L`IsoLa deLLa Luna
Transcript
L`IsoLa deLLa Luna
Lavezzi L’Isola della Luna Testo e foto di Paolo Curto Un fantastico agglomerato di rocce dalle forme incredibili, scolpite dagli elementi, che fa pensare a un paesaggio extraterrestre, sembra fare da sentinella alle Bocche di Bonifacio, uno dei tratti di mare più turbolenti del Mediterraneo. Alla scoperta di una delle più belle isole del mondo, testimone di uno dei più tragici naufragi dell’800. 100 Come mostrato chiaramente dalla foto, scogli e secche rendono infida la navigazione intorno a Lavezzi. Qui sopra, dall’alto, un tramonto a Cala Lazzarina; gitanti di fronte alla spiaggia principale dell’isola, vicino al cimitero dell’Acciarino; un subacqueo con una delle numerose cernie, abituate alla presenza dell’uomo, della secca denominata appunto “Città delle Cernie”, deve è proibito dar loro da mangiare. 101 Veduta aerea di Lavezzi: a sinistra, le rocce del naufragio e, in primo piano, Cala Lazzarina con la spiaggia principale. A sinistra si vede il cimitero dell’Acciarino e a destra Cala di Ghiuncu, con il secondo cimitero, che si intravvede sull’estrema destra e, subito sopra, Cala di Greco e i sentieri in mezzo all’isola che conducono a Cala della Chiesa. 102 L’ isola di Lavezzi, simile a una formidabile fortezza, si protende solitaria a sbarrare le Bocche di Bonifacio, uno dei tratti di mare più turbolenti di tutto il Mediterraneo. L’intera area, un variegato insieme di isole, isolotti, scogli e secche affioranti, è anche uno dei luoghi più infidi per la navigazione: l’insidia è in agguato sovente dove l’acqua sembra profonda. L’unica maniera di evitare indesiderate collisioni con rocce è procedere sempre adagio, possibilmente con il Sole alle spalle e mai in controluce. In una limpida mattinata, pur facendo molta attenzione e andando al minimo con la barca, evitai di misura una guglia che saliva fino a dieci centimetri dalla superficie; giusto il tempo di rallegrarmi per lo scampato pericolo ed ecco che, pochi metri dopo, quasi speronavo una lama di pietra ancora più pericolosa. Sembrandomi impossibile che un simile trabocchetto non avesse mai fatto vittime, presi un monobombola e scesi a indagare lungo i due pinnacoli: e infatti il fondo, a circa quindici metri di profondità, era cosparso di cocci d’anfora, tutto ciò che rimaneva del relitto di un’oneraria romana abbondantemente saccheggiato dai subacquei. Simile a un tormentato paesaggio lunare, Lavezzi si presenta come un immenso agglomerato di graniti devastato da chissà quali sconvolgimenti tellurici. E’ un allucinante paesaggio dove la pietra, scolpita dal mare, dal vento e dalla pioggia, nonché da naturali e corrosivi processi chimici, assume le forme più stravaganti, in trionfale competizione con le più ardite sculture moderne, oppure evoca fantastici mostri antidiluviani. Il corpo principale dell’isola è attorniato da numerosi isolotti di una bellezza selvaggia e che tutti insieme formano un’incredibile sequenza di ridossi, calette e insenature che spesso terminano in deliziose spiaggette. E’ il regno degli uccelli marini, primi fra tutti i cormorani che stazionano in colonie numerose sulle ciclopiche rocce grigie. Qui nidificano una dozzina di specie come il gabbiano, la procellaria, il corvo imperiale, il merlo blu, il passero solitario e altri, mentre un centinaio di altre varietà di volatili vi risiedono saltuariamente, quando sostano durante le migrazioni fra l’Europa e l’Africa. Come anfibi troviamo la raganella arboricola e il disciglosso sardo. Tra i mammiferi sono presenti la donnola, il riccio, il coniglio selvatico e un grosso ratto nero, protetto pure lui, disperazione di chi pernotta in rada, dato che è abilissimo a servirsi delle cime o delle catene delle ancore per salire a bordo. Periodicamente, sull’isola vengono rilasciate in libertà delle vacche, degli asini e qualche vecchio caprone che si abbeverano alle due o tre sorgenti permanenti che esistono, nonostante le precipitazioni nel corso dell’anno non siano particolarmente abbondanti. La flora, pur non presentando che qualche alberello piuttosto rachitico, come fichi e ginepri, è tuttavia interessante perché composta da molte piante rare sia europee che africane e che a maggio e giugno sfoggiano una bellissima fioritura caratterizzata da colori delicati e profumi intensi. Vale davvero la pena di compiere un’escursione di qualche ora all’interno dell’isola, arrampicandosi magari in cima agli spettacolari agglomerati granitici, peraltro non facilissimi da scalare. Da lassù lo sguardo spazierà su un impressionante ma assai suggestivo caos roccioso. Lavezzi, la seconda per estensione (50 ettari), fa parte dell’omonimo arcipelago che comprende altre cinque isole principali: Cavallo, la più grande (112 ettari) e la sola ad essere abitata, Piana, vicino alla Qui sopra, barche ormeggiate a Cala della Chiesa. In alto a sinistra, cormorani su un caratteristico masso di granito e, a destra, un astice intento a fare la guardia alla propria tana. 103 Qui a sinistra e sotto, la spiaggia di Cala Lazzarina, la più grande dell’isola. A destra, il faro di Lavezzi, costruito dopo il naufragio della Semillante. 104 costa e dotata di uno stupendo bassofondo sabbioso con tutte le sfumature del blu, Ratino, Porraggia e Perduto. Insieme costituiscono una grande riserva marina di oltre 5000 ettari traboccanti di vita. Ciò è dovuto soprattutto ai severissimi controlli, come spesso ho sperimentato personalmente, anche se l’ingresso al parco è libero e la vigilanza molto discreta. Mi capita di frequente andarci in gita con degli amici: non appena ormeggiati, indosso la muta e sto delle ore in apnea a guardare i pesci, facendo quasi sempre degli incontri ravvicinatissimi con orate e spigole strepitose. E ogni volta, puntualmente vengo intercettato dal gommone o dall’elicottero del personale del parco. Non si scherza: se sorpresi a pescare con un fucile, oltre a una salatissima multa c’è anche il sequestro della barca. Anche le immersioni con gli autorespiratori offrono grandi emozioni, con nulla da invidiare alla ricchez- za delle acque tropicali. L’attrazione maggiore è data da una famosa secca profonda circa 30 metri, situata fra Lavezzi e Cavallo, dove è facile accarezzare grosse cernie che nuotano incuriosite in mezzo ai sub, che talvolta sono veramente troppi, benché l’invadente presenza non riesca minimamente a impaurire frotte di enormi ricciole e branchi di superbi dentici. Un paradiso della biodiversità Nella zona non è infrequente l’avvistamento di delfini e qualche volta addirittura di balene e capodogli. A maggio e giugno incrocia in queste acque anche lo squalo bianco (Carcharodon carcharias), che segue le migrazioni dei tonni da corsa che in quel periodo transitano nelle Bocche. Praticamente qui è presente tutta la fauna mediterranea altrove seriamente minacciata, come le tartarughe marine, e poi aragoste, cicale, granseole e astici spettacolari. In totale, sono quasi 200 le specie di pesci fin qui catalogate. Nel giugno di qualche anno fa mi è capitato di assistere al rito d’accoppiamento delle seppie che numerosissime si erano date convegno nell’acqua bassa delle calette. Strettamente allacciate con i loro tentacoli, erano così assorbite nel loro compito da non badare affatto a me che pure camminavo cauto in mezzo a loro: volendo, avrei potuto prenderle con le mani. Un tempo, sia Cavallo che Lavezzi ebbero insediamenti umani stanziali: i Romani vi giunsero nel secondo secolo dopo Cristo per sfruttare le cave di granito. In seguito, durante le invasioni barbariche, le isole furono popolate da cristiani. Dopo ancora, Saraceni e pirati le elessero a basi avanzate per le loro scorrerie. Infine furono rioccupate da pastori e agricoltori. Due splendide ragazze si rilassano nell’altrettanto splendida cornice di Cala della Chiesa. 105 A destra, una stampa della Semillante e, sotto, l’enorme roccia sulla quale avvenne il primo impatto. In basso a sinistra, il cimitero dell’Acciarino che, insieme a quello di Cala di Ghiuncu, raccoglie i resti dei militari deceduti nel naufragio e, a destra, la piramide eretta nel punto in cui venne ritrovato uno spezzone dell’albero maestro, a testimonianza della tremenda forza di quella tempesta. IL NAUFRAGIO DELLA “SEMILLANTE” Era circa mezzogiorno del 15 febbraio 1855. Il pastore AntoineMarie Limieri, che svernava nell’isola di Lavezzi con la figlioletta di sei anni, udì all’improvviso un rimbombo lungo e cupo, simile a un brontolio di tuono proveniente dalle viscere della Terra. Ma poiché era in corso una terribile tempesta, non uscì subito dal suo solido stazzo di granito per vedere cosa succedeva. Comunque, allarmato, un po’ più tardi, per assicurarsi che nulla fosse capitato alla sua imbarcazione tirata in secco, l’uomo si azzardò fuori e si diresse verso la spiaggia, quasi obbligato a strisciare per la violenza del vento. Ciò che vide lo lasciò paralizzato dall’orrore: il mare era letteralmente coperto di rottami informi e di cadaveri che i flutti mugghianti sminuzzavano, inghiottivano e poi vomitavano sulla scogliera. Non potendo fare nulla, il pastore tornò terrorizzato nella sua abitazione e soltanto l’indomani mattina, placatosi alquanto l’uragano, poté rendersi meglio conto dell’enorme disastro. Durante la giornata, Limieri avvistò alcune barche da pesca e le richiamò con un fuoco. I pescatori capirono subito quale tragedia fosse avvenuta e ripartirono per recare a Bonifacio la notizia del naufragio di uno o più bastimenti da guerra, come risultava da alcuni oggetti raccolti sulla rena: berretti di marinai, kepì di soldati e di artiglieri dell’esercito, sciabole e fucili. Si venne a sapere poi che si trattava della fregata di prima classe “Semillante” che, con un equipaggio di 290 uomini, era considerata una delle migliori unità della marina da guerra francese. Lunga 54 metri, larga 18, armata con 56 cannoni, la nave fu impostata nei cantieri di Lorient nel 1827, ma i lavori furono sospesi nel 1832 per mancanza di fondi, quindi ripresi nel 1840 e terminati l’anno dopo, sicché il varo avvenne il 6 febbraio 1841. Poi la “Semillante” languì in bacino una dozzina d’anni senza venire armata, cosa che avvenne definitivamente il 22 marzo 1854, in occasione della guerra di Crimea. La fregata salpò da Lorient per Brest il 10 aprile al comando del capitano di vascello Chiron du Brossay, quindi raggiunse Cherbourg da dove partì il 12 maggio per unirsi alla squadra impegnata nella campagna del Baltico. Tornata a Cherbourg il 22 settembre, ne ripartì il 27 per Brest. Infine, sotto il comando del capitano di fregata Le Mauff de Kerdudal, si trasferì a Tolone, da dove salpò per la Crimea il 14 novembre, appena completato il carico. Deceduto di colera a Costantinopoli Le Mauff, il suo secondo, tenente di vascello Bernard, riportò la nave a Tolone il 19 gennaio 1855: da qui doveva tornare una seconda volta in Crimea per portare al corpo di spedizione francese viveri e truppe. Segue nel Nautimondo a pagina 152 106 Il faro è stato costruito nel 1874, dopo che vi aveva fatto naufragio la fregata francese Semillante. Un terribile naufragio Partita da Tolone piena di truppe destinate alla guerra di Crimea, la nave, incappata in una terribile tempesta di libeccio, il 15 febbraio 1855 si sfracellò sulla Punta dell’Acciarino, nella parte nord occidentale dell’isola. Una stele commemorativa è stata eretta nel luogo esatto dove fu rinvenuto uno spezzone d’albero lungo 13 metri, mi- surante due metri di circonferenza e appesantito da 17 grossi cerchi di ferro. Il fatto che si trovasse a quasi venti metri d’altezza, ci può solo dare una pallida idea della tremenda forza delle onde. Quel giorno la schiuma del mare passava oltre l’imponente scogliera a strapiombo sulla quale è costruita Bonifacio e si riversava nel porto. Per chilometri, all’interno, la campagna biancheggiava ricoperta di sale e la vegetazione era stata quasi cancellata, con alberi secolari sradicati dal vento, mentre l’atmosfera non permetteva che pochi metri di visibilità. Ed è in queste spaventose condizioni climatiche che il veliero, probabilmente col timone in avaria, si accinse a traversare le Bocche, andando incontro al proprio destino. Dei 695 uomini imbarcati, fra militari ed equipaggio, non si salvò nessuno. Oggi due piccoli cimiteri contornati dalle rocce stanno a ricordare quello che fu il più grande disastro navale del XIX secolo nel Mediterraneo. A sinistra, uno scorcio della cala più settentrionale dI Lavezzi. Sotto, la spiaggia di Cala Lazzarina (o dell’Acciarino) vista da ovest. 107