2001_Ratti_Il Sole-24 Ore(2)

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07-05-2000
IL SOLE 24 ORE
DOMENICA
MATERIALI E IDEE
LETTERA DA MEXICO CITY - Nella caotica metropoli le architetture di Luis Barragán sono come oasi
silenziose
Il Messico a basso volume
Carlo F. Ratti
"Nei giardini e nelle case che ho progettato mi sono sempre sforzato di far sì che regnasse il placido mormorio
del silenzio; nelle mie fontane canta il silenzio". Così dichiarò il messicano Luis Barragán nel 1980 in
occasione della consegna del premio Pritzker, massimo riconoscimento professionale per un architetto. Per un
ironico caso del destino, la sua casa-studio di Calle Francisco Ramirez 14, da qualche anno trasformata in
museo e aperta al pubblico, è oggi lambita dal Periférico, una delle strade più rumorose e caotiche di Città del
Messico. Ma quello che ancora colpisce, dopo aver varcato la piccola soglia di ingresso e aver percorso nella
penombra il corridoio che conduce al soggiorno, è proprio la sensazione di calma e di tranquillità.
Dall' esterno la casa, coi suoi muri ruvidi e le finestre minute, non si differenzia molto da quelle adiacenti,
tradizionali costruzioni a due piani tipiche del colorato quartiere Tacubaya. Si racconta addirittura che il
fotografo René Burri, incaricato dal "Daily Telegraph" di fare un servizio sulle abitazioni più significative del XX
secolo e abituato ad architetture esuberanti, lì per lì non riuscisse a individuarla e continuasse a vagare
disorientato da un capo all' altro della strada. Gli interni tuttavia non lasciano dubbi sul fatto di trovarsi di fronte
a un edificio sensazionale. Lo spazio fluisce rapido da una stanza all' altra, con complesse articolazioni
volumetriche e improvvisi coup de théatre: uno squarcio inaspettato su una fontana, un raffinato gioco di luce,
una parete dai colori sgargianti, un giardino fiabesco che, come un quadro che cambia da una stagione all'
altra, si spalanca sul soggiorno. Il tutto secondo i principi di un' "architettura dei sensi e delle emozioni". Era
stato questo il punto di arrivo di Barragán dopo una giovanile adesione all' International Style, presto
rinnegata. Con una vis polemica pari a quella dei grandi maestri dell' epoca, avrebbe infatti dichiarato: "L' idea
di una "macchina per abitare" non è solo uno scadimento dell' architettura ma dello stesso essere umano". E
ancora, sempre contro Le Corbusier e la fenetre en longueur: "Bisognerebbe sopprimere approssimativamente
il cinquanta per cento del vetro che si usa negli edifici e sostituirlo con muri .... L' illuminazione risultante
permetterebbe una vita più intima e di maggior concentrazione: l' uomo del XX secolo ha bisogno di
recuperare la tranquillità mentale e spirituale che ha perso o è in procinto di perdere".
Avrebbe così deciso di ripartire da zero, dedicandosi alla progettazione di qualche giardino ("stanze aperte sul
cielo", come amava definirli) e prendendo congedo da tutti coloro per i quali aveva lavorato fino ad allora:
"Sono stufo di dover dare ascolto a clienti che mi parlano dei loro gusti. Vadano alla malora. D' ora in avanti mi
dedicherò a un solo cliente: me stesso". É da questo momento, all' età di quasi cinquant' anni, che iniziò ad
affermarsi come un "artista solitario e silenzioso" (la definizione è dello scrittore e premio Nobel Octavio Paz),
capace di elaborare in isolamento un linguaggio architettonico rivoluzionario: stereometrie rigorosissime, colori
brucianti ispirati alla tradizione vernacolare messicana, un uso raffinato delle tessiture e una simbiosi quasi
perfetta tra esterni e interni; tutti elementi che anticipano di quasi cinquanta anni l' attuale tendenza londinese
del warm minimalism. L' apparente semplicità delle sue opere tuttavia era bilanciata da una cura quasi
maniacale per i dettagli. Nella splendida casa Gálvez, visitabile oggi (su appuntamento) insieme ad altri suoi
lavori a Città del Messico, le sue attenzioni progettuali spaziavano dalle anfore del patio alla buganvillea del
giardino (il cui colore acceso si ripete sul muro d' ingresso), dalle piastrelle della cucina ai quadri del soggiorno.
A volte, pur di poter avere carta bianca nella realizzazione di un edificio, era disposto a contribuire di tasca
propria ai costi di costruzione. É questo il caso del convento delle Cappuccine di Tlalpan, dove, con un
puntiglio che farebbe sussultare il teorico dell' opera d' arte totale Henry van de Velde (l' architetto belga début
http://www.carloratti.com/publications/by_us/sole020901.htm
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du siècle che progettava le pantofole della moglie perché si intonassero col pavimento) si preoccupò perfino
del disegno degli indumenti indossati dai sacerdoti durante le celebrazioni. La religione era, per Barragán
come per molti messicani, un aspetto fondamentale della vita e dell' attività professionale (diceva Octavio Paz:
"Gli yankee sono creduloni, noi siamo credenti"). Era convinto che fosse "impossibile capire l' arte e la sua
storia senza il sentimento religioso e senza il mito che si incontra al di là del fenomeno artistico". Il lato mistico
della sua opera emerge ovunque: nell' uso metafisico della luce, nelle finestre dalle severe partiture a croce,
nei segni esteriori dettati dalle delicate idiosincrasie della sua vita quotidiana; nella sua casa aveva stabilito che
i vani delle porte non dovessero superare la sua altezza (circa un metro e novanta), per costringersi a una
lieve riverenza ogni volta che passava da una camera all' altra.
Questo sentimento religioso di ispirazione francescana lo portava anche a ricercare l' armonia con la Natura.
Accettò una delle sue ultime commesse professionali, quella per la villa di Francisco Gilardi, a condizione di
poter conservare una esile pianta situata in mezzo al lotto edificabile. La casa la abbraccia, contraendosi in un
lungo corridoio, per poi ricomporsi in un corpo di fabbrica distaccato dove si trova la celebre piscina rossa e
azzurra. Anche nel caso della lottizzazione dei Jardines del Pedregal, quartiere chi-chi della Mexico City anni
Ottanta, l' ambiente naturale diventa l' elemento compositivo principale. Su uno sfondo di colate laviche di
potente suggestione plastica, che ricorda i paesaggi surreali raccontati da Juan Rulfo, si proiettano i volumi
puri della famosa casa Prieto López ("siano benedetti gli accidenti geologici", dichiarò soddisfatto). Nell'
architettura di Barragán si condensa insomma la ricerca di identità del Messico della seconda metà del
Novecento, ispirata alla riscoperta del paesaggio e delle tradizioni locali. Come scrisse Octavio Paz: "Per poter
essere autenticamente moderni dobbiamo prima riconciliarci con il nostro passato". In architettura questa
ricerca si è concretizzata in una sorta di regionalismo minimale che, come fa notare Kenneth Frampton nel
recente Luis Barragán: the quiet revolution (a cura di Federica Zanco, Skira Editore: catalogo della mostra
itinerante che sarà da novembre all' Ivam di Valencia, Spagna, poi a Tokio e tra un anno a Città del Messico),
è stato ricco di stimoli per gli architetti contemporanei: dal messicano Ricardo Legorreta, autore del variopinto
Hotel Camino Real a Mexico City e vincitore l' anno scorso della medaglia d' oro dell' American Institute of
Architects, a star globali come Tadao Ando.
Dopo i successi degli anni passati, tuttavia, il regionalismo sembra oggi segnare il passo, almeno a Città del
Messico. Nel cataclisma urbano che ha rivoluzionato la città, portandola coi suoi venti milioni di abitanti in testa
alle metropoli del pianeta, si sono affermati soprattutto linguaggi architettonici statunitensi ed europei. Anche i
più affermati architetti locali, come Enrique Norten di Ten Arquitectos, progettista della Escuela Nacional de
Arte Teatral, sembrano lasciarsi condizionare da modelli d' importazione quali l' high-tech. Mentre Jorge
Vergara, ricco imprenditore messicano, vagheggia di investire quasi 500 milioni di dollari nella costruzione di
una nuova città alla periferia di Guadalajara (patria di Barragán) con l' appoggio dei più eccentrici architetti
internazionali: dall' irachena Zaha Hadid a Toyo Ito, Daniel Liebskind, Coop Himmelblau e altri ancora.
Ma forse la crisi del regionalismo è ancora più profonda. Quale significato può avere in un mondo sempre più
interdipendente e, come si dice oggi, globalizzato? Ricardo Legorreta, pur restando fedele alla sua matrice
regionale e "barraganesca", ha accettato l' invito della stilista Zandra Rhodes a progettare un museo della
moda a Londra (l' inaugurazione è prevista l' anno prossimo). E subito si è creato un caso: si possono utilizzare
le forme e i colori accesi della tradizione messicana in un ambiente a esse completamente estraneo? (Se
passate davanti al museo inforcate i Ray Ban, è stato il secco commento dell' "Independent"). Forse il mondo è
davvero cambiato (signora mia!) e anche l' architettura si deve adeguare. A Mexico City non sono più gli anni
del silenzioso isolamento di Barragán, che poteva permettersi di ignorare l' inglese, dichiarando sprezzante:
"Tanto anche a New York le girls parlano francese".
Foto: Architetture di Luis Barrágan a Città del Messico fotografate da René Burri: sopra, le Torri di Satellite City
(1957); sotto, da destra, Las Arboledas (1958-61); particolare dell' abitazione dell' architetto (1947); fontana di
San Cristobal Stables (1967)
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