Goldoni e la crisi morale della borghesia Goldoni e la
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Goldoni e la crisi morale della borghesia Goldoni e la
Goldoni e la crisi morale della borghesia 2/3/2013 Ancora un allestimento, firmato da Roberto Valerio, che fa luce sulle miserie dell’Italietta dei nostri giorni; dopo la denuncia della corruzione in Un marito ideale, il regista punta i riflettori sul --- dello show-business e sulla mercificazione del corpo femminile, aspetti che purtroppo relegano l’arte e la cultura in secondo piano. Il testo di partenza è L’impresario delle Smirne, commedia goldoniana che ha debuttato ieri sera in prima nazionale al Teatro Manzoni di Pistoia, nella nuova produzione dell’Associazione Teatrale Pistoiese in collaborazione con Valzer srl. La vicenda, ruota attorno alla speranza di una scrittura per una compagnia che dovrà esibirsi nelle Smirne, speranza alla quale un gruppo di attori in difficoltà economiche, e in acerrima lotta fra loro, si affida come l’ultima carta per risollevare la carriera e uscire dalla precarietà. Una promessa, quella di Alì, (che oggi si definirebbe un “magnate” d’Oriente), vanificata dai torbidi maneggi del Conte Lasca, ambiguo figuro con la passione per le donne, che proponendosi come intermediario, promette ora a Tognina, ora ad Annina, ora Lucrezia, il posto di primadonna. Saranno questi maneggi ad acuire la rivalità fra le attrici, e a scoraggiare l’impresario delle Smirne a costituire la compagnia; fugge di nascosto, e lasciando, come indennizzo, duemila zecchini da dividersi fra gli attori coinvolti. Ma il Conte Lasca propone di fare cassa comune, e formare un ensemble teatrale, superando i vecchi rancori. Sembra che l’opportunità tanto agognata possa finalmente arrivare, ma il dubbio resta: che sia l’ennesima promessa del Conte Lasca, pronto a fuggire con la cassa alla prima occasione, dopo aver goduto delle grazie delle tre attrici? E proprio la mercificazione del corpo femminile, nel mondo dello spettacolo come in altri ambiti, è l’abietto costume contro cui si leva la voce di Roberto Valerio, attento osservatore dell’Italia di oggi. In mezzo, anche l’originale causticità goldoniana su splendori e miserie del mondo del teatro, attualizzata però alla luce di una crisi economica che non risparmia nemmeno attori e registi. Ma la satira amara di Valerio si scaglia anche contro quella selva di promesse che negli ultimi anni hanno invasa (e ingannata) l'Italia, semplici slogan elettorali che hanno mirato soltanto a cristallizzare quello status quo favorevole a chi detiene denaro e potere. La pièce, un atto unico, è comunque divisa in due parti: nella prima, una serie di divertenti scenette presenta i vari personaggi, con leggerezza pittorica quasi si trattasse di vedute all’acquerello del Guardi. Sfilano così le tre grandi rivali Tognina (Valentina Sperlì), Annina (Federica Bern) e Lucrezia (Roberta Mattei), tutte ospiti della locanda di Beltrame (Peter Weyel) con i rispettivi accompagnatori: l’attore Pasqualino (Pierluigi Cicchetti), il poeta Maccario (Massimo Grigò), e il comico Carluccio (Antonio Iuorio). Il pubblico assiste alle difficoltà degli attori senza scrittura, fra conti da saldare false speranze, e alle rivalità di Annina e Tognina che si contendono Pasqualino. Su tutti, troneggia il Conte Lasca (Roberto Valerio), che concupisce anche la nuova arrivata Lucrezia, offrendo anche a lei la parte di primadonna nella compagnia del misterioso turco; offerta già fatta anche alle altre due attrici, al solo scopo di cattivarsene le grazie. Con impassibilità, il Conte propone di scritturare tutte e tutti, e il consenso è inevitabile, vista la precarietà delle loro carriere. Nella seconda parte, entra in scena l’impresario Alì, interpretato da Nicola Rignanese. Interessante per i rimandi all’attualità del personaggio - con doppiopetto bianco e monile posticcio al collo -, si presenta come un ricco magnate che volteggia su un’altalena, ben poco interessato al valore dell’arte, ma solo a portare qualche femmina nel suo teatro/harem. In questa seconda parte, si riversa sulla scena una lascività pasoliniana molto accentuata, che può forse disturbare il pubblico più sensibile (non è mancato qualche mormorio alla chiusura del sipario), ma che è comunque metaforicamente reale. Le tre donne, vincendo l’amor proprio, si offrono all’impresario e si assiste a scene, scomode, difficili, ma attuali, di “vendita” del proprio corpo. Le ambigue smanie del potere scatenano però fratricide guerre fra poveri, ovvero fra coloro che accettano di “prostituirsi” al potere perché privi di alternative per sbarcare il lunario, e sono disposti a qualsiasi mossa pur di tagliar fuori possibili rivali, in questa corsa a svilire sé stessi. La femminilità avvilita, torna a farsi sentire nelle illazioni che le tre attrici fanno circolare l’una sul conto dell’altra, e che alla fine scoraggeranno l’impresario che se ne torna nelle Smirne. Le Smirne: vagheggiato Eldorado, luce in fondo al tunnel - di una crisi economica, ma anche sociale -, che però sembra ancora lontana. E infatti, per adesso è svanita. Una pièce giocata su un’interpretazione corale, dove, teatro nel teatro, è all’opera quella compagnia che si dovrà formare, e che fra sprazzi di commedia dell’arte, pota sul palco quella crisi borghese, o meglio della classe media, sempre meno nuemrosa nell’Italia di oggi. Sugli scudi, Roberto Valerio, affabulatore e vero protagonista della pièce, che si muove sul palco con il passo silenzioso delle eminenze grigie, cui aggiunge una voce dal tono cospiratorio, affaristico, piena di sottintesi. Squattrinato tombeur de femmes, è emblematica la scena in cui, con Lucrezia nuda fra le braccia, muove sul suo corpo il suo bastone da passeggio, come se il primo fosse un violino e il secondo un archetto; ne nasce un’ironia amara, ma vera. Roberta Mattei, Federica Bern e Valentina Sperlì, offrono al pubblico un’interpretazione che estremizza la femminilità alle sole grazie del corpo, costrette a lasciare da parte (sulla scena) il proprio talento, però non senza amarezza; è infatti sempre presente una rabbia esistenziale dovuta alle difficoltà nel trovare una scrittura, nell’affermare il valore di un’arte in cui si crede. La medesima frustrazione di una parte dell’Italia di oggi, strangolata da una politica qualunquista e sessista. Gradevole, ma non ancora del tutto matura a livello drammaturgico, l’interpretazione di Pierluigi Cicchetti, mentre Antonio Iuorio si cala nei panni del comico da commedia dell’arte, e regala una recitazione dove emergono qua e là “fioriture e ghirigori” di gusto barocco. Un omaggio alla sua napoletanità. Da notare come Valerio abbia tolto qualsiasi riferimento al Settecento veneziano, sia per i costumi, sia per l’ambientazione, sia per l’accento degli attori. Siamo in una città italiana contemporanea, si parlano vari dialetti (dal toscano al napoletano), e si è perso, effetto della crisi, il fasto della repubblica dei Dogi; al suo posto, rabbia e precarietà. Con la Trilogia della villeggiatura, Massimo Castri aveva riletto Goldoni in chiave esistenzialista, e Roberto Valerio, da parte sua, continua questo percorso attualizzando L’impresario delle Smirne sul degrado morale dell’Italia contemporanea. Uno spettacolo crudamente attuale, che conferma il teatro come uno fra i pochi spazi di critica sociale, e che alla chiusura del sipario ha riscosso calorosi e meritati applausi. Niccolò Lucarelli http://www.pratoreporter.it/giornale/cultura/goldoni-e-la-crisi-morale-della-borghesia