Art Brut conferenza Locarno
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Art Brut conferenza Locarno
MARCO FRAGONARA IRREGOLARI. ART BRUT E OUTSIDER: TRA DEVIANZA ED ESPRESSIONE I termini Noi riteniamo che queste opere, frutto della solitudine e di un puro e autentico impulso creativo (ove non interferiscono aneliti di competizione, di applauso e di promozione sociale), sono più preziose di ciò che producono gli artisti professionisti. Anzi, di fronte a queste opere noi proviamo il sentimento che l’arte culturale sia, nel suo complesso, il gioco di una società futile, una fallace parata. Così scriveva Jean Dubuffet, pittore che tuttavia si mantiene con il commercio di vini, nel testo introduttivo alla mostra di Parigi al Museé des Arts Décoratifs nel 1967, dove vengono esposte le opere di 135 artisti raccolti sotto il nome di Art Brut, esposizione questa parigina, inaugurata una ventina d’anni dopo, la formulazione da parte dello stesso Dubuffet di questa nuova forma d’arte, Art Brut, appunto, che in realtà è sempre esistita, ma che diviene consapevole di sé solo da quando Dubuffet incomincia a ricercare i primitivi del XX secolo all’interno degli ospedali psichiatrici. Per chiarezza occorre sottolineare che Art Brut o Outsider, termine che si deve nel 1972 allo storico dell’arte Roger Cardinal, o Irregolari, indicano, con le dovute differenze realtà simili, eppure diverse, una codificazione tesa a distinguere tra arte colta e arte spontanea, che mette in evidenza un prodotto che fa leva soprattutto sulle emozioni e su quanto è stato rimosso dalla cultura ufficiale. Gli artisti che rientrano in questa categoria sono tutti clandestini dell’arte quasi che quest’arte grezza, Brut appunto, sottolinei maggiormente l’unione tra arte ed esistenza e metta in evidenza una situazione di disagio che tenta di risolversi attraverso l’invenzione di un linguaggio artistico, che comunque si pone al di fuori dei circuiti abituali dell’arte, outsider appunto. Arte irregolare, infine, perché creata da persone sfuggite ai condizionamenti culturali e al conformismo sociale. 1 E si deve ad alcuni studiosi contemporanei e alle molte recenti iniziative europee, il vivo interesse verso queste forme d’arte. Mi riferisco all’attività del collettivo francese Animula Vagula, che ricerca e continua a scoprire le attuali espressioni artistiche che nascono nella marginalità e nel disagio, oltre naturalmente all’equipe del museo di Art Brut di Losanna e al recente Osservatorio Outsider Art, istituito presso l’Università di Palermo, solo per citarne alcuni. Le espressioni artistiche Brut nascono tutte da uno scarto rispetto alla norma, da un’invenzione spontanea di una sintassi figurativa inedita e singolare, estranea al linguaggio figurativo scolarizzato, istituzionale o codificato dalla tradizione, che spesso si manifesta d’improvviso oppure in una vocazione tardiva, in persone che restano nell’ombra o vengono scoperti quasi per caso. L’attenzione per questo tipo di arte, è stata anche messa ancor più in evidenza, almeno in Italia, in questi ultimi decenni da una serie di esposizioni che prendono vita spesso da collezioni, come la Prinzhorn, parte della quale è stata esposta nel 1997 a Genova e Pavia e da una serie di studi come quelli di Bianca Tosatti, una tra le maggiori esperte italiane in questo settore, confluiti spesso in esposizioni, come quella di Bergamo del 2006, oppure in mostre che accostano outsider e artisti ufficialmente riconosciuti, come è avvenuto nella mostra di Siena dello scorso anno. Inoltre sono attivi oggi in Europa, ma non solo, non pochi centri e musei, che raccolgono le opere di questi artisti, che altrimenti verrebbero dimenticati o dei quali si perderebbe ogni traccia, come in taluni casi è accaduto. Tra, questi, il Museo di Losanna, che nasce nel 1976 dal nucleo centrale della donazione Dubuffet, costituita nel 1971 da più di 4 mila opere di 135 autori alle quali se ne aggiungono altre 2 mila, prodotte da quegli artisti che si trovano a metà strada tra irregolari e arte professionale. Il museo di Losanna, nella sua storia, ha avuto per direttore prima Michel Thévoz e oggi Lucienne Peiry, che continua ad occuparsi di coloro che hanno fatto esplodere la dicotomia culturale arte/vita e hanno protestato simbolicamente contro la separazione tra reale e irreale, ricostruendo un mondo esente dal principio di realtà. 2 Tre precisazioni 1. Art brut si distingue da art naive, nonostante la comune origine popolare, costituita dal primitivismo e dall’infantilismo tecnico. L’art naive, infatti, si basa su una visione figurativa ingenua, l’art brut, invece, sulla necessità interiore soggettiva di esprimere un tema, fondandosi su leggi psichiche e non subordinando le opere alle istanze proprie di un’epoca. 2. Ma quali sono i rapporti tra arte, quella riconosciuta e art brut, dato che quest’ultima poggia le sue basi su leggi psichiche? In quest’ultima domanda si potrebbero intravedere le teorizzazioni del 1909 di Kandinskij, là dove l’artista afferma che l’arte nasce allo stato puro da una necessità interiore, come fuoco interiore della vita dell’autore, e dove l’artista, riflettendo sempre in quegli anni, pone l’attenzione sull’azione psichica del colore, che suscita una vibrazione dell’anima. Il colore rosso, ad esempio può determinare una vibrazione psichica analoga alla fiamma, dato che il rosso è il colore della fiamma. Il rosso caldo, quindi, esercita un’azione eccitante, ma può arrivare anche ad una sofferenza dolorosa a causa della somiglianza con il sangue e quindi il rosso può risvegliare il ricordo di un altro agente fisico che esercita un influsso doloroso sull’anima. Quindi qual è il legame tra arte irregolare e arte colta? Non poche sono le affinità, infatti, tra i due tipi di arte, almeno nella sensibilità, dati i non casuali temi che, come per incanto, transitano da un artista codificato ad un outsider e viceversa. Si pensi alle affinità, per citare due soli esempi, con il dadaismo di Duchamp e del suo contrapporsi attraverso un nonsenso positivo, al nonsenso negativo del reale che, mosso dalle logiche razionali ha portato alla crisi e alla distruzione di ogni ideale, come accade in La marieé mise à nue par ses célibataire, meme (1915-1923), un’opera che non è un quadro ma neppure un oggetto. Risulta, infatti, piuttosto una struttura, un congegno per immagini dipinte su vetro, una macchina il cui funzionamento è puramente simbolico. In quest’opera (fig. A), alta tre metri, viene espressa l’epopea meccanico-mistica del Desiderio d’amore. La marieé fianceé diventa una creatura astrale, con antenne, ed emana il suo fluido sul gruppo dei suoi célibataires in uniformi e livree: il prete, il corazziere, il gendarme, l’agente di polizia, il cassiere di bar, il commesso 3 d’emporio, il becchino, il valletto, il capostazione, in un balletto meccanico nel firmamento, quasi l’amore umano fosse visto da un essere di un altro pianeta, che non capisce nulla. Particolare è l’uso della lastra di vetro rotta, i cui segni di frattura ottengono effetti espressivi nell’insieme di tutta la pittura-oggetto. Oppure alle affinità con il surrealismo di André Breton che nel 1924 pubblica il suo Manifesto, creando un linguaggio ulteriore di rottura. Breton e gli altri surrealisti tentano di trasferire su tela, in scultura, poesia, cinema, letteratura i grandi turbamenti dell’uomo che, attraverso l’inconscio, dà libero sfogo ai propri desideri più nascosti e alle più segrete pulsioni, facendo dell’arte non tanto un ricordo, quanto piuttosto il sogno stesso, la creazione del sogno attraverso i materiali dell’arte e che in pittura si traduce nei molti esiti, tra cui La Vestizione della Sposa di Max Ernst (fig. B) del 1939-40 è solo un esempio. Qui si mette in scena la contrapposizione delle pulsioni primarie che determinano il soggetto: eros e thanatos, ma in modo inquietante e mostruoso per la sua visione funeraria. La sposa vestita di rosso fiammeggiante, carica di erotismo fa i conti con la nozione di morte che avvolge il sognato e il desiderato in un atteggiamento ambiguo tra il seducente e l’orribile. La donna viene vista quindi come invincibile oggetto perverso che incombe con la sua seduzione, dominando l’uomo. L’erotismo, la perversione, il potere, la religione tutti i valori della cultura borghese del tempo vengono in tal modo esplicitati per indicare il loro opposto. 3. Temi questi che verranno ripresi in modo inconsapevole anche da molti irregolari. Si pensi agli ormai storicizzati outsider come Helga Goetze (fig. 1) di Berlino (1922-2008) che negli ultimi vent’anni d’esistenza si recava ogni giorno nel cuore della città dalle 11 alle 13, bardata di un mantello e di un cappello da lei stesso tessuti a rivendicare la sua liberazione sessuale al grido “baciare è la pace”. Un’esistenza normale e borghese, quella della Goetze, sposata ha avuto sette figli, poi verso la fine degli anni sessanta, dopo i primi dipinti ecco che incomincia a ricamare quadri, anche di grandi dimensioni, con numerose figure femminili nude che danzano o sono ritratte in pose lascive, per denunciare l’inibizione e i tabù sessuali e rivendicare il piacere. Ogni scena è preceduta da un breve testo. Oppure, si pensi al giapponese Eijro Miyama (fig. 2) (1934) che, abbigliato in modo eccentrico soprattutto nei cappelli da lui stesso 4 confezionati, e truccato di tutto punto fa la sua apparizione in giro per la città, come se fosse un’opera vivente. Esempi questi che per le tematiche e per le modalità tecniche di affrontarle si collegano alla più recente produzione contemporanea. Si pensi, in particolare, a due delle sei artiste iraniane esposte in questi giorni a Ferrara, in occasione della XIV Biennale Donna nella collettiva intitolata Memorie velate, che ha come tema la discriminazione della donna nella cultura iraniana e come filo conduttore, le memorie di un passato ancora in bilico fra desiderio di modernizzazione e volontà di salvaguardia delle tradizioni culturali e religiose islamiche. In particolare mi riferisco alleopere di Shirin Fakhim (1973) e di Shadi Ghadirian (1974), intitolate l’una Tehran Prostitues, l’altra Like Everyday (fig. C – D, slide 5). In quest’ultimo caso alle figure dal corpo nascosto è stato sottratto anche il volto, sostituito da un utensile domestico. La donna ha un’identità stabilita da pentole, tazzine, mestoli, ferri da stiro, teiere, guanti di gomma a esprimere, non tanto un’invenzione onirica, alla Magritte, quanto la realizzazione di un sogno di una società che vorrebbe relegare l’universo femminile tra i fornelli, privandolo addirittura dello sguardo, che è possibile rintracciare invano tra i buchi di una grattugia di metallo, che rimanda al burqua, al mondo che giunge come attraverso la condanna di un inguaribile disturbo della vista. Tristi sono anche le bambole, a grandezza naturale, di Shadi Ghadirian, eseguite con materiale di recupero che denunciano l’aumento della prostituzione conseguente alla repressione sessuale e il triste risultato del ripudio, degli abusi domestici o della vedovanza subiti da donne che perdono la propria dignità, come previsto dalle regole religioso-sociali. Figure di pezza con stivaloni, in pose oscene, seni fatti con salvadanai e forme di melone che testimoniano l’altra faccia del velo che le donne iraniane sono costrette a portare dal 1979, anno della rivoluzione islamica. Infine, tornando agli outsider, l’ormai celebre Giovan Battista Podestà (fig. 3) (1895-1976), vissuto sul lago di Laveno, turbato dalle due guerre mondiali, che vive in prima linea, che incomincia a realizzare delle sculture e basso rilievi per protestare contro una società materialista. Interviene ovunque, persino sui mobili, sui muri e anche sul suo corpo che concepisce come supporto d’espressione. 5 Per ultimo, tanto per introdurre il nostro tema, altre due testimonianze singolari, l’una espressa dai graffiti lunghi 180 metri, eseguiti sui muri dell’ex manicomio di Volterra da Oreste Ferdinando Nannetti (fig. 4-5, slide 4) (1927-1994) colonnello astrale, ingegnere astronautico, minerario, scassinatore nucleare che firma con l’acronimo di Nanof o Nof4 il suo lunghissimo poema di sentimenti e crimini subiti e testimoniati, incisi sui muri perimetrali del manicomio con la cinghia della cintura, nel tentativo di spiegare e spiegarsi il mondo e di collocare sé nel mondo, fino a che quel poema diviene la sua unica ragione di vita. Un’altra personalità che si esprime con la parola, veri poemi in rima baciata, scritti sui muri delle case di Genova e di molte altre città d’Italia è Melina Riccio (fig. 6-7) che firma con una M a forma di cuore. Una signora di mezza età, nata in provincia di Avellino, praticamente sconosciuta di persona fino a qualche anno fa, che lascia questi messaggi in rosa, convinta di dover salvare il mondo con parole d’amore, di pace, d’ambientalismo e di giustizia, attraverso un repertorio che comprende poesia, collage e performance. Costoro e molti altri sono la continuità di un fenomeno storico molto meno recente, almeno stando alle testimonianze raccolte da Dubuffet tra l’ultimo scorcio del XIX secolo e i primi sette decenni del XX. Vediamo quindi di rintracciare, per quanto possibile, alcune delle tematiche espresse da questi irregolari, facendo qualche incursione nell’arte riconosciuta. 1. Inventori di mondi possibili E’ il primo dei temi che è possibile ravvisare in alcuni di questi artisti. Si pensi in particolar modo a questo proposito ad Adolf Wolfli (18641930), il grande costruttore di mondi, vissuto in Svizzera, l’autore è di Berna, nell’isolamento della malattia in una cella di contenzione per trentacinque anni che opera a cavallo tra ‘800 e ‘900 ad Ascona. La sua opera è colossale, 25.000 pagine di composizioni grafiche, ma anche di collages e creazioni letterarie e spartiti musicali. Le sue sono costruzioni utopistiche, riforme di vita, come le chiamava, con cui tentava di superare le contraddizioni della metropoli e i pericoli 6 della società industriale, con personaggi sempre mascherati che si mescolano a note musicali, a testi e a colori vivaci. Mondi alternativi, creati per un’autorealizzazione individuale come Die Amazohnen del 1919, oggi a Berna (fig. 8-9), che influenzeranno artisti riconosciuti come i dadaisti di Zurigo, Arp e Richter, oppure Paul Klee e infine il gruppo del Bauhaus. Mondi visionari, si diceva, attraverso i quali modellare con la mente qualcosa di nuovo rispetto all’esistente e assegnare al nuovo il valore di verità. Mondi inquieti, eppure precisi nella loro composizione, dove l’invenzione diventa costruzione che dura all’infinito, confondendosi con la vita stessa del costruttore. Di Francesco Giombarresi (Vittoria 1930-Comiso 2007), invece, questo Laboratorio chimico (fig. 10), un inchiostro su carta del 1961, artista apprezzato anche da Sciascia, con un lungo articolo sul Corriere della Sera nel 1969, propone le atmosfere di un mondo altro, assolutamente necessario a quest’artista semianalfabeta, che come in un laboratorio da alchimista crea realtà alternative pur di alleviare la sofferenza umana, convinto com’è di dover continuare una missione. Geometrie alla Piranesi, con griglie molto fitte che sembrano quasi difenderlo dalla paura di fantasmi tutti interiori, dove si avverte la necessità di un futuro. Anche in Paesaggio con animale preistorico (fig. 11) di Gaetano Gambino (Palermo 1924-1981)., il disegno a penna biro del 1980, cela nel suo decorativismo grafico il dramma della solitudine, rappresentato da un albero secco e senza radici, che sviluppa verso l’alto un reticolo di spogli rami tubolari fittamente intrecciati. Un dedalo della psiche che annoda il ritmo dell’io a quello di un mondo ormai inaridito. Un albero d’inchiostro, morto e vivente al tempo stesso, che continua a crescere nel vuoto senza più nostalgia dell’acqua né delle foglie o del vento. Comune a queste opere, la geometria, che l’inventore di mondi conosce, in cui si nasconde l’inquietudine. Per allontanare l’incommensurabilità, l’inventore di mondi, infatti, si appiglia alla precisione, alla contabilità, alle varianti. Questa caratteristica appare evidente fin dall’inizio della storia dell’Art Brut che annovera, tra gli altri, Francesco Toris, rinchiuso nel regio manicomio di Collegno, tra il 1899 e il 1905. Egli è convinto di orientare, definire, far funzionare l’Istituto. E’ un trentatreenne ex carabiniere che per sfuggire al pericolo d’avvelenamento si nutre soltanto di resti di cibi altrui. Il Toris è anche impegnato in 7 un’impresa straordinaria: raccogliere le ossa di bue che recupera dagli scarti della macelleria e delle cucine, che leviga fino a rivelarne il colore, e la consistenza vicina all’avorio. Con attrezzi rudimentali costruisce Il mondo nuovo (fig. 12) in un modo particolarissimo, correggendo gli errori della ragione e creando incastri e appoggi fragilissimi per un’opera che sta in piedi precariamente solo per un istante, quell’istante che è dato di vivere, prima della rovina e della dispersione. Una sorta di torre di Babele dove tutto si frammenta, appunto, e dove la catastrofe, il disastro divengono consapevoli della pluralità. Abitare insomma, sull’orlo del precipizio, là dove ogni mossa può produrre un cambiamento di stato o una catastrofe. L’attimo prima del crollo è vissuto come condizione permanente, nella consapevolezza che la lingua dei costruttori è segnata da una meravigliosa, infinita, incomprensibilità. Non deve certo meravigliare un atteggiamento simile, né tanto meno liquidare l’opera e il suo ideatore con sufficienza. Su un altro versante e con intenti completamente diversi, ad esempio anche nell’arte contemporanea il tema delle ossa levigate ricompare in tutta la sua violenza. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al lavoro di una tra le artiste contemporanee più affermate come Marina Abaramovic, che con intenti e significati diversi, ha lavorato con le ossa. Mi riferisco alle molte performance di quest’artista iugoslava, che ha vinto il Leone d’oro a Venezia nel 1997 con, Balkan Baroque. E’ un trittico in cui Abramovic impersona un medico che racconta la leggenda del Ratto-Lupo, a un cantante da osteria. Gli altri due lati sono occupati dalla madre e dal padre dell'artista. Di fronte al trittico tre grandi catini di rame colmi di acqua scura e un video circondato da un mucchio di ossa: si tratta delle ossa appena macellate che per 22 ore e per 4 giorni l'artista, fino allo sfinimento, ha pulito dalle cartilagini con spazzola e sapone, per espiare i peccati commessi dal suo popolo. In questa performance l'artista canta senza sosta delle nenie in lingua madre (fig. 13 a-b). Dolore e fisicità hanno sempre fatto parte del suo lavoro, anche se la sua non è mai stata un’arte di protesta, né tanto meno un’arte femminista o politica. E come lei stessa ha spesso dichiarato, l’esercizio fisico, la mortificazione del corpo è un rito, un passaggio verso il silenzio che consente a quest’artista di essere presente al suo pubblico in modo totale. 8 Questo il senso di tutto il suo lavoro anche successivo: “Non è un fatto di dolore - dice Abramovic - ma di decisione”. In Abramovic il dolore e la fisicità, in Toris, invece, la creazione del mondo nuovo. In entrambi l’accumulo di cose, oggetti diversi. Come accade anche in un altro outsider, Richard Greaves (1950) canadese, che nel 1976 decide di cambiare vita, dopo aver studiato alla scuola alberghiera, essersi iscritto a teologia e aver fatto il cuoco e il grafico. E’ disgustato dalla società dei consumi e decide di abitare in Quebec. Con qualche amico acquista un terreno vergine nei pressi di una foresta e incomincia a realizzare con oggetti quotidiani delle capanne di legno, che sembrano avere un equilibrio instabile e sul punto di crollare, dato che non presentano angoli dritti. Costruisce una quindicina di queste capanne sempre su tre livelli (fig. 14). Pur non essendo abitabili sono arredate di tutto e all’interno le pareti sono ricoperte di giornali e da illustrazioni per bambini, oltre che da testi e poemi e dalle fotografie di amici. Un intervento sul territorio questo di Greaves che risponde, ma con altre intenzioni, alle opere di uno degli artisti italiani affermati di Land Art, Giuliano Mauri (fig. 15-16, slide 12) (1938-2009), che interviene sulla natura con un’azione spesso arcaicizzante che si rivolge a problematiche contemporanee. Intrichi di tronchi organizzati secondo tecniche di intreccio tradizionali ripropongono domande sul senso della natura e su quanto l’uomo le possa essere vicino. Le sculture di Mauri rivestono i concetti che abbiamo di natura e di cultura, modellandoli con abiti della stessa foggia di cui i concetti sono composti. Ecco perché quella di Mauri è una ricostruzione di un passato caduto nell’oblio, che vorremmo fare riaffiorare nuovamente. Su un altro versante, ma sempre su quello dell’arte riconosciuta, anche un altro artista contemporaneo fa uso dell’accumulo di oggetti. Sono innanzitutto vestiti dimessi. Stiamo parlando di Christian Boltanski (1944), che trascorre l’infanzia all’insegna del lutto: crede che il padre sia morto, mentre vive nascosto per sfuggire alle SS. Nel 1968 crea l’opera che fonda il suo lavoro successivo: Ricerca e presentazione di tutto ciò che resta della mia infanzia, 1944-1950. Una lunga serie di oggetti, sequenze suoi o di altri, messi insieme con un’ansia catalogatoria, con cui tenta di arginare lo scorrere del tempo anche con una sequenza di date (fig. 17). E’ ciò che la critica definisce con la categoria di Narrative 9 art, che a metà degli anni Settanta nasce come reazione all’arte concettuale. Narrare, appunto, vale a dire raccontare, ma anche conoscere e fare, se prestiamo fede all’antica etimologia di questo verbo, come dire che il racconto implica sia una modalità del conoscere, che un modo di narrare. Narrando o narrando-si si costruisce e si conosce, in un continuo processo dialettico tra un io autonomo e un io di appartenenza: io sono me stesso, ma anche io sono parte di questa classe, di questo gruppo, famiglia cultura. Ma torniamo a Boltanski che dal primo gennaio 2010 ha avviato un singolare progetto: ha venduto la propria vita, ovvero la registrazione di ciò che accade ogni minuto nel suo studio per otto anni ad un collezionista della Tasmania. Verrà pagato ogni fine mese fino a saldare il costo dell’opera. Se morirà prima di allora, avrà vinto il collezionista. Di Boltanski, ecco quest’opera recente, intitolata Personnes, un’installazione ospitata in questi mesi al Grand Palais di Parigi (fig. 18 18, slide 14) che già dal titolo francese gioca linguisticamente sul significato, può voler dire “nessuno” o “persone”, quasi a dire una mostra sulla persona, ma anche sugli innumerevoli nessuno che hanno abitato e abitano il mondo. Ancora un percorso nella memoria che coinvolge i sensi. Innanzitutto il freddo glaciale che Boltanski ha voluto. La mostra è stata inaugurata a gennaio. Niente riscaldamento affinché il gelo divenisse un elemento. “Lo spettatore – dice – deve essere dentro l’opera che deve avvolgerlo completamente. Personnes è stata concepita come un esperienza dura”. Poi il rumore, un suono ritmato non identificabile e quindi allarmante che aumenta e si scopre essere il battito amplificato di numerosi cuori, simbolo ancestrale della vita e anche traccia dell’individualità di ciascuno, capace di superare la fragile sopravvivenza affidata al ricordo di chi ha conosciuto e resta dopo di noi. Poi in mostra compaiono le formelle quadrate fatte di vecchi abiti, recinte di pali metallici da cui si diffonde il battito dei cuori e illuminate da luci al neon, come in un obitorio. Infine nel fondo una montagna conica di abiti spiegazzati, alla cui sommità gli artigli meccanici di una benna ne pescano a caso alcuni per lasciarli poi ricadere, metafora del destino e della morte. Presente l’ombra della shoah che ha accompagnato l’infanzia dell’artista nei racconti dei familiari. Un’installazione, una mostra che si fa luogo e ci coinvolge appunto. 10 Sull’altro versante, quello degli outsider, l’idea dell’accumulo di segni e simboli può essere osservato nell’ex osservatorio militare sul monte Capo Gallo a Palermo (fig. 19), chiamato da quelle parti semaforo e oggi eletto a dimora di un eremita, ex operaio che lo ha decorato all’interno con uno straordinario complesso di mosaici. Costui abitava allo Zen di Palermo e da solo ha restaurato l’edificio, iniziando una vita solitaria e schiva in cima alla montagna, trasformando il luogo in un tempio, le cui pareti sono ricoperte da mosaici di simboli di tutte le religioni. Oggi, resta solo da decorare l’esterno. Questo edificio rimane aperto per permettere a chiunque di entrarvi. In esso regna un ordine assoluto. Sorprende il ritmo elegante con cui l’eremita scandisce i cuori, cornici, e colori sulle pareti. L’impianto che si ottiene è a dir poco metafisico. Simile a quello di François Portrat (fig. 20) (1884-1976), che dopo aver lavorato in una farmacia, in una drogheria e ad aver aperto egli stesso un negozio a Nizza, acquista nel 1947 una casa con giardino a Sens e incomincia ad addobbarla di una moltitudine di barili dipinti e di una moltitudine di figure e sculture di animali, realizzate con frammenti di vetro e piatti, assemblati con sabbia e cemento e poi dipinti con i più diversi colori. E di un altro santuario si tratta anche per l’opera di Giovanni Cammarata (Messina 1914-2002) che viveva in un quartiere triste a Messina e per questo aveva bisogno dell’utopia, di legno, di cemento, di gesso, e di mille altri materiali e grandi tavolozze a colori. Era il suo mondo. Era un poeta che viveva circondato di cassonetti, ferraglie, amianto e macchine bruciate. Proprio per questo inizia a reinventarsi la propria casa, una baracca in una strada desolata che Cammarata rinomina via delle Belle Arti (fig. 21). Una facciata sormontata da fantasiosi pinnacoli, mosaici in pietre dipinte, vetri di bottiglia di birra, animali e figure leggendarie e poi statue policrome, con crocifissi e personaggi mitologici e quelli tratti dalla tradizione popolare. Cammarata dipinge sui muri antistanti la casa, animali fantastici, arabi delle mille e una notte, murali ancora oggi visibili, anche se ormai sbiaditi. Procede per addizione senza un progetto generale, né senza un centro narrativo, ma occupa un vuoto. E’ un mondo altro, che racchiude la miseria, e che s’imbeve di vissuto, di esistenza in atto. Mondo privatissimo, dato allo sguardo, mondo intimo dove poter esercitare a briglia sciolta i sentimenti più profondi, le fantasie più sfrenate, le visioni. Una vita soggettiva che incrocia lo spazio con il 11 tempo, trasformando la baracca originaria in un luogo dell’anima. Come non pensare a una visione malinconica, anzi disperata della storia, al di là della sua esuberanza, poiché dietro alle teorie del progresso, il passato naufraga nel suo continuum, nel cumulo di rovine, proprio come la casa di Cammarata, oggi. Ed è proprio con i suoi bestiari, che Cammarata registra ogni tipo di animale (fig. 22) dagli uccelli, alle tartarughe agli elefanti, cavalcatura regale e simbolo di stabilità, spinto da una forza particolare: un giorno raccontava Cammarata si sentì toccare la spalla e girandosi vide un vecchio signore elegante, un bel vecchio con un abito caffelatte, che gli disse prima di sparire: “Sono io, qui cent’anni fa c’è stato un miracolo, è un posto speciale, continui a lavorare, a creare, ad avere passione”. 2. Zoomorfismi e custodi di pietra Costruire un senso nel tempo e nello spazio attraverso la pietra, dove attraverso un registro mortuario assistiamo all’epifania del corpo e della vita come accade nelle opere Filippo Bentivegna (Sciacca 1888-1967) (fig. 23) Acquistato un campo pietroso vicino a Sciacca, per quasi cinquant’anni questo strano personaggio scava cunicoli alla ricerca di altri sassi che scolpisce con coltelli e picozze. Il risultato, migliaia di teste disposte a semicerchio o ammassate a piramide, un tributo alla Madre Terra. Scavo gallerie e mi sprofondo nella terra … la riempio … ne traggo la mia erezione ... per questo qui sono tutti vivi … io li ho fatti rinascere è nella terra che si pompa il seme dell’uomo … ho fatto un buco profondo 48 metri, poi l’ho richiuso e vi ho messo una pietra sopra … la pietra della mia verità confida nel 1963. Nella sessualizzazione rituale del rapporto con la terra viene fecondata la sua creatività. E’ ancora l’ancestrale Madre Terra, che può salvare dalla catastrofe. Quella di Bentivegna è una specie di ritualità sciamanica dove si può leggere il colore ambivalente della morte, ma anche della vita come se l’atto dello scolpire significasse spargere il seme, fecondare la pietra e renderla vivente, in una vera pulsione erotica, in gesto che affonda nella carne. 12 In definitiva la dimensione spirituale del corpo viene proposta come alternativa alla morte e diventa un atto primordiale. Simile, almeno idealmente, è anche l’opera di Francesco Cusumano (1914-1992). Anche per lui uno spazio aperto, una collina, affidatagli da voci. Anche per lui un mondo ancestrale da fa vivere e conservare, anche per lui pietre, legno, radici da scolpire (fig. 24-25). Radici che il filosofo dell’immaginazione Gaston Bachelard ha definito a metà del secolo sorso, il “morto che vive”. Ancora il circuito morte e vita, che Cusumano propone negli oggetti ritrovati su cui poi interviene con la sua energia creatrice. Come per Bentivegna (fig. 26), anche per Cusumano alcune ossessioni virili come gli alberi dei falli o gli uomini bastone. In entrambi, un’allegria tragica, a cui si aggiunge anche quella di Rosario Santamaria (1913-1992) di Favignana. Anche per lui pietra, tufo, e radici, (fig. 27) con le quali incomincia a popolare l’isola, in una continua giostra tra vita e morte, che intravede nelle forme che incontra e su cui interviene per far uscire del tutto la forma nascosta. Fatto questo certamente non nuovo nel mondo dell’arte, se pensiamo ai tanti esempi che la storia ci offre, proponendoci figure strane ed oscure. Si pensi, a puro titolo esemplificativo al giardino di Bomarzo (fig. 2829-30-31 slide 25), ideato nel 1552 da Pirro Logorio su commissione del Principe Pier Francesco Orsini, in memoria della defunta moglie Giulia Farnese o alla settecentesca villa Palagonia a Bagheria vicino a Palermo, decorata da animali fantastici e figure antropomorfe (fig. 3233). In questo filo rosso che unisce epoche diverse, l’art brut risponde in decenni abbastanza recenti con le opere del francese August Forestier (1887-1958) (fig. 34), affascinato dai treni e dalla fuga, tanto da provocare il deragliamento di un treno, che gli costerà ventisette anni di ospedale psichiatrico, luogo in cui incomincia a scolpire e disegnare, soprattutto soggetti antropomorfi, oppure con le sculture di Angelo Meani (1906-1977) (fig. 35), milanese di nascita, figlio di scultori di marmo, frequenta la Scuola di Belle Arti di Brera, e ad un certo punto incomincia a raccogliere frammenti di stoviglie e ogni tipo di oggetto quotidiano a lui utili per costruire delle maschere strane. Oppure le opere di Pascal-Dèsir Maisonneuve (1863-1934) (fig. 36), formatosi come mosaicista, ma che ad un certo punto della sua vita incomincia a raccogliere oggetti insoliti e opere d’arte di tutte le epoche. Anarchico, 13 anticlericale, tipo bizzarro tra il 1927 e il 1928 incomincia a confezionare in uno spirito di derisione le effige dei sovrani e degli uomini politici di tutti i paesi con conchiglie anche di grandi dimensioni, che trova nei mercatini delle pulci e che assembla con il gesso, fino a comporre una composita galleria parodistica di personaggi. Infine il giovane giapponese Schinichi Sawada (1982) (fig. 37), affetto da autismo, che lavora in una capanna isolata tra le montagne producendo in terra cotta strane figure, mezzi-uomini e mezzi-demoni, dall’aspetto misterioso, esposto in questi giorni a Parigi e fino al prossimo gennaio, per la manifestazione di art brut giapponese al Museo della Halle Saint Pierre che raccoglie 63 creatori nipponici e più di mille opere, occasione questa per comprendere il carattere davvero universale di questo tipo di arte. Come è possibile notare da quanto andiamo dicendo, l’insieme delle opere di questi outsider forma un universo ricco e singolare, dotato di significati propri che spesso custodiscono un loro mistero. Figurazioni schematiche o stilizzate, figure geometriche, o segni elementari o macchie di colore, questi i motivi ricorrenti espressi con materiali d’uso quotidiano per comporre un vocabolario individuale e originale, ma che offre un ordine espressivo preciso e nasconde un universo di pensieri ed emozioni. Pensieri ed emozioni che spesso si concentrano sul tema del corpo, come le opere realizzate da Judith Scott (fig. 38-39 slide 31) (1943-2005), americana, affetta da sindrome di down, muta e sorda dal 1986, all’età di 44 anni, incomincia a realizzare sculture di grandi dimensioni, anche di un metro e mezzo d’altezza, che costituiscono il suo unico mezzo di comunicazione. Accumula una serie d’oggetti tra i più disparati che assembla e avvolge in fili, corde, fibre diverse, fino a proteggerle e a mascherarle integralmente. Nel corso di questo lungo processo, la scultura prende una forma sia figurativa che non figurativa, sia organica che antropomorfa che ricorda un gigante bozzolo o un feticcio magico. Quest’ultima irregolare dell’arte ci collega per molti aspetti da una parte a quel movimento dell’arte contemporanea che prende il nome di Fiber art, dall’altra alla Texitile art vale a dire quei due movimenti affini, sorti negli anni Cinquanta in America che raggruppano artisti che si esprimono attraverso il tessuto e l’arte tessile di cui Shihoko Fukumoto, Ellen Korth, Anna Moro-Lin e Kenji Takahashi, per non dimenticare Alighiero Boetti sono solo gli ultimi esponenti, ai quali si collega anche una delle scultrici 14 polacche contemporanee più rinomate al mondo, difficilmente catalogabile in etichette che risponde al nome di Magdalena Abakanovic (fig. 40) (1930). La sua ricerca mostra punti di contatto con la tendenza intenzionale antiforma e ha toccato tempestivamente i temi della femminilità e dell’erotismo. Nel corso della sua carriera, ha potuto, infatti, operare nella totale libertà dalle regole. Quello che permane in ogni sua fase creativa, sono le mostre, concepite per essere spazi di esperienza e luoghi in cui maturare sinteticamente una serie di paure, delizie, stupori, protezioni, solitudini a altri sentimenti basilari così come accade nella successione dei fatti dell’esistenza umana. Per Magdalena Abakanowicz, l’opera è la mostra nel suo complesso, installazione dalle molte tecniche ma tesa a fare nascere un’atmosfera di generale disagio, di stupore per la vita e al contempo di inestricabile difficoltà del vivere. La sua scultura di materiali soffici tocca un apice con il complesso Embriology, (1978-1981) un ambiente composto in origine di ottocento elementi (duecento sono andati dispersi durante la Biennale di Venezia, probabilmente asportati dai visitatori), una delle installazioni ambientali più d’impatto mai realizzate. Come scrive Angela Vettese, “Chiunque vi penetri entra in una sorta di ovaia dove si trova a contatto con le diverse fasi della vita nel suo momento di bozzolo iniziale, di piccolo ammasso cellulare, di esseri che stanno passando come gli embrioni allo stato di feto. Ci troviamo a confrontarci con la transizione da uno stato all’altro, con l’apparente disordine delle cellule nel nostro corpo, con i tessuti del corpo che è così facile –lacerare o anche soltanto disturbare. Embriology è un grande teatro dell’essere prima che esso sia, benché ricordi – o forse anche per questo – i luoghi dove i mercanti di granaglie tengono i sacchi delle loro merci, così preziose e così facilmente esposte ai topi e ad altre calamità”. A tal proposito, la stessa Abakanowicz afferma: “Io divento una cellula di questo organismo senza confini che è la folla, come altri già integrati e deprivati di espressione. Distruggendosi l’un l’altro, noi ci rigeneriamo. Attraverso l’odio e l’amore, noi ci stimoliamo l’un l’altro”. 3. Antropormofismo e l’altro Il corpo e le sue ossessioni arcaiche oppure i complessi sentimenti che esso suscita, trovano, quindi, il suo centro nell’immaginazione. 15 Come accade anche per un irregolare dell’arte come è Giovanni Bosco (1948-2009), dottore di tutto, come amava definirsi questo strano personaggio di Castellamare, che ha saputo creare un proprio sistema figurativo non solo sui muri della case della sua cittadina, ma anche in una serie di opere su carta, cartone e supporti diversi. Una serie di sagome le sue colorate a partire da una personaggio che compare in grandezza diverse e che probabilmente rappresenta un suo alter ego, un tizio qualunque, uno scacciademoni, un pupo che ha un corpo stilizzato in uno schema geometrico iscrivibile in un quadrato e appare come una singolare combinazione di figura azteca e di guerriero extraterrestre. In realtà è soprattutto una sorta di mappa anatomica, dove spesso su ogni singolo elemento che la compone è indicato anche il nome: testa, fronte, naso, bocca (fig. 41). Più che un organismo unitario sembra un insieme di organi e arti pronti ad essere smontati e rimontati, come nel gioco del meccano. Bosco, infatti, ne fraziona e ne isola i singoli pezzi, le braccia, le gambe che in altri disegni diventano soggetti a se stanti campeggiando sui fondi colorati, quasi a scongiurare la perdita dell’unità dell’io. Nella frammentazione corporale si rispecchia lo smembramento psichico dell’individuo, ma disegnare e ridisegnare quel frammento anatomico scollato dal resto, farne la propria icona, è un modo per riprenderne possesso (fig. 42 – 43 slide 33). Un corpo che si smonta e si rimonta, separato dal cuore che è dotato di vita a sé. Le sagome sono spesso contrassegnate da una parola o da un numero, che identifica le diverse porzioni del corpo, mentre la scrittura colma di sé gli spazi vuoti e ogni interstizio tra le figure, elencando date, nomi di città o persone, numeri e oggetti. Calendario di una temporalità differente, non lineare, come non lineare è il tempo psichico, libero inventario di una geografia del suono e del sentimento. Corpo come tema prediletto, quindi, anche da moltissima arte contemporanea, nella sua affermazione, ma anche nella sua negazione. E’ proprio sul corpo che si cercano i segni dell’oscurità interiore, delle radici sconosciute del desiderio. E’ sul corpo che si trovano i segni della singolarità umana e nel contempo della sua solitudine. E nel corpo ciò che attrae maggiormente la nostra attenzione è il volto sul quale compare, compiendosi, la presenza di sé, ma anche dell’altro. Pensiamo solamente tanto per attingere dall’arte contemporanea ai lavori degli anni ’90 di una delle più complete artiste di oggi, Shirin Neshat, 16 nata in Iran, ma ben presto emigrata negli Stati Uniti, che non ha mai perso il suo legame con le origini, un legame certamente sottoposto al vaglio della critica, anzi che ha fatto dell’arte un modo per riappacificarsi, almeno agli inizi, con il suo paese (fig. 44-a-b slide 34). Con Donne di Allah (1993-1997) quest’artista ha cercato di creare ritratti stilizzati e minimalisti di donne musulmane militanti, per esplorare il concetto di martirio nell’Iran dopo la Rivoluzione Islamica. Con una meticolosa selezione dei simboli (corpi, pistole, testo, veli) Shirin Neshat ha cercato di afferrare l’essenza stessa di questo paradosso e di capire in che modo il martirio si trovi a uno stesso tempo sulla soglia tra la vita e la morte, tra la spiritualità e la violenza, tra la repressione e la devozione. Successivamente a partire dal 1997 e fino al 2002 quest’artista si è dedicata alle installazioni video, e per lei l’arte dei filmati è diventata una sorprendente innovazione. Poi nel 2002 la delusione e la frustrazione nei confronti del mondo dell’arte, a cui è seguita un’ampia pausa di riflessione, durante la quale si è avvicinata al cinema, fino a girare qualche anno dopo il suo primo lungometraggio dal titolo Donne senza uomini, che recentemente ha ricevuto ampi consensi a Venezia. Foltissimo è il numero degli artisti che hanno fatto del corpo il loro oggetto d’indagine, così come accade nei soggetti antropomorfi di un altro irregolare Sabo, alias Salvatore Bonura (Palermo 1916-1975), con temi che inquietano perché generati da un’immaginazione metamorfica che, dato che abolisce ogni confine tra mondo umano, animale e vegetale, ripugna alla coscienza moderna ma appartiene al totemismo originario che fu all’alba della nostra storia (fig. 45-46). Quella giungla antropomorfa, le cui radici affondano nell’oscura ragione dell’interiorità e nella memoria archetipica, non è, infatti, la rappresentazione di un mondo esterno al soggetto, corrisponde piuttosto all’ellittica ramificazione della psiche, viscerale come un intestino che si autogenera con i suoi viluppi e le sue ansie. Ogni foglia è anche una vulva, ogni frutto un fallo, il sesso è ossessione tentacolare nella verde foresta dominata dal principio femminile. Quella di Sabo è un pensare per immagini, dove gli occhi di queste creature sono le cose più terrificanti, che consentono di trovare gli aspetti muti che si sono organizzati nell’apparato psichico. E anche qui la triade nascere-morire-fecondare. 17 Come abbiamo potuto notare, in tutti gli irregolari, ma non solo, esaminati fin qui si manifesta con prepotenza l’enigma dell’arte. Ma l’enigma dell’arte non può essere risolto. Accade anche in questi ultimi due outsider, Laure Pigeon (fig. 47-48) (1882-1965), che iniziata allo spiritismo, realizza i suoi primi disegni e alla sua morte ne lascia 500, tracciati ad inchiostro blu o nero e molti quaderni, dove è possibile ravvisare un sistema complesso di oscuri messaggi, resi ancor più oscuri da una grafia incerta e spesso illeggibile. Oppure il lavoro di Jeanne Tripier (fig. 49-50) (1869-1944), che all’età di 58 anni incomincia a disegnare e a scrivere, considerando le proprie opere come delle rivelazioni, fin quando nel 1934 è internata in un ospedale psichiatrico, dove continua a disegnare e a scrivere. Mescola diversi colori, aggiunge ora dello smalto da unghie, ora dello zucchero ora delle medicine. Alla sua morte vengono ritrovati più di 300 disegni, una cinquantina di stoffe dipinte e circa due mila pagine di testo, alquanto enigmatiche. Appunto l’enigma dell’arte. Quel che conta, è vederlo quell’enigma dell’arte, attraverso le forme simboliche che riconducono non solo al soggetto, ma al mondo, alla natura, da interpretare secondo la produttività dell’immaginazione, che deve tenere conto anche dei materiali utilizzati. Nel materiale in definitiva vi è un’immaginazione nascosta: vi è la capacità di riunificare funzione, struttura e oggetto sensibile. Descrivere il simbolo nei suoi progetti anche genetici, è dunque l’unico modo per tematizzare il mondo della vita, per non farlo sfuggire in un’immanenza indefinita per comprendere che il suo linguaggio è il nostro linguaggio, quello con cui giochiamo nel mondo. 18 IRREGOLARI. ART BRUT E OUTSIDER: TRA DEVIANZA ED ESPRESSIONE Argomenti, artisti e foto I termini: Art brut, Outsider, Irregolari Tre precisazioni: Art brut e art naive Art brut e arte Leggi psichiche: art brut, Kandinskj, Bauhaus, Klee, Arp, Richter L’art Brut viene da lontano nel tempo: Giardini di Bomarzo e Villa Palagonia Jean Dubuffet e l’art brut Animula Vagula Museo di Losanna Le molte manifestazioni nel mondo di Art Brut Artisti art Brut: Artisti contemporanei: Marcel Duchamp Max Ernst Artisti contemporanei: Helga Goetze Eijro Miyama Giovan Battista Podestà Oreste Ferdinando Nannetti Melina Riccio Shadi Ghadirian Shirin Fakhim Inventori di mondi: Adolf Wolfli Francesco Giombarresi Gaetano Gambino Francesco Toris Richard Greaves Ex osservatorio militare François Portrat Giovanni Cammarata Artisti contemporanei: Marina Abaramovic Giuliano Mauri Christian Boltanski 19 Zoomorfismi e custodi di pietra: Filippo Bentivegna Francesco Cusumano Rosario Santamaria August Forestier Angelo Meani Pascal-Dèsir Maisonneuve Schinichi Sawada Judith Scott Artisti contemporanei: Magdalena Abakanovic Antropormofismo e l’altro: Giovanni Bosco Salvatore Bonura Laure Pigeon Jeanne Tripier Artisti contemporanei: Shirin Neshat L’enigma dell’arte 20