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i lettori ci scrivono
Gaudí: da chiesa a mercato
Caro direttore,
ho letto l’articolo «Omelia di pietra. La Sagrada familia e il compimento spirituale di Gaudí» (Regno-att. 20,2010,683). È una bella lettura
teologica. Ma da artista che vive a Barcellona e da uomo in ricerca spirituale mi sto chiedendo che cosa sta succedendo alla povera Sagrada familia. Il sogno di Gaudí può piacere o non piacere, ma è stato certamente
un sogno assolutamente sincero. Alla sua morte nel 1926 neanche un settimo del grandioso progetto era finito. L’abside e il coro non sono suoi.
Della facciata che aveva costruito non erano state completate che tre delle quattro torri. E da allora tutto si è fermato fino al 1955, quando ci fu la
decisione di riprendere i lavori.
Perché una così lunga sospensione? Penso sia addebitabile alla fragilità e alle incognite di un cantiere appena avviato. L’idea di fare una chiesa per il popolo e grazie al popolo doveva misurarsi con donazioni troppo
scarse. Non entravano abbastanza soldi per finire la costruzione in breve.
Poi c’è stata la guerra civile e l’intero progetto è rimasto orfano. Non c’era più nessuno abbastanza coraggioso per continuare sulla strada di
Gaudí, per riprendere in mano, con lo stesso impianto valoriale, ciò che
lui aveva cominciato.
Cosa fare di un coro neogotico e di una mezza facciata gaudiana? Il
dramma è che la città – o gli organismi che hanno preso in mano i lavori
– ha deciso di portare a termine il progetto, ma in maniera antigaudiana.
Ne ha rovesciato il senso. Che lo si voglia o meno la Sagrada familia mi
ricorda l’episodio evangelico di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio,
che ne denuncia la profanazione. Non c’è più traccia di religiosità autentica. C’è solo un grande mercato turistico. Si possono comprare gadget di
ogni tipo. Ormai andare a Barcellona significa visitare la Sagrada familia.
Come andare a Parigi significa salire sulla Tour Eiffel.
Non sarebbe stato negativo se la chiesa fosse stata ripresa con la stessa mentalità di Gaudí. Ma purtroppo non è stato così. Ora la chiesa non
è dei poveri e dei residenti, ma è per i turisti e sarà completata grazie a loro. Gaudí cercava i soldi fra gli operai del quartiere. L’amministrazione
comunale trasformando l’edificio in un luna park. Per di più facendo sembrare che sia opera di Gaudí. Non solo nel modo del finanziamento, ma
anche nella realizzazione del progetto si è cambiata radicalmente strada.
Non si costruisce più con i materiali poveri del contesto, ma con il cemento armato, che dopo viene ricoperto di gesso facendolo sembrare più o
meno identico alla parte costruita da Gaudí. Forse sarà oggi più economico… La conseguenza è che si costruisce un edificio che vuole sembrare un
altro. E trattandosi di una chiesa mi sembra grave. E non parlo di uno stile piuttosto che un altro, parlo di un intero edificio del quale si dovrebbe
poter dire: «Ecco, così l’aveva ideato un architetto in un’altra epoca». L’effetto finale è devastante: è come trovarsi nei parchi tematici Disney dove
sono ricostruiti dei quartieri di Venezia o a Las Vegas dove si possono trovare edifici che sembrano le piramidi…
E se ascoltiamo bene quello che Gaudí voleva dire ci sarebbe un’altra cosa per lui sgradevole da aggiungere. Si tratta della facciata della
sofferenza, della facciata occidentale portata a termine da Josep Maria
Subirachs. È la facciata di Subirachs, non di Gaudí. Lo ha travisato, con
uno stile vagamente «cubista», privilegiando angoli e figure geometriche
più che la fluidità della natura. Le sculture sono in evidente contrasto
con lo stile della chiesa. Esse sembrano dire: «Io, Subirachs, le ho fatte
così, non importa lo stile della chiesa, né di Gaudí». Che cosa infatti denota l’idea gaudiana? L’armonia tra il particolare e la costruzione, l’armonia con la natura, l’umiltà. Ben poco di tutto questo è riscontrabile
in quella facciata.
A parte il cattivo gusto con cui si stanno portando a termine molte co-
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se con l’uso della plastica o altro, che può essere un giudizio del tutto personale, la cosa grave è voler far credere che si tratti ancora di un’opera di
Gaudí. Non è più un’opera di fede, è l’espressione del mercato. Vuol dire
soldi, non l’onore dovuto a Dio. Invece di lasciare coraggiosamente la
chiesa non finita, la città ha trasformato un’opera pulita e sincera in un affare turistico e finto. Poteva esserci una terza soluzione, anche se ormai
non più percorribile. Si sarebbe anche potuto portare a compimento la
Sagrada familia, ma affidando l’opera a persone e artisti con la stessa
mentalità e umiltà di Gaudí. Senza questa innaturale urgenza di finirla in
fretta, volendola far sembrare un’opera di Gaudí. Si sarebbe dovuto proseguire un edificio capace di esprimere la sua fede e la sua pazienza. Magari con cento stili diversi. Come del resto è successo a chiese costruite nel
tempo, avviate come romaniche e finite come barocche. Anche così sarebbe stata una vera Sagrada familia.
Mi rendo conto che queste note suonano fuori dal coro e che, per prudenza, potevo risparmiarle. Non pretendo di aver ragione. Ho solo voluto dare un contributo al dibattito che da tempo accompagna la Sagrada
familia. Del resto, se non ricordo male, un paio d’anni fa un gruppo di architetti catalani aveva già detto cose simili.
Barcellona, 1° dicembre 2010.
Bert van Zelm
Dio non è un principio mondano
Caro direttore,
ho letto con interesse il resoconto che Marcello Neri ha presentato
(«Discernere le presenze di Dio»; Regno-att. 16,2010,554) sull’incontro,
avvenuto a Parigi, in occasione del centenario della rivista Recherches de
science religieuse, con l’intervento del card. Kasper e una successiva tavola rotonda che, peraltro, è stata raccontata in modo troppo… sintetico.
Riguardo alla relazione del card. Kasper su «Pensare la tradizione cristiana oggi» si fa rilevare che il cardinale ha proposto una «teologia di profilo sapienziale in senso biblico» per cui: «Dalla sapienza della tradizione
cristiana non si lascia derivare alcun giudizio concreto per la scienza, la cultura e la politica. Al contrario, comprendere Dio come mistero esclude di
degradare Dio a principio mondano, facendolo divenire così l’idolo a favore di qualsivoglia interesse temporale».
Mi sembra che sin qui il rilievo sia pertinente e importante, ma poi si
aggiunge: «La sapienza religiosa fonda (fonderebbe!) in tal modo l’autonomia legittima dei diversi ambiti mondani della cultura». Ora l’uso del verbo fondare mi sembra… fuori luogo, giacchè se si è prima detto che «la
tradizione cristiana non lascia derivare alcun giudizio concreto ecc.», allora questa sapienza non può… pretendere di «fondare l’autonomia», ma
deve limitarsi a «riconoscere» questa legittima autonomia dei suddetti ambiti scientifico-culturali e politici. Se uno «fonda» qualcosa, si presume che
sappia che cosa deve fondare e perché (e questo non è il caso della suddetta sapienza teologica, secondo quanto si è asserito in precedenza).
Proprio «uscendo dalla confusione arcaica tra potere politico e potere religioso» per una laicità aperta, la sapienza teologica deve limitarsi a
indicare alla «vita della polis» (!) i valori costitutivi dell’umano, lasciando
poi alla suddetta «vita della polis» la responsabilità di tradurli, storicamente, in norme di vita associata. Nella speranza di un resoconto più… dettagliato sul suddetto convegno di studio, porgo distinti saluti.
Bergamo, 2 novembre 2010.
Angelo Marchesi