qui - Unric

Transcript

qui - Unric
ABSTRACT
On September 2007, the bloody crackdown of peaceful protests in Myanmar drew
the world’s attention to the serious violations of human rights that were taking place
in the country. The violence against the monks and civilians who were taking part in
the demonstrations underlined the need for a transition from dictatorship to
democracy. The new window of opportunity created by these events should be used
by the international community to force the Burmese junta to accept genuine political
change by putting more pressure on the regime.
The duty to ensure the respect of human rights and fundamental freedoms calls for
the members of the international community to review the principle of state
sovereignty in order to prosecute perpetrators of serious international crimes and
reiterated violations of human rights standards. The United Nations, regional
organisations such as the ASEAN, the European Union and individual countries have
to implement the appropriate international law instruments and combine their efforts
– at a national, regional and international level – to actively support Burmese prohuman rights activists and internal democratic forces. Based on international
conventions and treaties, countries should adopt appropriate measures to put an end
to the impunity of the Burmese regime. The failure to take meaningful action against
the military junta, however, highlights the international community’s lack of
willingness in this respect.
1
ABSTRACT.................................................................................................................1
Preambolo...................................................................................................................2
CAPITOLO I............................................................................................................5
Introduzione.............................................................................................................7
1. Le Rivolte: Uno sguardo sulla situazione dei Diritti Umani in Birmania...............8
2. Norme di Carattere Imperativo e Obbligazioni Erga Omnes.................................10
3.1 Persecuzioni etniche............................................................................................14
3.2 Azioni internazionali a tutela delle minoranze....................................................19
4.1 Lavoro Forzato......................................................................................................22
4.2 Triplice Violazione: norme sui diritti umani, norme internazionali
sul lavoro, norme cogenti.....................................................................................25
4.3 Azioni e soluzioni tramite l’Organizzazione Internazionale del Lavoro..............26
4.4 Sfruttamento minorile e bambini soldato..............................................................31
5.1 La repressione legale del dissenso. Abusi del sistema giudiziario:
Arresti arbitrari, Detenzioni illegali, Processi farsa.............................................35
5.2 Torture e altri trattamenti inumani e degradanti: la Birmania come
Stato aguzzino.........................................................................................................40
5.3 Norme Internazionali contro la Tortura...............................................................45
CAPITOLO II.............................................................................................58
Il Ruolo delle Nazioni Unite.
1 “Responsibility to Protect” e Intervento Umanitario:
le azioni del Consiglio di Sicurezza passando attraverso la
riforma delle Nazioni Unite........................................................................59
1.2 Altre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza................................................69
1.3 L’Assemblea Generale e gli atti non vincolanti..........................................71
1.4 Altre azioni in ambito ONU: La diplomazia del Segretario Generale.........74
1.5 Il Consiglio dei Diritti Umani: un potenziale innovativo............................77
1.6 Il Consiglio dei Diritti Umani e le azioni nei confronti della
Birmania:tra idealismo ed effettività..........................................................82
1.7 Azioni legali esperibili dinanzi alla Corte Internazionale
di Giustizia...................................................................................................85
1.8 Campagne pro Birmania e sensibilizzazione dell’opinione pubblica,
ovvero l’operato dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani
e dello “Special Rapporteur ”........................................................................88
Il Ruolo dell’Unione Europea
2.1 La reazione delle Istituzioni Europee............................................................91
2.2 L’Unione Europea incontra l’“Asia”............................................................96
2.3 L’azione dell’Unione Europea a supporto delle Nazioni Unite.....................98
Modalità d’Intervento Trasversali: Sanzioni e Aiuti Umanitari.
3.1 Sanzioni, ovvero tagliare i viveri al Consiglio Statale per la
Pace e lo Sviluppo......................................................................................100
3.2 Attori Internazionali Rilevanti: Statali, Non-Statali, Economici................102
4.1 Il Ciclone Nargis, una ventata di aria fresca?.............................................109
4.2 Processo costituzionale farsa.......................................................................111
CAPITOLO III ...............................................................................................128
1 La Corte Penale Internazionale: un traguardo o un punto di partenza?..............128
Azioni a norma del Diritto Penale Internazionale.
2 La Giunta Militare sul Banco degli Accusati......................................................132
2.1 La Giurisdizione Ratione Personae...................................................................133
2.2 Possibili Estremi dell’Imputazione....................................................................134
2.3 Coscienza Giuridica versus Ragion di Stato......................................................138
2.4 L’Ago della Bilancia: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite................141
2.5 Limiti all’azione della Corte Penale Internazionale...........................................143
3 L’Universalità della Giurisdizione:
Iniziative Giudiziarie Complementari da Parte di Stati Terzi.............................147
4 La Sovranità Esclude la Responsabilità ?.............................................................152
Conclusioni...........................................................................................................154
BIBLIOGRAFIA.................................................................................................164
RINGRAZIAMENTI
Preambolo
Le recenti vicende dello Stato del Myanmar (ex Birmania) hanno indotto la
comunità internazionale a puntare i riflettori sul Paese, riportando alla luce una
questione mai del tutto sopita, che si colloca nel solco della tensione esistente tra
idealità ed effettività del diritto internazionale. L’evoluzione giusinternazionalistica, il
consolidarsi di nuovi principi spesso contrapposti o addirittura antitetici rispetto ai
principi di diritto internazionale “tradizionale”, hanno comportato una maggiore
difficoltà nel trovare soluzioni adeguate al caso concreto, soluzioni che siano
rispettose delle diverse esigenze che è necessario tutelare. Oggi la sovranità nazionale
non è più un idolo, si è verificato un processo di deassolutizzazione del concetto stesso
di sovranità e di riconoscimento dell’esistenza di beni (dell’intera famiglia umana) che
sono superiori agli Stati stessi. Tuttavia, se sono abbastanza chiari i limiti all’esercizio
della sovranità dello Stato nelle relazioni internazionali, più complessa è la questione
dei limiti alla sovranità di uno Stato all’interno del proprio territorio, nonché alla
possibile interferenza della comunità internazionale. Di certo oggi non è più
ipotizzabile un divieto assoluto di ingerenza negli affari interni di uno Stato, proprio
perché la sovranità dello Stato non costituisce un valore assoluto ma un bene giuridico
che deve essere controbilanciato. L’esercizio della sovranità è stato, dunque,
fortemente condizionato e vincolato, in forza dell’elaborazione della teoria della
“primazia dei diritti umani”, come principio regolatore dei rapporti tra Stati. La
“Primacy” ha, come corollario, il diritto di opporre nei rapporti tra Stati l’eccezione
umanitaria, sì da giustificare non solo il ricorso a sanzioni, ma anche l’interferenza
nella sfera di sovranità del singolo Stato ove lo richieda la salvaguardia dei diritti
umani. L’affermarsi del diritto internazionale umanitario corrode la logica
2
statocentrica ed egoistica (ad escludendum alios) imponendo agli Stati di farsi carico
uti singuli o uti universi della tutela dei valori supremi dell’ordinamento
internazionale. Da questo punto di vista il caso del Myanmar pone un formidabile test
alla comunità internazionale e alle sue istituzioni, per provare se essa, dotata di mezzi
efficaci e strumenti risolutivi, difetti invece di volontà. In concreto, i fatti di sangue
più recenti hanno aperto una nuova finestra di opportunità che tuttavia gli attori
internazionali, ormai assuefatti alla cultura della impunità, non appaiono in grado di
sfruttare.
A challenge to impunity dunque, per dirla con un noto slogan, impunità degli Stati,
dei governanti, di quegli attori la cui inazione dimostra come il rispetto dei diritti
umani non sia ancora una priorità assoluta nelle relazioni internazionali.
In un mondo di Stati sovrani che gelosamente custodiscono il concetto della loro
domestic jurisdiction, in che modo è allora possibile tutelare individui dei quali
vengono violati i diritti all’interno degli Stati stessi, superando il confine della
sovranità territoriale? Si impone, dunque, di superare il limite anacronistico della
sovranità nazionale, che non può più essere anteposto alla difesa dei diritti umani.
Nel caso concreto in esame, molteplici opzioni di intervento possono essere vagliate,
meccanismi giurisdizionali, strumenti giuridici e ovviamente politici, nella
consapevolezza che è tempo per la comunità internazionale di agire. Prima, però, di
considerare le varie opportunità di eventuali azioni legali intraprese contro il Myanmar
sulla base del Diritto Internazionale, è bene entrare nel merito della questione e capire
se, alla luce delle categorie concettuali note, ricorrano gli estremi di un illecito
internazionale. Infatti, l’appello generico alla violazione di norme jus cogens rischia di
essere vago e rimanere inascoltato come nella maggior parte dei casi è avvenuto e
3
avviene o, peggio, fare del pretesto “umanitario” oggetto di strumentalizzazioni cui la
“storia” ci ha purtroppo abituati. Occorrerà dunque accompagnare alla nostra denuncia
adeguati supporti argomentativi nella consapevolezza che l’effettività del diritto è
facile ostaggio della opportunità politica.
4
CAPITOLO PRIMO
PREMESSE: Prima di affrontare la questione sotto il profilo più propriamente
giuridico ed entrare nel merito delle soluzioni attuabili ai sensi del Diritto
Internazionale, è sembrato opportuno trattare in maniera specifica le violazioni
perpetrate dalle autorità birmane, poiché è proprio sulla base di queste che sarà
possibile approntare appositi rimedi che possano essere legittimi sul piano
internazionale. Inoltre, solo acquisendo contezza della gravità di tali violazioni
apparirà ancora più evidente l’urgenza di agire al fine di risollevare le sorti della
popolazione birmana.
BREVI CENNI STORICI
La storia della Birmania.
La Birmania è stata sempre duramente segnata da una guerra civile che, in ogni
tempo, ha afflitto il Paese e la sua popolazione. Provincia dell’Impero britannico sin
dal 1919, solo dopo un trentennio di lotte con gli Inglesi prima e con le forze di
occupazione giapponese poi, nel 1948 ottenne l’indipendenza. In tale occasione, si
distinse il generale Aung San, padre della futura leader dell’opposizione democratica
5
e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Nel 1962, un colpo di stato portò al
potere i militari facendo sprofondare il Paese nel baratro di una repressiva dittatura
militare. I metodi di governo dispotici usati nei confronti della popolazione civile e
dei dissidenti trasformarono la Birmania in un regime autoritario. Gli oppositori
furono subito eliminati, fra questi l’eroe dell’indipendenza birmana Aung San. Le
dure condizioni di vita della popolazione birmana furono ulteriormente aggravate
dalle fallimentari politiche economiche della giunta. Questi sono i motivi alla base
della clamorosa sollevazione popolare dell’ otto agosto 1988. La cosiddetta rivolta
8888 vide decine di migliaia di persone scendere in piazza per manifestare il proprio
malcontento e protestare contro l’autoritarismo della giunta militare. Ieri come oggi,
alla guida della rivolta si posero i monaci buddisti e gli studenti; ieri come oggi,
l’esercito soffocò la rivolta nel sangue. Anche allora numerosi dissidenti, fra cui
l’eroica Aung San Suu Kyi, furono arrestati e condannati. Tuttavia, nonostante la
dura repressione delle proteste, la giunta militare non potè esimersi dal concedere
libere elezioni, che, nel maggio del 1990, videro la schiacciante vittoria della Lega
Nazionale per la Democrazia (National League for Democracy NDL) che, avendo
ottenuto l’80% dei voti, avrebbe dovuto contare in parlamento ben 392 deputati su
un totale di 485. Come leader del partito di maggioranza, Aung San Suu Kyi sarebbe
dovuta diventare premier.
Come è noto, quel parlamento non si è mai riunito, i membri della NDL furono
arrestati e condannati per alto tradimento; alla loro leader venne “generosamente”
offerto di lasciare il Paese a patto di non rientrarvi mai più (offerta che Aung San
Suu Kyi ovviamente rifiutò). Ancora oggi, l’eroica leader è agli arresti domiciliari:
sta scontando la coraggiosa scelta di lottare al fianco del suo popolo per la
6
democrazia in Myanmar, nome assunto dalla Birmania a partire dal 1988 (e infatti
come scelta di principio “ Birmania “ è il nome che si è preferito utilizzare nella
stesura del presente lavoro, il nome che svettava dai cartelli dei manifestanti scesi in
piazza per protestare contro il regime). Bisogna, tuttavia, sottolineare che la dura
lotta e la perseveranza irriducibile della leader birmana finora hanno conseguito ben
pochi risultati in quanto gli esponenti della giunta militare non sono mai stati
propensi ad un vero dialogo.
I più recenti sviluppi della storia del Paese sono cronaca dei nostri giorni.
INTRODUZIONE
Quali violazioni contestare al governo birmano?
Violazioni specifiche di norme di diritto pattizio, con riferimento ai trattati e alle
convenzioni internazionali cui la Birmania è parte, ma anche violazioni generali di
norme consuetudinarie, e norme imperative o di diritto cogente.
Entrando nel merito delle violazioni di Diritti Umani ampiamente documentate, esse
si sostanziano non solo nella negazione dei più sofisticati diritti economici sociali e
culturali, ovvero dei cosiddetti diritti di nuova generazione, ma anche delle classiche
libertà fondamentali, dei cosiddetti diritti naturali storicamente acquisiti e
giuridicamente ascritti.
7
1. Le Rivolte : Uno sguardo sulla situazione dei Diritti Umani in Birmania.
I disordini scoppiati nel Myanmar (ex Birmania) il 24 agosto 2007, durante i quali
migliaia di persone hanno scelto di scendere in piazza per manifestare il proprio
dissenso nei confronti del regime. Dinanzi all’ennesimo rincaro del prezzo del
carburante, col conseguente raddoppio del costo dei trasporti e di molti generi di
prima necessità, la popolazione,
già prostrata da decenni di cattiva gestione
economica e oppressione politica, ha scelto la strada della protesta pacifica. La
politica dissennata del regime ha gettato il paese in una crisi economica senza
precedenti (nonostante le numerose risorse fra cui spiccano il legno teak, il più
pregiato del mondo, pietre preziose e ricchi giacimenti di petrolio e soprattutto di
gas, la popolazione ha un reddito pro capite annuo di circa cento dollari, poiché la
giunta ha indirizzato i fondi pubblici non verso interventi infrastrutturali o di welfare,
ma all’acquisto di armi e materiale militare consolidando il partenariato commerciale
con la Cina, la Russia e l’India). Le manifestazioni scoppiate dapprima nelle strade
della capitale Yangoon già Rangoon, hanno coinvolto senza distinzioni giovani,
anziani, lavoratori, gente comune; la rivolta pacifica (come già nell’88) è stata
capeggiata dal movimento studentesco e dai monaci buddisti. La rivolta non violenta,
protrattasi per settimane, è stata repressa nel più violento dei modi da parte
dell’esercito, che non ha esitato ad aprire il fuoco contro i manifestanti inermi. Le
brutali modalità con cui i “Macellai di Rangoon” hanno soffocato le proteste, insieme
agli arresti indiscriminati e ai successivi rastrellamenti nei monasteri come nelle
abitazioni private, hanno indignato l’opinione pubblica e messo in allarme la
comunità internazionale. Le testimonianze pervenute riferiscono di sparizioni,
8
percosse, uccisioni brutali. Probabilmente non si conoscerà mai la portata esatta della
repressione, poiché, come è noto, le autorità militari hanno ordinato di distruggere
qualsiasi tipo di immagine o video riguardante la protesta. Per impedire la fuga di
notizie sono state sequestrate macchine fotografiche e cellulari, i possessori di foto
compromettenti sono stati arrestati, numerosi giornalisti tra i quali anche reporter
stranieri, come il giornalista giapponese Kenji Nagai, (ucciso mentre riprendeva una
carica della polizia) sono rimasti vittime negli scontri. In totale spregio della libertà
di stampa e di informazione, è stata inasprita la censura, interrompendo anche le
comunicazioni via internet o telefono, e veicolando la versione ufficiale dei fatti
attraverso le reti televisive di Stato. Isolando i manifestanti, interrompendo i contatti
con l’esterno, con i sostenitori pro democrazia e i dissidenti politici in esilio, la
giunta ha cercato di impedire la divulgazione delle ragioni del dissenso e cercato di
occultare quella che può definirsi una vera e propria carneficina. Una stima di
Amnesty International, sulla base delle sole informazioni ricevute, parla di un
migliaio di arresti, nella sola ex-capitale Yangoon. A questi prigionieri vanno
aggiunte le centinaia di persone arrestate durante il mese di agosto, fra le quali
spiccano numerose personalità di primo piano della Lega Nazionale per la
Democrazia (NLD) e altri attivisti dei diritti umani. Chi ha seguito con apprensione
l’evolversi della situazione, ha potuto apprendere, attraverso lo stillicidio di notizie
filtrate nei giorni successivi al ripristino dell’ordine pubblico, i retroscena più
agghiaccianti come le testimonianze di forni crematori, di religiosi schiacciati da
mezzi pesanti e poi cremati in massa o degli studenti deceduti a causa delle percosse
subite al momento dell’arresto. È ovvio che la questione vada ben oltre la mera
violazione della libertà di manifestare pacificamente o della libertà di espressione del
9
dissenso, in quanto si tratta di una ben più profonda e radicata negazione dei diritti
umani fondamentali, diritti irrinunciabili come il diritto alla vita o il diritto a non
subire privazioni arbitrarie della propria libertà.
Siamo dinnanzi ad una dittatura in piena regola che negli anni ha realizzato una sorta
di paese-lager dove vengono praticati lavori forzati di massa, da dove fuggono
milioni di civili, dove si viene perseguiti e arrestati arbitrariamente.
Oggi, dopo l'iniziale concitazione mondiale, l'attenzione dei media sulla Birmania si
è progressivamente affievolita, mentre bisognerebbe riaccendere i riflettori sulle
gravi sofferenze della popolazione e sulla necessità di trovare rimedi adeguati, nella
ferma convinzione che il Diritto Internazionale predispone validi strumenti risolutivi,
ma rimane lettera morta quando, come nel caso in questione, difetta la volontà
propositiva.
2 Norme di Carattere Imperativo e Obbligazioni Erga Omnes.
Prima di passare in rassegna le trasgressioni e inadempienze ascrivibili alla condotta
(attiva e intenzionale nel primo caso, omissiva e complice nel secondo) del governo
birmano, occorre chiarire talune nozioni giuridiche
fondamentali. Ai fini di
un’analisi puntuale che ci permetta di delineare compiutamente i profili di
colpevolezza e responsabilità, imputabili ai più alti quadri dirigenti dello SPDC,
s’impone l’esigenza di addentrarci in quella categoria giuridico-concettuale che va
sotto il nome di jus cogens .
Come buona parte delle nozioni del Diritto Internazionale, oggi largamente
riconosciute, anche la nozione di diritto cogente è maturata gradualmente in seno alla
10
comunità internazionale. Un tempo, il diritto esclusivo di ogni Stato a svolgere le
proprie funzioni sul proprio territorio ad esclusione di ogni altro Stato non conosceva
eccezioni se non nel caso della stipulazione di trattati contra bonos mores. Oggi gli
stessi Stati hanno progressivamente sviluppato il convincimento che alcune norme
fondamentali, emerse in via consuetudinaria, dovessero rivestire una importanza
superiore rispetto alle altre norme di Diritto Internazionale generale. La circostanza
che gli Stati abbiano riconosciuto e identificato in talune norme (ad esempio: il
principio della autodeterminazione dei popoli, il divieto di aggressione, il divieto di
ricorrere a pratiche di genocidio, il divieto di ricorrere a pratiche di schiavitù e di
discriminazione razziale)1 l’espressione di valori fondamentali che sono alla base
dell’intera comunità internazionale ha portato queste ultime ad elevarsi ad un rango
gerarchicamente superiore rispetto a tutte le altre norme internazionali.
Il carattere imperativo riconosciuto dalla prassi internazionale contemporanea a
questa categoria di norme, si sostanzia, nella loro particolare vis abrogans che è tale
da rendere nulli i trattati di diritto interno e internazionale con esse contrastanti. Il
carattere di assoluta inderogabilità delle norme di diritto cogente è stato sancito in
positivo dalla Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969. In base all’art.
53 della Convenzione “una norma imperativa di Diritto Internazionale Generale è
una norma accettata e riconosciuta dalla comunità degli Stati nel suo complesso
come una norma cui non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata solo
da una norma successiva di Diritto Internazionale generale della stessa natura”,
inoltre sempre nella stessa é previsto all’art. 64 che “nel caso in cui emerga una
nuova norma imperativa di Diritto Internazionale generale, ogni trattato esistente che
è in contrasto con tale norma diviene nullo e si estingue”. Di conseguenza la
11
Convenzione di Vienna ha previsto (art. 66, lettera A) la giurisdizione obbligatoria
della Corte Internazionale di Giustizia, in relazione alle controversie relative alla
nullità dei trattati per contrasto con le norme internazionali di jus cogens .
Un’altra nozione giuridicamente rilevante, strettamente connessa a quella di diritto
cogente, è quella di obbligazioni internazionali erga omnes. Tale nozione riveste
particolare importanza in quanto va a sottolineare il carattere indivisibile dei beni
giuridici tutelati e quindi anche degli obblighi che ne derivano. Dal momento che
tramite il riconoscimento di un insieme di norme di natura inderogabile e di efficacia
giuridica gerarchicamente superiore, gli Stati hanno inteso offrire tutela ai principi e
valori supremi dell’ordinamento giuridico internazionale (tant’è vero che con
riferimento a tali norme
si è parlato di “norme costituzionali” poste alla base
dell’“ordine pubblico internazionale”), da queste si fanno discendere obblighi che si
instaurano non nei confronti di un solo Stato ma nei confronti della comunità
internazionale nel suo insieme, ovvero diritti che possono essere fatti valere nei
confronti di uno Stato da qualsiasi altro soggetto. Il riconoscimento di obblighi erga
omnes in capo agli Stati, produce delle conseguenze dirette in capo agli individui (ad
esempio dal riconoscimento dell’obbligo gravante in capo allo Stato di non ricorrere
a pratiche di genocidio, ne discende il diritto in capo all’individuo di non essere
vittima di tali pratiche). Inoltre data l’indivisibilità dei beni giuridici e valori oggetto
di tutela, ove si verifichi la violazione di una norma di carattere imperativo, ogni
Stato ha il diritto di considerarsi leso e nutre il legittimo l’interesse a pretendere il
ripristino dell’ordine giuridico violato. Dunque, anche laddove uno Stato non sia
direttamente o materialmente danneggiato in forza della violazione di una norma di
jus cogens, permane l’interesse giuridico a che tali norme siano rispettate. A tal
12
proposito è assolutamente chiarificatore il contenuto della nota sentenza del 1970
emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso “Barcelona Traction”: “Una
distinzione essenziale deve essere fatta, in particolare, fra le obbligazioni degli Stati nei
confronti della Comunità internazionale nel suo insieme e quelle che nascono nei
confronti di un altro Stato nel quadro della protezione diplomatica. Per loro stessa
natura, le prime riguardano tutti gli Stati. Vista l’importanza dei diritti in giuoco, tutti
gli Stati possono essere considerati come aventi un interesse giuridico a che tali diritti
siano protetti; le obbligazioni di cui si tratta sono obbligazioni erga omnes. Tali
obbligazioni derivano ad esempio nel diritto internazionale contemporaneo della messa
al bando degli atti di aggressione e del genocidio, ma anche dai principi e dalle regole
concernenti i diritti fondamentali della persona umana, ivi compresa la protezione
contro la pratica della schiavitù e della discriminazione razziale. Alcuni fra i diritti di
protezione corrispondenti si sono integrati nel diritto internazionale generale...; altri
sono conferiti da strumenti internazionali di carattere universale o quasi-universale”2 .
Un’ altra precisazione è d’obbligo. Sebbene ancora oggi il dibattito culturale sulla
“estendibilità dei diritti umani”3 alla totalità degli Stati sia ben lontano dal trovare
una risposta univoca, non vi è dubbio che sul piano giuridico le norme volte a
garantire la tutela dei diritti fondamentali della persona siano ascrivibili alla categoria
di norme di carattere imperativo. Anzi è possibile affermare che le norme imperative
e in primis quelle volte a tutelare la dignità della persona umana siano poste oggi al
centro dell’ordinamento giuridico internazionale, e sono dunque, più di ogni altra
norma, meritevoli di tutela giuridica da parte della comunità internazionale.
Si comprende come ai sensi del Diritto Internazionale, la violazione delle norme
imperative rivesta dunque una particolare gravità, per questo laddove si accerti che
13
uno Stato, magari proprio attraverso la condotta dei suoi organi di governo stia
calpestando i suddetti valori e principi, si rende necessaria la risposta della intera
comunità internazionale: a questa spetta infatti il compito di garantire l’osservanza di
quelle norme imprescindibili che essa stessa si è data. A questa risposta, alla forma
che essa dovrebbe assumere e alle modalità in cui si dovrebbe esplicare, si cercherà
di pervenire, con la stesura del presente lavoro.
3.1 Persecuzioni etniche.
Il governo militare birmano, privo di qualunque forma di legittimazione dal “basso”,
utilizza per mantenersi saldamente al potere gli strumenti della deportazione, del
lavoro forzato e dello stupro di massa. Pianificate a livello centrale e attuate in
maniera capillare, queste tattiche riconducibili a un vero e proprio disegno di pulizia
etnica, vengono indirizzate contro i membri delle numerose minoranze etniche
presenti sul suolo birmano. I Bamar, circa 35 milioni, rappresentano solo una delle
componenti (i due terzi circa della popolazione totale, quasi 50 milioni di persone),
seppur la maggioritaria nel mosaico etnico birmano, la cui composizione si
arricchisce dunque della presenza di altre nazionalità etniche, che costituiscono sì
gruppi minoritari ma tutt’altro che esigui. Gli Shan (4 milioni e mezzo), i Karen (3
milioni e mezzo) i Rakhine (2 milioni), i Cinesi (oltre un milione e mezzo) i Mon
(quasi un milione e mezzo) e ancora la popolazione musulmana dei Rohingya (un
milione circa).
Le principali rivendicazioni delle minoranze etniche consistono nel conseguimento di
una vera e propria autonomia delle loro regioni e nell'avere voce in capitolo sugli
14
affari dell'intera nazione, esigendo il giusto diritto a partecipare al processo
decisionale. Poche desiderano veramente l'indipendenza totale come meta ultima.
Dal colpo di stato del 1988, il Consiglio di Stato per la Restaurazione dell'Ordine e
della Legge (SLORC) rinominato, nel novembre del 1997, Consiglio di Stato per la
Pace e per lo Sviluppo (SPDC), ha negoziato tregue con molti gruppi etnici armati e
intrapreso feroci guerre nei confronti di altre. In seguito all’intensa offensiva militare
da parte dell’esercito birmano, iniziata nel 1984, consistenti gruppi di persone Karen
sono stati costretti a cercare rifugio al confine birmano-thailandese e, parimenti, la
maggior parte degli abitanti dello Stato Shan, per difendersi dalle rappresaglie delle
truppe regolari, ha dovuto sparpagliarsi sul territorio abbandonando i propri villaggi.
La popolazione mussulmana Rohingya della Birmania sud-orientale fu presa di mira
nel 1991, e oltre 250.000 persone di tale etnia dovettero fuggire nel vicino
Bangladesh. Come rilevato dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite per il
Myanmar, Paulo Sèrgio Pinheiro, la Birmania produce oggi il più alto numero di
rifugiati nella regione, con un flusso massiccio di profughi che continuano a lasciare
il territorio birmano per i paesi confinanti, e si stima che nella sola Thailandia vivano
oggi circa un milione di esuli Birmani4. Costretti dunque a fuggire ai confini del
territorio o nelle isole del mare delle Ardamanne, i gruppi etnici, che a ragion veduta
potremmo ben definire perseguitati, vivono in condizioni di profonda arretratezza e
di estrema indigenza, privi di mezzi di sostentamento, beni e servizi essenziali come
l’assistenza medica o la fornitura di acqua o corrente elettrica. Nonostante gli
“accordi di cessate il fuoco”, le persecuzioni continuano attualmente ad essere
perpetrate. Nello Stato Kareno dopo il “gentleman’s ceasefire agreement” concluso
nel 2004 tra il Karen National Union (KNU) e lo SPDC, le violazioni persistono, e
15
anzi in alcuni distretti come Taungoo e Nyaunglebin5 le rappresaglie sono addirittura
aumentate in questi anni. In realtà, come spesso accade, lo SPDC ha utilizzato
l’accordo verbale di “cessate il fuoco” come un pretesto per rinforzare la presenza
militare nella zona, in modo da tenere i civili sotto controllo e avere accesso alle aree
più remote. Nei tre distretti Nord dello Stato Karen, oltre 18,000 persone sono state
ridislocate come conseguenza diretta degli attacchi dell’esercito e della dura
offensiva contro il Karen National Union (KNU) e i pochi abitanti rimasti a Nord
dello Stato Kareno sono continuamente oggetto di nuovi attacchi. Le truppe militari
hanno esteso le loro attività nelle aree di cessate il fuoco, malgrado gli accordi di
tregua, rinforzando le misure restrittive sui civili6. Anche nelle zone Kachin e Mon,
dove parimenti accordi di tregua erano stati stipulati, i militari continuano a vessare
la popolazione e sono ormai ordinari i maltrattamenti e le violenze sui civili, così
come i casi di lavoro forzato e altri gravi abusi. Va precisato, inoltre, che l’attuale
giunta militare, per rafforzare il suo regime, ha sfruttato ed esasperato le divisioni
all’interno dei gruppi etnici: ad esempio, la rilocazione di migliaia di contadini Wa in
aree tradizionalmente Shan, nel 2000, ha causato tensioni e scontri tra i due gruppi,
permettendo ai soldati di imporre più agevolmente la propria presenza nel territorio.
Come conseguenza della politica di deportazione del governo militare, oggi migliaia
di persone vivono nel pericolo constante di nuovi attacchi, mentre molte altre hanno
già trovato scampo nei campi profughi, principalmente nelle zone di confine.
Davvero preoccupante è dunque il fenomeno degli Internally Displaced People
(IDP’s – persone internamente ridislocate), stimati in circa 600.000 su oltre un
milione di rifugiati interni, si tratta principalmente di contadini, costretti ad
abbandonare le loro case per sfuggire al reclutamento come portatori militari o ad
16
altri tipi di abusi (essi vengono infatti continuamente obbligati a prestare la loro
opera come manovali nei cantieri o per la costruzione di strade o altre infrastrutture),
i cui villaggi vengono evacuati, saccheggiati e bruciati dall’esercito e dalle
formazioni paramilitari sue alleate. Non solo, spesso interi villaggi sono sgomberati e
intere famiglie obbligate a spostarsi per far spazio al passaggio di gasdotti o centrali
idroelettriche7. Una volta vittime di questi trasferimenti forzati, i civili trovano
sistemazione nei “campi di rilocazione forzata” o in altri siti designati dall’esercito,
dove ormai privati delle proprie abitazioni, distrutte o confiscate dai militari, ed
espropriati delle loro attività (per lo più agricole o commerciali) vivono
nell’impossibilità di far ritorno ai propri villaggi, sprovvisti di adeguati mezzi di
sostentamento. (Tanto per citare qualche episodio, si stima che circa cinquantamila
persone appartenenti alla popolazione Karen, siano internamente ridislocate; di
queste, oltre ventimila si trovano nei campi profughi, circa tremila sono state
trasferite nello Stato Shan, e approssimativamente diecimila si trovano nei campi di
rilocazione forzata. Solo mille sono rimaste nella regione d’origine).
Il trattamento, a dir poco discriminatorio, riservato alle nazionalità etniche ha
giustamente attirato l’attenzione di enti internazionali, tra le quali Human Rights
Watch, ha reso note le denunce di quei superstiti delle popolazioni birmane che
continuano a vivere in villaggi situati nelle zone remote del Paese, come i villaggi
Mon o Karen. Le denunce riferiscono del precipitare della situazione nonché
dell’intensificarsi dell’uso di mine antiuomo a partire dal 2005. Infatti, nel tentativo
di impedire agli abitanti dei villaggi di raccogliere il riso (principale fonte di
sostentamento), i militari non solo minano strade e viali che portano ai campi, ma
incrementano anche l’utilizzo di mine antiuomo intorno ai campi e di fronte alle
17
abitazioni private. Unica via di scampo per non perdere la vita o rimanere mutilati,
come spiega Brad Adams, direttore della sezione asiatica di HRW, è la fuga dalle
loro terre8. Negli ultimi dieci anni solo nello stato Karen, nel nord del Paese, decine
di persone sono state uccise e ferite da ordigni esplosivi nascosti nei campi o interrati
nelle strade. I militari, per evitare “inutili” perdite, sono soliti utilizzare civili per
accertare la presenza di mine nelle strade: profughi o persone strappate con la forza
dai propri villaggi vengono costrette ad anticipare il passaggio dei militari in una
operazione definita “filtraggio del cammino”. Anche il Presidente del Comitato
Internazionale della Croce Rossa (ICRC), Jakob Kellenberger, ha denunciato le
gravissime violazioni delle norme umanitarie internazionali da parte della giunta
militare, nonché il fatto che la Birmania sia l’unico paese al mondo che fa uso
sistematico di mine antiuomo.
Ancora alcune precisazioni circa la situazione delle donne appartenenti a gruppi
etnici. Iniziamo col dire che il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per il Myanmar,
Paulo Sérgio Pinheiro, nella sua relazione del 7 febbraio 2006, in seno alla
Commissione sui diritti umani, ha fatto riferimento ai gravi casi di violenza sessuale
contro le donne riportando che, nelle aree abitate da minoranze etniche, donne e
fanciulle sono particolarmente esposte a stupri e molestie, perpetuati da attori statali.
Un recente rapporto del Karen Women’s Organisation, “State of Terror”, fornisce le
evidenze delle sistematiche tattiche del terrore utilizzate dall'esercito birmano contro
le donne karene; esso documenta oltre 4000 casi di abusi, stupri, uccisioni, lavoro
forzato, in oltre 190 villaggi. Anche il rapporto “Licence to Rape” pubblicato dallo
Shan Women’s Action Network (SWAN) e dalla Shan Human Rights Foundation
(SHRF) documenta oltre 600 casi di stupri commessi dai militari tra il 1996 e il 2001
18
(per i quali nessuno è stato penalmente perseguito), SWAN e SHRF mostrano come
lo stupro sia usato come vera e propria arma di guerra da parte dei militari, contro le
minoranze etniche. Le donne, essendo particolarmente vulnerabili, per il loro genere
e per la loro etnia, sono facilmente esposte a questa pratica abominevole, che ha
luogo durante gli assalti ai villaggi o quando le donne vengono prelevate e trasferite
ai lavori forzati. Come è noto, oggi, a seguito delle numerose risoluzioni
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e di trattati internazionali (ma anche
della giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia) sul
tema della violenza sessuale e dello stupro, sta progressivamente prendendo corpo
una norma consuetudinaria che vieta le discriminazioni di genere (gender
discrimination)9.
Alla luce di ciò le violazioni illustrate, perpetrate nei confronti delle donne appaiono
oggi tanto più gravi.
3.2 Azioni internazionali a tutela delle minoranze.
Riferendosi alla situazione appena illustrata, Paulo Sèrgio Pinheiro, nel suo discorso
all’Assemblea Generale il 27 ottobre 2005, ha parlato di “widespread and systematic
violations of human rights”, mentre Amnesty International, non ha esitato a parlare
di “politica di vera e propria pulizia etnica”10. Entrambe le definizioni sono
comunque atte a realizzare una fattispecie pienamente rientrante nella nozione di
“crimina iuris gentium” idonea, dunque, a concretare una ipotesi di illecito
internazionale ai sensi del Diritto Penale internazionale. È opportuno ricordare in
questa sede che oggi si è affermata la previsione di norme volte a garantire in ambito
19
internazionale e, non più solo come in passato in ambito statale, la sanzione di
individui per comportamenti criminali, quali appunto pratiche di genocidio, sia
precludendo loro la possibilità di avvalersi degli istituti giuridici limitativi di tale
effetto sanzionatorio (ad esempio l’immunità dalla giurisdizione), sia distinguendo
l’eventuale responsabilità dello Stato rispetto a quella degli individui coinvolti in
comportamenti riconducibili ai crimini contro l’umanità. Proprio per questo, ove si
verificasse che le pratiche di attacco dirette contro i gruppi etnici rientrino nella
formulazione di crimine di genocidio, contemplata dall’art. 6 dello Statuto di Roma
della Corte Penale Internazionale, potrebbe essere attivata la giurisdizione della
Corte nei confronti dei membri dello SPDC.
Parimenti suscettibile di costituire illecito sul piano internazionale è la chiara e
conclamata violazione del principio di tutela delle minoranze. Il suddetto principio,
sancito dal Diritto Internazionale, seppure non attribuisca alla minoranza etnica un
diritto alla secessione, ovvero un diritto a secedere dallo Stato di origine per
costituirsi in Stato indipendente, impone comunque agli Stati l’obbligo negativo di
astenersi dal tenere comportamenti volti a reprimere le peculiarità culturali della
minoranza o atte a determinarne la scomparsa fisica prima ancora che culturale.
Inoltre, ai sensi del Diritto Internazionale, ai gruppi etnici deve essere garantita
adeguata rappresentanza all’interno dell’apparato istituzionale dello Stato sul
territorio del quale essa è stanziata, mediante la predisposizione di appositi canali
politici di rappresentanza, nonché deve essere assicurato il diritto della minoranza di
preservare le proprie peculiarità culturali, quali l’uso della lingua o della religione. Il
Diritto Internazionale è dunque univoco in tal senso, le minoranze non possono
esercitare un diritto all’ ”eversione” e del resto è pur vero che, come nota Cassese,
20
“il riconoscimento al diritto all’autodeterminazione a favore di tutti i gruppi etnici
metterebbe in serio pericolo la pace e condurrebbe alla frammentazione degli Stati in
una miriade di entità incapaci di sopravvivenza”. Le minoranze, tuttavia, hanno il
diritto di godere di ampie forme di autonomia o federalismo e di beneficiare di reali
condizioni di accesso e partecipazione al processo decisionale centrale. Sulla tutela
delle minoranze occorre innanzi tutto segnalare l’art. 27 del Patto sui diritti civili e
politici11, che attribuisce alla minoranza un vero e proprio diritto collettivo sulla
base del quale affermare se stessa, nonché, tra i numerosi documenti internazionali in
materia, occorre ricordare la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze
nazionali del 1995. Tale Convenzione peraltro non ricostruisce diritti collettivi della
minoranza, bensì diritti individuali in capo ai singoli che, appunto, possono decidere
di esercitare individualmente o in comunità con altri. Infine, il suddetto trattamento
nei confronti dei gruppi etnici, costituisce una chiara violazione della Convenzione
internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1969 e
specialmente l’art 5 lett. a), b) e c). Ovviamente le norme di cui sopra vanno
interpretate nel senso di trovare il “giusto contemperamento” tra le istanze di
protezione della minoranza con l’esigenza di tutela dei principi “classici” del Diritto
internazionale, quali l’integrità territoriale dello Stato, la sovranità, l’indipendenza
politica12. Pare comunque indiscutibile che persecuzioni di gruppi etnici siano
bandite ai sensi del Diritto Internazionale e che la norma che impone il divieto di tali
persecuzioni assuma oggi un carattere generale.
Infine, una ulteriore ipotesi di violazione potrebbe concernere l’ obbligo imposto
agli attori statali e dunque, anche al governo birmano, di difendere i civili dagli
effetti dei conflitti armati. Come è noto, l’attuale strategia della giunta, avente come
21
obiettivo delle operazioni militari proprio i civili, rappresenta il complessivo
disconoscimento degli obblighi gravanti sullo Stato ai sensi del Diritto internazionale
umanitario.
4.1 Lavoro Forzato.
La pratica del lavoro forzato non retribuito in Birmania è stata ben documentata nel
corso degli anni. La Commissione dell’ONU sui diritti umani e quella dell’OIL
hanno pubblicato in materia rapporti molto dettagliati. Le autorità birmane utilizzano
il lavoro forzato soprattutto a scopi militari (costruzione e mantenimento di campi
d’addestramento e caserme) e spesso anche a favore di imprese private collegate al
regime. Lungi dunque dal costituire un fenomeno sporadico, lo sfruttamento dei
lavoratori e delle lavoratrici attraverso il lavoro forzato, è invece prassi ordinaria
quando si tratta di costruire infrastrutture come dighe, strade, ferrovie, ponti.
Da quando nel settembre 1988, data dell’avvento al potere dei militari, lo SLORC,
con l’Ordinanza n. 2/88, ha messo al bando la libertà di associazione e di
manifestazione, la situazione dei lavoratori birmani ha assunto connotati sempre più
drammatici (in realtà, la pratica del lavoro forzato ha inizio già durante l’epoca
coloniale quando furono adottati dagli inglesi due leggi, il Village Act ed il Town Act
che permettevano lo sfruttamento di civili per determinate attività). La repressione
dei diritti sindacali, ivi compreso il diniego della libertà di associazione, sia a livello
normativo, sia nella pratica, nonostante la Birmania avesse ratificato la Convenzione
n° 87 sulla libertà di associazione, segna una indubbia svolta in senso autoritario da
parte della giunta militare e, malgrado rapporti regolari presentati dal governo
22
birmano all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) esprimano l’intento
formale di abrogare le previsioni legislative concernenti restrizioni delle suddette
libertà, cambiamenti in tal senso non sono mai avvenuti e le libertà sindacali sono
ben lungi dall’essere ripristinate. Già con la Dichiarazione n. 11/92 del 24 aprile
1992 il governo annunciava la convocazione di una Convenzione nazionale con il
compito di redigere una nuova Costituzione che avrebbe incorporato “il diritto di
tutti i lavoratori a formare un proprio sindacato indipendente in conformità con un
sistema democratico”. Oggi, a più di quindici anni di distanza, quelle promesse
risultano ancora non mantenute ed esistono in Birmania solo sindacati clandestini13 .
La federazione dei sindacati birmani “Federation of Trade Unions Burma” (FTUB),
fondata nel 1991 dai lavoratori birmani costretti a lasciare il paese a causa della dura
repressione (nei confronti del sindacato clandestino che aveva preso parte alla rivolta
8888) è tuttora in esilio, ma il suo Segretario generale Maung Maung lavorando a
stretto contatto con l’OIL e altre organizzazioni sindacali internazionali, tra cui la
Federazione dei Sindacati Kawthoolei (FTUK), le associazioni sindacali nazionali
affiliate alla CIS di 20 paesi dell'Asia del Pacifico, dell'Europa e del Nord-america,
come pure le Federazioni Sindacali Internazionali (GUF), continua a sostenere
seppur a distanza la lotta per lo sradicamento del lavoro forzato in Birmania. Nel
tentativo di fermare il suo operato, il regime militare ha anche tentato di etichettare la
FTUB come organizzazione terroristica, impedendo al suo Segretario generale di
partecipare alla Conferenza Internazionale del Lavoro e di recarsi all'estero14.
Nonostante gli impedimenti, FTUB ed altre organizzazioni sindacali hanno
continuato a denunciare casi di lavoro forzato imposto dall'esercito alle popolazioni
civili di tutto il paese: le denunce riguardano anche casi di lavoro coatto rinvenuti
23
nella costruzioni di infrastrutture finanziate da investitori stranieri. Indagini da parte
di organizzazioni non governative (ONG) hanno svelato, inoltre, che circa 800.000
civili sono rientrati nei programmi di sfruttamento del governo. Anche le condizioni
di lavoro disumane e trattamenti a dir poco degradanti cui si accompagna la pratica
del lavoro forzato sono ampiamente documentate. I rapporti presentati accertano casi
di vera e propria schiavitù, pestaggi, lavoro minorile (incluso il reclutamento forzato
di bambini soldato al di sotto dei 18 anni). Ai soldati spetta il compito di punire chi
rifiuta di prestare la propria opera e soffocare il benché minimo accenno di proteste.
Molte persone, fra cui donne e bambini, ridotti allo stremo delle forze dopo essere
stati utilizzati praticamente come schiavi da parte dei soldati, sono state uccise
affinché non segnalassero la posizione dell’esercito ai ribelli. Nel corso degli anni è
apparso quindi evidente come il governo birmano non intendesse compiere
significativi passi verso l’effettivo riconoscimento della libertà di organizzazione
sindacale. A dimostrazione di ciò, gli attivisti del lavoro, impegnati per promuovere
condizioni di vita e di lavoro dignitose, vengono costantemente arrestati, torturati e
condannati a pesanti pene detentive (tra le quali gli stessi lavori forzati definiti
eufemisticamente in gergo giudiziario “Rigorous labour” ). L’accusa più frequente è
di “alto tradimento” per contatti con la FTUB, come frequenti sono i casi di morte
nel corso della detenzione.
24
4.2 Triplice Violazione: norme sui diritti umani, norme internazionali sul lavoro,
norme cogenti.
L’utilizzo del lavoro forzato costituisce una violazione di tre diverse categorie di
norme di Diritto internazionale. Si tratta innanzi tutto di una violazione delle norme
sui diritti umani: il Patto internazionale sui diritti civili e politici rappresenta insieme
al Patto sui diritti economici, sociali e culturali (entrambi del 1966) ed ovviamente
insieme alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, la base di
quello standard minimo di diritti umani che tutti i Paesi dovrebbero rispettare. Come
è noto, la Birmania si è rifiutata di aderire al Patto, il cui art. 8 recita: “a nessuno può
essere richiesto di svolgere lavoro forzato”. La Commissione ONU sui diritti umani
ha adottato, nel corso degli anni, una serie di risoluzioni che hanno comportato la
creazione e la proroga di una speciale commissione d’inchiesta sulla questione del
lavoro forzato. In merito alla violazione delle norme internazionali sul lavoro: l’OIL
ha adottato norme specifiche contro il lavoro forzato, che sono contenute nella
Convenzione 29 del 1930 e nella Convenzione 105 del 1957. La prima è stata
adottata da 136 Paesi, tra i quali anche la Birmania (che vi ha aderito nel 1955), essa
definisce il lavoro forzato come “ogni lavoro o servizio eseguito sotto minaccia e per
il quale la persona non si sia offerta volontaria” e stabilisce all’art. 1 che ogni
membro dell’OIL che ratifica tale convenzione deve eliminare al suo interno e nel
più breve tempo possibile ogni forma di lavoro forzato. La Convenzione 105
aggiunge che l’eliminazione deve riguardare tutte quelle forme lavorative frutto di
punizioni politiche e ideologiche o giustificate da necessità di progresso economico.
Sulla violazione del diritto umanitario: anche se la Birmania non ha adottato le
Convenzioni di Ginevra ed i loro Protocolli, l’art. 3 che condanna il lavoro forzato
25
eventualmente imposto ai civili, è internazionalmente riconosciuto come norma di
jus cogens e come tale inderogabile sia sul piano interno che sul piano
internazionale.
4.3 Azioni e soluzioni tramite l’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Da decenni l’OIL si occupa della questione del lavoro forzato in Birmania e, in tempi
più recenti, ha avviato due procedure speciali contro il paese. Una di queste, in
seguito all’iniziativa della International Conference of Federation of Trade Unions
(CISL internazionale, ICFTU) che, sulla base dell’art. 26 della Costituzione
dell’OIL, ha depositato un rapporto riguardante specificatamente il lavoro forzato al
quale le autorità militari costringevano i civili per operazioni legate all’esercito
nazionale (trasporto di munizioni, di viveri, pulizia delle caserme). Nel rapporto si
faceva riferimento alle dure pratiche alle quali erano sottoposti sia gli uomini che le
donne nonché a numerosi casi di percosse e stupri punitivi. Il rapporto dimostrava
inoltre che queste pratiche non rientravano nelle eccezioni espressamente previste
dalla stessa Convenzione 29, all’art. 2: a) servizio militare; b) servizi rientranti negli
obblighi civili; c) lavori svolti a seguito di condanna penale; d) casi di emergenza
nazionale; e) piccoli servizi per la comunità. Non si poteva neanche parlare di misure
di emergenza perché mancava l’elemento della transitorietà15. Le autorità birmane
accusarono l’ICFTU di voler denigrare l’immagine del paese, e criticarono la
veridicità delle fonti e delle testimonianze. Esse ammettevano poi l’esistenza di
26
alcune pratiche, che però erano in linea con la legislazione nazionale vigente,
adducendo, peraltro, il fatto che molti lavoratori erano in realtà dei volontari. Le
autorità, infine, non esitarono a fornire giustificazioni di ordine culturale, sostenendo
che il lavoro coercitivo fa parte di un insieme di valori e pratiche collegati alla
religione buddista. Giustificazioni, ovviamente, del tutto infondate. Nonostante il
governo militare respingesse, con le più svariate motivazioni, le accuse mosse, sono
stati notevoli gli sforzi prodotti dall’OIL volti nello specifico a spingere il regime
militare ad adempiere ai propri obblighi e a rispettare i diritti fondamentali in materia
di lavoro nonché le Convenzioni da esso stesso ratificate. Va ricordata a questo
proposito la nomina di una Commissione di inchiesta che il 27 luglio 1998 ha
presentato il suo rapporto di condanna della giunta militare (che peraltro aveva
negato il permesso di visita alla Commissione OIL). Data la mancata attuazione, da
parte del regime, delle raccomandazioni della Commissione di Inchiesta dell’OIL, la
questione birmana è rimasta all'ordine del giorno di tutte le sessioni del Consiglio di
Amministrazione e della Conferenza dell’OIL tramite una Sessione Speciale del
Comitato sull' applicazione delle norme. Nel giugno del 2000 la Conferenza
Internazionale del Lavoro ha adottato, sulla base dell’art. 33 della Costituzione OIL,
una Risoluzione che, oltre ad evidenziare il ricorso sistematico e costante al lavoro
forzato in Birmania, richiedeva ai membri dell’OIL e ad altre Organizzazioni
internazionali di valutare i rispettivi rapporti con la Birmania e di cessare
qualsivoglia rapporto che potesse comportare un effetto diretto o indiretto di aiuto e
di favoreggiamento del lavoro forzato16. I termini della Risoluzione del 2000 sono
stati ulteriormente richiamati e rafforzati dalla Conferenza OIL del 2006 tramite
sedute specifiche della Commissione di Selezione della Conferenza. In tale sede è
27
stato richiesto ai membri dell’OIL di relazionare sulle misure assunte ai sensi della
Risoluzione del 2000 e di avviare ulteriori misure appropriate nei rapporti con le
imprese birmane statali o di proprietà di militari, affinché tali relazioni non potessero
essere interpretate e utilizzate dalla giunta militare per perpetuare il lavoro forzato.
La risoluzione, inoltre, autorizzava il Direttore generale dell’OIL a chiedere all’ONU
di mettere all’ordine del giorno della sessione del 2001 di luglio del Consiglio
Economico e Sociale (ECOSOC) tali questioni, chiedendo l’adozione di una
Raccomandazione anche in Assemblea Generale e da parte delle altre istituzioni
specializzate.
Nell’ulteriore tentativo di conseguire la piena attuazione della
Convenzione 29, è stato sottoscritto nel febbraio del 2007 il Protocollo d’Intesa tra il
regime militare birmano e l’OIL, il quale istituisce un meccanismo di denunce per le
vittime del lavoro forzato attraverso il Funzionario di collegamento con il regime
militare, tuttavia come mostrano i rapporti del Direttore Esecutivo dell’OIL, Kari
Tapiola, e del Funzionario di collegamento, Richard Horsey, tale strumento non
appare sufficiente a garantire il pieno rispetto delle libertà sindacali e l’abolizione
della pratica del lavoro forzato. Risultano infatti documentati molteplici casi di
lavoro forzato avvenuti dopo la Conferenza OIL di giugno 2007, che mostrano come
il lavoro forzato non si sia assolutamente interrotto e continua invece ad essere
perpetrato dalle truppe dell'SPDC soprattutto nelle regioni in cui sono presenti
minoranze etniche, come, ad esempio, nello Stato Karen, dove l’esercito continua ad
utilizzare detenuti e abitanti dei villaggi, così come ampiamente denunciato dal
sindacato Karen. In realtà, la giunta ha cercato di impedire in tutti i modi che le
denuncie fossero presentate al Funzionario di collegamento, impedendo a
quest’ultimo di svolgere un ruolo incisivo. Anche il Relatore Speciale per il
28
Myanmar, Paulo Sérgio Pinheiro17, ha notato le restrizioni poste alle attività del
Funzionario di collegamento dell’OIL, il quale ha ricevuto numerose minacce di
morte e l’avvertimento di lasciare il paese, pena la possibilità di essere ucciso.
L’assenza di progressi tangibili e l’ulteriore deteriorarsi dei rapporti di cooperazione
tra la giunta e l’OIL, spiega le più recenti decisioni del Consiglio di Amministrazione
dell’OIL e le Conclusioni della Commissione di Selezione della Conferenza
Internazionale del Lavoro, affinché venga sottoposta alla Corte Internazionale di
Giustizia (CIG) la violazione della Convenzione sul lavoro forzato del 1930
(Convenzione OIL 29) da parte del regime militare birmano. L’intenzione dell’OIL,
di concerto con i Costituenti, é di compiere tutti i preparativi al fine di permettere al
Consiglio di Amministrazione, in mancanza di un progresso rapido e tangibile, di
richiedere immediatamente un parere consultivo alla Corte Internazionale di
Giustizia sulla base dell'accordo tra OIL ed ONU. Sulla base dell’art. 9 dell’accordo
tra l’OIL e l’ONU, il Direttore generale dell’OIL può essere autorizzato a richiedere,
con procedura di urgenza, il parere consultivo della CIG sulle conseguenze, ai sensi
del Diritto internazionale, della persistenza del mancato adempimento da parte della
Birmania ai propri obblighi derivanti dalla suddetta Convenzione. Alla luce di tale
accordo, l’OIL s’impegna a fornire ogni informazione che venga richiesta dalla CIG
in applicazione dell’art. 34 dello Statuto della Corte e l’Assemblea Generale
autorizza l’OIL a richiedere pareri alla CIG sui profili giuridici relativi agli scopi
della sua attività18. La stessa Commissione di Selezione, nelle sue conclusioni, ha
anche espresso la volontà di aggiungere fra i temi in agenda (già adottata nel corso
della novantacinquesima Sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro, nel
giugno 2006) la preparazione di un progetto che contempli altre misure, che possano
29
essere intraprese ai sensi del Diritto penale internazionale, per eventuali azioni contro
i perpetratori del lavoro forzato. Ciò, inoltre, includerebbe la questione se l’accusa di
crimini contro l’umanità debba riguardare la Birmania come Stato o i singoli
esponenti della giunta e in tal caso il lavoro forzato potrebbe essere assimilato alla
condizione di schiavitù.
Per concludere, dunque, nonostante il regime abbia ratificato la Convenzione n° 29 e
malgrado l’impegno formalmente assunto nei confronti dell'attuazione delle
Raccomandazioni della Commissione di Inchiesta dell’OIL in materia di
eliminazione del lavoro forzato, questa pratica permane sistematica e diffusa da parte
sia dei militari, sia delle autorità locali, essendo, peraltro, accompagnata da gravi
violazioni di altri diritti fondamentali, tra cui reinsediamento forzato, detenzione ed
esecuzione arbitrarie, stupro, tortura e reclutamento forzato di bambini soldato. Il
quadro che emerge dai rapporti evidenzia come il lavoro forzato sia stato e continui
ad essere il fulcro centrale della politica di sviluppo, intrapresa dal governo birmano.
Elemento cruciale era e rimane la mancanza di una reale volontà politica da parte
della giunta militare19, la quale, piuttosto che investire sullo sradicamento del lavoro
forzato e sulla promozione di attività produttive decenti, dal 1988 ha investito quasi
esclusivamente in attività militari destinando all’esercito (che è infatti uno dei più
grandi del Sud-est Asiatico) la maggior parte delle risorse statali. Del resto, anche i
capitali stranieri entrati nel Paese non hanno prodotto alcun effetto benefico per le
condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione, costituendo fonte
di guadagno solo per i militari. Sarebbe dunque necessaria una riconfigurazione del
sistema di redistribuzione delle quote di bilancio, riconvertendo il flusso di risorse
per l’esercito e le armi in flusso di risorse per beni e servizi pubblici. Fra le altre
30
possibili soluzioni per garantire che si ponga fine al lavoro forzato, l’esigenza di un
più stretto monitoraggio della conformità delle politiche di governo birmane ai
principi e alle condizioni che regolano la partecipazione di uno Stato all’OIL. Oggi
tale monitoraggio è effettuato, nei limiti del possibile, dal comitato di attuazione
della Convenzione 29 che però, in assenza di procedure chiare per l’attuazione delle
sanzioni, non può svolgere il proprio ruolo in maniera efficace. Effettivamente,
alcune sanzioni sono state inflitte e alcuni ufficiali di basso livello sono stati arrestati,
ma i responsabili politici sono tuttora impuniti. Occorrerebbe, quindi, rafforzare i
meccanismi sanzionatori per casi di gravi inadempimenti, quale appunto quello delle
autorità birmane. Sarebbe, infine, utile un aumento delle risorse a disposizione
dell'ufficio OIL in Birmania ponendolo in condizioni di giovarsi sempre di più
dell’aiuto politico e della solidarietà con il sindacato birmano in esilio, il cui lavoro,
del resto, è reso estremamente difficile nonostante l’efficienza legata alla sua
leadership.
4.4 Sfruttamento minorile e bambini soldato.
Una forma ulteriormente aggravata di lavoro coatto concerne l’utilizzo di bambini
come lavoratori forzati. Frequente l’utilizzo di minori come parte delle truppe
militari per sorvegliare i gasdotti, (ad esempio i gasdotti di Kanbauk – Myaingkalay,
nello Stato Mon, nella Birmania del sud). Se essi non svolgono i compiti di
sorveglianza o in caso di esplosione del gasdotto, le loro famiglie devono pagare
un’ammenda (una sorta di tassa sulla sicurezza)20. Ma la questione più spinosa
31
concerne la circoscrizione forzata di bambini soldato. La Birmania ha il più alto
numero di bambini soldati nel mondo, con oltre 70.000 minori reclutati forzatamente
nell’esercito birmano. Il reclutamento coatto di bambini soldato è stato ben
documentato nei rapporti che monitorano la situazione dei diritti umani in Birmania,
come i rapporti presentati dall’ICFTU il 14 luglio 2006 e il 16 agosto 2006,
contenenti testimonianze di bambini soldato, la maggior parte al di sotto dei 14
anni, riusciti fortunatamente a fuggire. Il direttore dello “Human Rights Education
Institute of Burma” (HREIB), Aung Myo Min, ha affermato che l’utilizzo di bambini
soldato è diffuso non solo nell’esercito regolare ma anche nei gruppi etnici armati 21 e
ciò è stato confermato anche da Human Rights Watch che ha riportato di numerosi
casi di bambini rapiti, brutalizzati e poi spediti a combattere. La questione è stata
sollevata nel dibattito, del 24 luglio 2006, sui bambini nei conflitti armati in seno al
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni. In tale sede, l’Ambasciatore statunitense Jackie
W. Sanders, Rappresentante per gli Affari Politici Speciali delle Nazioni Unite, ha
fatto riferimento all’utilizzo di bambini soldato in un certo numero di paesi,
compresa la Birmania. Sanders ha riferito: "I bambini sono quotidianamente rapiti
sulla strada di casa o all’uscita da scuola, reclutati nell’esercito non rivedono più le
loro famiglie. Molti sono costretti a combattere contro i gruppi di ribelli armati o a
perpetrare essi stessi abusi come prelevare gli abitanti dei villaggi, bruciare case o
massacrare civili”. Anche il Relatore Speciale Paulo Sérgio Pinheiro22, ha rilevato, nel
suo rapporto sulla situazione dei diritti umani in Birmania, che bambini e ragazzi
birmani sono costantemente e deliberatamente privati di un’adeguata educazione ad
assistenza per essere vittime di pratiche di lavoro forzato.
32
Nonostante sia stata istituita una commissione con l’obiettivo di ridurre l’utilizzo di
bambini soldato, la giunta militare si è sempre rifiutata di riferire in merito alla
situazione alla commissione e non ha assunto un impegno attivo per eliminare gli
abusi sui diritti dei minori. In una intervista del 28 agosto del 2006, Ryan Silverio, il
Coordinatore Regionale del Sud-est asiatico della Coalizione per fermare l’utilizzo di
bambini soldato (CSUSC), ha affermato: “Se loro (gli esponenti della giunta
militare) hanno la volontà politica di assicurare l’effettiva implementazione del
programma della Commissione Speciale, allora vorranno aprire la porta alle ONG,
specialmente alle organizzazioni sui diritti dei bambini, affinché queste partecipino
alla pianificazione e all’implementazione del programma, e non operare in
segretezza"23.
Il lavoro forzato minorile, cosi come il coinvolgimento dei bambini in operazioni
belliche, è una chiara violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1990,
alla quale la Birmania ha aderito nel 1991 (salvo alcune riserve venute meno nel
1993). In ragione di tale violazione, con la Risoluzione 61/232 adottata il 13 marzo
2007, l’Assemblea Generale ha richiesto alle autorità birmane di considerare come
“questione di alta priorità” la firma e la ratifica del Protocollo Opzionale della
Convenzione sui Diritti del Fanciullo. Nella medesima risoluzione l’Assemblea
Generale ha richiesto espressamente al governo birmano di porre immediatamente
fine all’utilizzo di bambini soldato, e di intensificare le misure volte ad assicurare la
protezione dei bambini coinvolti nei conflitti armati, intensificando la cooperazione
con le agenzie specializzate e in particolare con lo United Nations Children’s Fund.
Sebbene non produttiva di effetti giuridici vincolanti, la risoluzione dell’Assemblea
Generale esprime il biasimo della comunità internazionale per questa grave forma di
33
abuso e rappresenta in ogni caso un formidabile strumento di pressione nei confronti
delle autorità birmane. Si ricordi peraltro che dall’approvazione del Protocollo alla
Convenzione sui Diritti del Fanciullo, l’AG ha approvato molteplici risoluzione sui
diritti del fanciullo, ivi incluso il diritto di protezione nei confronti dei bambini
coinvolti nei conflitti armati. Tra queste le risoluzioni più recenti del 9 novembre
2006 (A/RES/61/146) e del 22 febbraio 2008 (A/RES/62/141) ribadiscono il diritto
di ogni fanciullo a non essere minimamente coinvolto nelle ostilità e il dovere dei
governi di assicurare che non ne venga compromessa la salute fisica e psicologica 24.
Anche il Consiglio di Sicurezza si è occupato della questione della protezione del
fanciullo, come dimostrato dalle numerose risoluzioni da questo approvate, e da
ultimo dal
discorso
del
Presidente del
Consiglio del
17 luglio 2008
(S/PRST/17/07/08)25. Infine nel corso della Conferenza di Parigi del febbraio 2007,
alla presenza dei delegati di 54 Stati e degli organi sussidiari delle Nazioni Unite
sono stati approvati, i “Paris Principles” relativi al trattamento dei bambini coinvolti
nell’esercito e nei gruppi armati e in generale nelle situazioni di conflitto26. Tali
principi si aggiungono oggi a quegli standard di protezione che ogni Stato è chiamato
ad assicurare nei confronti dei minori e specialmente dei bambini esposti a situazioni
di lotta armata. Il mancato uniformarsi della giunta birmana agli obblighi vigenti in
materia di tutela dei bambini, rappresenta una grave mancanza sia in termini
adempimento agli obblighi convenzionali cui essa si è vincolata attraverso l’adesione
alla suddetta Convenzione, sia in termini di rispetto di quel nucleo minimo di diritti
umani internazionalmente riconosciuti che lo Stato deve garantire.
34
5.1 La repressione legale del dissenso. Abusi del sistema giudiziario: Arresti
arbitrari. Detenzioni illegali. Processi farsa.
A partire dall’avvento al potere, il governo militare ha portato avanti una dura
politica di repressione delle libertà fondamentali, negando l’esercizio dei più basilari
diritti civili e politici. Gli oppositori del regime subiscono di continuo intimidazioni,
arresti arbitrari, torture, pesanti condanne. Lo SPDC sistematicamente arresta,
detiene e imprigiona civili per le loro affiliazioni politiche e, nonostante i numerosi
appelli da parte delle Organizzazioni internazionali, umanitarie e non, (AI, HRW,
ICRC, OIL) nonché del Segretario Generale delle Nazioni Unite e dell’Assemblea
Generale, essi sono stati rilasciati solo in minima parte, mentre il numero dei nuovi
arresti è in continuo aumento.
Le principali vittime di questa politica di repressione sono gli iscritti ai partiti
politici, in particolare membri della Lega Nazionale per la Democrazia, i gruppi
operanti in difesa dei Diritti umani, i militanti del movimento studentesco All Burma
Federation of Students Unions (ABFSU) i cui leader sono attualmente agli arresti,
nonché gli attivisti birmani che abbiano contatti con organizzazioni pro-democrazia
in esilio.
Il numero di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri birmane, era già estremamente
elevato prima delle ultime manifestazioni (oltre 1100 secondo quanto stimato dal
Relatore Speciale per Myanmar, Paulo Sèrgio Pinheiro, già all’inizio del 2006), in
seguito alle quali le carceri si sono ulteriormente popolate. Ad oggi a trovarsi dietro
le sbarre sono soprattutto studenti, insegnanti, monaci, giornalisti e membri eletti del
Parlamento (come noto, mai riunitosi).
35
Per poter perseguire impunemente e “legalmente” le proprie politiche autoritarie e
repressive, lo SPDC attinge a un terreno normativo che, sancendo in positivo
restrizioni alle suddette libertà, permette di celare dietro l’alibi del rispetto del diritto
positivo, quelle che ai sensi delle norme e dei principi del Diritto Internazionale,
sono privazioni indebite e del tutto arbitrarie.
I prigionieri politici vengono detenuti in virtù della legislazione sulla “sicurezza”
promulgata dalla giunta militare27. Tale legislazione, comprime notevolmente il
diritto alla libertà di espressione, di associazione e di assemblea ed ha come
destinatari coloro che sono ritenuti o semplicemente sospettati di agire in
opposizione alle politiche del governo militare. Le previsioni legislative in questione
mostrano, inoltre, come lo SPDC utilizzi a proprio piacere il sistema giudiziario per
giustificare e offrire una copertura giuridica alla detenzione degli oppositori politici,
fornendo, peraltro, una tacita approvazione alla tortura e a trattamenti crudeli e
degradanti nei confronti di questi.
Tra i vari atti che tale legislazione include, vale la pena di ricordare l’“Emergency
Provisions Act” del 1950. Applicato nei confronti di coloro che “tradiscono la
stabilità dell’Unione” e costituisce l’accusa più comune per la quale i prigionieri
politici sono detenuti, prevedendo (Sezione 5 J) per tale reato la sentenza a sette anni
di prigione. Esso è anche agevolmente usato (Sezione 5E) per detenere attivisti o altri
civili. L’“Unlawful Association Act”, nonostante risalga al 1908, è ancora
costantemente invocato per l’arresto e la detenzione di attivisti che siano membri o
associati in quelle che il governo definisce organizzazioni “illegali”. Per tali reati è
prevista (art. 17 primo e secondo comma) la condanna rispettivamente dai due ai tre
anni e dai tre ai cinque anni di carcere. Va detto che, ad eccezione della NLD, tutte le
36
organizzazioni di natura politica, incluso l’All Burma Federation of Students, sono
illegali.
Il “ Printers and Publishers Registration Law “ del 1962 relativo alla libertà di
stampa e d’informazione prevede la detenzione sino a sette anni per coloro che
pubblicano o diffondono materiale scritto senza aver ricevuto il previo permesso del
governo (che dispone in tale modo di un pervasivo potere di censura).
Infine, lo “State Protection Law” del 1975, consente di mantenere in carcere, per
oltre cinque anni,
attivisti politici senza un’accusa formale o senza processo
(Sezione 10 A), con la scusa che essi costituiscono un “pericolo per lo Stato”. Tale
atto è, inoltre, utilizzato per prorogare la detenzione di prigionieri politici i cui
termini di condanna siano già spirati (Sezione 10 B) ed proprio tale norma ad essere
attualmente utilizzata per mantenere agli arresti il Segretario Generale della NLD,
Aung Saan Suu Kyi28.
Appare evidente come la vigenza di una simile legislazione nazionale che senza
dubbio contravviene gli standard legali internazionali, non renda possibile una
legittima opposizione democratica al regime, né, tanto meno, la legittima espressione
pacifica del dissenso politico. Criminalizzando e proibendo “per legge” le suddette
condotte, il governo birmano fa sì che i prigionieri di coscienza (colpevoli soltanto di
aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione e di associazione pacifica)
siano legalmente detenuti in carcere.
Al fine di tracciare un quadro esaustivo della completa strumentalizzazione del
sistema giudiziario ad opera dello SPDC, appaiono rilevanti anche alcune previsioni
della legislazione penale, in special modo le modalità dell’arresto appaiono del tutto
peculiari. Il codice di procedura penale birmano prevede (Sezioni 61, 81, 100 e 167)
37
un insieme di deroghe giudiziarie che semplificano notevolmente le procedure per
l’arresto e la detenzione (in chiara violazione della Carta ONU) permettendo, in
parole povere, che chiunque sia semplicemente sospettato di dissenso politico possa
essere arrestato, detenuto e interrogato (leggi:torturato) dalla Intelligence Militare
(Military Intelligence, MI), senza alcun mandato o previa autorizzazione da parte
dell’autorità giudiziaria. È la stessa legislazione penale, dunque, a permettere che si
realizzino quelle che ai sensi del Diritto Internazionale, di quello pattizio come di
quello consuetudinario, costituiscono gravi violazioni. Alla luce infatti del sistema
penale vigente è prassi abituale, che, senza alcun mandato d’arresto o senza che le
accuse a proprio carico siano rese note, i civili siano prelevati (spesso nel bel mezzo
della notte), incappucciati, ammanettati e trasportati nei centri di interrogazione o di
detenzione, dove sono trattenuti anche per lunghi periodi di tempo, spesso senza che
ai familiari ne venga data comunicazione.
Durante questo periodo noto come “incommunicado detention” (detenzione senza
accesso al mondo esterno, senza che ai familiari sia dato conoscere il luogo in cui si
trova il detenuto, nè tanto meno sia permesso mettersi in contatto con esso), vengono
praticate torture sui prigionieri al fine di estorcere confessioni o informazioni, come
rivelazioni di complicità o denunce di amici o altri attivisti politici.
Secondo il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria (UN
Working Group on Arbitrary Detention), tre categorie di violazioni permettono di
determinare se una persona sia arbitrariamente detenuta: quando non ci sono basi
giuridiche che giustifichino la privazione di libertà; quando la deprivazione di libertà
viola alcuni articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e il Patto
Internazionale sui Diritti Civili e Politici; quando le norme internazionali relative al
38
diritto a un giusto processo sono ignorate o solo parzialmente osservate. Alla luce di
quanto detto, le procedure di arresto e detenzione normalmente seguite dalla MI,
avvalorano sempre di più l’ipotesi che la maggior parte dei prigionieri politici
birmani sia soggetta a detenzione arbitraria.
Da ultimo, la negazione del diritto a un giusto processo e del diritto di difesa
costituisce la degna conclusione dell’escalation di violazioni contemplate dalla
suddetta legislazione. Tra il luglio 1989 e il settembre 1992, le Ordinanze della
Legge Marziale (Martial Law Orders n 1/89 e n 2/89) hanno istituito tribunali militari
con poteri speciali per giudicare i colpevoli, ai sensi della legge marziale. Nonostante
nel settembre 1992 l’Ordinanza 12/92 abbia revocato le precedenti, lo SPDC non ha
mai provveduto a predisporre strumenti giuridici conformi agli standard
internazionali, che, come noto, contemplano garanzie quali: l’indipendenza del
sistema giudiziario, la capacità del convenuto in giudizio di convocare e interrogare
testimoni, il diritto a richiedere e ricevere un parere legale, il diritto di appello, il
diritto a che il processo si svolga pubblicamente. Tali garanzie continuano ad essere
negate ai prigionieri politici, questi continuano a rimanere all’oscuro delle
imputazioni a proprio carico sino al giorno del processo, (la data della quale è
ugualmente ignorata dall’imputato), e non godono del diritto alla rappresentanza
legale subendo in questo modo un grave pregiudizio all’esercizio del proprio diritto
di difesa. Del resto, la possibilità di difesa conta ben poco nell’ambito di quello che,
più che un processo, assomiglia ad una messinscena. Svolto a porte chiuse, in aule
interne agli edifici carcerari o presso basi militari, e alla presenza della MI, il
processo dura appena una manciata di minuti, giusto il tempo necessario al giudice
per leggere le accuse a carico dell’imputato accompagnandole con una sentenza
39
preconfezionata. Non sussiste ovviamente per il condannato la possibilità di
impugnare la sentenza in sede di appello né tanto meno quella di consultare i verbali
del processo. Sembra alquanto riduttivo classificare le suddette violazioni come una
semplice contravvenzione rispetto agli standard internazionali di “giustizia ed
equità”, ma l’assenza di un sistema giudiziario indipendente e la conseguente
possibilità di abusarne, scardina uno dei pilastri fondamentali dello stato di diritto. La
mancanza di un potere giudiziario autonomo, l’assenza di leggi scritte nella
cosiddetta presunzione per la libertà, precludono ai cittadini birmani la possibilità di
un cambiamento in senso democratico, viene disattesa ogni speranza di vedere i reali
colpevoli “consegnati alla giustizia” in quanto la stessa essenza di questa è tradita e
svuotata di significato. Gli apparati giudiziari, che più di tutti gli altri organi
dovrebbero garantire il rispetto del principio di legalità, collaborano, complici di un
sistema in cui si concreta il più insopportabile degli abusi, opponendo alla certezza
del diritto la cultura dell’impunità. Nella medesima direzione la Risoluzione 61/232
del 13 marzo 2007, con la quale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha
richiesto al governo birmano di adempiere all’obbligo di ripristinare l’indipendenza
del potere giudiziario e di compiere i passi dovuti nel senso un progresso nella
riforma del sistema di amministrazione della giustizia.
5.2 Torture e altri trattamenti inumani e degradanti: la Birmania come Stato
aguzzino.
Un paragrafo a parte richiede la questione relativa al trattamento dei prigionieri e alle
condizioni della detenzione, anche in questo caso è possibile riscontrare molteplici
40
violazioni. Va detto che, a partire dal 2005, le autorità birmane hanno negato al
Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) di visitare i luoghi della
detenzione; tuttavia, informazioni circa le condizioni di vita dei detenuti nelle
prigioni birmane continuano comunque ad essere rese note attraverso testimonianze e
rapporti attendibili fra i quali spiccano i numerosi rapporti pubblicati dall’Assistance
Association for Political Prisoners (Burma)29. Tali rapporti documentano le
drammatiche condizioni dei detenuti, sottolineando la scarsa assistenza sanitaria, in
una situazione che favorisce il diffondersi di malattie (sono infatti numerosi i casi di
decessi per malattia, e non solo, durante il periodo di detenzione), e ancora le
privazioni di acqua, cibo, riposo e luce sofferte dai detenuti. Viene, inoltre, reso noto
come già nel periodo di detenzione precedente al processo, i prigionieri politici sono
soggetti a trattamenti crudeli e degradanti e a torture fisiche e psicologiche30.
Sicuramente il trattamento dei prigionieri politici, riflette la situazione politica della
Birmania, poiché qui la tortura è una politica di Stato che assolve alla duplice
funzione di schiacciare l’opposizione politica e creare un clima generale di paura.
Non a caso, come ha affermato Antonio Cassese “la tortura è la faccia perversa e
crudele dell’autoritarismo” ed è proprio attraverso la tortura che l’autoritarismo esce
allo scoperto e si mostra in tutta la sua ottusa negazione dell’ “altro”, del
“dissenziente”31.
Oggi, la popolazione birmana vive nel terrore di agire in qualunque modo che possa
essere percepito come opposizione al governo birmano, poiché sono note le
conseguenze che tale condotta comporterebbe. Il governo birmano ha ben compreso
che il miglior deterrente contro coloro che pensano di opporsi al regime è far sì che i
prigionieri ritornino dai propri familiari e amici, mostrando i segni fisici e psicologici
41
delle torture ricevute. Lo stesso Cassese ricorda come oggi la tortura sia utilizzata
contro coloro che non condividono l’ideologia del gruppo al potere, per diffondere il
terrore, operando come possente forza di dissuasione contro l’opposizione politica32.
Di conseguenza, le carceri birmane sono diventate istituzioni la cui funzione primaria
è quella di distruggere sistematicamente e deliberatamente l’identità degli attivisti
politici, nonché di altri civili, considerati come una minaccia al potere del regime
militare.
A tal proposito, occorre precisare che su un piano meramente ed esclusivamente
formale, talune garanzie nei confronti dei detenuti sono pur contemplate: in effetti, il
codice penale birmano, agli articoli 330 e 331, esprime il divieto di arrecare “danni”
e “gravi danni” ai detenuti, durante gli interrogatori, mentre gli articoli 323 e 325
estendono il medesimo divieto anche al di là degli interrogatori. Inoltre, anche il
manuale di prigionia, risalente all’epoca coloniale e ancora di uso corrente nelle
carceri birmani, esclude che vengano inflitti trattamenti illeciti ai prigionieri.
È superfluo sottolineare come tali proibizioni non siano sufficienti a tutelare i
detenuti nei confronti dei propri carcerieri e, del resto, le leggi penali birmane non
definiscono esplicitamente la tortura come crimine, nè prevedono un esplicito divieto
spianando così la strada all’uso di tale strumento ripugnante che costituisce, appunto,
la “forma più disumana di lotta contro gli oppositori politici”33.
In quanto vera e propria “state policy”, la tortura è praticata sotto la responsabilità dei
più alti dirigenti dello SPDC. Come emerge dai rapporti dell’AAPP, esiste una vera e
propria catena di comando che, partendo dai più alti vertici governativi, si dirama sino
ai gradini più bassi del Servizio Militare d’Intelligence (Military Intelligence Service,
MIS o MI).
42
Per cominciare, la decisione circa quali attivisti debbano essere torturati è di
competenza del Ministro degli Affari Interni, del Ministro della Difesa e del Ministro
degli Affari Esteri che a tal proposito si riuniscono in commissione. Le interrogazioni
sono materialmente condotte dalla MI facente capo al Direttorato dei Servizi
Intelligence della Difesa (Directorate of Defense Services Intelligence, DDSI), così
come dall’Ufficio delle Investigazioni Speciali (Bureau of Special Investigation, BSI)
nonché dalle forze di polizia (Myanmar Police Force) che si avvale del Dipartimento
delle Investigazioni Speciali (Special Investigations Departments, SID o Special
Branch ) ovvero un ramo speciale delle forze di polizia. Ovviamente tutti i suddetti
organi e istituzioni sono riconducibili al Ministero degli Interni e coordinati
dall’Ufficio Nazionale di Intelligence (National Intelligence Bureau, NIB).
Gli stessi metodi di tortura34 utilizzati nei centri di interrogazione e nelle prigioni sono
“approvati” dallo SPDC; trattasi di vere e proprie sevizie (come l’uso di scariche
elettriche o l’essere immobilizzati giorno e notte con pesanti catene) inflitte per
annientare la resistenza fisica e psichica dei prigionieri politici, ma a volte così gravi da
risultare letali. Non è un caso che i decessi nelle carceri birmane avvengano piuttosto
di frequente, proprio come conseguenza, diretta o indiretta, delle torture inflitte.
Secondo il resoconto del Relatore Speciale per il Myanmar, Paulo Sèrgio Pinheiro, il
numero di prigionieri politici deceduti durante il periodo di custodia da parte delle
autorità militari, dal 1988 al 2006, ammonterebbe a oltre 90. Peraltro, solo tra
maggio e dicembre 2005, ben quattro morti sono state denunciate come conseguenza
delle torture, di trattamenti crudeli o di inadeguate attenzioni mediche35. In base
invece ai più recenti rapporti dell’AAPP, il numero di decessi nelle carceri birmane a
43
causa delle torture e dei maltrattamenti sale a 127. Infatti, gli ultimi dati del 18 aprile
riferiscono di 38 prigionieri uccisi nella tristemente nota Insein Prison.
Nel corso della sesta sessione (10-14 dicembre 2007) del Consiglio sui Diritti Umani
(Human Rights Council, HRC) delle Nazioni Unite, numerosi interventi sulla
situazione dei “Diritti Umani in Myanmar” hanno fatto riferimento ai trattamenti
crudeli e inumani, alle torture e ai decessi durante il periodo di custodia o di
detenzione36. Preoccupazioni in tal senso sono state espressa anche nel dibattito in
seno all’Assemblea Generale37, la quale ha richiesto al governo birmano di assicurare
che la disciplina carceraria non si sostanzi in torture o maltrattamenti e che le
condizioni delle detenzione si conformino agli standard internazionali, ivi inclusa la
possibilità di avere accesso ai detenuti. Essa ha anche auspicato (come per altro
aveva già raccomandato il Relatore Speciale Pinheiro), che siano condotte indagini
indipendenti sui casi di morte nelle carceri.
Su coloro che invece sopravvivono, i metodi di tortura, utilizzati nei centri di
interrogazione e nelle carceri, producono conseguenze fisiche e psicologiche tali da
richiedere ulteriori interventi di riabilitazione. Talvolta le condizioni fisiche dei
prigionieri risultano compromesse in via permanente, così come grave è il pregiudizio
arrecato alla salute psichica. Per tale motivo e nell’osservanza della Convenzione
contro la Tortura ed altre Pene o Trattamenti Crudeli, Inumani o Degradanti (art 14)
le vittime della tortura hanno diritto alla riabilitazione e alla riparazione legale del
torto subito, ivi incluso un equo risarcimento. Affinché tale diritto possa essere
assicurato, Brita Sydhoff, Segretario Generale del Consiglio Internazionale di
Riabilitazione per le Vittime della Tortura (International Rehabilitation Council for
Torture Victims, IRCT), ha offerto la piena assistenza al governo birmano laddove
44
questo decidesse di ratificare la Convenzione ONU contro la tortura così come il
Protocollo Opzionale. Questo prevede appunto la predisposizione di meccanismi (a
livello nazionale e internazionale) di monitoraggio delle condizioni dei detenuti,
attraverso apposite visite nei luoghi della detenzione.
5.3 Norme Internazionali contro la Tortura
Da norma generale, ossia di diritto internazionale consuetudinario, il divieto di
tortura ha assunto oggi il rango di diritto cogente: come tale essa s’impone erga
omnes, vincolando tutti i soggetti della comunità internazionale a prescindere
dall’adesione di questi ai trattati sui diritti umani o ad altre convenzioni multilaterali
in materia. Come rilevato le norme di diritto cogente, in quanto espressione di
principi e valori fondamentali dell’ordinamento giuridico internazionale, sono
assolutamente inderogabili e impongono obblighi di fare o (come in questo caso) di
non fare a tutti i soggetti della Comunità Internazionale nel suo complesso. Inoltre in
quanto norma di diritto imperativo, la proibizione della tortura è dotata di una
particolare resistenza all’abrogazione da parte di altre norme internazionali; ciò
significa che non esistono circostanze che possano giustificare l’utilizzo della tortura,
né in tempo di guerra o sotto minaccia di guerra, né in caso d’instabilità interna o in
stato di emergenza: il divieto di tortura è perentorio e imperativo. La tortura può
inoltre costituire un’ipotesi di crimine contro l’umanità, ai sensi dell’ art. 7 (lettera f)
dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, laddove ricorrano
determinate condizioni (v.infra).
45
Anche ai sensi del diritto internazionale umanitario, la proibizione della tortura è
assoluta. Fra i numerosi trattati internazionali che includono il divieto di tortura,
occorre ricordare innanzi tutto l’ art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, l’art. 7 del Patto sui Diritti Civili e Politici, l’ art. 37 (A) della
Convenzione sui Diritti del Fanciullo; la Convenzione contro la Tortura ed altre Pene
o Trattamenti Crudeli, Inumani o Degradanti.
Tra gli altri strumenti di diritto pattizio ricordiamo: lo Standard Minimum Rules for
Treatment of Prisoners; il principio 6 del Corpo di Principi per la Protezione di Tutte
le Persone sotto Qualunque Forma di Detenzione o Imprigionamento; l’art. 5 del
Code of Conduct for Law Enforcement Officials; il Principle 2 of the Principles of
Medical Ethics relevant to the Role of Health Personnel, Particularly Physicians, in
the Protection of Prisoners and Detainees against Torture and Other Cruel, Inhuman
or Degrading Treatment or Punishment. Tali trattati richiedono inoltre che siano
intraprese misure volte a prevenire la tortura, che non sia permesso di utilizzare nei
processi le confessioni ottenute sotto tortura e che si ponga fine all’impunità per i
torturatori.
Ad oggi, la Birmania ha ratificato solo due trattati multilaterali, uno dei quali è la
Convenzione sui Diritti del Fanciullo ratificata nel 1991 (con alcune riserve ritirate
più tardi, nel 1993). Sebbene la Convenzione definisca all’art. 1 “fanciullo ogni
essere umano avente un’età inferiore a diciotto anni” e nonostante l’art 37 (A)
preveda l’obbligo per gli Stati parte di vigilare affinché “nessun fanciullo sia
sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” e alla lettera
(C) che “ogni fanciullo privato di libertà sia trattato con umanità e con il rispetto
dovuto alla dignità della persona umana”, sono stati documentati casi di prigionieri
46
politici torturati nel corso di interrogazioni o durante la detenzione, prima che
avessero compiuto il diciottesimo anno di età. Dunque lo SPDC appare doppiamente
indolente sia nell’accettare di prendere parte a convenzioni volte specificatamente
all’abolizione della tortura, sia nel rispettare le disposizioni dei trattati internazionali,
da esso ratificati, che prevedano obblighi in tal senso.
Ovviamente, il primo passo che le autorità birmane dovrebbero compiere, affinché i
proclamati intenti di “democratizzazione” acquisiscano un minimo di credibilità
internazionale, è quello di firmare e ratificare la Convenzione ONU contro la tortura
così come di accettare il sistema di controllo opzionale ad opera del comitato contro
la tortura. L’eliminazione di tale pratica è un passo imprescindibile per la transizione
democratica, poiché “la tortura costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di
democrazia” e attecchisce là dove mancano o sono indebolite tutte quelle garanzie
istituzionali e processuali che della democrazia sono l’espressione indispensabile38.
Democrazia e tortura appaiono, dunque, agli antipodi: mentre la prima assume il
significato di “rispetto della dignità della persona”, la seconda significa “umiliazione
o annientamento.”
Altro passo fondamentale affinché possa realizzarsi una genuina transizione
democratica è quello di provvedere affinché gli istigatori e gli esecutori materiali
siano assicurati alla giustizia, rispondendo agli appelli provenienti da più parti
(Assemblea Generale e Segretario generale delle Nazioni Unite solo per citare le
fonti più autorevoli), ponendo fine all’impunità per i torturatori.
La questione del perseguimento e del giudizio penale nei confronti dei responsabili
apre ad un altro nodo irrisolto, quello di una adeguata risposta penale: la tortura è
contemplata dall’articolo 7 (lettera f) dello Statuto della Corte Penale Internazionale
47
come fattispecie di crimine contro l’umanità laddove commessa “nell’ambito di un
esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili e con la consapevolezza
dell’attacco”. Dunque, ai sensi dello Statuto di Roma, affinché si concretizzi
l’ipotesi di crimine contro l’umanità è necessario che l’attacco sia o esteso o
sistematico.
Per attacco diffuso s’intende un attacco “su larga scala, laddove gli atti siano diretti
contro una molteplicità di vittime” cosi come precisato dalla Commissione di Diritto
Internazionale delle Nazioni Unite (CDI)39. Attenendosi a tale definizione è possibile
ritenere che le torture praticate in Birmania, dato l’elevato numero di persone
interrogate, detenute e torturate siano a livello di “attacco esteso”. Secondo le stime
di Amnesty International, i 700 civili arrestati in seguito alle rivolte di settembre
2007 si sono aggiunti ai 1150 detenuti già rinchiusi nelle carceri. Sono inoltre
numerosi i casi di persone arrestate solo per brevi periodi di tempo, interrogate e
torturate senza essere poi imprigionate e ciò riguarda anche un certo numero di
persone appartenenti a minoranze etniche che vengono frequentemente torturate nei
centri d’interrogazione (ma anche in luoghi diversi, sconosciuti o inaccessibili).
Nella medesima occasione, la CDI40 ha definito l’attacco sistematico come quel tipo
di attacco che si realizza in “conseguenza di un piano o politica preconcepiti ove
l’implementazione di questo piano o politica risulti dalla ripetuta o continuata
commissione di atti inumani”. Sembra riconducibile a tale definizione la politica
pianificata dallo SPDC, il quale, attraverso l’apparato coercitivo statale,
sistematicamente arresta, detiene e imprigiona civili con l’intenzione di torturarli.
Trattasi dunque di uno strumento per cancellare sistematicamente l’opposizione al
governo, in maniera non dissimile da quanto già accaduto in altri regimi autoritari o
48
sotto altre dittature militari (come nel caso dell’America Latina). Nello specifico, lo
SPDC ha intrapreso una politica ordinata di eliminazione della NDL, non soltanto
come formazione politica, ma (come ammesso dal diplomatico birmano Aung Lynn
Htut, oggi in asilo negli Stati Uniti) a partire dal 2006, con l’intento di un completo
annientamento dei membri dell’NDL e delle loro famiglie.
Inoltre, la “Ad Hoc Commission on the Depayin Massacre (Burma)” ha evidenziato
che gli eventi del 30 maggio 2003, nel corso dei quali Aung Saan Suu Kyi e altri
membri dell’NDL sono stati aggrediti, possono qualificarsi essi stessi come crimini
contro l’umanità.
A tal proposito si ricordi che in passato, nella comunità internazionale “classica”, a
fronte di crimini internazionali i responsabili di tali comportamenti potevano essere
perseguiti e sanzionati solo entro gli ordinamenti statali, tant’è che si riconosceva solo
un obbligo degli Stati di perseguire i colpevoli o quanto meno di consegnarli ad uno
degli Stati che intendesse perseguirli per tali comportamenti. Oggi si è invece
affermata la diretta rilevanza ed applicazione, nei confronti degli individui a livello
internazionale (e non più soltanto in ambito statale), delle norme che proibiscono e
puniscono i crimina juris gentium. Tali principi di Diritto Penale Internazionale sono
stati sempre più affinati fino alla formulazione prevista nello Statuto della Corte
Penale Internazionale.
Mentre l’eventualità di una possibile azione penale internazionale contro la Birmania
sarà meglio analizzata più avanti, si manifesta chiaramente la sussistenza degli estremi
per una azione legale, la cui necessità s’impone quanto meno a livello interno. In tal
caso, andrebbero considerate anche le aggravanti di premeditazione e ammissione di
colpevolezza41, rilevate con riferimento a taluni casi specifici.
49
5.4 Conclusioni.
Certamente le violazioni, diffuse e reiterate, commesse ai danni della popolazioni
birmana dagli organi di governo sono evidenti e innegabili. La Birmania può essere
considerata come uno Stato “fuorilegge”42, uno Stato che non rispetta quel corpus di
norme giuridiche volte a disciplinare non solo i rapporti tra i soggetti statali, la cui
eguaglianza e sovranità deve appunto esplicarsi nel rispetto di tali norme, ma che
disciplinano anche i comportamenti che i governanti devono tenere nei confronti dei
governati. L’atteggiamento tollerante, largamente diffuso nei confronti di Stati che
vengono meno agli obblighi di protezione nei confronti del popolo che
amministrano, rischia di assimilarsi a forme di acquiescenza e complicità, come
ricordato da Silvio Riondato, “Non si può restare fermi altrimenti si diventa
corresponsabili”. Per sopperire a tale pericolo occorre rendere la giustizia universale
effettiva, occorre garantire in ambito internazionale la “certezza del diritto” e per fare
ciò è necessario il “bilanciamento tra due contrapposte istanze, una che proviene
dalla forza degli Stati, la forza degli stati che assiste la volontà dei governanti insomma, la sovranità degli Stati- e l'altra è quella del consenso degli individui, delle
organizzazioni non governative, dei singoli individui in complesso, per dirla anche
con una parola grossa, il consenso dell'umanità”43. La nostra speranza è che, almeno
nel caso al nostro esame, la seconda istanza prevalga sulla prima.
50
1
Inoltre sebbene il riconoscimento della natura cogente di una norma dipende
dall’orientamento, non di tutti, ma della maggior parte dei Membri della comunità
internazionale, è verosimile che nella prassi uno Stato sia comunque dissuaso
dall’opporsi all’emergere di valori che la maggior parte degli altri Stati condivide. A.
Cassese, Diritto Internazionale, Il Mulino,2006 pag. 200.
2
CIG, sentenza 5 febbraio 1970, Barcelona Traction, Light and Power Company, cit.,
parr. 33-34, in Istituzioni di Diritto Internazionale, Carbone, Luzzatto, Santamaria,
Giappichelli, 2003, pag. 70.
3
Struttura e senso dei diritti, L’Europa tra identità e giustizia politica, a cura di
Fabrizio Sciacca, Bruno Mondadori, 2008, pag. 40.
4
E/CN.4/2006/34
7 February 2006 COMMISSION ON HUMAN RIGHTS Sixty-second session Item
9 of the provisional agenda QUESTION OF THE VIOLATION OF HUMAN
RIGHTS AND FUNDAMENTAL FREEDOMS IN ANY PART OF THE WORLD,
Situation of human rights in Myanmar Report of the Special Rapporteur, Paulo
Sérgio Pinheiro: “Myanmar produces the largest numbers of refugees in the region,
which continue to leave the country for the neighbouring countries of Thailand,
India, Bangladesh and elsewhere. While 150,000 persons have found refuge in
camps on the Thai-Myanmar border, an estimated 1 million people originating from
Myanmar are understood to be currently living in Thailand alone”.
5
Nyaunglebin District, Western Karen State, “The SPDC is planning to relocate
Muthey village to Thwein-bo-plaw. The troops have forced villagers from the Ler
Doh area to build the new village for this relocation”. Rapporto CISL Internazionale
sul lavoro forzato, 31 agosto 2006.
6
“Government troops have expanded their activities into these areas, in spite of
ceasefire agreements, enforcing trade and travel restrictions on civilian
communities”, Report of the Special Rapporteur, Paulo Sérgio Pinheiro, e oltre “ In
areas of conflict, there appears to be no diminution in the Government’s so-called
“Four Cuts Policy”, which reportedly aims to eliminate the access of the armed
opposition to new recruits, information, supplies and financial support, in order to
extend its control over areas under the administration of ethnic nationality groups.
The purposeful impoverishment and deprivation of civilians as a counter-insurgency
strategy is exercised through severe travel restrictions, forced evictions,
expropriation, the imposition of arbitrary taxes and the destruction of villages. Since
1996, an estimated 2,800 villages are understood to have been destroyed (invariably
burnt), relocated en masse or otherwise abandoned due to armed activities. While the
populations of a certain number of these villages have since been resettled, most
remain displaced”.
51
7
Ad esempio, il progetto di diga nell’area tra il fiume Salween e il confine
tailandese, che sommergerà l’area con la conseguente distruzione di molti villaggi
Kareni. Si tratta di una joint-venture tra la Tailandia e la Birmania, che fornirà
corrente idroelettrica alla Tailandia. Rapporto CISL Internazionale sul lavoro forzato
31/08/06.
8
Cfr. www.birmaniademocratica.org
9
Antonio Cassese, Diritti Umani Oggi, 2005 pag. 48.
10
La popolazione civile delle zone abitate da minoranze etniche subisce da anni
gravi violazioni dei diritti umani Nell’ambito di vaste operazioni di guerriglia, interi
villaggi vengono evacuati, saccheggiati e bruciati dai militari e dai miliziani che li
fiancheggiano in quella che può essere a ragione considerata una politica di vera e
propria pulizia etnica. Comunicato stampa, Amnesty International, ottobre 2007,
www.amnesty.it
11
Art.27: “in quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose o
linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati
del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria
religione o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio
gruppo”.
12
Si v.no la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze
nazionali o etniche, religiose e linguistiche, Risoluzione dell’Assemblea Generale
dell’ONU A/RES/47/135 del 3 febbraio 1993, citata in Daniela Fisichella, Individuo,
identità e diritto internazionale, Corso Jean Monnet 2008, Università di Catania.
13
History of forced labour, Cecilia Brighi CISL (Italy) Member of the ILO
Governing Body 6th December 2006, reperibile su www.birmaniademocratica .org
14
15
16
Lavoro Forzato e Commissione OIL, disponibile su www.birmaniademocratica.org
Ibid.
Conclusioni OIL:
·
·
·
L’obbligo di sopprimere ogni forma di lavoro forzato è stato
sistematicamente violato sia a livello legislativo, che a livello di attuazione
pratica.
Lo sfruttamento di civili da parte dei militari fa parte di un sistema basato
sulla violenza e sulla intimidazione che nega i diritti dei cittadini. Sistema che
vige fin dal 1988.
Le prove di queste violazioni sono evidenti.
52
·
·
Il lavoro forzato ha interessato tutti cittadini indiscriminatamente, compresi
bambini, anziani e donne.
Molti sono stati i casi di morte e di violenze subite durante lo sfruttamento. In
particolare le donne subivano violenze e stupri da parte dei militari.
Raccomandazioni della commissione.
Sulla base dei risultati dell’investigazione, la commissione sollecita il governo
birmano ad intraprendere quelle misure necessarie per:
1. Adeguare la legislazione alle disposizioni della convenzione.
2. Assicurare che il lavoro forzato non venga più concretamente utilizzato.
3. Rafforzare i meccanismi di prevenzione e di repressione contro i colpevoli.
The Special Rapporteur continues to receive reports of widespread and systematic
forced labour practices and forced recruitment.
The 7th of February 2006 report of the UN Special Rapporteur on Human Rights
Paulo Sergio Pinheiro underlines the widespread and systematic forced labour
practices and forced recruitment by State actors including allegation of child labuor.
Such report concludes that despite early indications from the government that it was
willing to address these problems, the Special Rapporteur who was not authorized to
visit the country regrets that all such willingness appears to have disappeared and
that recommendations from the UN General Secretary have not been implemented.
February 2007, the SPDC has been confiscating land in Mon State to build forced
labour camps for brick factories. The bricks are used to construct military camps.
The Burmese Army not only confiscates the land but subsequently destroys it by
digging large pits to mine clay. These pits are as big as football pitches, i.e. about 10
to 30 meters in depth, making it impossible to grow anything in the future. About 7
to 8 acres of confiscated lands are being used for the interests of the Burmese
military’s brick factories. The Mon farmers face instant impoverishment and have no
hope of regaining their land. Many flee as migrant workers to Thailand.
17
E/CN.4/2006/34
7 February 2006 COMMISSION ON HUMAN RIGHTS Sixty-second session
Report of the Special Rapporteur, Paulo Sérgio Pinheiro, op.cit.
According to information received by the ICFTU on 22 February 2006 the policy of
the Government to prosecute those who are considered to have lodged false
complaints about such practices dissuades victims from reporting cases, for fear of
prosecution. In this connection, the recent case of Ma Su Su Nway, the human rights
defender. In October 2005 she was sentenced to 18 months’ imprisonment in Insein
Prison on charges of having defamed local authorities, following a trial which did not
meet international standards of due process. Having been released in January 2005
following a conviction for high treason for his contacts with ILO.
53
18
Nonché sulle questioni concernenti le mutue relazioni tra l’OIL e l’ONU e altre
agenzie specializzate. La richiesta deve essere presentata alla CIG attraverso la
Conferenza, o attraverso il Direttore Generale che agisce sulla base di una
autorizzazione della Conferenza. Quando la richiesta di parere viene presentata alla
CIG, l’OIL deve informarne l’ECOSOC.
19
Al fine di verificare la disponibilità al dialogo da parte della giunta, il Direttore
generale dell’OIL Somavia, su mandato del Consiglio ha inviato un Very High Level
Team a Rangoon, composto da Sir Ninian Stephen ex governatore generale
dell’Australia, Ruth Dreifuss, ex Presidente della Confederazione Svizzera ed ex
Presidente del sindacato svizzero USS SGB, e Eui-yong Chung ex presidente del GB
dell’OIL e membro del Parlamento coreano. A febbraio, la Very High Level Team è
andata a Rangoon ma non ha potuto incontrare il Generale Than Shwe, capo della
giunta, né il suo deputato Gen. Maung Aye.
20
Since the gas pipeline was constructed in 2000, villagers along its route have been
suffering various kinds of human right abuses such as restriction on movement,
forced labour, patrol duty, and are forced to pay taxes for security expenditure.
Rapporto CISL Internazionale sul lavoro forzato, 31/08/06.
21
According to Aung Myo Min, "in Burma adults do not want to join the army, and
even if they are coerced and recruited, they can still run away. So children are lured
into the army”, ibid.
22
E/CN.4/2006/34 Situation of human rights in Myanmar .
Report of the Special Rapporteur, Paulo Sérgio Pinheiro, op.cit.
23
“Have the political will to ensure the effective implementation of the plans set
forth by the Special Committee, they would open up the doors for NGO's, especially
child rights organizations, to participate in the planning and implementation of the
plans and not operate in an atmosphere of secrecy”.
"MM was not interested in joining the army, but was forcibly conscripted in 2004,
aged 14. He was on his way home from a religious festival when he was stopped by
the Burmese police and arrested. He was held in custody for four or five days
because he had no identity card. Military officials then came, and told him he could
join the army or remain in jail. He was then taken to Shwe Bo military recruiting
centre, where he was forced to work for two months, He was then transferred to
Sagaing Division Military Training Camp Nr. 10. In the training camp he saw many
other boys of a similar age. He said “I was beaten many times, especially when I
showed no interest in the training. I was beaten with steel rods and bamboo sticks,
and once with a bar from the frame of a bicycle.” During four and a half months in
training, MM was taught to use guns and hand grenades. Then he was sent to Kalaw,
Shan State, to Infantry Battalion 112, Division 55. In his company, Company 3, out
54
of 30 soldiers, 15 were of a similar age to MM. After a month in Kalaw, he was sent
to Karenni State. Of the soldiers he saw there, 250 were of a similar age to him. He
was forced to work for the army, building fences for the camp and he had to carry
250 rounds of ammunition, a landmine and a hand grenade. He was told to shoot any
stranger he saw "because they may be rebels”. He was told to serve ten years in the
Burmese Army, but escaped on 13 January 2006. MM claims to have been ordered
to carry weapons which may have been chemical or biological. He recalls that
Sergeant Major Kyaw Nu told him and other soldiers to carry some boxes, but to be
careful not to drop them. He reportedly said that if the boxes were dropped, they
would explode, releasing a toxic smoke which would be very dangerous if inhaled.
The soldiers carrying the boxes wore gloves and masks. Each box contained a mix of
ordinary shells and chemical shells, MM claims – at least one out of every four or
five was a chemical warhead”.
24
Le altre risoluzioni dell’Assemblea Generale sui diritti del fanciullo ivi inclusa la
questione del reclutamento forzato di bambini soldato e lo sfruttamento di minorile :
A/RES/55/79 del 4 dicembre 2000, A/RES/56/138 del 19 dicembre 2001,
A/RES/57/190 del 19 febbraio 2003, A/RES/58/157 del 9 marzo 2004,
A/RES/59/261 del 24 febbraio 2005, A/RES/60/231 del 9 dicembre2005. I testi sono
disponibili sul sito delle Nazioni Unite, www.un.org
25
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sui diritti del fanciullo: S/RES/1261 del 25
agosto del 1999, S/RES/1314 del 11 agosto 2000, S/RES/1379 del 20 novembre 2001,
S/RES/1460 del 30 gennaio 2003, S/RES/1539 del 22 aprile 2004, S/RES/1612 del 25
luglio 2005. I testi sono disponibili sul sito delle Nazioni Unite, www.un.org
26
Paris conference, Paris Principles: Principles and Guidelines on Children associated
with armed forces or armed group. I lavori della conferenza, inclusi gli interventi da
parte UNESCO e UNICEF, e le testimonianza di alcuni ex bambini soldato, sono
disponibili su
http//www.un.org/children/conflict/_documents/parisprinciples/ParisPrinciples_En.p
df
27
www.aapp.org e Myanmar: Justice on Trial, Amnesty International, 2003, citato
in The Darkness We See: Torture in Burma’s Interrogation Centers and Prisons.
28
Burma Lawyer’s Council (BLC), www.blc-burma.org
29
www.aapp.org
30
The Darkness We See: Torture in Burma’s Interrogation Centers and Prisons. Un
rapporto di 124 pagine, pubblicato nel dicembre 2005, nel quale l’AAPP documenta
con dovizia di particolari i metodi di tortura usati nelle interrogazioni, cui vengono
sottoposti i prigionieri politici e non. I Rapporti dell’AAPP, trattandosi di fonti
estremamente attendibili, sono spesso citati dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite
per il Myanmar.
55
31
32
Antonio Cassese, Diritti Umani, cit., pag. 174.
Ibid.
33
L’espediente della catena di comando permette quella parcellizzazione dei compiti
cui Cassese fa riferimento: infatti, se ogni attività viene parcellizzata, la
responsabilità individuale si frammenta cosicché anche inflizione del dolore fisico o
psichico viene suddivisa tra più persone. Ibid, pag 177.
34
Le torture e i metodi di interrogazione rientrano in tre categorie: torture fisiche,
torture psicologiche, abusi sessuali (su uomini e donne). Tra le prime spiccano le
percosse fino a causare la perdita di conoscenza con svariati oggetti (a seconda
dell’estro dei carcerieri ). Ustioni con cera calda, sigarette, accendini e fili elettrici.
L’isolamento nelle cosiddette “dog cells”. Le restrizioni di movimenti attraverso l’uso
di funi, catene, pesanti lucchetti di ferro o barre di ferro tra piedi. L’assumere posizioni
innaturali sino al collasso. Tra le seconde: minacce, umiliazioni, l’assistere alle torture
sugli altri prigionieri. L’imbavagliamento, l’incappucciamento comprese bende sugli
occhi. L’essere costretti a rimanere in piedi o forzatamente accovacciati per ore.
Privazioni di cibo, acqua, sonno e servizi igienici. Le torture relative alla terza
categoria menzionata sono tristemente e diffuse.
Le stesse generali condizioni di vita nelle carceri birmane possono essere qualificate
come “pene o trattamenti crudeli inumani o degradandi” (proibiti dagli stessi trattati
internazionali che vietano la tortura). Inoltre il deliberato peggioramento delle
condizioni dei detenuti e del sistema di cure sanitarie e le sofferenze derivanti da tali
condizioni può, secondo l’AAPP, essere classificato esso stesso come tortura. La
mancanza di un’adeguata assistenza medica, la scarsa somministrazione di cibo
decente e acqua potabile sono causa del diffondersi di malattie (malaria, tubercolosi,
scompensi cardiaci, malnutrizione, infezioni etc.) e della morte di numerosi detenuti.
35
Aung Hlaing Win, a member of NLD, who died in May in an interrogation
centre,10 days after his arrest, was cremated without the knowledge of his family.
Min Tun Wai, a 40-year-old NLD member from Mon State, died in Moulmein
Prison, subsequently buried by the authorities, without any notice having been give
to his family.
Saw Stanford, a teacher who had been arrested on 7 July 2005 in Ayeryarwaddy
Division, is alleged to have died as a result of electric shocks employed upon him
during his interrogation. His family reportedly lodged a complaint about his death
and requested that action be taken against those responsible. The authorities offered
financial compensation to the family and allegedly requested that they not speak
publicly about his death;
Aung Myint Thein, a human rights defender based in Yangon, was arrested on the
grounds of having had contact with an “illegal” organization, the exiled FTUB. The
authorities reportedly stated that he died as a result of dysentery and cholera, in spite
of the fact that no autopsy was known to have been conducted. His family was not
permitted to see his body or to bury him.
56
The Special Rapporteur is seriously concerned about the continued detention of a
number of severely ill political prisoners, who should be immediately released on
humanitarian grounds. Reports of torture and ill-treatment of those held in pretrial
detention and of political prisoners continue to be received. Allegations include food,
water, sleep and light deprivation; harsh beatings; forced squatting for prolonged
periods; shackling and solitary confinement.
36
UN Human Rights Council Resumed sixth session, Compilation of statements by
Amnesty International, disponibile sul sito di Amnesty International,
www.amnesty.it.
37
A/RES/61/232 Situation of human rights in Myanmar. General Assembly Sixtyfirst session 13 marzo 2007.
38
Antonio Cassese op. cit.
39
Report on the International Law Commission to the General Assembly on its
work of its 48th Session, 51 UN GAOR Supp. (No. 10) at 94, UN Doc A/51/10
(1996).
40
Ibid, at 93.
41
Burma Lawyer’s Council (BLC), www.blc-burma.org
Struttura e senso dei diritti, a cura di Fabrizio Sciacca, cit., pag. 46. Proprio la
distinzione tra gli Stati “fuorilegge” che violano i diritti umani fondamentali e gli
Stati che invece rispettano i principi e valori fondamentali segna il limite della
tolleranza internazionale.
42
43
Potere e diritto. Effettività e idealità del diritto penale internazionale,
Silvio Riondato, intervento alla Conferenza “Crimini di guerra e giurisdizione
internazionale”, Pubblicazioni
Centro italiano Studi
per la pace,
www.studiperlapace.it
57
CAPITOLO II
Il diritto e il suo rovescio: ovvero, come superare il limite della “domestic
jurisdiction” ed attuare soluzioni adeguate al caso in esame.
Cosa può fare la Comunità internazionale e, in particolare, gli organi
internazionali, per porre fine agli abusi perpetrati dal regime birmano e per
conseguire l’effettivo adempimento dei rispettivi obblighi internazionali? Come
valicare le Colonne d’Ercole della sovranità territoriale? Come supportare le
forza liberali interne e favorire il ritorno alla democrazia in un Paese che può
vantare di aver dato alle Nazioni Unite un Segretario Generale con la nomina di
U Thant nel 1961?
A tal proposito, intendo mostrare se e come sia possibile individuare appropriati
mezzi risolutivi semplicemente applicando il diritto vigente.
In questa seconda parte vaglierò, dunque, le molteplici opzioni d’intervento e le
azioni legali internazionali che possano essere attuate da altrettanti attori
governativi e non, operando in conformità alle norme di Diritto Internazionale.
Tenendo sempre ben a mente che la democrazia non può essere “imposta”
sic et simpliciter dall’esterno, ma necessita di una forte spinta interna. Proprio
per questo, il mero atteggiamento di condanna serve a ben poco, se non è
accompagnato da una
stretta e continua pressione internazionale, che
contribuisca a dare manforte alle forze democratiche autoctone che lottano per il
crollo del regime.
58
Il Ruolo delle Nazioni Unite.
1.1
“Responsibility to Protect” e
Intervento Umanitario: le azioni del
Consiglio di Sicurezza passando attraverso la riforma delle Nazioni
Unite.
Gli iniziali entusiasmi profusi nei dibattiti circa l’opportunità di un cosiddetto
intervento umanitario, si sono ben presto smorzati, cedendo il passo a più
complesse considerazioni di ordine politico-economico e da ultimo (ahimè)
giuridico.
Occorre
innanzitutto premettere
che le forme d’intervento
congetturabili in ambito internazionale possono essere di due tipi: civile o
militare, a seconda del personale e dei mezzi impiegati (i quali a loro volta
devono essere congrui rispetto agli obiettivi da perseguire) ma, in situazioni di
particolare gravità le due forme d’intervento possono anche coesistere.
Sicuramente, le forme di intervento più controverse e delicate sono quelle
militari. Come noto, il divieto generale dell’uso della forza nelle relazioni
internazionali impostosi all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, conosce
alcune importanti eccezioni che legittimano forme anche armate di ingerenza
nelle questioni interne degli Stati. Tra queste si riscontra, in primo luogo,
l’eccezione umanitaria. In effetti, sia l’ormai estinta Commissione sui Diritti
Umani delle Nazioni Unite (oggi sostituita dal Consiglio dei Diritti Umani), sia
lo stesso Consiglio di Sicurezza hanno più volte ribadito che le violazioni dei
diritti umani nelle loro varie manifestazioni - genocidi, crimini contro l’umanità,
stupri, pulizia etnica, schiavitù - costituiscono causa legittimante di intervento
59
negli affari interni degli Stati. Anche la dottrina giuridica è generalmente
concorde su questo punto, considerato ormai come assodato, mentre rimane,
invece, più controversa la questione relativa a chi sia legittimato a decidere
l’intervento. Chi rappresenta, legittimamente, la Comunità internazionale quale
garante del bene comune? Chi può e deve farsi carico della tutela del bene
d’umanità?
Si può ricordare che un tempo, quando la cooperazione internazionale non si era
ancora organizzata in via permanente, la dottrina giuridica era concorde
nell’asserire che anche uno Stato o un gruppo di Stati, agendo uti universi e non
uti singuli, potevano legittimamente farsi carico del compito di tutelare i valori
supremi dell’ordinamento internazionale.
Oggi, in presenza della estesa e capillare realtà dell’Organizzazione
Internazionale, non esistono dubbi sul fatto che la Comunità internazionale sia
legittimamente rappresentata in primo luogo dall’ONU e da quelle altre
Organizzazioni regionali i cui statuti sono conformi ai principi della Carta delle
Nazioni Unite. Questo mutamento di prospettiva della Comunità internazionale è
stato dettato dall’esigenza di far fronte ad una sempre crescente interdipendenza
che ha progressivamente reso gli Stati incapaci di gestire in solitudine realtà
interne e internazionali sempre più interconnesse. Proprio per sopperire ai propri
limiti, gli Stati hanno scelto la via della mutua collaborazione dando vita, negli
anni, a forme sempre più sofisticate di cooperazione organizzata. Dunque, il
diffondersi delle Organizzazioni Internazionali è un fenomeno speculare alla
progressiva erosione dell’antiquato modello delle sovranità statuali-nazionali,
l’un contro l’altra armate, di volta in volta alleate o contrapposte per ragioni di
60
convenienza e opportunità.
Col tramonto definitivo dello schema weberiano di Stato-Nazione e l’affermarsi
dei moderni principi di Diritto internazionale, si è fatta strada il convincimento
che gli interventi armati debbano essere decisi e condotti, sotto la guida di
un’autorità riconosciuta a livello sopranazionale e nel pieno rispetto delle norme
internazionali vigenti. Ai sensi del Diritto Internazionale, in primis della Carta di
San Francisco, nonché della opinione più largamente condivisa dai membri della
Comunità internazionale, l’autorizzazione ad intraprendere un intervento
implicante l’uso della forza, è di competenza esclusiva del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, istituzione alla quale è affidata in via principale la
responsabilità del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale1.
Va detto, comunque, che una decisione nel senso di un intervento armato, non è
di certo presa a cuor leggero, tant’è vero che la Carta ONU ha previsto tutta una
serie di meccanismi dilatori e ove possibile alternativi all’intervento coattivo. Ad
ogni modo, riguardo a tale possibilità, si potrebbe obiettare che l’attuale
situazione birmana non rientra pienamente nella categoria di fattispecie atte a
richiamare l’azione del Consiglio di Sicurezza, non trattandosi di un atto di
aggressione. Tuttavia, non si può negare che le violazioni estese e sistematiche
(documentate nella prima parte del presente lavoro) siano ugualmente suscettibili
di costituire una tipologia rientrante nella categoria di minaccia alla pace e alla
sicurezza e, dunque, passibile di soluzione ai sensi del Cap. VII della Carta. Si
consideri, inoltre, che l’art. 34 stabilisce espressamente che il Consiglio di
Sicurezza ha il potere di “fare indagini su qualsiasi situazione che possa portare
ad un attrito internazionale o dar luogo ad una controversia, allo scopo di
61
determinare se la continuazione della controversia o della situazione sia
suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale”2. Il Consiglio gode, dunque, di ampia discrezionalità nello
stabilire caso per caso quali circostanze siano degne di rilievo o passibili di
mettere a repentaglio l’assetto pacifico delle relazioni internazionali (ricordiamo
inoltre che la sua attenzione su tali questioni può essere richiamata
dall’Assemblea Generale e dal Segretario Generale, in conformità allo Statuto
delle Nazioni Unite)3.
Il Consiglio di Sicurezza può (e deve) anche avvalersi di numerosi strumenti,
diversi dall’utilizzo di mezzi coattivi, alcuni dei quali potrebbero rivelarsi adatti
al caso in esame. Come anticipato, lo Statuto delle Nazioni Unite prevede una
serie di rimedi pacifici che il Consiglio di Sicurezza è tenuto ad esperire prima di
deliberare l’intervento militare4.
In osservanza al Cap. VI, il Consiglio di Sicurezza svolge una funzione di natura
conciliativa, potendo avvalersi di numerosi strumenti per la composizione
pacifica delle controversie come, ad esempio, della facoltà di raccomandare quei
procedimenti e quei metodi di sistemazione che ritenga adeguati5.
Il Cap.VII, oltre a rimarcarne il ruolo di accomodamento, investe il Consiglio di
Sicurezza di un ruolo più propriamente operativo. Questo può, infatti, in base
all’art. 39, sia deliberare l’adozione di misure coercitive, sia optare per le
raccomandazioni. Per quanto riguarda le misure coercitive non implicanti l’uso
della forza, il Consiglio può decidere, a norma dell’art. 41, l’adozione di misure
sanzionatorie. Tra queste spiccano le sanzioni commerciali (sulla cui efficacia si
dirà in seguito), la rottura totale o parziale delle relazioni diplomatiche ed
62
economiche, l’interruzione delle comunicazioni e della fornitura di armi. Prima
ancora poi di decidere l’eventuale attuazione di tali azioni restrittive o
sanzionatorie, il Consiglio di Sicurezza può invitare le parti, ai sensi dell’art. 40,
ad osservare in via preliminare quelle misure provvisorie che esso stesso reputi
necessarie 6.
Una volta esperite senza successo le procedure di soluzione pacifica a sua
disposizione, il Consiglio di Sicurezza prende in considerazione l’applicazione
dell’art. 42, il quale dispone che esso “può intraprendere, con forze aeree, navali
o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed
altre operazioni con l’impiego di forze aeree, navali o terrestri di Membri delle
Nazioni Unite”7.
Boutros Boutros-Ghali, Segretario Generale dell’ONU dal ‘92 al ‘97, ha
precisato al riguardo che l’art. 42 non può ricevere attuazione se non viene prima
data applicazione all’art. 43, secondo il quale: “Al fine di contribuire al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle
Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di
Sicurezza....le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di
passaggio, che sono necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale”. Dunque, senza la disponibilità di una forza militare resa fruibile
in via permanente dagli Stati (ovvero senza la previa attuazione degli art. 43 e
ss.) il Consiglio di Sicurezza non può compiere azioni implicanti l’uso della
forza per i fini stabiliti dalla Carta. Va anche ricordato che, per il compimento di
azioni coercitive sotto la sua direzione, il Consiglio di Sicurezza può anche
63
avvalersi di accordi o organizzazioni regionali 8.
Possiamo, dunque, affermare che il ricorso all’intervento armato, di cui
all’articolo 42 del Capitolo VII, è deciso dal Consiglio di Sicurezza come
extrema ratio, laddove gli altri metodi si siano rivelati inadeguati. Fatte salve le
suddette premesse, tuttora l’esistenza di un diritto all’ingerenza umanitaria è una
questione alquanto problematica. Al vertice di New York del settembre 2005
9
(High Level Plenary Meeting della sessantesima riunione della AG, noto più
informalmente come Millennium+5 Summit) l’Assemblea Generale, riunita a
livello di Capi di Stato e di Governo, ha adottato una risoluzione in cui si
stabilisce espressamente la “Responsibility to Protect”
10
. Tale principio
consacra l’obbligo per ogni Stato di proteggere il proprio popolo contro atti di
genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità.
I governanti, perciò, hanno l’obbligo preciso di proteggere il popolo che
amministrano ed é loro proibito di ricorrere a pratiche di genocidio ed altre
pratiche analoghe. È controverso se la “responsabilità di protezione” possa aprire
la porta ad interventi umanitari ma, ad ogni modo, la possibilità che il Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite assuma una posizione in tal senso è condizione
politicamente impossibile nel caso concreto, essendo quest’ultimo ostaggio del
veto di Cina e Russia.
Ebbene, il 12 gennaio 2007, quando gli Stati Uniti ed altri Paesi occidentali
hanno proposto al Consiglio di sicurezza una risoluzione di condanna del regime
birmano, Cina e Russia, in qualità di membri permanenti, hanno esercitato il loro
potere di veto, bloccandone l’approvazione. Tale bozza di risoluzione chiedeva
l’interruzione della repressione politica e la fine della violazione dei diritti umani
64
e del lavoro (nello specifico, la cessazione degli attacchi alle minoranze etniche e
una maggiore collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro
per porre fine al lavoro forzato) e la liberazione del Premio Nobel per la Pace
Aung San Suu Kyi e degli altri detenuti politici. In tale occasione sia Cina sia
Russia hanno argomentato che la situazione birmana non costituiva una minaccia
contro la pace e la sicurezza a livello internazionale, che quindi il Consiglio di
Sicurezza non era competente e che si sarebbe trattato di un’ indebita
intromissione negli affari interni della Birmania. Queste argomentazioni
appaiono del tutto pretestuose, dal momento che lo stesso Consiglio di Sicurezza
ha più volte avuto occasione di asserire che violazioni estese e reiterate dei diritti
umani sono suscettibili di mettere in pericolo la pace e la sicurezza,
deducendone, dunque, che esse costituiscono causa idonea a giustificare un
intervento negli affari interni degli Stati ai sensi dell’eccezione prevista dall’art.
2, paragrafo 7 della Carta delle Nazioni Unite11.
In merito alla bocciatura della risoluzione sulla Birmania, va detto che anche il
Sud Africa ha votato contro, mentre tre Stati (Congo, Indonesia e Qatar) si sono
astenuti. Gli altri nove Paesi membri del Consiglio di Sicurezza hanno
appoggiato la bozza di risoluzione. Insieme agli Stati Uniti, anche Gran
Bretagna, Francia, Italia, Slovacchia, Perù, Belgio, Panama e Ghana hanno
votato a favore. L’ambasciatore birmano alle Nazioni Unite, Kyaw Tint Swe, ha
colto l’occasione per ringraziare il governo cinese e quello russo, nonché gli altri
Paesi che si sono astenuti, e per ribadire che se la risoluzione fosse passata
avrebbe rappresentato un grave precedente.
L’ambasciatore russo all’ONU, Vitaly Churkin, ha dichiarato inaccettabile il
65
tentativo di utilizzare il Consiglio di Sicurezza per discutere di questioni che non
sono di sua competenza, evidenziando che i problemi della Birmania sono in
discussione presso altri organismi ONU. Dal canto suo il rappresentante del
governo cinese ha dichiarato di aver votato contro per le stesse ragioni,
rammaricandosi del fatto che la Birmania non si adoperasse abbastanza per
promuovere la stabilità e ha chiesto al governo birmano di muoversi in direzione
di una democrazia inclusiva e di accelerare il processo di dialogo e riforma
(parole che messe in bocca all’ambasciatore cinese suonano più che mai beffarde
e retoriche). Anche il governo indonesiano, nonostante l’astensione, ha molto
criticato nel suo intervento l’operato del governo birmano, ricordando inoltre
come anche l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Association of
Southeast Asian Nations, ASEAN) avesse cercato, senza successo, di costringere
la giunta a promuovere la democrazia12. Infine, l’ambasciatore americano
all’ONU ha cercato, per quanto possibile, di rassicurare gli altri Paesi
affermando che il voto negativo rifletteva le differenze in merito all’esercizio di
competenze del Consiglio di Sicurezza e non un disaccordo inerente al problema
in sè. Infatti, secondo il rappresentante del governo americano, tutti i 15 membri
del Consiglio di Sicurezza riconoscono che esistono in Birmania problemi di
diritti umani, sociali e di libertà politica.
Vale anche la pena di ricordare che i veti multipli sono molto rari nel Consiglio
di Sicurezza: l’ultimo veto multiplo si era verificato nel 1989, da parte di USA,
Gran Bretagna e Francia sulla questione di Panama, mentre l’ultimo veto posto
dalla Cina e dalla ex Unione Sovietica risale al 1972 su di una risoluzione
relativa al Medioriente13.
66
L’incapacità del Consiglio di Sicurezza di reagire prontamente dinanzi alle
situazioni che lo richiedano, apre la più complessa e delicata questione della
efficacia e adeguatezza delle Nazioni Unite e della necessità di una riforma delle
stesse. Ciò che occorre subito chiarire é che la responsabilità delle inadempienze,
dei ritardi e degli insuccessi, cui ormai le Nazioni Unite ci hanno abituato, non è
dell’Organizzazione, ma degli Stati che ne fanno parte: la volontà dell’ONU
corrisponde infatti alla volontà dei più forti dei suoi membri.
La necessità di rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite14 è ormai una
consapevolezza diffusa e avvertita come immediata, dal momento che le Nazioni
Unite sono oggi al centro del sistema di governance mondiale. L’esigenza di
un’ONU più democratica, scevra di condizionamenti e di strumentalizzazioni ad
opera degli Stati più potenti, avulsa dai giochi della Realpolitik, si sposa con
l’esigenza di rivedere il sistema di distribuzione dei seggi e, in primis, la
persistenza dei seggi permanenti al Consiglio di Sicurezza con annesso potere di
veto.
Per un’ONU che possa essere autenticamente dei popoli, sono state avanzate
alcune importanti proposte di riforma. Fra queste, quelle maggiormente rilevanti
ai fini di una progressiva democratizzazione consistono nel potenziare lo “status
consultivo” delle Organizzazioni non governative (nel senso di renderlo “codecisionale” in settori come quello dei diritti umani, dell’aiuto umanitario, della
cooperazione allo sviluppo) e nell’attuare una moratoria o sospensione
volontaria dell’esercizio del potere di veto da parte dei membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza, relativamente agli stessi settori sopra indicati. Parimenti
valida ma francamente irrealizzabile, almeno allo stato attuale, è la proposta di
67
istituire una seconda Assemblea Generale in rappresentanza dei popoli
(Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite), accanto all’attuale composta di
rappresentanti degli Stati.
Di certo, la capacità di intervenire prontamente e in modo risolutivo anche in
situazioni scottanti, quale quella della Birmania, passa anche attraverso una
sostanziale riforma del sistema delle Nazioni Unite. Si tratta di un passo difficile
ma possibile soprattutto ove si verificasse una certa convergenza di volontà e
intenti da parte degli attori della comunità internazionale, in primis gli Stati, così
restii ad abbandonare la tanto cara cultura dell’impunità e ad abbracciare una
logica umano-centrica (e non più statocentrica) nelle relazioni internazionali.
Come detto, dunque, nella situazione concreta ed attuale, l’ipotesi che l’ONU si
pronunci a favore di un intervento armato, appare quanto mai remota. Allo stesso
modo, anche un intervento unilaterale (da parte di chi?) per provocare un
cambiamento di regime sarebbe impensabile, oltre che illegittimo. Inoltre,
ritengo personalmente che non si possa più abboccare all’ingenua scusa della
cosiddetta guerra umanitaria, che quanto più si veste di nobili a alti ideali, tanto
più cela intenti biechi e amorali15.
Come la storia recente ha dimostrato con la guerra del Golfo, ancor più con la
guerra del Kosovo e, dulcis in fundo, con la guerra in Iraq e in Afghanistan, gli
Stati hanno intrapreso una china molto pericolosa, presentando le violazioni dei
diritti umani quale pretesto per perseguire, con l’uso delle armi, gli interessi
utilitaristici dei più forti. Del resto, come recita la nota massima clausewitziana,
la guerra non è altro che la continuazione della politica condotta con altri mezzi,
perciò non c’è da stupirsi se la “coscienza umanitaria” venga sopraffatta dalla
68
Ragion di Stato e posta al servizio di una politica di potenza.
1.2 Altre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
Altre azioni che coinvolgano il Consiglio di Sicurezza possono essere prese in
conformità alle norme internazionali vigenti. Si ricordi, innanzitutto, che esso è
abilitato ad investire della questione la Corte Penale Internazionale in base
all’art. 13 (lettera b) dello Statuto di Roma del 1998, che disciplina il
funzionamento del suddetto Tribunale (delle azioni a norma del Diritto penale
internazionale si parlerà in modo più specifico in seguito). Tra le altre soluzioni
che il Consiglio di Sicurezza può vagliare a norma della Carta di San Francisco
(anche se, come abbiamo già detto, il problema principale non consiste nella
carenza di mezzi ma nella incapacità di svincolarsi dai condizionamenti degli
Stati più influenti), si potrebbe sfruttare la possibilità di istituire, con risoluzione,
un mandato di Buoni Uffici del Segretario Generale, o un mandato speciale per
l’invio di emissari ONU. La missione di questi consisterebbe nell’avviare un
dialogo sia con i membri della giunta militare sia con gli esponenti della
opposizione e nello svolgere accertamenti imparziali e indipendenti sullo
svolgimento dei recenti avvenimenti. A tal fine, e in vista di ulteriori soluzioni
da intraprendere dinanzi agli organi giudiziari preposti, potrebbe essere inviata
sul territorio una commissione d’inchiesta ad hoc. Infine, gli emissari delle
Nazioni Unite potrebbero svolgere una importante opera di monitoraggio (ad
esempio, sul tanto millantato processo di adozione di una costituzione
democratica). Tuttavia, sebbene tali misure possano essere agevolmente decise, e
69
in parte lo sono state, per la loro attuazione è necessario il consenso dello Stato
territoriale (consenso che ovviamente il governo birmano si guarda bene dal
concedere). Pertanto, come gli eventi ci hanno mostrato, non è sufficiente una
semplice risoluzione istitutiva del mandato, ma bisognerebbe pretendere in
termini perentori che il governo militare concedesse il proprio benestare
all’ingresso nel Paese dei funzionari delle Nazioni Unite, come, ad esempio,
l’inviato speciale Ibrahim Gambari o il relatore speciale per i diritti umani Paulo
Sergio Pinheiro e che assicurasse lo svolgimento delle loro missioni senza
condizionamenti o intromissioni da parte del regime stesso. Inoltre, alla giunta
dovrebbe essere intimato di garantire lo stesso trattamento anche ad altri
soggetti, come il Presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa o
l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, ai quali viene oggi negato
l’ingresso nel paese e il permesso di visitare i prigionieri politici e in primis
Aung San Suu Kyi.
Appare abbastanza ovvio come, almeno allo stato attuale, non si possa fare
affidamento su quelle soluzioni che richiedono: a) la collaborazione del governo
birmano; b) un voto favorevole di tutti i membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza che, come sappiamo, è condizione richiesta per le questioni sostanziali
o “di fondo”16; c) entrambe. Si potrebbe pensare che tali soluzioni siano da
abbandonare a favore di mezzi e modalità di intervento che prescindano da tali
condizioni; tuttavia, ritengo che i proclamati intenti possano mantenere una
parvenza di credibilità, e che si debba insistere proprio su questo fronte sino a
che cadano tutti quegli ostacoli che impediscono di attuare le suddette soluzioni.
Un’altra via che può essere esplorata dal Consiglio di Sicurezza è quella
70
percorribile a norma del Cap.VIII, ovvero relativa agli accordi regionali. Su
questo profilo sarebbe auspicabile una più stretta collaborazione con il Forum
Regionale Sud-Est Asiatico (ovvero l’ASEAN, Associazione delle Nazioni del
Sud-Est Asiatico).
Sebbene la partecipazione attiva del Consiglio di Sicurezza costituisca la forma
più vistosa d’intervento e, ove andasse in porto la più efficace, in generale tutte
le azioni ONU rivestono una particolare importanza, anche dal punto di vista
simbolico, incarnando nell’immaginario collettivo il livello più elevato della
governance mondiale: lo stadio decisionale più accreditato e legittimato a dire la
propria in circostanze quali quella della Birmania. Vanno, dunque, considerate
anche le azioni di quegli altri organi e istituzioni delle Nazioni Unite che,
sebbene non dispongano di un potere vincolante, sono comunque in grado di
influire e di imprimere una svolta positiva in situazioni spinose come quella in
esame, fornendo, inoltre, un segnale tangibile della volontà di contribuire
attivamente a sbloccare l’impasse attuale.
1.3 L’Assemblea Generale e gli atti non vincolanti.
Senza dubbio, la più importante istituzione abilitata ad intervenire in casi di
gravi violazioni di diritti umani e delle libertà fondamentali, è l’Assemblea
Generale. Come mostrato dalla prassi, essa non ha esitato a pronunciarsi anche
in quelle circostanze in cui il Consiglio di Sicurezza si sia rivelato indolente o
riluttante. Tuttavia, sino ad ora la proposta di investire della questione
l’Assemblea Generale, non si è rivelata appropriata. Infatti, sebbene questa
71
rifletta molto meglio del Consiglio di Sicurezza gli umori della Comunità
internazionale, trattandosi dell’organo rappresentativo di tutti gli Stati membri,
non dispone di poteri vincolanti. Certo, le sue raccomandazioni provengono da
una voce oltremodo autorevole e rappresentano un formidabile strumento di
pressione, ma non essendo produttive di obblighi giuridici vincolanti esauriscono
ben presto la propria funzione risolvendosi in un mero auspicio. Essa, in altre
parole, si limita ad indicare ai destinatari designati quali comportamenti tenere o
abbandonare, ferma restando la scelta di questi di conformarsi o meno.
L’Assemblea Generale non può dunque obbligare gli Stati, e in questo caso il
regime birmano, ad osservare le sue raccomandazioni, ma può deplorare e
condannare la violazione dei diritti umani mostrando la propria disapprovazione
all’intera Comunità internazionale e all’opinione pubblica mondiale. Peraltro,
l’Assemblea Generale si è già espressa sulla situazione birmana, approvando, a
partire dal 1991, risoluzioni annuali sui diritti umani e la democrazia in Birmania
(accentuando i toni di condanna negli ultimi anni, si pensi ad esempio alla
risoluzione del 13 marzo 2007 )17 ma senza raggiungere i risultati sperati. Si può
comprendere perché queste risoluzioni siano state di scarsa incisività: approvate
per consensus, sponsorizzate da Stati occidentali, senza un adeguato supporto al
di fuori di tale blocco e il pretesto della “non interferenza negli affari interni”
sempre in agguato. Probabilmente, allo stato attuale, piuttosto che rivolgersi al
governo birmano sarebbe più utile una risoluzione che chieda a Cina e Russia di
cessare il sostegno alla giunta militare e la fornitura di armi, pena gravi sanzioni.
Niente, però, assicura che queste non decidano di rimanere sorde dinanzi a tali
richieste, infischiandosene altamente della riprovazione espressa dalla Comunità
72
internazionale. Come già sappiamo, l’Assemblea Generale non può decidere
sanzioni vincolanti, e non può neppure raccomandarle non avendo competenza
in materia, a parte qualche esempio contrario nella prassi (risoluzioni che
durante la decolonizzazione raccomandavano sanzioni al Sud Africa per la sua
politica di apartheid). A tal proposito, i Paesi seguaci di Cina e Russia avrebbero
una buona scusa nel sostenere di non poter votare una risoluzione illegittima e,
quindi, sarebbe difficilmente raggiunta la maggioranza dei due terzi necessaria ai
sensi della art. 18 della Carta ONU. Come se non bastasse, anche la validità dei
meccanismi sanzionatori è quantomeno discutibile, non solo in merito alla loro
effettiva osservanza, da parte dei destinatari designati, ma anche per quanto
concerne le conseguenze negative che troppo spesso gravano su popolazioni
incolpevoli (e di ciò si dirà in seguito). Un merito dell’Assemblea Generale e
soprattutto di alcuni Stati al suo interno è quello di aver mantenuto accesi nel
corso degli anni i riflettori su questioni che sarebbero altrimenti finite nel
dimenticatoio, richiamando come previsto all’art. 11, l’attenzione del Consiglio
di Sicurezza su quelle situazioni che siano passibili di mettere in pericolo la pace
e la sicurezza internazionale, portando in rilievo proprio quelle questioni che
siano da questo opportunamente ignorate.
Le azioni del Consiglio di Sicurezza, implicanti o meno l’uso della forza, e
quelle dell’Assemblea Generale, sarebbero le più appariscenti, ma non sono le
sole ad essere approntabili in ambito ONU; è vero, infatti, che altri organismi si
sono occupati della questione della Birmania, seppur fino ad ora con scarsi esiti.
73
1.4 Altre azioni in ambito ONU: la diplomazia del Segretario Generale.
Un ruolo di primo piano potrebbe esser giocato anche dal Segretario Generale
delle Nazioni Unite, figura sicuramente qualificata e autorevole, nota per la sua
levatura morale e per la sua imparzialità, in grado di intervenire sulla questione,
rivolgendosi anche direttamente ai membri dello SPDC.
Questi, oltre a sollecitare, a norma dello Statuto, l’attenzione del Consiglio di
Sicurezza su qualunque questione a suo avviso degna di rilievo (art. 99 della Carta
ONU), può utilizzare i canali e gli strumenti della diplomazia, ovvero i suoi Buoni
Uffici, per pervenire ad inedite soluzioni. Va anche osservato che il Segretario
Generale è un organo politico che, col passare degli anni e il susseguirsi dei
mandati, ha esteso il proprio raggio di intervento al di là del dato letterale della
Carta, divenendo un interlocutore privilegiato dei governi. Questi può richiedere a
gran voce quelle spiegazioni che metterebbero la giunta in grave imbarazzo
dinanzi all’opinione pubblica internazionale, contribuendo a mantenere vivo
l’interesse mediatico e la pressione sul regime. Ad ogni modo, la reazione del
Segretario Generale non si è fatta attendere. Già all’indomani dei primi sanguinosi
scontri, Ban Ki-moon ha inviato un proprio rappresentante nella capitale birmana,
Ibrahim Gambari, che ha però incontrato mille difficoltà, a dispetto della sua
autorevole veste di delegato del Segretariato generale delle Nazioni Unite. Del
resto, anche il primo Inviato Speciale dell’ONU in Birmania, Razali Ismail, fu
ripetutamente privato del permesso di entrare nel Paese (parliamo di poco più di 2
anni fa): infatti, proprio l’ennesima negazione del lasciapassare da parte del
74
governo militare, portò alla rottura del processo di dialogo iniziato nel 200018.
Dopo essersi visto rimandare indietro più volte il proprio rappresentante, l’allora
Segretario Generale Kofi Annan chiese ad Ibrahim Gambari (suo Sottosegretario
Generale per gli Affari Politici) di mantenere una attiva supervisione sulla
situazione birmana, e al contempo ricercare un modo per ripristinare i negoziati sia
con gli esponenti del governo militare sia con l’opposizione. Come noto, in seguito
all’avvio, nel 2007, del mandato di Ban Ki-moon quale nuovo Segretario Generale
delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari è stato nominato suo Consigliere Speciale sul
conflitto in Iraq ed altre questioni, mentre la Birmania è stata appunto designata
come una di queste “altre questioni”. Da allora Gambari ha potuto compiere alcuni
viaggi nel Paese, di cui tre dopo le proteste manifestate nel settembre 2007.
L’inasprimento del clima, già abbastanza ostile, spiega poi l’esito sostanzialmente
fallimentare della missione dell’inviato speciale Gambari19, costretto ad una lunga
trafila prima di poter essere messo nelle condizioni di svolgere la sua missione di
intermediario tra la dittatura militare e l’ONU nella persona del Segretario
Generale20. Constatiamo quindi che, nonostante lo Statuto delle Nazioni Unite
preveda espressamente che nel territorio di ciascuno Stato membro: “i funzionari
dell’Organizzazione godranno……dei privilegi e delle immunità necessari per
l’esercizio indipendente delle loro funzioni inerenti all’Organizzazione”21, la giunta
ha percepito con forte ritardo il dovere di collaborare, cercando dapprima di
intralciare piuttosto che favorire lo svolgimento da parte dei rappresentanti ONU
delle rispettive missioni diplomatiche. Ribadendo il fatto che, per l’attuazione di
soluzioni che passino attraverso l’invio di emissari e portavoce ONU, la negazione
del consenso dello Stato territoriale suona come un minaccioso non plus ultra, in
75
grado di stroncare sul nascere le iniziative diplomatiche internazionali. Ad ogni
modo, sarebbe anche ingenuo pensare che gli sforzi del Segretario Generale
possano produrre esiti positivi con immediatezza, poichè questi non possiede una
bacchetta magica, né poteri speciali, né ha truppe o sanzioni punitive a sua
disposizione. La sua meritoria opera di Buoni Uffici da i suoi risultati (e non
sempre ahimè) dopo anni di tentativi diplomatici e negoziati, costellati di fallimenti
e periodi di stallo, ma che talvolta producono esiti insperati. Non va inoltre
dimenticato che, nonostante il Segretario Generale abbia saputo ritagliarsi margini
di azione via via sempre più ampi, lo spazio politico nel quale egli e il suo staff
possono realmente operare è ancora limitato. Proprio per questo è stata avvertita, tra
la generale esigenza di riforma delle Nazioni Unite, l’urgenza di riformare anche il
Segretariato (esigenza divenuta, a dire il vero, sempre più pressante dopo lo
scandalo relativo al programma Oil for Food la cui amministrazione, posta sotto la
supervisione dell’allora Segretario Generale Kofi Annan, ha rivelato molteplici casi
di corruzione)22.
Di certo, un Segretariato efficiente ed effettivo, dalla struttura organizzativa
funzionale, è un prerequisito essenziale per lo svolgimento delle attività delle
Nazioni Unite. Da questo punto di vista, la presenza di un Segretario Generale che,
come Ban Ki -moon, ha particolarmente a cuore le sorti delle Nazioni Unite,
avendone sperimentato l’importanza sulla propria pelle23, è una positiva
coincidenza. Speriamo solo che, nonostante i limiti attualmente esistenti, egli
prosegua nella sua pressante opera di sollecitazione dato che, se le circostanze per
una svolta in positivo sul fronte delle relazioni con le autorità birmane ancora non
sono mature, ci si può comunque attendere che l’impegno febbrile profuso da Ban
76
Ki -moon, possa portare ai risultati sperati. Di certo, il suo impegno dinamico ha
costituito un importante strumento di pressione e un visibile segnale di sostegno e
solidarietà alla causa del popolo birmano. Sostegno e solidarietà che certo non
potevano mancare da parte di chi, come Ban Ki -moon, ha vissuto in prima persona
un clima d’instabilità politica ed economica, essendo “cresciuto in una Corea
straziata dalla guerra e ridotta in miseria”24 .
1.5 Il Consiglio dei Diritti Umani: un potenziale innovativo.
Altro organo delle Nazioni Unite che può svolgere un ruolo più che rilevante in
contesti come quello birmano, è il Consiglio dei Diritti Umani: la neonata
istituzione che dal giugno 2006 ha sostituito, dopo oltre 60 anni di attività, la
Commissione sui diritti umani. La nascita del Consiglio dei Diritti Umani è stata
accolta come un opportunità per un “nuovo e fresco inizio”25, e a detta dei suoi
estimatori, promuoverà e incoraggerà il rispetto dei diritti umani in maniera più
efficiente del suo predecessore. Tale convinzione nasce dal fatto che il Consiglio si
presenta, fin da principio e per volontà dei suoi Stati promotori, affrancato da quei
condizionamenti che hanno invece osteggiato il lavoro della precedente
Commissione. Il Consiglio, la cui istituzione è stata formalmente approvata con
Risoluzione della Assemblea Generale (A/RES/60/251 del 15 marzo 2006
approvata con 170 voti a favore, 4 contro e 3 astensioni)26, costituisce, come già il
suo precursore, un forum per la discussione, lo scambi politico e la promozione dei
diritti umani e ha il compito di esaminare la situazione dei diritti umani negli Stati
membri delle Nazioni Unite contribuendo a porre la questione della tutela dei diritti
77
umani nell’agenda degli Stati. Si ricordi, però, che, mentre la Commissione dei
Diritti Umani era una commissione funzionale dell’ECOSOC, il Consiglio dei
Diritti Umani nasce, invece, come organo sussidiario della Assemblea Generale
(A/RES/60/251)27. Il nuovo Consiglio si pone, dunque, in un rapporto di
continuità/alterità rispetto alla precedente Commissione, recuperandone le funzioni
principali e gli strumenti più validi e predisponendo correttivi per quei metodi, di
lavoro e procedurali, che si sono rivelati poco efficaci. La principale critica mossa
alla Commissione sui diritti umani era relativa alla sua composizione, che
ammetteva i peggiori autori di violazioni dei diritti umani a sedere tra i suoi
membri. Non solo, ma come si è avuto modo di constatare, la precedente
Commissione è stata per la maggior parte della sua esistenza sotto il controllo degli
stessi Paesi, che lungi dal sottoporsi a valutazione o giudizio periodico della
Commissione, ne hanno monopolizzato l’attività. In ragione di ciò, con la nascita
del Consiglio dei diritti umani, sono state disciplinate nuove procedure e requisiti
che regolano l’elezione dei membri. Come previsto dall’Assemblea Generale, nella
risoluzione istitutiva, i
membri del Consiglio “sono eletti direttamente e
individualmente, attraverso scrutinio segreto, dalla maggioranza dei membri della
Assemblea Generale”28 (per un totale di 47 paesi membri); in aggiunta sono
richiesti dei requisiti, per così dire di membership, che gli Stati devono possedere
affinché possano essere eletti come membri del Consiglio. Infine, la durata del
mandato è stata fissata ad un periodo di tre anni ed è prevista la non immediata
rieleggibilità di un membro che sia stato in carica per due mandati consecutivi
(A/RES 60/251 paragrafo 7)29. Queste modalità mirano, innanzi tutto, ad ostacolare
la pratica pervasiva di alcuni governi che godono già di seggi permanenti nelle
78
principali agenzie intergovernative e organi delle Nazioni Unite e a favorire una
diversa distribuzione geografica dei seggi. Inoltre, i nuovi requisiti previsti per
l’eleggibilità (che dispongono che venga tenuto in debito conto il contributo dei
candidati alla promozione e protezione dei diritti umani) sono volti ad assicurare un
alto indice di gradimento e consenso nei confronti dei governi eletti in seno al
Consiglio, in modo da facilitare la collaborazione reciproca tra i Paesi membri e,
quindi, la piena cooperazione con il Consiglio stesso. Tuttavia, uno sguardo
approssimativo sulla prima composizione del Consiglio mostra che, se è vero che
alcuni Paesi con scadenti risultati (tanto per usare un eufemismo) nel campo dei
diritti umani hanno fallito il loro tentativo di essere eletti membri del Consiglio, è
altrettanto vero che un buon numero di Paesi che hanno contribuito solo
marginalmente alla protezione e promozione dei diritti umani e che per essi nutrono
scarso rispetto, sono stati pur nominati membri del Consiglio. Il meccanismo di
elezione, dunque, al di là dall’essere perfetto, è ad ogni modo passibile di
miglioramento. Tuttavia, una differenza altamente significativa tra la composizione
del Consiglio e quella della Commissione e dunque un importante segno di
discontinuità è rappresentata dal fatto che la candidatura a membro del Consiglio da
parte degli Stati Uniti non è stata appoggiata, ovviamente in considerazione del
fatto che proprio gli Stati Uniti e i suoi più stretti alleati Israele, Isole Marshall, e
Palau si erano opposti alla sua istituzione, di fatto votando contro la risoluzione
60/251 della Assemblea Generale30. Alcuni elementi di continuità sono invece
riscontrabili nel mandato del Consiglio, definito in termini più o meno identici al
mandato della Commissione sui diritti umani come modificatosi nel corso degli
anni. Ai sensi della risoluzione 60/251 della Assemblea Generale, il Consiglio è
79
responsabile di “ promuovere il rispetto universale per la protezione di tutti i diritti
umani e delle libertà fondamentali”. Ciò nonostante, se la competenza del suo
predecessore si estendeva, per espressa previsione, ad “ogni altra questione relativa
ai Diritti Umani” che non gli fosse già specificatamente assegnata, (ECOSOC,
Risoluzione 9 (II) del 21/06/46) una simile previsione non è stata ancora
predisposta per il Consiglio (che tuttavia potrà comunque, in corso d’opera,
dimostrare di potersi occupare de facto di quelle tematiche che non sono ad esso
conferite de iure).
Per quanto concerne i mezzi a sua disposizione, il Consiglio può avvalersi di
molteplici strumenti, taluni ereditati dal suo predecessore, altri creati ex novo, fra i
quali spiccano sistemi di procedure speciali e sessioni speciali e la possibilità di
revisione periodica complessiva. Con la risoluzione 60/251 l’Assemblea Generale
ha stabilito che il Consiglio “potrà ripensare, rivedere e, dove necessario, migliorare
e razionalizzare mandati, meccanismi, funzioni e responsabilità dalle Commissione
sui diritti umani in modo da mantenere un sistema di procedure speciali”31. Va
segnalata a tal proposito la sostituzione di una preesistente procedura (procedura1503) con una nuova idonea “a trattare consistenti esempi di gravi e asserite
violazioni, di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali, che hanno luogo
in ogni parte del mondo in ogni circostanza” (HRC risoluzione 5/1, annex part
IV)32. Va, inoltre, chiarito che non esiste un unico sistema di procedure speciali ma
una serie di procedure speciali con mandato specifico per il paese designato
(country-specific special procedure mandates)33.
Sempre nella risoluzione istitutiva si prevede che il Consiglio “ ha facoltà di
convocare sessioni speciali, quando necessario, su richiesta di uno dei membri del
80
Consiglio con il supporto di un terzo dei componenti”. Tale previsione offre al
Consiglio l’opportunità di agire prontamente di fronte a situazioni urgenti, come
quella della Birmana. Infine l’Assemblea Generale ha stabilito che il Consiglio
potrà “intraprendere una revisione periodica complessiva, basata su obiettive e
attendibili informazioni, circa l’adempimento da parte di ogni Stato delle sue
obbligazioni e responsabilità nel campo dei diritti umani, in modo da garantire una
completa copertura ed un eguale trattamento, per tutti gli Stati”. Successivamente,
nel corso della sua quinta sessione, il Consiglio ha adottato previsioni più
dettagliate, che disciplinano gli iter di revisione (HRC risoluzione 5/1 del 18 giugno
2007). Una ulteriore risorsa del Consiglio riguarda i suo rapporti con gli altri organi
delle Nazioni Unite; come suggerito dall’allora Segretario Generale, Kofi Annan, il
Consiglio dei Diritti Umani “dovrebbe avere l’autorità di raccomandare policy
measures agli altri organi delle Nazioni Unite”34. Dal punto di vista giuridico, dato
che il Consiglio ha lo status di organo sussidiario dell’Assemblea Generale, le sue
relazioni con gli altri organi sono determinate dalla Carta delle Nazioni Unite,
ovvero dalle disposizioni relative alle relazioni tra l’Assemblea Generale e gli altri
organi. Tra queste, viene in evidenza l’art. 12 della Carta in base al quale, quando
una qualsiasi controversia o situazione è in esame al
Consiglio di Sicurezza
“l’Assemblea Generale non deve fare alcuna raccomandazione riguardo a tale
controversia o situazione a meno che non ne sia richiesta dal Consiglio di
Sicurezza”. La portata applicativa di questa previsione si estende anche al Consiglio
dei Diritti Umani che può sì discutere gli aspetti umanitari di una controversia
internazionale dinnanzi al Consiglio, ma deve astenersi dal fare raccomandazioni in
assenza di una specifica richiesta del Consiglio di Sicurezza. Questo potenziale
81
limite all’azione e ai poteri del Consiglio dei Diritti Umani, è comunque in parte
compensato dal vantaggio che tale organo trae dalla collaborazione con molteplici
attori e istituzioni, tra i quali lo stesso Consiglio di Sicurezza35. Ancora in un’ottica
di reciproca assistenza e cooperazione con il Consiglio dei Diritti Umani, si colloca
il meccanismo di controllo e monitoraggio tramite i rapporteurs o relatori speciali
che, in pratica, sono “gli occhi e le orecchie” del sistema di promozione dei diritti
umani delle Nazioni Unite. In tale sistema di promozione, anche le Organizzazioni
non-governative (ONG) giocano un ruolo importante e spesso insostituibile, non a
caso lo stesso Consiglio riconosce il ruolo delle ONG come partner chiave nello
sforzo comune di promuovere ed incoraggiare il rispetto per i diritti umani. Come
noto, alcune ONG partecipano regolarmente alle riunioni delle istituzioni e degli
organi sussidiari delle Nazioni Unite, in qualità di osservatori (facendo pressioni sui
delegati degli stati membri, presentando rapporti sistematici o come sponsor nelle
risoluzioni) ovviamente senza diritto di voto. Non a caso Kofi Annan, nel Rapporto
In larger freedom, sottolinea l’importanza del ruolo che le ONG potrebbero giocare
nel futuro lavoro del Consiglio per garantire maggiore trasparenza ed indipendenza
nel processo decisionale e, in conseguenza, rendere più effettiva ed obiettiva
l’azione contro i responsabili delle violazioni36.
1.6 Il Consiglio dei Diritti Umani e le azioni nei confronti della Birmania: tra
idealismo ed effettività.
Riguardo all’azione intrapresa dal Consiglio dei Diritti Umani nei confronti del
governo birmano, va rilevato che nel programma di lavoro stilato dal Consiglio, la
82
Birmania non era inizialmente tra le questioni prioritarie, ma era invece in
programma per gli anni successivi. Tuttavia, il Consiglio, di cui peraltro l’Italia fa
attualmente parte, ha ritenuto opportuno modificare l’ordine delle priorità,
decidendo, in virtù di quanto previsto nella sua risoluzione istitutiva, di riunirsi in
sessione straordinaria, come ha già fatto altre volte (Territori palestinesi, intervento
di Israele in Libano, Sudan). In effetti, già all’indomani dei disordini nella capitale
birmana, 17 membri del Consiglio, tra i quali l’Italia, hanno chiesto la
convocazione e la riunione della sessione speciale, che si è infatti tenuta il 2 ottobre
2007 a Ginevra, sede dell’Organizzazione. La riunione speciale si è conclusa con
l’adozione, all’unanimità, di una risoluzione che deplora con forza la violenta
repressione delle manifestazioni popolari e sollecita la giunta militare a dar prova
della “moderazione più estrema” nei confronti dei manifestanti, a deferire alla
giustizia gli autori di violazioni dei diritti dell'uomo, ad avviare un dialogo politico
con tutte le parti coinvolte e a collaborare con il Relatore Speciale sulla situazione
dei diritti umani in Myanmar, P. S. Pinheiro, che ha compiuto in novembre, dopo
quattro anni, una missione nel Paese. Il testo reclama poi la liberazione “senza
ritardo” per tutte le persone arrestate nel corso delle manifestazioni e dei prigionieri
politici, in particolare della leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi (che ha
trascorso 12 degli ultimi 18 anni della sua vita agli arresti domiciliari) e, infine,
esorta il governo birmano a garantire la libertà di espressione, a permettere il
completo accesso all'informazione e a cooperare pienamente con l'Inviato Speciale
del Segretario Generale dell'ONU, Ibrahim Gambari, al fine di trovare una
soluzione pacifica37. Va, infine, ricordato che il testo della risoluzione è stato sì
adottato all'unanimità, tuttavia, per vincere la reticenza di alcuni paesi vicini al
83
regime birmano (come Cina e Russia), la risoluzione è stata in parte rimaneggiata;
ad esempio, invece di condannare la repressione violenta delle manifestazioni
pacifiche, il testo si limita a deplorarla. Ad ogni modo, la risoluzione rappresenta un
ottimo strumento, come sottolineato dall'ambasciatore elvetico all'ONU Blaise
Godet (proprio nel corso della sessione speciale del 2 ottobre) per rivolgere un
“messaggio chiaro” alla giunta militare38.
Da quanto detto, emerge con chiarezza che il Consiglio dei Diritti Umani è un
organo innovativo e dalle ampie potenzialità, la cui creazione, come asserito da
Kofi Annan nel suo Rapporto In larger freedom, “conferisce ai Diritti Umani una
posizione più autorevole”.
Esso ha mostrato la sua capacità di reagire rapidamente e concretamente dinanzi a
situazioni gravi come quella della cruenta repressione in Birmana. Il suo potenziale
di azione si scontra però con le ottuse resistenze degli Stati, maldisposti verso
qualsivoglia intromissione nei loro affari/interessi. Ciò viene mostrato chiaramente
dal rapporto del Vice-rappresentante permanente della Birmania, U Nyunt Swe, nel
corso della IV sessione del Consiglio dei Diritti Umani (tenutasi il 23 marzo 2007).
Questi nel suo discorso, alla presenza del Relatore speciale P.S. Pinheiro, ha
affermato che “Myanmar è pienamente consapevole della necessità di migliorare e
promuovere i Diritti Umani…..allo stesso tempo crediamo che questioni sui diritti
umani debbano essere trattate con oggettivo rispetto per la sovranità nazionale,
integrità territoriale e non-interferenza negli affari interni degli Stati”39. Le parole di
U Nyunt Swe non necessitano di ulteriori commenti, rimarcando apertamente il
limite della domestic jurisdiction, quel “non più oltre” incarnato dal principio di
sovranità statale40. Del resto, già l’Alto Commissario per i Diritti Umani aveva
84
osservato in un suo discorso del 23 febbraio 2006 che “anche se una istituzione è
perfetta sulla carta non può avere successo se la comunità internazionale non
produce i necessari cambiamenti nella cultura della difesa dei Diritti Umani”.
Questa ha poi ricordato che ad ogni modo sono gli Stati membri delle Nazioni Unite
che falliscono e non la struttura istituzionale che hanno creato, e appunto, nel caso
della precedente Commissione sui diritti umani, sono gli Stati membri o alcuni di
loro ad aver perso credibilità e affidabilità e ad aver gettato discredito non solo sulla
ormai estinta Commissione, ma sulle Nazioni Unite nel loro complesso41. Malgrado
tutto e a prescindere da queste considerazioni, l’istituzione del Consiglio dei diritti
umani ha portato una ventata di aria fresca in seno alle Nazioni Unite; inoltre, la
prontezza dimostrata dal Consiglio e la risolutezza di alcuni membri al suo interno,
che non hanno esitato a porre le autorità birmane sul banco degli accusati a
Ginevra, fanno certamente ben sperare.
1.7 Azioni legali esperibili dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia.
Forse l’unica istituzione dinanzi alla quale l’appello al suddetto limite perde buona
dose della sua forza argomentativa, è la Corte Internazionale di Giustizia. Al fine di
adire quest’ultima gli Stati membri dell’ONU dovrebbero valutare attentamente se
la Birmania abbia violato la Convenzione sul genocidio del 1948, a causa degli
abusi e delle violenze contro i gruppi etnici. La Convenzione consente, infatti, di
convenire lo Stato responsabile delle violazioni di fronte alla Corte Internazionale
di Giustizia e, poiché la clausola che ne attribuisce la competenza non è stata
oggetto di riserva da parte della Birmania, l’instaurazione di un procedimento
85
dinanzi alla Corte è una soluzione legittimamente approntabile ed inattaccabile sul
piano giuridico42 (tuttavia, non si possono mai fare i conti senza l’oste e in questo
caso senza i commensali, e bisogna chiedersi quanto le diplomazie siano disposte
ad esporsi sino al punto da promuovere un’azione dinanzi alla Corte Internazionale
di Giustizia). Va inoltre ricordato che già da tempo l’OIL ha considerato l’opzione
di rimettere alla Corte Internazionale di Giustizia il caso della Birmania, chiedendo
alla Corte di determinare, attraverso un parere consultivo le eventuali conseguenze
per la Birmania, ai sensi del Diritto Internazionale, del mancato uniformarsi alle
numerose e ripetute raccomandazioni del “Governing Body” dell’OIL43. Anche
questa soluzione è del tutto legittima ai sensi della Carta ONU, infatti in base
all’art. 65 la Corte può dare un parere consultivo su qualsiasi questione giuridica a
richiesta di qualsiasi organo o ente a ciò autorizzato a norma dello Statuto delle
Nazioni Unite. Peraltro, la Corte, nella disamina dei fatti e ai fini della delibera
conclusiva, potrà avvalersi delle informazioni ad essa fornite, su sua stessa
richiesta, o per spontanea iniziativa, dalle Organizzazioni Internazionali (art. 34.2
dello Statuto), che, come sappiamo, dispongono spesso di notizie di prima mano e
altamente attendibili.
Di certo, la pronuncia di una giurisdizione qualificata come quella della Corte
Internazionale di Giustizia che è, vale la pena ricordarlo, il principale organo
giurisdizionale delle Nazioni Unite44 difficilmente potrà essere ignorata dalle
autorità birmane, anche in considerazione del fatto che, in qualità di membro delle
Nazioni Unite, la Birmania aderisce ipso facto allo Statuto della Corte (art. 93 Carta
ONU), impegnandosi quindi a conformarsi alle decisioni della Corte in ogni
controversia cui essa sia parte (come previsto dall’art 94 Carta ONU). A tal
86
proposito, un grave limite all’operato della Corte e che dovrebbe essere oggetto di
riforma, è rappresentato dall’art. 34 del proprio Statuto, ai sensi del quale solo gli
Stati possono essere parti nei processi dinanzi alla Corte. Pensiamo cosa accadrebbe
se l’OIL, AI o le organizzazioni fondate da attivisti politici in esilio o pro-diritti
umani, potessero costituirsi parte lesa in un processo davanti alla Corte. Di certo vi
sarebbero conseguenze di enorme portata, con una sostanziale inversione di rotta a
vantaggio di quei soggetti che troppo spesso non dispongono di appropriate vie
legali da poter imboccare. È chiaro che si tratta di un auspicio del tutto utopistico,
al momento. Peraltro, è ben noto che le ONG non sono, almeno allo stato attuale,
neanche soggetti di Diritto Internazionale. Ad ogni modo una simile svolta
costituirebbe un notevole progresso sul fronte della democratizzazione delle
relazioni internazionali e dell’affermazione della “certezza del diritto” se questi
attori potessero adire la Corte Internazionale di Giustizia al fine di ottenerne la
pronuncia. Altro grave limite è rappresentato dal fatto che la Corte non può avviare
motu propriu un processo contro uno Stato che sia venuto meno ai propri obblighi
internazionali, pattizi o consuetudinari che siano, ma la giurisdizione della Corte
può attivarsi solo su richiesta degli Stati, che, dunque, devono sottomettersi
volontariamente all’arbitrato o al giudizio della Corte (fermo restando che, laddove
decidano di deferire una questione al giudizio della Corte Internazionale di
Giustizia, devono poi conformarsi alle sue decisioni). Anche questo meccanismo è
d’impedimento all’esercizio penetrante ed incisivo delle funzioni della Corte e,
pertanto, dovrebbe essere rivisto. Tuttavia non sussistono le condizioni
che
permettano che tali riforme siano realizzate, poiché gli emendamenti allo Statuto
della Corte sono soggetti alla stessa procedura di emendamento prevista dall’art.
87
108 della Carta delle Nazioni Unite. Sono cioè subordinati all’adozione, a
maggioranza dei due terzi, dell’Assemblea Generale ed alla ratifica da parte dei due
terzi dei Membri delle Nazioni Unite (secondo le rispettive procedure
costituzionali) ivi compresi tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Inutile dire come l’interesse degli Stati e in primis dei cinque permanenti (nessuno
dei quali può vantare una coscienza del tutto pulita, avendo nel proprio armadio
numerosi scheletri e non solo in senso figurato. Pensiamo al Tibet e all’Ossezia, ma
anche al Kosovo e ai fatti di Guantanamo) vada comprensibilmente in tutt’altra
direzione. Ciò che quindi mi preme sottolineare è che, se da un lato gli Stati membri
dell’ONU sono anche ipso facto aderenti allo Statuto delle Nazioni Unite e sono,
quindi, tenuti
a dare esecuzione, in buona fede, ad una eventuale sentenza),
dall’altro l’efficacia concreta della sua giurisdizione è stata fin dall’inizio
fortemente e, credo, volontariamente indebolita. Tuttavia, ciò non esclude che
laddove la sua funzione giurisdizionale venga attivata non possa portare ad esiti
risolutivi di situazioni come quella in esame.
1.8 Campagne pro Birmania e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, ovvero
l’operato dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani e dello “Special
Rapporteur”.
Esigenze di esaustività circa il ruolo, non soltanto svolto finora ma che potrebbe
essere giocato in futuro, dalle Nazioni Unite mi impongono di ricordare l’operato
dell’ormai ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo
(UNHCHR), Louise Arbour, in prima linea nel perorare la causa dei diritti umani in
88
Birmania e nel richiamare la giunta al rispetto dei diritti fondamentali della persona
come garantiti dal diritto internazionale generale e dello Special Rappourter P.S.
Pinheiro, anch’egli costantemente impegnato in una attività di pressione e denuncia.
La Arbour, subito dopo i fatti del settembre 2007, ha denunciato la reazione
“scioccante” delle autorità birmane e ha reso omaggio ai monaci buddisti e ai
cittadini che hanno manifestato pacificamente. Più recentemente ha affermato che
“Da quando i manifestanti sono diventati invisibili, l'inquietudine non fa che
crescere” e che “La situazione in Birmania deve essere urgentemente chiarificata e
sorvegliata in modo indipendente”. Un atteggiamento fermo, deciso e per nulla
ambiguo è quanto di meglio ci si possa augurare ed è ciò che più suscita
ammirazione per la Arbour
che, senza remore, ha dichiarato che “Il popolo
birmano necessita manifestamente di una protezione internazionale”45. Nella stessa
direzione anche Pinheiro, il quale fin da subito ha ammonito come “L'incapacità
della comunità internazionale di impedire il massacro che ha fatto seguito alle
proteste popolari del 1988, nel quale morirono 3.000 manifestanti, non deve
ripetersi”. Egli ha dato, inoltre, nel corso degli anni, un contributo significativo alla
causa birmana pubblicizzando periodicamente i rapporti di denunce e violazioni
ampiamente citati nella prima parte di questo lavoro.
Certamente queste figure, per nulla secondarie o trascurabili, s’inseriscono
efficacemente in quella più vasta rete di promozione e tutela internazionale della
dignità umana che è oggi parte integrante del sistema delle Nazioni Unite,
suscitando l’appoggio e la solidarietà dei governi democratici e della società civile.
Il loro ruolo è senza dubbio fondamentale per pubblicizzare e monitorare da vicino
anche quei casi di abusi che altrimenti rimarrebbero sconosciuti e occultati agli
89
occhi della opinione pubblica, contribuendo a stringere come in una morsa i governi
che ancora stentano a dare cittadinanza ai diritti più basilari. Inoltre, il loro status di
soggetti competenti, imparziali e indipendenti fa sì che godano di grande credibilità
e professionalità, doti che talvolta non si riscontrano nei rappresentanti che
agiscono a nome dei governi.
1.9 Conclusioni.
Oggi appare certamente impossibile assicurare effettività al diritto-dovere di
superare la soglia delle sovranità statuali-nazionali per difendere i diritti umani
prescindendo dalle Nazioni Unite.
Tra le molteplici soluzioni e modalità d’intervento illustrate, la più auspicabile
rimane certamente l’azione del Consiglio di Sicurezza, in quanto questa non
richiederebbe né l’accertamento di responsabilità internazionali, né il consenso
del governo birmano. Infatti, a fronte di un’accertata minaccia alla pace,
violazione della pace o atto di aggressione, il Consiglio di Sicurezza è abilitato
ad intervenire a prescindere da eventuali responsabilità per fatto illecito dello
Stato contro cui si agisce e, ovviamente, a prescindere dal suo consenso (tutto sta
poi nell’accertare se l’art. 39 della Carta delle Nazioni Unite può trovare
applicazione nel caso della Birmania)46. Affinché tale intervento possa
prospettarsi, la pressione internazionale e in primo luogo quella esercitata dalla
Assemblea Generale, dovrebbe innanzitutto spingere Cina, India e Russia ad
abbandonare il sostegno alle autorità birmane. A quel punto la questione
potrebbe ritornare al Consiglio di Sicurezza per l’adozione di sanzioni efficaci.
Fermo restando, come già evidenziato da Antonio Papisca47, che il riferimento
all’ONU è indispensabile, poiché la realizzazione delle forme civili e soprattutto
90
militari dell’ “intervento d’autorità della Comunità internazionale” non è
legittima se non sotto
autorità sopranazionale. Affinchè l’ONU sia
effettivamente in grado di esercitare questa autorità, anche mediante l’uso di
strumenti coercitivi per fini che non possono essere di guerra ma di polizia
internazionale, occorre metterne in atto un processo di democratizzazione48.
Il ruolo dell’Unione Europea.
2.1 La reazione delle Istituzioni Europee.
Se l’Unione Europea (UE) fosse all'altezza del titolo di “potenza civile” (in netta
contrapposizione a quello di “potenza militare”) del quale si fregia, dovrebbe
essere in grado di deliberare in tempi brevi l’adozione di una posizione comune
da tenere sul fronte birmano49. Le illusioni al riguardo potrebbero crollare sul
nascere se pensassimo all’incapacità dell’UE di reagire prontamente dinanzi a
situazioni che necessitavano più che mai di una presa di posizione immediata ed
energica ovvero a fronte delle numerose “crisi” che hanno frastagliato, negli
ultimi decenni, lo scenario delle relazioni internazionali50. Gli eventi ci hanno
mostrato come l’UE sia ancora gravemente impreparata nello gestire in maniera
efficace cambiamenti improvvisi degli assetti politici internazionali e come i
suoi Stati Membri non siano ancora in grado di parlare ad una sola voce nel
panorama internazionale né di incanalare le diverse istanze in azioni comuni da
attuare prontamente (ai sensi dell’art. 14 del Trattato sull’Unione Europea, TUE:
91
“…….Le azioni comuni affrontano specifiche situazioni in cui si ritiene
necessario un intervento operativo dell’Unione”). Ne deriva che, sul fronte della
politica estera, il processo d’integrazione europea appare ancora immaturo così
come il dichiarato obiettivo di ricondurre a coerenza le politiche estere nazionali
appare ancora lontano. Non a caso, se in taluni settori l’UE è ormai considerata
un vero e proprio “attore internazionale” (ad esempio nel settore commerciale),
in altri ambiti più che di “actorness” si parla di “presence” indicando un ruolo sì
significativo, ma non tale da pesare in maniera decisiva. Al di là poi di queste
considerazioni più politologiche che giuridiche, ritengo che il ruolo dell’UE non
possa essere sottovalutato, sia in ragione della spinta in positivo già avviata con
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea approvato a Lisbona il 13
dicembre 2007 (che una volta entrato in vigore potenzierà il ruolo dell’Alto
Rappresentante della Politica Estera dell’UE, attualmente a capo del Servizio
Europeo per le Relazioni Esterne) sia in quanto l’UE ha da sempre fatto dei
principi di libertà e democrazia la propria bandiera, elevando il loro rispetto a
requisito primario ed irrinunciabile per la sua membership. Vale la pena di
ricordare a tal proposito che la “Clausola dei Diritti Umani” è inserita nei trattati
che l’UE stipula con i paesi terzi e il cosiddetto principio di condizionalità, in
essa contenuto, comporta che l’Unione possa sospendere unilateralmente
l’applicazione di un trattato a fronte di una violazione grave dei diritti e delle
libertà fondamentali. Sono proprio questi i valori sui quali si fonda l’UE e si
modella la sua Politica Estera; infatti, come recita il primo comma dell’art. 6 del
TUE: “L’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che sono
92
comuni agli Stati membri”. Dal canto suo l’art. 11 annovera fra gli obbiettivi
della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC): il mantenimento dalla pace
e rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della
Carta delle Nazioni Unite, lo sviluppo e consolidamento della democrazia e dello
stato di diritto, e il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Di
certo le intenzioni alla base dell’azione dell’UE si presentano più che buone, così
come gli sforzi compiuti per promuovere tali Principi risultano sinceri e genuini.
Riguardo alla questione birmana, va rilevato che le istituzioni europee non hanno
tardato ad esprimere la propria preoccupazione e disapprovazione; infatti, subito
dopo i primi tragici eventi é giunta puntuale la Dichiarazione della Presidenza
UE (28 agosto 2007) che ha espresso la propria apprensione circa gli arresti dei
manifestanti. Non si è fatta attendere nemmeno la reazione del Parlamento
Europeo (PE), che il 6 settembre 2007 ha approvato una
Risoluzione di
condanna nei confronti dei membri dello SPDC51.
Nel dispositivo della risoluzione, che peraltro non è la prima ad essere stata
approvata dal PE nei confronti della Birmania,52 oltre a deplorare il massacro dei
manifestanti, sottolineandone le brutali modalità, e richiedere il rilascio
incondizionato e immediato di tutti i manifestanti arrestati a partire dal mese di
agosto e di Aung San Suu Kyi leader della LND, il PE condanna in generale
l’oppressione del popolo birmano da parte dello SPDC e la persecuzione degli
attivisti pro-democrazia. Come già raccomandato dal Segretario Generale
dell’ONU, il PE ha ribadito l’urgenza di rimpiazzare il processo costituzionale
attualmente in atto, definito a buon motivo, illegittimo, con uno pienamente
rappresentativo e inclusivo della NLD e altri partiti e gruppi politici. Tramite la
93
risoluzione il PE non esita -tentativo tanto ammirevole quanto vano- a rivolgersi
ai governi di Cina, India e Russia (additandoli come quei “veto players” che
hanno paralizzato l’azione del Consiglio di Sicurezza), insistendo affinché
esercitino il loro considerevole peso economico e politico per apportare positivi
miglioramenti al paese e perché cessino la fornitura di armi e materiale logistico
nei confronti del governo militare. Peraltro, la risoluzione preme anche sui
governi di Gran Bretagna, Francia, Belgio, Italia e Slovacchia, ovvero quegli
Stati che, oltre ad essere membri dell’Unione, fanno anche parte (a titolo
permanente o provvisorio) del Consiglio di Sicurezza, affinché concertino gli
sforzi per proporre ed ottenere unanime consenso su una risoluzione vincolante.
Il PE non ha poi trascurato la via delle sanzioni, rinnovando le misure restrittive
già in vigore e richiamando tutti gli Stati Membri ad applicarle rigorosamente.
Infine rivolgendosi alle imprese che investono in Birmania, ha richiamato le
stesse a sincerarsi che lo svolgimento delle proprie attività economiche non
comporti il perpetuarsi di abusi a danno della popolazione e in ogni caso di
sospendere le loro attività se tali violazioni non dovessero cessare.
Oltre al PE, organo elettivo e forse per sua stessa natura più incline ad accogliere
istanze di rivendicazione democratica, anche l’organo di composizione
intergovernativa non ha tardato a pronunciarsi. In effetti, già nel corso del
Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne (CAGRE) del 15 ottobre 2007, i
Ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno adottato delle ferme conclusioni
sulla situazione birmana decidendo di intensificare la pressione diretta sul
regime attraverso, come auspicato dal PE, il rafforzamento delle misure
restrittive esistenti e l’introduzione di nuove sanzioni volte a colpire gli interessi
94
della giunta. L’UE ha poi adottato la decisione di presentare una risoluzione di
condanna delle violazioni dei diritti umani in Birmania alla Terza Commissione
(relativa alle questioni umanitarie, sociali e culturali) dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite. Nei giorni successivi - il 6 novembre- l’Alto Rappresentante
per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, Javier Solana, ha annunciato la
nomina dell’On. Piero Fassino come Inviato Speciale dell’Unione Europea per il
Myanmar, con il mandato di coordinare l’azione della UE operando in stretto
raccordo con l’Inviato Speciale dell’ONU Gambari. Tale nomina, che è stata di
buon grado accettata e sostenuta dall’Italia, è un segnale molto importante, non
solo perchè manifesta la volontà dell’UE di seguire da vicino i successivi
sviluppi della questione birmana ma in quanto ha contribuito a rafforzare la
coerenza, l’unitarietà, l’efficacia e la visibilità dell’azione europea su tale fronte.
Inoltre la decisione di inviare un proprio osservatore ha offerto, in un’ottica di
complementarietà e reciproca sinergia, un valido sostegno all’emissario delle
Nazioni Unite53. Anche durante la successiva riunione del CAGRE, datata 19
novembre, è stata nuovamente esaminata la situazione birmana. Le conclusioni
varate in tale occasione hanno ribadito le posizioni precedentemente assunte e
rinnovato il sostegno al mandato di Gambari. Inoltre, è stata formalmente
adottata una posizione comune che ha rafforzato le sanzioni esistenti ed imposto
nuove misure restrittive (dando così attuazione alla decisione del CAGRE del 15
ottobre ed alle raccomandazioni del PE), disponendo, infine, che venissero poste
allo studio, da parte dei competenti organi comunitari, approfondimenti circa
ulteriori misure che potrebbero essere introdotte nel caso di una evoluzione non
positiva della situazione birmana. I Ministri degli Esteri dell’UE hanno poi
95
espresso nuovamente la disponibilità a dare un concreto supporto all’apertura del
percorso di transizione democratica che la giunta si è vista costretta ad
annunciare. Tale supporto consiste nell’accompagnare il processo di
democratizzazione
con
un
incremento
dell’assistenza
umanitaria
alla
popolazione birmana, con una revisione dell’impianto sanzionatorio attualmente
disposto nei confronti del governo militare, e con l’impegno a sostenere lo
sviluppo socio-economico del Paese in funzione di tangibili progressi sul terreno
delle riforme democratiche (ferma restando in ogni caso la facoltà dell’UE di
recedere unilateralmente, in ossequio al “principio di condizionalità”, da un
eventuale accordo se gli impegni in senso di una trasformazione democratica da
parte della giunta non dovessero essere rispettati).
A proposito della necessità di sostenere con adeguati aiuti e risorse la
popolazione, Thant Myint-U, l’ex Segretario Generale dell’ONU di nazionalità
birmana, nel discorso tenuto il 2 aprile 2008 a Bruxells dinanzi alla
Commissione del PE sullo Sviluppo ed alla Sottocommissione sui Diritti Umani,
ha tracciato un quadro complessivo sulla situazione del paese sottolineando, tra
le altre cose, come le condizioni di vita della popolazione siano ben al di sotto
degli standard internazionali e come milioni persone di vivano nel bisogno di
una costante assistenza umanitaria internazionale. Thant Myint-U ha poi
acutamente osservato riguardo che fin quando gli standard di vita dei suoi
abitanti non miglioreranno, nessun processo di transizione democratica sarà
sostenibile in Birmania54.
2.2 L’Unione Europea incontra l’“Asia”.
96
Oltre ad agire per mezzo di quegli strumenti che i trattati istitutivi pongono a sua
disposizione, l’UE ha ampiamente battuto la via della collaborazione con altre
organizzazioni regionali. L’Unione ha rivolto, innanzitutto, un occhio di
riguardo al Forum Regionale del Pacifico e del Sud-est Asiatico, facendo della
questione birmana oggetto di costanti contatti e consultazioni con i principali
Paesi asiatici e con la Presidenza ASEAN. Le misure da intraprendere nei
confronti del regime sono state largamente discusse al Vertice UE-ASEAN di
Singapore in data 22 novembre, ai cui lavori peraltro ha partecipato da parte
italiana il Sottosegretario On. Gianni Vernetti
55
. Del resto lo stesso PE aveva
rivolto un plauso all’intervento della Presidenza ASEAN che già in precedenza
aveva richiamato la Cina a promuovere attivamente un cambiamento positivo in
Birmania. Risale infatti al 23 agosto 20007 la richiesta rivolta pubblicamente da
Zaid Ibrahim (moderatore del Caucus Inter-Parlamentare dell’ASEAN) al
governo cinese, perchè utilizzasse la propria influenza sul governo birmano a
favore della conclusione positiva della crisi scoppiata. Nonostante il mancato
supporto della Cina, tutt’oggi sorda alle molteplici richieste e raccomandazioni,
l’ASEAN ha intrapreso posizioni più intransigenti nei confronti delle autorità
birmane, fino a dichiarare che “non difenderà più la Birmania in nessun Forum
Internazionale”.
Ulteriori canali di contatto e di concertazione tra gli Stati Membri dell’UE e i
paesi asiatici sono stati utilizzati, si pensi al meeting periodico che vede la
riunione dei Ministri degli Esteri europei ed asiatici. L’VIII edizione del
Congresso Asia-Europa (Asia Europe Meeting, ASEM) tenutosi in Germania il
97
28 e il 29 marzo 2007, ha visto tra l’altro la partecipazione del Ministro degli
Esteri birmano, Nyan Win, al quale era stato proibito di viaggiare sul territorio
dell’Unione ma che, con manifesto rammarico del PE, si è visto accordare il
permesso di presenziare al convegno56.
Sempre a ridosso dei primi disordini l’UE si è rivolta al Forum di Cooperazione
Economica dell’Asia e del Pacifico (Asia-Pacific Economic Cooperation,
APEC), esortandone i leaders a discutere il problema della repressione in
Birmania, nel corso del Summit in Sydney previsto per i giorni successivi.
2.3 L’azione dell’Unione Europea a supporto delle Nazioni Unite.
Al fine di favorire una pronta soluzione della crisi, l’UE non poteva trascurare il
fronte delle Nazioni Unite. Oltre a far sentire la propria voce tramite i governi di
quegli Stati europei che siedono a vario titolo in seno ad organismi e istituzioni
delle Nazioni Unite, l’UE ha agito come tale in quanto Organizzazione:
supportando, da un lato, le iniziative già decise o messe in atto dall’ONU e
proponendo attivamente, dall’altro, ulteriori misure ed azioni da adottare. In
merito alla prima opzione l’UE ha subito offerto il suo sostegno al mandato di
Buoni Uffici del Segretario Generale e del suo Inviato Speciale richiamando, tra
le altre cose, la giunta ad assicurare a Gambari un trattamento amichevole e
consono al suo ruolo di diplomatico superpartes. Le istituzioni europee hanno
poi lodato il tentativo del Consiglio di Sicurezza di far passare una risoluzione
vincolante nei confronti delle autorità birmane, richiedendo a loro volta la
riunione di emergenza del Consiglio per valutare gli sviluppi della situazione
98
dopo i fatti di settembre. Sempre in un’ottica propositiva l’UE aveva chiesto al
Consiglio sui Diritti Umani di organizzare una seduta straordinaria sulla
Birmania, presentando a tal fine una risoluzione che ne esortava i 47 paesi
membri ad attivarsi in tal senso e ad approvare una risoluzione di condanna della
repressione a danno dei civili (richiesta ampiamente soddisfatta). Anche dinanzi
all’Assemblea Generale, l’UE ha sollevato la necessità di richiamare la giunta ai
suoi doveri nei confronti della popolazione civile. Sebbene poi le proposte
avanzate dall’UE abbiano riscosso un certo seguito, la capacità dell’ONU (o
meglio quella che le è consentita dalla volontà degli Stati che ne fanno parte),
non si è mostrata all’altezza delle aspettative europee.
2.4 Conclusioni.
La corrispondenza riscontrata, almeno nelle fasi iniziali, tra le esortazioni del PE
e le decisioni formali assunte dal Consiglio dell’Unione (nella composizione
Affari Generali e Relazioni Esterne), può essere interpretata come un segnale
positivo, in vista del raggiungimento di uno stadio d’integrazione più compiuto,
nel campo della PESC. Ad ogni modo, mentre l’azione esterna dell’Unione
manca ancora di compattezza (visto il diverso seguito che gli Stati membri
hanno dato alle misure decise a livello sopranazionale) non vi sono dubbi sul
fatto che i suoi principi fondanti siano unanimemente condivisi. Ad onor del
vero va ricordato che da quando è sorta, l’UE ha saputo agevolare la transizione
democratica dei paesi gravitanti nella sua orbita57, offrendo importanti incentivi
di natura economica e istituzionale. Inserendo gli sforzi di riforma di alcuni paesi
99
reduci da esperienze autoritarie recenti in un contesto di cooperazione
multilaterale, l’UE ha impedito che imboccassero percorsi involutivi, favorendo
il consolidamento democratico. L’Unione ha dunque mostrato di aver ben
compreso la necessità di accompagnare la transizione politica ad una più stabile
situazione economica. Nonostante anche lo scenario asiatico sia diventato
prolifico di organizzazioni multilaterali, tali logiche raffinate sono ben lungi
dall’essere sperimentate. Come sappiamo i paesi appartenenti a tale area
geopolitica hanno storicamente accordato priorità alle riforme economiche
piuttosto che alla trasformazione democratica
58
. Ad ogni modo c’è d’augurarsi
che la progressiva apertura dell’Unione nei confronti delle organizzazioni
asiatiche e, mutatis mutandis, dei paesi asiatici possa favorire un mutamento di
strategia. Di certo, l’incontro regolare in luoghi istituzionali può favorire lo
scambio politico ed il dialogo con il regime e di ciò l’UE si è mostrata ben
consapevole.
Modalità d’Intervento Trasversali: Sanzioni e Aiuti Umanitari.
3.1 Sanzioni, ovvero tagliare i viveri al Consiglio Statale per la Pace e lo
Sviluppo.
Le sanzioni rappresentano una modalità d’azione trasversale, nel senso che la loro
adozione può essere predisposte da molteplici attori internazionali. Le Nazioni Unite,
l’UE, l’ASEAN e ancora i governi singolarmente e le compagnie nazionali e
transnazionali. Proprio per questo ho inteso dedicare al tema delle sanzioni, quale
100
mezzo rilevante per esercitare pressione sul governo birmano e per fornire un forte
segnale di supporto alla popolazione oppressa, un apposita sezione del mio lavoro.
Secondo l’opinione comune, le sanzioni economiche rappresentano un’arma a
doppio taglio: se da una parte indeboliscono, e nemmeno tanto, la posizione dei
governi, dall’altra prostrano e affamano la popolazione civile (pensiamo all’Iraq di
Saddam Hussein). Tale perplessità sull’efficacia delle sanzioni andrà ben presto
fugate, in quanto le misure di cui si parlerà con riferimento al caso birmano, vanno
sotto il nome di targeted sanctions. Esse si differenziano dalle sanzioni per così dire
“vecchia maniera” in quanto anziché colpire in modo indiscriminato e sommario,
colpiscono, individualmente ed esclusivamente, persone fisiche e/o giuridiche
espressamente indicate, evitando appunto “effetti collaterali” su terzi innocenti.
Questi ultimi infatti non vengono in alcun modo penalizzati, menttre i “listati”
vengono sottoposti al congelamento dei beni, al travel ban e all’embargo di armi.
Riconoscendo in esse uno strumento valido ed utile il Consiglio di Sicurezza vi ha
fatto spesso ricorso negli ultimi tempi, avvalendosene ad esempio nella lotta ad Al
Qaeda e al terrorismo internazionale59 (nel caso di targeted sanctions comminate dal
Consiglio i destinatari sono designati o direttamente da questo o da un suo organo
sussidiario solitamente il Comitato delle Sanzioni).
Entrando nel merito della questione al nostro studio, è stato suggerito che l’azione
sanzionatoria da predisporre sul fronte birmano in modo da fiaccare il regime e la
business élite ad esso legata, debba focalizzarsi su tre tipi di misure da intraprendere:
congelamento e blocco degli investimenti, interruzione dei commerci (sia
importazioni sia esportazioni), interruzione delle transazioni bancarie/finanziarie.
Tali sanzioni, devono riguardare prioritariamente alcuni settori chiave, come quello
101
del petrolio e del gas (i cui giacimenti sono scenario delle più cruente pratiche di
lavoro forzato) e quello dell’esportazione di legname e pietre preziose. Proprio questi
settori hanno attirato in Birmania un consistente flusso di investimenti da parte di
compagnie straniere, tant’è vero che i “foreign direct investments” (FDI) nel paese
sono aumentati del 2000% tra il 1995 e il 200560.
In ragione di ciò, tali provvedimenti sanzionatori, piegherebbero rapidamente la
giunta (sebbene questa tragga notevoli introiti anche da attività illegali come il
narcotraffico e si ricordi a tal proposito il “triangolo d’oro” tra Birmania, Laos e
Thailandia). Naturalmente anche misure quali il divieto d’ingresso in territorio
straniero o il congelamento dei depositi bancari e dei titoli finanziari all’estero
potrebbero dimostrarsi taglienti. Soprattutto ove ne fossero individuati i conti esteri,
potrebbe essere impedito allo SPDC di utilizzare le proprie risorse finanziarie
bloccandone l’accesso alle banche straniere. L’impegno a intraprendere una simile
azione spetta in primis a quei paesi che dominano il sistema finanziario globale
ovvero Unione Europea e Stati Uniti. Questi, agendo di comune accordo, possono
impedire alla giunta di accedere alle banche americane e europee (va poi verificato se
la giunta possieda dei capitali nelle banche occidentali ma si può ritenere che si sia
ben guardata da una simile imprudenza). Anche Paesi terzi, soprattutto asiatici
possono interrompere transazioni bancarie e finanziarie: Singapore ad esempio, può
immobilizzare i depositi e conti bancari dello SPDC. Contribuendo a stroncare il
supporto economico, il congelamento dei capitali esteri del regime rafforza l’impatto
di ogni altra sanzione economica.
3.2 Attori Internazionali Rilevanti: Statali, Non-Statali, Economici.
102
L’appello all’adozione di targeted sanctions, che potremmo tradurre come “sanzioni
mirate” o individuali, contro la giunta militare e le imprese a questa legate, è giunto
da più parti. Particolarmente notevole è stata, ad esempio, l’iniziativa (risalente al 20
febbraio 2008) di nove premi Nobel, che guidati dall’arcivescovo Desmond Tutu e
dal Dalai Lama hanno, chiesto con urgenza al Consiglio di Sicurezza sanzioni
commerciali e l’embargo di armi verso la Birmania61.
Allo stesso modo anche la Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo (FIDH,
Fédération Internationale des Ligues
des Droits de l’Homme/ International
Federation for Human Rights) e la Confederazione Internazionale dei sindacati,
(ITUC, International Trade Union Confederations)62 hanno richiesto a gran voce
all’ONU così come ai governi, singolarmente o riuniti in organizzazioni come l’UE,
di comminare nuove sanzioni o di inasprire quelle già esistenti63.
FIDH e ITUC inoltre hanno evidenziato che una risoluzione in tal senso del
Consiglio di Sicurezza sarebbe assolutamente legittima in quanto, si baserebbe sulla
premessa che la Birmania costituisca una minaccia alla pace, così come dimostrato
nel rapporto commissionato dall’ex presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel
e dal premio Nobel per la pace, Desmond Tutu64. Come sappiamo, l’accordo
sull’adozione di sanzioni aveva ritrovato, in seno al Consiglio di Sicurezza, l’unità di
USA e UE, ma ha anche sollevato l’opposizione di Cina e Russia, gelose custodi
degli attuali equilibri nell’area geopolitica asiatica. Del resto, per il governo cinese
rimane sempre pendente la questione del Tibet, che per l’elemento della repressione
religiosa presenta, peraltro, una forte analogia con le vicende birmane, tant’è vero
che i profughi tibetani, in Italia e nel mondo, hanno solidarizzato con la causa dei
103
monaci birmani. Il governo russo ha altrettanti buoni motivi per temere un effetto
“domino” di disastrose (per la Russia s’intende) proporzioni, basti pensare alle
recenti rivendicazioni indipendentiste delle province di Abkazia e Ossezia. Non a
caso nel concludere l’intervento sul ruolo delle Nazioni Unite è stato auspicato che la
pressione internazionale possa favorire una crescita di consensi a un intervento del
Consiglio di Sicurezza affinché commini sanzioni efficaci 65. Naturalmente, oltre che
alle Organizzazioni Internazionali, un appello accorato è stato rivolto alle compagnie
straniere che “fanno affari” con la giunta. Infatti, affinché l’applicazione delle
categorie di sanzioni elencate sia realmente efficace non si può prescindere dal loro
coinvolgimento.
Per quanto riguarda le imprese europee esse sono state più volte ammonite
dall’Unione ed esortate a ritirarsi (pensiamo alla compagnia francese Total che
partecipa alle azioni del gasdotto di Yadana) ma con scarsi risultati. Infatti, alcune
compagnie costrette obtorto collo ad imporre sanzioni alla Birmania hanno costituito
società finte per non figurare negli elenchi di azionisti e continuare indisturbate a fare
affari col
regime, talune altre hanno semplicemente continuato con varie
motivazioni ad operare sul suolo birmano. La scusa più gettonata dalle imprese è che
qualora esse si ritirassero, volontariamente o forzatamente, sarebbero prontamente
rimpiazzate da compagnie cinesi e le loro azioni acquistate da altre compagnie vicine
al regime; per di più, il ritiro delle aziende operanti nel settore gas-petrolifero
potrebbe innescare la competizione tra i paesi vicini al regime (Cina, India,
Thailandia) per accaparrarsi consistenti quote di risorse energetiche. Ovviamente se
ciò accadesse, le sanzioni economiche di questo tipo non colpirebbero nel segno.
Certamente, quello dell’energia è un settore strategico (gli investimenti stranieri
104
rappresentano in questo settore il 98% di tutti i foreign direct investments, fruttando
poco meno di mezzo miliardo di dollari per l’anno fiscale 2006-200766); in ragione di
ciò il Consiglio dell’Unione dovrebbe aggiungere questo settore chiave, che è
indiscutibilmente la “miniera d’oro” della giunta, alla sua lista di settori economici
già oggetto di sanzioni (targeted economic sectors)67.
Ad ogni modo, anche le imprese asiatiche che intrattengono fiorenti rapporti d’affari
con la giunta sono state richiamate a ridurre il proprio sostegno, economico e
militare. Tuttavia, è noto, che salvo qualche eccezione dovuta alle insistenze
dell’ASEAN, i principali partner commerciali asiatici hanno proseguito nelle loro
relazioni economiche con i Generali. Di certo l’azione dell’ASEAN dovrebbe esser
più risoluta su tale fronte e più in armonia con le misure europee e, non a caso il
Direttore Esecutivo di “Forum Asia”, Anselmo Lee, ha suggerito che “l’UE dovrebbe
premere sulle forze negative (Cina e India) portando Giappone e Corea dalla sua
parte, e operare con l’ASEAN-5 (i paesi non-autoritari dell’ASEAN)”.
Si ricordi peraltro che l’azione concertata dei Membri dell’ASEAN, avrebbe
parimenti un grande impatto, maggiore di UE o Cina68; infatti come si evince
dall’analisi delle relazioni commerciali tra la Birmania e l’ASEAN, proprio
l’ASEAN ha abbastanza potere per paralizzare il regime. Tanto per fare degli
esempi: la Malesia può interrompere l’esportazione di diesel, la Thailandia, che è il
maggiore contribuente alla ricchezza estera della Birmania attraverso il progetto del
gasdotto di Yadana con il 48% delle azioni, cessando il proprio supporto renderebbe
il regime incapace di acquistare di armi, Singapore può interrompere i servizi
finanziari69.
105
Possiamo infine affermare che attualmente la maggiore coerenza tra l’adozione di
sanzioni economiche e la loro esecuzione va riconosciuta alle compagnie americane;
infatti la legge statunitense proibisce alle imprese (ad esempio, Chevron, compagnia
operante nel settore energetico con investimenti nel gasdotto di Yadana)
d’incrementare o fare nuovi investimenti in Birmania. Di certo l’adozione di una
apposita legislazione interna o nel caso dell’Unione di una apposita normativa
comunitaria offre maggiori garanzie circa l’effettivo rispetto di sanzioni annunciate
talvolta solo per non deludere le aspettative dell’opinione pubblica.
Infine, va ricordato che le sanzioni mirate, oltre a manifestarsi nella forma di
interruzioni di transazioni finanziarie ed embarghi commerciali in settori strategici
cari al regime (sempre con le dovute eccezioni per ragioni umanitarie) possono
assumere la forma di embargo sulle armi. Questa è stata peraltro la via battuta
dall’UE, che dal 1988 ha imposto l’embargo sulla fornitura di materiale bellico alla
Birmania. Come la prassi ci ha mostrato, affinchè l’embargo non sia eluso o aggirato
sono indispensabili controlli molto rigorosi da parte dell’UE in materia di armi e
talvolta gli stessi non sono sufficienti a garantire i risultati sperati. Mi riferisco alla
recente denuncia di Amnesty International (AI)70 secondo la quale il trasferimento
dall’India alla Birmania di un elicottero militare (l’Advanced Light Helicopter, Alh),
contenente tecnologia e componenti provenienti da almeno sei Paesi dell’Unione
Europea, minaccia di compromettere l’embargo. I vari modelli dell’Alh contengono
infatti lanciamissili fatti in Belgio, missili, armi da fuoco e motori francesi, freni
prodotti in Italia, serbatoi per il carburante e scatole del cambio britanniche,
equipaggiamenti per l’autodifesa fabbricati in Svezia. Inoltre aziende tedesche hanno
svolto un ruolo determinante nello sviluppo del design. Occorre, dunque, maggiore
106
attenzione ai cosiddetti accordi sull’uso finale e sulla riesportazione di componenti,
da parte degli Stati membri dell’UE, altrimenti, come ribadito da Helen Hughes,
ricercatrice di AI sul controllo delle armi, “questi Stati potranno finire indirettamente
per rafforzare un regime brutale che loro stessi condannano e le cui violazioni dei
diritti umani costituiscono crimini contro l’umanità”. Anche Info Birmanie – Burma
Campaign, una ONG francese, ha affermato che “l’UE deve rispettare l’obbligo che
si è data di impedire che i suoi equipaggiamenti militari vengano usati da Myanmar e
sollecitare il governo indiano a bloccare il trasferimento dell’Alh. Forniture ‘made in
UE’ non devono essere usate per compiere violazioni dei diritti umani in Myanmar”.
Capiamo, dunque, che nonostante le leggi europee (e italiane) sull’export di sistemi
d’arma siano abbastanza severe, senza una conoscenza precisa di tutti i dati relativi
alla vendita di un’arma (o anche solo di un componente d’armamento) permane il
rischio di favorire, con il lavoro e la tecnologia europee (e italiane), governi che
violano i diritti umani o che continuano a fomentare focolai di tensione e conflitto
nel mondo. Perciò, oltre a migliorare le pratiche europee e nazionali, gli Stati
appartenenti all’Unione dovrebbero unire gli sforzi per sviluppare un Trattato
internazionale sul commercio delle armi, che istituisca regole vincolanti e globali su
tutti i trasferimenti di armi in linea con le norme del Diritto Internazionale, con gli
standard sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario -si ricordi che il
suddetto Trattato è l’obiettivo della campagna Control Arms, portata avanti in Italia
da AI e dalla Rete italiana per il disarmo 71. Ad ogni modo, la circostanza che ONG
pro-diritti umani vigilino sul rispetto degli embarghi, denunciando i sotterfugi e
mettendo in guardia contro i trasgressori, fa certamente sperare che in futuro le
modalità di esecuzione possano essere affinate.
107
Per concludere il discorso, vorrei ricordare che sempre nell’ottica di comminare
sanzioni individuali che colpiscano esclusivamente le persone fisiche e giuridiche
legate al regime, sanzioni efficaci potrebbero essere proposte nei confronti delle
imprese straniere che intrattengono rapporti d’affari con la Birmania (quali appunto
le imprese indiane che operano anche nei Paesi occidentali). Tuttavia, come notato
da Ronzitti, quando “si tocca il nervo scoperto dei rapporti commerciali é difficile
che proposte del genere siano attuate”72.
Infine, resta sempre la possibilità per gli Stati di imporre sanzioni singolarmente
(senza che sia necessaria un’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza), tra
l’altro sanzioni economiche mirate potrebbero essere comminate dagli Stati
appartenenti alla Community of Democracies (CD), che sono numerosi e
rappresentano tutte le aree geografiche e che in questo modo dimostrerebbero che la
Community non è una scatola vuota e che i suoi membri sono in grado di sviluppare
una strategia unificata73.
3.3 Conclusioni.
È ben radicata la convinzione che un’azione che possa e voglia essere realmente
risolutiva sul fronte birmano non possa prescindere dall’adozione di sanzioni nella
forma recentemente sperimentata di targeted sanctions. Sebbene si tratti di misure da
perfezionare per talune complicazioni relative ai diritti dei listati, la loro applicazione
va assolutamente presa in considerazione. Esse permettono di coniugare il supporto
morale ai sostenitori di una Birmania democratica con una maggiore pressione
internazionale sulla dittatura militare (il tutto nella garanzia dell’esclusione di danni
108
umanitari alle popolazioni civili). Concluderei col dire che ogni Paese è investito
dalla responsabilità di tagliare i legami economici con lo SPDC e che l’economia di
ogni Paese potrà giovarsi di una Birmania stabile e democratica74.
4.1. Il Ciclone Nargis, una ventata di aria fresca?
Una nuova finestra di opportunità per l’azione a supporto del cambiamento
democratico in Birmania si è aperta il maggio scorso, quando una calamità naturale
d’immane portata si è abbattuta sul già martoriato e tormentato popolo birmano.
La furia del ciclone ha fatto scattare l’emergenza umanitaria, in un paese in cui già in
circostanze normali, le medicine, il cibo, l’elettricità e l’acqua corrente sono un
lusso. Proprio per questo l’opportunità di negoziare col regime le modalità di
assistenza e l’invio di aiuti umanitari ha aperto un nuovo spiraglio di dialogo. Una
opportunità dunque, per la Comunità internazionale e in primis per le Organizzazioni
occidentali, per rinverdire la propria presenza e influenza nel Paese, attraverso un
processo che avrebbe dovuto alternare al bastone delle concessioni democratiche alla
società civile la carota degli aiuti umanitari. Da premettere, innanzitutto, che le
responsabilità del disastro umanitario conseguente al ciclone sono pienamente
imputabili al regime, sia per l’inettitudine dimostrata nella gestione dell’emergenza,
sia per l’aver gettato la popolazione nell’incapacità di fronteggiare in partenza
situazioni del genere. Si è infatti constatato che le restrizioni poste dal regime,
specialmente dal 2005 in poi, agli attori umanitari hanno reso questi ultimi
materialmente incapaci di operare nel territorio e assistere la popolazione,
109
abbandonata alla sua fragilità. Intoppi burocratici e limitazioni ai movimenti e
attività delle agenzie umanitarie hanno loro impedito di aiutare la popolazione75. Per
tale ragione possiamo affermare, riprendendo le parole di Pinheiro, che la situazione
in Birmania è sempre stata quella di una “silent humanitarian crisis in the making”76,
una crisi latente e perenne, dunque, che con il ciclone ha toccato una fase più acuta (è
insomma il caso di dire che piove sempre sul bagnato).
All’indomani del Ciclone Nargis si è imposta dunque un’azione umanitaria
concertata a livello internazionale, sebbene la giunta non avesse rivolto alcun appello
ai paesi terzi per ricevere assistenza, a proposito di ciò il Direttore dell’Agenzia
ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari, Terje Skavdal, ha spiegato che se
tradizionalmente l’abitudine della giunta non è quella di chiedere aiuti (neppure in
occasione dello tsunami del dicembre 2004 la Birmania aveva accettato gli aiuti)
“Probabilmente adesso potrebbero accettarli”. Ad ogni modo la vasta rete umanitaria
internazionale si è subito attivata. Il Portavoce delle Nazioni Unite a Bangkok ha
subito annunciato l’immediato arrivo degli aiuti, mentre l’Ufficio del dipartimento
aiuti umanitari della Commissione Europea (humanitarian aid department, ECHO)
che dal 2006 ha sede in Birmania, ha annunciato l’invio di 2 milioni di euro da parte
dell’Unione. Anche gli Stati Uniti hanno offerto prontamente il proprio supporto
economico (per un ammontare di 250mila $), mentre Action Aid, un’Organizzazione
presente sul luogo fa fatto partire il primo “programma d’emergenza”.
Nonostante la pronta solidarietà della Comunità internazionale non si è riusciti
nell’intento primario di portare aiuto alla popolazione, in quanto, se i Generali, dopo
aver dichiarato lo stato di disastro, hanno accettato gli aiuti (rifiutati in altre
occasioni, da ultimo nel 2004), hanno anche manifestato la volontà di essere gli unici
110
a organizzarli e a gestirli. Come annunciato dal Ministro per l’Assistenza Sociale,
Maung Maung Swe, “Per poter entrare in Myanmar le squadre di esperti dall’estero
dovranno negoziare con il Ministero degli Esteri e con le nostre massime autorità”.
Dunque, l’accesso dei soccorritori stranieri è stato trattato con la giunta ritardando le
operazioni. La situazione è poi peggiorata con la decisione ONU di sospendere
prima, e di bloccare poi, l’invio di aiuti a fronte del sequestro di questi da parte della
giunta77. Essa, dunque, piuttosto che adempiere alla responsabilità internazionale su
di essa gravante di facilitare le operazioni di assistenza alla popolazione civile colpita
dalla calamità, ha pensato bene di ritardare i soccorsi confiscando gli aiuti e
impedendo l’accesso agli attori umanitari, violando un preciso obbligo-dovere di
Diritto Internazionale generale78. La chiusura del dialogo con gli attori internazionali
è stata mossa soprattutto dal timore che essi rivolgessero i loro sguardi indiscreti
all’interno del Paese, magari suggerendo l’invio di osservatori internazionali col
compito di monitorare, oltre alle operazioni di soccorso in atto, anche le successive
fasi della ricostruzione, col rischio di smascherare la farsa elettorale che da li a poco
sarebbe stata orchestrata. Sebbene, dunque, la via della negoziazione degli aiuti
fosse potenzialmente foriera di opportunità, l’ottusa diffidenza del regime ha fatto
sfumare ogni possibilità di dialogo79.
4.2 Processo costituzionale farsa.
Circa 130 mila tra morti e dispersi e il pericolo epidemie più vivo che mai, l’intera
regione del Delta dell’Irrawady e la capitaleYangoon devastate sembravano far
credere che i militari decidessero di rinviare sine die il referendum costituzionale
111
(previsto per il 10 maggio) per concentrarsi sull’emergenza nazionale. L’opposizione
democratica e la stessa Aung San Suu Kyi ha chiesto il rinvio del referendum, mentre
Soe Aung portavoce della LND ha accusato le autorità di non aver allertato per
tempo la popolazione, proprio perchè completamente dedite alla preparazione della
consultazione popolare. Tuttavia, come documentato da Peace Reporter, la giunta ha
posticipato al 24 maggio le votazioni solo per le aree maggiormente colpite dal
ciclone, mentre nel resto del Paese il referendum si è svolto regolarmente nella data
prestabilita ossia il 10 maggio80.
L’esito positivo delle consultazioni e quindi l’approvazione della bozza di
Costituzione (redatta a porte chiuse da una ristretta cerchia di 54 persone selezionate
dalla giunta, senza la convocazione di una costituente inclusiva delle altre parti
politiche e dei rappresentanti delle nazionalità etniche81) porterà al potere nel 2010 il
nuovo governo nazionale. La Costituzione, così come approvata, garantisce alla
giunta il 25% dei seggi nel nuovo parlamento, infatti è espressamente previsto che i
soldati nominati dal Comandante in Capo dell’esercito (tatmadaw) ricopriranno il
25% dei mandati in entrambe le camere del parlamento nazionale e un terzo dei seggi
nelle assemblee statali e regionali (Capitolo IV). Sempre ai militari andranno
incarichi governativi chiave: è previsto, infatti, che i Ministeri della difesa, della
sicurezza/affari interni e degli affari esteri debbano essere assegnati a membri del
tatmadaw ovvero dell’esercito nazionale e lo stesso vale anche per i governi
regionali e per gli altri livelli di governo sub-statali (Capitolo V). I Generali
disporranno anche del potere di veto sulle leggi del parlamento e del potere di
convocare lo stato di emergenza concentrando tutto il potere nelle loro mani. Infatti,
è previsto che durante la vigenza dello stato di emergenza, dichiarato dal Presidente,
112
il Comandante in Capo dell’esercito assuma i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari
(Capitolo XI). La carta costituzionale sancisce anche l’immunità del Presidente che
non è chiamato a rispondere, né dinanzi al parlamento né dinanzi alla magistratura,
per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (Capitolo V). La Costituzione
non introduce alcuna garanzia del diritto ad un giusto processo, ma anzi l’estensione
delle “materie oggetto di misure precautelari” permetterà l’adozione di
provvedimenti che violano i diritti di difesa di chi viene tratto in arresto. In nome
della generica garanzia della “comune pace e stabilità”, sono ammesse pesanti
restrizioni delle libertà di espressione, associazione e riunione (Capitolo VIII). Sono
previste anche restrizioni del diritto di voto: ad esempio, gli appartenenti ad ordini
religiosi non godono di tale diritto (Capitolo IX). Infine, una espressa disposizione
costituzionale prevede che coloro che abbiano un coniuge straniero non possa
assumere incarichi di governo (guarda caso Aung San Suu Kyi è sposata con un
cittadino inglese)82.
In aggiunta, l’apertura del processo costituente ha coinciso con il ritorno in auge
della legge 5/96 che prevede la condanna fino a venti anni di carcere per chi osi
criticare la Convenzione Nazionale. Tale legge del 1996 è stata utilizzata come
pretesto per l’arresto degli attivisti che pacificamente tentavano di portare avanti una
campagna pro “No” (incluso l’indossare t-shirts con il “No” stampato sopra) e oltre
70 persone sono state tratte in arresto a ridosso delle votazioni nel corso di una
dimostrazione avente come slogan “Vote No”. Inoltre, sulla base del Printers and
Publishers del 1962 è stato possibile mettere a tacere il dissenso anche a mezzo
stampa. Molte altre intimidazioni a danno dei membri della LND e, in generale, degli
oppositori politici sono state riscontrate, come, ad esempio, incursioni negli uffici e
113
minacce fisiche. Capiamo bene, dunque, che più che dinanzi a un processo di
costituzionalizzazione, che per definizione si associa alla sublimazione degli ideali
democratici e alla più alta espressione dei diritti politici e delle libertà civili, siamo
dinanzi all’ennesima farsa per “addormentare” le diplomazie internazionali.
Il nuovo teatrino che aprirà i battenti nel 2010, avrà dunque gli stessi protagonisti di
sempre (cast dei Generali riconfermato e i membri dell’opposizione come sparute
comparse) speriamo solo che la trama si evolva in un inedito e insperato epilogo. Del
resto, come è stato sostenuto da Zarni, pubblicista birmano in esilio e ricercatore
presso la Oxford University, meglio il 25% dei seggi che il 100% attuale così come
Ministeri chiave sono da preferire al totale degli incarichi ministeriali83. Dunque, una
pseudo-svolta in senso costituzionale è preferibile allo status attuale.
Fortunatamente, non tutti si sono lasciati abbindolare dalle false promesse di riforma
della giunta e, a tal proposito, Amnesty International nel Rapporto dall’eloquente
titolo Myanmar: Constitutional referendum flouts human rights
84
ha sottolineato la
necessità che il processo costituzionale in atto venga sostituito da un processo
trasparente e pienamente inclusivo di tutte le parti politiche e sociali, che abbia luogo
in un contesto scevro da intimidazioni. Un processo che possa portare ad una
Costituzione che realmente includa strumenti di tutela dei diritti umani e che
garantisca la formazione di un legittimo governo democratico. Una struttura di
norme certe e democraticamente concordate, rispettose dei diritti civili e politici:
questo è ciò che oggi si richiede al governo birmano. Perchè la Costituzione, checché
se ne dica, non è solo un pezzo di carta.
4.3 Conclusioni.
114
Il Ciclone Nargis, anziché sospingere i venti del cambiamento, ha spazzato via
l’opportunità di allacciare un dialogo genuino con la giunta e ottenere maggiori
concessioni lungo la road map verso la democrazia. A tal proposito, l’esito positivo
del referendum costituzionale non va interpretato come un rafforzamento della
legittimità del regime militare, ma piuttosto come la unilaterale volontà di questo di
mantenersi al potere.
Ad ogni modo, ai sensi del Diritto Internazionale, non è possibile sindacare la forma
istituzionale e di governo che uno Stato sovrano e indipendente può scegliere per sè.
È vero che oggi la Comunità internazionale nutre in generale maggiore simpatia per
la forma di governo democratica, ma rimane fermo il principio della insindacabilità
degli atti, nei quali si sostanza la potestà d’imperio dello Stato, come appunto i
provvedimenti
di
riforma
degli
assetti
e
delle
procedure
istituzionali.
L’insindacabilità degli atti jure imperii è oggi un caposaldo del Diritto Internazionale
e (a buon diritto) rimarrà tale. Del resto, se i politologi sono soliti tracciare una netta
distinzione tra democrazie elettorali (che si dotano di alcuni principi democratici di
facciata) e democrazie democraticamente elette (che aggiungono alle procedure
elettorali i contenuti democratici), tale distinguo non è altrettanto netto per il Diritto
Internazionale; d’altronde, tale distinzione appare di scarso rilievo, per il Diritto
Internazionale, alla luce del limite tradizionale del dominio riservato di ogni Stato,
rivisitato in epoca attuale soprattutto sotto la spinta dell’esigenza di tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo e dei popoli.
115
1
Così come stabilito per espressa disposizione dallo Statuto delle Nazioni Unite,
all’art. 24.
2
Corsivo mio.
3
Art. 11, par. 3, e art. 99 della Carta delle Nazioni Unite.
4
La diversa gravità delle situazioni che il Consiglio di trova ad affrontare e,
conseguentemente, il diverso ruolo da questi svolto, si riflette negli strumenti che il
Cap.VI, dedicato alla soluzione pacifica delle controversie, e il Cap.VII, riguardante
le azioni a tutela della pace, mettono rispettivamente a sua disposizione.
5
Si ricordi che l’atto tipico attraverso il quale il Consiglio svolge il ruolo di
conciliatore è la raccomandazione, ovvero un atto di natura non vincolante, la cui
adozione è prevista dagli artt. 36 e 37 (Cap.VI) della Carta. La possibilità di ricorrere
a raccomandazioni è contemplata anche dal Cap.VII, il quale si caratterizza per
l’attribuzione al Consiglio del potere di adottare decisioni (ovvero atti vincolanti) e
ad emanare risoluzioni operative (cioè risoluzioni con le quali, anzicchè rivolgersi
agli Stati, delibera d’intraprendere esso stesso un’azione).
B. Conforti, Le Nazioni Unite, CEDAM, 2005, pag. 156.
6
Come notato da Conforti, sebbene le misure di cui all’art. 40 siano state pensate
come misure d’urgenza, il Consiglio non è comunque vincolato da un punto di vista
strettamente cronologico. Ibid., pag. 189.
7
Il corretto e legittimo espletamento delle azioni militari rientranti nella tipologia
indicata nell’art. 42 della Carta delle Nazioni Unite impone che queste assumano la
forma di operazioni di polizia militare internazionale, non di operazioni di guerra.
Sarebbe perciò più opportuno parlare di “polizia militare internazionale” o di
“operazioni internazionali di polizia militare”. Ad ogni modo le operazioni
comportanti l’uso di mezzi coercitivi devono essere circoscritte nel tempo e precise
nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto della legalità internazionale, garantite
da un’autorità riconosciuta a livello sopranazionale e mai lasciate alla mera logica
delle armi. Gli obiettivi specifici delle operazioni a loro volta devono
necessariamente essere coerenti con la ratio legittimante dell’intervento.
Sul punto Conforti op. cit., pag. 202.
8
Art. 53, Cap.VIII della Carta delle Nazioni Unite.
High Level Plenary Meeting of the 60th UNGA, noto più informalmente come
Millennium+5 Summit. Si veda a tale proposito “Switzerland and the UN, The 2006
Report of the Federal Council”, 2007, pag. 16.
9
10
Il termine Responsibility to Protect è stato oggetto di dibattito per anni,
documentato nel Report dell’International Commission on Intervention and State
116
Sovereignty (dicembre 2001), citato nel Rapporto del Consiglio Federale elvetico op.
cit., Sulla scia del fallimento dell’azione contro i crimini commessi nell’ex
Jugoslavia e in Rwanda, la comunità internazionale ha preso a discutere su come
rispondere al ricorrere di genocidio, crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei
diritti umani. Durante il Millennium+5 Summit del settembre 2005, gli stati membri
delle Nazioni Unite hanno approvato il principio della Responsibility to Protect. Essi
accentuano il bisogno per la comunità internazionale di intervenire attraverso le
Nazioni Unite e con l’uso di tutti i mezzi appropriati, inclusa una azione militare
collettiva come ultima risorsa, nei casi in cui gli Stati falliscano nell’adempiere alle
loro obbligazioni. Tuttavia rimane ancora aperta la questione relativa alla definizione
dei criteri per determinare in quali casi un intervento della Comunità Internazionale
sia necessario e quali forme dovrebbe assumere. Nel corso del summit alcuni stati
hanno richiesto ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di non esercitare il
loro diritto di veto nelle risoluzioni riguardanti azioni collettive in risposta a
genocidio crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei diritti umani.
11
Va inoltre ricordato che mentre le misure “conciliative” di cui al Cap.VI
soggiacciono al limite della domestic jurisdiction, lo stesso non vale per le azioni
intraprese dal Consiglio a norma del Cap.VII.
12
"la Birmania deve dare risposta all’imperativo di restaurare la democrazia e di
promuovere i diritti umani e noi faremo tutto quanto il possibile per produrre un
cambiamento positivo in Birmania”. Queste le parole del rappresentante indonesiano
all’ONU, riprese dall’Associated Press. Le interviziste sono disponibili sul sito
www. birmaniademocratica.org
13
Secondo l’Associated Press, questa decisione potrebbe sollevare problemi di
unità in seno al Consiglio di Sicurezza nelle discussioni che si svolgeranno in futuro
su questioni scottanti come il conflitto nel Darfur e le conseguenze delle sanzioni nei
confronti della Corea del Nord e dell’Iran.
14
Antonio Papisca, L’ONU e il (futuro del) diritto alla cosiddetta ingerenza
umanitaria in Rivista «SEMINARIUM», XL (2000), n. 2, pp. 368-390.
Rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite»: con questa prospettiva di impegno
politico, i rappresentanti di oltre 1000 organizzazioni del variegato mondo
transnazionale di società civile globale, provenienti da più di 100 paesi della terra,
hanno animato i lavori del cosiddetto «Peoples Millennium Forum», svoltosi a
NewYork dal 22 al 26 maggio 2000 nella sede stessa dell’Assemblea Generale.
15
Per dirla con le parole di Papisca “Da un lato, è sempre più diffusamente avvertita
la necessità che la Comunità internazionale si faccia direttamente carico di
intervenire con mezzi efficaci laddove sono a rischio, estesamente e reiteratamente,
la dignità e l’incolumità di gruppi e di interi popoli. Dall’altro, in maniera altrettanto
diffusa, c’è il sospetto che, in assenza di istituzioni sopranazionali dotate di congrui
mezzi per agire tempestivamente ed efficacemente, gli stati più forti profittino di
circostanze eccezionali - disastri naturali, guerre ‘interne’, genocidi, forme varie di
violenza diffusa - per asserire la loro supremazia e perseguire più agevolmente i loro
117
egoistici interessi nazionali.”
Ibid., pag. 378
16
Art. 27 della Carta delle Nazioni Unite. Sulla distinzione tra le questioni
procedurali e non, e in generale sulle procedure di voto in seno alle Nazioni Unite:
B.Conforti, 2005, op. cit., pag. 69 e C. Zanghì, Diritto delle Organizzazioni
Internazionali, Giappichelli, 2007, pag. 247.
17
Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale il 13 marzo 2007, General
Assembly Sixty-first session, A/RES/61/232 Situation of human rights in Myanmar:
[General Assembly] expresses grave concern at: The ongoing systematic violations
of human rights and fundamental freedoms of the people of Myanmar, as described
in resolution 60/233 and previous resolutions of General Assembly; [General
Assembly] strongly calls upon the government of Myanmar: to end systematic
violations of human rights and fundamental freedoms; to take urgent measures to put
an end to the military operations targeting civilians in the ethnic areas and the
associated violations of human rights and humanitarian law (.............); to investigate
and bring to justice any perpetrators of human rights violations including members of
the military and other government agents in all circumstances; to release all political
prisoners immediately and unconditionally (.............).
18
Thant Myint U spiega il ruolo delle Nazioni Unite in Birmania in un articolo
pubblicato il 5 aprile 2008 sul “The Straits Times”. L’articolo è inoltre disponibile su
http://www.freeburmacoalition.org/thant_myint_u.htm
19
Come suggerito da FIDH-ITUC è possobile individuare “Four key principles to
give Gambari’s mission a chance: 1) Keeping Burma a priority, 2) Increasing the
pressure now: useful, not harmful, 3) Accepting to take responsibility for Burma
instead of passing the buck, 4) Two-pronged approach: influencing the regime,
encouraging the people. Inoltre vanno considerati anche “Four key leverage points to
give Gambari’s mission a chance: 1) International pressure and support for national
reconciliation, 2) Cutting the SPDC’s economic lifeline - comprehensive sanctions,
3) A Burma Transition Fund, 4) Preparation of a transition towards democracy –
promoting a culture of democracy.
20
Ibrahim Gambari ha incontrato il generale Than Shwe, numero uno della giunta
birmana, per tentare di convenire una soluzione negoziata per la triste situazione in
cui è precipitato il paese. Al termine del colloquio, dal quale non è trapelato nulla di
ufficiale, Gambari ha incontrato (per la seconda volta) la dissidente storica e premio
Nobel per Pace Aung San Suu Kyi. Ai colloqui non hanno comunque fatto seguito
risvolti tangibili.
Il video dell’incontro tra l’inviato ONU e il generale è disponibile sul sito
www.swissinfo.ch
21
Art. 105, Capitolo XVI
22
Switzerland and the UN. The 2006 Report of the Federal Council, pag.30.
118
23
The Secretary-General Message to the National Model United Nations New York
18-24 March 2007 : “As I was growing up in war-torn and destitute Korea, the UN
stood my people in our darkest hour. For Koreans of that era the UN flag was a beacon
of better days to come. And in the course of my own lifetime, with the assistance of the
UN, the Republic of Korea was able to rebuild itself from a country ravage by war into
a regional economic power and major contributor to the UN. In this way, the UN
helped me make me journey to where I am today. For that I am deeply
thankful..........We can build a new golden era for the UN, if we work collectively to
make it so................To succeed as Secretary-General, I will need to work in
partnership with every one of our Member States, whatever the size of its population or
its pocketbook. And “We the Peoples”, in whose name the UN was founded, have a
right to expect a UN which serves the needs of people everywhere. That is where I
need your support.”
24
Ibid.
25
The New Human Rights Council: The First Two Years,
Workshop organized by the European University Institute, Istituto Affari
Internazionali, and the Institute for Human Rights at Ǻbo Akademi University, pag.1,
disponibile su http://www.eui.it/AG2/projects/PDFs/HRC-Report.
26
Switzerland and the UN, op.cit., pag.27.
27
L’Assemblea Generale si riserva, peraltro, di poter rivedere lo status del Consiglio
entro cinque anni. Si ricorda inoltre che la Commissione dei Diritti umani è stata
istituita nel 1946 dal Consiglio Economico e Sociale in accordo all’articolo 68 della
Carta dell’ONU. La Risoluzione Ecosoc 5 (I) del 16/02/46 ha definito la
Commissione dei Diritti Umani nei caratteri sostanziali, e la Risoluzione Ecosoc 9
(II) del 21/06/46 ne ha delineato i tratti specifici.
28
The New Human Rights Council: The First Two Years, op.cit., pag.2
29
Ibid., pag.14.
30
Ibid., pag.4.
31
Ibid., pag.17.
32
Ibid., pag.13.
33
Ibid., pag.19.
34
Ibid., pag.10.
119
35
Quest’ultimo può rivolgersi direttamente ai membri del Consiglio dei Diritti
Umani o agli esperti da questo nominati; infatti, sulla base della Regola 39 del suo
Regolamento di Procedura, il Consiglio di Sicurezza “può invitare membri del
Segretariato o altre persone, che reputi esperte, a contribuire con informazioni o a
dare ulteriore assistenza nell’esaminare materie rientranti nella sua competenza”.
36
Report by the UN Secretary-General del 21/03/2005 “In larger freedom: towards
development, security and human rights for all” A/59/2005 cit. in Switzerland and
the UN, op.cit., pag.9.
37
Sito del Ministero degli Affari Esteri.
38
www.swissinfo.ch
39
Myanmar e il Consiglio dei diritti umani, informazioni reperibili su
http://www.ohchr.org/french/countries/mm/index.htm
40
Come riportato sul sopra citato sito svizzero, l'ambasciatore birmano a Ginevra,
dopo la riunione speciale del 2 ottobre 2007, ha commentato l’operato del Consiglio
affermando che “elementi antigovernativi esterni ed interni” hanno appoggiato le
manifestazioni e che alcuni Stati occidentali vedono in esse l'occasione di intervenire
nel Paese.
41
The New Human Rights Council: The First Two Years, op.cit., pag.9.
42
N. Ronzitti, Birmania. Cosa possono fare le istituzioni internazionali?,
pubblicato sulla rivista on line AffarInternazionali, I ottobre 2007, reperibile su:
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp
43
Burma and forced labour: options available under international law in Burma’s
“Saffron Revolution” is not over. Time for international community to act, dicembre
2007, pag. 40, reperibile sul sito www.freeburmacoalition.org
Si vedano anche i numerosi rapporti sulla Birmania della Commissione d’inchiesta
dell’OIL
pubblicati
nella
versione
originale
sul
sito
http://www.ilo.org/public/english/region/asro/yangon
mentre taluni rapporti sono disponibili nella versione in lingua italiana sul sito
www.birmaniademocratica.org
44
Art. 92 della Carta dell’ONU e art. 1 dello Statuto della Corte Internazionale di
Giustizia.
45
www.swissinfo.ch
46
A tal proposito va ricordato il rapporto commissionato da Vaclav Havel e
dall’arcivescovo Desmond Tutu il quale mostra chiaramente come la Birmania
120
costitusce una minaccia alla pace: Havel/Tutu report “A Threat to Peace: A call for
the UN Security Council to act in Burma”, disponibile sul sito
http://www.unscburma.org/Report.htm
47
Antonio Papisca, L’ONU e il (futuro del) diritto alla cosiddetta ingerenza
umanitaria in Rivista «SEMINARIUM», XL (2000), n. 2, pp. 368-390.
48
In mancanza di espresse prese di posizione nei confronti della crisi birmana, ho
ritenuto opportuno, sempre per esigenze di completezza, spendere qualche parola sul
Consiglio Economico e Sociale e le agenzie specializzate. Rimarcando il fatto che
ciò che il Consiglio Economico e Sociale può fare per la Birmania è ciò che può fare
in generale per la promozione di diritti umani.
Il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite è noto per essere il principale
forum per la discussione delle tematiche economiche e sociali a livello
internazionale. Il suo compito è appunto quello d’incrementare la cooperazione
internazionale economica e sociale, agendo a tal fine sotto la direzione
dell’Assemblea Generale, con lo scopo di “creare le condizioni di stabilità e di
benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici e amichevoli fra le Nazioni”
(art. 55 della Carta ONU). Il Consiglio Economico e Sociale fa capo a numerose
agenzie o “Istituti specializzati”, ovvero corpi indipendenti con vasti compiti
internazionali in un determinato settore, costituiti ai sensi dell’art. 55 dello Statuto
delle Nazioni Unite. Tali “Istituti”, [tra i quali spiccano il Fondo Monetario
Internazionale (FMI), e la Banca Mondiale], o agenzie specializzate sono considerate
come il braccio operativo dell’ECOSOC, e sono collegate alle Nazioni Unite
mediante accordi di collaborazione. L’ECOSOC può inoltre decidere di creare, in
base all’art. 68, commissioni funzionali (quale ad esempio l’ex Commissione sui
diritti umani) o regionali su questioni di carattere economico e sociale o di
promozione dei diritti dell’uomo o che rientrino nell’adempimento delle sue
funzioni. A tal proposito è stato notato che in assenza di un emendamento alla Carta
delle Nazioni Unite, il potere dell’ECOSOC nel campo dei diritti umani è rimasto
invariato ed i poteri inizialmente conferitigli di certo non vengono né limitati né
aboliti da una risoluzione della Assemblea Generale, quale la risoluzione istitutiva
del Consiglio dei diritti umani.
I membri dell’ECOSOC hanno compreso che il dovere così come definito dalla Carta
esiste ancora e quindi l’ECOSOC ha ancora titolo ai sensi dell’art. 62 per: fare
raccomandazioni sulla promozione del rispetto dei diritti umani, per preparare
progetti di convenzioni sui diritti umani e per indire conferenze internazionali su tale
materia, così come stabilito dalla Carta, sebbene la Risoluzione ECOSOC 2006/2 del
22 marzo 2006 che abolisce la Commissione con effetti dal 16 giugno 2006 potrebbe
essere interpretata come un emendamento alla Carta.
Dunque, l’ECOSOC può riattivare le sue funzioni nel campo dei diritti umani, come
previsto dai Capitoli IX e X dello Statuto delle Nazioni Unite.
Oltre quanto detto, va ricordato che oggi la più grande risorsa dell’ECOSOC consiste
nel mantenere un rapporto costante con la società civile, attraverso la consultazione
con le ONG. A fronte di tale ricchezza, il Consiglio presenta problemi di debolezza
interna e difficoltà nell’attuazione di misure concrete, data la sua composizione
estremamente disomogenea.
121
49
Ai sensi dell’art. 15 del Trattato sull’Unione Europea (TUE): “……Le posizioni
comuni definiscono l’approccio dell’Unione su una questione particolare di natura
geografica o tematica. Gli Stati membri provvedono affinché le loro politiche
nazionali siano conformi alle posizioni comuni”.
50
Non mi riferisco ovviamente solo all’ex-Jugoslavia e al Kossovo, nostri vicini, ma
anche ad altre circostanze nelle quali non si è stati in grado di decidere in maniera
coesa: pensiamo al Medioriente, al conflitto in Iraq e in Afghanistan o alla
repressione in Tibet, mentre una presa di posizione già più unitaria si è registrata nel
caso dell’offensiva israeliana contro il Libano e, più di recente, dell’invasione della
Georgia da parte della Russia.
51
European Parliament resolution of 6 September 2007 on Burma. Il testo è
disponibile per intero sul sito www.birmaniademocratica.org
52
Si vedano a proposito: resolutions of 12 May 2005 (2), 17 November 2005 (3),
14 December 2006 (4), 21 June 2007 on Burma (5) .
53
Informazioni disponibili sul sito del Ministero degli Affari Esteri, inoltre
l’annuncio della missione di P. Fassino, è stata accolta favorevolmente anche da
ONG asiatiche pro-Birmania le quali: “welcome the announcement by the EU High
Representative for the Common Foreign and Security Policy Javier Solana of the
nomination of Piero Fassino as EU Special Envoy for Burma. The mandate must not
undercut or preempt a process parallel to that of the UN, but instead strengthen the
involvement of countries of the South-East Asia region and other regional powers,
including India, China and Japan. It must be accompanied by other steps. Burma’s
“Saffron Revolution” is not over, op.cit., pag.24.
54
L’intervento di Thant
Myint-U è disponibile per intero su
http://www.freeburmacoalition.org/statement_
to_
the_
european
_parliament_committee_ on_development_ and_sub_committee_on _human_ rights
In linea con quanto affermato da Thant Myint-U, anche il PE ha espresso la propria
costernazione affermando la giunta è chiaramente incapace di utilizzare le
straordinarie risorse naturali del paese a beneficio della popolazione.
European Parliament resolution of 6 September 2007 on Burma: [European
Parliament] Expresses its grave concern about the adverse effect which the
extraordinary price increase for basic commodities is having on the Burmese
population and the fact that the Burmese junta is clearly incapable of utilising the
country's extraordinary natural resources for the benefit of the people of Burma.
55
In effetti già il 22 e 23 ottobre il Sottosegretario On. Vernetti aveva effettuato una
missione a Singapore, Presidenza di turno dell’ASEAN, e in Thailandia per colloqui
sulla Birmania. Informazioni reperibili sul sito del Ministero degli Affari Esteri.
122
56
European Parliament resolution of 6 September 2007 on Burma: [European
Parliament] Reiterates its regret that the Burmese Foreign Minister, Nyan Win,
banned from travelling to the EU, was permitted to attend the eighth ASEM Foreign
Ministers" meeting in Germany this year, only days after the military junta in Burma
had extended the illegal house arrest of Aung San Suu Kyi for another year.
57
Si pensi ad esempio ai paesi dell’Europa meridionale, la Spagna post-franchista, il
Portogallo reduce dalla dittatura salazariana, la Grecia “dei Colonnelli”. Ovviamente
non esiste un ricetta magica per la transizione democratica, ma occorre operare i
necessari distinguo tenendo conto di numerose variabili (ad esempio: tipologie di
attori coinvolti, contesti di partenza, ruolo dei militari nel precedente regime,
omogeneità/disomogeneità etnica).Sul punto: Juan J.Linz e Alfred Stepan,
Transizione e Consolidamento Democratico, 2002.
58
Questo, secondo Linz e Stepan, rappresenta il rischio cruciale nel percorso di
transizione democratica. Ibid., pagg.169 e ss.
59
Ma anche per la questione del Libano e la situazione in Liberia e in Costa
d’Avorio.
60
Altsean –Burma (2007) “ASEAN should stop ‘passing the buck’ on Burma”.
Report BN 2007/1037: October 25, 2007
disponibile su http://www.altsean.org/Reports/ASEANbuckBurma.php
Si ricordi che mentre i FDI giungono copiosi e i Generali si arricchiscono con le
esportazioni di gas naturale, legname teck e rubini, il 95% della popolazione vive con
meno di 1$ al giorno, e il 90% con meno di 65 centesimi al giorno.
61
www.birmaniademocratica.org
62
The International Federation for Human Rights (FIDH) is an international nongovernmental organisation for the defence of human rights as enshrined in the
Universal Declaration of Human Rights of 1948. Created in 1922, FIDH brings
together 155 human rights organisations from 100 countries. FIDH has undertaken
over a thousand missions of investigation, trial observations, and trainings in more
than one hundred countries.
FIDH works to: a) Mobilise the international community, b) Prevent violations, and
support civil society, c) Observe and alert, d) Inform, denounce, and protect.
FIDH is historically the first international human rights organisation with a universal
mandate to defend all human rights. http://www.fidh.org
International Trade Union Confederation (ITUC-CSI) adheres to the principles of
trade union democracy and independence, as set out in its Constitution. It is governed
by four-yearly world congresses, a General Council and an Executive Bureau, main
areas of activity include: trade union and human rights; economy, society and the
workplace; equality and non-discrimination; international solidarity.
123
www.ituc-csi.orgts
63
Burma’s “Saffron Revolution”is not over, op.cit., pag.31.
64
Havel/Tutu report “A Threat to Peace ”, op.cit.
65
Tuttavia, se l’obiezione di Russia e Cina ha nuovamente paralizzato il Consiglio di
Sicurezza, Stati Uniti e Unione Europea hanno proseguito ugualmente lungo la via
delle sanzioni, a cominciare dall'inasprimento di quelle già in vigore. Infatti, i primi
hanno rafforzato le misure restrittive in atto dal 1997 e anche l’UE, come si è detto,
ha rinnovato le sanzioni esistenti sin dagli anni ’80 (tuttavia, sia i governi degli Stati
membri, che vedono nella Cina un partner commerciale da non inimicarsi, sia le
imprese europee, che temono di cedere terreno a quelle asiatiche, si sono mostrate
sorde alle richieste dell’Unione). Si ricordi, a tal proposito, European Parliament
resolution of 6 September 2007 on Burma: [European Parliament] Welcomes the
renewal of EU targeted sanctions, but recognises that they have failed to achieve the
desired impact on those directly responsible for the suffering of the Burmese people,
and calls therefore on the Council to analyse the weaknesses in the present sanctions
system and to introduce further measures as may be necessary in order to guarantee a
greater degree of effectiveness; Insists, in this context, that all Member States
rigorously apply the restrictive measures already agreed;. Notes that, in accordance
with the restrictive measures against Burma, support is limited to humanitarian aid
and assistance for those most in need; www.birmaniademocratica.org, e Consiglio
Affari Generali e Relazioni Esterne (CAGRE) Conclusioni del 15 ottobre 2007, sito
del Ministero degli Affari Esteri. Anche tramite comunicato stampa (25/04/2008) il
PE ha ribadito la necessita di rivedere e rafforzare l’attuale sistema di sanzioni
Annuncio del Ministro per la Programmazione e lo Sviluppo Nazionale nella sua
analisi riportata su “Oil Sector Dominates Myanmar Investments” Associated Press,
26 novembre 2007.
66
67
Si ricordi che le azioni comuni sul fronte birmano hanno riguardato sinora tre
ambiti: si guardino a tal proposito la Posizione Comune 2006/318/PESC, adottata dal
Consiglio dell’Unione il 27 aprile 2006, che ha prorogato le misure restrittive
adottate nel 2004 (PC 2004/423/PESC) e nel 1996 (PC 96/635/PESC) ed il
conseguente regolamento attuativo: Regolamento (CE) n. 817/2006 adottato dal
Consiglio dell’Unione 29 maggio 2006. La Posizione Comune ha disposto:
l’embargo di armi (art. 1: Sono vietati la vendita, la fornitura, il trasferimento o
l’esportazione verso la Birmania di armamenti..........sono vietate le prestazioni di
assistenza tecnica, di servizi d’intermediazione e di altri servizi pertinenti ad attività
militari), il travel ban (art. 4: Gli Stati membri adottano le misure necessarie per
impedire l’ingresso o il transito nel loro territorio degli alti membri del Consiglio
Statale per la Pace e lo Sviluppo; art. 4, par. 5: Sono vietati la concessione di prestiti
o crediti finanziari alle imprese statali birmane, l’acquisto o l’aumento di una
124
partecipazione nelle imprese statali birmane). I testi delle Posizioni Comuni e del
regolamento sono scaricabili su www. birmaniademocratica.org
68
Burma’s “Saffron Revolution”is not over, op.cit., pagg.32-33, dove si afferma
anche che: “ASEAN has enough leverage to paralyze the regime” Research Officer,
Altsean-Burma.
69
Queste conclusioni sono illustrate nel report dell’Altsean-Burma.
Altsean –Burma (2007) “ASEAN should stop ‘passing the buck’ on Burma”, op.cit.
70
CS83-2007 Amnesty International, Saferworld e altre Ong denunciano:
missili, armi da fuoco e motori “made in UE” minacciano di compromettere
l’embargo sulle armi a Myanmar, comunicato stampa del 16/07/2007: “Il governo
indiano sta per trasferire a Myanmar l’Advanced Light Helicopter (Alh), un
elicottero d’attacco prodotto in India ma che non potrebbe funzionare senza
componenti essenziali di provenienza europea” A tal proposito, Roy Isbister, dello
staff di Saferworld, ha affermato: “L’embargo UE dice espressamente che nessun
equipaggiamento militare dovrà essere fornito, direttamente o indirettamente, per
essere usato in Myanmar. Che senso ha un embargo se non viene applicato o fatto
rispettare?”. Il rapporto di AI ha richiesto all’UE di avviare immediate consultazioni
col governo indiano.
Se l’India intende fornire, o ha addirittura già fornito, gli elicotteri Alh al governo
birmano,
l’UE dovrebbe:
- ritirare tutte le licenze di autorizzazione all’esportazione esistenti e rifiutare ogni
ulteriore richiesta d’autorizzazione riguardante il trasferimento di tecnologia o
componenti che potrebbero essere usate sull’Alh;
- interrompere le coproduzioni con l’India che potrebbero dar luogo al trasferimento
di equipaggiamento coperto da embargo in Birmania ;
- sottoporre tutte le future licenze per il trasferimento di beni controllati e tecnologia
all’India a condizioni rigorose ed effettivamente applicabili, tali da proibire la loro
riesportazione verso paesi sotto embargo.
Scheda sull’origine delle parti dell’Alh:
Belgio:
lanciamissili prodotti da Forges de Zarbrugge FZ
Francia:
motori prodotti da Turbomecca
armi da fuoco prodotte da GIAT
missili prodotti da Matra Bae Dynamics
Germania:
componenti per il controllo del volo e del motore prodotti da SITEC Aerospaces
sviluppo del design da parte di Eurocopter
Italia:
sistema frenante prodotto da Elettronica Aster SpA
Regno Unito:
125
sistema idraulico fornito da APPH Precision Hydraulics Ltd
equipaggiamento per il galleggiamento, sistema di serbatoi di carburante
autosigillanti fornito da FPT Industries
serbatoi per il carburante, equipaggiamento per il galleggiamento e scatole del
cambio forniti da GKN Westland
Svezia:
equipaggiamento di autodifesa fornito da Avitronic, un’azienda di cui Saab AB è
comproprietaria.
www.amnesty.it
71
I due enti sottolineano che il rapporto diffuso e il caso citato, riguardante tra le
altre un’azienda italiana, evidenziano come occorra un alto livello di trasparenza e di
controllo, perché anche operazioni consentite dalla legge siano coerenti con i principi
di sicurezza e di salvaguardia dei diritti umani. Per ulteriori informazioni sulla
campagna Control Arms consultare il sito www.amnesty.it
72
Natalino Ronzitti, op.cit.
73
Community of Democracies (CD) – Una coalizione di Stati che hanno valori
comuni creata nel 2000. I maggiori problemi della CD sono rappresentatività ed
effettività e la capacità di influenzare il processo decisionale di istituzioni
internazionali nel campo dei diritti umani.
74
“All people investing in Burma should review their policy. We request Swift to
review its policy. They should not help the regime. In my view, they should stop all
transactions with Burma. They don’t benefit the people, they benefit the regime.”
Dr Sann Aung, Minister in the National Coalition Government of Burma (NCGUB)
Burma’s “Saffron Revolution”is not over, op.cit., pag.35
75
Si ricordino, tra gli altri, gli ostacoli all’azione del Comitato Internazionale della
Croce Rossa (ICRC), reso impossibilitato a svolgere la sua missione di assistenza
alla popolazione civile e gli ostacoli alla distribuzione di cibo fornito dal World Food
Program (WFP) alle popolazioni delle aree più colpite da miseria. L’azione del WFP
è stata resa difficoltosa dalla imposizione di una tassa del 10% sugli alimenti da parte
del governo militare. Anche il Fondo Globale per la lotta all’AIDS, Tubercolosi e
Malaria esasperato dalle condizioni restrittive poste dal regime, ha deciso di cessare
dal 2006 le donazioni alla Birmania.
76
E/CN.4/2006/34 COMMISSION ON HUMAN RIGHTS Sixty-second session
7 February 2006 Situation of human rights in Myanmar.
Report of the Special Rapporteur, Paulo Sérgio Pinheiro, cit., capitolo I.
77
Si veda il report di Amnesty International: Myanmar: Cyclone survivors at
increased risk because of Myanmar government’s actions, 5 giugno 2008 pubblicato
su www.amnesty.it
126
78
Protection of persons in the event of disasters in United Nations International Law
Commission Report, 6th Session (5 May to 6 June and 7 July to 8 August 2008)
General Assembly (A/63/10), pag.311 e ss. e Rights to humanitarian assistance, ibid.,
pag.320 e ss.
79
Forse rimangono alcune occasioni legate alle ricostruzione. Ad, esempio il Gruppo
lavoratori e il Gruppo imprenditori dell’ILO hanno richiesto al Consiglio di
Amministrazione di adottare una serie di misure urgenti, tra cui il sostegno a
programmi ILO per le vittime del ciclone e una maggiore coordinazione con
l’Ufficio ILO in Birmania. Ciò al fine di assicurare che i programmi di ricostruzione
siano eseguiti nel pieno rispetto dei diritti umani e dei diritti fondamentali del lavoro.
80
Tale decisione ha destato lo sgomento della comunità internazionale. Così
l’ambasciatore francese all’ONU, Jean Maurice Ripert, dopo la riunione del
Consiglio di Sicurezza: “stanno cercando di metterci di fronte al fatto compiuto:
dopo il ciclone andiamo alle elezioni. No. Il processo è stato deciso unilateralmente e
non (in consultazione) con l’opposizione”. www.birmaniademocratica.org
81
L’avvio di un dialogo negoziale tripartito tra i militari, la LND e i rappresentanti
delle minoranze etniche era stato caldamente raccomandato dal Segretario Generale
delle Nazioni Unite e dal Parlamento Europeo, si ricordi la citata risoluzione del 6
settembre 2007, ma anche i più recenti dibattiti le cui conclusioni sono state rese note
tramite comunicato stampa (25 aprile 2008). Il PE ha infatti molto criticato il
contenuto della bozza di costituzione, denunciando la mancanza di legittimità del
referendum e invocando lo svolgimento di libere elezioni. I deputati europei hanno
inoltre sottolineato la necessità di istituire una commissione elettorale indipendente,
di compilare liste elettorali adeguate e di consentire la presenza di osservatori
internazionali.
82
L’ambasciatore birmano, Ohn Thwin, in un’intervista al Financial Mail ha definito
Aung San Suu Kyi un burattino nelle mani dei paesi occidentali “ The government
has given many chances to Aung San Suu Kyi and her NLD party to join hands with
it in building the nation. However, she will never change her attitude. She resided
abroad for about 30 years and married an Englishman. Her own father, Myanmar’s
national hero Gen Aung San, wrote the original constitution in 1947 in which it was
clearly stated that whoever married a foreign citizen was not eligible to take a
leading role in the politics of Myanmar. Her trying to infringe the constitution clearly
shows that she is only a puppet of the US and its western allies”.
www.freeburmacoalition.org
83
Zarni originario di Mandalay, eletto deputato nel 1990, non ha mai potuto ricoprire
alcun incarico istituzionale a causa del colpo di governo dei Generali. Zarni è oggi
ricercatore sulla trasformazione democratica presso il Dipartimento di Sviluppo
Internazionale della Oxford University. Nel 1995 durante il suo esilio dalla Birmania
ha fondato insieme ad altri intellettuali e dissidenti esiliati la “Free Burma Coalition”.
127
La sua analisi del processo democratico in atto in Birmania è disponibile su
http://www.taz.de/1/politik/asien/artikel/1/in-birma-ist-viel-geduldgefragt/?src=SZ&cHash=5a1773a35f
84
Amnesty International Briefing Paper, 9 May 2008
Myanmar: Constitutional referendum flouts human rights, disponibile su
www.amnesty.it
128
CAPITOLO III
INTRODUZIONE:
1La Corte Penale Internazionale: un traguardo o un punto di partenza?
L’ipotesi d’intraprendere un’azione penale internazionale contro la Birmania è
plausibile oltre che legittima ai sensi del Diritto Internazionale vigente.
Il deferimento della condotta degli organi di governo birmani al sindacato della
Corte Penale Internazionale rappresenterebbe la tanto agognata risposta alla
domanda di giustizia che si contrappone alla cultura dell'impunità.
Per comprendere appieno la portata che una azione ai sensi del Diritto penale
Internazionale rivestirebbe occorre fare alcune premesse sulla Corte Penale
Internazionale (CPI), la cui istituzione è stata salutata dai cultori del Diritto
Internazionale come la messa in opera, a livello sovranazionale, del principio di
uguaglianza di fronte alla legge. In essa, dunque, si vedrebbe concretizzato lo
sforzo di imporre, anche in ambito sovranazionale, la forza del diritto contro il
diritto del più forte. Secondo i più, infatti, la nascita della prima giurisdizione
penale internazionale a competenza "universale" ed a carattere permanente, con
giurisdizione anche sugli individui, può essere vista come la realizzazione pratica
di un antico ideale: vincolare il potere sovrano a rispettare (anche in tempo di
guerra) regole minime di convivenza o di civiltà. Effettivamente, l'idea di
ricorrere ad istituzioni giurisdizionali internazionali per perseguire i più gravi
crimini commessi da individui è tutt’altro che recente, sebbene solo nel corso del
128
XX secolo il cosiddetto "internazionalismo giudiziario" inizia a trovare
applicazione1, trovando infine nell'adozione dello Statuto della Corte Penale
Internazionale la sua massima e più compiuta espressione.
Un momento certamente importante per la futura affermazione della
giurisdizione penale internazionale è stato rappresentato dall'instaurazione dei
Tribunali Militari Internazionali di Norimberga (istituito con il “London
Agreement” dell' 8 agosto 1945) e del Tribunale Internazionale Militare per
l'Estremo Oriente o Tribunale di Tokyo (istituito con Ordinanza del Comandante
Supremo delle Forze Alleate in Medio Oriente, Mac Arthur, il 19 gennaio 1946).
Sorti come risposta alle atrocità della Seconda Guerra Mondiale, i Tribunali di
Norimberga e di Tokyo furono dotati di competenza sui crimini contro la pace,
crimini di guerra e crimini contro l'umanità, costituendo una pietra miliare
nell'affermazione
di
alcuni
fondamentali
principi
di
giustizia
penale
internazionale2. Fu allora, infatti, che fu affermato il principio di responsabilità
penale individuale per le più gravi violazioni del diritto internazionale
umanitario, anche quando il comportamento in questione non fosse vietato dalla
normativa nazionale (principio II), o anche nel caso in cui si fosse agito per dar
esecuzione ad ordini superiori (principio IV)3. Certamente, pur riconoscendo i
meriti dell’operato di tali due Tribunali, non si può negare che essi presentassero
una sorta di parzialità congenita (ne è un esempio il fatto che non ebbero
giurisdizione sui crimini commessi dagli Alleati). Essi costituivano in ultima
analisi organismi solo limitatamente internazionali, in quanto rappresentativi di
una parte minoritaria (anche se politicamente predominante) della comunità
internazionale, costituiti post factum (e dunque in contrasto con il fondamentale
129
principio di irretroattività della legge penale) e operanti sotto la spinta di un
pesante condizionamento politico. Dopo l’esperienza dei Tribunali di
Norimberga e di Tokyo, bollati, a torto o a ragione, come organi di parte o
strumenti di una giustizia politica dei vincitori sui vinti, un ulteriore tassello sulla
via dello sviluppo di una giurisdizione penale universale e della codificazione di
norme penali internazionali è stato rappresentato dalla istituzione di due tribunali
ad hoc: il Tribunale per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia, creato nel 1993,
con sede all’Aja e il Tribunale per i crimini commessi in Ruanda, istituito nel
1994, con sede ad Arusha, Tanzania. Questi, a differenza dei primi due, non
furono istituiti su base pattizia bensì tramite risoluzione del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite (che come noto è abilitato a intraprendere una
simile decisione dal Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite)4. Peraltro, il
fatto che l’istituzione
di tali Tribunali sia stata voluta dall’intera comunità
internazionale è un ulteriore sintomo di come questa consideri le massicce
violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario come atti pericolosi per la
pace e la sicurezza internazionale.
Con l’entrata in vigore dello Statuto della Corte Penale Internazionale5, gli sforzi
storici nel senso dell’affermazione della giurisdizione penale internazionale
universale ed a carattere permanente sembrerebbero coronati. Il fatto che un
organismo internazionale a giurisdizione universale abbia la possibilità,
attraverso l'applicazione del principio aut dedere aut iudicare, di sostituirsi
sistematicamente ed automaticamente ai giudici nazionali nella giurisdizione
penale, un ambito che è espressione della sovranità nazionale per eccellenza, è
certamente rivoluzionario. Così come lo è l’affermazione in positivo
130
dell’innovativo principio della responsabilità penale internazionale radicata anche
in capo agli individui - organi statali6. È evidente come l'istituzione di un organo
giurisdizionale internazionale permanente che giudicherà nel rispetto dei principi
nullum crimen e nulla poena sine lege, costituisca un fondamentale passo verso
una compiuta legalità internazionale, realizzando così una delle precondizioni per
la pace fra i popoli. Tuttavia come gli eventi ci hanno mostrato, a dieci anni dalla
stesura dello Statuto di Roma, la nascita della Corte Penale Internazionale non ha
significato ipso facto la creazione di un nuovo ordine internazionale pacifico e
giusto, ma i tentativi di fondare un sistema di legalità internazionale devono
ancora oggi fare i conti con i rapporti di forza in atto e con l’impunità prevalente
tra gli attori statali. L’istituzione della giurisdizione penale della Corte, lungi dal
dare realizzazione all’ideale di “Pace attraverso il diritto”7 non potrà definirsi
davvero universale finché
gli
Stati
non accetteranno
di
sottoporvisi
definitivamente e una volta per tutte, rendendone i meccanismi giuridici più
efficienti di quanto non siano adesso. In poche parole, occorre un maggiore
sforzo da parte della Comunità internazionale affinché la giustizia penale
universale sia realmente effettiva. Ci si augura in sostanza che l’affermazione di
un alto diplomatico italiano, in missione presso le Nazioni Unite: "Attraverso la
realizzazione della Corte Penale Internazionale la comunità internazionale
sembra avviata, attraverso il progressivo abbandono di una cultura dell'impunità,
verso l'acquisizione di una maggiore responsabilità"8, possa rivelare un carattere
premonitore.
131
Azioni a norma del Diritto Penale Internazionale:
2 La Giunta Militare sul Banco degli Accusati.
La facoltà di agire in giudizio ai sensi delle norme di Diritto penale
Internazionale, ovvero i presupposti per una azione che possa sfociare in un
processo davanti alla Corte Penale Internazionale, sono disciplinate dallo Statuto
di Roma9. Questo prevede che la giurisdizione della Corte sia attivata nel caso di
crimini internazionali riferendosi a quei fatti definiti come tali dallo stesso
Statuto: crimini di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra,
aggressione. Ai sensi dell’art. 5 dello Statuto tali atti sono considerati “motivo di
allarme per l’intera comunità internazionale”. Di rado si presentano crimini di
tale portata in modo isolato, anzi, questi sono spesso compiuti continuativamente
nel corso di eventi traumatici come l’avvento di governi dittatoriali che
sovvertono il potere costituzionale e le istituzioni democratiche. Il fatto che tali
crimini siano oggi giustiziabili, ovvero sanzionabili in via processuale, rende
l’instaurazione del giudizio dinanzi alla Corte Penale Internazionale e, dunque, la
sottoposizione a processo dei presunti colpevoli, assolutamente legittima in
conformità alle norme internazionali vigenti.
Ciò che più preme in questa sede, oltre che ribadire la sussistenza degli estremi
per un processo, è l’individuazione di quegli attori che dovrebbero attivarsi
affinché il giudizio penale abbia luogo.
132
2.1 La Giurisdizione Ratione Personae.
L’affermarsi del citato principio di responsabilità penale internazionale
individuale, autorizza la Corte a fare oggetto del proprio giudizio le persone
fisiche alle quali siano imputati atti penalmente rilevanti (sempre, s’intende,
laddove i crimini siano stati commessi dopo l’entrata in vigore dello Statuto, in
osservanza al principio di irretroattività della legge penale, art. 24) ai sensi del
Diritto penale Internazionale. Ciò implica, dunque, che anche (e oserei dire
soprattutto) il cosiddetto individuo-organo sia penalmente perseguibile dinanzi
alla Corte. Proprio il combinato disposto dagli artt. 1 e 25 dello Statuto di Roma
stabilisce che la Corte Penale Internazionale “eserciti il suo potere giurisdizionale
sulle persone fisiche per i più gravi crimini di portata internazionale, in
conformità al presente Statuto”. Al secondo comma l’art. 25 chiarisce che
“Chiunque commette un reato sottoposto alla giurisdizione della Corte è
individualmente responsabile e può essere punito”; inoltre, le successive
disposizioni del medesimo articolo precisano ulteriormente la competenza della
Corte sugli individui. Essa viene esercitata non soltanto sulla persona che
commetta materialmente, a titolo individuale o insieme ad altri, il reato [art. 25,
lettera a)], ma è parimenti punibile colui che ordina, sollecita o incoraggia o
ancora fornisce il suo aiuto, la sua partecipazione o ogni altra forma di assistenza
allo scopo di agevolare la perpetrazione del reato o che vi contribuisca
intenzionalmente in ogni altra maniera [art. 25, lettere b), c), d)]. Evidentemente,
l’intenzione che traspare dalle suddette disposizioni è quella di punire, oltre agli
autori materiali, gli istigatori, ivi inclusi coloro che mettono a disposizione i
133
mezzi per il compimento dei suddetti crimini. Inoltre, il legislatore internazionale
si è premurato di disciplinare la punibilità del “tentativo di perpetrazione del
reato” e dell’ “inizio di esecuzione” ove la circostanza che il progetto criminale
non sia stato portato a termine prescinda dalla volontà dell’individuo [art. 25,
lettere b), f)]10. Proprio le espresse previsioni ex art. 25 alimentano la legittimità
di un’azione che sia intrapresa direttamente nei confronti degli alti livelli dello
SPDC che, come documentato, hanno fatto di talune pratiche contemplate dallo
Statuto alla stregua di crimini contro l’umanità, una vera e propria “state
policy”11. Del resto, non vi è da stupirsi dal momento che, come la prassi ha
frequentemente mostrato, i più gravi atti di genocidio, tortura, sparizioni forzate di
persone, sono stati sovente commissionati proprio dagli organi di governo in
attuazione di precise strategie di annientamento e politiche del terrore12.
2.2 Possibili Estremi dell’Imputazione.
I crimini menzionati sono suscettibili di costituire dei capi d’imputazione
particolarmente gravi, sia per quanto riguarda la violazione del Diritto
internazionale umanitario contenuto nelle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia
con riferimento alla violazione di norme internazionali di jus cogens, sia per
violazione del principio di “responsibility to protect”. Il fatto che tali
comportamenti oltre che per la contrarietà al Diritto Internazionale, generale e
convenzionale, si caratterizzino oggi per la rilevanza penale, offre nuove frecce
all’arco della Comunità internazionale. Lo Statuto di Roma definisce chiaramente
quali fatti, e quali condizioni, siano idonei ad attivare la giurisdizione della Corte
134
in quanto rientranti in una delle fattispecie da esso contemplate. In relazione al
caso birmano, le disposizioni maggiormente rilevanti ai fini di un’azione
giudiziaria in sede penale sono quelle ex artt. 6 e 7 intitolati, rispettivamente, ai
crimini di genocidio e crimini contro l’umanità.
In relazione alla fattispecie contemplata all’art. 6, possiamo affermare, senza
tema di smentite, che la condotta della giunta si è caratterizzata fin dall’inizio per
i gravi massacri perpetrati ai danni delle minoranze presenti sul suolo birmano,
atti riconducibili ad un vero e proprio progetto di pulizia etnica, e rientranti
appunto nella definizione di “atti commessi nell’intento di distruggere in tutto o
in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
Nello specifico, gli atti di attacco contro i gruppi etnici, come rilevato al Capitolo
I, hanno assunto la forma di: uccisione di membri appartenenti alle minoranze
etniche -fattispecie contemplata all’art. 6, lettera a)- inflizione agli stessi di gravi
lesioni all’integrità fisica o psichica -fattispecie sub lettera b)- sottoposizione
deliberata di persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da
comportare la distruzione fisica, totale o parziale del gruppo stesso (ex lettera
c)13. Si noti, peraltro, come la definizione di cui all’art. 6 sia la stessa già
contemplata dalla Convenzione contro il genocidio del 1948, la cui violazione da
parte del governo birmano è stata precedentemente documentata.
Anche le previsioni contenute all’art. 7 avvalorano la formulazione dell’ipotesi di
responsabilità della giunta militare per crimini contro l’umanità. Innanzitutto,
in base al primo comma dell’art. 7, un atto, tra quelli in seguito elencati, rientra
nella definizione di crimine contro l’umanità “se commesso nell’ambito di un
esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili e con la consapevolezza
135
dell’attacco”. Si è già avuto modo di sostenere (si veda la parte conclusiva del
Capitolo I) che la nozione di attacco esteso sistematico, così come introdotta
dalla Commissione di Diritto Internazionale14, si sposa perfettamente con la
condotta pianificata dallo SPDC. Dunque, ci si dovrà ora soffermare
sull’elemento psicologico, ovvero quello dell’intenzionalità implicitamente
richiesto nella dicitura “con la consapevolezza dell’attacco”. A tal proposito, lo
Statuto della Corte Penale Internazionale annovera tra i principi generali di diritto
penale (molti dei quali sono stati mutuati dagli ordinamenti nazionali), quello
della intenzionalità del soggetto-agente. Secondo tale criterio, un comportamento
materiale può essere sanzionato dalla Corte, solo ove posto in essere
“intenzionalmente” e “con cognizione di causa” (come chiarito dall’art. 3015). Ad
ogni modo, non credo che si possa sollevare l’obiezione di assenza
d’intenzionalità da parte della giunta nell’impartire ordini la cui esecuzione ha
determinato, come conseguenza voluta, atti criminosi. Infine, anche il significato,
cosi come chiarito dallo stesso Statuto, della circostanza di “attacco diretto contro
popolazioni civili” inteso come “reiterata commissione di uno degli atti previsti
in attuazione o in esecuzione di un disegno politico” di un governo, si adatta
chiaramente al caso in esame.
Tornando ai comportamenti che, alle suddette condizioni, l’art. 7 definisce come
atti criminosi, buona parte di questi possono riscontrarsi nella condotta di
governo sino ad oggi tenuta dalla giunta militare. Tuttavia credo sia meglio
circoscrivere la proposta di azione penale contro i Generali dello SPDC a talune
attività criminose la cui qualificazione in termini di crimini contro l’umanità è
stata precedentemente documentata. Tra questi vanno considerate l’ipotesi di:
136
“deportazione e/o trasferimento forzato della popolazione” [art. 7 sub lettera d)]
che si combina a quella di “persecuzione contro un gruppo o una collettività
dotati di propria identità per ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico,
culturale e religioso” (sub lettera h); tali crimini integrano, inoltre, l’autonoma
fattispecie di atti di genocidio [all’art. 6 lettere a), b), c)]. Ancora come crimini
contro l’umanità, si configurano le modalità di trattamento inumano e degradante
a danno dei prigionieri politici e non, e fra queste spiccano casi di:
“imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in
violazione di norme fondamentali di diritto internazionale” (lettera e) e di
“tortura” (lettera d)16. Non a caso la Birmania è stata definita come un enorme
carcere a cielo aperto e le prigioni sono note per i numerosi quanto “misteriosi”
decessi (“extrajudicial killings”) che hanno continuato a verificarsi per tutto il
2008. Sebbene ai nostri occhi ricorrano gli estremi per un’azione penale dinanzi
alla Corte Penale Internazionale, spetterà comunque a quest’ultima, nella persona
del Procuratore, condurre indagini ufficiali per dimostrare la sussistenza di tali
crimini. Questi potrà avvalersi, ai fini della sua opera d’investigazione, della
collaborazione degli Stati e di organizzazioni intergovernative, e inoltre potrà
richiedere informazioni alle ONG e a quelle altre fonti che reputerà attendibili
(art. 15.2). Nel caso della Birmania, proprio le ONG potrebbero svolgere un
ruolo di primaria importanza in ausilio all’attività inquirente del Procuratore
(questi infatti non può reperire da sé le deposizioni dei testimoni, dovendo perciò
basarsi solo su quelle deposizioni scritte o orali ricevute presso la sede della
Corte all’Aja - come stabilito art. 15.2 - contribuendo a dar prova della veridicità
delle accuse mosse contro lo SPDC. Come noto, i reports redatti dalle ONG sono
137
molto dettagliati, con precisi riferimenti nominali, geografici e temporali. Sempre
ai fini della conduzione di una seria azione investigativa, Janet Benshoof,
Presidente del Centro di Giustizia Globale (Global Justice Center), ha suggerito
l’utilizzo di una Commissione di Esperti istituita ad hoc con risoluzione del
Consiglio di Sicurezza17. Anche l’OIL ha valutato l’opportunità di fornire al
Procuratore, attraverso il Consiglio di Sicurezza, tutte le informazioni tese a
dimostrare che le pratiche di lavoro forzato attuate in Birmania sono appunto
penalmente rilevanti ai sensi dello Statuto della Corte18. Oltre alla circostanza che
il Procuratore avvii le indagini di propria iniziativa (facoltà prevista
espressamente dall’art. 15), cosa che rappresenterebbe il più auspicabile degli
sviluppi per la questione birmana, vanno considerate ulteriori eventualità. In
effetti, ad oggi i tempi per un’azione d’ufficio del Procuratore della Corte Penale
Internazionale non sembrano ancora maturi, e inoltre, senza un adeguato
supporto da parte degli Stati la sua attività di indagine può proseguire solo fino a
un certo punto. Dovrà, dunque, valutarsi la possibilità che l’attenzione della
Corte sui crimini commessi in Birmania sia sollevata da terzi a ciò abilitati in
conformità al suo Statuto.
2.3 Coscienza Giuridica versus Ragion di Stato.
Come detto, esistono delle norme internazionali che definiscono e condannano i
crimina juris gentium: trattasi delle Convenzioni di Ginevra del 1949 che però
vengono spesso eluse malgrado quasi tutti gli Stati del mondo le abbiano
ratificate. Tali Convenzioni prevedono il diritto ed il dovere di ogni Stato parte di
138
istituire procedimenti penali contro persone che abbiano commesso gravi crimini
contro l’umanità. Anche in ossequio al principio di giurisdizione universale
qualsiasi Stato può, o addirittura deve, attivarsi per punire i crimini
internazionali, sollevando la giurisdizione della Corte: questo è infatti quanto si
conviene secondo un principio generale di diritto penale non internazionale ma
universale19. Del resto, come rilevato a seguito della violazione di norme
imperative, ogni membro della Comunità internazionale è autorizzato a ritenersi
leso nel suo interesse a che tali norme siano rispettate anche laddove la
violazione in questione non li colpisca direttamente. Dunque, anche ai sensi del
Diritto Internazionale generale, a fronte di crimini contro l’umanità il dirittodovere di reagire s’impone erga omnes.
Alla luce di quanto detto, ogni membro della comunità internazionale sembra
abilitato, dunque, a sollevare i profili di rilevanza penale delle azioni criminose
commesse dagli esponenti della giunta. Anzi, proprio affinché questa possa
mantenere se non un minimo di credibilità almeno un minimo di coerenza, gli
Stati, singolarmente o riuniti in un’Organizzazione Internazionale a vocazione
regionale o universale, dovrebbero passare dalle enunciazioni teoriche ai fatti.
Questo significa opporre la forza del diritto contro il diritto del più forte.
Lo Statuto di Roma pone determinate condizioni di procedibilità all’esercizio del
potere giurisdizionale della Corte, la cui attivazione dipende molto da quanto gli
Stati siano disposti ad esporsi. L’art. 13 (a) prevede che la Corte eserciti la
propria giurisdizione nel caso in cui uno Stato Parte segnali la commissione di
uno o più crimini di competenza della Corte stessa, lo Stato in questione
richiederà al Procuratore di effettuare indagini su tale situazione al fine di
139
determinare la fondatezza delle accuse (art. 14). In un contesto in cui già
l’attuazione di sanzioni o semplicemente di prese di posizione non ambigue,
richiede uno sforzo non indifferente, la circostanza che la coscienza giuridica
prevalga sulla ragion di Stato è quanto meno inverosimile. Tuttavia, laddove gli
Stati singolarmente non riterranno opportuno sobbarcarsi un tale peso, è più
probabile che siano stimolati ad agire riuniti in Organizzazioni intergovernative.
Resta, dunque, la possibilità che sia il Consiglio di Sicurezza ad attivare la
giurisdizione della Corte (ipotesi espressamente contemplata all’art 13, lettera b),
agendo a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.
Come già la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia, anche quella
della Corte Penale Internazionale non è attivabile su richiesta di attori non
governativi; tuttavia gli attori non statali possono sollecitare e premere su quei
soggetti che, in conformità allo Statuto, possono attivarne la giurisdizione. In
effetti, in una lettera aperta, recante la firma delle principali organizzazioni di
rappresentanza del popolo birmano20, il Segretario Generale e gli Stati Membri
dell’ONU vengono esortati e evidenziare dinanzi alla Corte Penale Internazionale
la diffusione di crimini contro l’umanità nell’intera Birmania. Soprattutto
meritoria in tal senso è l’attività svolta dal Burma's Lawyers Council (BLC) che,
proprio attenendosi a profili strettamente giuridici, ha formulato molteplici
ipotesi di soluzioni giudiziarie al caso della Birmania e la possibilità di azione
penale internazionale è appunto tra queste21. Di certo anche altre ONG
soprattutto quelle
e
che godono di maggiore visibilità (quali Amnesty
International, Human Rights Watch, il Comitato Internazionale della Croce
Rossa) dovrebbero fare proprio l’appello per la sottoposizione della giunta a
140
procedimento penale, contribuendo a esercitare pressione sugli Stati e sull’ONU,
affinché venga data risposta alla sete di giustizia oggi avvertita più che mai.
Proprio le ONG potrebbero incarnare quell’ideale di coscienza di cui la Comunità
internazionale e le sue entità primigenie, ovvero gli Stati, sono prive per
definizione.
2. 4 L’Ago della Bilancia: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Ulteriori fattori di notevole rilevanza s’inseriscono nel quadro finora tracciato.
Come detto, a fronte del verificarsi di una delle condizioni a procedere ex art. 13
dello Statuto, la Corte Penale Internazionale potrà investigare sugli atti di
genocidio e crimini contro l’umanità accaduti dopo il primo luglio 2002, ossia a
partire dalla data di entrata in vigore dello Statuto (si ricordi la competenza
ratione temporis, art. 11). Tuttavia, non può essere trascurato un semplice fatto:
la Birmania non è uno Stato Parte dello Statuto di Roma, in quanto la giunta si è
rifiutata di aderirvi. Proprio per questo, solo una risoluzione del Consiglio di
Sicurezza può assicurare che i suddetti crimini siano giudicati dinanzi alla Corte,
permettendo di superare il limite della competenza per così dire ratione loci di
cui all’art. 1222. Anche secondo il Segretario Generale del Burma's Lawyers
Council, Aung Htoo, sarebbe necessario appellarsi ai principi generali di Diritto
Internazionale in materia di crimini contro l’umanità e al Consiglio di Sicurezza
affinché invochi la giurisdizione della Corte -art. 13, lettera b). L’incentivo ad
intraprendere una simile decisione è fornito sulla scorta di un illustre precedente,
per cui quello della Birmania non sarebbe l’unico caso di azione contro uno Stato
141
non firmatario dello Statuto. Una circostanza del genere si è già verificata nel
2005 ed ha riguardato lo Stato del Sudan, dove, gli atroci crimini commessi nella
regione del Darfur hanno richiamato, opportunamente, la necessità di un’azione
della Corte Penale Internazionale. Pur non essendo il Sudan firmatario dello
Statuto di Roma, il suo Presidente, Omar El Bashir, è stato inquisito (ed è oggi
vicino alla condanna) per i gravi crimini perpetrati nel Darfur proprio in forza di
una decisione del Consiglio di Sicurezza. Quest’ultimo infatti, tramite
risoluzione23 ha rimesso la situazione della martoriata regione sudanese al
Procuratore della Corte. Peraltro, in tal caso, furono proprio le ONG pro-diritti
umani a fornire e documentare le evidenze di presunti crimini e ad invitare
l’ONU ad agire. Certamente la sussistenza di un precedente fa ben sperare e
soprattutto mostra come l’azione del Consiglio di Sicurezza, in talune circostanze
-come quella della Birmania che manca dei requisiti di territorialità e nazionalità,
che devono ricorrere a norma dell’art 12.2, lettere a), b)- rivesta un peso
determinante. Tale ruolo decisivo può essere giocato dal Consiglio tanto in
positivo quanto in negativo e ciò è vero soprattutto con riferimento all’azione
giurisdizionale della Corte. Basti dire che così come il Consiglio ha facoltà di
dare avvio alle attività d’indagine e al giudizio penale, può anche, a suo
piacimento, decretarne la sospensione.
In verità, il pericolo di condizionamento politico dell'azione della Corte emerge
dallo stesso Statuto di Roma. Infatti, l'art. 16 attribuisce al Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite un vero e proprio diritto di veto, potenzialmente permanente,
sull'attività investigativa e/o giurisdizionale della Corte. Il Consiglio può infatti,
con apposita risoluzione, impedire l’avvio o la prosecuzione dell’azione
142
investigativa o penale della Corte, nonché decidere di prorogare gli effetti
sospensivi della risoluzione stessa. Probabilmente la norma di cui all’art. 16
riflette la difficoltà di associare la giustizia penale internazionale ed il
mantenimento della pace e, ad ogni modo, la citata disposizione fornisce
all'organo delle Nazioni Unite una prerogativa di difficile compatibilità con
l'indipendenza della Corte proclamata nello stesso Preambolo dello Statuto,
nonché richiamata da diverse disposizioni statutarie. Il pericolo che il
meccanismo di cui all'art. 16 renda la giustizia penale internazionale ostaggio dei
veti del Consiglio di Sicurezza è ancora più preoccupante visto che tale
meccanismo è stato utilizzato sin da subito, già a pochi giorni dall'entrata in
vigore dello Statuto stesso24. Inoltre, soprattutto con riferimento al caso qui in
esame, tali veti restano più che mai in agguato.
2.5 Limiti all’azione della Corte Penale Internazionale.
Anche nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza decidesse di rivolgere
pubblicamente un J’accuse alla giunta birmana, potrebbero sorgere nuovi e
ulteriori impedimenti connessi alla natura intrinseca della Corte. Allo stato
attuale, l’avvio di un procedimento penale o dell’azione investigativa non offre
sufficienti garanzie di pervenire a un giudizio o meglio ancora ad un verdetto di
condanna e, inoltre, laddove una sentenza fosse emanata, non si può essere certi
che sia portata ad esecuzione. La debolezza intrinseca della Corte Penale
Internazionale si scontra, nei fatti, con la forza connaturata al principio di
sovranità degli Stati.
143
Come detto, la competenza della Corte si esercita sulle persone fisiche e lo
Statuto sancisce l’irrilevanza della qualifica di organi statali o di governo o di
capi militari, dunque, gli istituti d’immunità generalmente previsti per queste
figure non impediscono alla Corte di esercitare la propria giurisdizione. L’art. 27
prevede espressamente che la qualifica ufficiale “non esonera in alcun caso una
persona dalla sua responsabilità penale.......e non costituisce in quanto tale motivo
di riduzione della pena”. Quanto detto vale certamente sul piano del diritto penale
sostanziale, ma non vale altrettanto sul piano della persecuzione dei crimini, sul
piano, per così dire, processuale. All'irrilevanza delle varie immunità si affianca
un altro istituto fondamentale: il divieto del procedimento in contumacia. Da qui
discende il principale limite dello Statuto della Corte, ovvero il non avere a
propria disposizione una polizia giudiziaria per raccogliere le prove, convocare i
testimoni o condurli con la forza, ma soprattutto per arrestare gli imputati. I
crimini che la Corte è chiamata a giudicare sono stati commessi da persone che
risiedono in territorio di Stati sovrani (in cui si trovano pure le prove), ma il
Procuratore o il giudice internazionale non può mandare nessuno ad interrogare
testimoni né tanto meno a prelevare l’imputato: questo è dunque il grosso limite
della Corte Penale Internazionale rispetto a qualsiasi altro Tribunale Penale.
L’inammissibilità del processo in contumacia implica che l’imputato debba
essere presente al dibattimento, a tal uopo, la Corte (e in specie la Camera
preliminare su richiesta del Procuratore -art. 58) emette un ordine di
comparizione accompagnato da un mandato d’arresto. Solo con l’arresto e la
consegna del presunto responsabile si può passare dalla fase d’inchiesta
preliminare ad un rinvio a giudizio (previa convalida delle accuse, s’intende); in
144
caso contrario, cioè ove l’imputato non sia stato consegnato alla Corte, né si sia
presentato spontaneamente, si può arrivare al massimo fino alla messa in stato
d'accusa, poi inevitabilmente ci si blocca25. Non a caso lo Statuto di Roma ha
espressamente previsto l’obbligo generale per gli Stati di prestare la piena
cooperazione e assistenza giudiziaria (art. 86 e ss.) alla Corte. Tale
collaborazione è essenziale soprattutto per dare esecuzione alle ordinanze di
consegna, ovvero, per trascinare i presunti colpevoli dinanzi alla Corte.
Proprio il meccanismo del procedimento in contumacia dimostra chiaramente
come non sia possibile processare coloro che attualmente gestiscono il potere;
occorrerebbe prima arrestarli, in quanto è impensabile che si presentino
volontariamente (in tal caso sarebbero questi a decidere che il processo abbia
luogo)26. Capiamo bene, dunque, come per portare i “Macellai di Rangoon”
dinanzi alla Corte, è necessario estinguere il loro potere e per ottenere ciò non
basta, ovviamente, la sentenza di una Corte penale o di un giudice internazionale,
ma sarebbero necessari una rivoluzione interna o un cambiamento che altri Stati
o Organizzazioni fomentino dall’esterno. Lo stato di cose attuale deve (e può)
cambiare attraverso l’azione complementare di attori interni ed esterni che si
assumano l’onere (e l’onore) di appoggiare concretamente il cambiamento del
regime. Dunque se ci chiediamo che ne sarà di chi ha commesso gravi crimini,
che ne sarà dei membri della giunta, che ne sarà di chi è rimasto fino ad ora
impunito, la risposta dipenderà da quanto s’investirà (economicamente, ma
soprattutto politicamente) sulle operazioni di polizia internazionale preposte alla
cattura dei presunti criminali. Se è chiaro, dunque, che un mondo civile e
democratico deve reagire con l’arresto e con il processo, è altrettanto chiaro che
145
allo stato presente, ciò che ci viene offerto dal Diritto penale Internazionale è, né
più né meno, la concessione che gli autori di gravissimi crimini internazionali
corrano il rischio di essere puniti quando abbiano perso il potere che detenevano.
Evidentemente questo sistema è infruttuoso: rende i termini della giustizia
internazionale particolarmente lunghi (anche se va detto che per i crimini
internazionali non è prevista la prescrittibilità) e non realizza ex ante esigenze di
prevenzione generale, ma configura semmai la probabilità che si concretizzi una
punizione ex post, cosa comunque di non trascurabile rilievo sul piano simbolico
e morale. Quanto detto permette di rendersi conto del fatto che la politica del
Diritto penale Internazionale è ancora troppo forte rispetto al diritto della politica
internazionale e al diritto penale27.
A fronte dunque della formalmente proclamata indipendenza e imparzialità della
Corte Penale Internazionale, la sua azione rischia di rivelarsi parziale e
condizionata dalla volontà sovrana degli Stati. Dunque, il dissidio tra effettività e
idealità del sistema di giustizia penale internazionale sembra ancora lontano
dall’essere ricomposto. La scelta di mettere la Corte in condizione di punire i
colpevoli, così come la scelta di portarne ad esecuzione le decisioni, dipende
dalla volontà degli Stati. In parole povere, come sottolineato da Cassese, il
giudice internazionale “dipende dalla cooperazione degli Stati. Ma certi Stati
collaborano ed altri si rifiutano di farlo. Vige ancora il principio della sovranità
degli Stati”28. Così come è, il sistema di giurisdizione penale internazionale
appare imbrigliato dalla rete dei rapporti attuali di forza. Oggi la bilancia della
giustizia internazionale pende pericolosamente dalla parte degli Stati (e di alcuni
più di altri). In questo contesto, la punizione dei criminali rischia di essere non un
146
“atto di giustizia”, bensì “la prosecuzione delle ostilità o di politiche
particolaristiche in forme apparentemente giudiziarie”29. Non possono essere gli
Stati a decidere in quali casi la norma penale internazionale va fatta funzionare e
in quali no. Occorre, dunque, impegnarsi per assicurare quanta più effettività
possibile fino a che non sarà fatta salva la natura giuridica, nelle componenti di
generalità e astrattezza, delle norme punitive, consentendo finalmente il
raggiungimento di una giustizia penale imparziale e universale.
3 L’Universalità della Giurisdizione: Iniziative Giudiziarie Complementari da
Parte di Stati Terzi.
Come premesso, dopo l’esperienza di Norimberga e Tokyo, prende forza l’idea di
un processo internazionale come strumento complementare ai Tribunali interni. I
tribunali Penali internazionali subentrano quando quelli interni non vengono
attivati nei confronti di un presunto responsabile di crimini contro l’umanità,
crimini di guerra e genocidio. La giurisdizione internazionale della Corte Penale
Internazionale é complementare alle giurisdizioni penali nazionali, come
espressamente sancito dall’art. 1 dello Statuto di Roma. Ciò va a conferma del
fatto che oggi la giustizia più idonea agli Stati democratici di diritto è quella del
giusto processo in un Tribunale nazionale o internazionale.
Quando i fatti penalmente rilevanti sono di carattere universale, tali da
trascendere gli interessi del singolo Stato, ovvero si tratta di crimini
internazionali, il diritto consuetudinario attribuisce agli Stati la facoltà di agire
anche in mancanza di una lesione materiale e diretta. Se, dunque,
147
tradizionalmente gli Stati giudicavano davanti ai propri tribunali i presunti
responsabili di crimini internazionali sulla base dei criteri di territorialità, di
nazionalità attiva e di nazionalità passiva, oggi si è invece affermato il principio
di universalità. Secondo tale principio, ogni Stato ha il potere di processare le
persone accusate di crimini internazionali, quali che siano il luogo di
commissione del reato, la nazionalità dell’accusato o quella della vittima. Come
sottolineato da Cassese, il principio di universalità è pienamente legittimo dal
punto di vista giuridico dal momento che la ratio che informa tale principio è
riconducibile a due considerazioni: la prima è che i crimini rispetto ai quali tale
giurisdizione può essere esercitata sono talmente gravi e di portata così estesa da
meritare una forma universale di perseguimento e di repressione; la seconda
consiste nel fatto che l’esercizio di tale forma di giurisdizione non comporta una
violazione del principio di uguaglianza sovrana degli Stati, né un’indebita
interferenza negli affari interni dello Stato in cui il delitto è stato commesso 30. Se
dunque un fatto lesivo degli interessi dell'umanità potrebbe essere punito per
mezzo di organi internazionali, separati ed indipendenti dai singoli Stati (e questo
è certamente un sistema auspicabile), nulla vieta che uno Stato organizzi i suoi
tribunali in modo tale da applicare la norma penale universale, ovviamente ove e
per quanto possibile.
La prassi giurisdizionale interna e internazionale è ricca in entrambi i sensi: a
fronte di casi in cui Tribunali Internazionali si sostituiscono ai Tribunali interni
inadempienti (pensiamo ai Tribunali ad hoc per giudicare i crimini commessi
nell’ex-Jugoslavia e in Rwanda o, ancora, all’esempio della Corte Interamericana
dei diritti dell’uomo a S. Josè di Costa Rica nel caso Barrios Altos contro il
148
Perù), non mancano casi in cui i giudici nazionali hanno dato risposta ad
esigenze di giustizia avvertite da tutta la Comunità internazionale cercando di
supplire all’inerzia degli organi internazionali (uno su tutti l’esempio della
Camera dei Lord nel caso Pinochet e l’iniziativa spagnola sempre contro
Pinochet quando fu rilevato il coinvolgimento di cittadini spagnoli).
Emergono anche casi di Tribunali con duplice giurisdizione: si pensi alla Corte
Speciale per la Sierra Leone istituita nel 2002 in seguito ad un accordo tra le
Nazioni Unite e il governo di tale paese (tale Corte è stata chiamata a
pronunciarsi sia sulle violazioni del Diritto Internazionale umanitario sia sulle
violazioni delle leggi di detto paese commesse durante la guerra civile del 1996).
Alla luce di quanto riportato nella prima parte di questo lavoro l’ipotesi che le
corti penali birmane si facciano carico del processo contro gli esponenti della
giunta
militare non è neppure lontanamente considerabile. Come rilevato, i
magistrati sono dei fantocci nelle mani dei Generali, i processi solo dei pallidi
simulacri di diritto, l’indipendenza e autonomia del potere giudiziario una mera
illusione. Non è un caso che gli esponenti della società civile birmana abbiano
deciso di rivolgersi altrove, alla Corte Penale Internazionale ma non solo.
I cittadini birmani in esilio, che hanno trovato rifugio in vari paesi occidentali,
hanno intrapreso azioni legali contro i responsabili di crimini internazionali
commessi in Birmania. Va ricordato che per potere accogliere simili istanze,
ovvero per esercitare l’azione penale nei confronti di un reato commesso su un
territorio diverso da quello del giudice procedente, alcuni Paesi hanno varato
norme di giurisdizione universale. Tali
previsioni normative, appunto, li
autorizzano a giudicare i crimini più efferati, quali genocidio e crimini contro
149
l’umanità. Queste norme esistono oggi negli Stati Uniti (dove il Congresso ha
varato l'AlienTort Claim Act e il Torture Victim Protection Act), in Francia (legge
92-682 del 22 luglio 1992) per crimini contro l’umanità e genocidio, nel Regno
Unito (War Crimes Act del 1991, che tuttavia presenta limitazioni spaziali e
temporali) per crimini di guerra, in Spagna, dove la vigenza del principio di
universalità è corroborata da una serie di sentenze da parte dei giudici
costituzionali e nazionali (Corte costituzionale spagnola con sentenza del 10
febbraio 1997, e la Corte nazionale con l’ordinanza del 4 novembre 1998 e la
sentenza del 19 aprile 2005).
Per quanto riguarda il caso al nostro esame, è stato il Belgio a dar seguito alle
pretese legali di alcuni rifugiati birmani. Infatti, proprio un tribunale belga ha
dato seguito nel 2002 ad un’azione civile riguardante la Birmania31. A tal
proposito si ricordi che il Belgio ha varato sin dagli anni ’90 delle leggi interne
che ne affermano l’universalità della giurisdizione (legge del 16 giugno 1993,
successivamente modificata con legge del 10 febbraio 1999, che sancisce la
giurisdizione per genocidio e
crimini contro l’umanità), anche se più
recentemente (legge 5 dell’agosto 2003) ferma restando per la giurisdizione
civile, la cosiddetta competenza universale è stata ristretta e, subordinata a taluni
criteri, per quanto riguarda la giurisdizione penale.
Il procedimento civile avviato dal Belgio ha ad oggetto “Crimes against
Humanity and complicity in Crimes against Humanity committed in Burma”, ed
è stato intrapreso sulla base della denuncia presentata da quattro esiliati birmani.
L’azione è tutt’oggi in corso in sede civile contro “ignoti”, contro
TOTALFINAELF S.A. e contro due alti dirigenti della compagnia: MM. Thierry
150
Desmarest e Herve Madeo32. Il Tribunale belga ha prevedibilmente incontrato
alcuni ostacoli e la situazione è stata sottoposta a riesame in gennaio 2008. La
sessione del riesame, tuttavia non ha potuto investigare su quei diretti autori dei
crimini, che non sono stati indicati nominalmente dai querelanti (perciò tutt’ora
rimane aperto un procedimento contro ignoti)33. Certamente la possibilità che
un’azione giurisdizionale nazionale possa approdare ad una soluzione della
complessiva questione birmana è estremamente ridotta; ad ogni modo, la
circostanza che Stati terzi avviino simili iniziative è un buon punto di partenza. In
fin dei conti, nessuna delle possibilità di ottenere giustizia per il popolo birmano
deve essere trascurata, e certamente la circostanza che gruppi sparuti di rifugiati
ottengano riparazione e che una parte di colpevoli sia condannata, è di gran lunga
preferibile all’ipotesi in cui nessun cittadino riceva soddisfazione e la totalità dei
crimini rimanga impunita. Certo, si realizzerebbe in tal modo una giustizia non
equa, una giustizia imperfetta e solo in piccola parte effettiva, ma ad ogni modo
preferibile alla completa ingiustizia e iniquità. Al riguardo, il tentativo del
Belgio, seppur suscettibile di portare solo ad una riparazione in termini di
risarcimento, è certamente encomiabile e altri Paesi dovrebbero seguirne
l’esempio. Naturalmente molto dipende, oltre che dalle capacità dei sistemi
giudiziali nazionali, dal fatto che agli Stati difetta la volontà (o la forza) di
contrastare questi crimini. E infatti è accaduto in passato che Stati che
prevedessero in qualche misura una giurisdizione universale, ossia che si
dichiarassero competenti a punire crimini ovunque e da chiunque commessi, si
siano poi mostrati nei fatti recalcitranti a darvi attuazione34.
151
Affinché simili inconvenienti possano essere evitati, bisognerebbe pretendere che
i giudici nazionali ricostruiscano il sistema di giustizia universale e vi si
collochino come giudici investiti dalla intera comunità internazionale e non come
giudici della sola comunità statale, del resto le esigenze di giustizia (così come la
percezione dell’ingiustizia) oltrepassano i confini nazionali per essere avvertite
come tali dall’intera famiglia umana. Ciò che ci si augura, in ultima analisi, è
qualcosa che è già successo nel recente passato: mi riferisco alle sentenze della
House of Lords contro il dittatore cileno Augusto Pinochet35 dove, al di là delle
forme giuridiche, degli escamotage che i giuristi hanno trovato, in sostanza si è
cercato di dare affermazione ad una norma di giustizia universale, riconoscendo
in colui che ha commesso le più turpi violazioni un hostis humani generis.
4 La Sovranità Esclude la Responsabilità ?
L’esigenza di perseguire gli autori di crimini contro l’umanità ha trovato
espressione sia nella istituzione di organi giurisdizionali internazionali con
giurisdizione sugli individui, sia nel riconoscimento in capo ai giudici nazionali
della legittimità ad esercitare la giurisdizione nell’interesse della Comunità
internazionale. Il lungo processo di gestazione delle norme internazionali di
giustizia penale universale è oggi approdato alla creazione di meccanismi di
condanna dei colpevoli che, per quanto farraginosi, incarnano esigenze di
limitazione del potere sovrano. In quest’ottica, “la costituzione della Corte Penale
Internazionale, in fondo, altro non è che un ulteriore tassello nella costruzione di
152
un nuovo ordine internazionale, e la battaglia che attorno alla Corte Penale
Internazionale si sta combattendo è la battaglia sul criterio fondante di tale
ordine: la coscienza dell'interdipendenza nel villaggio planetario, e la
conseguente globalizzazione delle responsabilità, contro l'arroccamento nel
fortilizio dei privilegiati, che sul piano giudiziario dunque gelosamente
custodiscono ed anzi impongono il concetto della (propria) domestic jurisdiction,
rilegittimazione della forza e imperialismo planetario contro uguaglianza di
fronte alla legge internazionale e democrazia globale”36.
Oggi in una Comunità internazionale dove tradizione ed evoluzione
continuamente si confrontano, la creazione della Corte è volta ad assicurare la
risposta rapida e compatta dell’umanità. Gli organi di giurisdizione penale non
sono altro che strumenti internazionali inseriti nel sistema di tutela dei diritti
dell’uomo. La protezione di tali diritti si realizza, dunque, anche per mezzo di
norme e organi che ne assicurino la giustiziabilità e, attraverso strumenti
preventivi adeguati, di cui, però, la comunità internazionale non sembra disporre.
Oggi l’incertezza della sanzione e l’abitudine all’impunità hanno reso gli Stati
per così dire assuefatti di fronte ad ogni tipo di crimine e tolleranti nei confronti
dei più turpi abusi37. Ma, come la storia ci ha insegnato, ci sono dei limiti alla
tolleranza internazionale, al di là dei quali s’intravede lo spettro della
corresponsabilità, ed è per questo che gli Stati devono adempiere al dovere di far
valere i diritti. Il consolidamento del diritto penale internazionale non ha fatto
venir meno gli ostacoli che si frappongono alla persecuzione dei crimini o,
potremmo dire, all’amministrazione della giustizia internazionale, né ha
proceduto allo scardinamento della forza di sovranità degli Stati. Per questo
153
occorre, oggi più che mai, insistere affinché i governanti si assumano le proprie
responsabilità e, agli ideali e ai principi sbandierati facciano seguito delle
decisioni e quindi delle azioni che portino all'effettività della norma. Lo scarto tra
effettività e idealità dei sistemi di giustizia penale internazionale ci impone di
guardare al diritto con spirito pratico e saper cogliere il diritto come
effettivamente è, oltre che come dovrebbe essere secondo ispirazioni ideali. La
lotta per il diritto che bisogna sostenere affinché questi sistemi siano sempre più
efficienti e quindi sempre più effettivi, è lungi dall’essere vinta, tuttavia, alcuni
dogmi sembra che stiano per infrangere: si tratta, appunto, del principio di
sovranità -almeno con riferimento all’affermazione dei diritti umani.
Conclusioni.
Le drammatiche immagini della repressione hanno fatto ridestare la Comunità
internazionale come da un sonno decennale e il mondo ha ricordato che la
Birmania esiste. Oggi, a riflettori spenti, il mondo torna a dimenticare la
Birmania e prevalgono la rassegnazione e l’indifferenza. A poco più di un anno
dalle rivolte, nessun cambiamento significativo sembra essere avvenuto. Nessun
autentico processo politico di transizione, nessuna amnistia per i prigionieri
politici, nessun miglioramento nelle condizioni di vita quotidiana della
popolazione. Continuano i rastrellamenti nei monasteri, le carceri continuano a
riempirsi e Aung San Suu Kyi rimane come sepolta viva nella sua casa.
Nonostante l’inerzia della Comunità internazionale sul fronte birmano, c’è
qualcosa che infonde ottimismo: la lotta degli attivisti fuggiti che continuano a
154
tessere la rete della resistenza, fiduciosi di un futuro autenticamente democratico
per il proprio Paese. Il cambiamento che si auspica è ovviamente un progetto a
lungo termine, perchè se fino ad ora il regime ha avuto la meglio mostrando il
suo volto più cinico e autoritario, esso non potrà continuare ad ignorare che la
Birmania è parte della Comunità internazionale, né continuare a sottrarsi
all’obbligo di rispettare i diritti umani in osservanza ai trattati internazionali che
ha ratificato. Gli strumenti esaminati nel presente lavoro, i mezzi a disposizione
della Comunità internazionale, sono potenzialmente adatti ad approntare
interventi risolutivi sul fronte birmano, ma rimangono complessivamente
inefficaci perchè non sorretti da una seria volontà applicativa. Sempre più
frequentemente gli Stati ricorrono a manovre di facciata diventando degli
specialisti della politica del rinvio, s’indignano dinanzi all’opinione pubblica, per
poi stringere l’occhio ai cosiddetti Stati “aguzzini”, adottano un comportamento
ambiguo volto a mascherarne la volontà negativa. Il tanto acclamato principio di
sovranità degli Stati non è più un valore, ma un pretesto per spregiare le norme
esistenti, fare arretrare la coscienza giuridica e continuare a preservare l’antica
legge del più forte.
Ciò che qui si è inteso dimostrare è che non occorrono nuove norme o trattati, ma
che bisogna far funzionare gli strumenti normativi esistenti, e soprattutto dare
ascolto ai principi che oggi esistono e che esigono rispetto. Occorre, dunque, che
le norme e i principi di tutela dei diritti dell’uomo fuoriescano dalla prospettiva
del dover essere del Diritto Internazionale.
Insomma, la Comunità internazionale è davvero in grado di risolvere anche le
situazioni più gravi semplicemente applicando il Diritto Internazionale. Gli Stati
155
possono stare a disquisire in eterno su come agire, sui diritti, sulle norme, sugli
articoli, sui tribunali e sulle Organizzazioni, ma nel frattempo intere popolazioni
continuano ad essere oppresse e martoriate, mentre i responsabili rimangono
liberi di commettere le più gravi violazioni, ma del resto si sa: dum Romae
consulitur, Saguntum expugnatur.
1
Un primo esempio è fornito dal Trattato di Versailles del 28 giugno 1919 che, dopo
aver affermato la responsabilità del Kaiser Willhelm II von Hohenzollern per
"supreme offence against international morality and the sanctity of treaties", agli
articoli 228 e 229 enunciava il diritto delle potenze alleate a costituire una tribunale
speciale costituito da giudici designati da Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Italia e
Giappone per giudicare e punire i responsabili di violazioni delle leggi e degli usi di
guerra.
2
I testi istitutivi ed i documenti correlati di detti tribunali sono reperibili su
http://www.yale.edu/lawweb/avalon/imt/proc/v1menu.htm.
3
O ancora l'attuazione di alcuni principi essenziali in materia processuale: il diritto
ad un fair trial fondato sul contraddittorio e il diritto alla difesa (principio V). I
"Principi di Norimberga" o Principles of International Law Recognized in the
Charter of the Nürnberg Tribunal and in the Judgment of the Tribunal, sono stati
codificati dalla Commissione di Diritto Internazionale delle Nazioni Unite e
pubblicati
su
http://www.un.org/law/ilc/texts/nurnfra.htm.
156
4
Si tratta, rispettivamente, delle risoluzioni 808 del 22 febbraio 1993 e 955 dell’8
novembre 1994, reperibili sui siti internet dei due tribunali, rispettivamente
http://www.un.org/icty/index.html
e
http://www.ictr.org.
5
Lo Statuto di Roma, istitutivo della CPI è stato adottato da parte della conferenza
diplomatica di Roma tenutasi tra il 15 giugno ed il 18 luglio del 1998, ed è entrato in
vigore il primo luglio 2002. Al 20 agosto 2002 ben 139 Stati avevano depositato la
firma, mentre 78 avevano ratificato lo Statuto. Per rendere la Corte pienamente
operativa, sono stati compiuti una serie di adempimenti ulteriori, consistenti nella
Convocazione dell'Assemblea degli Stati parte (art. 122) che ha adottato una serie di
strumenti funzionali all'esercizio della giurisdizione, tra i quali spiccano per
importanza le regole procedurali e di ammissibilità delle prove. A norma del
Capitolo VI dello Statuto l'Assemblea ha poi proceduto all'elezione dei giudici, del
procuratore e dei suoi vice, compiendo così l'iter previsto dallo Statuto.
6
Questo concetto della responsabilità individuale, così ovvio negli ordinamenti
interni, non lo è nel Diritto Internazionale basato ancora sulla responsabilità degli
Stati. La responsabilità e la perseguibilità degli individui rappresentano un passaggio
fondamentale della giustizia penale internazionale.
7
Il grande giurista Hans Kelsen fu il primo a far proprio tale ideale; egli aveva
teorizzato con il celebre manifesto "Peace through law" una strategia istituzionale
per il raggiungimento della pace, che attribuiva un ruolo centrale alle funzioni
giudiziarie rispetto a quelle esecutive e legislative.
8
S.E. Francesco Paolo Fulci, Ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite, discorso
di chiusura alla Conferenza "The International Criminal Court: a challenge to
impunity", Trento, 15 maggio 1999.
9
La composizione e della CPI è disciplinata al Capitolo IV dello Statuto. Ai sensi
dell’art. 36.1, la Corte si compone di 18 giudici, selezionati fra persone che godono
di un'elevata considerazione morale e che presentano tutti i requisiti richiesti nei loro
rispettivi Stati per l'esercizio delle massime cariche giudiziarie. I giudici sono eletti a
scrutinio segreto dall'Assemblea degli Stati parte, per la loro elezione è richiesta la
maggioranza del numero di voti e la maggioranza di due terzi degli Stati parti
presenti e votanti art. 36, par. 6, lettera a). La durata prevista del mandato è di nove
anni, non rieleggibili. Una volta eletti i giudici adottano, a maggioranza assoluta, il
Regolamento di procedura e di prova (art. 52).
Come previsto all’art. 34, gli organi della Corte sono: a) Presidenza, b) Sezione degli
appelli, Sezione di primo grado e Sezione preliminare; c) Ufficio del Procuratore, d)
Cancelleria.
La Presidenza è composta dal Presidente, dal primo Vicepresidente e dal Secondo
Vicepresidente (art. 38.3), questi sono eletti per un mandato di tre anni a
maggioranza assoluta dei giudici.
157
La Corte è organizzata in sezioni (art. 39.1): la Sezione degli appelli é composta dal
Presidente e da altri quattro giudici; la Sezione di primo grado e la Sezione
preliminare sono composte ciascuna da almeno sei giudici.
L’art. 42 disciplina il funzionamenti dell'Ufficio del Procuratore, questo è incaricato
di ricevere ogni informazione debitamente valutata relativa ai reati di competenza
della Corte, di esaminarle, di condurre le inchieste e di sostenere l'accusa dinanzi alla
Corte. Il Procuratore, così come i Vice-Procuratori, sono eletti a scrutinio segreto
dall'Assemblea degli Stati Parti, a maggioranza assoluta dei suoi membri, questi
esercitano le loro funzioni per nove anni e non sono rieleggibili (art. 42.4).
L'Ufficio di Cancelleria, in base all’art. 43, é responsabile degli aspetti non giudiziari
della amministrazione della Corte ed é diretto dal Cancelliere che é il principale
funzionario amministrativo della Corte. I giudici eleggono il Cancelliere a
maggioranza assoluta e a scrutinio segreto, sulla base delle raccomandazioni
dell'Assemblea degli Stati parti (art. 43.4), il Cancelliere è eletto per cinque anni, ed
è rieleggibile una sola volta (art. 43.5).
Il Capitolo V dello Statuto disciplina le modalità di esercizio dell’azione penale.
Ai sensi dell’art. 61: “entro un termine ragionevole dopo la consegna della persona
alla Corte o la sua comparizione volontaria, la Camera preliminare tiene un'udienza
per convalidare le accuse sulle quali il Procuratore intende basarsi per chiedere il
rinvio a giudizio. L'udienza si svolge in presenza del Procuratore e della persona
oggetto d'inchiesta o azione giudiziaria, nonché dell'avvocato di quest'ultima”. Al
termine dell'udienza (art. 61, par. 7, lettera a), la Camera preliminare convalida le
accuse per le quali ha concluso che sussistono prove sufficienti, e rinvia la persona
dinanzi ad una Camera di primo grado. La Presidenza, dopo che le accuse sono state
convalidate, istituisce una Camera di primo grado la quale, s'incarica della successiva
fase processuale (art. 61, par. 11).
In base all’art. 64, par. 8, lettera a) il processo ha avvio presso la Camera di primo
grado, la quale fa dare lettura all'imputato delle accuse convalidate in precedenza
dalla Camera preliminare. Durante il processo, il giudice che presiede può impartire
istruzioni al fine di garantire l'equo ed imparziale svolgimento dei lavori. Ai sensi
dell’art. 74.1: “Tutti i giudici della Camera di primo grado saranno presenti in ogni
fase del processo e nel corso delle delibere”. La Presidenza può designare, uno o più
giudici supplenti che dovranno sostituire un membro della Camera di primo grado
nel caso in cui questi non possa più presenziare. La decisione della Camera di primo
grado sarà adottata in base alle sue valutazioni delle prove ed a tutto il procedimento.
La Corte può basare la sua decisione solo sulle prove ad essa presentate e discusse al
processo (art. 74.2). I giudici esprimono una decisione all'unanimità, in mancanza
della quale la decisione sarà presa dalla maggioranza dei giudici (art. 74. 5). Nel caso
in cui non vi sia unanimità, la sentenza della Camera di primo grado conterrà i pareri
della maggioranza e quelli della minoranza. La sentenza è letta in pubblica udienza.
10
Lo stesso art. 25 chiarisce che “Tuttavia, la persona che desiste dallo sforzo volto
a commettere il reato o ne impedisce in qualche modo l’espletamento, non può essere
punita in forza del presente Statuto per il suo tentativo, qualora abbia completamente
e volontariamente desistito dal suo progetto criminale”.
158
Gli ordini di comando provengono dal Ministero degli Affari Interni, dal Ministero
della Difesa e dal Ministero degli Affari Esteri e dalle apposite commissioni
governative, per diramarsi verso una molteplicità di pedine: il Servizio Militare
d’Intelligence (Military Intelligence Service, MIS o MI), il Direttorato dei Servizi
Intelligence della Difesa (Directorate of Defense Services Intelligence, DDSI),
l’Ufficio delle Investigazioni Speciali (Bureau of Special Investigation, BSI), alle
forze di polizia (Myanmar Police Force) e ancora i singoli dipartimenti come il
Dipartimento delle Investigazioni Speciali (Special Investigations Departments, SID
o Special Branch ) e i vari rami speciali delle forze di polizia. Dunque, tutte le
pedine, ovvero agenti di polizia dell’esercito e dell’Ufficio Nazionale di Intelligence
(National Intelligence Bureau, NIB) sono sapientemente coordinate e dirette dai
Generali.
11
12
Si pensi ai tanti crimini che sono stati commessi in numerosi paesi africani e
latino-americani, o anche ai massacri dei Curdi in Iraq e degli Armeni in Turchia o
ancora alla Politica di pulizia etnica portata avanti dal leader kosovaro Slobodan
Mjlosĕvić -allora Capo del Governo- e ai massacri di musulmani in BosniaErzegovina voluti dall’allora presidente della Repubblica serbo-bosniaca Radovan
Karadžić.
13
Agli atti contemplati dall’art. 6, lettere b) e c), possono essere ricondotte le
operazione di “filtraggio del cammino”, i reclutamenti dei membri appartenenti ai
gruppi etnici come portatori militari in condizioni che, nei casi più gravi, possono
essere definite di schiavitù, la sistemazione nei “campi di rilocazione forzata”
soggetti ad attacchi e rappresaglie continue da parte dell’esercito, e naturalmente i
massacri nei villaggi e la distruzione degli stessi, allo sgombero forzoso dei villaggi
Karen Shan, Kachin e Mon, all’oltre mezzo milione di persone internamente
ridislocate (Internally Displaced People -IDP’s ).
14
Report on the International Law Commission to the General Assembly on its
work of its 48th Session, 1996 op.cit., cap. I.
15
Come chiarito dall’art. 30 dello Statuto di Roma, vi è intenzione quando,
trattandosi di comportamento, una persona intende adottare quel comportamento,
mentre, laddove si tratti di una conseguenza, una persona intenda causare tale
conseguenza o è consapevole che avverrà nel corso normale degli eventi. Un
esempio pratico potrebbe riguardare l’uso di mine antiuomo: la giunta era
ovviamente consapevole che la disseminazione di tali congegni sui campi di riso
intorno ai villaggi avrebbe portato, come naturale e prevedibile conseguenza, la
morte o la mutilazione dei civili. Francamente, non vi sono dubbi che nelle azioni di
persecuzione delle minoranze, nell’imposizione di lavoro forzato su vasta scala, nel
portare avanti pratiche diffuse e sistematiche di tortura, lo SPDC abbia agito
consapevolmente.
16
Infine, alla previsione di “altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare
intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute
159
fisica o mentale” di cui all’art. 7, sub lettera k), possono essere ricondotte le
sistematiche tattiche del terrore utilizzate contro le donne appartenenti ai gruppi
etnici e, ancora, le pratiche di lavoro forzato di massa sovente accompagnate da
circostanze di particolare violenza e sforzi disumani.
17
A dire il vero, già il titolo dell’opera di Janet Benshoof è molto eloquente: The
changing landscape of international law: The global responsibility to prosecute
perpetrators of grave crimes inflicted on the people of Burma, 16 agosto 2007,
disponibile su http://www.globaljusticecenter.net/janetlawpapalajornaleexcept.pdf.
Anche il Burma's Lawyers Council (BLC) ha iniziato a collaborare con il Centro di
Giustizia Globale sulla questione della “criminal accountability”. I risultati di questa
fruttuosa collaborazione sono stati pubblicati sul Legal Journal on Burma.
18
Ciò è coerente con le Conclusioni e Raccomandazioni della Commissione
d’Inchiesta, che appunto ha affermato che i lavori forzati, così come praticati in
Birmania, costituiscono un crimine contro l’umanità e che i responsabili potrebbero
essere colpevoli di crimini ai sensi del Diritto Internazionale. Burma’s “Saffron
Revolution” is not over, cit., pag. 40. Sia l’opzione di azione dinanzi alla CIG sia
quella riguardante la CPI sono descritte nel report esaminato dall’OIL Governing
Body nel corso della 297ma sessione tenutasi a Ginevra nel novembre 2006 Cfr. OIL
document GB.297/8/2, 297th Session of the Governing Body, Geneva, November
2006: “Developments concerning the question of the observance by the Government
of Myanmar of the Forced Labour Convention, 1930 (No. 29): Legal aspects arising
out of the 95th Session of the International Labour Conference”, see in particular
concerning the ICC: Section III: “Information concerning international criminal law
in
relation
to
forced
labour”,
§14-26,
disponibile
su:
http://www.ilo.org/public/english/standards/relm/gb/docs/gb297/pdf/gb-8-2.pdf
19
Come sostenuto da Silvio Riondato, Intervento alla Conferenza “Crimini di guerra
e giurisdizione internazionale”, 11 giugno 1999,: “Il principio di giurisdizione
universale, per cui lo Stato potrebbe, se non proprio dovrebbe, attivarsi per colpire i
crimini internazionali, non è un principio generale di diritto penale internazionale,
ma sarebbe un principio di diritto penale universale. E, quale diritto penale
universale, viene ostacolato dagli Stati tramite il loro diritto internazionale, questa è
la verità dell'effettività”. Pubblicazioni Centro italiano Studi per la pace,
www.studiperlapace.it
20
Si tratta di organizzazioni quali l’International Federation for Human Rights,
(FIDH), il National Coalition Government of Burma (NCGUB), il National Council
of the Union of Burma (NCUB), l’Assistance Association for Political Prisoners of
Burma (AAPPB), l’International Trade Union Confederations (ITUC), l’Ethnic
Nationalities Council (ENC). Le azioni legali promosse contro la Birmania da parte
delle “Burma-related NGOs” sono descritte nel report Burma’s “Saffron Revolution”
is not over, cit. Per le azioni dinanzi alla CPI pag. 37 e ss. “ Two international legal
avenues are today being considered by a number of organizations: prosecuting the
Burmese military before the International Criminal Court (ICC), and a referral to the
160
International Court of Justice by the ILO based on the lack of implementation of
Convention 29 on forced labour”.
In addition, the ILO and the SPDC agreed in February 2007 to a mechanism
allowing victims of forced labour to present formal complaints to be investigated and
addressed by the country’s legal system. This mechanism, which is known as the
Supplementary Understanding provides a possibility for victims of forced labour to
submit complaints to the ILO Liaison Office in Rangoon. and includes guarantees
that
no
retaliatory action
will
be
taken
against
complainants.
http://www.ilo.org/global/About_the_ILO/Media_and_public_information/Press_rel
eases/lang--en/WCMS_081868/index.htm.
21
Based on a case of crimes against humanity, various options for international
justice initiatives can be developed. The NCUB and BLC strongly favour initiatives
both at the international level (International Criminal Court) and by specific
countries where universal jurisdiction is recognized. The NCUB has recently
published documents about the International Criminal Court's Definition of "Crimes
against humanity" in five different languages (Burmese, Karen, Kayan, Mon,
English,) on the frontpage of its website.
Many people think an ICC referral would stop or hurt a political dialogue. But criminal
accountability needs to be highlighted. The crackdown was part of crimes against humanity. (…)
People should not put too much hope on political dialogue. Past and existing crimes cannot be
left like that. Victims cannot be ignored. (..) It’s about victims.” Aung Htoo, General
Secretary of Burma Lawyer’s Council, Burma’s “Saffron Revolution” is not over,
cit. pag.37.
22
In base all’art. 12.2 lettere a) e b) dello Statuto, la giurisdizione della Corte si fonda
sui principi di territorialità e nazionalità, salvo nel caso in cui la Corte sia investita
dal Consiglio di Sicurezza a norma dell'articolo 13, lettera b) dello Statuto, sola
ipotesi che fonda dunque una giurisdizione universale.
23
SC/Res/1593(2005).
24
Art. 16 (Sospensione delle indagini o dell'esercizio dell'azione penale): Nessuna
indagine e nessun procedimento penale possono essere iniziati o proseguiti ai sensi
del presente Statuto per il periodo di dodici mesi successivo alla data in cui il
Consiglio di Sicurezza con risoluzione adottata ai sensi del Capitolo VIII della Carta
delle Nazioni Unite, ne abbia fatto richiesta alla Corte; tale richiesta può essere
rinnovata dal Consiglio con le stesse modalità. Esso ha subito trovato applicazione: si
pensi alla risoluzione 1422 (2002) del CdS del 12 luglio 2002, nella quale il
Consiglio di Sicurezza: “Requests, consistent with the provisions of Article 16 of the
Rome Statute, that the ICC, if a case arises involving current or former officials or
personnel from a contributing State not a Party to the Rome Statute over acts or
omissions relating to a United Nations established or authorized operation, shall for a
twelve-month period starting 1 July 2002 not commence or proceed with
investigation or prosecution of any such case, unless the Security Council decides
otherwise”. Il contenuto della suddetta risoluzione, voluta fortemente dagli Stati
161
Uniti, è stato messo a punto al fine di evitare il perseguimento dei militari impegnati
in “Peace-keeping operations” sul terrirorio di Stati parte allo Statuto di Roma. Si
pensi ancora al tentativo degli USA di imporre con accordi bilaterali l'impunità dei
militari americani che abbiano commesso dei crimini di competenza della Corte sul
territorio di uno Stato che ha ratificato lo Statuto e che sarebbe dunque sottoposti alla
giurisdizione della Corte. Siglato l'accordo bilaterale, diverrebbe applicabile il
disposto dell'articolo 98.2 dello Statuto: "La Corte non può presentare una richiesta
di consegna che costringerebbe lo Stato richiesto ad agire in modo incompatibile con
gli obblighi che gli incombono in forza di accordi internazionali"
25
Sulle difficoltà della CPI si veda il Rapporto di Amnesty International, ICC in
difficulty ten years after the Rome Statute, del 17 luglio 2008: “Prosecuting cases is
the problem. To date, the Court has issued 12 public arrest warrants, with another
requested by the Prosecutor on 14 July 2008. Only four people have been arrested
and surrendered for trial. The first case has been stayed. The accused may be
released on fair trial grounds. Without its own police force, the Court’s ability to
prosecute cases depends upon the willingness of states to arrest and surrender those
charged. If a state fails or refuses to arrest and surrender persons to the Court, it was
thought that other states and intergovernmental organizations would pressure them to
do so. In practice, this is proving ineffective”. Il rapporto è disponibile sul sito
www.amnesty.it
Qui evidentemente l'arresto non ha lo stesso significato che riveste nella procedura
penale interna. Infatti, se nell’ambito di un’azione penale nazionale, l’arresto giunge
a fronte di un verdetto finale di colpevolezza, ovvero dopo che il giudice ha
comminato la pena detentiva, nel caso di azione penale internazionale l’arresto dei
presunti colpevoli, spesso latitanti, avviene a monte del processo ed è condizione
affinché lo stesso possa avere luogo.
26
27
Silvio Riondato, op. cit.
28
Prolusione accademica all’atto inaugurale del "Forum su Giustizia Internazionale e
Diritti Umani" Centro di Filosofia Sociale, Università di Pavia, relazione del 29
novembre 2001, Prof. Antonio Cassese.
29
Nicola Canestrini, "Rassegna degli Avvocati italiani" - Organo ufficiale
dell'Associazione Nazionale Forense, 2/2002, 62ss. Pubblicazioni Centro italiano
Studi per la pace, www.studiperlapace.it
30
Antonio Cassese, Diritti Umani, cit., pag. 218.
31
The Burmese refugees who in 2002 filed a civil action in a Belgian court against
the military regime and against TOTAL for crimes against humanity and complicity
with crimes against humanity in Burma, took extensive time to consult with the
Burmese community in order to ensure that their action would not hurt the dialogue
162
process. Today, most of the representatives met urged the mission participants to
increase all ways of pressure. Burma’s “Saffron Revolution” is not over. op. cit., pag.
28.
32
Total pollutes democracy - stop TOTALitarianism in Burma (2005)
http://www.fidh.org/spip.php?article2508
33
Burma’s “Saffron Revolution” is not over. op. cit., pag. 40.
34
Per esempio il Canada, Israele e la Spagna hanno rifiutato l'invito degli Stati Uniti
di processare i crimini commessi da Pol Pot. Del resto, nemmeno gli Stati Uniti,
sebbene lo abbiano richiesto ad altri Paesi, hanno processato il dittatore cambogiano.
35
Memorabile la sentenza emessa dalla Camera dei lord il 24 marzo 1999 che
consentì l’estradizione del dittatore cileno Pinochet, accusato di aver ordinato e
organizzato gravissimi atti di tortura.
36
Nicola Canestrini, op. cit.
“Il punto sul quale dobbiamo esigere estrema chiarezza è che noi abbiamo a che
fare con la cultura dell'impunità, una cultura dell'impunità che persiste e che
riguarda, si badi bene, i governanti. La cultura dell'impunità è la cultura degli uomini
che detengono il potere. Gli esiti di questa cultura sono riservati da questi uomini a
loro stessi, mentre per coloro che si contrappongono è riservata la cultura della
punizione. Tanto deriva dalla forza della sovranità che gli Stati tuttora detengono e
alcuni Stati più che altri.” Silvio Riondato, op. cit.
37
163