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PERIODICO QUADRIMESTRALE - PUBBLICAZIONE OMAGGIO - ANNO XXI N.76 MAGGIO 2012 - SPEDIZIONE IN A.P. 70% - FILIALE DI MILANO
PANE QUOTIDIANO
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PERIODICO TRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ PANE QUOTIDIANO (1898)
Iscritto alla
Unione
Stampa
Periodica
Italiana
ANNO XXI N.76 Maggio 2012
Reg. del Trib. di Milano n.592 del 01/10/90
Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Milano
Pubblicazione Omaggio
Direzione, Redazione, Pubblicità e Relazioni Stampa
Viale Toscana, 28 • 20136 Milano
Telefono 02-58310493 • Fax 02-58302734
[email protected]
indice
Dioniso - Francesco Licchiello
4
Quando muoiono i Maestri - Guido Buffo
6
Amerigo Vespucci - Gigliola Soldi Rondinini
7
L’epopea di Gilgamesh - Atanor
10
Nettuno, pianeta dell’Utopia - Enrica Franciolini
12
Misteri e Segreti dei Templari - Angelo Casati
17
America Britannica - 1776 - Umberto Accomanno
19
Far tacere la vecchia mente per far parlare la nuova
coscienza - Rodolfo Signifredi
22
Il trionfo di Venere ovvero il piacere della lusinga
Mirta Serrazanetti
25
Dopo il pane e il formaggio, il salame! - Renzo Bracco
26
El guarnasc - Ercole Pollini
28
1938 - La nuova FIAT “2800” - Ercole Pollini
31
Cucina - Ercole Pollini
33
Zanzare
34
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Direttore Responsabile
Pier Maria Ferrario
Segretario di Redazione
Ercole Pollini
Relazioni Esterne
Cinzia Bianchi
Redazione
Gigliola Soldi Rondinini
Hanno collaborato:
Francesco Licchiello, Guido Buffo, Gigliola Soldi Rondinini,
Atanor, Enrica Franciolini, Angelo Casati, Umberto Accomanno,
Rodolfo Signifredi, Mirta Serrazanetti, Renzo Bracco, Ercole
Pollini.
Grafica e stampa:
Tipografia Vigrafica srl
Federico Ferrario
Viale gb Stucchi, 62/7 • Monza
tel. 039.20.28.028 • fax 039.20.28.044
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Copertina:
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particolari, solo a tre copie giustificative dei lavori pubblicati.
Francesco Licchiello
Dioniso
Di probabile origine tracia
o, meglio, asiatica, Dioniso,
ebbe un culto assai antico,
tributatogli nel periodo miceneo-cretese. Il suo culto
comprendeva pratiche estatiche e orgiastiche: le sue
seguaci, dette mènadi o
baccanti, portavano il tirso
(un bastone con una pigna
in cima, coronato di edera
e di pampini) e vagavano
4
nei boschi celebrando il dio
nell’ebbrezza dionisiaca, al
limite della ferinità e della
violenza; del suo corteggio
si riteneva facessero parte
anche centauri, ninfe e satiri: uno di loro, Sileno, fu precettore del dio. L’unica sede
fissa in cui godeva di un culto era Delfi, dove divideva il
tempio con Apollo e veniva
celebrato in grandi feste cit-
tadine e con lo svolgimento
di numerose competizioni
teatrali, alle quali partecipavano grandi drammaturghi
come Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane.
Nei suoi misteri la funzione
della musica era centrale.
Il culto mistico di Dioniso
ricopriva un’importante funzione sociale, in quanto sublimava e simboleggiava
elementi della religione che
la civiltà greca aveva rimosso o superato, quali il sacrificio cruento, l’adorazione
della natura, i culti fallici e i
riti di iniziazione.
Era ritenuto figlio di Giove e
di Semele, figlia di Cadmo e
Armonia.
Secondo il mito greco, Semele, consigliata dalla gelosa Era, pregò Giove di
mostrarsi come dio e non
come mortale. Giove, dietro
l’insistenza della sua amante, accondiscese e Semele
morì arsa dal fuoco divino.
Giove fece in tempo a sottrarle il figlio dal grembo inserendolo in una sua coscia.
Dioniso, reso così immortale, scese poi agli inferi per
liberare la madre e portarla
sull’Olimpo.
Biagio Chiara nella sua opera
La mitologia, accenna a una
relazione di Dioniso con
Mosè, ipotizzata da G. Giovanni Vossio (XVI-XVII sec.),
Padre Tomasino e dal vescovo francese Pierre Daniel Huet (1630-1721):
«Nacque Dioniso in Egitto
dopo due maternità, quella
di Semele e quella di Zeus:
fu ritrovato esposto nell’isola di Nasso, e questa
circostanza di essere stato
preservato dall’acqua fece
dare a Dioniso il nome di
Misas, vale a dire ‘salvato
dalle acque’. Mosè nativo di
Egitto ebbe parimenti due
madri, l’una che lo partorì e
l’altra che lo adottò; il medesimo fu lasciato sopra le
rive del Nilo e fu chiamato
Mosè perché era stato salvato dalle acque… Dioniso
passò il mar Rosso con una
grande armata composta di
uomini e di femine per andare alla conquista dell’India.
Mosè traversò similmente
questo mare e l’Arabia con
una numerosa armata, composta del pari di uomini e di
femine per andare alla Terra
promessa.
La favola attribuisce delle
corna a Dioniso e gli mette
in mano uno spaventevole
tirso. Mosè aveva sulla fronte due raggi di luce e portava nelle mani la miracolosa
verga. Dioniso fu allevato
su una montagna della geografia mitica chiamata Nisa.
Mosè passò quaranta giorno sopra il monte Sinai, di
cui pare che Nisa sia l’anagramma».
Ci sarebbe ancora qualcosa da aggiungere alla tesi di
Dioniso come un ‘dios’ legato a una galassia religiosa
con origini comuni nel Mediterraneo orientale. Infatti
Dioniso era invocato gridando “Io Evoé”, praticamente
il tetragramma del nome del
Dio degli ebrei, YHVH.
Nella civiltà ellenica il tempio era consacrato agli dei e
il teatro e il vino erano consacrati a Dioniso.
L’elemento femminile nel
culto dionisiaco è preponderante o è egualitario con
quello maschile. Isterismo e
furor uterinus si spiritualizzano fino a comporre l’essenza
della divinità. I cabalisti affermarono che in Dio vi è una
parte femminile, la Shekinà.
Quest’unione del maschio
e della femmina per comporre l’unità psicosomatica
dell’uomo viene riproposta
dall’alchimia che nelle ieros
gamos, le nozze sacre, l’unione mistica e operativa tra
il re e la regina, realizza l’aurum o l’immortalità.
Occorre anche ricordare che
nei misteri eleusini il sacerdote e la sacerdotessa recitavano l’accoppiamento nella semioscurità e alla fine,
con il ritorno della piena
luce, mostravano un fascetto
di spighe di grano in un rito
celebrativo nato dagli antichi
riti agrari.
Il dionisismo ci riporta anche
all’antichissimo mito dell’androgino, l’uomo-donna, forse legato al culto della Dea
Madre, soffocato dai popoli
invasori, tra cui gli Ariani, che
imposero il patriarcato, la supremazia maschile. Il culto
della Dea Madre sopravvisse
a Cipro e a Creta fino all’età
del bronzo e tracce sicure di
tale culto si ritrovano nei misteri dionisiaci, che esaltavano il lato oscuro, irrazionale,
folle, della realtà umana ed
erano seguiti particolarmente dalle donne, escluse da
ogni altro mistero. Dioniso
spesso era raffigurato con
vesti e tratti femminili.
Da F. Licchiello, Razionale ed
irrazionale in Eschilo, 1973,
pp. 29-30.
Nietzsche nel suo primo libro La nascita della tragedia
(1872) aveva riconosciuto a
fondamento dell’arte la dualità, il rapporto, tra spirito
apollineo e spirito dionisiaco. Dall’elemento dionisiaco,
pessimistico e tragico, oltre
che orgiastico e sfrenato, sarebbe nata la tragedia, mentre dall’elemento apollineo,
sereno, olimpico e luminoso,
sarebbe derivata l’epica, il
cui primo grande rappresentante sarebbe stato Omero.
«Soltanto in virtù dello spirito dionisiaco - affermava
Nietzsche -, il popolo greco
riuscì a sopportare l’esistenza. Sotto l’influenza della
verità contemplata, l’uomo
greco vedeva dappertutto
l’aspetto orribile e assurdo
dell’esistenza. L’arte gli venne in soccorso, trasfigurando
l’orribile e l’assurdo in immagini ideali, in virtù delle quali
la vita fu resa accettabile».
«Queste immagini sono il
sublime, con il quale l’arte
doma e assoggetta l’orribile e il comico che libera dal
disgusto dell’assurdo. La
trasformazione fu compiuta
dallo spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo
spirito apollineo. Il pessimismo, trasfigurato dall’arte,
distolse i Greci dalla fuga di
fronte alla vita. Questo avveniva nella giovinezza del
popolo greco; in seguito,
con l’apparizione di Socrate
e del Platonismo, lo spirito
dionisiaco fu combattuto e
represso e cominciò, con la
rinuncia alla vita, la decadenza del popolo greco».
Gli Antichi concordavano,
pure senza essere pienamente consapevoli del problema, con la geniale intuizione di Nietzsche.
Essi sentivano come l’arte, e
segnatamente quella drammatica, esprimesse un sentimento di vita forte, pieno,
pulsante, simile all’ebbrezza
bacchica; perciò dissero che
Eschilo, e anche altri, componeva in stato di ubriachezza.
Eschilo, oltre che dalla pro-
fonda emozione estatica
dionisiaca, dovette sentirsi
attratto dall’emozione estetica dell’epica e dell’intellettualità apollinea, poiché egli
voleva proiettare entro una
misura percepibile e sostenibile dagli uomini, una ‘misura
umana’, l’assurda e tenebrosa realtà cosmica, stemperando nei modi sublimi, eroici
e rasserenanti dell’epos il
pathos immensurabile dell’oscuro fatalismo; perciò soleva chiamare le sue opere
“briciole del banchetto d’Omero”.
In conclusione, possiamo
collegare Apollo al logos e
Dioniso all’eros.
In ambito antropologico possiamo riferirci a ricerche sulla
transessualità, a opere come
L’androgino - l’umana nostalgia dell’interezza di Elémire
Zolla, al tantrismo indiano, al
taoismo cinese e, infine, agli
studi di C. Gustav Jung che,
a specchio del simbolo yinyang, attribuisce una parte
maschile alla donna, ‘l’animus’ e una parte femminile
all’uomo ‘l’anima’.
5
Guido Buffo
Quando muoiono i Maestri
Strana la cultura la nostra:
sempre in bilico tra l’intraprendenza più sfrontata
e iconoclasta, e la ricerca
spasmodica di modelli da
seguire, imitare, incarnare.
Strani tempi, quelli sempre
più veloci nei quali viviamo
e verso i quali muoviamo:
ampli tanto da dare spazio
a corsi di specializzazine in
materie che fino a ieri nemmeno esistevano, e così
angusti da dimostrarsi incapaci di mantenere un sistema efficace per assicurare il
passaggio dell’esperienza.
Dire informazione senza
esperienza è un po’ come
dire aspettativa di futuro
senza storia; suona contraddittorio e, tutto sommato, un
po’ ridicolo.
Come impiegare il sapere
senza un collegamento con
realtà, esigenze e progetti?
6
Come definire la direzione
dello sviluppo senza considerare carenze, limiti e
potenziali?
Come fissare obiettivi senza
ricordare lo sforzo fatto per
raggiungere il punto in cui ci
troviamo?
Queste cose non sono scritte nel futuro ma nel passato.
Non sono definite da complessi processi di analisi e
calcolo, da iperboliche teorie e sistemi: sono il risultato
- misurato e misurabile - del
metodo che abbiamo utilizzato. Sono l’odore del nostro sudore, il gusto amaro
degli errori e dei fallimenti, il
ricordo dell’eccitazione con
la quale abbiamo accettato
la sfida, la memoria dei successi, e di tutti quelli che vi
hanno contribuito.
Non c’è libro che possa trasmettere esperienza.
Ne sanno qualcosa quelli
che, per piacere o mestiere,
hanno letto qualche libro di
Management.
Ne sanno qualcosa i nostri
Laureati e i nostri Diplomati,
ai quali dovremmo spiegare
che la Scuola trasmette conoscenze e attitudini e non
competenze e metodo.
Ne sa qualcosa chi abbia
avuto la fortuna di incrociare,
per breve o lungo tempo, un
Maestro.
Nello sport o nell’arte, così
come nel lavoro o nella ricerca spirituale, il Maestro
compie sempre il medesimo
atto, espone sempre la medesima lezione: porta la sua
conoscenza all’uomo, sapendo che la conoscenza è
per l’uomo e non l’uomo per
la conoscenza.
Differenza apparentemente
sottile, dietro la quale si cela
l’abisso che separa ogni
agire, generalmente inteso,
dall’agire conforme a necessità.
Quando i Maestri muoiono,
c’è sempre chi immagina di
sostituirsi a loro per competenza: il punto non è questo.
Il Maestro non è preoccupato del come; si cura del perché, sapendo che il come
dipende dalle circostanze.
Noi, incapaci di questa serena consapevolezza, ne
imitiamo le fattezze esteriori
diventando arroganti. In fin
dei conti, quante volte ci
siamo detti che il sapere e
l’informazione sono potere?
E quante volte ci è sembrata
intelligente questa affermazione?
Eppure, anche una farfalla
insegna che il come del suo
volo dipende dal perché sta
volando.
Gigliola Soldi Rondinini
Amerigo Vespucci
nel centenario della morte
Una statua negli Uffizi, a
Firenze, non coeva e qualche ritratto di fantasia sono
le sole immagini che ci rimangono del figlio di un
modesto notaio, Nastagio
Vespucci, che aveva fatto
carriera diventando notaio
della Signoria e di una nobildonna di Montevarchi,
tale Elisabetta, che, battezzato in S. Maria del Fiore,
fu chiamato Amerigo. Sebbene abbia dato il nome a
due continenti, oltre al fatto
di non conoscerne il volto,
poco sappiamo della sua
giovinezza e della prima
maturità: era nato a Firenze il 9 marzo 1454, quando
al timone del Banco della
famiglia era Cosimo de’ Medici, che lo portò al massimo della prosperità da quel
manager che era, e che allo
stesso modo governò Firenze da dietro le quinte, pur
lasciando sopravvivere apparenze di libertà.
In quel periodo, in città stava facendo le sue prime
prove politiche Lorenzo de’
Medici, e Amerigo entrò nel
cerchio della casata legandosi a suo cugino, Lorenzo
di Pierfrancesco, uomo coltissimo, amico di Poliziano
e di Marsilio Ficino e protettore di artisti quali Botticelli
( è infatti raffigurato in vesti
di Mercurio nella Primavera
botticelliana), che fece su
sua commissione le illustrazioni della Divina Commedia, e il giovane Michelangelo agli inizi della sua carriera. Amerigo si interessava
di procurare a Lorenzo opere d’arte e merci preziose.
Marsilio Ficino, animatore
dell’Accademia Neoplatonica di Careggi fondata da
Cosimo nel 1459, e Paolo
del Pozzo Toscanelli, figura
straordinaria di geografo,
matematico, filosofo, medi-
co, astronomo, furono determinanti per la sua formazione che si avvalse delle
discussioni che avevano
luogo nel circolo dell’Accademia, con Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti,
lo stesso Ficino, Pico della
Mirandola e Nicolò Cusano.
I temi trattati riguardavano spesso la geografia e la
cosmografia, dal momento
che qualche decennio prima
era stata tradotta in latino la
Cosmographia di Tolomeo e
nella letteratura “di evasione” aveva grande successo
il poema Guerin meschino di
Andrea da Barberino, che,
in forma divertente, trattava delle nuove conoscenze
geografiche. L’ambiente formava quindi l’uomo, inoltre
si rendeva necessario poter
ritornare nella favolosa Cina
di Marco Polo che non si
poteva più raggiungere per
strade di terra da quando
era caduta la dinastia mongola che le proteggeva ma
solo doppiando il Capo di
Buona Speranza. Si pensava
però esistesse una via verso Occidente che del Pozzo
Toscanelli individuò e propose al re del Portogallo
con una carte geografica da
lui disegnata che recava le
indicazioni necessarie per
giungere a quelle che venivano dette le Isole felici.
A 34 anni Vespucci lascia
Firenze e quel mondo intellettualmente vivace: è il
1491, Colombo sta iniziando
il suo viaggio, e lui si trasferisce a Siviglia, dove lavora sempre per Lorenzo di
Pierfrancesco, ma anche per
grandi mercanti fiorentini,
trafficando nel commercio
dell’oro e degli schiavi. Nel
1492 Colombo approda alle
Bahamas, la prima tappa
della scoperta dell’America,
nel 1404 il secondo viaggio,
(22 febbraio 1512)
di cui Vespucci si occupa,
attendendo il momento in
cui anche lui ne avrebbe intrapreso uno.
Il riconoscimento dell’effettivo ruolo di Amerigo nella
scoperta dell’America ha richiesto molto tempo e molto
studi, data l’incertezza delle
fonti che lo documentano.
Vespucci ci ha lasciato alcune lettere famigliari manoscritte e due lettere a stampa, pubblicate all’inizio del
sec.XVI: il Mundus novus,
stampato per la prima volta nel 1504 ad Augusta e la
Lettera di Amerigo Vespucci
delle isole nuovamente tro-
vate in quattro dei suoi viaggi, più nota come Lettera a
Soderini, il cancelliere della
Repubblica di Firenze, ivi
pubblicata nel 1505, meglio
conosciuta nella versione
latina come Cosmographie
Introductio, uscita in Lorena
nel 1507.
Quale l’importanza di queste
fonti e la loro autenticità?
Anzitutto esse rispondevano alle molteplici domande
che le scoperte geografiche
del tempo ponevano, e in
particolare quelle di Colombo; in secondo, aprivano
all’ampia polemica relativa
ai viaggio veramente com-
7
piuti da Vespucci, aperta da
Bartolomeo de Las Casas,
che sosteneva essere stato
Colombo a raggiungere per
primo le coste sudamericane, ma si è andata rinfocolando tra Ottocento inizi
Novecento, quando un esame più attento dei manoscritti vespucciani e un esame sui luoghi, hanno confermato l’attendibilità delle
informazioni tratte da quelle fonti e fornito indicazioni
basilari per la ricostruzione
dei suoi viaggi, ma ha messo in evidenza alcune incongruenze.
Mondus novus è probabilmente un rimaneggiamento
8
di alcune lettere dirette a
Lorenzo di Pierfranveco De’
Medici per cui lavorava,
come si è detto, una sorte
di relazione del viaggio
compiuto nel 1501-1502 al
servizio del re del Portogallo, ma l’opuscolo ebbe ben
presto enorme successo,
dal momento che, nel giro
di due anni, ebbe dodici edizioni latine e tra il 1505 e il
1510 altre tredici, in latino,
tedesco, olandese oltre a
cinque tradizioni riassuntive. Particolarità di Vespucci è riconoscere che non di
isole o coste si tratta, ma
di una parte di un continente nuovo: di qui le ampie e
piacevoli descrizioni delle
vicende del viaggio, dando
ampio risalto all’ambiente
umano - geografia antropica del Nuovo Mondo - non
dimenticando le esperienze
dei precedenti viaggiatori
che mette in correlazione.
La Lettera al Soderini è stata valutata un’operazione
per pubblicizzare l’esplorazione delle coste americane.
Essa parla di quattro viaggi
organizzati da Vespucci,
di essi sappiamo che erano due per gli spagnoli, nel
1497 e 1498 e nel 1499-1501
e due per il Portogallo nel
1501-1502 e nel 1503-1504,
ma anche che il primo fu forse un viaggio commerciale
e che le esplorazioni cominciarono con il secondo,
quando partì da Siviglia con
Alonso de Hojeda e Juan de
la Costa, approdò sulle coste dell’America del sud, risalì fino a Trinidad, percorse
le coste del Venezuela fino
oltre Cabo de Vela, giungendo ad Haiti nel 1499.
Dopo questa impresa fu assunto dal re del Portogallo
per cui compì nel 1501 la
spedizione più importante,
che raggiunse, pare il 32°
parallelo lungo le coste americane, per poi spingersi più
a sud, in mare aperto, il che
gli diede la possibilità di
comprendere, data la grande
estensione delle coste di
essere davanti a un continente, un mondo nuovo,
sconosciuto ai geografi
dell’antichità e del medioevo
e non compreso dallo stesso Colombo nella sua entità,
sempre convinto di essere
sulle coste dell’Asia.
Nel marzo del 1508, il sovrano portoghese nominò
Vespucci Piloto mayor, ossia primo comandante delle
flotte commerciali spagnole
con un ricco finanziamento
per le sue imprese.
Morì il 22 febbraio 1512; non
lasciò eredi diretti, solo un
nipote che continuò il suo
lavoro.
BIBLIOGRAFIA
CARLA MASETTI, Il ruolo di
Amerigo Vespucci nella conoscenza del mondo, www.
treccani.it/scuola/maturità/
materiale_didattico/esplorazioni/8.html, 05/03/2012.
PIETRO CITATI, L’ epopea di
Vespucci, inventore dell’America, Corriere della Sera,
6 febbraio 2012.
www.granarolo.it
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La Grande Passione per l’Alta Qualità.
Atanor
L’epopea di Gilgamesh
È poco noto fra il pubblico
poco iniziato un interessante
poema epico babilonese che
può considerarsi l’antenato
dell’Odissea e delle canzoni
di gesta del Medio Evo.
Georges Contenau, noto
storico, alla fine degli anni
Trenta aveva presentato non
una riedizione critica destinata agli specialisti, bensì
una traduzione che ne facilitava la divulgazione a profani(*).
Si trova in questo poema
l’esaltazione di un eroe nazionale con l’intervento del
meraviglioso e del divino, e
poiché, come avverte il traduttore, gli Egiziani non ebbero, per quel che se ne sa,
una simile letteratura, e alcuni frammenti dell’Epopea
di Gilgamesh risalgono a più
di 2000 anni a.C., si può affermare che questo genere
poetico sia venuto dalla valle del Tigri all’Eufrate.
Perché il pubblico a cui si
rivolge possa meglio comprendere e gustare il poema, Contenau, che è uno
dei più noti cultori di letterature orientali, fa precedere
alla traduzione un dotto ma
limpido studio sulle fonti e
un’analisi generale del poema, e fa seguire esaurienti e
chiari commenti al testo.
Le fonti del poema sono numerose tavolette d’argilla,
scritte con caratteri cuneiformi, di cui le più recenti
risalgono al VI secolo a.C.;
furono trovate nel 1852 a Ninive fra le rovine del palazzo
del re assiro Assurbanipal
(Sardanapalo, 681 - 62 a.C.)
e rappresentano i resti di
quattro esemplari in lingua
assira fatti trascrivere dal
monarca da originali molto
più antichi. Dall’esame di
queste quattro copie è risultato che il poema si componeva di dodici tavolette,
10
scritte in ciascuna faccia su
tre colonne di cinquanta righe ciascuna; in tutto 3600
linee, di cui solo la metà è
arrivata a noi.
Ma la nostra conoscenza
del poema, di cui queste
tavolette di Ninive restano il
nucleo principale, poté essere integrata grazie ad altri
frammenti di redazioni più
antiche, scoperti fra il 1896
e il 1927 a Niffer o Nippur,
a Ur, a Warka, l’antica Uruk
ad Assur, e cosa più interessante ancora, nel villaggio
anatolico di Boghaz-Keni.
Di queste antichissime tavolette, alcune, del XV secolo
a.C., sono redatte in babilonese, altre - quelle scoperte
a Ur e a Nifer o Nippur, una
delle più antiche città numeriche, sono redatte in numerico e risalgono al XX secolo
a.C. Fu questa una scoperta
di grandissima importanza,
che confermò da una parte
l’ipotesi di un prototipo numerico del poema, dall’altra la tradizione secondo la
quale Gilgamesh fu un antico re dei Sumeri, di questo
grande popolo che abitò
per primo le valli del Tigri e
dell’Eufrate, sviluppandovi
una civiltà che i nuovi invasori assiro-babilonesi assimilarono e che dalle coste
del Golfo Persico si diffuse
fino alle coste anatomiche
del Mar Nero, formando
il substrato delle successive civiltà semitiche e di
quelle così dette Asiatiche
dell’Anatolia. Infatti un terzo
gruppo di frammenti, pure
della seconda metà del XX
secolo a.C. è quello scoperto nel villaggio di BoghazKeni, a nord di Ankara; sono
redatti in alcuni dei dialetti
parlati nel potente regno Littita che aveva là la sua capitale. Attraverso questi testi
di varia origine e lingua, è
stato possibile a Contenau
di giungere alla sua bellissima traduzione che, malgrado le lacune ancora esistenti, ci offre la possibilità di seguire le grandiose vicende
di Gilgamesh, il re di Uruk,
di cui:
…due terzi del corpo sono
d’un dio,
un terzo d’un uomo
la forma del corpo è perfetta.
Dopo un breve preambolo in
cui il poeta annuncia il suo
tema, comincia il racconto.
Gli abitanti di Uruk sono oppressi dall’attività del loro re
“il forte, l’ammirevole, l’astuto”, che non ha figli e non ha
rivali e implorano gli dei di
liberarli. Costoro pensano di
creare qualcuno simile a lui
che ne occupi l’attività e la
dea Aruru plasma con il fango Enkidu, l’uomo selvaggio
che vive con gli animali della
pianura, si nutre come loro,
li protegge e li salva dagli
agguati dei cacciatori, i quali
portano lamentele contro di
lui a Gilgamesh. Per attirarlo
in un agguato, questi allora
manda presso di lui una Lierodula o cortigiana sacra, di
cui Enkidu si innamora, che
lo inizia alla civiltà, e lo attira
a Uruk.
Dapprima in fiera lotta tra
loro, Gilgamesh ed Enkidu
diventano inseparabili amici
e partono per imprese comuni. Combattono il gigante
Humbaba, che regna sulla
foresta di cedri, e con l’aiuto del vento del Nord, del
vento di Sud e della tempesta, lo vincono e gli tagliano la testa. Allora la dea
Ishtar, avvinta dall’eroismo
di Gilgamesh, gli propone
di diventare suo sposo, ma
egli la respinge sdegnoso,
rinfacciandole aspramente
i numerosi amanti. Ishtar,
adirata, ottiene che il dio
Anu, suo padre, crei un toro
celeste, che devasta il paese, finché Enkidu lo uccide.
Ma nella notte stessa questi
cade ammalato e muore.
Pietoso è il lamento di Gilgamesh davanti al cadavere dell’amico e agli anziani:
per sei giorni e sei notti egli
piange, ricordando le imprese comuni; poi, preso da
paura della morte, decide di
andare alla ricerca della vita
eterna; raggiunge i monti
Mashu (nell’Armenia?), incontra gli uomini scorpione
che custodiscono la via del
sole e gli danno preziosi
consigli per il suo viaggio.
Arrivato alla riva del mare,
ottiene che Ur-Shanati, il
barcaiolo che sa la strada,
lo trasporti alla dimora del
suo avo Um-napishti, il solo
ho paura della morte e ho
errato nella pianura
Verso il conforto che mi
darà Um-napishti
….Um-napishti, il mio avo,
Che ha saputo elevarsi fino
al consiglio degli dei e ottenere la Vita,
Sulla vita e sulla morte io voglio interrogarlo!
uomo che abbia potuto ottenere l’immortalità sfuggendo al Diluvio, aggiungendo
che “coloro che dormono
sono simili ai morti”.
E per provare a Gilgamesh
la sua debolezza, Um-napishiti gli raccomanda di non
dormire per sei giorni e sette
notti. Ma il re subito si addormenta e Um-napishti subito lo risveglia e lo rimanda
con le provviste di viaggio e
con nuovi abiti. Poi, dietro
suggerimento della moglie
impietosita, lo richiama per
dirgli che in fondo all’acqua
troverà una pianta che rende la giovinezza. Gilgamesh,
infatti, si impadronisce, tuffandosi, della pianta, ma
mentre si bagna a una fonte, un serpente deridendolo
gliela ruba. E così egli ritorna
deluso e piangente alla città
di Uruk. Verso la fine, (XII
tavoletta) il poema diventa
oscuro, attraverso episodi
confusi, Gilgamesh ottiene
che Nergal, dio dell’inferno,
permetta a Enkidu di risalire
per pochi istanti sulla terra e
interroga l’amico sulla condizione dei morti del mondo
sotterraneo: l’angosciosa
descrizione che ne fa Enkidu, chiude il poema.
La lettura della breve ma affascinante storia che fragili
tavolette ci hanno conservato sotto gli enormi cumuli
dei rovinati palazzi di Ninive, di Assur, di Ur, tramandandoci aspetti della vita
sociale e religiosa di popoli
così remoti, non può non richiamare alla nostra mente
analoghe epopee createsi
intorno ad antichi eroi a noi
più noti, il biblico Sansone
o il pelasgico Eracle o il divino Ulisse; persino la leggenda intorno a Alessandro
il Grande - ci avverte il traduttore nei commenti non
meno interessanti del testo
- si è arricchita di imprese
e caratteri propri a Gilgamesh, giungendo attraverso
il greco-egiziano Callistene
del III secolo d.C. e la traduzione latina di Giulio Valerio,
a ispirare i poeti medievali
della “gesta” di Alessandro.
Ma non è questo, solo a mio
parere, ciò che nel poema
interessa noi, inquieti spiriti
moderni; più che le meravigliose imprese di Gilgamesh
e di Enkidu sorprendono
quel senso di aspirazione
verso qualcosa di più vasto,
di più alto, che ispira le imprese stesse, e nel tempo
stesso il contrasto fra esso
e l’acuto sentimento della
vanità di ogni sforzo e del
perire di tutte le cose. Abituati alla serena, ma anche
semplice concezione della
vita e della gloria che ispira
l’epica greca, non possiamo
leggere senza commosso
stupore le parole spesso
angosciose di Gilgamesh
che non vuole rassegnarsi
a morire. Se il pianto di Gilgamesh sul perduto amico
richiama il pianto di Achille
sul morto Patroclo, c’è qualcosa di più nel grido di quello (tav.IX):
Non sto dunque anch’io per
morire come Enkidu?
Il terrore è entrato nelle mie
viscere,
E quando, dopo un lungo
cammino nelle tenebre, aver
attraversato il mare, contrapponendo il suo disperato
ardore a quanti lo dissuadono dalla difficile e vana impresa arriva da Um-napishti,
gli getta l’angosciosa implorazione (tav. X):
Non so come tacere: non so
come gridare!
L’amico che amavo non è
ora altro che fango;
Non sto anch’io per coricarmi per mai più alzarmi?
Si, Gilgamesh ritornerà alla
città di Uruk senza il dono
dell’immortalità e portando
nel cuore le amare parole
che Enkidu, per un momento risalito dagli inferi, dice
all’angosciato amico, il quale vuole “sedersi e piangere”
ma sapere tutto:
Ciò che tu hai avuto di caro,
che tu hai accarezzato e
piaceva al tuo cuore,
come un vecchio vestito è
ora roso dai vermi
Ciò che tu hai avuto di caro,
che tu hai accarezzato e
piaceva al tuo cuore,
è oggi coperto di polvere.
Tutto questo è immerso nella polvere.
Questo è a parer mio il
dramma che affiora tra le
meravigliose vicende dell’epoca e fa si che il poema,
se per certi aspetti prelude
all’Odissea e alle gesta di
Alessandro, per altri più profondi prelude al Salmista ed
all’Ecclesiaste.
(*) - GEORGES CONTENAU,
L’epopée de Gilgamesch,
poeme babylonien, Paris ,
«L’Artisan di Livre». 1939.
- Sunto di Maria Venturini.
(1940)
11
Enrica Franciolini
Nettuno, pianeta dell’Utopia
Dopo la scoperta di Urano,
avvenuta nel 1781, gli astronomi si concentrarono sullo
studio di un nuovo pianeta.
I calcoli matematici suggerivano che le perturbazioni nello schema orbitale di
Urano non potevano essere
attribuite ai campi di forza
gravitazionale dei pianeti vicini allora conosciuti, e così
cominciarono a cercare nuovi pianeti.
Dopo anni di ricerche mirate e prolungate, e attraverso
lo studio delle irregolarità
del moto orbitale di Urano,
l’inglese Adams e il francese Leverrier pervennero al
medesimo risultato e cioè
che in una determinata zona
doveva esserci un nuovo
pianeta, che in effetti venne
individuato nel 1846.
Nettuno è emerso nella co-
12
scienza collettiva in un periodo in cui il mondo occidentale stava attraversando la
prima fase post rivoluzione
industriale: erano in corso
grandi trasformazioni sociali,
e Nettuno rifletteva le aspirazioni delle masse.
Stiamo parlando, per esempio, della pubblicazione del
«Manifesto» comunista del
1848, a due anni dalla congiunzione Saturno / Nettuno
del 1846.
Nel «Manifesto» sono descritti grandi ideali nettuniani, o meglio, grandi utopie
nettuniane, in quanto Nettuno può essere definito il pianeta dell’Utopia.
E quale Utopia migliore
dell’idea della fondazione di
una società perfetta, basata su principi di solidarietà
e comunione, unita da una
causa collettiva ?
A livello politico – sociale,
Nettuno diventa il simbolo
della sovversione, anche se
non si tratta della rivoluzione
uraniana, improvvisa e violenta, quanto, piuttosto, di
una trasformazione di forze
che già esistono all’interno
della società.
Ecco dunque che Nettuno
dissolve il corpo morente
delle vecchie tradizioni aristocratico reazionarie, per
rispondere al bisogno collettivo di un’aspirazione a una
vita perfetta, “socialista” nel
senso di aderente ai bisogni
sociali.
E così, in quel periodo, nascono non solo nuovi movimenti politici, ma anche
i nuovi movimenti di assistenza, la Croce Rossa per
esempio, nonché i primi ten-
tativi di integrazione di una
nuova spiritualità importata
dall’Oriente.
In Europa, proprio in quel
periodo, affiorano alla coscienza collettiva i medium,
nonché società esoteriche di
grande prestigio, quali, per
esempio la Società Teosofica di Helena Blavatsky, con
tutte le pubblicazioni esoteriche che ne seguirono.
I miti di Nettuno
Il nome è Poseidone presso
i Greci, Nettuno presso i Romani.
Poseidone era fratello di
Zeus, Giove, anche lui salvato con uno strattagemma
dalla madre Rea e anche lui
coinvolto nella deposizione
del padre Cronos (Saturno).
Quando Cronos venne cac-
ciato, ci fu la grande divisione del mondo, e tre campi
diversi vennero assegnati ai
figli di Cronos: il cielo a Zeus
(Giove), gli Inferi ad Ade (Plutone) e il mare a Poseidone
(Nettuno).
La Terra e l’Olimpo erano di
dominio comune, anche se
Zeus si era autoproclamato
signore di tutti gli dei, cosa
di cui Poseidone non era affatto contento.
Anche Poseidone, come il
fratello Zeus, era solito interferire nella vita degli uomini,
soprattutto seducendo le
loro donne: da qui, in Astrologia, le dissonanze di Nettuno e Giove vengono associate ai tradimenti sentimentali.
Un’altra sua famosa caratteristica era quella di assumere
sembianze diverse, da cui, il
trasformismo nettuniano, la
capacità di cambiare pelle,
di recitare, anche da un punto di vista artistico (gli attori
sono tutti nettuniani).
Oltre alle conquiste femminili, Nettuno prediligeva anche
i fanciulli, da cui il trasformismo sessuale dei nettuniani,
il loro essere potenziali bisex, proprio perché Nettuno
non ha forma precisa, neppure sessualmente.
Un’altra divinità associata a
Poseidone è Dionisio, con
i suoi culti e riti dionisiaci,
il cui scopo è quello di raggiungere l’estasi attraverso
esperienze istintive, oppure esperienze con droghe o
vino, tutte sostanze inerenti
a Nettuno.
Il vero e unico obbiettivo di
Nettuno, di fatto è la trascendenza in cui la divisione fra
materia e spirito è spazzata
via, superando la barriera
razionale saturniana, che
invece vedeva la spiritualità completamente separata
dalla materia, in un contenzioso senza possibilità di
conciliazione.
Con Nettuno, l’immanenza,
secondo cui la divinità è insita in ogni cosa terrena e
quindi anche nella natura, e
la Trascendenza, secondo
cui la divinità è invece al di
sopra della materia, si fondono in un’unica visione della realtà e il cammino diventa
molto più fluido, in quanto la
materia è utilizzata per raggiungere lo spirito.
Dal punto di vista psicologico, una delle caratteristiche
principali attribuite al nettuniano è l’empatia, che supera la sensibilità,
La sensibilità ti fa sentire gli
stati d’animo altrui, mentre
l’empatia ti fa partecipare a
tali stati d’animo, e da qui
nasce l’aiuto che il nettuniano sente di dover dare
all’umanità, per lenire le sofferenze del mondo.
Anche l’aiuto agli altri, è un
sentiero spirituale per congiungersi al divino.
Un altro simbolo di Nettuno
è la purificazione, che in Alchimia corrisponde alla fase
chiamata in “bianco”, che
segue quella di putrefazione
“al nero”.
Nettuno, vero ponte fra
Astrologia e psicanalisi.
Tra i pianeti transaturniani, Nettuno ha l’influsso più
sottile ed elusivo e, tuttavia,
i suoi effetti sono estremamente potenti e trasformatori: nessuna barriera, per
quanto resistente, è in grado
di opporsi alla sua potenza
erosiva, un po’ come se si
attivasse l’oceano inondando le coste e le terre interne.
Le immagini dell’oceano e
della massa d’acqua, sono
state associate dalla psicologia junghiana e dall’Astrologia moderna, all’inconscio collettivo.
Il vero nettuniano, è in grado
di sintonizzarsi con i bisogni
dell’inconscio collettivo e il
cosiddetto successo, attribuito per esempio all’artista,
o al santone, dalle masse, è
di origine nettuniana.
In questo senso, esiste un
collegamento fra Nettuno e
la Luna.
Anche la Luna infatti rappresenta l’archetipo delle masse, del traffico, delle maree,
e di tutto ciò che è legato
alla folla, e quindi, in un oroscopo indica il gradimento
che la persona suscita, il suo
grado di successo, ecc.
Con Nettuno, si fa un passo
avanti.
Se la Luna sta alla sensibilità, Nettuno sta all’empatia,
e alla capacità di prevenire,
prevedere i bisogni collettivi,
rispondendovi e quindi, riscuotendo successo.
Difficile è l’ingresso nel mondo nettuniano, così come è
difficile nuotare nelle onde
del caos e dell’oceano: ci si
riesce solo se si impara a restare a galla e a riconoscere
la realtà, attraverso le visioni
confuse indotte da Nettuno.
Tutti sanno che un palo
nell’acqua offre una visione distorta e illusoria di sé:
ebbene, quella è la visione
della realtà nettuniana, da
cui dobbiamo risalire a quella concreta e reale. Non è un
percorso facile, e in questo
può esserci d’aiuto Saturno,
come vedremo più avanti.
Si dice anche che Nettuno
sia il pianeta della nebbia,
intesa come un’entità che
impedisce di vedere, e in effetti, la tattica per entrare nel
mondo di Nettuno è quella
del “sentire” la realtà, più
che vederla, immergendosi
in essa, così come ci si immerge nelle acque.
Una delle principali funzioni
di Nettuno è quella di dissolvere e sgretolare strutture
mentali, fisiche ed emozionali.
Questo avviene tramite una
trascendenza dei confini inibitori, per raggiungere una
sfera di maggior espansione.
Nettuno corrode le definizioni e le restrizioni saturniane,
quegli schemi di pensiero e
convinzioni che Saturno instaura e impone alla vita collettiva.
Nettuno rivoluziona mediante un processo di disintegrazione, dissolvendo lentamente le barriere e gli schemi
psicologici di comportamento, secondo l’antica formula
13
“solve et coagula”.
Un altro metodo per raggiungere la Trascendenza
è l’immaginazione artistico
creativa, per esempio attraverso la danza, la musica, la
letteratura, l’arte, la pittura, il
teatro.
Altro metodo è il “sacrificio”, del proprio piccolo sé
per dissolversi nell’Universo;
una sorta di canale creativo
attraverso cui l’Universo invia la propria energia guaritrice, tipica dei nettuniani.
La cosa sbalorditiva di Nettuno è che, in una personalità, agisce soprattutto per
dissolvere schemi e strutture
e più queste strutture perdurano nel tempo e si cristallizzano, più Nettuno agisce in
maniera da dissolvere, confondere, annebbiare la visione della realtà.
Dunque, più la persona vive
basandosi su schemi fissi,
rigidi, altamente moralistici, più Nettuno lo “dissolve”
infiltrandosi nel punto più
debole della sua personalità, un po’ come l’acqua si
infiltra in una fessura di una
struttura rigida e chiusa.
Il termine “dissoluto”, che
noi percepiamo come negativo in senso morale, in
realtà deriva appunto da dissolvere, sciogliere le rigidità
mentali e comportamentali
saturniane e rendere tutto
più fluido, e dunque la cosiddetta dissolutezza stride, ma
in un certo senso riequilibra
le persone che si piccano di
eccessi di moralismo. Per
riuscire a “dissolvere”, Nettuno non agisce soltanto a
livello fluido, ma anche “acido”, in quanto soltanto con
l’acido si può corrodere le
strutture rigide. E così, lentamente, ma inesorabilmente,
si cominciano a dissolvere le
certezze, le sicurezze della
vita, entrando in tal modo in
un mondo incerto, possibilista, in cui si alternano stati di
ispirazione quasi ultraterrena, a stati di disorientamento, indecisione, mancanza
di concentrazione, tutto per
entrare in uno stato interiore
di fluidità.
Da qui alla malattia mentale,
il passo è breve. Infatti, non è
facile lasciarsi sommergere
14
dall’acqua, senza avere punti di appoggio sotto i piedi.
L’acqua sale, la confusione
interiore aumenta, la visione
della realtà si deteriora sempre più e a un certo punto si
rischia di annegare, cioè si
rischia che l’immaginazione
prenda il sopravvento.
Il rischio è il cosiddetto “delirio”, oppure le allucinazioni,
e disturbi mentali di vario genere, primo fra tutto la dissociazione.
Non solo: ma la malattia al
nettuniano può venire anche dall’esterno, nel senso
che l’empatia lo “obbliga” a
entrare in relazione con gli
stati d’animo della colletti-
vità, comprensivi di dolori,
stress, emozioni negatività
collettive, che possono sommergerlo, fino a farne sparire
l’individualità.
L’individuo nettuniano si sacrifica così per l’universo
attorno a sé, e non sempre
il sacrificio rientra nei canoni
sociali: così i falliti, i reietti,
quelli che il Cristo chiama
“gli ultimi” sono i “necessari”
ricettacoli dell’energia negativa della società, coloro che,
consapevolmente oppure no,
si sacrificano per la salvezza del resto della società,
dei cosiddetti “integrati” e
“strutturati”.
Gli “ultimi” della società pos-
sono anche essere chiamati
“gli abitanti dei confini”, e
quindi, di fatto liberi esploratori di nuovi spazi.
E infatti, il nettuniano è anche “il” viaggiatore, a livello
geografico o metafisico, cioè
l’esploratore di nuovi spazi,
colui che va avanti a scoprire nuovi orizzonti, per gli altri
che poi seguono, canalizzano, inquadrano il “viaggio”.
Il ciclo di Saturno e Nettuno
Per non farsi travolgere e
spazzare via da Nettuno, è
necessario riconoscere il ruolo e la funzione di Saturno.
Infatti, espandersi rapida-
mente oltre le proprie capacità naturali il più delle volte
non è assennato e può creare ulteriori problemi, quindi
uno sviluppo graduale è più
sicuro e Saturno fornirà i freni quando sarà necessario.
Nettuno ci offre un’ispirazione rinnovata, un’energia per
trasformare la vita e gli schemi di passività, stimolando
affascinanti sogni alternativi
che indicano nuove potenziali direzioni.
Saturno invece ci impartisce
la disciplina necessaria per
strutturare il cambiamento,
per erigere limitazioni, canalizzazioni, senza le quali
l’uomo non può esprimere
l’infinito che contiene in sé.
Nell’I Ching si ritrova una
dinamica del genere negli
esagrammi numero 59 e 60,
intitolati rispettivamente “La
Dissoluzione” e “La Delimitazione”, che non a caso vengono l’uno dopo l’altro.
Il 59, cioè La Dissoluzione,
parla di scioglimento delle tensioni, di separazione,
disgregazione dell’energia,
insomma descrive la fase dispersiva a tutti i livelli.
Il 60, cioè La Delimitazione,
nasce dalla considerazione che “Le cose non possono stare durevolmente
disperse, in quanto l’uomo
disperderebbe le proprie
energie in mille direzioni, e
quindi occorrono anche le
barriere, che a loro volta,
non vanno innalzate troppo
durevolmente. In poche parole, l’uno scivola nell’altro e
viceversa.
Dunque, unendo le energie di Saturno e Nettuno, è
possibile creare una potente piattaforma dalla quale
iniziare a lavorare, un fulcro
dove le esigenze dell’idealismo e dell’applicazione
pratica sono riconosciute,
al fine di raggiungere uno
scopo chiaro.
In questo modo, una situazione rischiosa, in cui Nettuno stravince e porta alla deriva l’Io, si trasforma in una
condizione in cui si collabora con l’impulso più elevato
di Nettuno e ci si assume la
responsabilità della propria
vita, strutturandola in maniera nuova.
Nettuno e il sociale
Come tutti i pianeti, anche
Nettuno agisce sul sociale a
vari livelli, dai più “bassi”, ai
più “elevati”.
Gli effetti superficiali di Nettuno sono molto evidenti
nella società, attraverso la
moda, o le tendenze, e dove
la creatività è usata per il
profitto.
L’effetto più importante di
Nettuno come spia dell’inconscio collettivo sta nel
fatto che esso si esprime
attraverso i film, la musica, il
teatro l’arte e la letteratura.
Il fatto che le mode siano
passeggere è legato al flusso dell’acqua, che non può
mai fermarsi, proprio perché deve stare al passo con
le modificazioni dell’animo
umano.
Salendo di livello, ecco
che Nettuno si esprimere
nell’impegno sociale, soprattutto se associato a Saturno, e quindi lo ritroviamo
in tutte le persone che, in un
modo o nell’altro, si prendono cura di coloro che soffrono.
Dunque i nettuniani sono
medici, infermieri, ma anche
psicologi, psicoanalisti, psichiatri, assistenti sociali e
volontari.
Si arriva infine ai mistici, che
sono l’incarnazione più elevata dello spirito nettuniano, coloro che sacrificano il
proprio piccolo sé per raggiungere la Trascendenza,
in cui l’Ego si è completamente dissolto.
Proprio dal 1848 in poi si
annoverano moltissimi casi
di medium che spuntano
come l’erba, e fra i veri medium si mescolano ciarlatani e imbroglioni di ogni tipo.
Questa è la paradossale
peculiarità della vita spirituale, e cioè la sua contraddittorietà, per cui la verità si
mescola con la menzogna
o meglio, con le illusioni,
cosicché chi si avventura
nel mondo della spiritualità deve, per prima cosa,
cominciare a distinguere il
vero maestro dal falso, cosa
di cui parla anche Gesù nei
Vangeli.
Dove c’è Nettuno, c’è sì un
percorso spirituale, ma bisogna essere pronti ad attraversare mondi avvolti da
fosche nebbie e soprattutto, mondi popolati da venditori di fumo di ogni tipo.
Inoltre, anche ammesso che
il personaggio in questione,
il nettuniano, il guru, ecc...
sia in buona fede, è molto
difficile individuare un maestro che abbia uno stile di
vita da “maestro”, come ce
lo immagineremmo secondo gli standard tradizionali.
Per ogni libro che descrive
la santità di un personaggio e la sua grandiosità, ne
spunta subito un altro che al
contrario descrive scandali
o falsità inerenti allo stesso
personaggio.
Del resto, come si può pensare che Nettuno, il trasformista, Nettuno il “senza
limiti” possa rientrare nei
nostri schemi mentali, secondo cui l’uomo spirituale
deve essere e comportarsi
secondo dei clichés ben definiti?
Dunque, molti dei guru, maestri più riconosciuti e famosi
del nostro secolo sono state
personalità estremamente
controverse.
La
Blavatsky,
Gurdjeff,
RAjneesh, e altri, tutti rientrano in questa categoria e
in tal senso, non sono sfuggiti alla “nebbia” nettuniana.
Altro grande ostacolo insito
nel percorso spirituale mistico, è il fanatismo, rischiosa deviazione nettuniana, in
cui gli ideali dell’Utopia, si
mescolano con idee fisse
e atteggiamenti maniacali
della persona.
La posizione di Nettuno
nel cielo del 2012
Proprio nel febbraio 2012
Nettuno è entrato in Pesci,
segno in cui si fermerà per
più di un decennio e, in cui
esplicherà al massimo tutte
le caratteristiche sinora descritte, in quanto, come si
dice in gergo astrologico,
tale pianeta è “in domicilio”
in Pesci.
Questo passaggio vivrà una
prima fase di caos totale,
corrispondente alla fase
solvente di Nettuno: regne-
ranno dunque, confusione e
incertezza, in quanto il mondo non ha ancora trovato un
equilibrio fra i vecchi sistemi e schemi di vita e i nuovi,
che ancora non compaiono,
in quanto siamo ancora appunto nella fase del caos.
Vi saranno tensioni fra sistemi politici più avanzati ed
evoluti, e quelli più arretrati,
soprattutto per motivi economici, in quanto Nettuno,
pianeta dei fluidi, presiede
anche il mondo dei soldi,
chiamati, per l’appunto “liquidi”.
Data la fluidità di Nettuno in
Pesci, col tempo si tenderà
a ridistribuire le ricchezze in
maniera più equa e uniforme.
Ci sarà una nuova coscienza e un nuovo senso di responsabilità nei confronti
dell’ambiente, soprattutto
quello delle acque.
Nettuno formerà per tutto
il 2012 e parte del 2013 un
trigono con Saturno, attivando quel ciclo di cui si
è parlato prima a un livello
costruttivo e positivo.
La spinta al miglioramento
sociale e alla solidarietà,
unita allo spirito costruttivo
di Saturno si uniranno per
partecipare al miglioramento della società.
Dunque, si distrugge, o meglio si dissolve per ricostruire schemi e sistemi che funzionino di più e che siano
più equi.
Le professioni più richieste
saranno quelle di assistente
sociale, attività legali, servizi sociali, oppure riguardanti l’ambiente, la finanza,
l’amministrazione, i media,
la cinematografia e la fotografia.
Grande impulso a tutte le
attività spirituali, esoteriche
e occulte, nonché interesse
collettivo per movimenti
spirituali, per la meditazione
e la religione.
Infine, la congiunzione di
Chirone e Nettuno in pesci
dovrebbe dare un grande
impulso alla medicina, soprattutto allo studio delle
malattie infettive, oppure
delle malattie mentali, con
nuove tecniche di cura all’avanguardia.
15
Grazie...
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Angelo Casati
Misteri e Segreti dei Templari
Parte Prima
L’improvvisa
scomparsa
dei Pauperes Commilitones
Christi Templique Salomonis, come in origine si chiamarono i Cavalieri Templari,
cioè Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di
Salomone, ha lasciato innumerevoli domande senza risposta, e ispirato il fiorire di
leggende che con il passare
dei secoli, hanno deformato
i dati storici arricchendoli di
elementi fantastici.
Gli studiosi, citando sempre
fonti inoppugnabili, espongono tesi contrapposte, si
contraddicono e generano
più dubbi che certezze. In
effetti, le pubblicazioni sono
molto numerose e, quasi tutte, sono comparse in epoche
successive ai tempi descritti. Molti non comprendono
che per capire degli iniziati
si deve essere iniziati. Se un
insegnamento è affidato a riti
e simboli, a una conoscenza
di tipo quindi analogica superiore, sfugge a chi si affida
solo ai limite della razionalità
sensoriale, indispensabile,
ma non esaustiva e sicura.
Di conseguenza i Misteri
Templari, sono molto affascinanti ma anche difficili da
affrontare con obiettività e
rigore storico, ed è diventato quasi impossibile stabilire
una linea di demarcazione
netta tra verità e fantasia, tra
realtà e leggenda, inestricabilmente connesse.
qualcun altro ne assumesse il
controllo. Nei suoi piani, pensava infatti di mettere le mani
su queste immense ricchezze
oltre a non restituire l’ingente
prestito avuto.
La tenacia con cui nel processo fece perseguire i Cavalieri
come eretici, è da ascrivere
al fatto che solo tale accusa
annullava qualsiasi credito
nei loro confronti; quindi il Re,
pieno di debiti con i Templari,
ne avrebbe tratto un immediato vantaggio.
Del resto dopo un periodo
in cui aveva dovuto battere
moneta con leghe vili tanto
da meritarsi il soprannome
di “Re Falsario”, sembra che
Filippo abbia sostituite tali
monete con pezzi di oro purissimo.
Il tesoro dei Cavalieri sarebbe stato composto da beni
materiali quali oro, monete,
oggetti d’arte, ma anche di
qualcosa di ben più mistico
e antico. Forse dallo stesso tesoro di Re Salomone,
nascosto nei sotterranei del
Tempio e risparmiato al saccheggio del 70 dopo Cristo
da parte dei soldati Romani
dell’imperatore Tito.
Nella fantomatica stanza
ipogea del “Sancta Sanctorum”, si sarebbero trovate
reliquie molto sacre come
l’Arca dell’Alleanza, la Vera
Croce, la Sindone, il Graal,
la Menorah, ma , soprattutto,
tantissimi documenti in papiro o in fogli di rame, con prove importanti per le dottrine
Cristiane ed Ebraiche: in particolare la discussa natura di
Gesù e la natura femminile
della divinità, la Sophia o Sapienza, citata nel libro biblico
dei Proverbi come pari a Dio.
I custodi, fuggiti in Europa, si
erano tramandati per secoli il
segreto dell’esistenza della
stanza ipogea nel Tempio, o
di più stanze, fino a che i di-
scendenti, fondatori del Priorato di Sion e dell’Ordine del
Tempio, non erano ritornati
a Gerusalemme con la Crociata per iniziare gli scavi alla
ricerca di qualcosa di grande
valore. I misteriosi custodi
sarebbero stati i discendenti
delle 24 famiglie sacerdotali
del Tempio di Gerusalemme,
con lo storico Giuseppe Flavio sopravvissuti alla distruzione del 70 d.C. del tempio
di Salomone: essi erano i detentori del potere oligarchico
regale e spirituale del popolo ebraico. Ne dà notizia lo
stesso storico che elenca
tutti i superstiti includendo
se stesso.
Giuseppe Flavio era infatti
Gran sacerdote, e appartenente alla prima delle 24
famiglie ebraiche più importanti; la sua parentela per
parte di madre con gli Asmonei, legati alla misteriosa famiglia definita degli Aronnidi,
Il Tesoro segreto
L’ordine del Tempio per la
gestione delle sue innumerevoli attività poteva disporre
di una considerevole quantità di denaro liquido e, di conseguenza, Filippo il Bello, re
di Francia, quando si rese
conto di non poter controllare l’Ordine diventando egli
stesso Gran Maestro, decise
di distruggerlo, prima che
17
lo faceva discendente da
Mosè.
Giuseppe Flavio, che viene
ricordato solo come storico
romano, in realtà era stato
inviato dal Sinedrio di Gerusalemme come governatore
della Galilea, ed era stato il
primo a combattere contro le
legioni romane, ma fu sconfitto e si rifugiò nella città di
Iotpata. Caduta, dopo l’ assedio, la città, Giuseppe si
consegnò ai Romani e chiese di parlare con il generale
Vespasiano: da quel colloquio inizia la fortuna del futuro imperatore Vespasiano
e anche la nuova ricollocazione del Gran sacerdote
Giuseppe, che poco dopo la
conquista del potere da parte di Vespasiano fu adottato
dalla famiglia imperiale dei
Flavi, assumendo il nome
di Flavio, e divenendo noto
solo come lo storico autore
delle Antichità Giudaiche. Un
semplice fatto parrebbe dimostrare la ragione che lega
questi due personaggi: il generale Vespasiano non aveva
mezzi finanziari per aspirare
a divenire imperatore, ma
li trovò dopo la guerra giudaica: il Gran sacerdote del
Tempio indubbiamente co-
18
nosceva l’ubicazione esatta
del tesoro e da nemico sconfitto si trasformò in protetto
dell’imperatore di Roma.
Giuseppe Flavio si trasferì a
Roma con le famiglie di numerosi sacerdoti, non certo
osteggiati dall’autorità romana; ci sono anche fonti
storiche che sembrano avvallare una grande influenza di costoro nella nascita
e affermazione della Chiesa
Cattolica Romana. Del resto,
dei trenta anni che vanno dal
70 al 100 dopo Cristo, cioè
dall’arrivo di Giuseppe Flavio
a Roma in poi, non sappiamo
praticamente nulla di quello
che successe alla Chiesa nascente, anche se si tratta del
periodo cruciale della sua
storia, con l’inizio della sua
stessa formazione.
Chiesa che tuttavia dopo
questo periodo uscì trasformata nel fondamento della
propria struttura, è un fatto
che da allora fu gerarchizzata e atta a iniziare un’irresistibile ascesa.
Quello che fu eventualmente
trovato dai Templari sotto le
rovine del Tempio di Gerusalemme, venne trasportato
in Francia dal Gran Mae-
stro del Tempio, Bertrand
de Blanchefort, quarto gran
maestro dell’Ordine (per altri
autori sesto), succeduto ad
Andrea di Mombard, zio di
san Bernardo, le cui origini di
sangue vengono fatte risalire
alla stirpe sacerdotale ebraica, come anche del resto per
Goffredo da Buglione. Bertrand o Bernard de Blanchefort avrebbe nascosto il tesoro nei suoi possedimenti,
vicino a Rennes le Château,
o a Parigi, nelle stanze segrete della fortezza Templare
dalle 7 torri, ma nella Torre
del Tempio gli sgherri del Re
non trovarono nulla o, almeno, così affermarono.
Del resto, prima che tutti i
funzionari del Regno avessero ricevuto l’ordine di arresto, era passato oltre un
mese e, quindi, ci sarebbe
stato tutto il tempo per nascondere il tesoro.
Diversi luoghi e castelli sono
stati sospettati di custodire
i forzieri, protetti da trabocchetti, da stagni o complicati
ostacoli idrici e segnalati da
geroglifici segreti. Le ricerche, rivelatesi comunque infruttuose, hanno interessato
molte località tra cui Gisors,
Argigny, Nizza, la Foresta
d‘Oriente, Laon. Qualcuno
favoleggia la divisione in tre
parti del tesoro, poi spedito
in tre luoghi diversi: in America, in Italia e in Francia.
Una parte sarebbe partita
dal porto templare di la Rochelle per essere trasportata
in America dai Templari grazie ai Normanni e ai Norvegesi, discendenti dai Vichinghi che erano a conoscenza
del fatto che la terra fosse
rotonda e non piatta e che
avevano già scoperto l’America, come qualcuno sembra
dedurre dall’osservazione
della Cattedrale di Chartres
e di Rosslyn.
Sulla scoperta dell’America
c’è chi afferma che Cristoforo Colombo, prima di partire,
avesse consultato i cartolari di Calatrava, redatti dai
Templari e, forse per questo
abbia disegnato sulle vele
la Croce Patente Templare
Rossa a otto punte, che era
il simbolo dei “Cavalieri di
Cristo” portoghesi, (dopo la
soppressione i Templari così
mutarono il loro nome in Portogallo).
Una parte, finita in Italia, sarebbe stata nascosta nelle
precettorie del Tempio di Firenze, Orvieto, Roma.
Umberto Accomanno
America Britannica - 1776
le tredici colonie danno vita a un nuovo impero
Il principale onere finanziario della colonizzazione
inglese in Nord America
(XVII secolo) fu sostenuto
da compagnie commerciali (1) che rastrellarono i loro
capitali (circa 13 milioni di
sterline) vendendo azioni a
un’ importante fascia della
popolazione inglese. Infatti,
furono migliaia coloro che
investirono: proprietari terrieri, mercanti, gente facoltosa ma anche gente comune. I fondi raccolti in questo
modo furono per la maggior
parte gestiti da persone che
operavano non solo con le
preoccupazioni di normali uomini d’affari, ma sotto
la pressione di due fattori
molto particolari: non ci si
attendeva che il capitale
azionario (il capitale iniziale) di queste imprese durasse nel tempo; le prospettive
dei mercanti inglesi erano
proiettate verso un guadagno immediato. Ci si aspettava che, al termine del periodo di ingaggio, il capitale
iniziale, aumentato degli
(eventuali) profitti dell’impresa, venisse distribuito
fra gli azionisti. Molti dei
coloni erano al soldo della
compagnia
commerciale
che aveva organizzato l’impresa, e solo per un preciso
numero di anni, perciò erano assillati dall’idea di produrre un immediato profitto.
Se i coloni non fossero riusciti a spedire in Inghilterra
le prove concrete del valore
finanziario dell’impresa, sarebbero stati abbandonati a
se stessi e costretti ad arrangiarsi sul posto per sopravvivere (2).
Quindi i primi coloni, invece
di esplorare attentamente
le zone d’insediamento e
acclimatarsi nell’incognito
territorio americano, passavano il loro tempo esplo-
rando ogni rivolo d’acqua
alla ricerca dell’oro, cercando vie per il Pacifico
nell’estuario di ogni fiume
un po’ ampio, e gettandosi
in maniera pressoché suicida verso l’interno per verificare i confusi resoconti
di parte indiana riguardanti
l’esistenza di immense città o la possibilità di enormi
rifornimenti di pelli o metalli
preziosi.
Dopo circa un secolo dai
primi difficili esperimenti
coloniali, nel 1700 la popolazione immigrata era organizzata in undici province
controllate in maniera molto
approssimativa dal governo
inglese, che stava appena cominciando a rendersi
conto dell’importanza acquisita dal mondo coloniale. All’inizio del XVIII secolo
una ridotta percentuale di
coloni, forse l’ 8%, viveva
nei cinque principali centri
portuali (Boston, Newport,
New York, Filadelphia e
Charleston) nei quali affluiva la maggior parte del
commercio e delle comunicazioni che legavano il nuovo mondo all’Europa.
L’incremento demografico
dei territori dell’America britannica e il conseguente aumento del valore fondiario
indussero i discendenti dei
proprietari del XVII secolo a
far fruttare, ove possibile, i
loro diritti su grandi estensioni di territorio. Quattro,
a titolo esemplificativo, ma
non esaustivo, erano particolarmente imponenti. La
famiglia Penn avanzava diritti sulla terra non ancora
assegnata in Pennsylvania.
La famiglia Calvert rivendicava tutta la terra non colonizzata del Maryland, e
il conte di Grenville quella
parte della terra, concessa
in origine alla Carolina, che
copriva quasi tutta la metà
settentrionale dell’odierno
Stato della Carolina del
nord. Lord Fairfax era l’erede del Northen Neck della
Virginia, cinque milioni di
acri tra i fiumi Potomac e
Rappahannock, originariamente concessi da Carlo II.
Alla metà del XVIII secolo
queste vastissime proprietà
non erano più territori selvaggi, bensì terre che venivano messe a coltura e che
successivamente acquistarono un enorme valore per i
loro proprietari.
Tuttavia, a eccezione di
Fairfax che si installò in Virginia nel 1753, nessuno di
essi era residente né personalmente impegnato nella
gestione e nello sviluppo di
proprietà agricole lavorate
da fittavoli permanenti, secondo il modello europeo.
In alcuni latifondi lungo il
fiume Hudson, e in misura minore nel New Jersey,
furono ricreate molte delle
tradizionali forme signorili
europee: alti affitti perpetui,
esazioni di tasse e gabelle,
insicurezza per i fittavoli.
Tutto ciò era possibile per
la grande influenza politica
dei proprietari terrieri inglesi (exclusive proprietors
and Lord) anche nell’ambito
dell’ amministrazione della
giustizia. I landowner della
British America, tuttavia,
non riuscirono a ricreare un
sistema signorile simile a
quello aristocratico inglese.
Anche i proprietari del Sud
del XVIII secolo vivevano in
modo completamente diverso da quello dell’aristocrazia e della gentry inglese
di cui cercavano di emulare lo stile. Certamente
esistevano grandi proprietà
nel Sud, anche se non molte: nel Maryland solo il 3,6
% di tutte le proprietà terriere valeva più di 1.000 sterline e manteneva una qual-
19
che sorta di aristocrazia.
Tuttavia, le difficoltà di gestione e la fatica di amministrare e far fruttare piantagioni e terreni, rendevano la vita quotidiana di un
piantatore virginiano molto
diversa da quella di un aristocratico lord, proprietario
terriero inglese del Kent, le
cui prerogative potevano
essere fatte risalire a Guglielmo Il Conquistatore.
Edmund Burke, pensatore
e uomo politico inglese del
XVII secolo, indicava come
vera base di ogni aristocrazia l’agio illimitato, il godimento gratuito della vita.
Un semplice sguardo ai diari dei piantatori dei territori
del Sud (British America)
mette a nudo le tremende
preoccupazioni che affliggevano questi imprenditori
agricoli (libri mastri, margini
di profitto, difficoltà attinenti la produzione agricola,
controllo della manodopera
costituita da schiavi importati dall’Africa e da immigrati ridotti in schiavitù provenienti dall’Europa).
Londra esigeva che i sud-
20
diti delle colonie atlantiche
contribuissero al pagamento delle spese del vasto impero britannico nord
americano. Dopo la guerra
dei Sette Anni l’Inghilterra si trovava in serie difficoltà economiche e tentò
di porvi rimedio con due
provvedimenti: lo Sugar
Act che imponeva alti dazi
sui prodotti di importazio-
ne dalla madrepatria alle
colonie e lo Stamp Act che
imponeva bolli governativi
sui documenti ufficiali e sui
giornali. La Corona inglese
inoltre ribadiva costantemente il proprio monopolio
industriale vietando di fatto
lo sviluppo autonomo delle
colonie.
Nel 1733 la Compagnia inglese delle Indie Orientali(3)
ottenne dal Parlamento il
diritto di vendere in esclusiva e mediante propri
agenti il tea che importava
dalla Cina. La meglio nota
East India Company intendeva penalizzare i coloni e
gli intermediari americani
che fino ad allora avevano
goduto di un lucroso giro
d’affari.
Nel 1774 gli americani, che
avevano celebrato l’incoronazione di Giorgio III, erano virtualmente in rivolta
contro la Gran Bretagna.
Nei due anni successivi ai
Coercive Act del 1774 gli
eventi si succedettero a
ritmo incalzante e si fece
sempre più improbabile
una riconciliazione tra la
Gran Bretagna e le sue colonie americane. Si trattava
di qualcosa di più di una
semplice crisi nei rapporti
all’interno dell’impero.
La Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776
trasformò il distacco dalla
Gran Bretagna in un evento
che, per gli americani, stava
alla pari con i più grandi avvenimenti della storia passata. Essi erano convinti di
lottare non solo per la propria libertà, ma anche per
la libertà del mondo intero,
ma per ottenerla dovevano
muovere guerra alla più
grande potenza del XVIII sec.
Nel 1781, le tredici colonie della British America si
staccavano dall’impero con
una Costituzione scritta: gli
«Articoli della Confederazione» Le colonie americane di Giorgio III si congedavano così da Londra per
cercare un nuovo impero
ispirato in qualche modo al
millenario impero romano.
Gli inglesi, da parte loro,
che avevano in qualche
modo trascurato i loro Land
atlantici, possedevano un
estesissimo impero che dal
1788 si arricchirà dei territori australiani. L’apogeo
dell’Impero Britannico, territorialmente intendendo, si
registrerà solo nel 1905.
Negli Stati Uniti fin dall’inizio,
le differenziazioni sociali,
non soltanto nel New England(4) e in Virginia, ma
all’interno di ciascun singolo territorio, rispecchiavano
la divisione che nell’Inghilterra del ‘600 aveva contrapposto i Roundheads (le
teste rotonde, ovvero i protestanti puritani di tendenze
repubblicane) e i cavaliers
(che erano, o si consideravano, membri dell’aristocrazia latifondista, e avevano tendenze monarchiche).
La guerra civile inglese fu
vinta dai Roundheads, e
il diritto divino dei sovrani
cadde insieme alla testa di
re Carlo, per essere rimpiazzato da una simil repubblica con un protettore ereditario, (Cromwell) il quale
fu a sua volta soppiantato
dalla Restaurazione del
laico Carlo II. Durante i tumulti, molti cavaliers irritati
e molti roundheads delusi
si trasferirono in America,
dove al New England toccarono i severi roundheads, e al sud i cavaliers, o
quelli che avrebbero voluto
esserlo. Numerosi europei concepirono il disegno
di emigrare in America. In
particolare, molti di coloro
che si sentivano a disagio,
se non addirittura ostili, nei
confronti di una civiltà che
non venerava il Cristianesimo delle origini, preferirono
rifarsi una vita nel nuovo
emisfero. Mentre alcuni europei cercavano di riportare
d’attualità l’era di Pericle
greco o almeno quella degli Antonini di Roma, i fondamentalisti
protestanti
avevano in mente qualcosa
di più duro e più puro, anzi
puritano: città splendenti in cima alle colline, con
indiani convertiti e schiavi
importati dall’Africa, addetti alle piantagioni e ai lavori
pesanti e forzati.
Quando nel 1783 fu firmato
il trattato di pace fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti,
la nuova Repubblica, più
o meno ispirata alla Roma
precesarea con venature e
contaminazioni
imperiali,
comprendeva già il litorale atlantico, con in più una
buona parte del territorio in
gran parte occupato dagli
inglesi. Il confine occidentale dell’Unione era costituito dal Mississipi, controllato dai cosiddetti Don:
così i nuovi americani chiamavano i poco amati spagnoli. Gli Stati Uniti erano
a quel punto, territoriale e
politico, relativamente liberi
dall’Inghilterra di Giorgio III
(Hannover) e dalle guerre a
ripetizione contro l’odiata
Francia combattute nel teatro americano (Guerra dei
sette anni). A sud e a ovest
c’era ancora lo sgangherato impero spagnolo.
A parte il Texas, che sarebbe diventato una repubblica indipendente nel 1836 e
poi, nel 1845, uno degli stati
americani, la Spagna controllava anche la Florida e i
territori a essa contigui sul
versante occidentale. Nel
1819, per mezzo di trattati,
gli abili ambasciatori americani completarono l’acquisizione della Florida; nel
1813, i futuri stati americani
del Tennesee, del Mississipi
e dell’Alabama erano ormai
stati incorporati nell’Unione
con la forza. Restava soltanto, a sud e a ovest, un
impero ispano messicano
potenzialmente ricco, che
si estendeva dal Golfo del
Messico fino all’Oceano
Pacifico.
La Louisiana e New Orleans
vennero acquistate dalla
Francia di Napoleone Bonaparte. Il plenipotenziario di
Jefferson a Parigi, Robert R.
Livingston, pagherà 15 milioni di dollari dell’epoca per
New Orleans e tutta la Louisiana, un territorio di circa
828.000 miglia quadrate.
Il presidente americano Polk
afferma nel 1864 la sua intenzione di conquistare
la California. Due anni più
tardi California, Arizona e
Utah entrarono a far parte
dell’Unione. Con l’acquisizione infine dell’Oregon,
dello stato di Washington
e dell’Idaho, l’Unione ormai
occupava tutto il continente, dalla storica costa atlantica orientale a quella occidentale del Pacifico. Nel
1867 l’Alaska, ‘la ghiacciaia’,
venne acquistata dalla Rus-
sia degli Zar.
Le isole Hawaii furono invece annesse nel 1898 insieme a Puerto Rico e alle
recalcitranti Filippine.
Mentre si procedeva a riempire vaste estensioni di
territorio con nuovi stati ordinatamente regolamentati,
il segretario di stato John
Quincy Adams produsse
per conto del Presidente
James Monroe una dottrina che proclamava i due
continenti off-limits: Europa e Stati Uniti saldamente
sovrani nelle loro rispettive
zone di influenza. Nel 1917,
entrando nella prima guerra mondiale, gli Stati Uniti
annullarono di fatto la dottrina Monroe. Ma lo fecero
per aggiudicarsi, con le limitazioni del caso, un altro
mondo: quello che attualmente si chiama, con molto
ottimismo, globale.
Note
(1) Christofer Hill, La
formazione
della
potenza inglese, dal 1530
al 1780, Torino, 1977;
(2) Bernard Bailyn - Gordon
S. Wood, Le origini degli
Stati Uniti, Bologna, 1987;
(3) Federico Rampini, East
India Company, la S.p.A.
che regnò su un continente, La Repubblica, 3 agosto
2008, pagina 32 e seguenti;
(4) Gore Vidal, L’invenzione degli Stati Uniti, Roma,
2007;
(5) Limes, Rivista Italiana
di Geopolitica, n°2 /2011:
Dream over. L’America torna a casa.
Riferimenti bibliografici
•B. Bailyn - G.S. Wood, Le Origini Degli Stati Uniti,
Bologna 1987;
•D. Cannadine, Declino E Caduta Dell’aristocrazia
Britannica, Milano 1991;
•L. Coley - Prigionieri, L’inghilterra, L’impero E Il Mondo
1600 - 1850, Torino 2004; si veda in particolare la parte seconda
America Prigionieri: Presenze Imbarazzanti, p.149 e ss.;
•A. Stephanson, Destino Manifesto. L’espansionismo
Americano E L’impero Del Bene, Milano 2004;
•S. Delfino, Alla Periferia Dell’impero. Le Tredici
Colonie Nordamericane Nell’economia ATLANTICA,
Genova 2004;
•M. Sioli, Esporando La Nazione. Alle Origini
Dell’espansionismo Americano, Verona, 2005;
•N. Ferguson, Colossus: Ascesa E Declino Dell’impero
Americano, Milano 2006;
•N. Ferguson, Impero - Come La Gran Bretagna Ha Fatto Il Mondo Moderno, Milano 2007;
•S. Luconi - M. Petrelli, L’immigrazione Negli Stati Uniti,
Bologna 2008;
•F. Fasce, I Presidenti Usa, Roma 2008;
•A. Del Mar, Storia Dei Crimini Monetari, Milano 2009;
21
Rodolfo Signifredi
L’intuizione creatrice
Far tacere la vecchia mente
per far parlare la nuova coscienza
Più i tempi si fanno cupi e
più si vede chiara una luce
in fondo al tunnel. I segnali
di un cambiamento in meglio
arrivano da molte parti e non
solo dai profeti dell’antichità
che lo avevano indicato con
sorprendente convergenza.
A supporto delle varie dottrine esoteriche, che parlano
di una supercoscienza destinata a sorgere sulle ceneri
degli uomini zombi di questo
nostro mondo civilizzato, ci
sono le relazioni scientifiche
dei neurofisiologi.
L’abitante del terzo millennio riuscirà ad armonizzare
i suoi tre cervelli, del rettile,
del mammifero e dell’uomo,
attraverso lo sviluppo di una
supercorteccia luminosa. Lo
ha ipotizzato Régis Dutheil
nel suo L’homme superlumineux avanzando l’ipotesi che
la nuova coscienza potrebbe
essere costituita di un “materiale” superluminoso, le
cui particelle sono più veloci
della luce. Ciò spiegherebbe
fenomeni come la premonizione o le esperienze ai confini con la morte.
Ma chi dirige questo lavoro
dentro di noi? Una supercoscienza in grado di coordinare i tre livelli di coscienza
che ci caratterizzano oggi e
che sono la coscienza di veglia, quella di sogno e quella
di sonno profondo, corrispondenti ai nostri attuali
tre cervelli. Come si sviluppa questa supercoscienza?
Mettendo a tacere, quando
è il momento, le nostre varie
personalità contrastanti che
nascono da questi tre livelli,
caratterizzati dall’inconsapevolezza.
Gran parte della nostra vita
mentale si svolge, infatti, a
livello inconsapevole, in uno
stato di sonnambulismo. C’è
anche una consapevolezza
ordinaria, però è un livello
22
momentaneo, limitato all’apprendimento o a situazioni
di emergenza. Dopo questi
brevi momenti subentra di
nuovo l’abitudine, l’automatismo, l’inconsapevolezza; e
lo stato mentale passivo che
ne prende il posto impoverisce la nostra vita e la mette
in pericolo.
Consapevolezza vera vuol
dire, invece, controllo della
propria vita, creatività, capacità di inventare soluzioni
nuove e trasformare le difficoltà in opportunità. Consapevolezza, inoltre, è saper
attingere alle risorse segrete
della mente e del corpo per
combattere la tendenza a
regredire verso la vecchiaia
e la malattia. Sono soltanto
alcuni dei vantaggi che dà
questo stato.
È importante, quindi, imparare come e perché si sviluppi
l’inconsapevolezza e come,
viceversa, si può diventare
più consapevoli e attenti al
presente in molti aspetti della nostra vita. Passare dalla
senescenza, appunto, alla
creatività, dal lavoro alla salute. La riflessione sulla consapevolezza e sulla inconsapevolezza può modificare le
nostre opinioni sul mondo e
rendere più facile l’affrontare
i rischi o guardare con favore
ai cambiamenti.
Dal cervello rettile
alla supercorteccia
In questa “nuova era” stiamo
assistendo all’emersione di
un modo nuovo ed efficace
di concepire l’uomo e la sua
realtà. La scienza ha già dimostrato che la creazione è
un atto continuo; il creato è
un fluire ininterrotto di energia cosmica e le variazioni di
questo flusso si manifestano
come materia, come esseri,
come sentimenti. E noi stes-
si interferiamo in questa creazione del mondo.
L’osservatore modifica ciò
che va osservando. E’ un
principio della fisica quantica, per il quale siamo noi i
responsabili di ciò che avviene nel mondo attraverso l’emissione dei nostri pensieri.
Perché i pensieri sono energia e questa energia viaggia
più veloce della luce. Siamo
abituati a credere che quanto proviamo dentro di noi sia
causato da ciò che ci accade, mentre la nuova visione
dell’uomo ci dice che tutto
ciò che ci accade è causato o modificato dal nostro
modo di pensare. Cioè, la
nostra contentezza o scontentezza non dipende dagli
avvenimenti esterni o dalle
persone che vi prendono
parte, ma dal nostro atteggiamento verso di loro.
E’ questo modo di pensare
che determina come gira e
come vediamo girare il mondo; uno stesso avvenimento
può essere giudicato buono
o cattivo secondo il punto di
vista da cui lo si guarda, modificandone al tempo stesso l’andamento. Oggi, però,
stiamo imparando a usare
l’energia della mente, a filtrare e dirigere i nostri pensieri;
cosa che nessuno ci aveva
mai insegnato prima.
Sappiamo usare il computer ma non siamo capaci di
controllare la nostra mente.
Ci hanno aiutato a camminare, a parlare, a scrivere, a
conquistarci una posizione,
a farci una famiglia, ad avere successo. Ma nessuno ci
ha saputo dire che tutto ciò
che viviamo e sperimentiamo passa solo attraverso la
nostra mente.
E il corpo si mise a pensare
E’ importante che l’uomo
del terzo millennio, che sta
unendo oriente e occidente,
abbia già cominciato a coltivare questa supercoscienza mediante una più reale
consapevolezza della propria presenza nel mondo, a
partire dalla dimensione corporea. Nel corpo, infatti, ci
sono numerose cellule sensoriali di cui non prendiamo
mai coscienza, ma che sono
rappresentate nel cervello
allo stato latente. Sono le
cellule superluminose di cui
parlava Dutheil. E’ questo
collegamento che dobbiamo
ristabilire con la zona delle
operazioni coscienti.
La consapevolezza di tutto
il corpo simultaneamente
presente in ogni sua parte
nel nostro schema mentale,
è la coscienza che si diffonde ovunque in noi stessi, dal
tronco alle varie membra,
dai muscoli fino alle cellule.
E questa coscienza diffusa mette in risonanza ogni
parte con l’attività mentale, arricchendo e ravvivando l’immagine di noi stessi
raffigurata nella corteccia.
Tutto il corpo entra in vibrazione mentale, tutto il
corpo pensa, tutto il corpo vive consapevolmente.
Questo apporto di intelligenza alla estrema periferia del
nostro corpo risveglia l’intelligenza latente delle nostre
cellule periferiche; e la vitalità corporea, stimolata e raccolta in ogni singola cellula,
va ad accrescere la vitalità
mentale. E’ la mente che si
fa corpo e il corpo che si fa
mente. Ma a un livello supercosciente.
Importante e riflessivo, questo procedimento di scambio creativo-energetico può
avvenire anche tra noi e le
cose. L’osservazione ricettiva di immagini, colori, forme, ci arricchisce delle loro
vibrazioni, mentre noi contraccambiamo caricando di
coscienza gli oggetti che si
osservano. Tutti i pensieri si
ripercuotono nel corpo, non
solo sulla respirazione, ma
anche sui muscoli e sulla pelle. E, all’inverso, tutte le tensioni muscolari che abbiamo
in atto, stimolano ricordi
specifici; tutte le ipersensibilità cutanee apportano ricordi ed associazioni di idee.
E’ per questo che la decontrazione muscolare profonda
e la pace mentale vanno di
pari passo. Non si possono ottenere separatamente.
La sensazione ci ricollega
alla natura
L’uomo non è vittima solo
dell’ambiente, ma anche dei
suoi sensi. E’ attraverso i
sensi che l’uomo ha la conoscenza di ciò che lo circonda, e l’interpretazione che gli
offre il suo cervello è l’immagine che egli ha del mondo
esterno. Chi ha il potere di
modellare a suo piacimento
questa composizione mentale, può diventare padrone
del suo “mondo”.
Quando i sensi sono scossi
e frastornati anche l’elaborazione cerebrale è falsata.
I numerosi ostacoli e le resistenze mentali che ci
bloccano nella nostra vita
quotidiana possono venire
più facilmente superati attraverso un corretto uso dei
sensi. Uno dei primi passi
per riparare la divisione che
si è verificata tra l’uomo e
la natura, è infatti la sensorialità cosciente, cioè le
sensazioni ricevute consapevolmente. Possiamo farne
l’esperienza diretta ogni volta che, posando le piante dei
piedi bene a piatto sul suolo, mettiamo tutto noi stessi
nella percezione di questo
contatto. Per poco che ci
impegniamo in ciò, saremo
sorpresi della intensità di
questo momento presente.
Il nostro universo sensibile è a predominanza visiva,
seguita da quella auditiva;
cioè, applichiamo prevalentemente la vista e l’udito, i
due sensi più “intellettuali”,
quelli attraverso i quali si forma il linguaggio, la comunicazione corrente.
Oggi ci si esprime solo in
modo audiovisivo. Non sappiamo più toccare, fiutare,
gustare. Siamo stati educati
a studiare la natura ma non a
vivere la natura stessa. E immergersi nelle cose è ben diverso dal vedere come sono
fatte.
Coscienza intellettuale e
coscienza fisica
Molti di coloro che sono
abituati al pensiero hanno
soprattutto una coscienza
intellettuale. Essi pensano
di essere molto coscienti,
ma questa loro coscienza è
stretta, limitata ai loro pensieri, alle loro immagini. Essi
sanno comunicare più facilmente i loro pensieri, ma
23
hanno molte difficoltà a sapere ciò che rappresentano
e ad esprimerli. Parlano delle loro emozioni, ma non le
sentono. Essi sono coscienti
solo dell’idea dell’emozione.
Si può dire che questi non
vivono la loro vita, ma che
la pensano. Vivono solo nella loro testa. Alla facilità di
pensare si contrappone una
difficoltà nel sentire. La coscienza del corpo si colloca
al polo opposto di quella intellettuale. E’ la caratteristica
dei fanciulli. C’è una grande
differenza tra l’essere coscienti del proprio corpo ed
avere coscienza del proprio
corpo. Si può essere coscienti del corpo solo con
una coscienza intellettuale.
Il corpo, in questo caso, è
considerato come uno strumento dell’io e non come il
vero Sé.
La coscienza fisica occupa
una posizione intermedia
fra la coscienza intellettuale e l’inconscio, mentre la
coscienza intellettuale non
ha un legame diretto con
l’inconscio. L’inconscio è
quell’aspetto del nostro funzionamento fisico che noi
non percepiamo o non possiamo percepire. Perciò, allargando la coscienza verso
il basso, verso il centro vitale
ci si avvicina all’inconscio.
Lo scopo non è di rendere conscio l’inconscio, ma
di rendercelo più familiare.
L”inconscio è la nostra for-
24
za, il conscio è il nostro orgoglio” è stato detto. Ma il
superconscio sarà la nostra
gloria.
Allargare il campo
di coscienza
Esiste uno stretto legame tra
la coscienza e l’attenzione,
perché più noi facciamo attenzione a qualche cosa e
più ne siamo coscienti. L’attenzione che noi prestiamo
ai nostri vari centri psicofisici, e in primo luogo al centro
di gravità sul quale tutti gli
altri si reggono stabilmente
quando l’individuo è perfettamente equilibrato, ci dà
una chiara coscienza del nostro intero essere.
Infatti, questa attenzione posata sui vari centri li ravviva,
li tonifica, li stimola; e poiché
essi rappresentano le parti
più essenziali e vitali della
persona, intesa nella sua
globalità, ecco che l’attenzione li mette in maggior relazione tra loro ricostruendo
nella nostra mappa mentale
l’individuo completo. E preparando il livello supercosciente.
L’attenzione, quindi, genera
coscienza. Ma se consideriamo l’attenzione come una
funzione e non come uno
stato, ci si spiega perché è
possibile essere coscienti di
qualcosa oppure di non esserne coscienti; allo stesso
modo come si può guardare
o non guardare, ascoltare o
non ascoltare. L’attenzione,
che è radice della coscienza, è infatti una facoltà che
siamo liberi di usare o non
usare. La coscienza, quindi,
è l’attitudine a essere coscienti.
Spostare l’attenzione da una
cosa all’altra non allarga la
coscienza, perché mentre si
vede una cosa nuova non
si può vedere quella vecchia. L’attenzione cosciente
è come un proiettore che
illumina una zona ma, nello
stesso tempo, mette in ombra il resto. Tuttavia, la mobilità della luce, cioè della attenzione, è uno degli aspetti
della coscienza. Chi può
spostare il suo sguardo su
più cose ha una coscienza
meno limitata di chi lo fissa
invece su un solo aspetto.
Ma non c’è solo la mobilità; l’intensità e la qualità di
coscienza sono ancora più
importanti. La coscienza si
rafforza esercitando, come
si è detto prima, gli organi
di senso, cioè gli strumenti
dell’attenzione. Come una
luce vivida rivela più cose di
una luce debole, così la coscienza si ravviva con una
migliore attitudine sensoriale. C’è l’attitudine ad allargare o restringere il campo di
percezione, a essere capace
di spostarsi liberamente dalle percezioni esteriori a quelle interne.
La coscienza del corpo è
il livello di coscienza più
profondo e più esteso; ed
è a questo livello che noi
sentiamo la nostra identificazione con la natura, il cosmo, la vita. Più la coscienza
sale verso livelli intellettuali,
meno essa si allarga, perché acutizza le sue capacità
di analisi. Mentre quando si
approfondisce e scende verso i sentimenti, le sensazioni
e i processi fisiologici che li
generano, essa si allarga e
diventa cosmica.
E tutto questo senza coinvolgere l’intelletto, la razionalità. Anzi, mettendo a
tacere la nostra “vecchia
mente” abituata a spaziare
in lungo e in largo nel chiacchierio dei pensieri che si
susseguono ripetitivi e inutili.
É’ quello che ci richiedono
le varie discipline orientali.
“Vendi l’intelletto e acquista
l’intuizione” dice un maestro
di zen.
Il sonno della ragione genera
mostri, ma anche l’insonnia
della ragione può crearne altrettanti. Quella che ci viene
proposta è, invece, soltanto
una sospensione. Quando la
nostra piccola mente si ferma incantata di fronte al proprio spettacolo.
Benvenuti nella quarta dimensione.
L’intuizione creatrice.
Far tacere la vecchia mente
per far parlare la nuova coscienza.
Mirta Serrazanetti
Gli enigmi nell’arte
Il trionfo di Venere ovvero
il piacere della lusinga
La raffinata tavola, dipinta
ad olio intorno al 1545 da
Agnolo Bronzino, pittore fiorentino al servizio del duca di
Toscana Cosimo I dei Medici,
costituisce l’affascinante oggetto di questa nostra mensile dissertazione. Dal punto
di vista stilistico l’opera si
presenta di facile lettura: la
purezza delle forme gelide e
marmoree, le tonalità smaltate e innaturali, l’atmosfera
sensuale e lasciva, che sarà
poi così tipica della scuola
francese di Fontainebleau, ci
portano in modo inconfondibile al clima elegante e rarefatto del Manierismo.
Piu’ suggestiva diventa invece l’analisi del dipinto se
si prende in considerazione
il suo significato. Si tratta
indubbiamente di un’allegoria mitologica. Al centro c’è
Venere, dea della bellezza
e dell’amore, con i suoi tradizionali attributi: la mela,
dono di Paride alla piu’ bella dell’Olimpo, e la colomba. A lei allacciato in un torbido abbraccio è Cupido,
dio degli innamorati, alato
e munito, secondo la tipica
iconografia, di frecce e faretra. Le due figure centrali
concentrano su di loro l’attenzione, sia per l’innaturale
candore dell’epidermide, sia
per l’atteggiamento lascivo
e un po’ equivoco (Cupido,
ricordiamo, è figlio di Venere), atteggiamento che certo
dovette turbare non poco
gli animi nei secoli passati,
tanto che nell’Ottocento si
avvertì il bisogno di rivestire il corpo della dea con un
panno giallo, eliminato poi
negli ultimi restauri. A un secondo esame si notano altri
personaggi: un puttino sorridente, con dei campanellini alla caviglia sinistra, che
avanza spargendo i petali di
rosa che tiene in mano, identificato dai critici nella Gioia,
e una figura di donna afflitta,
raffigurata nell’atto rabbioso
di prendersi la testa tra le
mani, che presumibilmente
rappresenta la Gelosia o la
Disperazione. In alto una figura di vecchio alato, con la
tipica clessidra, chiara rappresentazione allegorica del
Tempo, copre i personaggi
con una tenda scura. Il significato della raffigurazione
appare ora abbastanza chiaro: si tratta di un’allegoria
dell’amore sensuale con le tipiche sensazioni che accompagnano il gioco amoroso:
il piacere, la gioia, la gelosia
e la disperazione. Alla fine il
tempo interviene a spegnere
ogni passione.
C’è però una figura, che appare in secondo piano a destra, parzialmente nascosta
dalle altre che non è ancora
stata identificata: un avvenente volto femminile si accompagna a un corpo che
solo fino alla vita è di donna,
mentre dalla vita in giù si presenta orripilante e squamoso e termina con una lunga
coda da serpente munita di
pungiglione e con zampe di
leone. Le mani, altro particolare curioso, sono invertite: la
mano destra è al posto della
sinistra e quest’ultima al posto della destra. Una mano
tiene tra le dita un favo di
miele e l’altra il pungiglione
della coda. Chi è mai dunque questo personaggio mostruoso?
Presumibilmente
l’Inganno, che alletta con la
dolcezza del miele e punge
dolorosamente con il veleno. Si spiega allora anche la
presenza, ai piedi della figura, delle maschere, attributo tipico dell’inganno: chi si
maschera, infatti, nasconde
la vera realtà. Anche la frode
fa parte, purtroppo, del gioco amoroso ed è costei forse
la chiave di lettura dell’intera
composizione. Guardiamo
con rinnovata attenzione i
gesti che compiono i due
personaggi centrali: mentre
Venere e Cupido, abbracciandosi, stanno in realtà
Bronzino – Il trionfo di Venere – Londra National Gallery
ingannandosi a vicenda. Venere cerca di portar via dalla
faretra di Amore le frecce e
Cupido, a sua volta, sta sottraendo a Venere il diadema
di perle che reca sul capo!
Come mai tanta insistenza
sul tema della frode e dell’inganno?
Forse la spiegazione definitiva del dipinto non è di carattere allegorico ma politico!
Sappiamo che questo quadro
era stato commissionato da
Cosimo I per essere offerto in
dono a un potente personaggio del tempo: Francesco I re
di Francia! Cosimo I si trovava infatti, come duca di Firenze, in una posizione alquanto
delicata. Nella prima metà del
Cinquecento la presenza degli stranieri in Italia era ormai
una realtà di fatto. Sui piccoli
ducati, come Mantova e Firenze, incombeva il rischio di
venire annessi ai domini spagnoli, come già era accaduto
nei primi decenni del secolo
al ducato di Milano. Ogni
espediente era quindi valido
per mantenere l’autonomia;
un’abile politica matrimoniale
e l’adulazione a volte risultavano carte vincenti. Anche
l’arte aveva ampio spazio in
questo abile gioco diplomatico. Il duca di Mantova, pochi
lustri prima, aveva ottenuto
l’appoggio di Carlo V di Spagna dedicandogli una sala affrescata con elementi allusivi
al suo potere, nel mantovano
Palazzo Te.
Non ci deve stupire quindi
che Cosimo I cercasse in
modo analogo di accattivarsi le simpatie e l’appoggio di
Francesco I di Francia, l’unico sovrano europeo in grado
di contrapporsi allo strapotere spagnolo. L’opera di Bronzino a lui dedicata può essere
così letta come professione
da parte del duca fiorentino
di lealtà politica, un invito a
diffidare delle false alleanze,
apparentemente vantaggiose ma in realtà fraudolente e
a saper riconoscere, invece, i
sinceri alleati.
25
Renzo Bracco
Dopo il pane e il formaggio, il salame!
Ai tre lettori – di manzoniana
memoria – che avranno avuto la bontà di seguire i precedenti articoli, che trattavano di pane e di formaggio,
concludiamo questo breve
excursus con qualche notizia, e qualche curiosità, sul
“principe” dei companatici: il
salame.
(Ricordiamo che “companatico” trae origine dal latino
“cum panem” – ndr).
In verità anche “salame” ci
arriva dal latino: sal, salis,
dato che il sale ne è stato, da
sempre, l’ingrediente fondamentale. Infatti già al tempo
dei romani si insaccavano
carni di vario tipo per produrre la lucanica, ossia una
sorta di salsiccia – l‘odierna
luganega: come conservante, si usava il sale, da cui il
termine latino salsamenta,
per indicare i salumi in genere. Non a caso a Roma le
salumerie ancor oggi si chiamano “salsamenterie”.
Prima di addentrarci nella
trattazione del salame, è opportuna una breve premessa.
Il salame, come lo intendiamo oggi, fa parte della
grande famiglia dei salumi,
categoria che comprende i
prodotti ricavati dalla lavorazione di carni suine o di
altro tipo, trattati con sale e
arricchiti l’aggiunta di spezie
e di altri ingredienti. I salumi,
vanto alimentare tutto italiano, come si evince da ogni
fiera o sagra regionale, com-
26
prendono tra gli insaccati,
oltre al salame, salsiccia,
mortadella, filzetta, zampone, cotechino, sanguinacci,
wurstel, schiacciata, soppressata, finocchiona, capocollo, fino ai coglioni di mulo
(sic), tipico salame di Umbria
e Abruzzo.
Tra i non insaccati citiamo:
prosciutto, pancetta, bresaola, speck, e il più nobile
dei salumi: il culatello. Tra i
suoi derivati, ve n’è uno particolarmente apprezzabile:
lo “strolghino”, un insaccato lungo e sottile fatto con i
pezzetti di magro che avanzano quando si dà forma al
culatello. Viene impastato
con piccole parti di lardo e
leggermente salato. Da consumare “ancora morbido
al tatto”, affettato rigorosamente a coltello e accompagnato da pane bianco e un
bicchiere di buon vino.
La carne impiegata nei salumi è in prevalenza quella
di maiale, ma vengono utilizzate anche carni bovine,
equine, ovine, di volatili, di
cinghiale, e altro ancora. Gli
ingredienti, con l’evoluzione
del mercato e del gusto, sono
oggi i più vari: oltre al sale,
fondamentale per la conservazione, troviamo il grasso
di suino, in quanto di sapore più gradevole, e di consistenza pastosa e morbida.
Le ricette sono praticamente infinite: si differenziano per composizione,
ingredienti, speziatura, finezza dell’impasto (grana
grossa o grana fine), e soprattutto, per la lavorazione, meglio se artigianale.
Per avere un’idea della varietà dei salumi regionali italiani, basterà citare alcuni tra i
più comuni additivi: aglio,
pepe, chiodi di garofano, zafferano, rosmarino, finocchio,
peperoncino, tartufo, vino
rosso, anice, cannella, noce
moscata, alloro, pistacchio,
rapa(!),salvia; per favorire la
conservabilità si possono
aggiungere acido ascorbico, zuccheri ( saccarosio,
glucosio, lattosio, fruttosio);
polvere di latte magro, sali
di sodio e potassio per dare
consistenza e omogeneità
all’impasto e starter microbici per favorire la stagionatura
e migliorare le caratteristiche
organolettiche.
C’è infine il capitolo additivi
(autorizzati dalla legge), che
si trovano sopratutto nei prodotti industriali: per apprezzarli appieno si dovrebbe
ricorrere almeno al Piccolo
chimico, il ben noto bignami
molto in uso nelle scuole superiori.
Eccone alcuni: conservanti
(nitrati e caseinati di sodio
e di potassio), antiossidanti
(acido ascorbico, tocoferoli),
addensanti e gelificanti (polifosfati), colorante E301, etc.
Da evitare i nitriti, tendenzialmente cancerogeni.
Ma niente paura: ormai abbiamo sviluppato gli anticorpi per sopravvivere a tutto
ciò; naturalmente si tratta
di elementi che ci dicono
essere utili per favorire l’appetibilità, la conservazione,
una corretta maturazione
dell’insaccato, per superare i
problemi della distribuzione,
tipici dei prodotti freschi, e
altro ancora.
Vogliamo crederci!?
Parafrasando una famosa
battuta, che si fa risalire a
Humphrey Bogart nel film
cult “Casablanca” - ma ripresa spesso in varie circostanze - oggi si potrebbe dire,
con una buona dose di realismo ( o di cinismo?) “questo
è il mercato, bellezza!” .
Ma tutto ciò che precede
non toglierà mai il piacere di
un panino col salame! Basterà citare una famosa canzone di Albano & Romina: “Felicità è….tenersi per mano e
andare lontano….felicità è
un bicchiere di vino con un
panino…. “
Quindi, per chi ne abbia la
possibilità, si consiglia l’approvvigionamento
direttamente da piccole aziende
artigianali, che ancora praticano lavorazioni tradizionali:
da non perdere il cosiddetto
“salame ignorante”, o “salame del contadino”, che altro
non è se non un prodotto
genuino, che conserva un
aspetto e un sapore inconfondibili.
C’è poi da dire che la lingua
italiana, ricca di diminutivi e
vezzeggiativi, ci ha messo
del suo: ecco allora nascere i salametti, le salamelle, i
salamini, questi ultimi portati
all’onore del palcoscenico
da Ettore Petrolini, re del teatro comico del Novecento.
Fu attore, drammaturgo, sceneggiatore ma soprattutto
massimo esponente di quel
“teatro minore” che comprendeva il Varietà, la Rivista
e infine l’Avanspettacolo.
Ne riportiamo
una
famosa
strofetta:
“Ho comprato i
salamini
“del dì nel quale mi maritai
“con mia moglie non feci questione mai
“ma qualche volta la porto
sul tramvai.
“Questa mattina i salamini le
comprai
“e me ne vanto assai…..
Certamente, un umorismo e
un candore di altri tempi.
Petrolini fu uno spirito libero: divenne famosa una sua
battuta
quando, ricevuta
una onorificenza dal regime,
dichiarò: “E io me ne fregio!”
Ma torniamo al salame, e al
suo nemico: il colesterolo.
Anche se la qualità di ciò che
si trova oggi sul mercato è
nettamente migliorata, riducendo il contenuto in grassi
e quindi anche l’apporto calorico, il salame rimane un
alimento molto energetico,
con un elevato contenuto
proteico, talvolta superiore
anche a quello della carne. I
salumi in genere sono anche
ricchi di ferro, zinco e sodio,
oltre alle vitamine B1, B6,
B12. Tutto bene dunque?
Ahimè no, perché i salumi
in quanto ricchi di sale sono
sconsigliati agli ipertesi, e a
coloro che non tollerano alcuni ingredienti tipici, come
spezie e grassi. Naturalmente, vale sempre il tipico avvertimento che ci viene propinato per i cibi di cui siamo
più golosi: consumare con
moderazione.
Abbiamo sin qui parlato dei
prodotti nazionali: ma come
stanno le cose all’estero, in
particolare nel resto d’Europa? Senza voler fare del
campanilismo, diciamo pure
che le cose non stanno molto bene: nessuno può vantare la qualità e la varietà dei
salumi italiani.
Certo, qua e là si trovano
prodotti di pregio. Vogliamo
citarne alcuni, iniziando dalla
vicina Francia? La regione di
Lione, orgoglio dei buongustai dell’Oltralpe, offre ottimi
salami di montagna e in particolare una buona varietà di
prosciutti (cotti): alle erbe,
al porto, con cotenna, tipo
Praga. Nell’Auvergne - regione cantata con passione da
George Brassins, padre spirituale del compianto Fabrizio de Andrè - si producono
dei buoni salumi (e formaggi
di pecora), così come in Alta
Savoia; ancora, si trova qualche prodotto interessante sui
Pirenei, ma tutto finisce qui.
La Spagna invece, nella regione dell’Estremadura,
produce un ottimo, e carissimo - da 18 a 30 Euro l’etto
- prosciutto crudo disossato
(il “Serrano”), paragonabile,
per le sue caratteristiche, al
prosciutto toscano. La sua
qualità viene attribuita a una
particolare razza di maiali,
detta “Pata negra”, ovvero
“Zampa nera”, e all’acido
oleico contenuto nelle ghiande di cui si cibano. La sua
lavorazione è molto complessa, e la stagionatura è di
norma superiore ai tre anni.
Altro prodotto della regione,
meno pregiato, un salame a
grana grossa, il “Chorizo”,
colorato e insaporito con paprica dolce o piccante: come
da sempre viene prodotto il
salame calabrese.
Un buon prosciutto crudo,
dal nome impronunciabile, fatto di sole consonanti,
detto “prst”, è prodotto nella
vicina Slovenia.
Rimane la Germania che,
come si sa, è una grande
produttrice di insaccati (oltre un milione di ton/anno), a
cominciare dai wurstel e dai
frankfurter, e di una grande
varietà di salumi macinati e
cotti. Spiccano il prosciutto
cotto, tipico della Westfalia,
il weisswurst, detto anche
salsiccia bianca, composto
da carne di vitello, pancetta
e cotica di maiale finemente macinate, prodotto tipico
della Baviera e della Slesia.
Vi sono tuttavia molti altri tipi
di wurstel, anche se non tutti sono distribuiti in Italia: di
lingua, di cervella,di sangue
di maiale e lardo, di vitello,
d’oca, di pollo, al formaggio
etc.
Ma per il gusto italiano, si
tratta di…un’altra cosa.
In chiusura, trattando di salame, non si può non citare
una sorta di “contaminazione” del nome salame: in
molte regioni italiane ormai
si è diffuso il “salame di cioccolato”. Si tratta di un’altra
ghiottoneria, che nulla ha a
che vedere con i salami di cui
si è parlato, ma che ha i suoi
amatori, specialmente nelle
festività natalizie. È un dolce che si prepara facilmente
anche in casa: richiede poco
più di mezz’ora, e nessuna
particolare attrezzatura. Gli
ingredienti sono molto comuni: cacao ( o cioccolato
fuso), tuorli d’uovo, zucchero, rhum, biscotti secchi o
amaretti, frutta secca; nessuna cottura o bollitura, ma un
semplice raffreddamento per
qualche ora nel frigorifero.
Ne esiste anche una variante
più chic: il salame di cioccolato bianco.
Per il contenuto calorico,
il colesterolo, i trigliceridi,
la glicemia etc etc, ahimè,
nulla è cambiato rispetto ai
salumi propriamente detti.
Quindi: moderazione, anche
per coloro che se li possono
permettere!
27
Ercole Pollini
El guarnasc
I battelli mettono le ali
…….1964…… Aliscafi serie pt 20
Dal lontano 1905, quando
l’ing. Enrico Forlanini provò
sul lago Maggiore “l’idrottero”, (l’aliscafo dei nostri
giorni), si sono fatti passi da gigante nella ricerca
“dell’alta velocità” sull’acqua.
Come ho già scritto sul n°
74 della nostra rivista, sempre sul lago Maggiore, nel
1953 entrò in servizio passeggeri l’aliscafo FRECCIA
D’ORO, realizzato dall’ing.
Federico Löbau presso il
cantiere Supramar di Zug
(Svizzera).
In quegli anni, l’ing, Löbau
iniziò una stretta collaborazione con i Cantieri Rodriquez di Messina che, già
alla fine del decennio, erano pronti a fornire alle società di navigazione interna
un mezzo avveniristico e
sufficientemente affidabile:
l’aliscafo serie PT 20.
Lo spirito dell’alta velocità
sull’acqua aveva pervaso
sia le menti delle compagnie di navigazione che
quelle dell’utenza giovanile,
sempre attratta dal “correre” – dove, non lo so ancora
adesso -.
I battelli allora in servizio,
avevano una velocità media commerciale di 22 km/
ora, solo alcuni battelli a
vapore e a ruote raggiungevano i 26 km/ora, più che
sufficienti a soddisfare le
esigenze dell’utenza turistica concretizzate da ampi
“ponti sole” e confortevole
ricovero in caso di cattivo
tempo.
Da notare che una velocità
superiore ai 26 km/ora risulta fastidiosa ai passeggeri
sui ponte sole.
Da allora, l’architettura dei
battelli cominciò a trasfor-
marsi dal “tutto aperto” al
“tutto chiuso” trasformando i natanti in scatoloni, veri
e propri vagoni passeggeri.
Per fortuna, specie sui laghi svizzeri, è in atto una
controtendenza dell’utenza turistica che esige spazi aperti e che ha portato
alla rivalorizzazione (e al
conseguente
salvataggio
dalla demolizione) dei vecchi battelli a ruote, come
sta avvenendo specie sul
Lago dei Quattro Cantoni
o di Lucerna, sul Lemano,
di Brienz, di Thun e di Costanza.
Sul lago di Como è sintomatica che la preferenza
dei turisti è per il piroscafo a ruote CONCORDIA e
per l’ultracentenario MILANO che offrono ampi spazi
aperti e confortevoli posti al
coperto.
Fig. 1 - 1905 – l’ing. Enrico Forlanini prova il suo idrottero sul lago Maggiore.
28
Il 4 agosto 1964, arriva a
Lecco, proveniente da Venezia, l’aliscafo FRECCIA
DEL LARIO, il primo dei
nove che solcheranno le
cerulee acque del nostro
lago.
Dopo il varo, effettuato con
una potente gru, viene trasferito nel cantiere di Dervio
per gli ultimi allestimenti.
Il 15 agosto, compie il viaggio inaugurale e, come da
copione, sulla tratta: Como
– Tremezzo – Bellagio –
Menaggio, richiamando la
curiosità dei lacuali e dei
numerosi turisti che in quel
periodo affollano le rive del
lago.
Mi ricordo,come se fosse
ieri... mi trovavo in barca
a pescare al largo di Bolvedro, con la cavedenera,
quando lo Stefano Lingeri,
l’arcipelago Toscano.
Fig. 2 -luglio 1974 – l’aliscafo FRECCIA DELLE AZALEE accosta a Menaggio.
In conseguenza dell’introduzione degli aliscafi
sul Lario, dovettero essere allungate le passerelle
d’imbarco dei pontili per
permettere l’attracco del
mezzo data la sporgenza
delle ali di sostentamento
anteriori. Vennero adeguati
alle nuove esigenze solo i
principali scali a interesse
turistico.
Sino all’entrata in servizio
della seconda serie di aliscafi, la RHS 70, la FRECCIA
DEL LARIO e la FRECCIA
DELLE AZALEE, furono
adibite al servizio turistico,
solo in un secondo tempo,
al servizio di linea.
Caratteristiche tecniche
Si può definire l’aliscafo un
mezzo di trasporto bivalente, cioè: nelle condizioni di
staticità e a bassa velocità
si comporta come una comune imbarcazione sostenuta dalla spinta idrostatica
(a dislocamento) mentre, a
velocità più elevate (40 ÷ 60
e oltre) è sostenuta dinamicamente sopra l’acqua da
una serie di ali portanti.
Fig. 3 - luglio 1974 – l’aliscafo FRECCIA DLLE AZALEE, lasciato il pontile di Tremezzo comincia a prendere
velocità.
mio inseparabile compagno
di avventure lacustri, richiama la mia attenzione sulla
comparsa dalla punta del
Balbianello di un insolito
natante che di primo acchito sembrava un idrovolante
dell’idroscalo di Como in
fase ammaraggio ma che
ben presto si rivelò uno
scafo che volava sull’acqua
sospeso su trampoli che
sollevavano ai lati due enormi baffi d’acqua...
Cinque anni dopo, il 9 giugno 1969, alle ore 19,30
giunge allo scalo merci di
Como, proveniente da Venezia, il secondo aliscafo:
la “FRECCIA DELLE AZALEE”.
Varato con due potenti autogrù, viene trainato al cantiere di Tavernola per l’allestimento definitivo.
Già il 28 giugno, compie il
viaggio inaugurale sulla solita tratta Como – Tremezzo
– Bellagio – Menaggio.
Solo il 24 novembre del
1982, dopo l’entrata in servizio, negli anni settanta,
dei tre aliscafi “serie RHS
70”, fu trasferito dal lago
di Garda, ove era entrato in
servizio nel 1965, la FRECCIA DEGLI ULIVI.
Questo aliscafo risentiva
dei diciassette anni di intenso utilizzo e il suo stato
di usura lo rendeva poco
affidabile tale che già nel
1985, venne posto in disarmo e alato nel cantiere di
Dervio, in fianco allo scalo, ove rimase sino al 1994,
anno della sua demolizione.
A titolo di cronaca, nel 1964,
anche la C.G.N., la Compagnia Generale di Navigazione sul Lemano (CH), in
occasione dell’Esposizione
Nazionale, mise in servizio
l’aliscafo ALBATROS serie
PT 20 costruito anch’esso
dai Cantieri Rodriquez di
Messina. Purtroppo questa
unità restò in servizio sino
al 1968 indi fu venduta, in
un primo tempo in Francia
e, poi, a una compagnia
italiana che lo ribattezzò
FRECCIA DEL GIGLIO per il
collegamento fra Livorno e
Scafo
Un tradizionale tre punti,
costruito con lamiere in duralluminio, chiodate, una
struttura robusta ed elastica atta a sopportare le
notevoli sollecitazioni di un
mezzo veloce (60 ÷ 65 km/
ora).
Analizzando gli schemi costruttivi si evince che il progetto risente della tecnica
costruttiva aeronautica, allora ancor ben conosciuta
dai nostri ingegneri. Basti
pensare che dopo quarant’anni di intenso utilizzo
non si verificarono cedimenti di alcun genere nelle
strutture attive.
Dei cosiddetti “impennaggi”, vere e proprie ali, non
sono in grado di esprimere
commenti, se non un doveroso ricordo alla memoria
dell’ing. Forlanini e dell’ing.
Löbau che ne perfezionò le
applicazioni.
Ali portanti
29
Fig. 4 - 1964 , lago Lemano (Suisse) – l’aliscafo ALBATROS in piena velocità.
Le ali sono disposte a prua
e a poppa e hanno rispettivamente la forma di “W” e
di “V”.
Il loro profilo è quello tipico
di un’ala.
Motorizzazione
In quegli anni, la realizzazione dei motori cosiddetti “diesel veloci”, stava
progredendo velocemente
anche se permaneva il problema della rumorosità e,
in alcuni casi, delle vibrazioni. Queste ultime, sono
state solo in piccola parte
imputabili al motore, bensì
alla mancanza di sistemi di
appoggio debitamente ammortizzati.
Il motore installato,
Mercedes mod 820 DB da
1250 C.V., costruito su licenza dalla FIAT, era assai
affidabile e dai consumi
contenuti ~ 2,50 kg/km di
nafta.
Sovrastrutture
La loro linea sfuggente,
conferiva al mezzo un’aria
borsaiola, come risultava in
pratica.
Le sovrastrutture erano divise in tre sezioni: saletta
anteriore, corpo centrale
sopraelevato comprenden-
30
te la plancia di comando, il
locale di disimpegno dell’equipaggio, le due porte di
accesso dei passeggeri, le
scalette di accesso alle salette anteriore e posteriore.
Il W.C., limitato ma funzionale, era posto nel corpo
centrale e vi si accedeva al
termine della scaletta destra di accesso alla saletta
posteriore.
L’allestimento interno, realizzato con comode poltroncine, pur essendo sobrio, era abbastanza confortevole. Un impianto di
ventilazione
sopperiva
all’impossibilità di aprire i
finestrini.
Navigabilità
Con lago calmo, al massimo col tivano mattutino
e la breva pomeridiana, la
stabilità era buona, diventava assai problematica
con lago mosso tale che, in
alcuni casi, veniva sospesa
la navigazione.
La FRECCIA DEL LARIO nel
1987 viene posta in disarmo, ormeggiata alla diga
foranea di Como ove rimase sino al 1994 quando fu
trainata al cantiere di Dervio e ivi demolita.
Riassumiamo di seguito i dati caratteristici
degli aliscafi serie PT 20:
DATI CARATTERISTICI DEL BATTELLO
Propulsione
Motore diesel
Trasmissione del moto
n° 1
Elica a pale fisse con
inversione al motore
Lunghezza entro le pp.
m
Lunghezza fuori tutto
m
Larghezza ord. maestra
m
Larghezza fuori tutto
m
4,95
Immersione media
m
1,045
Motore
Modello
Potenza
Consumo
Numero motori
CV
Kg/km
N°
Fiat su licenza Mercedes
820 DB
1255
2,50 gasolio
1
Velocità max.
Km/h
60
Dislocamento a vuoto
t
Dislocamento a carico
t
31,63
Stazza lorda
t
53,39
Portata passeggeri
N°
80 (solo seduti)
Equipaggio
N°
3
La FRECCIA DELLE AZALEE, nel 2001 viene posta in
disarmo presso il cantiere
di Dervio ove rimase sino al
settembre 2003 ove fu demolita, malgrado l’interessamento del dott. Zanoletti,
21,05
deus ex machina del Museo
della Barca Lariana, che intendeva acquistarla come
reperto statico assieme al
BALILLA e altri numerosi
reperti storici.
Ercole Pollini
L’angolo del vecchio ingegnere
1938
La nuova FIAT “2800”
La Fiat 2800. (Foto di repertorio FIAT)
Mussolini, Duce del fascimo,
all’apice della sua potenza,
desiderava una macchina
di grande rappresentanza
e non trovò di meglio che
rivolgersi al sen. Giovanni
Agnelli il quale, volente o
nolente, fu quasi costretto
a soddisfare il desiderio del
capo. Infatti, un’auto del genere poteva avere un mercato interno ristretto (fascia
alta) e pressoché nullo all’estero, ove la facevano da
padrone le auto americane,
inglesi e tedesche.
La “Berlina 2800” completa la serie dei fortunati tipi
creati dai valenti tecnici della Fiat, alla guida dell’ing.
Giocosa, in quegli anni che
vanno dalla Topolino alla
prestigiosa 1500.
Quest’auto conferma che la
forma nata dalla considerazione dei calcoli aerodinamici è ormai propria della
carrozzeria moderna e appare come il conseguimento d’un risultato per molto
tempo cercato. L’imponen-
za della vettura riceve, dal
profilo composto di curve
ampie e ben modulate, una
sagomatura che la rende
agile e slanciata. I fanali, indipendenti dalla carrozzeria,
persuadono molto di più di
quelli della 1500, inesplicabilmente incassati nei parafanghi, la coda ha una compostezza suadente, come
è suadente la curvatura del
pararadiatore con le bacchette orizzontali.
Il complesso della carrozzeria obbedisce a una euritmia
di forme che chiariscono la
logica e serena ponderazione del disegnatore, in un
momento in cui la carrozzeria, specie in America, è tur-
Schema di alimentazione.
31
stico, brillante nelle riprese,
impeccabile nella marcia al
minimo, è fornito di tutti i più
moderni dispositivi automatici per l’avviamento e per la
regolazione della temperatura.
Capacità del serbatoio 74 litri;
lubrificazione forzata con
doppio filtro; regolazione
termostatica della temperatura dell’acqua nel radiatore;
il gruppo motore cambio sospeso elasticamente.
La frizione monodico a secco su mozzo elastico.
Il cambio di velocità a quattro rapporti e retromarcia,
con seconda e terza silenziose, sincronizzate per
l’innesto della terza e della
quarta; imbocco rapido per
la seconda silenziosa.
La sospensione anteriore
a ruote indipendenti; la posteriore con molle a balestra molto flessibili; barra
stabilizzatrice
trasversale
evitante il coricamento nelle
curve.
I freni idraulici sulle quattro
ruote hanno ceppi indipendenti comandati ciascuno
da un cilindro proprio.
Il passo della macchina è di
3,20 m; carreggiata anteriore 1,45 m, posteriore 1,46
metri.
Nel suo complesso.
I freni idraulici sulle quattro ruote hanno ceppi indipendenti comandati ognuno da un cilindro proprio.
bata dalla stravaganza con
tendenza al goffo.
Il motore è un sei cilindri,
con cilindrata 2853 cc, con
una potenza effettiva di 85
cavalli a 4000 giri, le imprime una velocità massima
di 130 km/ora. Il gruppo dei
Schema del telaio.
32
cilindri è fuso in ghisa al fosforo manganese; testata in
alluminio con sedi valvole
riportate; valvole in testa; albero a gomiti si quattro supporti; carburatore rovesciato con doppio silenziatore
sull’aspirazione. Il motore
ha un consumo di benzina
relativamente limitato.
Privo in modo assoluto di
vibrazioni, grazie anche al
perfetto equilibrio dell’albero a gomiti fucinato dal
blocco assieme ai contrappesi, silenziosissimo, ela-
Una vettura ben proporzionata alla funzione a cui era
destinata, con nuovi impianti di novità costruttive, che
la mettono in pari con i più
recenti progressi d’allora.
Ne vennero prodotte 620 dal
1938 al 1944, anno in cui ne
cessò la produzione.
Poca cosa per un’auto di
serie!
Ercole Pollini
Repertorio Gastronomico Valtellinese
I pizzoccheri
Scrive il prof. dott. Gianluigi
Garbellini, insigne storico
della Valtellina: ...contraddistinguono la gastronomia
della Valtellina i pizzoccheri,
sicuro vanto di Teglio, paese
in cui si ritiene abbiano avuto origine e abbiano avuto la
massima diffusione... anche
se, oggi, sono diffusi in tutta
la Valtellina e ne hanno valicato i confini conquistando
le regioni limitrofe, i pizzoccheri di Teglio sono tuttavia
comunemente considerati
i soli autentici e, a detta dei
buongustai, i migliori. Non
per niente la loro ricetta ufficiale è stata di recente (2002)
scrupolosamente codificata
dall’ Accademia del pizzocchero, un sodalizio appositamente nato per la tutela e la
promozione del più famoso
piatto tellino, incontrastato
“re” della cucina.
Ingredienti (per quattro persone)
400 g di farina di grano saraceno (furmentum – fraina)
100 g di farina bianca
200 g di burro
250 g di formaggio feta stagionata o di Valtellina Casera dop
150 g di formaggio grana da grattugia
200 g di verze
250 g di patate
uno spicchio di aglio, pepe nero.
Preparazione
Mescolare le due farine, impastarle con acqua e lavorare per circa cinque minuti. Con il matterello tirare la sfoglia fino a uno spessore di 2-3 millimetri dalla quale si ricavano delle fasce
di 7-8 centimetri. Sovrapporre le fasce e tagliarle nel senso della larghezza, ottenendo delle
tagliatelle larghe circa 5 millimetri.
Cuocere le verdure in acqua salata, le verze a piccoli pezzi e le patate a tocchetti, unire i pizzoccheri dopo cinque minuti (le patate sono sempre presenti, mentre le verze possono essere
sostituite, a seconda delle stagioni, con coste o fagiolini).
Dopo una decina di minuti raccogliere i pizzoccheri con la schiumarola e versarne una parte in
una teglia ben calda, cospargere con formaggio con formaggio di grana grattugiato e la feta o
il Valtellina Casera dop, a scaglie, proseguire alternando pizzoccheri e formaggio.
Friggere il burro con l’aglio lasciandolo colorire bene, prima di versarlo sui pizzoccheri.
Senza mescolare servire i pizzoccheri bollenti con una spruzzatina di pepe.
(Da “ La voce dell’Accademia dei pizzoccheri di Teglio”, ottobre-dicembre 2002) .
33
Antonio Aràneo
Zanzare
Zanzare sulla pittura
I miei quadri sono così ricchi
di luce, che è meglio guardarli
al buio o chiudendo gli occhi.
La mia tavolozza è molto ricca di colori e di sfumature,
tanto che non riesco più a imbroccare i pochi colori adatti
ai miei quadri.
Spesso nel
dipingere sbaglio i colori per
il timore di sbagliare.
I miei quadri sono molto facili
per i bambini, ma difficili per
gli adulti. Anzi, per i pittori
professionisti sono praticamente incomprensibili.
Per capire un quadro è necessario conoscere le regole;
per dipingere un quadro basta dimenticarle.
Per essere pittori non è necessario essere ignoranti,
però aiuta molto.
Grazie alla mia lunga esperienza nel campo dell’arte, ho
scoperto che non ho alcun
talento per la pittura. Perciò
pensavo di non dipingere più.
Purtroppo però, non posso
smettere di dipingere perché
adesso i miei quadri riscuotono un successo imprevedibile.
Il direttore di una galleria ha
rifiutato i miei quadri dicendo:
- Lei è già un pittore classico.
Noi facciamo solo mostre di
pittori contemporanei.
Un amico mi ha detto: - Ho
ricevuto il catalogo dei tuoi
34
quadri, che mi è stato molto utile. L’ho messo sotto il
piede del tavolo, che adesso
non balla più.
La pittura è la capacità di portare la fantasia su una tela.
Anticamente però la pittura
era l’arte di proteggere superfici piane dalle intemperie.
Ogni arte, ogni stile ha la sua
preistoria.
Quanto tempo ha richiesto il
mio ultimo quadro? Tremila
anni.
La pittura moderna invecchia
immediatamente.
L’incomprensibilità è la caratteristica dominante delle divinità e della pittura moderna.
Se questa è la pittura di oggi,
come sarà la pittura di domani? E la pittura di dopodomani?
La pittura del futuro: quadri
sonori e ritratti parlanti.
Molti quadri avveniristici hanno dovuto aspettare il loro
tempo abbandonati in pessime condizioni.
Non tutti sanno guardare i
quadri del futuro.
Che cosa è la pittura moderna, lo si saprà col passare del
tempo.
Purtroppo, ormai è impossi-
bile tornare a dipingere sulle
pareti delle caverne. Siamo
in troppi.
Un quadro è una fotografia
evitata.
Molti quadri sarebbero
meno costosi se fossero
fatti con la macchina fotografica.
La pittura è la riproduzione
a due dimensioni di ciò che
a tre dimensioni interessa
poco o niente.
Le norme della pittura sono
leggi della fisica.
Il peso di un’opera d’arte va
calcolato al lordo, compreso
l’autore.
Si può chiudere un occhio
sulla realtà, ma non su un
quadro.
Che differenza c’è tra un
quadro surrealistico e un
quadro reale?
Con pennelli e acquerello
non si fa scultura.
E’ daltonico e non vuole fare
il pittore? Peggio per lui. Ma
faccia almeno il critico.
Mi domandi come dipinge
quel pittore? C’è qualcosa di
molto umano nei suoi quadri:
macchie, spruzzi e scarabocchi.
Dipinge ad acquerello, ma
con troppa acqua.
E’ un pittore che, anche prima di dipingere, ha le mani
sporche.
Anche quando non dipinge,
sbaglia le prospettive.
E’ vero che tra una donna
bella e una donna brutta al
buio c’è poca differenza, però
le notti senza luna sono troppo scure per un dipinto ad
acquerello.
Per un pittore, l’astratto è
molto più vario e più ricco del
concreto.
Triste il pittore che è maestro di molti allievi. Più triste
il pittore che è allievo di molti
maestri.
Un imbratta-tele è un pittore professionista le cui idee
sono in netto contrasto con
le nostre.
Anche i quadri sembrano più
importanti se vengono esposti nella capitale.
Le tele dipinte, quando si afflosciano, diventano stracci.
Non ogni Tizio diventa un Tiziano.
Granarolo
Fres.co
Salumificio F
ratelli Beretta
Bel Italia
Ferrero spa
Kellog Italia
San Carlo Gr
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Lindt & Sprü
ngli
Gruppo Zamp
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Dolcissimo
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Gastronomia
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