario, non è detto che non
possano sviluppare un senso economico. Nel volatile ambiente del post industriale è necessario utilizzare
altri parameri per classificare e definire le attività economiche. Fatto cruciale bisogna comprendere in
tempo utile le ragioni dello sviluppo per garantire ad un intero sistema possibilità di crescita nel lungo
periodo, e posti di lavoro per gli individui/opportunità di profitto per le imprese.
CAPITOLO XXIX – La crisi del modernismo nel Terzo Mondo
La frattura planetaria della modernità
Quando la modernità sembra raggiungere il suo punto di massimo, appaiono i segnali della sua crisi. La
società del benessere e del consumismo arriva a compimento fino ad esaurire la sua spinta innovatrice.
Fenomeno non nuovo nella storia i sistemi completano la propria parabola degenerando o esaurendosi in
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periodi di stagnazione. Il ciclo della modernità a un tratto sembra perdere senso rendendo evidente una
serie di problemi ai quali hanno condotto i modelli di crescita cumulativa e quantitativa tipici di tale fase. La
crisi è dovuta a varie cause e si manifesta in varie forme spesso caratteristiche delle fasi di fine ciclo
effetti da esaurimento e appiattimento delle curve di redditività, produttività, ecc. tale rottura si riproduce
ovunque, sia al centro che alla periferia del sistema (terzo mondo), significando tanto “crisi” quanto
“opportunità”. La crisi si manifesta su scale diverse, soprattutto nel terzo mondo, dove il paradigma della
crescita moderna aveva rappresentato un vero e proprio programma di sviluppo, e prende le forme di una
frattura drammatica tra nord e sud, est e ovest, centri e periferie. A tale frattura si sovrappongono schemi
di ideologia e di politica. La divisione sembra quasi verificare le proiezioni maltusiane e marxiane:
inevitabilità del guadagno di qualcuno rispetto alla perdita di qualcun altro. Rappresentazioni semplicistiche
ma che configurano il recupero di una logica di tipo predatorio: scenari neocolonialistici di geografia senza
regole dove organizzazioni di varia natura agiscono aggirandosi come bestie rapaci alla ricerca di
opportunità e risorse da sfruttare. Gli stati post coloniali, inoltre, configurano scenari politicamente deboli,
con vuoti di potere che li rendono target di scorrerie e di tensioni varie. Un quadro di tensioni geopolitiche,
dunque, che porta a una serie di guerre indirette che grandi potenze e organizzazioni varie, a volte
coperture delle potenze stesse, conducono senza scrupoli nel sud del pianeta.
L’avvio dell’elaborazione di una teoria dello sviluppo
Tutte queste tensioni si inseriscono in un più vasto quadro di mutazioni paradigmatiche indicative della crisi
del modello industriale e fordista. Nei paesi del terzo mondo dove era stato applicato, caratterizzati da
strutture sociali e territoriali fragili, da modi sociali arcaici, ecc, il modernismo si era imposto come qualche
cosa di artificioso e discontinuo con la base sociale preesistente, provocando ulteriori rotture. Si delinea
una vera e propria catastrofe che dimostra l’inconsistenza dell’economia modernista e la necessità di
elaborare una teoria specifica per tali paesi, esempi di una frattura planetaria e di drammatici ritardi. Si
delinea una nuova teoria (teoria dello sviluppo) che deriva dalla più vasta teoria dell’economia e che
diventa strumento, ideologia e prassi per sistemi che da allora, partendo da condizioni di arretratezza
preindustriali e premoderne, perseguiranno consapevolmente un progetto di crescita in qualsiasi senso.
La formazione di un’economia subalterna – neocolonialismo
La decolonizzazione, nell’immediate, per gli stati indipendenti comporta invece che una vera e propria
liberazione, uno shock con la conseguente destrutturazione di qualsiasi ordine, tanto coloniale quanto
locale. Non si può creare una nazione dal nullo e la decolonizzazione arriva in modo improvviso senza dare
la possibilità alla società locale di strutturarsi  logiche del fatto compiuto. Tale processo origina una crisi
che comporta effetti diversi per l’economia e per le società dei nuovi stati con la destabilizzazione di interi
assetti territoriali, campagne e città, avviando spesso processi di migrazione di proporzioni colossali. Si
formano sistemi deboli ed esposti alle tensioni internazionali, caratterizzati da un’economia squilibrata
fondata su monoculture e monoproduzioni agro industriali, idrocarburi, minerali, ecc. Dipendenza, dunque,
dai mercati mondiali delle quotazioni e da manovre speculative di varia natura. (es. Repubbliche delle
banane). Una riedizione, quindi, del dispotismo orientale cui contribuiscono elite precoloniali restaurate e
multinazionali straniere, ma anche istituzioni varie che perseguono politiche di influenza e obiettivi
neocoloniali. Si genera una nuova stagione di oppressioni con un’intera generazione di nuovi dittatori 
evoluzione che predispone alla degenerazione antidemocratica e alla proliferazione di conflitti interni e
internazionali, con il paraosso di stati apparentemente ricchi di risorse che precipitano in una condizione di
completa precarietà “maledizione delle risorse naturali”. Solo raramente la disponibilità di risorse dà
avvio a forme di sviluppo duraturo. Spesso crea presupposti per sistemi basati esclusivamente sull’export di
materie prime, scollegati dalla realtà locale e che finiscono per alimentare lobby e sistemi di potere
demagogici e paternalistici. Il contrario esatto dei modelli di sviluppo diffuso.
La fase della “cooperazione e sviluppo”
Qualsiasi movimento di rapide trasformazioni comporta rischio di fratture. Lo sviluppo consiste in una serie
di evoluzioni sincroniche che qualsiasi accelerazione e qualsiasi moltiplicatore rischiano di far degenerare.
Fatto evidente soprattutto per la politica: nell’applicazione di una teoria dello sviluppo si generano ulteriori
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inefficienze, con aiuti intermini di capitali e risorse di varia natura che, una volta raggiunto il Terzo Mondo,
rischiano di essere impiegate in modo deviato e manipolato . quando manca una base sociale e
amministrativa efficiente, gli aiuti dall’esterno e gli investimenti finiscono per generare un circuito vizioso.
Alimentando nuove elite di rentier post coloniali o nuovi speculatori. In tali contesti l’intervento occidentale
finisce per alimentare asimmetrie e instabilità varie, provocando tensioni e rivendicazioni, rivoluzioni e
conflitti. Questo scenario si rivela da subito problematico per le politiche di cooperazione e sviluppo cui si
aggiungono altri fattori caratteristici dell’ideologia alla base delle stesse politiche, quella modernista 
serie di ingenuità, come se bastasse applicare le stesse ricette dello sviluppo occidentale per ottenere lo
stesso risultato, una società prospera e una politica stabile.
Il fallimento del modernismo: l’analisi neomarxiana
Principale equivoco prodotto dal modernismo: assumere il proprio modello come l’unico valido in assoluto,
con, come conseguenza, l’imposizione di tale modello, estraneo alle realtà locali, nei paesi del terzo mondo,
provocando in quelle aree le stesse tensioni che aveva provocato in occidente, ma in modo più grave e
accelerato. L’epopea della cooperazione e sviluppo si avvia nel II dopoguerra, combinata ai movimenti di
decolonizzazione. Essa provoca la distruzione del modello locale e tradizionale ritenuto arcaico e
l’imposizione di un modello industriale estraneo e difficile da assimilare. Invio in Africa, Asia, America Sud,
di tecnologie e impianti complessi che nessuno localmente sa usare, ecc. + politiche di urbanizzazione che
generano fratture e ondate migratorie. Processo caotico che porta masse di immigrati a inurbarsi in una
sterminata periferia di bidonvilles. Tutta una serie di interventi grossolani, dunque, che si realizzano in
assenza di una base sociale adeguata e pronta per sostenere il peso delle trasformazioni con una tecnologia
ancora molto grezza e impattante che si rivelerà inservibile e dannosa. Un modello importato che si traduce
in afflussi incontrollati di capitali, tecnocrazie scollegate dalle culture locali, apparizione di grandi
agglomerazioni, desertificazione delle periferie. Si forma uno schema dualistico tra metropoli e satelliti,
centri e periferie strutturati, aree forti e aree deboli. Tale modello genera e riproduce indefinitamente
sottosviluppo, neoimperialismo e neocolonialismo. Il lavoro è inevitabilmente destinato a diventare
sfruttamento e la ricchezza viene inevitabilmente espropriata per alimentare il capitale del nord del
pianeta.
La distruzione dell’ordine tradizionale
Altro caso di equivoco scientista  politica fondata sulla convinzione che sia possibile esportare un modello
astrattamente corretto, nel caso il modello modernista, per risolvere definitivamente i problemi
dell’arretratezza e del sottosviluppo. La convinzione che una civiltà possa semplicemente imporsi su altre
perché più efficiente, si basa su un’interpretazione ideologica e quasi mitologica della tecnologia moderna,
che induce le popolazioni locali ad abbandonare le pratiche tradizionale e produce effetti catastrofici. Nel
momento in cui sopraggiunge la crisi, le popolazioni locali, costrette a cercare nuovi modi di sussistenza,
avranno perso anche le conoscenze e le tecnologie tradizionali abbandonate per quelle innovative. La
modernizzazione accelerata e indiscriminata induce un ulteriore peggioramento di un quadro di vita già
precario  perdita di conoscenze e stili di vita tradizionali. Devastazione di ecosistemi e di risorse naturali.
Non si può, dunque, imporre in un solo colpo un mercato o un sistema di tipo omeostatico che sia in grado
di funzionare autonomamente. La realtà locale è molto più complessa e qualsiasi intervento unilaterale
dall’alto o dall’esterno rischia di creare soprattutto danni.
Una definizione complessa di sviluppo
Lo sviluppo, per un paese arretrato e per uno avanzato, secondo una definizione modernista, è un fatto
complesso e non può essere indotto semplicemente da formule o da modelli astrattamente ritenuti validi
 contesto più ampio di evoluzione sociale e maturazione politica + congiunture internazionali e rapporti
di forza + opportunità, momenti, moltiplicatori e tendenze. L’ambiente dello sviluppo, in realtà, si rivela
essere molto diverso da quello delle teorie moderniste che assumono un modello lineare, dove a un
modello di crescita uniforme deve corrispondere un processo equivalente di espansione su una certa
superficie. Le teorie della modernità sono teorie della crescita per stadi (Rostow) o per ondate
(Hagerstrand), per poli di sviluppo (Perroux) o per interdipendenze settoriali (Leontiev)  aspirazioni
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sempre illusorie. Lo sviluppo non è un obiettivo che può essere pianificato ma va perseguito con un metodo
per tentativi ed errori. È una questione di complessità e di cicli di maturazione (contrario della definizione
modernista!). vi agiscono elementi non economici di difficile definizione  la gran parte delle istruzioni e
delle informazioni necessarie per far funzionare un sistema economico è di difficile codificazione. Un
manuale, infatti, può dare le istruzioni di come funziona un impianto, ma non il sistema sociale nella sua
interezza: bisogna elaborare funzioni complesse, situazioni non proceduralizzabili e non ricorrenti che
necessitano di abilità creative e di un salto di scala nell’intelligenza politica.
Fattori di cultura sociale e fattori di politica
La distanza culturale è un concetto di difficile teorizzazione ed è difficile, a volte, anche da accettare:
dipende da capacità di adattamento, da questioni di partenza, da una sorta di ignoranza originaria in cui si
trovano popolazioni impossibilitate persino a immaginare una vita diversa da quella che conducono e a
comprendere un’idea di progresso. Es.: intere popolazioni urbane che vivono in una baraccopoli e lo
accettano come fatto normale. Si tratta, dunque, di una condizione di ita legata ad abitudini o scale di
valori, e che nondimeno possono essere considerati accettabili si presuppone che qualsiasi individuo sano e
mediamente capace, qualora abesse la possibilità di accedere alle risorse necessarie, vorrebbbe garantire
alla propria famiglia una vita decorosa e indipendente. Ciò che appare come il rifiuto a condurre una vita
accettabile, può essere anche una questione di semplice incapacità di immaginare un miglioramento.
Questioni controverse, dunque, che rischiano di divnetare oggetto di manipolazioni.
Il paradosso degli aiuti che producono danni
Una società debole può solo subire le tensioni che animano lo scenario internazionale. Il terzo mondo, dove
arrivano capitali in ogni forma, vede l’assenza di qualsiasi schema di controlli interni, senza le istituzioni di
una società civile e senza un tessuto di imprese locali pronte a tradurre in sviluppo quelle risorse. Prolifera
una casta di rentier e di dittatori che si autodefiniscono democratici e antiimperialisti, il cui unico scopo è
quello di mantenere il potere e usare le risorse locali per accrescere la propria ricchezza e consolidare il
proprio status. L’invio di aiuti in tale contesto diventa paradossalmente il modo peggiore per aiutare un
paese a perseguire una politica di sviluppo  diventa un’operazione che alimenta inefficienze di qualsiasi
tipo e la formazione di reti criminali e di connection. Gli aiuti finiscono per predisporre, al centro e alla
periferia, atteggiamenti predatori e ideologie rivendicazionistiche in varie forme, per un valore da ottenere
senza essere stato prima prodotto, senza impegno e senza lavoro. Tale effetto rompe il naturale nesso che
si instaura tra esperienza del lavoro e ottenimento di un reddito. Immediata conseguenza è la diffusione di
atteggiamenti vittimistici che hanno spesso per obiettivo la legittimazione di ulteriori rivendicazioni ulteriori
aiuti e finiscono per perpetuare una condizione di precarietà. Economie che si fondano sulla generosità dei
donors sono complementari ad economie di tipo predatorio.
La politica negli spazi vuoti della decolonizzazione
La politica dell’occidente verso i paesi del terzo mondo negli anni dello sviluppo fordista (‘50/’70) comporta
l’applicazione di criteri keynesiani in sistemi arretrati. Tale politica si realizza senza il supporto di un
apparato locale efficiente e che per questo genera tutta una serie di distorsioni. La crisi del modernismo
rappresenta un fatto devastante per intere società appena uscite dal medioevo dell’era coloniale, quindi da
un’economia di sussistenza. Si diffondono ideologie antidemocratiche e manipolazioni di varia natura
nonché la convinzione che i valori dell’occidente, del liberalismo, dei diritti fondamentale, della libertà di
impresa, siano una sorta di lusso per pochi, uno strumento con cui gli imperialisti cercano di asservire
nuovamente le economie del terzo mondo. Quando un sistema non riesca a produrre né a ridistribuire in
modo adeguato, si creano le premesse per la disgregazione sociale e per l’affermazione di poteri autocratici
che tenderanno a utilizzare il repertorio di propaganda dello sviluppo, al fine di mobilitare la popolazione.
Coperture ideologiche che spesso vogliono solo giustificare le manovre predatorie di qualche elite al
potere. In ogni caso la possibilità di inviare aiuti a chi ne ha bisogno non può essere considerata negativa di
per sé necessario elaborare un modo e un apparato in grado di gestire adeguatamente gli stessi aiuti, al
limite dilazionando o ridimensionando interventi e investimenti. Questa è la vera sfida dello sviluppo:
gestire bene gli aiuti, non rinunciarvi. Tale fatto è stato recepito dalla prasi internazionale evolutasi nella
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fase di “cooperazione e sviluppo”  le varie ong, agenzie onu, fmi, ecc hanno adottato misure perché gli
aiuti per lo sviluppo non diano luogo a posizioni di rendita, ecc.
Un principio di cautela
Sebbene la fase della cooperazione e sviluppo oggi sembra essere superata, l’atteggiamento e la filosofia
terzomondista caratterizzano ancora il dibattito geopolitico, riguardando in particolare l’opportunità di
perseguire una cauta politica di aiuti oppure di indurre le condizioni per una grande spinta perché le
popolazioni dei paesi poveri possano prima di tutto sfuggire a una trappola della povertà. Si registra una
constatazione che induce a pensare che lo sviluppo non possa avvenire che attraverso un percorso
graduale, affinché il sistema locale abbia il tempo di collaudare le innovazioni e assimilarle. Un’innovazione
può indurre la trasformazione e l’adattamento dell’intero sistema locale, con la creazione di un mercato di
prodotti agroalimentari, di un sistema di commercializzazione, di infrastrutture della mobilità, ecc. un
passaggio che in altre circostanze si realizza nel corso di millenni e che nel terzo mondo della modernità si
realizza in poco tempo. Rischi di effetti dirompenti: la macchinizzazione delle produzione porta alla
disoccupazione, ad esempio. Nessuna innovazione può, dunque, essere considerata per principio buona e
migliore delle pratiche preesistenti, tanto che, prima di abbandonare tecniche di tradizione millenaria, è
opportuno procedere a prove e verifiche sul terreno. Si richiede una politica di prudenza! Una buona prassi
dell’innovazione, infine, è quella di prevedere una forma di conservazione delle tecnologie preesistenti che,
comunque vada l’innovazione, realizzi un quadro di reversibilità  no distruzione dell’ordine precedente.
CAPITOLO XXX – Nuove teorie e nuovi paradigmi per lo sviluppo
Il cambiamento del paradigma
Gli aiuti del terzo mondo confluiscono in una complessiva politica di cooperazione e sviluppo, che si realizza
in modo parallelo ai processi di decolonizzazione, come strumento con il quale i paesi del nord industriale si
propongono di sostenere l’economia dei nuovi paesi indipendenti. Una politica contraddittoria, però, che si
rivela spesso inefficace e diventa una copertura per politiche neoimperialiste. Essa viene infatti perseguita
tramite l’intervento diretto dei governi, dei ministeri e degli apparati amministrativi, o a volte mediata
tramite organizzazioni di varia natura. Nel complesso, comunque, inefficace. Politica di donazioni, infatti,
che diventa una copertura per esportazioni e finisce per generare un debito estero sproporzionato creando
condizioni di dipendenza dei beneficiari verso gli stessi donors. Situazione catastrofica che ben presto fa
riflettere teorici dello sviluppo e organizzazioni sovra statali inducendo a una generale mobilitazione della
società civile internazionale, alla base del cambiamento della pratica e della teoria dello sviluppo.
La critica alla teoria modernista: un approccio neomarxiano
Tale approccio stravolge le idee del modernismo evidenziando il fatto che il semplice trasferimento di fondi
e l’applicazione di un modello economico da un sistema all’altro non avrebbero potuto rappresentare la
soluzione per lo sviluppo. Ciò cambia il punto di vista complessivo e induce un movimento di critica e di
riappropriazione delle società del terzo mondo della propria geografia e della propria identità. L’approccio
neomarxiano coincide in una critica al modello delle relazioni internazionali allora predominanti, cioè
mercato e capitalismo aperto, che gli autori terzomondisti ritengono inevitabilmente destinati a tradursi in
relazioni ineguali. Interpretazione strutturalista e relazionale che ritiene inevitabile che all’arricchimento di
qualcuno corrisponda l’impoverimento di qualcun altro (e daje..). Per emanciparsi da tale scenario, i
proletari del terzo mondo devono riappropriarsi dei mezzi di produzione, eventualmente con la rivoluzione.
Atteggiamento che contraddistingue il “periodo di Bandung” movimento dei non allineati, 1955. Un’altra
faccia della stessa politica di cooperazione e sviluppo condotta negli stessi anni dai paesi occidentali. Si
esprime la volontà di reagire ed emanciparsi dalle logiche del sistema bipolare e dai riflussi neocolonialisti.
Tramite questo movimento i vari leader perseguono politiche di rivendicazione e mobilitazione popolare
spesso strumentali al consolidamento delle loro posizioni e che si riveleranno fallimentari nel lungo
periodo.
Lo scenario strutturalista di I. Wallerstein
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Scenario contraddistinto da contrapposizioni che la teoria neomarxiana riproduce a scala globale in uno
schema di sfruttati e sfruttatori, centri e periferie, che Wallerstein rappresenta come uno scenario chiuso,
nel quale a seconda della posizione che una certa regione o un certo stato occupano, derivano determinate
evoluzioni economiche e politiche. Si definisce, dunque, il ruolo di un paese a seconda della posizione che
esso occupa nell’ordine complessivo. Tale schema si articola per aree centrali, periferiche e intermedie
rispetto ad un sistema dato globale. I centri corrispondono alle aree nelle quali le elite prendono decisioni e
dove sono collocate le funzioni direzionali e le sedi delle principali istituzioni. Le periferie coincidono invece
con aree di sottosviluppo sfruttate dalle aree forti del sistema. Fasce contrapposte tra le quali si forma una
categoria intermedia di semiperiferia, area più interessante dal punto di vista politico perché caratterizzata
da sistemi non ancora stabilizzati, impegnati in programmi di recupero e di competizione verso le aree
centrali dominanti. In tale semiperiferia si possono formare ideologie della chiusura, antidemocratiche e
totalitarie. Area che oggi corrisponde ai paesi BRICS o emergenti, impegnati in una rincorsa vero i paesi
avanzati dell’occidente. Tale schema propone una geopolitica strutturalista che rende evidente la relazione
deterministica che si instaura tra territorio e politica. Lo schema di W. Si propone di descrivere le dinamiche
e le evoluzioni degli stessi scenari geografico economici nel lungo termine..
Una teoria dello sviluppo locale
Interpretazione che stravolge le idee di sviluppo uniforme e massificante caratteristiche della modernità,
mettendo le basi per una teoria della liberazione con cui la società subalterna può legittimare la ribellione e
la lotta per il recupero di potere. Tale interpretazione viene definita di sviluppo auto centrato. La riflessione
che ne è alla base procede oltre le strutture della politica e della società, proponendo una visione
minimalista e soggettivistica dello sviluppo: per essere reale la riappropriazione delle risorse e dei mezzi di
produzione deve realizzarsi a scala del micro, del villaggio e della comunità.  presupposto di una nuova
teoria dello sviluppo che significa il recupero di una dimensione locale cioè della realtà premoderna. 
riaffermazione della definizione di comunità di villaggio in termini di stabilità di lungo termine. Tutto ciò
porta al superamento del paradigma modernista di sviluppo  da indotto, cioè esogeno, deve diventare
endogeno, cioè auto centrato , in grado di auto generare le motivazioni dell’iniziativa. Approccio
contrapposto alle teorie di sviluppo liberista e di sviluppo pianificato e centralizzato. Nuova teoria che porta
al recupero di tecnologie tradizionali e gestibili in autonomia e induce un modo locale e spontaneo che
recupera motivazioni di sviluppo sostenibile, green economy, risorse collettive, ecc.
Una nuova teoria dell’identità: il passaggio alla teoria post strutturalista
Primo investimento da compiere intervento che ristabilisca la situazione di integrità originaria riparando
in qualche modo ai danni prodotti dal modello modernista grezzo e massificante. Tale teoria post
strutturalista si fonda sull’idea della realtà non materiale e non oggettiva, sull’idea di soggetto (individuo,
ambiente familiare, ecc) che diventa l’elemento base e allo stesso tempo il mezzo e il fine, della
complessiva teoria economica. Una teoria che si fonda, dunque, sull’identità locale. Tali sistemi locali
possono funzionare solo se gli individui ritengono di poter identificarsi in un modello di relazioni e di
responsabilità, in un territorio dove possono riconoscere risorse e nel quale possono riconoscere gli effetti
della propria azione. L’esatto contrario della società modernista standardizzata e industrializzata.
Le teorie dello sviluppo tra illusioni e slogan di potere
Anche le teorie post moderne, come quelle moderniste, inducono a una serie di slogan, stereotipi,
ideologie, ecc che diventano ben presto fonte di equivoci e ambiguità. Rischio di diffusione di ideologie in
termini di “contro” contro il capitalismo, le multinazionali, ecc. SI sposta l’asse dell’attenzione sul vero
oggetto della questione cioè sul fatto che qualsiasi sviluppo non può che realizzarsi in un contesto di
responsabilizzazione sociale e individuale. C’è sviluppo solo se l’impegno sul lavoro e nell’impresa trovano
corrispondenza in una parallela crescita del funzionamento sociale. La svolta comunitarista e soggettivistica
rappresenta uno sforzo importante e decisivo per umanizzare una teoria che sembrava aver perso di vista
l’obiettivo della crescita umana. Lo slancio ideologico rischia però di produrre danni l’ideologia dello
sviluppo locale assume una posizione preconcetta antiaziendale e antimercato che rischia di produrre
nuove chiusure e nuove frammentazioni. La vera sfida dello sviluppo è quella di conciliare le capacità
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dell’impresa di produrre valore con un’idea di bene comune, che è compito della società locale definire e
perseguire.
CAPITOLO XXXI – La crisi del fordismo in Occidente
Verso un nuovo paradigma tecnologico
La crisi tardo moderna si combina a una generale riconversione a scala di “economia mondo” con
trasformazioni lente e irreversibili non contrastabili, non governabili ma, per alcuni aspetti, assecondabili. Il
fallimento modernista nel terzo mondo, deriva da una crisi generale del fordismo della tarda modernità:
trasformazione paradigmatica che ha varie cause: materiali, culturali, tecnologiche e sociali. Soprattutto:
evoluzione tecnologica elettronica e telematica  inverte le curve delle economie di scala. Diffusione pc e
applicazioni  sconvolgimento modalità della politica e dell’amministrazione.
Il “downsizing”: dall’integrato al modulare
Tale passaggio è emblematico della crisi dell’intero mondo fordista. Le industrie realizzano che non
conviene più aumentare in dimensione e mantenere aree troppo estese. Elemento di vantaggio  il nuovo
paradigma costringe il sistema a riorganizzarsi in termini di flessibilità e modularità. Il cambiamento
prospetta un’intera riconversione produttiva, con impiego di macchinari meno complessi. Ogni
macchinario, lavorazione, funzione di azienda e di sistema subisce il processo  l’unita produttiva ottimale
subisce un ridimensionamento (downsizing, appunto). Passaggio non indolore che si realizza in una serie di
crisi e di adattamenti e che colpisce il sistema economico occidentale proprio nel momento della sua
apoteosi fordista. In tale scenario si colloca la crisi petrolifera degli anni settanta che innesca una crisi di
sistema che l’occidente subisce in modo devastante.  il presunto punto di forza della grande azienda
industriale si trasforma in un fattore di debolezza: industrie rigide e difficili da riformare che non riescono
ad adattarsi ai nuovi paradigmi e alle nuove condizioni di mercato.
La teoria del limite
I primi segnali di saturazione erano già presenti alla fine degli anni sessanta ma la crisi si manifesta in modo
improvviso e distruttivo senza che le istituzioni riuscissero a comprendere per tempo cause e dimensioni
del fenomeno. La saturazione economica e strutturale comporta la diffusione di paure da esaurimento delle
risorse naturali contemporaneamente a una catastrofica situazione demografica. L’effetto da saturazione si
manifesta in un effetto di crisi su qualsiasi aspetto della domanda. I sistemi stentano a riprodurre le ragioni
dello sviluppo e fanno fatica ad uscire da una condizione di crisi di tipo circolare tra stagnazione e
inflazione. Un limite da scarsezza di materie prime, soprattutto che sembra prospettare la regressione ad
una condizione di guerra per le risorse e riportare la civiltà a un’era che pareva essre stata superata
definitivamente. Questo fatto segna la chiusura dell’era modernista che, raggiunta una certa soglia di
crescita, prospetta una condizione di saturazione e di reflusso tipica delle fasi da fine ciclo.
Il limite ambientale
La crisi si manifesta innanzitutto come crisi ambientale: saturazione di spazi, di impatto e degrado delle
risorse naturali. (es. inquinamento, discariche incontrollate, ecc). si osservano paesaggi distrutti da
un’urbanizzazione pervasiva e indiscriminata che delinea una trappola urbana + diffusione incontrollata
della speculazione edilizia e proliferazione del consumismo immobiliare. A tutto ciò si affianca una perdita
di capacità organizzativa del sistema. Riemerge la visione maltusiana del limite, ispirandosi all’esaurimento
delle risorse naturali e ambientali che acquisisce un livello ideologico e definisce la catastrofe ambientale
come effetto degenerativo portato da un certo modo di vivere e di produrre, da un mondo economico che
non considera i costi ambientali e da un’amministrazione che non può che portare, nel medio e lungo
termine, all’accumulo insostenibile di scorie e scarti vari.
Il limite geografico-urbanistico: l’iperstrutturazione
I territori subiscono l’accumulazione indiscriminata di funzioni produttive, residenziali e industriali di tutti i
tipi  processo di involuzione delle curve di redditività e di rigetto da parte della stessa area urbana
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congestionata. Avvio, per reazione, di un processo di espulsione o di gufa dal centro verso la periferia, da
parte di aziende, individui e interi gruppi sociali: movimento inverso rispetto all’epoca di inizio della
modernità. Le istituzioni reagiscono avviando politiche di bonifica e di ristrutturazione, tuttaia spesso
troppo lente, coste e difficilmente eseguibili. Gli anni del miracolo economico hanno significato lo sviluppo
di un patrimonio immobiliare e infrastrutturale di proporzioni enormi con una generazione intera di
“edificato” che in poco tempo giunge al compimento del suo ciclo di vita si genera un effetto di
iperstrutturazione di insediamenti troppo densi che restano letteralmente asfissiati da un’urbanistica
sovradimensionata e dalle stesse macerie della stratificazione edilizia. Ciò mette in evidenza come la
crescita di qualsiasi tipo debba sempre prevedere una corrispondente pianificazione per costi,
manutenzioni, ammortamenti, ecc.. altrimenti, oltre una certa soglia, i costi iniziano a pesare troppo
ripercuotendosi sulla struttura complessiva e portando all’inversione delle curve dei rendimenti e dei
benefici fino alla crisi complessiva del sistema.
L’ideologia della catastrofe
Tale processo degenerativo rende evidenti gli effetti devastanti della modernizzazione incontrollata
mutazioni climatiche, deterioramento delle piramidi alimentari, devastazione territoriale. Ciò è collegato
all’uso indiscriminato e colpevolmente inefficiente delle tecnologie industriali e agrarie che si rivela più
dannoso del problema che voleva affrontare. Tutto ciò si sviluppa in una percezione di catastrofe
imminente che sembra manifestarsi con una serie di disastri a partire dagli anni 70 (Seveso, Bhopal) e
culminare nel disastro di Cernobyl nel 1986 che rese evidenti a tutti gli avvertimenti da “fine del mondo”.
Scenario, peraltro, connesso a una serie di minacce all’instabilità politica come la bomba demografica, il
disastro umanitario del terzo mondo e il rischio di olocausto nucleare. L’atteggiamento della politica
apparve diversificato mettendo in evidenza o la capacità e la possibilità del sistema di reagire o l’incapacità
di produrre aggiustamenti e buone governance. La reazione della società appare lenta e riflette la sua
disgregazione culturale. Società assuefatta e anestetizzata da qualsiasi simbolo. La consapevolezza della
crisi si diffonde solo molto tardi e a un livello di elite fino a raggiungere una dimensione di massa più avanti,
per poi giungere alle istituzioni. La questione ambientale diventa allora un problema per tutti e segue la
firma di una serie di convenzioni + conferenze sull’ambiente organizzate dalle UN (Stoccolma 72 e Rio 92).
Il limite dell’iperburocrazia
Serie di limiti, come quello ecologico, che evidenziano la debolezza di un sistema che sembra essere
finalizzato esclusivamente alla produzione.  fenomeno della produzione di scorie non solo su scala
territoriale ma anche a livello istituzionale con una sorta di deriva e inerzia politico amministrativa che
consegue al secolare processo di costruzione di uno stato sociale e che appare ancora come qualcosa di
estremamente articolato ed esteso.  si sono formati apparati costosi e ipertrofici con l’accumulo di
enormi debiti pubblici e la limitazione della capacità di manovra del sistema. Si producono scorie di tipo
burocratico che finiscono per interferire con qualsiasi dinamica sociale fino a prospettare la crisi dell’intero
sistema. Si genera una casta di funzionari e di burocrati che producono solo carte e procedure inutili
smarrendo il senso della funzione dell’amministrazione. Lo stato sociale ormai funziona soltanto come
pretesto per giustificare posizioni di rendita idea deviata di welfare che è diventato un mostro che divora
se stesso. Il sistema, perdendo efficienza, perde anche il suo ruolo di ente al di sopra delle parti quindi
legittimato a individuare e imporre eventualmente un’idea di bene comune. La società tende a chiudersi e
frammentarsi in atteggiamenti e ideologie corporativistiche sviluppando comportamenti imprevedibili e
l’esplosione di forme di economia sommersa + fenomeni di ipersindacalizzazione e consociativismo. Quadro
tipico dei sistemi di fine ciclo (e ridaje..) e degli apparati che non riescono a rinnovare se stessi.
Il limite politico: la democrazia che smette di funzionare
Il raggiungimento del limite è anche a livello istituzionale con ordinamenti che sembrano perdere in
efficacia, soggetti a diffusione di ideologie populistiche o a fenomeni di ritualizzazione e degenerazione
retorica, che rischiano di condurre le stesse democrazie a sistemi vuoti. Tale degenerazione ha cause
diverse ma frequenti in sistemi di fine ciclo (capito?).  la gente perde fiducia nel metodo democratico;
perde la speranza di poter influire sui processi e di indurre qualsiasi cambiamento. La democrazia non è,
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infatti, un sistema perfetto: possono crearsi le condizioni per la tirannia della maggioranza. Già notato da
Aristotele.. si profilano rischi di degenerazione demagogica. Si registrano lobby e sistemi illegali, elite che
per mantenere il potere manipolano le masse e il consenso, società bloccate, ecc. Le istituzioni perdono il
senso e cominciano a funzionare in modo autoreferenziale. Tale effetto di degenerazione deriva da un
equivoco illuministico, cioè la convinzione che un sistema ben articolato possa automaticamente e
maccanicisticamente funzionare come una macchina perfetta. In realtà qualsiasi organismo è soggetto alle
leggi della decadenza (“il potere corrompe”) e i sistemi degenerano, le elite si fanno tiranniche e il lavoro si
trasforma in ricerca di rendite di posizione, arrivando alla paralisi dell’intero sistema. Si rende impossibile
l’applicazione di un criterio di accountability: principale limite del funzionamento dei sistemi democratici  gli attori perdono un’idea del bene comune e cominciano a scaricare i costi delle proprie azioni su
qualcun altro, rendendo impossibile l’applicazione di un criterio di distribuzione di responsabilità. L’unica
garanzia per il funzionamento della democrazia resta l’impegno dei cittadini, il funzionamento della società
civile. Vanno periodicamente rinnovati.
Il limite della domanda: crisi da sovrabbondanza e saturazione
Le scorie più inquietanti sono forse quelle di tipo culturale derivanti da una situazione di sovrabbondanza
che induce ad una cultura dello spreco e dell’indifferenza. La definizione esclusivamente quantitativa del
progresso ha condotto qualsiasi possibilità di miglioramento al soddisfacimento dei bisogni materiali
dell’individuo e della società. Si è passati da un’economia della quantità a una della qualità con il
riposizionamento della soglia della necessità oltre il livello dei servizi di tipo primario. La domanda comincia
a diventare qualcosa di più sfumato: economia della scelta che significa ricerca del meglio piuttosto che del
consumo indiscriminato. L’evoluzione è stata determinata, in parte, da una tendenza spontanea delle
imprese che, costrette dalla competition, devono inventare nuovi mercati e forzare i consumi con politiche
promozionali. Il consumismo, cioè il consumo fine a se stesso, può produrre gravi danni in qualsiasi
contesto.
La rivoluzione anti materiale
Piuttosto che di crisi di domanda in generale, si parla di crisi della domanda di cose materiali ed evoluzione
della domanda verso consumi e servizi qualitativamente più elaborati.  spostamento del mercato verso
segmenti più pregiati caratterizzati da maggiore valore per unità di prodotto. La domanda tende a spostarsi
su risorse immateriali (qualità ambiente, paesaggio, vita sociale e culturale) per le quali è più difficile
stabilire modalità di consumo e per le quali sono ipotizzabili consumi e disponibilità tendenzialmente
illimitati. Trasformazione paradigmatica e nuova definizione di valore che sconvolgono il paradigma
produttivista.
Limiti da assuefazione
La parabola di crescita si conclude in modo paradossale con la costruzione di una società dell’abbondanza e
del superfluo. Tale evoluzione porta a diverse reazioni: aspettativa di maggiore integrazione della massa
nelle istituzioni, democratizzazione, ecc. Un limite, dunque, che porta all’esaurimento delle motivazioni. Il
motore della crescita che si riteneva inesauribile sembra incepparsi di fronte a quella che sembra assumere
le forme idi una ribellione anticonsumistica. Evoluzione maltusiana che provoca la crisi di un sistema che
sembrava aver trovato un suo equilibrio, che sembrava in grado di poter riprodurre periodicamente
qualsiasi domanda e offerta, ecc. gli operatori confidavano nella ciclicità crisi/riprese anche a livello
territoriale con periodiche differenziazioni tra mercati, centri e periferie che si riposizionano. Tale quadro di
ciclicità, alla fine della modernità, sembra indebolirsi mostrando i segni di una crisi: le forze del mercato
raggiungono un limite e il ritmo della crescita e dell’innovazione sembra rallentare ed interrompersi. Un
fenomeno incomprensibile che è dettato dalla combinazione di effetti inconciliabili in teoria: inflazione e
stagnazione e che significa al contempo crescita dei prezzi sovrapproduzione, disoccupazione e domanda di
manodopera, sprechi e carenze. Una crisi contraddittoria che sorprende analisti e operatori.
La deregulation: un fenomeno post-moderno
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Ci si incanala in un vicolo cieco cui solo con il tempo la teoria economica e la prassi politica riusciranno a
dare una risposta maturando una consapevolezza verso le forme di limite. Un’impresa, pur in buone
condizioni di mercato, si trova a rinunciare ad investire e crescere a causa di fenomeni di eccesso di
burocrazia e di costi impropri che ne frenano l’iniziativa. Possiamo definirla una crisi delle ciclicità
prevedibili che diffonde sul lungo termine lo spettro della decadenza e della recessione, con la paura di
regredire in un nuovo medioevo. Il problema per i decisori è ora quello di far funzionare il circuito trovando
qualcosa che possa motivare investitori e consumatori. Il lavoro del decisore diventa non tanto regolare
quantità di moneta ed elaborare politiche ma piuttosto inventare qualche cosa per favorire l’innovazione,
per non lasciare che il gioco della domanda e della offerta si esaurisca.
La società dell’abbondanza e la crisi del modello razionalista
La crisi si diffonde anche nello strato più profondo del complesso motivazionale di individui e società.
Superata la soglia di necessità si profilano i segni di una mutazione epocale: la vita diventa un gioco dove
c’è abbondanza di tutto. Il nuovo scenario cambia le ragioni della scelta con modelli di comportamento che
perdono significato. Mentre in epoca di modernità l’ordine delle preferenze dei consumatori appariva in
termini schematici e definiti da target precisi ora si evolve e si sfuma. Non è una questione di quantità o
qualità, ma una di sequenza di necessità immaginate come realizzabili e desiderabili. Salto logico tra
interesse particolare e collettivo che costituisce il primo problema della politica di tutte le epoche e che nel
postmoderno diventa emblema di una nuova civiltà dell’incertezza.
La confutazione della teoria dell’azione razionale
L’incertezza si diffonde alle varie sfere dell’azione sociale e porta alla confutazione del principio della
linearità dei comportamenti: in una società del superfluo, individui e popolazioni tendono ad assumere
comportamenti meno prevedibili e meno logici. Motivazioni + vaghe e poco concrete. L’evoluzione porta
allo sconvolgimento di un ordine di priorità in epoca post consumistica è difficile che qualcuno decida di
lavorare di più, ci si accontenta pur di risparmiare quote di tempo libero da dedicare ad altre attività. Si
parla di dilemma del prigioniero, smentendo la teoria dell’azione razionale: gli individui della società
dell’opulenza tendono a non organizzare la propria azione in modo consequenziale ma in base a valutazioni
parziali e a strategie che possono apparire addirittura antirazionali. Non si negano a priori le ragioni della
razionalità, ma si assume una scala di motivazioni diverse. Viene riconsiderata la categoria della razionalità
e del comportamento razionale nel contesto di una nuova società del superfluo e della scelta caratterizzata
da comportamenti a volte contraddittori. Nuove idee di razionalità imperfetta o “limitata”. Tali piani di
razionalità sono confermati, in geografia, dalla esatta corrispondenza nel principio della diversificazione per
scala, a ciascuna delle quali corrisponderebbero schemi di razionalità diversi e a volte inconciliabili  ciò
che è razionale a una scala può diventare del tutto irrazionale a un’altra scala.
CAPITOLO XXXII – La crisi del comunismo sovietico
Il mondo parallelo all’Occidente: il fallimento del comunismo
La crisi della modernità produce effetti a scala di sistema: l’occidente sembra in grado di controllarli, in altri
casi si generano effetti distruttivi (Terzo Mondo e paesi della Riv. Comunista). Dopo la crisi dei primi anni 70
l’occidente pluralista si risolleva riformandosi, mentre i monoliti dell’est comunista semplicemente crollano
 incapacità di produrre meccanismi di autoregolazione e impossibilità di elaborare meccanismi di
comunicazione efficiente all’interno del sistema. Le elite si arroccano in nomenclature che diventano in
breve del tutto irresponsabili verso le stesse società che si propongono di governare, autoescludendosi da
qualsiasi contesto più vasto. Nei tardi anni 70 l’Urss tenta una riconversione ma ormai la crisi era troppo
avanzata... il tentativo si svolge in un quadro di finzione. La patria del comunismo regredisce in una
condizione più simile a quella di un paese del terzo mondo, dipendente di fatto dalle economie del
capitalismo.
La geografia del sovietismo
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La crisi di questo paradigma deriva da una serie di premesse errate e da una definizione di pianificazione
tanto gerarchica da apparire deterministica che si rivela inconsistente nella realtà pratica considerando la
programmazione uno strumento perfetto. Un sistema fortemente centralizzato che degenera in un modello
burocratico incapace di percepire qualsiasi segnale dalla società, organizzato per blocchi territoriali e
produttivi non adattabili. Geografia caratteristica di integrazione centro e periferie  l’esempio di
ristrutturazione economico territoriale più vasta mai realizzata nella storia. Progetto di economia
pianificata che si proponeva di sostituire al mercato e alle sue funzioni un sistema centralisticamente
indotto. Modello costituito dalla combinazione di industrializzazione modernista e autoritarismo;
politicamente da imposizione di un modello collettivistico. Tutto ciò si traduce in una condizione di
totalitarismo  intera superficie dell’unione sovietica come enorme macchina territoriale. (attenzione
state per assistere a un momento di altissimo spessore letterario). Modello che coniugava la fede nella
tecnologia a una serie di imprese gigantesche, gigantomaniache e straordinariamente inefficienti. (Sbam!)
Un quadro nel quale il mercato e tutta la società vengono ricostruiti sulla base di un’ingegneria sociale e da
un flusso di comandi dal centro alla periferia.  sistema di pianificazione e di regolazioni
centralisticamente indotte.
L’urbanistica sovietica
Progetto realizzato sulla base di un’ideologia materialistica che recepisce urbanistica e geografia come
strumenti per indurre in modo deterministico una certa organizzazione sociale e una certa cultura. Città
sovietica simmetrie, spazi, distanze, volumi, senso di impotenza e dipendenza assoluta. Organizzazione di
un sistema di mobilità collettiva e limitazione della mobilità privata. Si crea una città fortezza/prigione che
porta alla formazione di un universo concentrazionario di città gulag.
La crisi ambientale
Progressivo deterioramento delle condizioni ecologiche con danni per popolazioni e culture native e intere
superfici devastate a causa di un uso improvvido di tecnologia modernista. Quadro di rovine e
infrastrutture inservibili. Variazioni climatiche e contaminazioni da estrazione (es. Siberia).
Eresia di Occidente o reazione alla modernità?
Il sistema sovietico, assumendo caratteristiche paradossali, diventa presto oggetto di interpretazioni che
tentano di definirlo. Si parte dalla definizione come eresia dell’occidente fino a visioni de comunismo come
reazione a un modello individualistico tipico delle modernità. Oppure anche semplice e strumentale uso di
ideologie populistiche. In realtà: comunismo sovietico  fenomeno complesso tanto di aspirazione
modernista quanto reazione al capitalismo aziendalistica. Tentativo di applicare un criterio di
organizzazione industriale a qualsiasi scala e tendenza per l’industria pesante a imporre il proprio modello
organizzativo. Recupero di un’ideologia anti impresa che persegue l’annullamento dell’idea di profillo
proponendo l’idea di impresa pubblica funzionale alla realizzazione delle politiche pianificatorie. Niente,
però, può sostituire la dinamica del libero mercato e della società aperta: uno sviluppo senza il pluralismo
non può che evolversi verso qualcosa di inefficiente e mostruoso.
Un sistema incapace di sviluppare governance
In un sistema di questo tipo decisori e controllori di sistema non possono individuare e riparare errori che
non possono quindi che accumularsi e aggravarsi. Il grande dittatore (il partito unico) non vuole e non può
evitare gli errori di governo, illudendosi di risolvere le varie questioni semplicemente imponendo una
volontà politica. La geografia economica perfetta porta inevitabilmente alla catastrofe facendo degenerare
il sistema in una classe di privilegiati che non considera l’economia come un fenomeno soggetto ad
andamenti congiunturali o strutturali. Viene fatta della tecnica pianificatoria una politica di repressione  il
sistema si rivela incapace di assimilare qualsiasi innovazione indebolendosi fino a cadere + incapacità della
dittatura di assimilare l’innovazione e controllare una tecnologia post fordista che tende strutturalmente a
liberalizzare comportamenti e opinioni...
Forza delle idee e fragilità degli imperi
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Anche a livello di istanze politiche, culturali, demografiche e ambientali l’”impero sovietico” si rivela
incapace di capire che cosa stesse succedendo. Solo pochi riescono a comprendere tale degenerazione fino
a prevedere e ipotizzare il crollo del sistema. Ciò dimostra ancora una volta la precarietà della teoria della
civiltà o città ideale: conduce inevitabilmente a un’involuzione autocratica. Nello stesso momento in cui
diventa un’imposizione, l’ideologia, intesa come progetto politico organico, avvia un’evoluzione che porta
alla negazione stessa delle sue caratteristiche ideali finendo per originare una città fortezza/caserma.
Sistemi ideati e imposti dall’altro non possono che originare qualcosa di fragile, perdendo presto l’appoggio
di qualsiasi società civile e la possibilità di riformarsi. Maggiori sono centralizzazione e integrazione, più si
sviluppano curve di redditività, maggiore è la vulnerabilità della struttura a qualsiasi forma di rischio però.
Emblema degli imperi e delle civiltà della storia, che non riescono ad adeguarsi ai cambiamenti e crollano
senza lasciar traccia.
La fine della modernità tra Oriente e Occidente
I problemi dell’est per un certo verso sono paralleli a quelli dell’ovest  i problemi di un sistema di fine
ciclo (e ri-ridaje..) che si imbatte in tutta una serie di limiti. Mentre l’Urss sembra inconsapevole di questi
limiti, i paesi dell’ovest pluralista riescono ad adattarsi e a superare la crisi. Utilizzano gli strumenti tipici di
una società aperta con flussi di informazioni che percorrono il sistema dalla base ai vertici, dalle periferie al
centro. Circuiti di feedback, impulsi direttamente dalla società e dalle varie forme in cui l’azione collettiva si
esprime. Si producono idee e rivendicazioni, prima per slogan e ideologie bizzarre, poi con norme. Effetto
complessivo di auto aggiustamento del sistema. Fatto che dimostra come la sopravvivenza a lungo termine
di un sistema risieda nella sua capacità di generare dialogo considerando opposizione e libertà di
espressione come elementi di iniziativa dialettica e costruttiva.
CAPITOLO XXXIII – La geografia economica della globalizzazione
Verso una definizione di post modernità
Nessun sistema è sufficiente a regolare se stesso e nessuna organizzazione può dotarsi autonomamente di
tutte le regole necessarie per il proprio funzionamento. Nessun sistema è infatti in grado di valutare
oggettivamente le proprie azioni. Aspetto problematico per i sistemi aperti che non sembrano in grado di
assumere le decisioni necessarie in tempi opportuni. Per le democrazie della tarda o della post modernità si
assiste ad un esaurimento della teleologia (valori, motivazioni, potenziale). La realtà post moderna e post
industriale non sembra in grado di offrire riferimenti e obiettivi per popolazioni e governi. Nuova cultura
della frammentazione che significa difficoltà ad organizzare qualsiasi cosa e politica. Quindi difficoltà in un
contesto di crisi a spiegare cosa sia sviluppo. Si riconsidera l’intera politica territoriale come rapporto tra
natura e cultura, con nuovi principi di organizzazione per la produzione, urbanistica e funzioni individuali e
collettive  si apre un vuoto ideologico e politico, premessa per l’elaborazione di un modello di
governance anti-gerarchica, di dissoluzione di un principio di autorità e premessa per l’evoluzione verso
nuovi autoritarismi.
Tra post moderno e globalizzazione: una nuova geografia
La trasformazione fa da premessa al cambiamento paradigmatico della globalizzazione, indotta
direttamente da innovazioni tecnologiche (miglioramento mobilità materiale e immateriale, annullamento
distanze), serie di eventi di ordine geografico politico e altri fattori culturali e materiali. Tali processi
implicano una nuova riconversione del sistema dei contri e delle periferie con l’affermazione di una nuova
geografia economica, di un’ulteriore liberalizzazione dei mercati ecc.  tendenza alla deterritorializzazione.
Ciò induce a nuove ondate e flussi di migrazione che assumono forme diversificate  o da terzo mondo o
per sviluppi tecnologici (pendolarismo ad ampio raggio), ecc. contesto di mobilità pervasiva, caratteristica
della nuova civiltà, che coinvolge masse di singoli individui, associazioni no profit, organizzazioni
internazionali, imprese e turisti fino ad indurre un’ulteriore internazionalizzazione.
La rivoluzione dei trasporti
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Per imprese e mercati comporta l’allungamento delle reti organizzative, premessa per un aumento
illimitato del range delle attività. (segue inutile serie di esempi di mezzi di trasporto: pag 521 – 522 edizione
2012, per i più volenterosi).
Il paradigma tecnologico antifordista
Trasformazione paradigmatica dei modelli organizzativi. Piuttosto che i consueti strumenti della
pianificazione produttiva, urbanistica o finanziaria, cominciano a essere utilizzati criteri contrari di
flessibilità, pianificazione strategica, ecc. Strategia di aggiustamenti progressivi che cambia la stessa
definizione di organizzazione. Il modo di gestire, da rigidamente fordista, diventa flessibile e adattabile.
Ridefinizione delle politiche con modi e comportamenti che cambiano fino a mettere in crisi aziende,
individui e istituzioni. Ma l’uso della tecnologia e dell’elettronica non determina la qualità
dell’organizzazione: anzi, è la dimostrazione della difficoltà di elaborare una pianificazione efficiente. È un
paradosso della post modernità che provoca la crisi della geografia quantitativa, in quanto mostra come lo
stesso uso pervasivo della tecnologia digitale non possa superare certe soglie e non possa risolvere
qualsiasi problema rendendolo operazionalizzabile. Confutazione della presunzione scientista che rende
evidente il fatto che neppure il computer può portare alla soluzione definitiva dei problemi della geografia
e dell’intera umanità. È un prezioso strumento di supporto e di rilevamento ma non per le fasi del
procedimento cognitivo e decisionale.
Indebolimento delle funzioni del coordinamento e competizione tra territori
La disponibilità di nuove tecnologie ha effetti a qualsiasi scala, generando un indebolimento del nesso tra
attività umana e territorio nonché lo sradicamento di attività e culture, con la trasformazione dell’identità
in genere. Fenomeno combinato alla de materializzazione dell’economia e all’indebolimento delle strutture
geografico politiche (stato nazione, industria pesante, ecc). Il processo di de istituzionalizzazione genera
nuovi scenari, nuove categorie e nuove rappresentazioni, nonché nuovi modi sociali senza una precisa
consistenza, passando a modi organizzativi elementari e frammentari con la scomparsa di riferimenti fino
ad allora considerati definitivi. Viene spostato l’asse della competition dai sistemi statali a una dimensione
trasversale e a territori interni ai perimetri statali. Si genera un fenomeno di competizione tra territori in
grado di sconvolgere i principi del welfare. L’apertura in cui si ritrovano i sistemi locali costringe gli stessi
sistemi ad accettare il confronto con economie e culture diverse. È tanto un’opportunità quanto un rischio.
Si evidenziano le inefficienze locali generando effetti e reazioni.
La pianificazione “post-mod”
Si commissionano geografie locali e globali, regionali e nazionali, con una serie di effetti caratteristici a
livello urbano e interurbano.  accelerazione della mobilità di qualsiasi tipo che accentua i processi di
ristrutturazione avviando una riconversione degli schemi insediativi caratteristici della modernità. Si
sviluppa una zonizzazione efficace che distingue tra centri urbani, residenziali, turistici, industriali,
infrastrutture e aree periferiche di riserva di natura. Classificazione rigida che attribuisce a qualsiasi
funzione un territorio e viceversa. In un contesto posto moderno la pianificazione cambia strategia e senso,
cambia addirittura l’oggetto della pianificazione. Le strutture da collocare sul territorio diventano meno
impattanti tanto da far venire meno le ragioni stesse di un’organizzazione rigida. La conseguenza è un
effetto di confusione con assetti in continuo rimescolamento tra quartieri ricchi che si degradano poi si
riqualificano e aree povere che assumono un ruolo tributario e zone miste. Commistione tra urbano e
rurale rurban.  ricomposizione della frattura primordiale tra centro e periferia.
Un nuovo nomadismo
L’accelerazione e la riconversione continua di categorie di vita contraddistinguono questa nuova fase.
Funzioni individuali, collettive, politiche ed economiche subiscono processi di sdoppiamento e
moltiplicazione che non richiedono permanenza continuativa dell’individuo e dell’impresa in una sede fissa.
Gli strati sociali sviluppano un genere di vita nomade elaborando nuovi comportamenti. Le ragioni
dell’insediamento tendono dunque a cambiare. La residenza non è più un marchio ma una scelta da
adottare in un contesto di precarizzazione complessiva degli stili di vita. Ciò vale per i privati e per le
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aziende. Si ricerca un’ “amenity” che diventa una delle motivazioni principali per la scelta localizzativa
continua ricerca di migliore qualità dell’ambiente, migliori condizioni fiscali e migliori servizi.
Un welfare obsoleto
Quanto detto richiede qualità del territorio su ogni piano: servizi, cultura sociale e tecnologia. Si formano
nuove cittadelle di amenità, per insediamenti di privilegiati accanto ai quali continuando a persistere
quartieri poveri di immigrati e loosers locali. presupposti per nuove asimmetrie che riaprono la questione
degli standard di tutela sociale i nuovi poveri del primo mondo sono collocati in categorie non più
protette da un welfare obsoleto e troppo rigido ormai insostenibile. Nuove povertà e nuove carenze che
tendono, dunque, ad essere invisibili. Le fasce di middle class per mantenere uno stato continuano a
identificarsi in simbologie di tipo medio, mimetizzandosi nel contesto sociale e generando contraddizioni. Si
rende necessaria l’elaborazione di un nuovo principio di organizzazione per lo stato sociale che deve
continuamente trasformarsi se vuole mantenere efficienze e rispondere a nuove necessità, a fronte di una
mappa di periferie e segmenti deboli in continua trasformazione.
L’economia industriale post moderna
In epoca industriale la fabbrica non scompare ma si trasforma in modo da risultare irriconoscibile. Le curve
di economie di scala si invertono provocando la frammentazione di interi cicli produttivi.  modi
organizzativi nuovi che perseguono una maggiore flessibilità e volatilità con dispersione sul territorio e
sviluppo in settori meno pesanti. Il modo di produzione si fa più leggero e più accessibile, di tipo “user
friendly”. Ciò si traduce in un vantaggio competitivo per le PMI rispetto alle grandi imprese che possono
così ridurre ed annullare le barriere all’entrata per interi settori produttivi. L’industria tipica del post
industriale sembra piuttosto un laboratorio. L’unita produttiva tipo tende a destrutturarsi, a ridursi in
dimensioni, a riorganizzare il personale in contratti a tempo determinato o a progetto.
Flessibilità e opzioni di delocalizzazione
Tale tendenza delinea una tattica di organizzazione aziendale volta a migliorare in flessibilità e capacità di
deterritorializzazione  possibilità di decidere all’occorrenza se trasferire stabilimenti o trasferirsi in toto in
altre aree. Strumento usato per difendersi dalle pubbliche amministrazioni aggressive, dal peggioramento
della struttura, ecc. l’azienda “post-mod” può muoversi ovunque rendendo vani gli sforzi di controllo di cui
l’apparato statale amministrativo dispone. Complessiva riconversione con aziende manifatturiere che
cercano di attrezzarsi in modo tale da poter in qualsiasi momento esternalizzare, integrare o disintegrare in
senso verticale e orizzontale la catena di produzione.  affermazione di un nuovo tipo di imprese
scollegate dalla realtà locale che sanno all’occorrenza rendersi invisibili e inafferrabili. L’impresa
dell’ambiente globale deve saper cogliere le opportunità restando flessibile, per non subire il mercato e le
sue trasformazioni, per essere in grado di prevenirle ed adeguarvisi.
La fabbrica del post industriale: le funzioni trasportabili
Difficile dire quale sia l’industria prevalente nell’era postindustriale ne tantomeno si può capire quali siano
le tendenze della localizzazione. I processi di deindustrializzazione devono avere però un limite altrimenti
rischiano di pregiudicare l’efficienza del sistema complessivo. Ricerca di base e innovazione: perseguibile
solo in stabilimenti di tipo pesante. Si registrano anche produzioni intrasportabili che devono realizzarsi in
ambito metropolitano. Anche per funzioni definite come territoriali non è possibile la delocalizzazione:
industria delle infrastrutture, del’impiantistica, ecc. una società ed un’economia troppo frammentate
basate unicamente su settori leggeri e PMI rischiano di apparire, seppur molto produttive, nel complesso
fragili e inadeguate.
Un’industria meno impattante: il consumo di spazio
L’evoluzione tecnologica e organizzativa prospetta nuovi scenari di compatibilità ambientali e nuove
possibilità per l’industria pesante. Lo stabilimento industriale post moderno sembra utilizzare meno spazio
e meno risorse ambientali, meno energia per unità prodotta e sembra produrre meno impatti. All’estremo
si può ipotizzare un’industria a zero impatti. Ciò porterebbe a un forte riflusso di industria dai paesi in via di
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sviluppo dove gli impianti una volta impattanti e pericolosi erano stati e vengono tuttora de localizzati. Per
il momento comunque è solo un’ipotesi. La grande industria necessità comunque di grandi spazi, magazzini,
ecc. piuttosto che quello del minor consumo di spazio sembra che prevalga il principio dell’industria che
consuma tutto lo spazio che ha a disposizione (teoria dell’illimitatezza dei consumi delle aziende). Non
esiste una relazione fissa tra produzione, modello industriale e consumo di risorse, in realtà. L’impatto
dell’industria sembra derivare dalla capacità gestionale che caratterizza il territorio in cui la stessa industria
si trova ad operare. L’industria del futuro dipenderà dall’efficacia del sistema in cui opera, dall’accessibilità
di tecnologie, dalla validità del modello urbanistico e dalla disponibilità di infrastrutture per la logistica.
Il territorio post industriale
L’efficienza del sistema territoriale comporta un fattore di sviluppo e di efficienza per le imprese. Un
territorio efficiente attira economia, mentre uno degradato e congestionato, respinge le imprese e tende
ad impoverirsi sempre di più. L’efficienza territoriale è un elemento fondamentale per perseguire sviluppo
al di là della tipologia delle nuove fabbriche post industriali.
CAPITOLO XXXVI – Globalizzazione ed erosione delle funzioni statali
Un nuovo contesto per la teoria geografica e politica
Man mano che la modernità mette a disposizione della società strumenti e tecnologie più potenti, le teorie
classiche sull’origine dello stato e della politica perdono significato. I nuovi strumenti sembrano portare
l’umanità a governare e controllare direttamente le variabili della natura, elaborando tecniche per superare
i condizionamenti ambientali e i limiti del territorio, che in altre epoche avevano influito nella
determinazione delle forme dello stato e delle varie organizzazioni umane. Anche le categorie che nella
storia sono state alla base della formazione di teoria e prassi di politica economica subiscono la
trasformazione. Es. teoria sulla cessione originaria del potere e concetti come ragione di stato.
Nell’economia si passa a post consumismo e deterritorializzazione, come già visto. Tutto ciò conduce a un
interrogativo su quale sarà la forma territoriale dei fenomeni politici ed economici nel prossimo futuro,
verso quale modello di vita ci stiamo evolvendo.
Il recupero della geopolitica
La teoria geografico politica riemerge in questo scenario alla fine del blocco bipolare. I singoli stati
recuperano le proprie prerogative ricominciando a fare politica estera. Le discipline della geopolitica
assumono nuovamente un ruolo e diventano nella pubblicistica sinonimo di politica internazionale: nuova
necessitò di sapere geografico per capire quali possano essere i nuovi flussi di politica, la scala delle
aggregazioni o la dimensione dei nuovi mercati. Si vuole comprendere il verso dei fenomeni in un revival
della geopolitica con stati che recuperano le funzioni della sovranità. Stati che però appaiono appesantiti da
debito pubblico e scorie di tutti i tipi e comprendono resto come il fatto di elaborare e perseguire una
geopolitica sia un affare estremamente complicato che richiede investimenti e interventi su vasta scala ma
anche un apparato amministrativo efficiente e qualificato. L’individuazione di una direttrice appare allora
come qualcosa di velleitario. Situazione in cui tutti parlano di geopolitica ma essa si trova carente di
definizioni e metodo. Scenario dove può essere utile rileggere e riconsiderare la sequenza delle idee che si
sono di volta in volta affermate per considerare le opzioni e le teorie attuali. Difficoltà caratteristica per la
geografia politica di riconoscere catene causali e distinguere tra le diverse variabili. Il fallimento della
geopolitica avrebbe conseguenze disastrose degenerando in uno scenario di scontri come è spesso
successo in passato.
Uno scenario di moltiplicazione di guerre
L’evoluzione verso la globalizzazione induce effetti controversi con un complessivo effetti di frenesia, una
proliferazione di crisi e di conflitti all’interno e all’esterno degli stati, nel quadro di un superamento delle
barriere tra politica interna ed esterna. Proliferano tensioni che assumono forme consuete come dispute di
confine, recupero di motivazioni primordiali di conflitti etno nazionali, tribali e religiosi, oppure
mantengono una caratterizzazione meno evidente e più complessa. Conflitti che mostrano anche una
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tendenza a ricodificarsi cambiando in corsa significati e modalità.  scenario di moltiplicazione di guerre
che sembra caratterizzare l’epoca immediatamente successiva alla fine della guerra fredda che, secondo
alcune teorie, sarebbe indotto dalla disponibilità su vasta scala di armi leggere. Diffusione, inoltre, delle
modalità della guerra perfetta, cioè senza vittime. La guerra resta qualcosa di complesso che si manifesta
come conseguenza di altri conflitti, come confusione di elementi di tipo materiale e immateriale in un
contesto di escalation e tensioni a volte impossibili da riconoscere. Fenomeno impossibile da comprendere
con teorie di tipo riduzioni stico.
Una teoria post-moderna della guerra
La possibilità di fare o non fare la guerra significa un’opzione di base che ha conseguenze su qualsiasi
politica a qualsiasi scala e induce un certo modo di fare politica e gestire lo stato. Ciò condiziona e
determina la teleologia stessa dello stato che, a seconda di questa opzione, tende a prepararsi e a dotarsi di
apparati e di codici atti a produrre forza o limitare il ricorso alla violenza. Paradosso dell’attuale teoria
geografica e politica: minimizzare il ricorso alla violenza distruttiva elaborando e proponendo forme
alternative di dialogo. L’opzione sopra descritta caratterizza i millenni della politica umana in un
ininterrotto tentativo da parte dello stato di concentrare su di sé il monopolio dell’uso della forza e degli
strumenti che di volta in volta possono essere usati. La stessa elaborazione di una teoria della guerra
sembra indurre direttamente una teoria dello stato. Tale teoria subisce continui adattamenti e
trasformazioni. In epoca di modernità l’equazione tra disponibilità di territorio e possibilità di sopravvivenza
sfuma assumendo nuovi significati di tipo ideologico. Nel passaggio al post moderno si ha lo spunto per u
ulteriore sviluppo della teoria della politica e della guerra che sembra perdere qualsiasi dimensione
territoriale.
Classificazione dei conflitti: cause e relazione di causalità
Elaborazione di una nuova metodologia per studiare i conflitti tramite varie fasi:
- Definizione dello scenario
- Definizione degli attori e dei loro interessi
- Strumenti utilizzati
- Quadro teleologico dei valori che gli attori adottano
- Individuazione del nesso causale che caratterizza i fatti
L’ultimo aspetto è quello decisivo per comprendere le cause di un conflitto e cercare di risolverlo. Si
distinguono diverse cause:
- Immanenti e remote
- Insider (intrinseche) e outsider (esterne) alla guerra
- Dirette o indirette
La teoria geopolitica individua anche una serie di ulteriori elementi come il tipo di fronte, la durata, le
regole di conduzione, le modalità di avvio, ecc. tutto al fine di comprendere le motivazioni reali e fittizie alla
base di un conflitto cercando di evitare gli effetti di escalation.
Classificazione dei conflitti: fenomenologia del conflitto
A seconda dell’atteggiamento e delle circostanze, a volte la guerra preventiva può significare l’unica
possibilità per gli stati che non ritengono di potersi difendere, in altri casi sfide cavalleresche senza senso o
ancora maschere di crisi interne. L’esercizio di classificazione può assumere alla base l’oggetto del
contendere cioè il target apparente e dichiarato. Il territorio inteso come strumento per la produzione di
mezzi di sopravvivenza ha però da tempo smesso di rappresentare un target legittimo. Un altro esercizio di
classificazione assume il metodo e la strumentazione con cui una guerra viene condotta, il “warfare”
(umanitario, distruzione di infrastrutture, ecc). sebbene la letteratura abbondi di definizioni e
nomenclature, l’esercizio della classificazione resta quasi sempre vano. Alla base di tutto c’è una distinzione
essenziale che definisce la stessa idea del conflitto come categoria particolare di una categoria più vasta
dell’azione umana.
Il principio dell’inviolabilità dei confini e il diritto all’autodeterminazione
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Lo scenario della confusione globale induce una complessiva mobilitazione di fattori politici, configurando il
rischio della destabilizzazione a vari livelli. Ciò implica una crisi e un superamento di una serie di tabù
geopolitici degli anni della guerra fredda. Il tabù deriva dalla consapevolezza che il territorio è da sempre la
prima causa dei conflitti e le rivalità territoriali rischiano da sempre di degenerare in uno scontro bellico. Da
lì nasce il concetto di inviolabilità dei confini che mantiene consistenza per tutta l’epoca dello scenario
bipolare, a discapito del diritto all’autodeterminazione che era stato sacrificato in nome di un più generale
principio di stabilità internazionale.
Un nuovo scenario senza confini e senza stati
Le nuove motivazioni e le nuove forme di legittimazione all’interno di uno scenario tendenzialmente senza
confini, possono essere elementi di rischio. Queste aperture che danno nuovo impulso all’economia e al
commercio, dal punto di vista della politica internazionale hanno effetti contradditori con tensioni e
rivendicazionismi. Accelerazione delle realtà complessive a scala di sistema che crea le premesse per una
maggiore integrazione e una situazione di competizione e conflittualità diffuse. Le tensioni a volte si
manifestano in forme non convenzionali o indefinibili al punto che molti tra i conflitti successivi allo
scenario bipolare sembrano essere dei conflitti civili interni agli stati. Dopo il disgelo e il bipolarismo sembra
affermarsi una nuova teoria territoriale con confini che semplicemente tendono a riprodursi in altre forme
e altre dimensioni a volte in modo trasversale alle stesse nazioni e agli stessi stati territoriali. La
cancellazione dei confini statali materiali non significa l’annullamento di qualsiasi confine. La categoria del
confine tende a ricodificarsi per svolgere la funzione che da sempre svolge e deve svolgere di regolazione di
differenziali di sviluppo, definizione di interesse e mitigazione di tensioni.
Nuovi valori e nuovi strumenti di legittimazione
Tale scenario lascia immaginare la crisi dell’organizzazione statuale e delle sue funzioni quali quella
prioritaria sulla quale lo stato nazione aveva costruito la base della sua legittimazione la sicurezza. La
destrutturazione statuale significa una serie di effetti imprevedibili in uno scenario di globalizzazione che
resta anarchico, senza una fora sovraordinata che possa garantire il rispetto di qualsiasi regola. Uno
scenario dove agiscono realtà statuali sempre più deboli e che deve recuperare standard e valori nonché
procedure di regolazione. Un processo faticoso che in epoca di tarda modernità si traduce
nell’affermazione di una serie di principi statuiti in genere da organizzazioni internazionali con aspirazione
universalistica. Tra questi affermazione di un principio che tende a far ritenere accettabili solo i
comportamenti non violenti e come criterio di legittimazione principale: dimostrazione della capacità di
funzionare e gestire pacificamente e democraticamente i vari problemi e le varie transizioni. Diverse
situazioni mettono in evidenza il carattere critico che il confine mantiene a qualsiasi scala, semplicemente
in quanto luogo fisico che mette in evidenza la diversità e la necessità di gestire le varie diversità e linee di
frattura che caratterizzano inevitabilmente la società umana nelle sue varie evoluzioni.
Un principio della minimizzazione della violenza
I principi di minimizzazione della violenza e massimizzazione della democraticità emergono in uno scenario
di contraddizioni ma tendono a consolidarsi nella prassi delle relazioni internazionali. Ciò comporta il
riconoscimenti della capacità di funzionare democraticamente come unico strumento di legittimazione,
respingendo qualsiasi azione di tipo aggressivo o anche basata semplicemente sulla minaccia e su altri modi
di costrizione. Secondo tale principio l’uso politico della violenza creerebbe un effetto di delegittimazione
per chi ne fa uso. L’uso politico dello sterminio legittimerebbe l’intervento dall’esterno su un certo
scenario, definendo conseguentemente la guerra condotta da qualche coalizione internazionale come
giusta. Un fatto che la prassi dimostra realizzarsi in modo selettivo solo per alcuni scenari. La comunità
internazionale interviene solo laddove la situazione tattica non sia troppo sfavorevole, oppure laddove ci
siano rischi effettivi per la stabilità o dove si evidenziano interessi precisi e misurabili. Tale fatto pregiudica
la stessa rivendicazione di legittimità anche se tale principio appare ancora come un obiettivo piuttosto che
una realtà. Si condanna qualsiasi forma di predazione politico territoriale. La politica post moderna
evidenzia comunque molte contraddizioni e si esprime ancora in molti casi per fatti compiuti, per uso della
forza e della minaccia, utilizzando strumenti di pressione di varia natura, a volte con l’obiettivo di
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assecondare necessità di politica interna e di ricerca del consenso. Il contesto internazionale resta un
mondo senza legge basato sui principi della competizione ratzeliana di first arrived first served, nel quale
qualsiasi governo deve perseguire comunque principi di salvaguardia di prerogative e interessi anche a
discapito di principi generali.
Nuovi attori politici e governativi: l’azione trans- e inter- nazionale
Con l’affermazione di nuovi paradigmi del potere si diffondono nuove configurazioni di difficile definizione:
enti intermedi, scatole vuote, nuove forme di potere immateriale o nuove forme di associazioni tra stati e
altri soggetti. Ciò comporta la crisi dei vecchi attori geografico politici e l’affermazione di nuovi attori,
capaci di adattarsi alle mutazioni di scala indotte dalla globalizzazione. Le nuove configurazioni geografico
politiche derivano da nuove necessità di adattamento a scala regionale continentale, da accordi interstatali,
ecc. Nuove organizzazioni o nuove semplici espressioni geografiche che svolgono funzioni di coordinamento
per la sicurezza. A volte si tratta di associazioni che si sviluppano nel contesto universalistico e idealistico
dell’ONU e delle sue agenzie. Non c’è area continentale che non proponga qualche forma di collaborazione
pan regionale anche se non sempre tali associazioni riescono a sviluppare un’effettiva capacità restando
spesso ad una fase di dichiarazioni di intenti. Le tensioni dell’economia e della politica tendono a realizzarsi
in una nuova dimensione che i singoli stati non possono sperare in alcun modo di affrontare e si ritrovano
costretti a collegarsi in qualche modo, pena l’emarginazione.
La crisi dell’ONU e dell’universalismo moderno
Lo stato di epoca post bipolare recupera in capacità ma perde in compattezza dimostrando di essere
vulnerabile a fenomeni di erosione a vari livelli. Tale processo è complementare e in parte indotto, dalla
crisi delle istituzioni internazionali che si erano affermate in epoca di tarda modernità. (ONU)  istituzione
che si propone di creare le condizioni per il superamento della guerra e con essa di tutti i problemi connessi
ai conflitti e al sottosviluppo anche attraverso le sue agenzie, secondo un programma modernista per cui
per risolvere un problema si ritiene necessario e sufficiente istituire un’organizzazione e realizzare un
programma di investimenti. Progetto forse troppo ambizioso che sembra oggi essere giunto ala fine di un
ciclo. Le organizzazioni troppo complesse e articolate sono soggette al rischio di degenerare in qualche cosa
di autoreferenziale, impossibilitate a perseguire oltre i propri obiettivi. Tale evidenze rende necessario un
ripensamento dello strumento universalistico.
Caso di studio: l’Unione Europea, un unicum per la geografia politica
Formazione di uno stato: processo lungo e faticoso consistente in un itinerario di prove ed errori. Solo col
tempo si può capire se un nuovo soggetto geografico politico è in grado di acquisire la consistenza di una
vera e propria istituzione statuale dotata di capacità politica. Storia UE  Caso di studio perfetto di stato in
corso di formazione e consolidamento originato per volontaria cessione di sovranità da parte di stati
preesistenti. Essa sembra sviluppare attributi e capacità politiche sempre più rilevanti. Strategia del
passaggio dal materiale all’immateriale, dal primario al secondario al terziario.  Euroatom, CECA, ecc.
Strategie di integrazione deliberatamente perseguite che seguono un asse dal pratico al politico. Necessità
di un’integrazione strutturale dello scenario europeo che, come la geografica politica insegna, si presenta
nei termini di un’opzione binaria di collaborazione o conflitto senza possibilità intermedie. L’evoluzione di
tale scenario è soggetta a diverse interpretazioni non sempre coerenti: alcuni ipotizzano prospettive di
consolidamento di una fortezza europea, altri uno stato dimezzato incapace di sviluppare le funzioni della
politica oltre una certa soglia.
Aggregazioni su scala pan-regionale e proliferazione di nuovi stati
L’espressione geografica della UE sembra svolgere un ruolo complementare alla stessa erosione e alla
stessa crisi degli stati nazionali. Da un lato sembra svolgere una funzione di rescaling e adattamento ai
mercati e alla globalizzazione, dall’altro sembra poter svolgere un effetto di mitigazione. Un unicum che ha
la possibilità di riuscire dove analoghe organizzazioni hanno fallito. La situazione di fatto segnala delle
evoluzioni contraddittorie tanto che a volte la stessa erosione statuale sembra dare origine a un processo
non di aggregazione ma di formazione di nuovi stati che si autodefiniscono e assumono atteggiamenti
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propri di istituzioni sovrane. Ciò fa da sfondo a una tendenza della geopolitica contemporanea a
polverizzarsi e frammentarsi creando continuamente nuove confusioni.
CAPITOLO XXXVII – Attori non politici e nuove forme di politica
Nuovi attori non politici e non statali
L’evoluzione post statuale è parallela all’affermazione di un insieme di attori non istituzionalmente politici e
prospetta una vera e propria rivoluzione nelle relazioni a qualsiasi scala, con attori né statali né governativi
che assumono progressivamente funzioni e ruoli di tradizionale competenza di organismi dotati di
sovranità de statalizzazione e depoliticizzazione. Lo stato subisce un processo di erosione per le funzioni
che da sempre ne caratterizzavano l’esistenza. Fenomeno complementare alla formazione di organismi
sovranazionali e super statali del tutto caratteristica dell’epoca globale. Scenario che troverebbe riscontro
nel processo di unificazione europea, in organizzazioni di significato universalistico tipo ONU, in trattati,
ecc. Complessivo effetto di uniformizzazione cui contribuirebbero anche organizzazioni di tipo
particolaristico, seppur con altri obiettivi e su altre scale. Idem per universo di associazioni di tipo
privatistico aziendali, non profit assistenziali e culturali. + insieme di organizzazioni internazionali,
associazioni di volontariato, ecc. producono un effetto di ulteriore ridimensionamento dello stato e delle
sue istituzioni.
La global civil society e l’opinione pubblica
Evoluzione che fa da sfondo allo sviluppo di una nuova società e di un ceto caratteristico della cultura del
globale.  ceto medio globale  standardizzazione di stili di vita e rivendicazione di una serie di diritti e
ruoli nella politica e nell’economia. Una “global civil society” che tende a distinguersi dalle istituzioni
territoriali, sviluppa meccanismi di dialogo trasversali allo stato nazione e si riproduce in ambienti diversi
consolidando una cultura standardizzata fatta di brand e di mode. Una società globale che rischia di
diventare un corso estraneo alla realtà locale  premessa per una nuova contrapposizione ma anche per la
diffusione di un’ideologia universalistica.  nuova elite che configura un nuovo potere e un contrappeso
per le realtà statal nazionali. Evoluzione inevitabile che deriva da trasformazioni di tecnologia e di struttura
e crea le condizioni per una mobilità assoluta. Risorse immateriali e modelli culturali che fluiscono e si
propagano in tempo reale. Nascita di una nuova categoria in cui confluiscono gli attori sociali che si sono
affermati nei secoli della modernizzazione sulla scorta del consolidamento di un ceto borghese, definiti a
seconda dei casi opinione pubblica e società civile. Dimensione nel complesso difficile da conoscere e di
fatto impossibile da manipolare che si manifesta come egemonia culturale alle volte. Una nuova base
sociale, dunque, che svolge a seconda dei contesti un ruolo più o meno attivo partecipando o frenando le
politiche, oppure un ruolo di resistenza di fronte a innovazioni troppo rapide.
La città globale
La nuova civiltà di attività terziarie induce a un ambiente dinamico che si realizza in uno schema urbanistico
e geografico politico caratteristico.  realtà della città globale che assume funzioni “globali”: attività ad
alta intensità di conoscenza, scambi e relazioni, che utilizzano risorse ubiquitarie e immateriali. La città
cresce conseguentemente a una massiccia diffusione di ICT con la formazione di una cultura caratteristica
(e mi fermo qui per non scrivere “english” o “globish” come fa lui).  nuova categoria sociale composta in
varia misura da quote di popolazione locale globalizzata e da una comunità di stranieri importati che
sembrano seguire l’espansione di multinazionali e di organizzazioni internazionali profit e non profit. Si
tratta di una comunità culturalmente omogenea ma politicamente apolide le autorità locali devono
tenerne conto. Si configura una città aperta e accessibile  la global city appare a volte come un’isola
culturale di tipo globale in un corpo territoriale ancora molto nazionale  sviluppo per funzioni globali che
delinea uno spazio discontinuo dove ai nuclei di global city si alternano aree di arretratezza a volte tagliate
fuori da qualsiasi possibilità di integrazione col globale. Fatto abbastanza caratteristico per i paesi
emergenti dove l’apparizione di un contesto globale e frequentato da un’elite cosmopolita delinea
opportunità di collegamento con i mondi esterni alla realtà attuale.  questo fenomeno produce nuove
asimmetrie che possono manifestarsi in termini drammatici e che rischiano continuamente di degenerare
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in conflitto. Città dove l’elite delle global civil society vive a stretto contato ma isolata da immense
baraccopoli dove continua ad ammassarsi una popolazione di miserabili.
L’altra faccia della medaglia: la proliferazione di attori anti-statali
Il nuovo ambiente aperto prospetta nuove possibilità per tutti, anche per atti di tipo predatorio che
tendono a proliferare e mimetizzarsi in forme diverse con attori che sfruttano l’assenza di frontiere e le
possibilità della tecnologia della mobilità per sfuggire alle identificazioni.  organizzazioni criminali
tradizionali che escono dalle sfere di azione locali, mafie ecc. oppure fenomeni nuovi indotti dalla stessa
esplosione globale con forme tradizionali di criminalità che si sommano e si combinano a seconda delle
fonti e della pubblicistica, a mafie di tutti i tipi. A volte si tratta anche di forme di criminalità che derivano
direttamente dalla disgregazione connessa all’erosione delle stesse funzioni statali. Oppure è
l’indebolimento del welfare a creare situazioni di necessità e di cattivo funzionamento civile consentendo il
proliferare dell’economia illegale. Tutti segni di una dinamica sociale debole e che funziona al contrario. 
formazione di un vero e proprio antistato dove poteri eversivi riescono a infiltrarsi e appropriarsi dell’intero
apparato pubblico.
Una teoria territoriale della mafia
Tutte queste forme di criminalità si propagano oltre l’ambito locale dei “picciotti” e degli “uomini d’onore”
o “capobastone” appropriandosi di intere dinamiche di potere. Esse si diffondono in territori caratterizzati
da istituzioni sempre più deboli  ambiente senza confini e senza regole dove le attività criminali adattano
il modus operandi dedicandosi ad attività diverse e tipiche di quella scala.  una antisocietà che significa
riflusso a forme predatorie e che si presume possa diffondersi massicciamente in ambiente post moderno
dove codici, regole e sistemi di sicurezza appaiono scarsamente funzionanti.  nascita di una geografia
della mafia. Gli sviluppi recenti indicano come la criminalità organizzata tenda a diffondersi anche in aree
non originariamente interessate dal fenomeno.  le attività mafiose si ramificano fino a estendere il
controllo sul livello di base della politica, cioè il territorio, allestendo una sorta di stato alternativo e
guadagnando la con la minaccia e la lusinga la fiducia della società locale. Partiti, aziende, sindacati, enti
territoriali e altre categorie radicate sul territorio tendono a perdere la loro funzione e la rappresentanza
degli interessi in epoca post moderna non può esprimersi secondo procedure riconosciute, finendo per
diventare lotta senza regole tra fazioni non istituzionali. Tale fenomeno si interseca con la proliferazione di
criminalità organizzata.
Una prospettiva realista: lo scenario della frammentazione globale
La scena dell’esistenza umana è esposta a una serie di tensioni che si possono definire buone (traffici,
commerci, ecc) e cattive (criminalità, conflitti): esse presentano opportunità e rischi. Ciò dipende dal
funzionamento interno della società: se è debole o forte, ecc.  la scuola realista definisce questo scenario
“arena”, campo di battaglia per una guerra non sempre guerreggiata. La teoria realista assume politica e
geopolitica come strumenti per elaborare un istinto predatorio primordiale o l’applicazione di politiche di
potenza e dell’uso della forza. Il geopolitico è l’esperto che indica al governo quali sono le migliori linee di
espansione e come orientare la propria politica su scenari più vasti.  si nega alla società umana la
capacità di codificare e regolare i propri comportamenti, ciò sia a livello interno che internazionale. Tale
scenario era già prevalso ai tempi della piccola globalizzazione tra XVIII e XIX secolo degenerando poi in un
conflitto, dopo il prevalere di un uso ostruzionistico di territorio e altre risorse. Realtà che prevale anche
oggi per le risorse che vengono percepite come a rischio esaurimento e creano la base per costruire
posizioni di vantaggio e dipendenze strategiche. Tutto ciò fa da premessa al recupero di un’idea di violenza
come strumento di politica, di imperialismo e guerra per le risorse, ecc.
La prospettiva neoillumministica: la governance globale
La globalizzazione disegna un insieme di luoghi, tendenze di aggregazione, fattori e attori che operano in
uno spazio senza barriere apparenti, nel quale non emerge una forza dominante. L’arena si prospetta come
un enorme mercato e un vuoto di potere dove nessuna autorità può realisticamente pensare di imporsi e
dove l’azione degli stati è sempre più debole.  scenario che riflette tendenze caratteristiche di lungo
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termine verso la costituzione di un meccanismo di governance globale + visione della realtà come un campo
di battaglia senza regole accettate e condivise dove ciascun attore cerca di far valere i propri interessi
(legge del più forte). I realisti assumono attitudini negative, gli idealisti confidano nella speranza di
elaborare un dialogo abbastanza efficace per evitare la guerra. L’umanità non può fare a meno delle
istituzioni del potere, nella storia della geografia politica  questo almeno fino all’epoca attuale dove è
maturato un contesto che, secondo alcune teorie, sarebbe caratterizzato da capacità di autoregolazione
anche a scala più vasta. Ci sono segnali di una tendenza all’autoregolazione a scala di stati e comunità
globale.  capacità di governance da intendersi come meccanismo compensativo e combinatorio capace di
creare l’effetto di un circuito virtuoso tra controlli reciproci e interni cui contribuirebbero diversi attori.
(anche per le funzioni della macroeconomia).
La teoria delle relazioni internazionali
Diverse teorie riconducibili a scuole diverse (idealisti, realisti, neoilluministi o razionalisti). Idealisti
abolizione guerra e violenza. Assumono l’individuo come fondamentalmente buono. Metodo del dialogo e
della persuasione. Qualcuno deve essere disposto a martirizzare i propri interessi. Realisti opposto. La
realtà come si manifesta vede il male come inevitabile nella natura umana. Risorse limitate e individuo
debole e cattivo. Illuministi intermedi. Vedono la soluzione ottimale nel lungo termine con l’affermazione
di una realtà pacificata e dinamica. Conflitto come strumento non violento di dialettica e di crescita. Non va
abolito ma limitato, effettuato in modo combinato alla nuova consapevolezza della società. Processo che
dovrebbe portare alla sua cancellazione. Non si nega la limitatezza delle risorse ma si confida nella capacità
di superare questo limite perché si ritiene la guerra la peggiore delle soluzioni: potrebbe distruggere le
poche risorse rimaste.
Razionalisti e neoilluministi: dare una risposta alla guerra
Si confida nelle possibilità dell’autoregolazione tramite persuasione e trattativa, che attualmente sarebbe
evidente in alcune circostanze  formazione di codici e istituzioni orientate alla produzione di sicurezza in
vari scenari del conflitto. Sorta di geopolitica e guerra condotta dalle ONG e dai vari apparati della società
internazionale, combattuta con le armi dell0assistenza e dell’intervento umanitario.  elaborazione di un
meccanismo di governance e di limitazione reciproca tra i vari poteri su scala internazionale. Per i
neoilluministi tale politica tende a diffondersi in modo progressivo con risultati rilevanti. Certe ONG
appaiono come veri e propri eserciti disarmati in gradi di agire a qualsiasi scala.
La privatizzazione della sicurezza internazionale
Tattica di immunizzazione degli scenari di crisi cui si aggiungono altre organizzazioni e altre forme di
conduzione non state della politica internazionale. Associazioni e società no profit specializzate in attività di
polizia e ordine pubblico  multinazionali della sicurezza. Fenomeno complementare a forme di gestione
non profit e non violenta delle tensioni internazionali. Organizzazioni più flessibili e spesso più efficaci delle
organizzazioni pubbliche. Sono comunque un rischio perché possono essere indotte a riprodurre le tensioni
per continuare a trarne profitto. I professionisti combattono per uno stipendio.. Diffusione di truppe
mercenarie caratteristica delle fasi di fine ciclo.
Basi strutturali dell’autoregolazione: il principio omeostatico
I nuovi autori agiscono in modo autonomo ma culturalmente orientato e sembrano contribuire
all’elaborazione di un governo non politico configurando ulteriori tendenze auto regolative che
contribuirebbero al miglioramento di una capacità omeostatica del sistema. Ciò deriva dalla possibilità di
elaborare regole attuali e dalla capacità di controllare l’osservanza delle stesse: la governance può
svilupparsi solo se supportata da un buon sistema di misurazioni e da un’efficiente contabilità di contesto.
Serie di attività che si rivelano essere i grado di consolidare il meccanismo di autoregolazione anche in
termini di politica e che è compito dei governi individuare e incentivare.
Feedback e accountability: le premesse per la governance
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Misurare un fenomeno è la premessa per controllarlo e gestirlo e per riprodurne gli stessi effetti in
ambienti più vasti.  modo per garantire feedback (riscontro) e accountability (codificazione misurabilità).
Tutto ciò anche per ambiti nei quali si ritiene difficile elaborare dati e informazioni attendibili. Tale criterio
va esteso anche a grandezze apparentemente non misurabili: esempio le dimensioni del funzionamento
politico. Metodo che rappresenta un riferimento per la comparazione, primo passo per elaborare con il
tempo un sistema di misurazioni più efficaci. È bene che venga applicato per creare i riferimenti per
misurazioni successive. Il buon governo non può che fondarsi su un principio di accountability e sul
proposito di riprodurre dati veritieri con i quali poter valutare la sua stessa azione.
CAPITOLO XXXVIII – Prassi, analisi e teoria geopolitica
Un nuovo ruolo per la geopolitica: la realtà della differenziazione
Superamento immobilismo dell’epoca bipolare riscoperta della dimensione territoriale della politica,
quindi della geopolitica: nuova scienza dello stato e dei suoi surrogati post statuali. Nuova consapevolezza
che la realtà non può essere considerata come qualcosa di immobile e che la geografia è uno dei motori
della politica e dell’economia. Ciascun fenomeno umano si realizza all’interno di una dimensione
geografica, ignorare la quale significherebbe rischiare di alimentare ulteriori tensioni. Realtà umana
tendenza continua a diversificazione in qualsiasi forma, per cultura, risorse, stili di vita.. ciò genera continue
tensioni con fratture e confini che appaiono e scompaiono. Dinamica che coincide con un parallelo
fenomeno di erosione delle funzioni statali e con i superamento di una situazione di monopolio del potere
che fino a quel periodo lo stato nazione aveva esercitato. Diffusione di soggetti politici di qualsiasi tipo che
elaborano una propria strategia di azione territoriale. Proliferazione che apre una serie di prospettive. Lo
stato nazione di fine modernità è oggetto di tensioni di varia natura, interne e internazionali. Diffusione di
ideologie anti o a-nazionali + consolidamento di una comunità di organismi transnazionali e ascesa di nuove
forme di potere + formazione di aggregazione di forme superstatuali.
La geopolitica interna agli stati
Rinnovata scienza geopolitica che si sviluppa a scale diverse e interessa qualsiasi circostanza, qualsiasi
organizzazione e gruppo. Si sviluppano forme di analisi convenzionali e non, con applicazione di tecnologie
di geografia elettorale che analizza la forma dei distretti, le mappe di interesse, le lobby.. considerando le
possibilità di distorsione del consenso che la manipolazione degli stessi confini e la ripartizione interna di
stati e regioni presentano  analisi e uso del territorio come strumento per produrre potere e consenso.
Apertura di nuove prospettive all’analisi geopolitica che assume il comportamento degli enti interni allo
stato  enti locali che si ritrovano nella necessità di confrontarsi con un mondo proiettato sul globale
nell’elaborare la propria visione del territorio. tali ideologie lasciano immaginare una serie di tensioni: il
rischio dell’erosione delle funzioni consuetamente ritenute statali finisce per riportare alla disintegrazione
di una struttura che per secoli aveva rappresentano un riferimento per qualsiasi azione.
L’analisi geopolitica: nuove definizioni di politica internazionale
Il recupero della geopolitica come strumento di conoscenza significa anche il recupero di un metodo di
analisi dei comportamenti territoriali con il superamento del monopolio esercitato dalle istituzioni statali
per tutta la modernità. La geografia post moderna recupera uno scenario di tipo ottocentesco
caratterizzato da organismi in evoluzione con la continua apparizione di nuovi soggetti e nuove scale,
moltiplicazione di attori e nuove tecnologie. Necessità di un nuovo metodo di analisi e rappresentazione
che consideri il soggetto nella sua capacità di azione cioè in grado di considerare tutti gli elementi che
caratterizzano il fenomeno politico.  nuova concezione di stato non più inteso come ente sovrano ma
come insieme di funzioni, utilities e organizzazioni non gerarchiche che sviluppano funzioni ed erogano
servizi.
Le definizioni: geostrategia e funzionalismo, organicismo, materialismo
La storia della geopolitica delinea la formazione di scuole diverse.
32
-
Primo gruppo di teorie: lavori di Mahan e Mackinder; definizione di politica funzionalista, stato
come ente che si articola per ruoli (principio liberale di segregation of duties). Stato: produzione di
una geostrategia che non si identifica con la lotta per il territorio. ente normale e umano che
coordina le funzioni del bene collettivo.
- Secondo gruppo: stato come ente assoluto, visione organicistica, risponde a un’esigenza di
controllo sui comportamenti per una popolazione incapace di regolarsi. Visione deterministica che
assume i comportamenti come determinati da qualche variabile. (Ratzel, Kjellén, Huntington).
Determinismo, primordialismo, culturalismo.
- Terzo gruppo: ispirazione marxiana. Territorio della politica in prospettiva strutturale, per
disponibilità, flussi, accessibilità. Stato e politica come sovrastrutture, come strumenti di
manipolazione che le elite utilizzano per sfruttare e sottomettere le masse. Realtà inevitabilmente
destinata a spaccarsi in due. Prospettiva materialista e determinista che assume la realtà sociale
come indotta da relazioni di tipo economico.
Classificazioni combinate a una definizione più vasta di geopolitica territorio come fine di una politica
dove lo stato si riconosce, come mezzo.
Elementi permanenti ed elementi contingenti
Criterio di classificazione che distingue tra elementi contingenti sui quali è necessario intervenire nel breve
termine e su elementi permanenti sui quali la politica nell’immediato non può nulla. Spykman: geography is
the most fundamental factor in the foreign policy of states because it is the most permanent. Altri elementi
durevoli non hanno invece una caratteristica materiale cultura della popolazione. Qualsiasi tentativo di
forzarla rischia di provocare fenomeni di reazione.
I modi territoriali: la forma
Costruire uno scenario di variabili e relazioni tra variabili. Territorio della politica risultato di processi di
lungo periodo, guerre e momenti di sviluppo ecc. materializza un complesso di tensioni tra politica ed
economia che finisce per delineare una forma, una struttura e una dimensione caratteristiche. Complesso
di modi territoriali che costituiscono l’oggetto prioritario dell’analisi geopolitica. Modi di tipo formale:
compattezza o articolazione, stati con forme territoriali più simili alla figura ideale del cerchio e altre forme
geometriche, stati con un centro politico che coincide con un centro geografico.  processo di
aggregazione territoriale di tipo secolare e graduale. Stato moderno: politica di compattezza che porta lo
stesso ad assumere nel tempo una forma simmetrica che si ritiene possa condurre al superamento di
squilibri strutturali.
I modi territoriali: la simbologia della perfezione
Punto di partenza per la geopolitica della modernità: definizione di stato come qualcosa di integrato che si
sviluppa e proietta su un asse centro periferia. Figura che tende ad assomigliare ad un cerchio o ellisse,
immagine stessa della perfezione che si rifletterebbe su altre dimensioni del corpus politico. Schema nel
quale qualsiasi deviazione da un’ideale di uniformità rischia di rappresentare un problema.  filosofie di
tipo organicistico che assumono un’ideale di geografia nel quale la politica deve riconoscersi. Esatto
contrario delle filosofie funzionalisti che assumono l’ideale della perfezione in quanto tale. Lo studio delle
forme ideali in geografia rappresenta un gioco solo relativamente utile per mettere in connessione le forme
territoriali con altre variabili in sede di analisi di scenario o piuttosto combinandosi all’applicazione di un
metodo metaforico per perseguire finalità di manipolazione. A qualsiasi scala, gioco di metafore che deriva
dalla stessa osservazione delle carte geografiche.
La classificazione delle forme
Stati articolati forma diversificata e contorta, allungata o dendritica. Forme che significano processi di
aggregazione diversi, a volte tormentati, di tipo coloniale. Indicatore di forma: più o meno compattezza, più
o meno articolazione  esprime significati di tipo politico sulla base dell’assunto che più compatto è uno
stato più si presume che al suo interno si consolidino strutture della coesione. La compattezza agevola le
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funzioni dell’accessibilità e del collegamento, il controllo dei confini. L’articolazione esprime un senso di
esposizione e di vulnerabilità.
Il principio della neutralità originaria dello scenario
Individuazione di parametri di tipo geopolitico che definiscono l’efficacia politica in termini di vulnerabilità
per le varie dimensioni, ciascuna delle quali presenta elementi di interesse rispetto alle funzioni
caratterizzanti della politica. Categorie difficili da definire e dove è difficile sviluppare qualsiasi deduzione
deterministica. Uno stato compatto è più controllabile di uno articolato che però ha possibilità di migliorare
la propria capacità difensiva tramite corridoi, cordoni, buffer.. è difficile verificare la correlazione tra forma
ed evoluzione di certe caratteristiche politiche e culturali. Può essere vero anche che una migliore
connettività porti a favorire processi di decentramento! Qualsiasi scenario può cambiare verso e significati
a seconda delle circostanze e della capacità tecnologica e culturale che società e istituzioni sono in grado di
sviluppare.  visione antideterministica che si fonda sul principio di neutralità originaria dello scenario:
territorio come semplice strumento, materia prima con la quale una comunità umana può perseguire i
propri obiettivi.
L’analisi delle discontinuità: borderland, confini, frontiere, barriere
Analisi che trae origine da una tradizione di tipo bellico terrestre nel contesto di una complessiva esigenza
di difesa a livello del suolo. Geopolitica che assume il terrain management e le discontinuità del terreno
come primo strumento per produrre sicurezza. Base naturale sulla quale le istituzioni possono sviluppare le
strutture del comando politico e militare. Si considera l’area di confine (borderland) come un microcosmo
di attori e fenomeni caratteristici che funziona in base a regole proprie, complementare all’area di massima
centralizzazione dello stato. Analisi che considera numero e natura dei vicini coi quali è necessario adottare
politiche tra di esse mutuamente esclusive. Conseguenze sulla forma stessa della struttura politica. Si
assume una serie di riferimenti oggettivi in realtà utili per interpretare e redigere scenari: numero dei vicini,
dimensione confini.. caratteristiche che indichino migliore difendibilità, vulnerabilità, idee e percezioni.
Studio che riprende la tradizione ottocentesca del confine ideale e della forma statuale razionale (Fichte)
che assicura un’ottima capacità di difesa e una buona accessibilità. L’analisi evidenzia un continuo
scivolamento tra ideale e materiale in un arbitrario gioco di astrazione assumendo uno qualsiasi tra gli
aspetti di una vasta fenomenologia: forma, consistenza, struttura, confini artificiali, naturali, visibili,
invisibili ecc. classificazione necessariamente approssimativa nessun confine può essere considerato
perfetto perché la realtà geografica che qualsiasi confine sottende è mutevole.
L’analisi della geografia fisica: quantità e massa, risorse e territorio
L’analisi quantitativa considera le variabili di contenuto e le masse materiali che costituiscono
concretamente lo stato o il soggetto politico e il territorio che lo stesso rappresenta. In genere la massa
significa un’immagine di capacità di qualsiasi tipo in termini di demografia, economia, organizzazione
militare e politica. Quantità di terre, risorse, ecc. Analisi materialista che coincide con una definizione
classica della politica modernista: stato come un soggetto che dispone di un ordinamento, una popolazione
e un potere illimitato ma soprattutto di un territorio. esistono però ormai soggetti senza territorio come le
multinazionali. Qualsiasi organizzazione o ente tende ad agire ed esprimere qualche tipo di potere che si
manifesta in modi diversi, grazie alla diffusione di tecnologie talmente potenti da moltiplicare capacità di
qualsiasi tipo. Lo studio del fattore materiale come base della politica sembra perdere senso..
Il paradosso della maledizione delle risorse naturali: una prospettiva antideterministica
Paradosso: la realtà attuale sembra dimostrare come il fatto di possedere risorse territoriali può non
significare molto. Situazione evidente per un’economia soggetta a funzioni di produzione tendenzialmente
de materializzate e volatili. Grandi stati con ampie disponibilità di massa e materia possono rivelarsi
scarsamente efficienti tanto nella produzione primaria quanto in altri settori: l’affermazione di un
paradigma di tipo tecnologico crea le premesse per un indebolimento della connessione tra quantità e
capacità economica. In un contesto post mercantilistico non vale tanto il possesso ma l’efficienza della
gestione delle risorse. Teoria della maledizione delle risorse naturali significato paradossalmente
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negativo per sistemi ricchi di risorse naturali che in realtà tenderebbero a sviluppare economie dipendenti
da quelle stesse risorse senza dedicare attenzione allo sviluppo di settori potenzialmente a maggiore valore
aggiunto. Sistemi che diventano target di forze e tensioni internazionali e che hanno maggiore probabilità
di essere oggetto di processi di destabilizzazione.
L’analisi strutturalista: la posizione, lo spazio assoluto e lo spazio relativo
L’analisi geopolitica cambia il metodo collocando il soggetto politico all’interno di un contesto, assumendo
un’idea di spazio relativo piuttosto che assoluto e definendo un’idea di posizione. Ogni soggetto politico si
colloca all’interno di uno o più scenari. Si considera la struttura nella quale il soggetto si colloca e dalla
quale esso ricava un senso o un contesto di valori e di teleologie, quindi un senso di identità. Definizione
alla base della teoria strutturalista: il soggetto tende ad assumere un ruolo preciso e determinato da una
certa posizione sulla scacchiera a seconda di situazioni e di contingenze e a seconda della posizione che
assumono tutti gli altri soggetti nello stesso spazio chiuso. Situazione che diventa il riferimento per qualsiasi
azione e per qualsiasi elaborazione. Considerazione che assimila la geopolitica a una sorta di atlante di ruoli
e posizioni e associa a certi punti dello scenario certe funzioni.
Geopolitica per default
Studio di una distribuzione complessiva di potere da intendersi come un gioco a scala globale, con vari
soggetti impegnati nella ricerca e nel perseguimento delle strategie migliori per raggiungere qualche
risultato di tipo limitato. Insieme discontinuo caratterizzato da linee di frammentazione, ostacoli, barriere
naturali, ecc. possibile elaborare una geopolitica naturale, quasi una predestinazione che caratterizzerebbe
paesi e soggetti di potere. Discorso analogo per la posizione che non può significare qualche cosa di
definitivo ma che muta in relazione a tutte le altre posizioni e tutti gli altri attori, nonché un insieme di
elementi di scenario. Prospettiva che lascia intravedere una sorta di geopolitica per difetto o in difetto di
altre politiche, da considerare come una sorta di geopolitica spontanea e originaria che ciascun soggetto e
ciascuna posizione all’interno di una data scacchiera possiedono a volte senza esserne consapevoli. Questo
sembra essere il ruolo attuale della geopolitica: contribuire perché il soggetto di potere possa maturare una
migliore conoscenza di se stesso; fare in modo che gli stati possano elaborare e sviluppare
consapevolmente la propria azione. (serie di esempi a pag. 593 edizione 2012).
Le proiezioni geopolitiche: oltre il limite della materialità
Modo di ragionare pratico che si contrappone alla tradizione di stati e città ideali, di immaginazione del
territorio perfetto. la politica è anche una questione di segni, immagini, percezioni, sensazioni che
significano aspettative razionali e aspetti istintivi. Dimensione in cui la politica e la geopolitica possono
svolgere un ruolo essenziale mettendo a disposizione dei decisori degli strumenti di manipolazione delle
immagini primordiali che individui e gruppi possiedono ed esprimono in vari modo. Contesto ratzeliano che
contraddice un’ideologia della società civile che persegue una strategia opposta di diffusione di
consapevolezza.
Un’analisi complessiva: la definizione dell’interesse collettivo
Dinamiche diverse che a volte delineano scenari di contrapposizione o integrazione, legittimando un
nemico o un amico fino a definire un quadro complessivo della condizione territoriale in cui il soggetto si
trova. La capacità di comprendere la propria azione geografica significa la possibilità di produrre politiche
adeguate sia dal punto di vista interno sia su quello internazionale. Il fattore geografico è il punto di
partenza per qualsiasi politica. Prassi che assume le questioni territoriali piuttosto in termini di
pianificazione e infrastrutture elaborando teorie della coesione territoriale, della compressione spazio
temporale, di attrito del territorio o di morte della distanza, quindi della geografia. Linguaggio che indica la
geografia di un paese senza evocare questioni di politica e confini. Carenza di questioni che può essere
un’opportunità per il soggetto che dalla consapevolezza di un problema può riavere le motivazioni per
costruire nel tempo una posizione di vantaggio.
La scheda geopolitica: la definizione della scala caratteristica
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L’analisi geopolitica assume come punto di partenza una situazione di fatto e la possibilità che da una serie
di stravolgimenti possano mutare i significati bisogna distinguere tra piani e momenti dell’azione politica
assumendo scale diverse, nel tempo e nello spazio. Procedimento che si propone di definire, come modo
preliminare, la scala naturale o caratteristica dei fenomeni che la politica deve o vuole governare.
Approccio che assume il territorio come un contenitore a sua volta contenuto in altri a scala via via più
ampia. Analisi che considera distintamente e sinergicamente i diversi elementi cercando poi in uno sforzo di
sintesi di delineare una geopolitica naturale del soggetto in un quadro di retroazioni e interazioni tra i vari
attori. Esempio di scheda geopolitica che assume lo stato di fatto, la geopolitica di default, cioè l’ambito
geografico o il range in cui i vari fenomeni tendono a manifestarsi.
La scheda geopolitica: la redazione dello scenario
L’esercizio della redazione di uno scenario parte dalla semplice osservazione della realtà: metodo che
qualifica il mestiere del geografo e che permette di valutare gli elementi nella loro dimensione reale. Fase
necessaria, quella dell’osservazione diretta, che consente di elaborare una scala caratteristica del
fenomeno che si intende studiare per poi procedere con le fasi successive di rappresentazione della realtà
secondo quella stessa scala. Tutti elementi da collocare e classificare come fattori dipendenti o
indipendenti, permanenti e contingenti, ecc. fase successiva: ipnotizzazione e ricostruzione della
concatenazione tra fattori ed eventi individuati. Lavoro che produce come risultato una carta geografica
oppure una sorta di mappa elettronica. Più lo strumento è potente migliori sono le possibilità di
rappresentare la realtà ma maggiore è il rischio di distogliersi dal vero target della ricerca. La realtà cambia
continuamente facendo invecchiare ben presto scenari e carte geografiche, simulazioni e videogiochi,
facendo intravvedere che la sfida di oggi per l’analisi geopolitica è il fatto di disporre di info aggiornate in
tempo reale. Il miglior scenario non può che considerare solo poche variabili per restituire una visione
parziale della realtà. Fare geopolitica: fare delle simulazioni vane che sono però necessarie. Fare piani
perché l’esperienza insegna che immaginare il peggio può essere più realistico di quanto si potesse
prevedere.
CAPITOLO XXXIX – La geopolitica critica
Un cambiamento di paradigma
Il revival della geopolitica si colloca in un più vasto movimento di rinnovamento culturale e politico
conseguente al 68. Un atteggiamento critico, piuttosto che una teoria, che deriva in parte da una reazione
alla retorica delle teorie allora prevalenti che non convincono più, in parte da una genuina aspirazione alla
democratizzazione della politica occidentale. Emerge una discrasia tra i piani della politica interna e della
politica internazionale tipica dell’età tardo moderna. Si delinea un dilemma per gli stati aperti che devono,
dal lato interno, perseguire politiche di democratizzazione e di consenso, dall’altra elaborare un modo per
affrontare l’ambiente della politica internazionale nel quale agiscono forze predatorie e aggressive. La
teoria idealista cerca di superare tale dilemma idea del dialogo a oltranza e del porgere l’altra guancia.
Metodo che si fonda sull’ipotesi che la cultura coincida con un insieme aperto che dovrebbe portare alla
graduale esclusione dal contesto della negoziazione di significati di tipo improprio per ridurre il contenzioso
ai suoi elementi essenziali. Metodo che dovrebbe portare all’esclusione dalla realtà politica di
atteggiamenti di tipo autoritario in una prospettiva di pace. Obiettivo da perseguire con metodo della
trasparenza; diplomazia democratica e aperta. Movimento che dopo il crollo del sistema bipolare si
diffonde a livello inter e intra nazionale. Evoluzione che sembra contraddire la necessità per i governi di
svolgere il proprio ruolo in uno scenario competitivo con una libertà che consenta negoziazioni riservate,
ecc. La realtà dimostra come i principi ideali tendono ad esprimersi in modo ambiguo: la democratizzazione
in un certo ambito può realizzarsi in contraddizione con la democratizzazione ad altre scale (centro vs
periferia). Quadro di contraddizioni che delinea paradossi e antinomie.
La geopolitica critica di Y. Lacoste
L. elabora un metodo e un paradigma partendo da una serie di constatazioni e di eventi, soprattutto gli
effetti dei bombardamenti americani sul Vietnam. Ciò mise in evidenza le contraddizioni caratterizzanti le
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varie scale della politica per cui stati caratterizzati da una condizione di democrazia interna basata su un
ordinamento e su una serie di valori pluralistici, si trovavano ad adottare ad un’altra scala atteggiamenti del
tutto incoerenti e basati sulla guerra preventiva e sistematica. Ciò rende necessaria l’elaborazione di un
nuovo modello di relazioni che vada oltre le apparenze di una democrazia di facciata rifondando le relazioni
tra gli stati sulla base di un’autentica partecipazione popolare alle questioni della politica internazionale. Si
porta l’analisi geopolitica a superare le tradizionali dicotomie e i limiti previsti dalla teoria realista.
La decostruzione del linguaggio e dell’azione politica
Teoria inaccettabile per gli idealisti del pluralismo e del pacifismo, pone dei limiti allo sviluppo della
democrazia come modo politico fino a portare alla crisi all’interno degli stessi ordinamenti democratici.
Contraddizione da superare elaborando un metodo con cui destrutturare i modi del potere e gli strumenti
principali che esso utilizza (retorica, propaganda). Compito del critico: decostruire gli strumenti della
politica depurando i discorsi politici da tutto ciò che è finalizzato all’esclusiva giustificazione del potere.
Teoria che assume come inevitabile un uso distorto della comunicazione. Processo di decostruzione dei
valori e dei principi e delle leggi che le strutture del potere diffondono e che spesso non appaiono. Serie di
stereotipi e convinzioni che si accumulano nella realtà sociale e rappresentano un ulteriore aspetto del
processo di accumulazione di scorie.
La tecnica della decostruzione: la scissione tra segno e significato
Si supera la definizione di azione e di linguaggio, basandosi sulla scissione tra gli elementi che costituiscono
la base stessa della comunicazione: significanti e significati (fine e mezzo, forma e contenuto), per insiemi di
segni ordinati secondo una logica, da sviluppare con l’uso di qualche strumento. Lo stesso
segno/gesto/comportamento possono esprimere significati diversi fino a sviluppare una sostanziale
interfungibilità tra fatto e senso. Fenomeno che si realizza nel “calco” nelle scienze geopolitiche
elemento essenziale per comprendere la formazione di tensioni e conflitti, schieramenti ed evoluzione di
scenari. Segni gesti e azioni assumono significati diversi da quelli originari a causa di un effetto di
sovrapposizione e trasformazione. Teoria presa in prestito dalla linguistica che in scienza politica trova una
vasta applicazione: un gap tra forma e contenuto che offre l’occasione per interpretazioni di tutti i tipi, e
che significa continue occasioni di manipolazione.  fenomeno che la teoria critica si propone di
decostruire per rendere chiaro il complesso dei significati e per perseguire il ritorno alla purezza originaria
del significante. Togliere le incrostazioni prodotte dall’uso manipolato della dialettica sociale da parte della
politica. (Che coglioni sta parte, Madonna).
L’assunto del carattere intrinsecamente negativo del potere
Principio che si basa sull’ovvia distinzione e contrapposizione tra materialità e astrazione, tra segno e senso:
ciascun individuo possiede la capacità di produrre immagini e quindi di attribuire significati a qualsiasi cosa,
che significa anche la possibilità di un effetto di retroazione rispetto a chi usa lo stesso strumento di
comunicazione. Fenomeno più evidente man mano che i gruppi elaborano forme di vita sociale più ampie e
la comunicazione diventa qualche cosa di socialmente più complesso. La decostruzione mette in evidenza
scenari di potere e manipolazione.  qualsiasi discorso significa una possibilità di manipolazione. Nessun
segno e nessun linguaggio possono essere considerati perfettamente neutrali rispetto a un contesto.
Fenomeno particolarmente evidente per le funzioni del potere. Ruolo della scienza e della metodologia:
evidenziare le cause dei fenomeni per ridurre il margine di manipolabilità che può, in ogni momento, dare
origine a pericolose escalation. Ci si propone di smascherare le architetture invisibili, le funzioni latenti e le
regole indotte dalle strutture.
Un contro manuale di geopolitica
Nello scenario della politica ciò significa la possibilità per una serie di deformazioni. Si parte
dall’autopercezione di se stessi, da un gioco soggetto oggetto, dalla capacità del soggetto di immedesimarsi
nell’altro e dialogare con il mondo circostante. Capacità di individuare un target, stringere un’alleanza ecc—
costruire e decostruire un nemico. Modi di rappresentare la realtà che la nuova scienza geopolitica deve
interpretare con l’obiettivo di creare le premesse per un’autentica democratizzazione delle società e dello
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scenario internazionale. Scienza che, dunque, deve elaborare un metodo per perseguire il capovolgimento
sistematico di schemi e punti di vista.  contro manuale ed esercizi di decostruzione che adottano criteri di
tipo semiologico o logico strutturali. Metodo critico per definizione e che consiste in una simulazione con
un cambio di ordine di fattori tra segni e simboli, tra contenuto e contenitore, per cambiare punto di vista,
senso delle frasi.. (prendetevi un caffè, lo sento. State sbadigliando). Metodo che si articola in due filoni che
comprendono la decostruzione di scenari e la decostruzione di linguaggi.
I livelli della teoria critica: la pop geopolitic
Modo di analisi che supera le distinzioni tipiche per la modernità, tra top down e bottom up, tra istituzioni e
iniziativa dal basso, tra interno ed esterno, tra valori di lungo periodo e libertà tattica per cui un governo
tenderebbe a ritenersi in definitiva legittimato ad agire senza vincoli. Ciò in nome di un principio di
partecipazione popolare come forma di controllo. Scenario che diventerebbe più complesso distinguere
tra diversi modi di fare e diffondere geopolitica nei vari livelli e ambienti.  livello di geopolitica popolare,
cioè un conglomerato di informazioni e di comunicazioni, effetti visivi e sonori, media ecc che si diffondono
e si stratificano in stereotipi producendo predisposizioni positive e negative. Conglomerato che si evolve sia
per regole random sia per tendenze indotte dalle consuete tecniche della comunicazione. Base difficile da
controllare ma che i vari attori del potere cercano di manipolare per ottenere qualche forma di consenso.
La divulgazione e la geopolitica spettacolo
Geopolitica che persegue la massimizzazione della diffusione che diventa una vera e propria cultura
popolare, adattandosi a modi e rituali della comunicazione mediatica, inducendo varie forme di geopolitica
di tipo giornalistico e divulgativo che inducono di per sé a modi di estremizzazione e di spettacolarizzazione
della conoscenza geografica. Circuito che si alimenta di riviste, star della geopolitica (???) ecc. Cfr Limes,
Internazionale, Le Monde Diplomatique, ecc. universo di voci, immagini e suoni che diffondono conoscenza
geografica ma anche semplificazioni. Sebbene la popular geopolitic dimostri un’attitudine alla
semplificazione è difficile immaginare nuove forme di degenerazione in termini di Geopolitik - si tratta di
un conglomerato incontrollabile di flussi e immagini. Produzione di nuove forme di cultura geografica che
inducono a forme di sensazionalismo. Forme di conoscenza utili per coinvolgere popolazioni e società, per
far uscire la dottrina geopolitica dai circuiti spesso autoreferenziali, delle università e della accademie.
La geopolitica istituzionale ed il soft power
Cultura che si sviluppa sotto il livello della geopolitica istituzionale o formale, cioè la geopolitica vera e
propria, quasi un residuo della politica novecentesca elaborata da cancellerie e poteri esecutivi e oggi
spesso meno efficace di quanto si possa credere.  conventional geopolitic che deve elaborare nuovi
metodi per agire in un nuovo contesto di globalizzazione ed erosione delle funzioni statali deve
sviluppare le funzioni delle relazioni internazionali e sviluppare un metodo per connettere la politica
internazionale a quella interna. Geopolitica che tende a diventare soft e a fare uso di strumenti e risorse
non deliberatamente finalizzate all’uso della forza. Ciascuna epoca ha la sua geopolitica caratteristica, con
un’evoluzione che apre continuamente a nuove frontiere e a nuove definizioni.
La critica alle categorie geografiche della modernità
Una teoria che si afferma in parte come modo di comunicazione di massa in parte come proposta
scientifica e in parte ancora come movimento politico e corrente di opinione. Capovolgimento della
prospettiva e dei punti di vista della narrazione politica. Teoria post strutturalista che collega la critica alla
modernità in occidente alla teoria dello sviluppo nel terzo mondo. Critica all’economia del consumismo e
critica neomarxiana alla dipendenza che i paesi poveri sviluppano dall’industria occidentale. Complessivo
movimento di ribellione verso i centri e i grattacieli del capitalismo. Teoria che in occidente mantiene un
ruoo di coscienza critica senza indurre a rivoluzioni vere e proprie. Al massimo recupero di tradizioni, di
locale, di umanità e ritorno alle ragioni del popolo.  redazione di un atlante di geopolitica critica che
possa rappresentare un sapere condiviso e non deviato da personalità e soggettivismi e che persegue lo
sviluppo di relazioni non violente in uno stravolgimento geografico tra sfruttati e sfruttatori.
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La geopolitica critica: i limiti
Teoria che produce effetti concreti sulla prassi politica ma si sviluppa in uno schema di assunzioni troppo
rigide che ben presto subisce lo stesso effetto di deriva retorica che originariamente si proponeva di
combattere. Una teoria che assume premesse che si rivelano nel tempo essere discutibile, teoria che
perseguendo un ideale finisce per subire essa stessa un processo di ideologizzazione.  il rischio della
manipolazione è da ritenersi normale e intrinseco al fatto stesso di comunicare. Così anche per il potere che
è comunque corruttibile ma non può rappresentare il male per definizione: è una delle tante dimensioni
dell’azione umana ed è soggetto al rischio continuo dell’errore e della manipolazione. Geopolitica critica
che va alla deriva in un qualcosa di autoreferenziale; teorie del complotto e della demonizzazione..
Una prospettiva antideterministica
Le nuove prospettive della teoria idealista si basano piuttosto che sulla critica sistemica e aprioristica del
potere, sull’elaborazione di un progetto, sulla proposta e sull’immaginazione di un obiettivo che si ispira
inevitabilmente alle geografie dell’utopia che caratterizzano il pensiero politico dai primordi.  rifiuto di
qualsiasi determinismo + teoria della continuità strutturale tra dimensioni del materiale e del culturale.
Proposta di una politica basata sulla volontà del soggetto. Manifestazione di fiducia nelle capacità umane di
immaginare e di perseguire un obiettivo, superare i limiti e i problemi imposti dalla contingenza e dalla
materialità. Approccio che in epoca attuale si concentra essenzialmente sulle tensioni indotte dalla
globalizzazione, ecc. approccio che assume forme diverse e che nei suoi caratteri essenziali si concentra
non sulla rappresentazione cartografica, ma sulle modalità del funzionamento sociale, che porterebbero a
una graduale eliminazione delle sovrastrutture dell’autorità e del potere.  definizione di un complesso di
nuovi soggetti politici capaci di eliminare dalla scena le pulsioni autoritarie proprie delle istituzioni sovrane
nonché eliminare il rischio della guerra.
È possibile una geopolitica idealistica?
Affermazione della globalizzazione  contraddizione rispetto a un’idea consolidata di geografia politica. 
nuova dottrina finalizzata all’analisi delle opportunità che la condizione territoriale presenta (geopolitica di
default) quindi il ridimensionamento a una forma di geografia delle risorse. In uno scenario senza confini
come quello odierno le basi della geopolitica organicistica perdono senso. Si configura uno scenario
favorevole all’affermazione di forme di economia de territorializzata con forme politiche basate
sull’apertura e sulla diffusione. Ambiente in cui i vari attori tendono ad agire come in una casa di vetro dove
un universo di ONG attribuisce in continuazione pagelle (pensavate di esservi liberati di Fossati...)
Elaborazione di una geopolitica idealista che persegue per definizione la massima diffusione di
consapevolezza che la storia sembrava aver relegato al repertorio delle utopie e che invece mai come oggi
sembra realizzarsi.
Il rischio di nuove chiusure: verso un nuovo culturalismo
La globalizzazione prospetta un’apertura rivoluzionaria ma genera anche, per reazione, i presupposti per il
suo contrario cioè una nuova chiusura. Serie di interpretazioni revisionistiche sul ruolo degli imperi moderni
e sul colonialismo (Ferguson) e sulla classificazione delle culture (Huntington) studi che recuperano una
concezione deterministica di tipo ottocentesco per interpretare cicli di sviluppo per stati e popolazioni fino
a teorizzare una nuova geopolitica di clash tra culture classificate e costrette in categorie definitive.
Reazione culturalista che sembra prospettare un’involuzione che rischia di riportare a una condizione di
provincialismo  modo per mascherare inefficienze locali o semplice paura dell’altrove derivata
dall’incapacità di affrontare o comprendere la realtà circostante.
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