la disaffezione alla psicoanalisi

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la disaffezione alla psicoanalisi
La disaffezione per la Psicoanalisi
Interviste a Giuseppe Di Chiara e Antonino Ferro
GIUSEPPE SABUCCO
Quando la Redazione di questa rivista decise di dedicare il primo numero nel
nuovo formato on-line al tema dell’Attaccamento, mi sembrò naturale proporre il tema
del dis-attaccamento, cioè la disaffezione, verso la psicoanalisi, che sarebbe diffuso
nella società moderna. La psicoanalisi è stata data per morta molte volte (in qualche
caso si è cercato di accopparla materialmente, e ci sarà eco di questo nelle interviste) ma
negli ultimi anni il coro funebre si è infittito, presentandosi a tratti come il testimone di
un fatto di cronaca: tempo fa la rivista Time mise il ritratto di Freud in copertina,
annunciando la fine della disciplina da lui creata. Anche se, come fece Mark Twain con
il quotidiano che ne aveva improvvidamente pubblicato il necrologio, pure noi
psicoanalisti possiamo rispondere che «la notizia della nostra morte è un poco
esagerata», nondimeno è opportuno affrontare il tema senza rimuoverlo, proprio in
quanto psicoanalisti. È vero che la terapia psicoanalitica e, più in generale, la
concezione psicoanalitica della vicenda umana, sono oggetto di un crescente rifiuto?
La Società Psicoanalitica Italiana (SPI) è quella che finora, a livello mondiale,
ha condotto la ricerca statistica più ampia e dettagliata sullo «stato dell’arte» in un
ambito nazionale. I risultati dell’indagine, relativa all’anno 2003 e condotta con l’ausilio
dell’istituto di ricerca Eurisko, sono stati resi pubblici nel 2005 sul numero speciale per
il cinquantenario della Rivista di psicoanalisi (anche di questo si troverà qualche eco
nelle interviste). Alla ricerca partecipò più della metà degli psicoanalisti italiani, il che
garantiva una solida base statistica, ma soprattutto rappresentava, rispetto a ricerche
analoghe, «un risultato straordinario che deve venire considerato in sé un indicatore di
fiducia e di orgoglio di appartenere alla Società», come allora scrisse il presidente
dell’Eurisko, Giuseppe Minoia.
Sta di fatto che nell’ultima assemblea generale della SPI, a un lustro esatto dalla
pubblicazione di quella ricerca, il dottor Francesco Conrotto, Segretario nazionale
dell’Istituto di Training, ha potuto segnalare con soddisfazione che finora non c’è stata
flessione nel numero annuale di domande d’accesso al training psicoanalitico, e che anzi
si nota una flessione (sia pure lieve) dell’età media di chi si presenta per la prima volta.
Per riflettere su questi argomenti, ci è sembrato utile ricorrere allo strumento
dell’intervista a due importanti conoscitori della storia e dell’evoluzione della
psicoanalisi: il dottor Giuseppe Di Chiara, ex presidente della SPI, ed il dottor Antonino
Ferro, le cui pubblicazioni di psicoanalisi sono ormai note in tutto il mondo.
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INTERVISTA A GIUSEPPE DI CHIARA
Nell’ultima nostra assemblea il dottor Conrotto ha segnalato con soddisfazione
che finora non c’è stata flessione nella richiesta d’accesso al training della SPI.
Almeno tra chi aspira ad occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica, in Italia,
l’appeal della psicoanalisi sembra essere immutato.
Ciò è vero, nel senso di «occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica»,
come formula la domanda. I candidati sono ancora presenti, sono numerosi e ciò è
legato all’apporto della nuova componente psicologica che ormai da parecchi anni
arricchisce le fila degli psicoterapeuti, e quindi anche degli psicoanalisti.
Sono aumentati in proporzione gli psicologi, rispetto agli psichiatri.
Sì, danno un contributo notevole. Gli psichiatri sono diminuiti. In realtà quella
che non è avvenuta è la possibilità di un corso specifico – né medico, né psicologico –
di specializzazione e di laurea nel nostro tipo di attività, che era il progetto freudiano di
una «psicoanalisi per i laici». Quel progetto fornì la particolarissima situazione per cui
personalità formatesi nei campi più diversi affluirono all’analisi, portando ognuna il suo
contributo dalle scienze in cui si erano formati. Noi stessi non possiamo trascurare di
ricordare che, dei padri fondatori della Società Psicoanalitica Italiana, a parte Perrotti
che era medico, medici non erano né Servadio (un intellettuale contributore
fondamentale dell’Enciclopedia Italiana), né Musatti, che nasceva matematico e
filosofo. Oggi abbiamo una situazione più omogenea.
La cosa interessante, tuttavia, è proprio che non è diminuito il numero delle
persone che aspirano ad occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica. Direi di
più: non è diminuito il numero, mentre è aumentata la nostra offerta di formazione,
poiché oggi abbiamo quattro, e non più due, sezioni locali dell’Istituto nazionale di
training [due a Roma, una a Milano e una veneto-emiliana con sede a Bologna – nota
del redattore]. La nostra offerta è aumentata e non è diminuito l’afflusso di chi si vuole
occupare di analisi della mente. Chiamiamola proprio così, scomponendola come
dovrebbe essere: psico-analisi. Perché questo effettivamente è il punto centrale. Esiste
ancora un numero sufficiente di persone che vengono ai nostri corsi, e che a partire da
una formazione psicologica o medica intendono occuparsi di quella particolare forma di
psicoterapia che si chiama psicoanalisi, la quale, attraverso l’analisi della mente,
sortisce anche un effetto terapeutico che non avrebbe come primum movens. Anzi, in un
certo senso l’intento terapeutico viene sospeso nell’interesse della cura.
Nel 2003 il Presidente dell’International Psychoanalytical Association (IPA)
indicò in un documento ufficiale (per la prima volta, che io sappia) la necessità di
prestare «attenzione strategica» al fenomeno della «crisi della psicoanalisi», definito
dalla diminuzione dei pazienti che chiedono un’analisi a tre o più sedute la settimana,
dalla diminuzione dei candidati che vogliono intraprendere una formazione analitica,
da una contrazione del tasso di crescita degli analisti e da un aumento della loro età
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media, e di coloro che diventano candidati. Questi fenomeni erano denunciati da
diverse società psicoanalitiche. L’Italia costituisce dunque una relativa eccezione
rispetto alla «crisi della psicoanalisi»?
No, non credo che l’Italia rappresenti un’eccezione. Il fatto che la richiesta si sia
mantenuta tale da coprire il numero di candidati in una sezione non significa che sia
aumentata, mentre la popolazione dei terapeuti è enormemente aumentata. Nel libro di
Giangaetano Bartolomei [Come scegliersi lo psicoanalista, ETS, Pisa, 2000 – ndr], si
dava conto del fatto che su settantamila possibili psicoterapeuti circolanti in Italia dieci
anni fa, gli psicoanalisti – quelli della SPI e quelli bona fide vicini alla SPI – non
andavano oltre i duemila. Questo significa che la gran maggioranza della popolazione
che ha bisogno di terapia per disagio psicologico non accede, di fatto, alla psicoanalisi.
L’aspetto critico è un altro ancora: in questo momento esiste una forte pressione
per evitare di fare il numero di sedute abitualmente necessarie per un’analisi. Questo è
un dato di fatto ed in questo momento c’è un braccio di ferro tra l’utenza che ha
bisogno, e gli analisti che vorrebbero dare il loro contributo. D’altro canto, anni fa, uno
dei presidenti dell’IPA, in uno dei suoi discorsi inaugurali, segnalava che possono
esserci delle situazioni d’ordine sociale e d’ordine culturale nelle quali l’analisi non si
può praticare. Non siamo protetti dalla possibilità di non poter fare l’analisi. Così come
non si possono fare certi interventi medici, operatori o tecnici, in situazioni in cui
mancano le strutture portanti di base per poterli eseguire.
La SPI si è mossa con decisione sul piano dell’indagine statistica del fenomeno,
con la ricerca SPI-Eurisko, e qualche dato di quella ricerca consente di speculare
anche sul presente. Per esempio, nel 2003, in media, gli analisti partecipanti alla
ricerca avevano un numero uguale di pazienti in analisi e in psicoterapia. Ma nei
precedenti cinque anni i pazienti disponibili all’analisi erano diminuiti di una misura
stimabile attorno all’11%. Inoltre, sempre nel 2003, le consultazioni terminate con
un’indicazione per una psicoterapia erano quasi il doppio di quelle concluse con
un’indicazione di analisi. Un trend incrociato, con le analisi in diminuzione e le
psicoterapie in crescita.
Sì, questo dato si conferma. Anche prima del 2003 avevamo raccolto dei dati in
maniera più semplice che davano già un’indicazione di questo tipo. D’altra parte,
almeno nel panorama europeo, le due Società che hanno avuto una crescita maggiore e
corrispondente sono due Società che hanno numerosi centri periferici, l’italiana e la
tedesca, mentre l’aumento di numero nei gruppi inglesi o francesi, per esempio, è stato
relativamente più contenuto. Noi abbiamo avuto per un certo periodo un aumento più
vivace. Era da mettere in conto, tra le richieste di terapia che ci venivano fatte, che una
parte non sarebbe stata per l’indicazione psicoanalitica.
Mi fa piacere che nella ricerca citata si sia tenuto conto del dato di fatto che il
professionista che si qualifica come psicoanalista ha, spesse volte, anche la competenza
per fare delle psicoterapie. Piuttosto che inviare ad un collega, se ha la disponibilità, può
attivare anche un percorso psicoterapico. Ma quel che secondo me è da sottolineare,
specialmente per il pubblico, è che si possono fare due cose che sono diverse. Sono
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apparentate o apparentabili, ma sono diverse. Una cosa è un percorso psicoanalitico,
altra cosa è un percorso psicoterapico. Come dicevo prima, in un percorso psicoanalitico
prima di tutto viene l’analisi, che porterà con sé inevitabilmente ed essenzialmente la
terapia. Nel caso di un intervento psicoterapico, invece, la terapia avrà la priorità su
qualunque altro tentativo.
Da questo punto di vista c’è un singolare fenomeno: stiamo tornando ad una
situazione che era caratteristica dell’epoca d’inizio della psicoanalisi. Quando la
psicoanalisi iniziò era abbastanza frequente, dopo avere visto un paziente, poter dire
«questo paziente ha bisogno di una psicoterapia», e avviarlo a quei colleghi
psicoterapeuti che avevano una sufficiente competenza. Un altro paziente invece aveva
bisogno, ed era indicato, per un’analisi, e veniva effettivamente inviato o preso in carico
in tal senso. La differenza era più precisa, più significativa. Nel corso degli anni ci sono
stati degli incroci al riguardo, anche supportati da inferenze teoriche abbastanza
interessanti e che bisognerebbe indagare. Tuttavia, ad un certo punto è avvenuta una
specie di confusione che per un certo tempo è stata fatta dai pazienti che dicevano di
essere in psicoterapia quando erano in analisi e dicevano spesso di essere in analisi
quando erano in psicoterapia; la stessa confusione – e questo è un rischio serio – può
essere fatta dagli stessi terapeuti. Analisti e psicoterapeuti potrebbero effettivamente
non differenziare con sufficiente chiarezza la qualità del loro intervento.
Questo è un punto rilevante, e ci dovremo tornare più avanti, ma per il momento
vorrei proseguire la riflessione sul dis-attaccamento alla psicoanalisi. Va detto, per la
verità, che essa ha incontrato ben altri momenti di crisi. Il nazi-fascismo e lo stalinismo
hanno cercato di cancellare quasi del tutto, in molti casi anche fisicamente, il pensiero
psicanalitico dall’Europa.
Questo è avvenuto anche per il gruppo italiano che era più piccolo e debole e
venne effettivamente fermato. La notazione che è stata fatta – ricordo da Musatti, ma
quasi sempre da chi si è occupato di quest’aspetto – è che per un verso venne utilizzato
l’aspetto totalitario del regime al potere per sbarazzarsi della psicoanalisi, e quindi fu
l’autorità di polizia fascista a gestire la soppressione della Società Psicoanalitica
Italiana. Sono interessanti, in un libretto raccolto da Bellanova, le note informative dei
funzionari di pubblica sicurezza che parlano di Freud come di un ricercato, di un
eversore [Bellanova P. e A., Le due Gradive. Notizie sull’attività della SPI 1932-1982,
Roma, Cepi, 1982. Se ne trova traccia anche nella Conversazione sulla Psicoanalisi che
Di Chiara ha scritto insieme a Pirillo, Napoli,Liguori - ndr]. Ma per un altro verso il
primum movens della soppressione, chi ne aveva interesse, fu in effetti tutta l’ideologia
culturale portante che era contraria alla psicoanalisi e che approfittava della situazione
per sbarazzarsene. In Italia il fenomeno fu molto evidente. Per la Germania non avrei
indicazioni. Invece la psicoanalisi ha resistito in Inghilterra e naturalmente negli Stati
Uniti dove anzi ebbe una notevole diffusione.
Cosa significa questo? Che in certi momenti le resistenze all’analisi possono
assumere configurazioni particolarmente violente e aggressive? Potremmo chiedercelo:
è interessante, grave, pericoloso, e potrebbe anche essere vero. Una volta, durante la sua
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presidenza, Francesco Corrao ci prospettò un altro tipo di conflitto, che avrebbe potuto
riguardare la psicoanalisi e i computer. Il confronto tra un tentativo della coscienza di
avere ragione di qualche cosa che non conosce, di cercare in qualche misura di catturare
i meccanismi attraverso i quali funziona nell’inconscio, da una parte, e dall’altra un
sistema ultra sofisticato di circuiti che attraverso la macchina computerizzata
competono con l’analista. Corrao raccontò un saggio fantascientifico che effettivamente
si concludeva con la fagocitazione dell’analista da parte della macchina. La vittoria di
una razionalizzazione sostenuta dalla tecnica. Questo per dire che le forme di difesa e
resistenza nei confronti della scoperta dell’inconscio continuano ad essere presenti e ad
operare. Freud ne era consapevole e lo diceva: non me lo perdoneranno. Perché l’offesa
al narcisismo che la psicoanalisi compie di fatto, come elemento primitivo e
fondamentale, è sempre lì, brucia, mortifica, se vogliamo, il sentimento di superiorità
narcisistica dell’Uomo costruttore, dell’Uomo fattore che non riesce ad accettare di
essere trascinato più di quanto egli non pensi.
A sostegno di questa affermazione, si può osservare che neppure l’ideologia
oggi trionfante, il consumismo globalizzato, sembra molto più benevola dei regimi
totalitari. È meno truce nei modi, ma più subdola e pervasiva negli effetti, perlomeno
per quanto riguarda il disprezzo verso i tempi, i ritmi e le finalità di un’analisi.
Assolutamente sì. In questa domanda sviluppi ciò cui abbiamo prima accennato.
Parlavo in maniera quasi provocatoria di categorie come quelle dell’Uomo fattore,
l’uomo capace di realizzazioni.
L’Uomo fattore dovrebbe però, in qualche modo, misurarsi con la realtà. Per
produrre qualcosa che davvero li affronti e li superi, deve in qualche modo misurarsi
con i limiti posti dalla Natura, e in qualche modo anche con i limiti posti dalla propria
natura. Cerco di spiegarmi con un paradosso. La recente tragedia nucleare in
Giappone, oltre al dolore e all’angoscia che diffonde, rappresenta senz’altro una ferita
narcisistica per l’uomo costruttore, che si illudeva di avere provveduto a tutto. C’è
voluto però un avvenimento di inusuale potenza per vincerlo: ha sottovalutato i propri
limiti, ma sapeva di avere dei limiti. Chi cerca di trovare modi per sottrarsi alla realtà,
ai suoi limiti e alla coscienza della propria impotenza mi sembrerebbe piuttosto l’uomo
consumatore, quando si lascia sedurre dalla promessa della tecnologia moderna che gli
consentirà di sbarazzarsi del confronto con la realtà. Per esempio attraverso le realtà
virtuali.
È vero che l’uomo «faber», l’uomo prometeico, in qualche misura cerca il
confronto con la realtà e deve confrontarsi con essa. Ma per far questo ha uno strumento
che non può essere né quello del consumismo, né quello della pura operatività. Ha la
necessità di associare al «fare» il precedente importante che è il pensare. Deve
confrontarsi con una serie di situazioni nelle quali utilizza un’altra funzione che è quella
della riflessività, sospendendo – per quanto utile e necessario – il fare. Dopo può
procedere al fare. Se tutto si consuma e si esaurisce nella fattività, non nasce quella
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civiltà cui Bion alludeva quando diceva che, se gli Homo sapiens rimangono soltanto ai
trucchi scimmieschi, non avremo quella sostanza che consente di affrontare
effettivamente la realtà. Anche se della realtà si possono avere alla fine solo modelli
incerti e sempre da costruire e rivedere, nel tentativo di un percorso che non si esaurisce
mai.
Quando parli dell’Uomo fattore e di trucchi scimmieschi, pensi dunque a un
culto ideologico del tecnicismo.
Esattamente. Penso ad un «fare» che si sia sbarazzato del pensare e che trova nel
consumare la sua espressione più radicale. Molto agito e poco pensato.
L’attuale insofferenza verso la psicoanalisi, tuttavia, si manifesta in un modo
che a me pare non solo minaccioso, ma anche euristicamente interessante: il principale
problema, oggi, non è posto da un Potere che ci vorrebbe zittire, esiliare o giustiziare,
ma da persone che vengono, chiedono un aiuto «psi», ma non accettano la forma di
aiuto che gli analisti hanno selezionato come la migliore – dal loro punto di vista – nel
corso della loro storia.
È così. Probabilmente c’è una variazione nelle manifestazioni psicopatologiche.
Non solo nel senso di una maggiore gravità, come già documentava Eugenio Gaddini
nei suoi scritti [«Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni», Rivista
di psicoanalisi, 30, 1984 - ndr]. Adesso possiamo aggiungere: anche nel senso di una
socializzazione maggiore dei disturbi. Per usare un’espressione, titolo di un mio
contributo, il paziente in «sindrome psico-sociale» diluisce, mette insieme il proprio
disagio con una condizione più generale, e si fa forte non più di una sua difesa singola,
individuale, ma di una difesa collettiva. Dice: «Non ho il tempo» e, se si rivolge ai suoi
compagni di strada, essi gli dicono: «Hai ragione, tu non hai il tempo. Perché devi
rimanere più tardi possibile al lavoro in ufficio. Il fatto che tu debba fare l’analisi non è
compatibile. Devi cercarti qualche forma di terapia in cui puoi andare una volta ogni
tanto, perché non hai il tempo».
Questo è quanto mai interessante. Mentre prima il paziente faceva i conti con la
propria resistenza, la propria vergogna, la propria umiliazione a sentirsi malato, le
difficoltà che gli venivano dal dovere nascondere la sua condizione, oggi utilizza altri
sistemi. Sistemi che sono addirittura evidenti, palesi, che si attagliano come se avessero
un contenuto di realtà, ma in realtà hanno un contenuto mistificato di realtà. È detto
bene nella domanda: il disprezzo, la svalutazione riguardano i tempi e i ritmi
dell’analisi. Ci si chiede: «Perché mai dovresti andare due, tre o quattro volte, poi
sospendi, poi vai di nuovo?» Vale a dire, perché la discontinuità è un elemento
fondamentale del nostro lavoro? Per fare l’analisi, infatti, abbiamo bisogno di praticare
una cosa straordinaria, che è una continuità insieme con una necessaria discontinuità.
Diversamente la macchina mentale non si mette in funzione nel modo in cui noi
possiamo effettivamente vederla vivere. Ma la svalutazione riguarda anche le finalità
dell’analisi.
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Mi sembra che pensi a una sorta di alleanza tra l’ideologia culturale dominante
e il singolo. L’ideologia ti chiede di lavorare più che puoi – quando va bene, quando
c’è lavoro – perché devi rendere di più, per esempio in relazione a mercati del lavoro
meno costosi, ma questo costituirà per te una giustificazione per condividere l’idea che
tu non abbia davvero tempo per la tua mente.
Il ricorso al concetto di «potere dominante» indica l’utilizzo di comuni
denominatori della cultura meno incline a porsi problemi, meno critica. Guarda la
differenza con la popolazione dei pazienti degli inizi della psicoanalisi: di chi si
trattava? Si trattava di soggetti che a fronte di un doloroso conflitto vivevano una
situazione di notevole dolorabilità. Effettivamente «pativano», ma non si erano adeguati
alla loro situazione culturale ordinaria. Sentivano la necessità di portare una sfida, e per
fare questo accettavano di iniziare quel percorso che era l’analisi, che li portava a
dovere scoprire tutto ciò che loro competeva, senza potere avere nessuna preliminare
assicurazione che sarebbero stati indirizzati in una piuttosto che in un’altra direzione. La
scelta sarebbe avvenuta nel corso del tempo sulla base delle loro possibilità e
disponibilità. Questa è una condizione diversa da quella nella quale, invece, il paziente
attuale prima di venire in analisi cerca di curarsi con le categorie culturali e sociali più
diffuse. Molti anni fa Sergio Bordi diceva che il problema centrale dell’analisi nel
futuro sarebbe stato quello della droga: l’analisi si sarebbe sempre più scontrata con
pratiche sociali «con effetto droga», che cercano di eliminare il senso e la spinta della
sofferenza e del conflitto (pensiamo al film Fahrenheit 451 di François Truffault).
L’analisi, al contrario, accoglie, sostiene e utilizza trasformativamente questa spinta.
Questa è una differenza notevole. Ecco perché un paziente che vive una sua vita già
abbastanza travagliata, ma di cui non si rende conto, pur avendo dei sintomi – che
curiosamente sono cambiati, perché oggi sono incerti e mal definibili il più delle volte –
viene dall’analista e, sentitosi dire che se vuole potrà rendersi conto di com’è la
situazione, dice: ma io sono già informato, ho tutto quello che mi serve, ho solo bisogno
di una sistemazione. In un certo senso è analogo a quel paziente – sempre esistito – che
viene perché è stato mandato da qualcuno e non viene in proprio. Ecco perché le molte
richieste dei pazienti contengono poche richieste di analisi.
Un problema di conformismo.
C’è un problema di maggiore conformismo.
Paradossalmente, la
conflittualmente conformi.
richiesta
sarebbe
quella
di
essere
resi
meno
Tanto tempo fa, agli inizi della psicoanalisi, si pensava che un elemento di
conformismo che avrebbe potuto impedire lo sviluppo dell’analisi, ma soprattutto la
possibilità di utilizzare la cura analitica, poteva essere rappresentato da un tipo di
background culturale, soprattutto religioso, col quale si pensava che l’analisi potesse
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essere in contrasto. In realtà questo è stato superato: si arrivò alle analisi nei conventi in
America, di cui rimangono indicazioni sull’International Journal [Gilberg, A.L., «The
Ecumenical Movement and the Treatment of Nuns», International Journal of PsychoAnalysis, 1968, 49 – Ma già nel 1965 Emilio Servadio (Riv. psicoanal., 1967, 266)
aveva partecipato ad una discussione sul tema: «Rapporti fra psicoanalisi e
cattolicesimo», a proposito di un’esperienza analitica su larga scala, effettuata in un
Convento di Benedettini in Messico, sulla quale il Priore, Padre Lemercier, aveva
relazionato al Concilio Vaticano II° - ndr]. Ci sono casi singoli che possono utilizzare
questo impedimento, ma il fatto in sé non era così forte come può essere oggi questa
forma che giustamente tu indichi come conformismo.
Alcuni analisti ritengono che prestare attenzione allo «psichico», nelle sue
diverse manifestazioni, stimoli una curiosità psicoanalitica. Nell’ambito della cura
pensano che il miglioramento clinico dovrebbe favorire l’interesse dei pazienti verso la
psicoanalisi nella forma piena. Un buon inizio di psicoterapia dovrebbe aprire la
strada a una psicoanalisi. Ma nella maggioranza dei casi le cose non vanno così e ci
troviamo costretti a interventi fatti di mezze misure e/o a psicoterapie senza fine.
È così perché il numero di persone che vengono all’analisi eccede il numero di
persone che potrebbero fare un’analisi? Oppure perché la psicoterapia che noi
impostiamo in realtà non funziona come uno stimolatore, un incentivo
all’approfondimento analitico? Potrebbe trattarsi, infatti, dell’una o dell’altra cosa, o le
due cose potrebbero convergere. Io ho avuto accesso direttamente all’analisi, quindi
potrei essere un cattivo psicoterapeuta da questo punto di vista, ma nella mia esperienza
ricordo, tanti anni fa, dei casi che mi venivano inviati dicendo: «Senta, dottore, le invio
questo paziente; però non è il caso di fare un’analisi. Lo veda due o tre volte la
settimana, ma al tavolo, con un’impostazione più psicoterapica». Allora la cautela
nell’indicazione era maggiore. Succedeva però che, ascoltando tali pazienti, avvenisse –
non sempre, ma in un certo numero di volte – che impostassero loro stessi un discorso
analitico: sognavano, associavano e presentavano uno scenario che era quello
dell’analisi. Per ciò era agevole poter dire: «mi sembra che sia indicata una situazione
d’analisi». Nascevano così delle analisi effettive.
Un dato molto importante è quello della psicoterapia senza fine, ma questo
riguarda anche l’analisi, perché c’è anche l’analisi senza fine. Esso è legato a dei limiti
della capacità dell’analisi al punto attuale del suo sviluppo, e alla forza delle situazioni
psicopatologiche attuali, che non riescono a sopportare quella parte importantissima
dell’analisi che è la conclusione, con tutta la ricchezza di contributi che devono venire
da questa. Inoltre c’è da tenere conto di quale tipo di psicoterapia si è impostata: quando
una psicoterapia può diventare psicoanalisi? Quando, durante quel tempo di lavoro, si
sono salvaguardati alcuni canoni sufficientemente rispettosi di ciò che serve per fare
un’analisi. Se questo non si è fatto, la trasformazione non sarà possibile e l’analisi non
verrà in mente all’analista né al paziente.
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La possibilità del paziente di accedere a un’analisi è che si sia rispettato fin
dall’inizio un certo tipo di assetto.
E se il paziente questo non ha potuto sopportare, o l’analista questo non ha
voluto somministrare, evidentemente poi non potrà avere luogo.
È lecito, tuttavia, avanzare l’ipotesi che ci sia una qualche necessità autentica, e
non solo resistenza, nella richiesta di cure senza fine o fatte di mezze misure? In altre
parole, la diffusa pressione sulle caratteristiche della tecnica analitica da parte di una
considerevole schiera di pazienti non potrebbe contenere, insieme al loglio di elementi
ostili, anche il grano di elementi utili per sondare aspetti non ancora pensati del
funzionamento della mente?
Esiste la possibilità che il paziente non esprima con la sua difficoltà a fare
l’analisi una resistenza o solo una resistenza, ma piuttosto una richiesta di ampliamento,
miglioramento dello strumento psicoanalitico, perché solo in tal modo i contenuti e le
vicende mentali impervie e impercorribili, con la strumentazione abituale, potranno
essere affrontati. Questo è stato il caso della psicoanalisi con i bambini ed è stato risolto
con il setting rigoroso della «stanza dei giochi». Altre situazioni aspettano un progresso
psicoanalitico. Questo non può essere fornito da «mezze misure», ma da «nuove
misure» che continuino a soddisfare le esigenze del metodo psicoanalitico. V’è poi una
situazione affatto particolare che è quella della conclusione dell’analisi, che in alcuni
casi è difficile o impossibile, perché ci si trova di fronte ad una richiesta di cure senza
fine (si veda il bel volume sulla fine dell’analisi di Ferraro e Garella, In-fine, edito nel
2001 da Franco Angeli). È difficile, allora, realizzare una psicoanalisi che fornisca,
dopo un tempo e un’esperienza adeguati, i mezzi mentali per una gestione autonoma
della propria vicenda interiore. Il paziente non ha interesse a questo, cerca dell’altro,
vuole dare un indirizzo diverso alla pratica dell’analisi e alla relazione analitica…
Un indirizzo protesico?
… protesico, ma anche educativo, di rinforzo o sostegno. Credo che se ci si
potesse rendere conto di questo e se ci fossero degli elementi per poterlo verificare –
ecco uno studio che potrebbe essere fatto seriamente, e che espanderebbe la nostra
competenza – a quel punto sarebbe meglio proporre al paziente una soluzione diversa
dal percorso analitico. Piuttosto, la frequenza di un professionista che avesse le
competenze adatte per assicurare al paziente una vita migliore, senza la necessità di
dovere compiere un percorso analitico. A quel punto ci sarebbero altre modalità,
bisognerebbe inventare altri setting per mantenere il nuovo tipo di discorso.
Bisognerebbe però avere chiaro che si sta facendo qualche cosa di diverso da quello che
si voleva fare.
C’è tuttavia l’altro caso. Esistono situazioni in cui condizioni interessanti, ma
anche intense e profonde, non riescono a essere sufficientemente intercettate dal setting
che in questo momento abbiamo? Questa è una domanda importante, perché la risposta
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può essere – anzi, deve essere – sì. Non è vero che un paziente che dica fin dal
principio: «Non ce la faccio a venire quattro volte», per questo non possa fare
un’analisi. Perché potrebbe soffrire tanto da non poter venire quattro volte, ma disporre
tuttavia di una competenza, di una forza del suo Io, nonostante tutto, tale da potere
utilizzare il sistema analitico. Questo paziente, mantenuto in un contesto rigorosamente
analitico, nel tempo potrà fare più sedute, potrà fare quelle che gli servono; e nello
stesso tempo potrà compiere approfondimenti che prima non riteneva possibili.
In sostanza, i modi secondo i quali noi affrontiamo la relazione col paziente
rappresentano una media sicura, dentro la quale i pazienti possono stare. Ho pensato, e
talvolta suggerito, devo dire con buoni risultati, che è più importante la disponibilità
dell’analista nei confronti del venire del paziente piuttosto che l’incontrario. Noi
dovremmo dire, o potremmo dire a un paziente: «Guardi, io sono qui quattro volte la
settimana e lei mi pagherà una cifra che sarà naturalmente minore della contabilità
seduta per seduta. Se viene quattro volte, saranno quattro volte, ma lei può venire le
volte che vuole». Noi avremmo a questo punto un paziente che effettivamente sa che c’è
una disponibilità, che misurerà in base alla propria capacità di sopportare l’incontro, lo
stimolo e la successiva riflessione di un certo tipo. Sarà lui che si darà inizialmente delle
pause, di un tipo o di un altro. Mantenendo costante la nostra presenza e lasciando che il
paziente si adatti all’interno di questa, secondo le sue esigenze. Naturalmente stiamo
parlando di casi al margine della nostra esperienza, per i quali può valere la pena di fare
delle analisi così, di frontiera, per modo di dire. Credo che per tutto il resto invece le
cose dovrebbero rimanere invariate, per quello che finora sappiamo.
Non penso che enactment o self-disclosure [il primo è una sorta di «messa in
scena» che coinvolge paziente e analista, e che si rende evidente attraverso un loro
comportamento; il secondo è una comunicazione privata e personale dell’analista al
paziente – ndr] possano essere elementi favorevoli ai fini dell’apertura di nuove
prospettive nell’analisi. Ci sono situazioni eccezionali che possono talvolta verificarsi e
che danno luogo a un progresso in una analisi. Si tratta di quelle alterazioni temporanee
del setting, capitate per caso, che possono mettere in movimento qualcosa di nuovo. Ma
un conto è ciò che è capitato per caso, gestito in qualche modo dagli inconsci
nonostante tutto «informati» del paziente e dell’analista, e un conto è predisporsi a
compiere queste operazioni, che modificano lo stato del rapporto analitico. Ci sono
alcune acquisizioni che non possono essere assolutamente abbandonate, perché sono
fondamentali, tra le quali l’assoluta necessità di mantenere il rapporto «esogamico» e
quelle relative a una sufficiente stabilità del rapporto.
Tuttavia esperienze possono farsi, perché esistono delle analisi che cominciano
effettivamente con poche sedute nelle quali si fa molto lavoro. Non c’è dubbio che da
questo punto di vista la fatica dell’analista aumenta, e quindi possiamo pensare che la
sua prestazione diviene più difficoltosa. Si sente più tranquillo nelle condizioni in cui ha
a disposizione un numero maggiore di sedute, e generalmente avviene lo stesso per il
paziente. Credo si possa dire che mentre noi vediamo la crisi e i pazienti che non
vengono, dall’altra parte ci sia ancora tanto interessante lavoro da fare in psicoanalisi.
Questo lavoro si fa non ricominciando da capo, buttandosi alle spalle quello che finora è
stato fatto, ma ri-impiantandosi su quello che è stato fatto per nuove aperture. Sono
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convinto, per esempio, che una rivisitazione del concetto di interpretazione sia la chiave
per un reale progresso nell’intervento dell’analista nel rapporto col paziente e
nell’efficacia terapeutica. Interpretazione non nel senso della Deutung, della
significazione, ma proprio nel senso della capacità dell’analista di mettersi nei
personaggi che si attivano nel corso delle sedute, cosa che finora insegniamo anche
poco, nel senso che una tecnica interpretativa in questa direzione non è ancora oggetto
di un insegnamento sistematico.
Anche se la mente, la seduta, l’analisi come teatro, e l’attenzione ai personaggi
che entrano in scena, sono temi tipici della psicoanalisi italiana, soprattutto negli ultimi
decenni.
Hai ragione. Petrella ha appena ripubblicato La mente come teatro [Torino,
Centro Scientifico – ndr]. Per questo ne parlo con piacere, perché credo che questa sia
effettivamente una tendenza e un contributo che l’analisi italiana sta dando in questo
momento. I numerosi libri di Antonino Ferro sono un grande repertorio di competenze
rappresentazionali, di interventi dell’analista come protagonista, come attore di
personaggi che nascono nella seduta. Questo è il punto della efficacia della
rappresentazione. Nel lavoro di Francesco Barale su Freud e Theodor Lipps [«Alle
origini della psicoanalisi. Freud, Lipps e la questione del “sonoro-musicale”», Riv.
psicoanal., 2008, 1 - ndr] si parla dell’aspetto estetico che turbava Freud, che è stato un
grande scrittore di testi teatrali ma forse non un ottimo attore personalmente. Oggi a noi
è richiesto di scriverli col paziente questi testi, ma anche di mandarli in scena: è quello
che dà carne e sangue al discorso analitico.
Mi sembra di avere colto un tuo accenno critico all’idea di enactment. A me
pare che, quando non venga proposto come una prescrizione metodologica, «fate gli
enactment», l’emergere di un enactment sia un momento abbastanza fecondo, sia nelle
psicoterapie che nelle analisi. Penso che una condizione indispensabile per metterlo a
frutto sia che l’enactment si imponga contro una resistenza: il terapeuta deve cercare di
non metterlo in atto. Quando però si realizza, fatta salva questa condizione, appare
come una messa in scena ricca di scoperte per entrambi, terapeuta e paziente.
Vedi come è profondamente diversa la prescrizione dell’enactment dal
raccoglierlo quando si verifica? Il punto è questo: noi dobbiamo, per quanto sia
possibile, sopprimere l’azione, perché sopprimendo l’azione verrà fuori la
rappresentazione. In proposito abbiamo un testo fondamentale di Freud e un commento
a quel testo di Fernando Riolo [«Ricordare, ripetere e rielaborare: un lascito di Freud
alla psicoanalisi futura», Riv. psicoanal., 2007, 2 - ndr] che sono straordinari: noi
possiamo ricordare, possiamo ripetere, noi dobbiamo elaborare. Gli agiti che compaiono
sono forme ripetitive, nelle quali è capitato qualcosa, per cui qualcosa è sfuggito alla
parola ed è entrato in un agito. A questo punto il problema è ricatturarlo con la parola.
Questo lo puoi fare in quanto ti sei mantenuto in una condizione – come bene dicevi –
contro una resistenza. In questo senso sono del parere che non dobbiamo considerarlo a
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priori tra la strumentazione: quando si verificherà, sarà uno degli strumenti attraverso i
quali noi capiremo qualche cosa. Anche l’agito ha un significato traghettatore.
Più che uno strumento, un’occasione?
Quando si verifica è un’occasione che diventa uno strumento. La cosa
importante a quel punto, però, è ricordarci che è uno strumento di traghettamento: ha un
punto di partenza, contiene un contenuto, appartenente al mondo del paziente, che sta
cercando di esprimersi nel contatto con l’analista. Non è semplicemente una forma
camuffata di rapporto tra paziente e analista. È espressione di qualche cosa che ha avuto
un suo percorso all’interno dell’analista, evidentemente, e che è sortito in questa
situazione piuttosto che in un’altra.
C’è un altro punto che mi pare richieda un chiarimento, quando hai parlato
delle sindromi psico-sociali e del problema del conformismo. Mi è parso che mettessi
sulle spalle dei pazienti del giorno d’oggi una qualche responsabilità, se confrontati
con i pazienti degli esordi della psicoanalisi, che erano in qualche modo anche loro, al
pari dei pionieri della disciplina, dei coraggiosi indagatori. Mi viene da osservare che
molti oggi hanno da lottare contro difficoltà formidabili. L’impoverimento collettivo
non è solo una questione di fantasmi, è anche un dato di fatto, se pensiamo alle ultime
generazioni che spesso entrano nel mondo del lavoro senza tutela. Mi faccio scrupolo a
pensare che sia solo una dimensione immaginaria, quella per la quale si presentano
come persone che non hanno molte disponibilità economiche e di padronanza del loro
tempo.
È diventato più difficile oggi per tutti e due, analisti e pazienti, fronteggiare
questa situazione, che richiede abnegazione e coraggio. In un certo senso è stato sempre
così, perché, a parte l’episodio di eccezionale concentrazione di psicoanalisti a Beverly
Hills negli anni cinquanta del secolo scorso, anche nelle statistiche statunitensi lo
psicoanalista era all’ultimo posto tra i guadagni. Tra tutti i professionisti dell’area
medica, misurando il compenso rispetto al tempo messo a disposizione, le statistiche
mettevano ai primi posti le microchirurgie specializzate e agli ultimi posti il medico
generalista, poi il pediatra ed infine lo psicoanalista-psicoterapeuta. L’idea dello
psicoanalista opulento è un falso, un mito che non è mai esistito. Certamente oggi la
situazione è difficile. Non sono del parere di imputare al paziente l’impossibilità di
pagare. Di fatto noi vediamo con evidenza che la diminuzione degli onorari degli
analisti sulla base della minore disponibilità dei pazienti è significativa. La situazione
che si è creata è più oppressiva, è vero. Questo potrebbe farci pensare che le situazioni
di sofferenza che a un certo punto ne scaturiscono (e che si incrociano con le condizioni
di sofferenza personali) possano essere più facilmente evidenziabili. Attraverso una
diminuzione del conformismo? O non è vero che il conformismo tende invece, da
questo punto di vista, a non agitarsi, a conservare per quanto sia possibile uno stato
anestetico di torpore e quindi a difendersi dall’analisi, che bene o male i problemi li
solleva?
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Mi sembra che tu attribuisci maggiore responsabilità ai pazienti per il fatto di
non darsi, non concedersi tempo.
In un contesto nel quale c’è una situazione di intreccio, naturalmente, perché il
tempo che non trovano non viene loro neanche dato. Non vi è dubbio che vi è un furto
del tempo: è diventata una convinzione generale che un tempo che non è produttivo è un
tempo inutile. Noi siamo nel trionfo del negozio e nella lotta sfrenata contro l’ozio, che
Cicerone riteneva essere l’unico segno di libertà dell’individuo. C’è un problema di
tempo disponibile, di tempo proprio che è continuamente usurato.
Da questo punto di vista bisogna dire che l’analisi, questa pratica terapeutica e
indagativa, contiene dentro di sé alcuni elementi della condizione umana che sono
molto importanti, e che implicano esattamente questo rilassarsi, sospendere, aspettare,
non sapere, non decidere, che sono molto in contrasto con i valori culturali correnti. In
una certa misura l’analisi è stata e sarà sempre in contrasto con i valori culturali del
momento, perché disturba la comodità di un adattamento che è necessario – perché è
anche necessario – nel conflitto di base che nasce quando la coscienza «prende» la
condizione umana. Questo è il conflitto di base. Poi ci sono tutti gli altri conflitti, fino a
quelli più gravi che sono fondati su situazioni palesemente traumatiche, con una
complicazione ovviamente assai più grande di quella legata a una conflittualità di base,
alle difficoltà che sorgono soltanto con la condizione umana.
Riguardo alla diminuzione della frequenza delle sedute d’analisi, segnalata
dalla ricerca SPI, un collega anglosassone mi ha chiesto di recente se caratteristiche
culturali storiche e tradizionali, o che hanno saputo imporsi in Italia – pensava
specificamente al cattolicesimo, all’idealismo e al fascismo – possano avere
condizionato l’apertura verso l’analisi (con le sue caratteristiche peculiari di
frequenza, durata e finalità) in modo differente da quanto è accaduto in altri paesi.
Mi sembra poco proponibile una dichiarazione di questo genere. In realtà
abbiamo avuto dei momenti di gloria, momenti durante i quali, per esempio, il fatto che
un operatore psichiatrico facesse l’analisi era un titolo anche nei confronti dei concorsi,
un riconoscimento. È anche vero che ora, nella maggior parte dei casi, quando si legge o
si ascolta, soprattutto sui media, di qualcuno che viene definito psicoanalista, poi si
scopre che tale non è.
Ritornando al tema della frequenza, c’è un altro fatto da richiamare. Tanti anni
fa, in un numero dell’International Journal, comparvero le frequenze massime e
minime di sedute, rilevate nelle varie società (spesse volte erano citate società europee)
e il numero era da due a quattro. Parlo di altri anni, di altri tempi. È anche vero che in
certi gruppi e società analitiche è considerato assolutamente tranquillo il fatto che si
facciano quattro o cinque sedute, soprattutto in Sudamerica. Sono società che, possiamo
immaginare, non abbiano condizioni economiche floride. La psicoanalisi non è un
fenomeno così ampio e generale come a volte sembra. Per esempio, in Inghilterra, che
noi consideriamo come un luogo dove la pratica analitica è molto importante e forte,
l’analista non ha gran riconoscibilità. È più lo psicologo clinico che viene indicato. In
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questo senso è più nota la Tavistock Clinic, che pure ha una matrice analitica, che non
l’istituto di psicoanalisi britannico.
L’analisi come luogo di ricezione di una fascia sociale abbastanza ristretta?
Non fascia socio-economica ristretta, ma fascia socio-culturale ristretta. Bianca
Gatti ci ha sempre ricordato che è la classe media quella che utilizza di più la
psicoanalisi. Se questa classe si assottiglia, per il divaricarsi della forbice socioeconomica, diminuirà la richiesta d’analisi? E come va negli altri paesi? Germania ed
Italia sono paesi che hanno visto crescere il numero degli psicoanalisti, che crescono
invece molto lentamente in Inghilterra e Francia. E poi la psicoanalisi ha sue proprie
difficoltà a crescere, a crescere bene soprattutto. Lo ha ricordato principalmente Bion,
che riteneva che dell’analisi si parlasse ormai troppo e che gli psicoanalisti troppo si
vantavano di curare gli psicotici («Si mettono la psicoanalisi della psicosi come una
piuma sul cappello»). Il rischio era che la psicoanalisi venisse coperta di gloria per poi
affondare.
Che significa ciò? Che dobbiamo andare avanti e possiamo andare avanti
ricordandoci sempre della necessità di un lavoro che non è mai concluso, non può mai
essere concluso. Per quanto abbiamo la precisa convinzione che noi, anche se possiamo
smettere d’indagare l’inconscio, quello continua a funzionare. Questo è il punto che
colpisce. Per altre scoperte si è abbastanza tranquilli: una volta fatte, non c’è motivo di
abbandonarle. Questa dell’inconscio, invece, incontra ogni tanto delle situazioni per cui
sembra che non perduri. Qui entra in gioco il punto della nostra capacità di mantenere
livelli sufficienti e adeguati per fare questo tipo di lavoro, e il nostro tipo di ricerca.
Prima si parlava dell’analista e dei suoi pazienti, ma non possiamo trascurare che noi
stessi siamo dentro al contesto sociale, quindi noi stessi ne risentiamo e non possiamo
evitarlo. Dovremmo essere sì capaci di una certa autocritica, ma sempre limitata, perché
facendo parte noi stessi dell’attuale raggruppamento sociale, effettivamente possiamo
veicolare anche noi resistenze e difficoltà nei confronti della stessa analisi che noi
pratichiamo.
Rischiare anche noi delle derive conformistiche.
Assolutamente. E se no, perché la nostra formazione deve cominciare con
un’analisi che quasi sempre è profonda e preliminare e non è per questo una garanzia
sufficientemente sicura? Se no, perché bisogna sempre confrontarsi con questo notevole
ritorno della tendenza a rimuovere? Il che nulla toglie al dato di fatto della bellezza
degli scenari e dell’interesse per il nostro lavoro, e al fatto che, in altre maniere, gli
stessi fenomeni si impongono nell’umanità anche ad altri livelli; per esempio quelli
autenticamente artistici, che contengono sicuramente valenze che pertengono allo stesso
territorio, e che noi studiamo da un altro punto di vista.
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INTERVISTA A ANTONINO FERRO
Inizio con la stessa osservazione che ho proposto a Di Chiara: Nell’ultima
assemblea SPI, il Segretario dell’INT ci ha detto che finora non c’è stata flessione nel
numero annuale di richieste d’accedere al nostro training. Sembra che, almeno tra chi
aspira ad occuparsi della mente con un’attitudine terapeutica, in Italia, l’appeal della
psicoanalisi sia immutato.
In un primo luogo, posso parlarti della mia esperienza a Pavia, dove siamo in
un’isola felice. Nel senso che Pavia è una cittadina con 80 mila abitanti e 30 mila
studenti, perciò veramente piccola, e noi analisti siamo sedici più i candidati – quindi
poco più di una ventina – eppure tanti di noi lavorano soltanto come psicoanalisti. Qui
c’è una richiesta d’analisi senza nessuna flessione rispetto agli anni precedenti, anzi
direi con incrementi significativi. Per il piccolo esempio di Pavia, che pure ha una storia
nella psicoanalisi, legata anche alla tradizione di De Martis, Petrella e della Clinica
psichiatrica, richieste d’analisi ce n’è, talvolta addirittura in esubero, per cui alcuni
pazienti si spostano addirittura su Milano.
Poi, globalmente, abbiamo anche il fenomeno dell’espansione. Se usciamo dai
confini di Pavia e parliamo delle cose di cui ho conoscenza, io ad esempio sono Chair
di uno dei due Committee per la psicoanalisi in Turchia. Quando sono arrivato là alcuni
anni addietro c’erano cinque analisti che erano quasi tutti membri della Società
Psicoanalitica di Parigi, formatisi a Parigi, e operavano a Istanbul. Adesso, da quando
nel giro di cinque o sei anni si è formato il Gruppo di studio, che diverrà fra poco
Società provvisoria, tra candidati ed analisti già formati credo che ad Istanbul siano
abbondantemente più di quaranta, più altrettanti nell’altro gruppo di studio di cui è
Chair Mira Erlich. E lo stesso sta accadendo in tanti posti, specie nei Paesi dell’Est (e
grande al riguardo è il merito del nostro collega Paolo Fonda), in Oriente, e vicino a noi
nel Mediterraneo, dove soprattutto le Società francesi si sono fatte carico di attivare
nuovi Gruppi di studio, nuove Società provvisorie, che vanno dal Libano al Marocco,
tutta la fascia francofona del Maghreb. Si erano spinti addirittura fino all’Iran: c’era
stata – e c’è – una mezza trattativa. Direi che la psicoanalisi in senso globale sembra in
buona salute. Credo che poi ci siano delle zone sicuramente in flessione ma, se dovessi
mantenere uno sguardo globale nel mondo, direi che non possiamo certo lamentarci.
Anche negli Stati Uniti. C’era stato un boom della psichiatria biologica, ma visti
poi i risultati non particolarmente brillanti, l’analisi ha ritrovato un suo motivo d’essere.
Una volta mi sono trovato alla Columbia University, dove facevo delle supervisioni ai
candidati della Columbia, un istituto IPA, e questi stessi candidati arrivavano a me dopo
un altro seminario sull’imaging cerebrale. Erano psichiatri in formazione, e avevano
questa doppia esperienza e doppia formazione: analitica, con gli standard IPA, e
contemporaneamente con le più moderne e sofisticate metodologie di psichiatria
biologica. Per quanto mi risulta, per i contatti che posso avere, a me sembra che la
psicoanalisi sia in un momento felice.
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Credo che sia importante continuare a mantenere il «marchio di qualità»,
continuare a intendere per psicoanalisi quella cosa che necessita di almeno tre o quattro
sedute. Ciò che invece vedo, con un certo dispiacere, è che anche in ambienti IPA
talvolta capita che ci siano terapie – assolutamente legittime! – a due sedute o a una
seduta, che però vengono spacciate per analisi. Lo stesso accade coi bambini. Come se
ci fosse un po’ il vezzo di chiamare tutto «analisi», mentre io manterrei alti gli standard
nell’analisi, al di là di tutte le altre cose che poi formano un’analisi. Il resto sono cose
ugualmente legittime, di cui ci può essere ugualmente bisogno. Anche con i bambini,
perché con i bambini si assiste a una sorta di tendenza a fare più psicoterapie, a fare
terapie che coinvolgono altre persone intorno al bambino. Il che è assolutamente lecito e
assolutamente utile, però lo «stampino» di psicoanalisi infantile lo riserverei sempre per
i trattamenti dalle tre alle cinque sedute. Non chiamerei tutto «analisi», come fanno
molte altre scuole, dalle quali credo che, in questo, è legittimo differenziarci.
Nel 2003, la Presidenza dell’IPA aveva fatto circolare un documento ufficiale
(credo fosse la prima volta) con cui indicava la necessità di prestare «attenzione
strategica» al fenomeno della «crisi della psicoanalisi». Nel documento ne veniva data
una definizione: diminuzione dei pazienti che chiedono un’analisi a tre o più sedute la
settimana, diminuzione dei candidati che vogliono intraprendere una formazione
psicoanalitica, contrazione del tasso di crescita degli analisti eccetera… Il documento
rilevava che questi fenomeni erano denunciati da diverse Società psicoanalitiche. Mi
sembra di capire, da quel che dici, che per te questo fenomeno è stato relativamente
transitorio e che l’Italia costituisce una relativa eccezione rispetto alla lamentata
«crisi»?
Credo ci siano nel mondo delle aree in cui quanto segnalato dall’IPA è vero, ma
credo che questo corrisponda a quelle zone in cui la psicoanalisi è rimasta meno
«sparkling», meno frizzante e che, invece, in tutti quei posti in cui la psicoanalisi non è
stata tanto una religione che celebrava se stessa ma è diventata un fenomeno vivo,
questo non sia accaduto. A Boston, dove c’è il famoso gruppo di studio, c’è un
incremento assolutamente notevole di pazienti. Lo stesso a San Francisco.
Ci sono delle Società che si sono paludate, addormentate su se stesse, in cui c’è
crisi, e credo che sia in fondo anche utile che ciò accada. Dove la psicoanalisi celebra se
stessa, dove la psicoanalisi è diventata una religione autoconfermantesi, dove non c’è
proposizione di idee e fermenti nuovi accade, e direi per fortuna accade, perché è un
segnale che in quel modo non va. In altri posti, dove c’è stato e c’è un movimento
psicoanalitico per un motivo o per l’altro vivace e nuovo, questo non si è verificato.
Credo che un po’ lo stesso accade anche in Italia. Probabilmente vi sono aree diverse.
La SPI si è mossa precocemente e seriamente per indagare il fenomeno, con la
ricerca SPI-Eurisko. Ora ti risparmio i dettagli, ma una cosa che emergeva tra le altre
era l’esistenza di un evidente trend incrociato, con le analisi in diminuzione e le
psicoterapie in crescita. Ciò coincide con la tua esperienza, o pensi che anche questo
possa essere stato un fenomeno transitorio?
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La mia esperienza è limitata, perché è la mia e quella delle persone più vicine.
Vedo che molte volte i candidati, per esempio, hanno una specie di paura e di vergogna
a chiedere al paziente un numero di sedute alto. Quando poi si fanno coraggio e
chiedono le tre o le quattro sedute, il più delle volte si riesce a farle. Poi introdurrei
anche questo: tante volte si tratta di poterlo proporre come un punto di arrivo. Come io
dico: nuotare fino alle tre o alle quattro sedute con alcuni pazienti.
Credo inoltre sia naturale che, se vogliamo fare analisi, vanno anche un po’
ridimensionate le richieste economiche. Se faccio una seduta posso chiedere una tariffa
più alta che se ne faccio quattro. In questo ci deve essere un minimo di criterio da parte
dell’analista: essere disponibile almeno per un certo numero di ore della giornata a
sacrificare l’aspetto del guadagno a favore del poter lavorare anche analiticamente.
Credo che anche il fattore economico sia significativo.
Solo il fattore economico? Non c’è anche uno sfondo socio-culturale?
L’ideologia che oggi trionfa – quella connessa alla cosiddetta «globalizzazione», il
consumismo planetario – non sembra molto benevola, e anzi sembra apertamente
sprezzante, nei confronti del senso del tempo, dei ritmi e delle finalità della
psicoanalisi.
Credo che spetti all’analista la capacità di trasmettere quel gusto particolare che
ha l’analisi. L’analisi ha un gusto – e un retrogusto – particolare, e secondo me sta
all’analista riuscire a trasmettere questo sapore. Se riesci a trasmetterlo a quel singolo
paziente, credo che rapidamente il paziente cominci ad apprezzarlo. Credo che una
buona parte dipende dall’analista e da come si pone, di far sentire il sapore speciale che
ha l’analisi. È come il cannolo o la cassata siciliani: se li assaggi difficilmente puoi
farne a meno. Però devi assaggiarli, e non puoi spacciare per cassata alla siciliana il
gelato al sapore di cassata che fanno e vendono in tutta Italia: la cassata ha un gusto
speciale. Molto sta all’analista di far gustare il sapore speciale dell’analisi, compresi i
suoi ritmi, i tempi, oltre a saper fornire – per citare Bion – un buon motivo per tornare il
giorno dopo. L’analisi, secondo me, dovrebbe essere un’esperienza non solo dolorosa,
come è inevitabile che sia – basti ricordare che sempre Bion diceva che noi diventiamo
quello che accettiamo di soffrire – ma anche un’esperienza piacevole e persino
divertente. Dovrebbe essere qualcosa che assomigli all’andare al cinema a vedere un bel
film.
Anche se il film riguarda la propria vita.
In certi momenti anche alla Quentin Tarantino, o alla Woody Allen. Ma non
necessariamente un film «pizzoso». Ripeto: ben consapevole dell’aspetto di sofferenza
che l’analisi ha. Solo che dovrebbe avere anche un gusto e anche dei momenti di piacere
di fare l’analisi. Credo che sia una delle cose che un analista dovrebbe poter trasmettere.
Non quelle analisi – non so se ce ne siano ancora – molto chiesastiche: il famoso
analista muto che non ti parla per sedute e sedute. Super-carismatico. L’analista non è
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un super-uomo: è come uno che ha avuto la tubercolosi, ha avuto la necessità di farsi
una terapia antitubercolare e adesso è capace di passare la terapia antitubercolare agli
altri. Oppure nasce come qualcuno con un difetto di fabbrica. Perché se uno fosse uscito
dalla fabbrica «normale», integro, avrebbe fatto di tutto tranne che fare l’analista. Ci
dovrebbe essere questa consapevolezza, di essere usciti col difetto di fabbrica. Poi in
buona misura aggiustati – ma sempre meno rispetto a chi è uscito sano dalla fabbrica – e
con questa attitudine e capacità a potere fare la stessa cosa a chi dopo di noi è uscito col
difetto di fabbrica, aiutandolo a ritrovare il buon funzionamento che avrebbe avuto se
non ci fosse stato il difetto. Tutto sommato, l’analista più che un «plus» lo vedo come
un «minus», uno un po’ handicappato che dovrebbe mantenere la consapevolezza del
proprio handicap – e anche la specificità e la piacevolezza del proprio handicap, se
vogliamo. Mantenendo sempre questo contatto con la propria difettualità, che se non ci
fosse stata, lo ripeto, si sarebbe fatto altro nella vita.
Qui a Milano gli analisti sono numerosi, la società civile ha caratteristiche un
po’ particolari – Milano è una città che va sempre di fretta – così capita spesso che ci
siano persone che ti vengono a cercare, che vengono a cercare proprio uno
psicoanalista, ma poi non accettano la forma di aiuto che gli analisti hanno selezionato
come la migliore – dal loro punto di vista – nel corso della loro storia. Quelli che non
vogliono fare le quattro sedute. Di questa fascia di pazienti, cosa dobbiamo pensare?
È una cosa un po’ diversa dalla tua domanda, ma non posso non citare l’esempio
di Ogden, brillante come sempre, riguardo a un paziente che va da lui e gli dice: io ho
bisogno di una terapia, però non voglio fare l’analisi. Ogden gli dice: «Se non vuole fare
un’analisi, va bene, ma Lei è disposto a mettersi sul lettino?» «Sì, sì, guardi, per me non
c’è nessun problema. Però non voglio fare un’analisi!» «Ma lei è disposto a dirmi quello
che le viene in mente, cercando di non sottrarsi a questa indicazione?» «Sì, sì, non c’è
nessun problema. Però non voglio fare l’analisi!» «Ed è disposto a venire quattro volte
la settimana?» (E questa è la differenza rispetto alla tua domanda, perché tu dicevi del
non voler fare le quattro sedute). Quel tizio invece risponde ad Ogden: «Sì, sì, sono
disposto a fare quattro sedute, ma non voglio fare un’analisi». E Ogden conclude: «Va
bene, non faremo un’analisi. Lei venga e cominciamo a parlarci». È anche possibile fare
l’analisi senza sapere di farla, o almeno sotto la necessaria menzogna che non la si sta
facendo. Come nelle famose analisi «didattiche», in cui uno dice: voglio fare un’analisi
perché voglio diventare un analista, e poi ci mette quattro anni per capire che fa l’analisi
perché c’è qualcosa che non va, che è una bugia che vuole fare l’analisi per diventare un
analista. Fa l’analisi perché sta male.
Ha trovato la scusa per mettersi in contatto col suo difetto di fabbrica.
Esattamente. Poi ci sono quelle persone che dicono che non hanno la possibilità
per problemi economici. E lì, con «problemi economici» dobbiamo intendere cosa ci
stanno dicendo. Spesso i problemi economici non sono «economici» tout court. Sono i
problemi di economia psichica. Credo che questi siano i casi che si possono
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accompagnare iniziando con due sedute e poi, quando sarà il momento, vedere se sarà
possibile passare a tre, e se si fosse particolarmente fortunati dopo tre anni passare
anche a quattro, ma nei termini di mostrare al paziente che con un numero maggiore di
operai l’azienda si sviluppa e produce meglio. Se poi qualcuno, per motivi di altro
genere, non volesse fare che una o due sedute, credo che lì stia all’analista guardare alla
propria disponibilità e – perché no? – tranquillamente decidere di fare una psicoterapia a
una o due sedute. Non vedrei motivo di dire di no, se uno è interessato a fare un’altra
cosa, che è la psicoterapia, per la quale credo che ci voglia un’attitudine un po’ diversa
rispetto a quella dell’analisi.
Noi abbiamo ormai una lunga tradizione riguardo al fare gli analisti, un buon
allenamento, abbiamo degli istituti che si occupano della nostra formazione in tal
senso. Rispetto ai pazienti che «non vogliono fare l’analisi», ed effettivamente mostrano
che disponibilità non ne hanno, non è che siamo carenti? Nel senso che, pensando
sempre all’analisi, non ci poniamo il problema del perché questi pazienti non la
vogliono fare, e quali possono essere le loro «buone ragioni».
In fondo, un analista dovrebbe essere anche come un idraulico, che è chiamato
da un signore, una signora, una famiglia. All’idraulico può essere chiesto
semplicemente di aggiustare o sistemare un termosifone perché perde. Non vedo perché
l’idraulico dovrebbe sentirsi in dovere di cambiare tutto l’impianto idraulico, di rifare
tutti i tubi sotto il pavimento, di sconquassare la casa. Dovremmo essere disponibili a
offrire quello che il paziente ci chiede. Non credo che l’analisi debba in qualche modo
essere imposta più di tanto, o suggerita più di tanto. Credo che ci siano pazienti che si
possono giovare più di una psicoterapia ben fatta. Quelli che hanno le loro buone
ragioni, come tu dicevi, per non voler fare un’analisi.
Seguendo il tuo esempio dell’idraulico, ho l’impressione che una cosa ci
colpisca soprattutto, come psicoanalisti. La descrivo riprendendo un commento di
Widlöcher a proposito della distinzione tra psicoterapia e psicoanalisi. Widlöcher
lamenta il fatto che nel caso di questi pazienti che chiedono di «non fare» l’analisi –
purtroppo non nel senso del paziente di Ogden –, si parte sperando che prestare
attenzione allo «psichico», nelle sue diverse manifestazioni, stimoli una curiosità
psicoanalitica. Nell’ambito della cura, un miglioramento clinico dovrebbe favorire
l’interesse dei pazienti verso la psicoanalisi nella forma piena. Un buon inizio di
psicoterapia dovrebbe facilmente aprire la strada a una psicoanalisi. Invece nella
maggior parte dei casi – lamenta Widlöcher – le cose non vanno così, e ci troviamo
costretti a interventi fatti di mezze misure e/o a psicoterapie senza fine. Mi veniva in
mente, pensando al tuo esempio dell’idraulico, che questi pazienti ti possono chiedere
di passare con una certa regolarità, magari una volta alla settimana, a vedere se c’è da
mettere a punto qualche sgocciolio, ma non ti chiedano più di quello e creano queste
situazioni di terapia a bassa frequenza e senza fine così sconcertanti per noi.
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Tante cose mi vengono da dire. La prima riguarda quei pazienti che hanno il
mostro del Loch Ness, ma non lo sanno e vorrebbero lasciarlo nel fondo del lago
(perché in fondo non dà neanche particolari disturbi), e l’analista intuisce che c’è il
mostro del Loch Ness. Là dipende anche dall’analista, se si vuole cimentare con un
paziente da cui prevede che prima o poi salterà fuori il mostro oppure no. Quella è una
scelta molto personale, tant’è vero che abbiamo la vexata quaestio dei criteri di
analizzabilità: qual è il paziente analizzabile e quale non lo è.
Taglierei via quest’aspetto, nel senso che guarderei più ai criteri di cimentabilità
dell’analista: è l’analista che deve sapere sin dove lui sente di potersi spingere. Ci può
essere un analista che dice: io al di là del coniglio non mi sento di andare; uno che dice:
io sino alla tigre me la sento; uno che dice: mah, uno sguardo al mostro del Loch Ness
lo darei volentieri, non mi fa paura. Penso che sia una questione di quanto l’analista si
possa sentire Tarzan e quanto Don Abbondio. Anche legittimamente Don Abbondio:
non è detto che l’analista debba essere sempre Fra Cristoforo. Uno deve sempre
commisurare le proprie risorse come analista. Meltzer diceva che il suo vero criterio
dell’analizzabilità erano gli spazi vuoti che aveva nell’agenda, che non mi sembra male
come criterio. Se la sentiva di prendere anche pazienti col mostro del Loch Ness.
Un’altra cosa vera è che dobbiamo tener conto che c’è scuola e scuola. C’è la
scuola psicosomatica di Parigi, di Marty e compagni – un’eccellente scuola, ormai
diventata una società che fa praticamente un training parallelo a quello della SPP, direi
con gli stessi insegnanti, ottimi analisti – che in fondo sostengono che di fronte ad un
paziente psicosomatico il lavoro migliore che può essere fatto sono le due sedute vis à
vis. Un analista di formazione inglese, un analista della British per esemplificare, lo
stesso paziente lo metterebbe cinque volte sul lettino. I criteri di analizzabilità nella
psicoanalisi francese sono molto più restrittivi rispetto a quelli di formazione britannica.
Ho sempre problemi col computer e un bel giorno il mio «computerologo» mi ha
proposto che gli paghi un tot all’anno, e lui si renderebbe disponibile per tutti gli
interventi che fossero necessari. Perché no, allora, la seduta a richiesta per tutta la vita?
«Anziché cambiare tutti i tubi sotto al pavimento, i termosifoni eccetera, io sarei più
contento se posso chiamarLa, ed ogni volta che c’è un termosifone o la doccia che
perde, anziché cambiare tutto, io vengo, e Lei», dice il paziente al terapeuta/idraulico,
«mi cambia la doccia o mi aggiusta la perdita». Why not? Il titolo del film di Woody
Allen è formidabile: «Basta che funzioni». Deve essere in fondo il paziente a dirmi che
cosa vuole, mica posso imporgli la mia verità o la mia soluzione. Se lui vuole una
soluzione «basta che funzioni» e un contratto del genere di quello che ho io col mio
esperto informatico, mi chiederei appunto perché no. Il meglio è talvolta nemico del
bene.
Suggerirei, fin tanto che è di buon gusto, di chiedere a un paziente di
incrementare, di «nuotare» fino alle quattro sedute, di «nuotare» fino al lettino. Se poi
vedi che ha la fobia dell’acqua – Dio santo! – andiamo in montagna. L’analisi è stata la
migliore soluzione per noi; non è detto che debba esserlo per tutti. È come per la
penicillina: ci sono anche quelli allergici alla penicillina. Non mi porrei mai nell’ottica
di giusto o sbagliato, ma di cos’è meglio per quella persona in quella situazione.
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E anche per quell’analista.
Anche per quell’analista. Come credo che ci sia anche il diritto che un analista
possa dire: guardi, io faccio soltanto analisi, perché io sono capace soltanto di fare
quella cosa. In questo caso sarebbe augurabile che l’analista potesse farsi carico di un
invio di quel paziente a una persona di cui si fida e che sapesse fare altri tipi
d’intervento, psicoterapie ben fatte che sono assolutamente utili e preziose.
Perché non ci preoccupiamo tanto, mi verrebbe da chiedere, di quello che ci
potrebbero insegnare queste situazioni? Per esempio, nella formazione analitica la
psicoterapia non c’è tanto, né come tecnica da applicare, né come campo d’esperienza
che possa fornire indicazioni e insegnamenti. Capisco il tuo discorso, che bisogna
mantenere la distinzione tra quello che è analisi e quello che non lo è. Tuttavia ho
l’impressione che in quello che non è analisi c’è un sacco di insegnamenti circa aspetti
non ancora concettualizzati del funzionamento della mente. Non rischiamo di perdere
questa informazione? La dobbiamo lasciare elaborare alle scuole di psicoterapia?
Credo che quel che noi sappiamo della mente umana sia grosso modo il 3%, e il
bello della psicoanalisi è questo, che in fondo se noi riconosciamo di sapere il 3%
abbiamo il 97% che non sappiamo e – secondo me – la vera ricerca psicanalitica è
cercare di dare un nome a questo 97%. Per questo l’analisi è stupenda, perché se noi ci
mettiamo a lavorare su quel 97% che non sappiamo, purtroppo poi scopriamo che è il
127% che non sappiamo. Cioè: più ne sappiamo, più si espande l’area di mistero. Per
questo l’analisi è bella, perché è come un’avventura, come Sandokan e le tigri di
Mompracen, come Verne, come Indiana Jones. Per questo dico che uno psicoanalista
dovrebbe saper trasmettere anche al bibliotecario più smorto il gusto per l’avventura e la
scoperta, anche se questo comporta sofferenze, come dicevamo.
Il rischio è che noi, anziché considerarci degli addetti alla ricerca, ci
consideriamo dei santoni della Verità, tra i quali poi l’analista «Alfa plus» – cioè il
massimo grado dell’analista – si consideri uno che, per ciò stesso, sa fare psicoterapie,
sa occuparsi di bambini, saprebbe guidare anche il Nautilus, ma non in senso
metaforico: in quanto analista è uno che sa fare tutto. Non è affatto così.
Nel nostro training le psicoterapie non si insegnano assolutamente. Non solo, c’è
anche la pretesa di dire che noi sappiamo qual è la differenza tra psicoanalisi e
psicoterapia: ma se non sappiamo nulla delle psicoterapie, come facciamo a dire la
differenza qual è? Per definire la differenza tra scarpe e sandali, devo anche avere l’idea
di cosa è il sandalo; non posso dire ogni volta che c’è una scarpa che non mi convince
che questo è un sandalo. Perché in certe occasioni, per esempio d’estate, il sandalo va
meglio delle scarpe. Credo che dovremmo avere nel nostro training corsi di psicoterapia
fatti da analisti che si sono particolarmente interessati ed impegnati in questo campo,
che ci insegnino che cosa è la psicoterapia e che cosa tecnicamente vi si fa di diverso, e
che ci aiutino a capire quando stiamo usando più strumenti psicoterapeutici che non
squisitamente analitici – il che piacerebbe capire anche a me. Una delle offese più
terribili che si possono fare a un collega è dirgli: questa non è analisi, è psicoterapia!
Ognuno poi si inventa una sua particolare Gestalt di riconoscimento della psicoterapia;
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allora è psicoterapia se non c’è questo, se non c’è quello. Poi ognuno s’inventa la sua.
Sono cose che non sappiamo. Dovremmo studiarle e poi le sapremmo, quel tanto che ci
è dato saperne.
Secondo te, quali sono gli ingredienti di base dei nostri cannoli e delle nostre
cassate? Gli ingredienti della psicoanalisi per i quali si può dire: ci vuole questo, senza
questo non c’è cannolo, non c’è cassata. Poi ci vorranno altre cose, quali l’arte di
cucinarli insieme, di prepararli e anche di venderli, ma questi sono gli ingredienti
indispensabili.
Direi, intanto, un’attitudine mentale dell’analista che è quella di essere un buon
navigatore dell’inconscio. Un esempio viene dal congresso IPA di Mexico City, il cui
titolo è abbastanza onnicomprensivo – inconscio, sessualità, sogni [il congresso si è
tenuto nella capitale messicana dal 3 al 6 agosto 2011, ed un saggio dei lavori presentati
è reperibile sulla Rivista di psicoanalisi, 2011, 2 - ndr]. Credo che il concetto di
inconscio è un concetto che non ha esaurito assolutamente il suo motivo di esistenza,
anche se è molto cambiato. Da Bion in poi l’inconscio è qualcosa che viene formato
dopo il sogno. Abbiamo tanti cambiamenti in psicoanalisi e facciamo finta che non ci
siano.
Quali possono essere le altre cose senza le quali non c’è psicoanalisi? Uno, che
l’analista abbia sperimentato un’analisi sufficientemente buona, che è quello che lo
rende un buon navigatore dell’inconscio, ma che non pensi di essere analizzato una
volta per tutte, e che sia curioso di continuare a fare il suo viaggio. Poi che abbia il
piacere sempre di esplorare nuove zone e di creare nuove mappe di quello che non
sappiamo: che non ci siano pazienti scontati, ma sempre ogni volta avventure nel
mondo, viaggi sconosciuti. Di non fare viaggi organizzati.
Come punti centrali, direi, il sapere che l’analisi in fondo è aiutare il paziente a
continuamente creare un proprio inconscio; non volere dimenticare quello che dice
Ogden, che scopo della psicoanalisi dovrebbe essere quello di aiutare il paziente a fare,
insieme all’analista, quei sogni che non è stato capace di fare, e che sono diventati
sintomi. Riuscire nell’operazione inversa, trasformare il sintomo in sogni condivisi
dentro la stanza d’analisi.
Qui c’è tutto un cambiamento di prospettiva, perché non è più l’analisi in quanto
scoperta di contenuti scissi o rimossi eccetera, ma l’analisi diventa: sviluppare gli
strumenti di cui ogni essere umano può disporre, per ampliare continuamente le proprie
attitudini a pensare e a sognare. Un’altra cosa che non può mancare assolutamente,
quindi, è il livello onirico della comunicazione, l’analisi come qualche cosa in cui ogni
volta «si spengono le luci, tacciono le voci, e nel buio senti sussurrar “Scusi, vuol
ballare con me?”». Ogni volta essere disponibili a ballare quel ballo che può andare dal
tango al rock e può anche essere, invece, fare a botte. Il gusto per l’avventura
dell’analista, che lo sappia trasmettere al paziente. E il gusto del nuovo, il gusto del
nuovo, il gusto del nuovo… Non la celebrazione di quello che sappiamo, di quello che
siamo e di quello che siamo stati. Aprire porte e finestre e guardare fuori e al nostro
futuro, riuscendo a distinguere l’utilità e la fondamentalità delle cose passate, ma
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riuscire a capire che oggi nessuno si farebbe operare la prostata con i metodi che si
potevano usare in chirurgia cent’anni fa. Adesso c’è l’interventino per la prostata, che
fanno addirittura in endoscopia, e dopo mezz’ora il paziente si alza e fa la pipì, non c’è
neanche bisogno di degenza e il giorno dopo è a casa. Se amiamo veramente l’analisi,
dobbiamo fare come re Salomone, che disse che la vera mamma era quella capace di
staccarsi e rinunciare al proprio bambino purché vivesse. Secondo me, ama veramente
l’analisi chi permette all’analisi di staccarsi dal suo passato e di volare via verso il suo
nuovo e sconosciuto futuro.
Mi sembra che tu ribalti un po’ la questione della disponibilità di tempo e
disponibilità all’analisi, nel senso che proprio in quanto è una cosa che libera, è un
vero viaggio avventuroso, sarebbe un vero peccato se qualcuno se lo limitasse. Perciò,
da questo punto di vista, la richiesta di vedersi di più è una richiesta legata alla
sensazione che sarebbe un vero peccato organizzare il viaggio con tappe troppo
distanziate, prima di tutto proprio per il paziente.
In uno dei suoi seminari – come ricordavo sopra – Bion dice: ogni seduta
dovremmo dare al paziente un buon motivo perché ritorni la seduta dopo. In fondo deve
essere un po’ come in quegli abominevoli serial televisivi in cui aspettiamo tutta una
settimana per vedere la puntata successiva, e uno si dice: «Ma quando arriva venerdì,
che fanno Ris 2?» Noi dovremmo essere Ris 4, perché facciamo quattro sedute… Il
paziente e l’analista dovrebbero avere la stessa intensa curiosità per vedere cosa
succede, come la puntata successiva risolve il problema aperto dalla precedente, e ne
apre degli altri. Non come in quelle analisi noiose in cui già si sa che ci deve essere la
scena primaria, e la castrazione, e l’angoscia di questo e di quello. Quelle analisi già
sapute, col libretto come nei viaggi organizzati. C’era un vecchio film che mi pare si
chiamasse «Se è giovedì è il Belgio»: lo sapevi dal giorno, dove eri. Quelle analisi in
cui già sappiamo tutto o quasi di quello che deve accadere, di quello che dobbiamo
trovare, e se il lenzuolo è insanguinato, è qualcosa che riguarda la scena primaria. Ma se
il lenzuolo è insanguinato, potrebbe essere uscito il sangue dal naso a qualcuno; se il
lenzuolo è insanguinato, potrebbe essere stato un delitto e qualcuno che ha ucciso
qualcun altro su quel lenzuolo; quella potrebbe essere salsa di pomodoro sul set di un
film. L’analisi che non sa: è quello il bello. Perché ci piacciono i Ris? A chi piacciono,
ovviamente; a me piacciono e aspetto sempre la puntata successiva. Perché deve essere
una cosa che apre, sia pure con sofferenza, al piacere della scoperta.
Pensi di avere qualcosa da aggiungere, per concludere?
L’analisi nasce come peste e per tanti anni è stata pestifera. Freud andando negli
Stati Uniti diceva: noi stiamo portando la peste. Non stava portando antibiotici. Temo
che l’analisi abbia un po’ perso questo carattere pestilenziale – e pestifero. E che
talvolta gli Istituti di training facciano qualcosa di simile al battesimo cristiano. Al
battesimo cristiano al bambino si chiede: «Rinunci a Satana?» (Per giunta non è
neanche lui a rispondere, è un padrino che parla per bocca sua; lui poverino non
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risponde). E il poverino risponde, ma con la bocca di un altro: «Sì, rinuncio a Satana».
Credo che talvolta gli Istituti di training abbiano questa funzione, di far rinunciare i
candidati a Satana. Credo che l’analista debba essere, invece, pestifero e capace di
salvare quel tanto di satanico di cui c’è bisogno nella vita, soprattutto per non celebrare
il rito dell’analisi, ma andare sempre alla ricerca di quello zolfo, di quel satanico, di quel
misterioso che proprio perché è misterioso assume il sapore del satanico. Poi, man mano
che lo si conosce… Se noi pensiamo all’analisi sempre come qualcosa di cui già
sappiamo tutto, di cui sappiamo la giusta soluzione, sappiamo le coordinate, diventa
tremendamente noiosa. Io non andrei assolutamente a fare un’analisi così. Non rinuncio
a Satana, ecco. Oggi lo posso dire con la mia bocca. E non vorrei che gli Istituti di
psicoanalisi fossero degli esorcisti, che ci fanno rinunciare al nuovo, allo sconosciuto,
che ci fanno sempre celebrare i fasti del nostro passato.
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