SCUOLA DI FORMAZIONE NAZIONALE ON-LINE
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SCUOLA DI FORMAZIONE NAZIONALE ON-LINE
Associazione Maria Bianchi SCUOLA DI FORMAZIONE NAZIONALE ON-LINE PER PERSONALE CURANTE PROFESSIONALE E VOLONTARIO II EDIZIONE - 2007 Aiutare chi aiuta? O del Facilitatore nei Gruppi AMA per Persone in Lutto Enrico Cazzaniga, psicologo-psicoterapeuta, didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, formatore e consulente gruppi Ama per il sostegno alle persone in lutto “…per costruire nuove possibilità per la continuazione del gioco. abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare che concepisca il reale e il possibile non come dati immutabili, ma come costruzioni mai definitive, che sappia trattare l’incertezza non come il peggiore nemico, ma come un alleato; non come semplice misura della nostra ignoranza, della nostra distanza dal punto di vista della conoscenza e del controllo “completi”, della nostra distanza cioè dal punto di vista di un dio, o di un demone, onnisciente, focus imaginarius dello sviluppo del nostro sapere e del nostro potere per un’epistemologia interna ad una ontologia dell’eternità, ma come indice rivelatore, piuttosto, dell’irriducibile complessità dell’ecologia e dell’autonomia dei sistemi viventi e della loro storia.” Mauro Ceruti Introduzione o di alcune premesse utili? METALOGO Come si viveva? - come si viveva tanto tempo fa? - un tempo bastava stare lì, e aspettare. Nel frattempo si faceva - cosa nonno? - si viveva! Si lavorava, molto, ci si innamorava, non tanto spesso. Poi nella vita c’è mica solo un amore. Nei puoi avere diversi. Io ho avuto la fortuna di voler bene alla nonna, con tutti gli alti e bassi, che vuoi, sembra che non se ne possa fare a meno. Forse serve per capire meglio quanto si voglia bene a qualcuno. Con lei ho passato i momenti più belli e più brutti. Tutti da non dimenticare. Altre cose brutte accadono, ma non vale la pena di perderci troppo tempo. Gli altri amori poi sono stati la musica, la montagna, camminare, qualche bella chiacchierata, anche se bisogna stare attenti alle parole. E poi i libri! Ah! Che letture! Da piccolo preferivo giocare, la lettura è venuta da grande. Ci sono libri che andrebbero letti perché possono insegnarti qualcosa per vivere meglio, altri che puoi leggere se hai tempo, altri ancora da lasciare per il camino. I libri mi hanno aiutato molto anche per il lavoro, me l’hanno fatto amare e mi hanno fatto trasformare qualcosa di difficile in… possibile. Se hai voglia, poi, puoi anche scrivere qualcosa.- ma cosa bisogna aspettare ?- la morte, piccoletta - la morte? - sì, cara, sperando che arrivi in ritardo e non in anticipo. D’altra parte siamo fatti così. Almeno qui, in questa dimensione, dove siamo. Chissà se ce ne sono altre. Questo è un mistero. Io sono curioso. Anche se rispetto il fatto che debba rimanere tale. Nel frattempo… non si aspetta stando fermi però. Il movimento serve a non morire prima. E’ giusto morire quando è il momento. “La morte non deve prenderci impreparati”… mmm…. No scusa, questa è una sciocchezza che forse ho letto nel libro sbagliato - quello per il camino? - sì, uno di quelli. La morte arriva e tu sei lì. Sai a volte leggi delle cose e ti capita di pensare che le cose siano esattamente così.- e come sono le cose? -le cose non lo sa nessuno come sono, anche se qualcuno pensa di credere di saperlo. Lì si che sono guai. Noi possiamo avere solo idee di come potrebbero essere le cose, ma è diverso dal pensare che siano veramente così. Anzi per certi versi è meglio che sia così. - cosa? - beh, è abbastanza semplice capirlo, ma è soprattutto difficile farlo.-non ci sto capendo niente nonno.- insomma vedi questa cosa? - sì -quando vedi questa cosa, che pensi? - è una mela - bene, ma la parola mela non è l’oggetto che vedi, la parola è solo una parola, la cosa che hai in mano è un’altra cosa, non è la parola. Potevamo chiamarla alem. La parola cambiava, la cosa non mutava. Passami un alem - una alem- una? - - una! La mela che abbiamo chiamato alem è una alem! Non un alem - vedi? Ci sei appena cascata - allora? - allora? Chi ti ha insegnato a rispondere così? Se la parola non è la cosa, allora la parola non è altro che un modo di chiamare la cosa. Un modo come un altro. Poi può tornare comodo chiamare tutti ‘mela’ questo oggetto. Ma pensare che la parola è la cosa si rischia di combinare dei grossi guai, specie se parliamo di uomini, di beni comunitari, di animali, di foreste, di oceani, di economia, di lavoro, ecc...- ma scusa se tutti sono d’accordo dov’è il pericolo? - cara, non tutti sono d’accordo su tutto. Forse per le mele è più semplice mettersi d’accordo. Se si tratta di risorse umane, economiche, territoriali, ecc., la cosa diventa più complessa. Qualcuno può pensare, per esempio, che ciò che pensa sia la verità, che la cosa nominata sia la cosa che è e quindi debba esserlo per tutti. Forse però c’è qualcuno che non la pensa così e perciò, alla lunga possono nascere anche le guerre.- solo per delle parole? - pensa! Quando le parole diventano più importanti degli uomini, della loro stessa vita, quando le idee diventano, per qualcuno, perfette, possono nascere seri guai. Poi c’è la questione del potere - quale questione? - quando qualcuno pensa che debba decidere per altri, anche se questi altri non gli hanno dato la delega - come? - sì, è come se io decidessi per la nonna senza parlarne con lei, sai che guai! - ma papà e mamma spesso decidono per noi - certo, ci mancherebbe. Fino a quando non si decide che siete grandi, sono loro che decidono - e quando si diventa grandi? - da noi hanno deciso che lo si diventa a 18 anni - - ma la sorella della mia amica Sara ha diciotto anni e i suoi genitori decidono ancora molto per lei - s vede che non hanno ancora deciso che sia grande abbastanza.- grande abbastanza? -sì, che possa decidere per sé - mmm - ci siamo di nuovo, le parole e le cose. Le parole e le persone - ma le parole sono molto utili - certo, ma vanno sapute utilizzare. Se qualcuno pensa di essere più importante di altri allora le parole diventano pericolose, perché possono trasformarsi in atti pericolosi - quando le parole diventano atti?- quando si identificano con le cose. Quando si pensa che quello che si pensa sia vero. O meglio, quando quello che si pensa ‘è’- ma allora vale tutto e il contrario di tutto - non penso. Se stiamo attenti agli effetti possiamo sapere cosa al momento può andare meglio di altro. Se non pensiamo che sia come pensiamo che sia, possiamo trovare altri modi di far funzionare meglio le cose. Possiamo trovare altre soluzioni migliori - ma quando una cosa funziona non c’è bisogno di continuare a pensarci- ah si? Sì, forse. Certo. A volte le cose possono funzionare meglio, possono anche peggiorare. Bisogna stare attenti. Può essere utile. Soprattutto confrontarsi può farci capire se può andare meglio o se è meglio cambiare - ma tu hai paura della morte? - sì, ma non mi abbatto. Non posso fare altrimenti. Mi dispiace, ma so che devo lasciare il posto - ma scusa, sulla Terra c’è tanto posto - non è così, siamo già troppi e mal disposti. Il pianeta è grande, ma non c’è posto per tutti, specie se non si morisse più - allora è bene morire? - da vecchi direi di sì - allora tu fra un po’ dovrai morire - - eh sì - fra quanto?- non lo so. Forse è anche questo che per molti è una fregatura - come? - se la maggioranza di noi sapesse che morirà forse cambierebbe modo di vivere - tutti sanno che devono morire, nonno! - tutti lo sanno, ma non tutti si comportano come se lo sapessero - non ti capisco - sì, forse è un’altra cosa che ho letto. Sai, se io sapessi che morirò a 90 anni forse adesso farei altre cose. Forse no, adesso no, mi piace parlare con te. Più tardi però non so se farei quello che farò. Se il Presidente sapesse che morirà forse non sceglierebbe di continuare a fare la guerra. I soldati se sapessero che moriranno sicuramente, forse non partirebbero - ma questo nessuno lo può sapere - ed è per questo che forse qualcuno ha scritto che bisognerebbe vivere sempre come se fosse l’ultimo giorno. Forse no, non si riesce, abbiamo bisogno di momenti ‘persi’, di tregua, di spensieratezza, di svago, di distrazione. Purtroppo non saperlo però a volte ci fa comportare in modo di fare del male - non ci sono vantaggi nel non saperlo? - forse sì. Il nostro impegno per il futuro, per chi verrà dopo di noi. Non saperlo potrebbe implicarci di più? Per esempio io nei confronti di tuo padre, ma anche nei tuoi confronti, in piccola parte anche per tutti gli altri. In fondo anch’io ho preso in prestito ciò che ho trovato, e tu lo stai facendo per la tua parte. Io per te, tu per me. E’ circolare. Qualcosa prendiamo, qualcos’altro lasciamo. Qualcos’altro ancora portiamo - è come la storia della bicicletta che mi racconti spesso? - certo! - tu mi presti una bicicletta che funziona e io posso andare dove voglio, ma se tu me la presti bucata o con la catena rotta? - Puoi aggiustarla tu, così qualcosa che prima non funzionava, adesso funziona! C’è soddisfazione in questo modo di fare. Se tu ti arrabbi perché te lo lasciata così e non fai altro, le cose possono solo peggiorare - e se io non la so aggiustare? - c’è da qualche parte qualcuno che lo sa fare e te lo può insegnare. Tu però lo devi imparare per chi verrà dopo di te, per continuare a girare in bici, che è un gran girare!-e quando arriva in anticipo’ -è più difficile, però solo chi rimane deve scoprire quali altre possibilità ci sono per sé e per gli altri - scoprire che bicicletta ci hanno lasciato? - direi di sì. Prendere tempo e ricominciare a pedalare. Farlo accompagnandosi con qualcun altro è spesso più facile. Ci si può aiutare a vicenda, specie se l’altro ha avuto esperienza come noi, ma prima di noi - un po’ come imparare a rimettere in funzione la bici? - una cosa simile - per tornare a pedalare, lasciando a chi verrà, di continuare a farlo al posto nostro? -promossa !Da diverso tempo mi sono stufato di studiare, ascoltare, osservare modalità che riguardano un pensiero mai stanco di ricercare e conoscere solo attraverso l’Esasperazione Cartesiana che lo stesso René deplorerebbe. Il rischio e il dramma di ogni rivoluzionario è di trasformarsi nel suo opposto. Forse per René Descartes è successo suo malgrado. Sono i molti che più spesso trasformano in stagnazione reazionaria e conservatrice le innovazioni dei pochi. I successori hanno ottenuto numerosi successi e vantaggi grazie alla sua proposta ma molti, oggi, stanno commettendo l’errore di aver “sposato” le idee cartesiane. Gianfranco Cecchin mi ha insegnato che è bene non affezionarsi troppo alle idee. Semmai flirtare con esse. Luigi Boscolo mi ha fatto apprendere l’importanza del fare domande: - val più una buona domanda che due risposte. Questo vale soprattutto nelle relazioni d’aiuto, dove il rispetto per l’altro, per le sue modalità di adattamento, per la sua sensibilità è fondamentale per garantire la fiducia che apre al legame terapeutico. Il rispetto passa però dalla consapevolezza dei limiti di un approccio, di una teoria, di una lettura inevitabilmente incompleta alla quale non si dovrebbe cercare riparo in ulteriori peregrinazioni scientifiche o in “facili” complicazioni riduzionistiche. Nella relazione di aiuto non bisognerebbe disprezzare mai la sensibilità di nessuno. Essa, come ha scritto Charles Baudelaire, è il suo genio. La sensibilità di ognuno è il suo genio. Sì. Potremmo descriverla come la capacità di cogliere determinati stimoli, osservare e rispondere. Una facoltà riflessiva. Una riflessione che trova vita nella relazione. Da essa si generano le idee, i modi di sentire, di agire e questo accade quasi sempre nel lutto. Il lutto rappresenta un’esperienza importante, talvolta fondamentale nella vita di una persona. Ci risensibilizza. E’ anche per questo che sento che il pensiero cartesiano applicato alla relazione d’aiuto nelle situazioni di lutto sia un pericoloso omogeneizzante. Certamente non dimentico i grandissimi vantaggi che il pensiero cartesiano ci ha offerto negli ultimi secoli e soprattutto nel XX secolo. La tecnologia della quale beneficiamo l’abbiamo ottenuta attraverso lo sviluppo e l’applicazione della logica cartesiana. Molti successi in medicina si sono potuti avere grazie all’applicazione rigorosa del modello biomedico. Purtroppo però in troppi sono stati sedotti ed eccessivamente coinvolti nel perseguire le “promesse” cartesiane. Tale esasperazione ha raggiunto anche larga parte della medicina e della psicologia. Anche in questi contesti si è fatto coincidere conoscenza scientifica a logica cartesiana. Ad essa si attribuisce la sola possibilità di sapere affidabile. Si pensa infatti che solo attraverso questa “saldatura” si possa conoscere e realizzare “buone pratiche”. La conseguenza di questo modo di pensare ha portato molti contesti d’aiuto alla deriva. Si fatica ad abbandonare pratiche, se non obsolete, almeno insufficienti e bisognose di integrazioni. Penso che ormai le pratiche relazionali d’aiuto fondate sulla “consapevolezza scientifica” abbiano dimostrato che la loro pretesa di completezza e rigorosità sia fallita. All’inizio del terzo millennio, dopo almeno venti/trent’anni di sviluppo e riflessione relative a forme di pensiero e pratiche che potrebbero far ben sperare per il nostro futuro, ci troviamo ancora a dover fare i conti con le rigide impennate del pensiero unico. Ora possiamo decidere se aprirci al nuovo, a nuove pratiche, od ostinarci a perseguire i rigidi binari di pseudo sicurezze “vendute” talvolta anche dalle Università. Ognuno faccia la sua scelta, in scienza e coscienza. L’idea che ci proponiamo attraverso l’auto mutuo aiuto (AMA) non esclude il buono che ci può derivare dalle esperienze passate, anzi. Penso che una reale integrazione possa darci la terza via di cui abbiamo bisogno. Non conviene proporre sterili contrapposizioni. Non si tratta di una via che sostituisce le altre, ma si propone come percorso altro, che ne incrocia differenti, ne ricava il buono, offrendo le sue peculiarità. Si possono ottenere successi nella reciprocità e nella dialettica, non nell’isolamento, nell’ostilità e nei finti rapporti politicamente corretti. Il vantaggio che deriva dal passato, è che noi arriviamo oggi. Come ci insegna Ceruti, la costruzione del futuro è una sfida ineludibile. A noi, come a chi prima di noi, è necessario il coraggio illuminato di Prometeo e il rischio di Epimeteo. Lutto e Auto Mutuo Aiuto o di un’altra via per l’aiuto? “Dopo un tempo di declino viene il punto di svolta. la luce intensa che era stata scacciata ritorna. C’è movimento, ma non è determinato per violenza… Il movimento è naturale, sorge spontaneamente. perciò la trasformazione di ciò che è invecchiato diventa facile. Il vecchio viene rifiutato e ad esso subentra il nuovo. Entrambe le misure sono in accordo con il tempo; perciò non ne risulta nessun danno.” I Ching Pensiamo alle seguenti parole: persone che ammalano persone che guariscono; azioni che ammalano, azioni che guariscono. La salute di una persona, di un gruppo, di una comunità non è un affare per medici, psicologi, assistenti sociali, amministratori pubblici, ma è una responsabilità di ognuno. La responsabilità di ognuno è il suo potere. Il potere di ognuno può essere solo preso, non può essere dato. La responsabilità di ognuno è non delegare ad altri il potere che si può ragionevolmente agire personalmente nel controllo della propria vita. Accade che in talune situazioni questo potere venga meno, ma è pericoloso che qualcun altro si sostituisca alla possibilità che la persona ha di autodeterminarsi. Assumersi la responsabilità delle proprie scelte è uno dei primi atti di recupero in termini di potere. Scegliere per altri è doveroso se si tratta di minori, preoccupante se ci si occupa di adulti. E’ bene e comprensibile la pre-occupazione di coloro che devono scegliere per altri. La responsabilità per altri è però doppia. - Scegliere per sé vale per tre - fu una frase che sentii, alla fine degli anni ottanta, in un Club di Alcolisti in Trattamento (CAT), sorta di parafrasi del detto – chi fa per sé, fa per tre.- In quella occasione si parlava di responsabilità individuale nel prendersi il potere di agire per sé, di rispondere in prima persona verso se stessi che, nel caso della persona citata, aveva avuto effetti positivi anche nelle relazioni con la moglie e la figlia. Anche il percorso terapeutico può essere visto come un aiuto a ricostruire mappe migliori a disposizione di chi ne può beneficiare. Per quanto concerne l’esperienza del lutto possiamo pensare che una prima azione di responsabilità potrebbe essere rappresentata dall’appropriarsi dell’esperienza stessa. Il lutto non è una malattia. E’ il periodo che precede o segue la perdita di una persona con la quale abbiamo un legame, che, per qualche motivo, risulta significativa per noi. Il lutto possiamo definirlo un periodo di tempo della nostra vita caratterizzato, in genere, da un cambiamento obbligato che, in molte situazioni, genera una crisi rappresentata dal fatto che ciò che poteva andar bene, rappresentava il quotidiano, il normale, fino a poco tempo prima, ora non vale più o di meno. Propongo allora di vedere il lutto come una delle difficoltà (talvolta una delle maggiori difficoltà) che una persona, una famiglia, un gruppo, una comunità incontra nella propria vita. Le soluzioni che si adotteranno, intese come le modalità di far fronte al cambiamento che può precedere e/o succedere alla perdita, possono diventare “Il Problema” nel lutto. Nel lutto, come in molte altre esperienze di vita, bisogna andare oltre le visioni riduzionistiche, medicaliste e talvolta anche psicologizzate. Il lutto non è una condizione di pertinenza esclusiva. Il lutto è innanzitutto un’esperienza della persona, di proprietà, come tutte le esperienze, della persona che lo vive. Questa affermazione non è così scontata come potrebbe apparire. Persino le persone in lutto potrebbero pensare invece di considerare impropria tale esperienza. Spesso è il dolore che rende tale esperienza come estranea, inaccettabile. In tal caso la si può respingere, la si rifiuta, fino ad arrivare, in talune situazioni, a viverla come parte aliena. Piuttosto che accogliere il dolore, offrirgli uno spazio non invadente, ma uno spazio e un tempo dove potersi esprimere, addomesticare, lo si rigetta, spaventati dall’idea di poterlo alimentare. Il dolore spesso si trasforma in un tiranno, assume le sembianze di un despota prepotente, da rifuggire. Chiedere aiuto è la prima forma di aiuto che ci si concede. E’ il primo passo verso la presa di potere. Il concetto di “empowerment” è una bizzarria se lo si pensa nel senso del dare potere. Come ci ha insegnato Michel Foucault, il potere si può solo prendere. Chiedere aiuto non significa delegare però a chi ci si rivolge il potere del cambiamento. Significa chiedere di non essere soli. Chiedere di essere accompagnati, di avere dei testimoni, di avere compagnia in un momento particolarmente doloroso e, soprattutto, faticoso. Questo è l’auto aiuto. La fatica del riappropriarsi della propria esperienza può avere effetti di rinuncia, di percezione d’impossibilità. La sofferenza che si può sperimentare nel lutto, spesso analogamente al dolore fisico, cristallizza il tempo e ciò non permette di aprirsi al nuovo e costruire diverse possibilità. Nuove storie possibili. Frequentemente il dolore rende inaccettabile e insignificante l’alternativa. Avere qualcuno vicino in questi momenti può fare la differenza. Questo non significa che sarà l’Altro a salvarti, egli può solo supportarti, rassicurarti momentaneamente. E’ importante che ci sia, questo sì. Soli è tutto più difficile. Le opportunità molte volte si colgono nella relazione con altri che, da altre posizioni, ci indicano possibili vie. Quali percorrere? Saremo noi a deciderlo. L’AMA si propone come una modalità attraverso la quale ci si accompagna nel cammino di ricostruzione di quello che per la maggior parte delle persone in lutto è una nuova vita. Ci si fa compagnia, non si è soli e, col tempo, si ha voglia di non lasciar soli anche altri come noi. Questo è il mutuo aiuto. Non a caso insieme è una parola e una dimensione relazionale onnipresente nei gruppi AMA, che integra, laddove ce ne sia bisogno, il supporto di altre risorse presenti. Altrove ho indicato come l’AMA si offre ad ottimo integratore della rete di aiuti che si possono rivolgere alle persone in lutto. Infatti ciò che offre il professionista non lo offre l’AMA e ciò che offre l’AMA non può offrirlo il professionista. L’AMA un’esperienza è una possibile via che spesso si per integrare mostra nella propria de-strutturante, narrativa distruggente, disorientante. Nel gruppo si possono avere informazioni su come gli altri hanno fatto prima di noi, accompagnarsi nel cammino comune con la maggior parte dei presenti, costruire assieme un presente possibile. Lo si fa attraverso il dialogo, il confronto in comune delle esperienze, ma soprattutto attraverso azioni in comune. Insieme facendo. E’ nel fare si apprendono nuove modalità, sperimentando le nuove scelte e gli errori che si possono realizzare. Il gruppo rappresenta spesso il momento della riflessione e della progettualità condivisa. Non si sperimentano “ricadute” ma esperienze nuove. Nel male e nel bene. Il Facilitatore o del bisogno di un cambiamento epistemologico? “Per quanto benintenzionata sia la spinta a curare, l’idea stessa di ‘curare’ non può prescindere dall’idea di potere. E su di noi influiva anche la vecchia epistemologia realistica o ‘cosale’ dalla quale ci stavamo allontanando (“reale” viene dal latino ‘res’, ‘cosa’). Eravamo irrimediabilmente stupidi, vincolati come i protagonisti di una tragedia greca alle forme e alle configurazioni dei processi che gli altri, specie i nostri colleghi, credevano di vedere. E i nostri successori saranno vincolati alle forme del nostro pensiero.” Gregory Bateson Dalla prima alla seconda generazione. Dalla fase pioneristica è tempo di passare ad una seconda generazione di “facilitatori”. La situazione italiana, diametricalmente opposta rispetto ad altri paesi (specie anglosassoni), riguardo alla presenza del cosiddetto facilitatore è particolare. Infatti non si sbaglia di molto se si considera che almeno otto gruppi su dieci, nel nostro paese, hanno al loro interno un facilitatore formato. Prima però di addentrarci nel discorso intorno al facilitatore per i gruppi AMA facciamo qualche altra considerazione. La quasi totalità dei gruppi AMA in Italia è stata attivata da un operatore professionale. La stragrande maggioranza dei gruppi poi, una volta attivati, ha la presenza costante di un facilitatore. Molto spesso chi attiva il gruppo coincide con il facilitatore. Talvolta il facilitatore condivide la stessa difficoltà con il resto dei partecipanti del gruppo, altre volte, specie se trattasi di operatori professionali, non possiede in comune il cosiddetto “problema”. Penso, a tal proposito, che sia bene chiarire che se l’operatore partecipa continuamente agli incontri di un gruppo AMA senza portare la sua esperienza personale riguardo, per esempio alla difficoltà incontrata in relazione ad una perdita nel caso di un gruppo per persone in lutto, è meglio che si occupi dell’attivazione del gruppo, della eventuale formazione rivolta ai partecipanti e alla sporadica consulenza a favore del gruppo. E’ meglio perché penso che sia più utile all’AMA. Infatti una condizione fondamentale per poter partecipare a un gruppo AMA è la condivisione rispettivamente di: un problema, una difficoltà o, ad ogni modo, di un esperienza particolare. Questo è uno dei principi fondamentali dell’AMA. Il principio che sancisce la parità. Si badi, alcuni gruppi si aprono anche a persone che non hanno la stessa esperienza che vivono altre forme di sofferenza, ma, nella maggior parte dei casi, lo fanno perché per costoro, nel loro territorio, non ci sono gruppi specifici. Spesso rimangono in attesa di incontrare altri per costituire un gruppo ad hoc. Può essere che lo stesso trattamento sia rivolto anche a certi professionisti? L’esperienza insegna che gli operatori che non portano la loro esperienza diretta, anche se dotati di spirito di servizio per il gruppo, hanno fatto una formazione specifica all’AMA, e si vogliono dedicare alla pura facilitazione, spesso si ritrovano, loro malgrado, a gestire, in un tempo non molto lungo, un gruppo “parasupportivo” o di pseudoterapia o altro ancora di poco chiaro. Non che un gruppo di supporto o di terapia non sia utile, ma deve essere dichiarato, fatto da chi ne ha le competenze e, soprattutto, non è un gruppo AMA. Quindi, per riassumere brevemente, un operatore professionale che si vuole dedicare all’AMA dovrebbe sviluppare consapevolmente: • formazione all’AMA - che cosa è l’AMA (di converso cosa non è AMA); - quali caratteristiche ha un gruppo AMA; - come si differenzia da altre forme di aiuto; - quale è la metodologia dell’AMA; - quale relazione ci può essere tra operatori professionali e gruppi AMA; - la dimensione del volontariato nell’AMA • supporto all’AMA - offrire aiuto nell’attivazione di nuovi gruppi; - offrire occasioni di formazione e approfondimento ai partecipanti dei gruppi; - inviare persone ai gruppi in funzione della propria posizione professionale sul territorio; - promuovere l’approccio dell’AMA in contesti pubblici e professionali; - offrire consulenza (ad hoc e di verifica) ai gruppi AMA; - fare ricerca che riguarda l’AMA. Il facilitatore potrà essere inizialmente un operatore, ma in tempo utile, sarà bene che un partecipante, o più partecipanti, al gruppo prendano il suo posto. In genere tale processo avviene più facilmente se si affida il gruppo alla leadership naturale. Un processo “naturale” è più facile però che avvenga in condizioni “naturali”. Il, meglio ancora, i leaders naturali di un gruppo AMA, nel tempo, assumeranno la posizione che apparirà più simile al volontariato, anche se l’AMA si distingue dal volontariato tradizionale. Questo passaggio lo si può comprendere meglio se si considerano le caratteristiche fondamentali dell’AMA, a partire dalla parità. Particolarmente se si considera non tanto il ruolo del facilitatore, ma la funzione di facilitazione. In un gruppo AMA vi sono due tipi di attività: attività intra-gruppo e attività extra-gruppo. La facilitazione rientra nella metodologia dell’incontro di gruppo ossia le funzioni intra-gruppo: 1. verbale dell’incontro 2. aggiornamento dell’elenco dei partecipanti 3. facilitazione della comunicazione 4. attenzione ai tempi dell’incontro 5. accoglienza 6. patronage 7. gemmazione/fusione 8. cassa comune Come si può dedurre la facilitazione in un gruppo AMA riguarda principalmente la facilitazione della comunicazione: - stimolare la comunicazione attraverso l’espressione e il confronto delle esperienze; - proporre l’ascolto reciproco; - rispettare i turni di parola; - invitare a esprimersi chi in genere fatica a farlo; - ricondurre alla calibrazione del gruppo rispetto ai tempi dell’individuo; - evitare semplificazioni dell’esperienza dell’Altro attraverso facili interpretazioni, consigli o suggerimenti generici; - ricordare l’azione di patronage; - riportare l’attenzione ai tempi dell’incontro (apertura, discussione, chiusura). Nella logica di una simile prospettiva per chi si occupa di questa funzione, specie se professionista che non ha parità con il resto dei partecipanti, la tendenza è di passare dalla facilitazione come funzione, al facilitatore come ruolo, occupandosi anche del resto delle funzioni di gruppo (intra ed extra gruppo). In tal senso il facilitatore assomiglia ad un curatore dell’intero processo dell’AMA. Diviene una figura di riferimento essenziale in molti gruppi AMA. Alcune domande utili potrebbero essere: • senza il facilitatore presente ad ogni incontro il gruppo se la cava? • Se sì, meglio che il facilitatore passi a svolgere altre funzioni utili all’AMA? • Se no, il gruppo fatica a sviluppare autonomia (situazione contraria al processo di attivazione, importante in un gruppo AMA)? • Il facilitatore favorisce la gemmazione del gruppo o è un fattore di stabilizzazione/chiusura del gruppo? Se sì, può significare che il facilitatore stia lavorando per garantire un’altra caratteristica peculiare dei gruppi AMA, l’apertura del gruppo e, presumibilmente si starà decentrando circa la sua figura permanente all’interno del gruppo per occuparsi delle attività extragruppo. In altra maniera, mi è capitato di osservare gruppi AMA che nel tempo si mantengono sempre su un numero ristretto e, quasi sempre, intorno ad una o due unità. Spesso ciò dipende dal fatto che il facilitatore ha disponibilità a partecipare ad un solo gruppo settimanale, due gruppi sono troppi e nessuno dei partecipanti, messi a confronto con “Il Facilitatore” storico, se la sente di aprire un nuovo gruppo. Il gruppo quindi, più o meno consapevolmente, si chiude mantenendo i confini piuttosto impermeabili al cambiamento. Non a caso, anche se non solo per questo motivo, laddove abbiamo un solo gruppo con un facilitatore, la gemmazione è frequentemente disillusa, contrastata, vissuta come una perdita, una complicazione e non un momento da festeggiare per avere dato vita ad un nuova realtà. Per gruppi che nascono ex novo la presenza di un attivatore di gruppo è spesso fondamentale. In tempi brevi però, come già accennato, è bene trasferire le funzioni di gruppo ai vari partecipanti. Per essere maggiormente espliciti possiamo suggerire che i tempi di un attivazione di un nuovo gruppo non dovrebbero superare l’anno e il numero di presenze agli incontri di gruppo di 10/12. In tal senso si può passare alla facilitazione diffusa che può essere fatta a turno da un partecipante diverso ad ogni incontro, a quella condivisa in cui la facilitazione è una funzione curata da tutti i partecipanti del gruppo che si attivano a rispettare appunto i turni di parola, l’ascolto reciproco, il racconto della propria esperienza, ecc… Ovviamente questo avviene in una situazione ideale, spesso non così presente in realtà, ma passare il messaggio che tutti si devono preoccupare del funzionamento del gruppo e tutti ne sono responsabili significa offrire maggiori occasioni di attivazione da parte dei singoli membri. Questo è inoltre congruente con l’approccio dell’auto-mutuo-aiuto. Non va dimenticato poi che per occuparsi di un gruppo AMA, della facilitazione e di altre funzioni, non è necessaria una formazione specifica professionale. Chiunque abbia avuto il “problema” può dedicarsi alla cura del gruppo. Partecipare ad una formazione dedicata all’AMA è importante, soprattutto per evitare di commettere tipici errori che, specie se si tratta di nuove iniziative, rischiano di far fallire il progetto di attivazione di un gruppo. E’ tempo che i professionisti che vogliono dedicarsi all’AMA non rivolgano la loro attenzione in maniera esclusiva a ciò che accade all’interno de gruppo, ma escano allo scoperto nel cercare di sviluppare il movimento nel suo complesso. E’ anche tempo che i partecipanti dei gruppi sviluppino quel processo di alfabetizzazione dell’AMA che ci si auspicava all’inizio degli anni novanta ma che forse solo ora può trovare humus fertile. Chiaramente questo processo passa attraverso le persone, non nell’attesa di nuove norme, progetti sostenuti dalle istituzioni, fondi o quant’altro. Ricordiamoci del movimento dei CAT in Italia. Forse è grazie anche a loro che il “problema alcool” ha potuto ottenere l’attenzione dei governi. Come integrare reti formali e reti informali forse ci è indicato proprio dall’AMA. L’AMA propone una tra le diverse forme possibili di aiuto, ma soprattutto offre una via verso la costruzione di uno stile di vita diverso da quello valido fino al momento in cui il cambiamento obbligato ha colto la persona in lutto. Percorrere questa via non è facile e nemmeno semplice. Rimanere in un’ottica riparatoria significa proporsi come utenti/clienti di un gruppo AMA: - entro nel gruppo, sistemo il mio problema e me ne vado.Purtroppo anche molti operatori pensano che questa debba essere la dimensione dei gruppi e l’atteggiamento di coloro che li frequentano, quasi che la partecipazione ad un gruppo AMA sia l’equivalente dell’andare dal dentista: riparato il dente non ha senso continuare ad andarci, “tolto il dente, tolto il dolore”! Spesso nei gruppi transitano velocemente persone che non colgono l’opportunità che loro stessi potrebbero, attraverso l’AMA, cogliere. Si spera che trovino altre forme di aiuto, come di fatto accade. Altri frequentano per un certo periodo il gruppo, stanno meglio e lasciano il gruppo. Va bene. In ciò non c’è nulla da ridire. L’AMA lascia libere le persone di frequentare il gruppo nelle forme che riescono e/o desiderano. Dobbiamo però ben sperare che qualcuno rimanga, assumendo una posizione diversa, come testimone vivente della riuscita del suo lavoro d’acquisizione di potere, presente arriverà. Questa posizione si con l’intenzione di offrire aiuto a chi avvicina molto, come accennato, al volontariato, con la differenza che fa la differenza che nel caso dell’AMA la difficoltà vissuta è vista come risorsa, nel volontariato tradizionale la difficoltà viene vista spesso come un problema ed è spesso fattore discriminante per poter accedere alle Associazioni e quindi al volontariato. Auspichiamoci un passaggio ad un nuovo periodo dell’AMA e ad una nuova generazione di persone che si dedicano all’aiuto dei propri simili. Riferimenti bibliografici o dei libri necessari 1. G. Bateson, 1979, Mind and nature, by Gregory Bateson, (tr.it.) Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984 2. F. Capra, 1982, The turning point, Simon and Schuster, New York (tr.it.) Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano, 1984 3. M. Foucault, 1972, Histoire de la folie à l’age classique, editions Gallimard, Paris (tr.it.) Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1976 4. R. Laing, 1967, the politics of experience, Penguin Books, Harmondsworth (tr.it.) La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano, 1968 5. ùW.I. Thompson, 1987, Gaia: a way of knowing, Lindisfarne Association (tr.it.) Ecologia e autonomia, Feltrinelli, Milano, 1988 dei libri raccomandati 1. L. Boscolo, P. Bertrando, 1993, I tempi del tempo, Boringhieri, Torino 2. G. Cecchin, G. Lane, W.A. Ray, 1997, Verità e pregiudizi, Raffaello Cortina, Milano 3. R. Coleman, 1999, Recovery, an alien concept, Handsell Publishing (tr.it.) Guarire dal male mentale, Manifesto libri, Roma dei consigliati 1. A. Noventa,, R. Nava, F. Oliva, 1990, Self-help, Gruppo Abele, Torino 2. N. Ferrari (a cura di), 2005, Ad occhi aperti, edizioni libreria cortina, Verona 3. D. Steinberg, 1997, the mutual-aid approach, Jason Aronson (tr.it.) l’auto/mutuo aiuto, Erickson, Trento, 2002