Quando si cade nel razzismo per conformismo! Occhio alle

Transcript

Quando si cade nel razzismo per conformismo! Occhio alle
Conflitti Sul campo
Quando si cade nel razzismo
per conformismo!
Occhio alle circostanze
di Mauro Pucci
Nei mesi scorsi nelle strade di Lugano sono apparsi manifesti razzisti contro i lavoratori italiani. Pochi mesi prima, con due referendum, gli Svizzeri sancivano il divieto di costruire minareti e approvavano l’espulsione automatica degli stranieri rei di reati. In
Italia non siamo da meno, ma per
fortuna non facciamo referendum
su questi temi.
Siamo dunque razzisti e xenofobi?
Qualche volta sì e può capitare a
tutti, anche a chi scrive o legge
queste righe: dipende dalla situazione.
Il principale fattore di un atteggiamento o di un comportamento
razzista è infatti la situazione.
Nel 1971 lo psicologo sociale Philip Zimbardo condusse un esperimento carcerario nei sotterranei
dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Stanford, Palo Alto, California, Stati Uniti. Selezionò ventiquattro studenti universitari, volontari, senza disturbi comportamentali, e li divise in due gruppi di
pari numero: guardie carcerarie e
detenuti. Voleva studiare la capacità di adattamento dei prigionieri. Il suo studio divenne famoso
per le osservazioni relative al
gruppo delle guardie.
Dei ragazzi normali, buoni, del
tutto simili ai loro coetanei “prigionieri”, messi in una situazione
particolare attuarono molto velocemente comportamenti sadici e
violenti che altrimenti non si sarebbero mai sognati di avere.
La psicologa Christina Maslach,
assistente di Zimbardo - e sua futura moglie -, divenuta poi famosa
per i suoi studi sullo stress da lavoro e sulla sindrome del burn
out, si rese conto per prima che la
situazione stava loro sfuggendo di
mano. L’esperimento doveva durare due settimane: venne sospeso dopo soli cinque giorni per
evitare il peggio.
Le forze situazionali osservate e
descritte da Zimbardo avevano
presto avuto il sopravvento.
A simili conclusioni era giunta, tre
anni prima, nell’aprile del 1968,
Jane Elliott, insegnante in una
terza elementare della scuola di
Riceville, Iowa, USA.
Pochi giorni dopo l’assassinio di
Martin Luther King, Jane Elliott condusse con i suoi piccoli alunni un
esperimento sulla discriminazione
e il pregiudizio per far loro comprendere dal vivo cosa significhi la
discriminazione e il razzismo.
Nell’esperimento Jane Elliot ha diviso gli allievi in due parti, in base
al colore degli occhi (blu/marroni), e ha concesso o negato loro
delle facoltà e dei privilegi. Ha
messo in risalto delle differenze
sulle quali ha creato delle gerarchie e poi ha utilizzato queste gerarchie per agire a vantaggio di alcuni a scapito di altri. Ha quindi
dichiarato degli stereotipi (generalizzazioni: chi ha gli occhi blu, o
marroni, è migliore degli altri e
perciò ha maggiori diritti e privilegi) su cui si sono alimentati dei
pregiudizi (gli inferiori sono meno
buoni e degni).
A metà esperimento, durato due
giorni, ha invertito le parti.
I bambini sono andati oltre le restrizioni imposte dall’insegnante.
Hanno preso autonomamente
delle iniziative contro i loro compagni di classe. In pochissimo
tempo si sono trasformati in piccoli persecutori.
Su di loro ha agito la forza della situazione in cui si trovavano.. Esattamente come nell’esperimento di
Zimbardo e, prima, nel 1961, in
quelli condotti sull’obbedienza
dallo psicologo statunitense Stanley Milgram.
Jane Elliot ha potuto osservare
come i bambini della sua classe,
affiatati e collaboranti, potessero
velocemente abbandonare il
senso di appartenenza e di coesione e mettere in atto comportamenti discriminatori che andassero anche oltre alla discriminazione istituzionale che lei stessa
aveva sancito, seppur in un contesto sperimentale di cui gli stessi
bambini erano informati. La discriminazione interpersonale era
andata oltre a quella istituzionale!
Lo stesso principio ha permesso
che si verificassero le torture cui
furono sottoposti i prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib,
come ha osservato Zimbardo nel
suo saggio del 2007 “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa”.
31
Conflitti Sul campo
Ciò che ci interessa di questi
esperimenti e studi è la velocità
con la quale il comportamento dei
singoli e dei gruppi può cambiare,
sotto l’influsso dei condizionamenti dell’ambiente, fino a sfociare in atti di sopraffazione e di
violenza.
È quanto è accaduto pochi anni fa
nel cuore dell’Europa, quando
nella ex Jugoslavia popolazioni
che avevano convissuto fino a
quel momento si trovarono velocemente coinvolte in una guerra
di massacri e stupri etnici.
Per comprendere il razzismo è allora necessario educarsi ad individuare quali siano quelle forze situazionali che lo suscitano e lo alimentano, per saperle puntualmente neutralizzare.
A titolo di esempio cercheremo di
individuarne alcune: alimentare la
paura dell’altro, tenere l’altro distante, generalizzare, spersonalizzare.
ALIM ENTAR E LA PAU RA
DELL’ALTRO
Il diverso, lo straniero, il forestiero
rappresenta lo sconosciuto, l’altro
da sé, e facilmente suscita comportamenti diffidenti e l’emozione
della paura. Se questa paura è alimentata in modo arbitrario con
parole e allarmi dai mezzi di comunicazione, dai partiti politici o
da chi ha influenza sulla pubblica
opinione, costituisce una grande
forza situazionale sul comportamento dei singoli e dei gruppi.
Al contrario, sapere che la paura è
una nostra risposta di fronte all’incognita della diversità, ci permette di gestirla e di poter andare
oltre per ricercare l’altro nella sua
individualità e identità. Calibrare
le parole e i giudizi e non prendere
32
per buono tutto quanto ci viene
presentato rappresenta un efficace fattore protettivo dal razzismo.
nofobo svizzero nel 2010 i lavoratori frontalieri italiani sono raffigurati come dei ratti di fogna
(http://www.balairatt.ch).
TENERE L’ALTRO DISTANTE
Per neutralizzare queste forze situazionali occorre intenzionalmente e con determinazione ricercare la vicinanza, il confronto,
saper gestire i conflitti, individuare le differenze e le somiglianze, favorire il dialogo e l’empatia. Bisogna considerare l’altro
sempre come individuo. Andare a
cercare i nomi e i cognomi, le storie di vita individuali, facendo domande, ascoltando e narrando vicendevolmente le biografie. È fondamentale comprendere gli affetti
e le emozioni dell’altro e confrontarli con i propri per riconoscersi
nella comune umanità. È come se
l’altro fosse in qualche modo
quella parte mancante di sé necessaria per completare la propria
umanità. Esattamente come ci indica la sessualità.
Per evitare che l’umanità dell’altro
possa fare appello alla nostra e
suscitare in noi empatia, ossia la
capacità di com/prendere e
con/dividere le emozioni, si nega
l’umanità dell’altro e lo si considera completamente come altro
da sé. Nulla vi deve essere che
possa accomunare, indurre a un
riconoscimento reciproco e quindi
a una comprensione, a una accettazione, pur nelle diversità, dell’altro.
In tal senso vanno le iniziative e le
proposte che mirano a dividere, a
separare i diversi, a negare il dialogo e il pur faticoso confronto.
GENERALIZZAR E
Considerare l’altro non come individuo, con la sua storia, i suoi affetti, le sue emozioni, le sue sofferenze, le sue speranze, ma come
appartenente a un insieme indistinto di nemici da combattere o,
meglio, da allontanare, da annientare. Le colpe degli uni ricadono
indistintamente su tutti coloro che
a questi possono essere in qualche modo accomunati. L’altro diventa un tutt’uno con i suoi simili,
con la sua etnia, la sua religione.
SPERSONALIZZARE
All’altro, al diverso, allo straniero
si toglie il nome e l’identità personale. L’altro non viene considerato come una persona, un essere umano. Piuttosto vi si associa l’idea di sporcizia, di animale
repellente, in ogni caso qualcosa
da eliminare e ripulire. Nel genocidio del 1994 in Rwanda i Tutsi
venivano definiti scarafaggi.
Nella campagna di un partito xe-
Infine, un punto di vista cer tamente scomodo, ma illuminante,
per comprendere cosa sia e come
si alimenti il razzismo è il punto di
vista delle vittime.
Conoscere e ascoltare la sofferenza delle vittime fino a sapersene commuovere è l’aspetto fondamentale per comprendere cosa
sia la discriminazione ed è il più
alto fattore protettivo dalle forze
situazionali che ci spingono verso
comportamenti discriminatori e
razzisti.
Se il contesto influisce sui comportamenti è altrettanto vero che
il contesto determina il ruolo che
ciascuno può avere in una situazione di discriminazione e razzismo.
Ai ruoli di autore e di vittima di
razzismo bisogna aggiungere una
terza figura: quella di bystander,
o di passante/testimone.
Conflitti Sul campo
Tornando al frontaliere italiano,
questi si può trovare nella condizione di vittima, di fronte alla campagna xenofoba in Svizzera, di autore di una discriminazione o di
testimone/passante quando incontra un comportamento razzista attuato da altri.
Dipende pertanto dallo sfondo la
collocazione e il ruolo che ciascuno assume in relazione alla situazione discriminatoria e ciascuno può trovarsi nell’una o nell’altra secondo il contesto.
Per un lavoro educativo che intenda contrastare la discriminazione e il razzismo, è di cruciale
importanza il ruolo più diffuso:
quello di passante/testimone.
L’educazione alla convivenza lavora in positivo, creando nuove
occasioni di apprendimento capaci di trasformare il passante/testimone da colui che nell’indifferenza si sente impotente e privo di
responsabilità in una persona che
comprende la situazione discriminatoria, decodifica le forze situazionali che vi stanno dietro ed agisce consapevolmente e intenzionalmente per proteggere le vittime e tutelare i loro diritti umani.
Questo compito educativo è il nostro lavoro.
BI BLIOGRAFIA
P. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si
diventa?, Raffaello Cortina, Milano,
2008
M. Eckmann e M.E. Davolio, Ed ucare al
confronto: antirazzismo, Casagrande,
Milano/Lugano, 2009
G. Faso, Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono Derive/Approdi, Roma, 2008
L. Guadagnucci – giornalisti contro il razzismo, Parole sporche. Clandestini, nomadi, vu cumprà. Il razzismo nei media
e dentro di noi. Altraeconomia, Milano
*Mauro Pucci è educatore professionale, lavora a Lugano, è socio ANEP.
[email protected]
WELCOME
di P. Lioret
Francia, 2009, 110 min.
“Welcome” è una (drammatica) storia di formazione dentro una storia d’immigrazione.
Bilal, un adolescente curdo,
dopo diverse peripezie raggiunge Calais, sulla costa nord
della Francia, da dove tenta di
prendere un traghetto per l’Inghilterra e raggiungere così la
fidanzata Mina, trasferitasi con
la famiglia a Londra. Ma il tentativo - insieme ad altri “clandestini” - di imbarcarsi fallisce.
Bilal, mentre è “ospite” di un
centro di “accoglienza”, fa allora di tutto per prendere quotidianamente lezioni di nuoto da parte di un istruttore francese locale, Simon, e tentare così l’improbabile traversata via mare. Tra
i due pian piano cresce un rapporto di affetto e fiducia reciproca:
Simon diventa quasi un padre adottivo per il ragazzo, andando
incontro al rischio di pesanti sanzioni per le repressive leggi sull’immigrazione, l’ottusità della burocrazia, la viltà di vicini di
casa e poliziotti.
Il film, che ha avuto un enorme successo in patria, esemplifica
la “via crucis” che deve percorrere chi fugge dalla guerra e dalla
miseria per inseguire l’agognato Eden di un futuro migliore, o
anche solo la dignità di essere umano. La “civile” e “progredita”
Europa è sempre più una fortezza medievale, che chiude le frontiere e si barrica dietro la violenza istituzionale della legge. A chi
governa questa situazione serve a raccogliere voti e mantenere
così il potere sui sudditi: la via più facile per soddisfare i primitivi appetiti securitari dell’opinione pubblica, accanendosi ferocemente contro i più deboli e disperati. Gli “stranieri” non sono
altro che il capro espiatorio dei danni prodotti dal quel sistema
economico che salva le banche mentre taglia lo stato sociale, celebra la merce ma tratta gli uomini come scarti o scorie. “Welcome” (mai titolo fu più sarcastico) ci ricorda tutto questo con
la forza di un pugno in faccia, e ci interroga urgentemente sulla
sfida epocale della cittadinanza planetaria (E. Morin), perché il
diritto alla vita sia garantito a chiunque, non solo dove a qualcuno conviene.
Alessandro Cafieri
33