SFIDA AL CANYON INFERNALE i racconti
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SFIDA AL CANYON INFERNALE i racconti
Mellonta Tauta 2 Robert E. Howard Sfida al canyon infernale i racconti western del creatore di Conan il barbaro traduzioni di Roberto Chiavini introduzione di L. Ortino, W. Catalano, G.F. Pizzo, R. Chiavini FRATINI editore Collana Mellonta Tauta a cura di Walter Catalano, Roberto Chiavini, Luca Ortino, Gian Filippo Pizzo In copertina Immagine elaborata da Double Action Western del giugno 1937 © FRATINI editore, Firenze www.fratinieditore.it Prima edizione 2014 Riproduzione Vietata ISBN 978-88-6794-017-2 INTRODUZIONE Lama, pallottola o cappio: Il western nella narrativa, nel cinema e nell’opera di R. E. Howard O scurità e frescura dentro l’abitazione, fuori il calore stridente del terreno e la luce abbagliante della prateria che irrompe selvaggia negli occhi di chi, correndo, si affretta fuori per vedere chi stia arrivando, anche se fuori lo attende una freccia o un colpo di pistola che ruberà la sua vita o solamente un cavaliere latore di notizie riguardanti lutti, matrimoni o eredità inattese… questo è il West dei nostri ricordi, della nostra giovinezza, un paese dell’anima probabilmente mai esistito (almeno in questi termini) ma che, complice la forte visionarietà del cinema a questo genere dedicato, si riaffaccia alla nostra memoria, con i suoi forti colori e contrasti, anche nell’incavo delle nostre palpebre chiuse nell’atto di ricordare… Sì, ricordiamo, noi ricordiamo il cappio stretto al collo del fratello prima di crollare esanime nella polvere gialla ancora con l’armonica in bocca, l’ultimo colpo del bounty killer, la fiammata purpurea della sua pistola, la pagaia che scosta l’acqua azzurra, riflesso del cielo dalle nuvole altissime mentre si traversa il Big River… ma prima di tutto questo, facciamo un piccolo passo indietro, torniamo agli anni Trenta del secolo scorso, a un cinema in bianco e nero e a una letteratura pulp che invece già immaginava a colori, che precorreva gli sviluppi successivi della cinematografia che ha reso il genere così popolare da tramandarlo fino a noi. Fra gli scrittori che più si distinsero in quel periodo quasi eroico Robert E. Howard 7 costituisce un esempio di forza e di vigore narrativo tale da impiantarsi come un chiodo nel cervello, i suoi racconti restano dei monumenti a quell’epos immaginativo che la frontiera americana tramanda di sé unitamente alle suggestive immagini pittoriche quali possiamo trovare nei dipinti di Frederic Remington, di Alfred Miller e altri artisti coevi al periodo storico narrato dal nostro. La frontiera continua a restare un punto di riferimento letterario con i valori etici che caratterizzano gli eroi dei racconti di Howard anche successivamente, negli splendidi racconti western di Elmore Leonard, le cui opere hanno ispirato a loro volta molti dei film ormai classici del genere prima che anche questo scrittore – sulla scia della disillusione che i successivi sviluppi del cinema e della letteratura western hanno portato disvelando la retorica dell’eroismo dei bianchi e la falsità delle premesse morali che stavano dietro alla libertà professata ma non applicata dai protagonisti di quell’era – cambiasse genere trasferendo le proprie meditazioni su personaggi perdenti nella vita, i quali l’etica l’hanno lasciata del tutto alle loro spalle. È triste quindi considerare che la raggiunta maturità dell’epica letteraria e cinematografica della frontiera americana abbia portato via dal genere tanto pubblico, ma anche tanti autori che hanno trovato più profitto in altri settori, non permettendo al genere western di arricchirsi di ulteriori contributi che ne aumentassero il livello qualitativo sviluppandone i collegamenti con la letteratura mainstream. In questo senso l’unico contributo considerevole degli ultimi anni è stato apportato da Cormac Mac Carthy che, soprattutto nella Trilogia della Frontiera, descrive un west moderno ambientato a circa metà del secolo scorso, ma in cui si ripetono alcuni stilemi del western classico, chiaramente senza più l’entusiasmo a 8 volte quasi infantile della narrativa pulp. Quasi un epitaffio del genere. Se molti abbandonano la narrativa di frontiera altri paradossalmente gli si avvicinano, molti scrittori della letteratura di immaginazione e di science fiction trovano la loro frontiera altrove, nello spazio, sugli ultimi pianeti oggetto di esplorazione e colonizzazione. Molta della matura space opera dagli anni cinquanta in poi per mano di autori quali Poul Anderson, Gordon Dickson, Harry Harrison e altri segue questa via trovando al tempo stesso un rinnovato entusiasmo per i nuovi territori da esplorare, seguito poi dalla consueta disillusione sulla modalità attraverso la quale la specie umana si rapporta con l’altro, prima pellerossa, poi alieno. Avendo tutto questo presente, sembra davvero strano che in Italia non si leggano western, almeno non così tanto come altri generi. Proprio in Italia che, dal punto di vista cinematografico, è stato un paese così creativo e interessato al mito della frontiera da riuscire a ricreare quel genere straniero “in vitro” e fuori dagli scenari originali inventando lo Spaghetti Western e a rendere un insolito ibrido – “No stories, no scenes, just killings”, commentò sprezzante in proposito Burt Kennedy a John Ford – talmente convincente da dominare la scena, almeno per un certo periodo, influenzando profondamente perfino i padri americani (fino allo splendido omaggio al western all’italiana di Quentin Tarantino con il suo Django Unchained). Proprio l’Italia che fra i suoi autori d’appendice – Emilio Salgari in primis con Avventure fra i pellirosse, ad esempio – enumera vari modelli e antesignani di questo particolare genere avventuroso per noi esotico e che, nel campo del fumetto, ha dato vita al più 9 longevo cow-boy disegnato: Tex Willer. Eppure l’Italia non ha mai amato o coltivato la lettura dei classici americani di questo genere che, a parte sporadici esempi, restano ignoti o misconosciuti ai più. La narrativa western nasce in tempi piuttosto remoti: i primi esempi sono anteriori al 1850 e praticamente contemporanei all’epopea western stessa. James Fenimore Cooper è forse il primo e più illustre narratore della Frontiera – molto noto da noi è il classico L’ultimo dei Moicani, ma altri ne sono stati pubblicati tra i quali La prateria – si tratta di una frontiera che ovviamente, dati i tempi (siamo intorno agli anni Venti dell’800), è posta molto meno a ovest di quanto saremo abituati in seguito. Poco più tardi, intorno alla metà del secolo, iniziano a comparire storie ambientate nel West sui “penny dreadfuls” riviste britanniche da un penny dedicate alla narrativa seriale e sensazionalistica (su queste pagine popolari nascerà il primo vampiro della storia, Varney, l’antenato di Carmilla, Dracula e compagni); dai “penny dreadfuls” si origineranno poco più tardi negli USA i “dime novels”, il prototipo dei successivi pulp del ‘900: e proprio un western, Malaeska; the Indian Wife of the White Hunter, è considerato il primo dime novel mai pubblicato (nel giugno del 1860). Gran parte di questi romanzetti – entrati a loro volta fra gli accessori dell’epopea soprattutto cinematografica del Western – hanno per protagonisti personaggi reali come Buffalo Bill, Wild Bill Hickok, Jesse James, Wyatt Earp, Billy the Kid, ecc., le cui spesso tutt’altro che memorabili imprese vengono amplificate ed eroificate, se non del tutto inventate. Anche fuori degli USA: prima e con più successo del nostro Salgari, il tedesco Karl May diffonde, con ampia risonanza di pubblico se non di critica, il mito del West in Europa intorno agli anni Ottanta del secolo. 10 Nel Novecento il pulp sancisce ormai la definitiva autonomia del genere che passa da ingrediente generico della narrativa avventurosa a titolo specifico: accanto alla fantascienza, all’horror, al fantasy, al poliziesco, al romantico, anche il Western si apre la strada delle edicole a suon di revolverate, pugni e cavalcate selvagge con testate come “Western Story Magazine”, “Star Western”, “West”, “Cowboy Stories”, “Ranch Romances”, e molti altri. Non mancano in quegli anni grandi scrittori che – in parte a causa del loro vissuto personale – partecipano collateralmente al mito e all’epopea del west: Mark Twain in modo abbastanza episodico e distratto; Ambrose Bierce invece con grande pregnanza: i suoi racconti sulla Guerra civile americana (per noi Guerra di Secessione), ispirano Stephen Crane e Ernest Hemingway, le sue storie sovrannaturali di frontiera generano un sottogenere: il weird-western (esempi di commistione fra horror e western che possiamo ritrovare fino ai nostri giorni nel ciclo de “La Torre Nera” di Stephen King, nel bel fumetto nostrano di “Magico Vento” sceneggiato dal bravo Gianfranco Manfredi e in molti film contemporanei, non ultimi quelli di Robert Rodriguez). In questi anni, compresi fra il 1900 e il 1940, escono gli autori e le opere più conosciute: Owen Wister con The Virginian: A Horseman of the Plains (1902); Zane Grey con Riders of the Purple Sage (1912); Max Brand, uno degli autori più prolifici dell’epoca, creatore del cow-boy Destry che (come il suo personaggio più famoso, non western però, il Dottor Kildare) ebbe gli onori anche di numerose trasposizioni cinematografiche; Ernst Haycox la cui storia Stage to Lordsburg (1937) – un vero e proprio plagio di Boule de Suif di Maupassant – servì da base per il celeberrimo film Ombre Rosse (Stagecoach) di John Ford (1939). E proprio la fortu11 na cinematografica del genere, da Tom Mix in poi, fece da cassa di risonanza per le opere narrative spingendo scrittori pulp già noti in altri settori della letteratura a cimentarsi anche col western: Robert W. Chambers (noto soprattutto per le sue storie horror e romantiche); L. Ron Hubbard (noto soprattutto per le sue storie di fantascienza e per essere stato il creatore di Scientology); Leigh Brackett (più nota per le sue storie di fantascienza e fantasy) e ovviamente Robert E. Howard. Negli anni seguenti il genere continuò a interessare sia sulla pagina che sugli schermi cinematografici e, dagli anni Sessanta, anche televisivi: autori come Walter van Tilburg Clark, Luke Short, Ray Hogan e soprattutto Louis L’Amour imperversarono, e serie TV come “Rawhide” e “Bonanza” portarono al successo futuri divi come Clint Eastwood. Anche i fumetti contribuirono all’espansione del fenomeno western: tutte le principali case editrici specialistiche come DC Comics, Marvel Comics, Fawcett Comics, ecc. ebbero il loro cow-boy di scorta e personaggi come Red Ryder o Lone Ranger raggiunsero fama internazionale (portando da noi a geniali imitazioni come Tex Willer, Kinowa, Capitan Miki, Zagor, ecc. ecc.). In questo periodo anche l’Italia può vantare una certa produzione libraria, grazie a Mino Milani che nell’intero decennio dedicherà ben sette romanzi al suo personaggio Tommy River (un ottavo volume uscirà nel 1976), e a Mariangela Cerrino che sotto lo pseudonimo di May I. Cherry scrive una nutrita serie di western – ben 17 – dal 1966 al 1973 (e che allo stesso modo degli autori americani citati passerà poi alla fantascienza, al fantasy e al romanzo storico, pur dando alle stampe altri western ancora negli anni Ottanta). 12 Oggi il genere western sembra meno sulla breccia di un tempo sia al cinema che sulla pagina scritta, ma l’immaginario western è ormai parte indelebile delle nostre fantasie avventurose. La qualità letteraria delle opere contemporanee inoltre (purtroppo raramente tradotte nella nostra lingua) non ha ormai più niente da invidiare ai romanzi mainstream; ricorderemo, fra tutte, quelle di due grandi autori recentemente scomparsi: Elmore Leonard, che ha basato quasi tutta la sua carriera giovanile sul western passando in anni più maturi al noir, e Richard Matheson, che ha fatto il percorso contrario, iniziando con noir, horror e fantascienza, e scrivendo in età ormai avanzata romanzi western altamente sofisticati e significativi, come Journal of the Gun Years o The Memoirs of Wild Bill Hickok. Si è già detto che gli anni più fecondi per il western sono stati i primi quaranta del secolo scorso, ma l’apice fu raggiunto nei Trenta: sono gli anni della Grande Depressione, del Proibizionismo e dei gangster; anni in cui le riviste (e anche il cinematografo) costavano pochissimo e permettevano dunque un’evasione dalla dura realtà, un sogno a occhi aperti economicamente possibile anche per le fasce più misere della popolazione, soprattutto quelle della provincia americana. Ma il western (così come la fantascienza, che in un Paese privo di Storia rappresentava l’estensione del sogno americano e del mito della frontiera verso lo spazio) ha anche un’altra funzione: quella di cementare l’unità del popolo nei confronti di un nemico – i Pellerossa – già sconfitto, di esaltare lo spirito nazionale che aveva raggiunto nuovi traguardi con la corsa verso l’Ovest, di esorcizzare il periodo di recessione economica mostrando cosa gli 13 Americani erano riusciti a fare e come sarebbero riusciti a riprendersi. È in questi anni che opera Robert Howard. Figlio di un medico, nato il 22 gennaio 1906 in un paese del Texas, Peaster, trascorrerà quasi tutta la vita in un paesino periferico, Cross Plains. Introverso e schivo, gracile di costituzione e vittima di bullismo da parte dei compagni di scuola, si rifugia nella lettura dei classici avventurosi, ma al contempo si applica nello sport tanto che in età adulta avrà un fisico ben sviluppato e possente. Dal punto di vista caratteriale resterà però sempre timido e chiuso in sé, tanto che gli si conosce una sola avventura sentimentale (romanzata nel film di Dan Ireland Il mondo intero del 1996). Molto legato alla madre, si suiciderà sparandosi un colpo di rivoltella in auto l’11 giugno 1936, dopo aver saputo della morte di lei: per ironia della sorte la madre, che era tubercolotica, si sarebbe invece risvegliata dal coma (morendo però il giorno dopo). Come lo scrittore che abbiamo presentato nel precedente volume di questa collana, Volo su Titano, Stanley G. Weinbaum, anche Howard fu attivo per pochi anni, ma ci ha lasciato una miriade di scritti appartenenti a praticamente tutti i generi della narrativa popolare. Il suo esordio avvenne nel 1925 su “Weird Tales” ma è solo nel 1928, dopo aver lasciato l’università e fatto mestieri diversi, che inizia a pubblicare con regolarità. In particolare proprio su questa rivista di cui diviene una colonna portante assieme a Clark Ashton Smith e Howard Phillips Lovecraft (i Tre Moschettieri di “Weird Tales”) pubblica storie fantastiche creando personaggi come lo spadaccino puritano seicentesco Solomon Kane (forse il suo più riuscito, e quello a cui era più legato), il re di Atlantide Kull di Valusia, i guerrieri 14 celti Turlogh O’Brien e Bran Mak Morn, e racconti horror, inserendosi poi anche nel ciclo dei “Miti di Chtulhu” inventato da Lovecraft. E sopratutto quel Conan il Barbaro oggi conosciutissimo grazie anche al fumetto e al cinema (Conan il barbaro di John Milius del 1982 e vari seguiti, spin-off e remake) dopo la sua riscoperta negli anni Sessanta a opera di Lyon Sprague deCamp, che risistemò organicamente l’intero ciclo aggiungendovi di suo storie di raccordo tra una vicenda e l’altra fino a riempire undici volumi. Con questi scritti il Nostro può essere considerato il creatore di quel genere che oggi chiamiamo fantasy, o almeno di quella parte del fantasy più avventurosa e sanguigna che si può definire heroic fantasy per distinguerla dalle opere più sofisticate di J. R. R. Tolkien e altri scrittori più “letterari”. E, a ben guardare, tutti questi personaggi non sono che sfaccettature di un unico personaggio: l’eroe, l’impavido guerriero, a volte generoso e a volte crudele, sempre in lotta contro situazioni apparentemente insormontabili ma sempre vincitore. Che sia armato di spada o di ascia, di rivoltella o di guantoni da boxe, che agisca nelle perdute Atlantide o Cimmeria, nelle Isole Britanniche o nel Nuovo Messico, che sia attivo nella preistoria, nel secolo XVII o durante l’epopea del West, è sempre l’Eroe. Howard scrive di tutto, su molte riviste: racconti sportivi, in particolare di pugilato, racconti storici, polizieschi, horror, commedie brillanti, storie piccanti, avventure in genere e, ovviamente, western. Infatti, nella sua breve ma intensa carriera Robert Erwin Howard ha lasciato traccia di sé e della sua straordinaria capacità affabulatoria in quasi tutti i generi della narrativa pulp (escluso, almeno scientemente, perché in effetti qual15 che racconto classificato come tale esiste, quello poliziesco – “riesco a malapena a leggerlo, non potrei mai scriverlo”, si può leggere in una sua lettera) e, data la sua origine e l’ambiente dove era cresciuto, resta facilmente comprensibile come il western potesse (e dovesse) essere il suo terreno di pascolo più praticato. Il fatto che non sia stato così almeno in vita (Howard ha comunque scritto più di una cinquantina di western propriamente detti, più un manipolo di weird-western, meno di un terzo dei quali effettivamente pubblicati durante la sua esistenza), è dovuto a tutta una serie di fattori che lo distrassero da quella che era in effetti la sua vocazione. Una volta arrivato a trovare un mercato per le sue storie western (in particolare quelle “umoristiche” di Breckinridge Elkins, che trovarono casa sulle pagine di un pulp non propriamente western – anche se aperto al genere – come “Action Stories”), come ebbe a scrivere in una lettera a August Derleth del novembre del 1935 (e a riconfermare in una lettera del maggio del 1936 all’amico H. P. Lovecraft, poche settimane prima della sua morte), “Sto seriamente valutando l’idea di concentrare ogni mio sforzo sulla narrativa western, abbandonando ogni altro genere narrativo…. vi è stato scritto tanto, ma c’è ancora così tanto da scrivere”. E che queste sue parole fossero sostanzialmente vere, lo prova più che adeguatamente questa nostra raccolta di racconti, che segue, con una scelta al solito inconsueta, il cammino del giovane scrittore texano dai suoi esordi (Tamburi al tramonto, che resta il suo primo racconto western a essere pubblicato – a puntate sul quotidiano della sua città – e uno dei pochissimi aventi a protagonista dei pellerossa) fino a quello che lui stesso riteneva “uno dei migliori racconti che abbia mai scritto”, Gli avvoltoi di Whapeton, liberamente 16 modellato sulla vera storia di Hendry Brown, inizialmente legato a Billy the Kid, poi addirittura sceriffo di Caldwell, un piccolo paese del Kansas, dove il rappresentante della legge provò perfino a rapinare una banca, con esito fatale. Scritto con due diversi finali (curiosamente pubblicati entrambi dal loro primo editore, “Smashing Novels”, dopo che la storia per anni era stata rifiutata da tutte le principali testate western del periodo, perché troppo anomalo), il racconto è indubbiamente uno splendido noir western, che per certi versi ricorda Le iene di Tarantino, pieno di sequenze a un tempo tipiche e innovative, che nel corso degli anni arriveranno ad affiancare quelle più tradizionali della mistica western. E proprio questa mistica, che si era già sostanzialmente formata negli anni in cui Howard si avvicina alla scrittura, è alla base di parecchi degli altri racconti presenti in questa antologia, storie dove il protagonista è spesso ai margini della legalità, quasi sempre per colpe non sue, dove i personaggi femminili sono ritratti da cartolina, visti decine e decine di volte nei classici western cinematografici degli anni successivi, immancabilmente devote ai loro uomini, che le ricambiano di un rispetto cavalleresco, che comunque non le innalza a rango di co-protagoniste dotate di propria indipendenza d’azione e d’iniziativa. Nell’etica cavalleresca di stampo sudista, che vigeva ancora nel Texas dei tempi di Howard (bisogna considerare come ancora nella sua fanciullezza lo scrittore respirava a pieni polmoni gli ultimi aneliti di un West che nel profondo sud dello stato della Stella Solitaria, lungo i confini con il Messico, tardava a scomparire – il suo Sfida al Canyon dell’Inferno è un vero e proprio western, ambientato a cavallo fra i due paesi nel periodo di poco successivo alla morte del rivoluzionario messicano Pancho Villa, avvenuta nel 1923 e 17 quindi contemporanea al Nostro), la donna viene innalzata su un piedistallo, da dove però viene osservata e ammirata dall’uomo secondo una prospettiva esclusivamente museale, indubitabilmente sessista, che Howard scalfirà in alcune fra le sue più famose figure femminili (come Belit nel ciclo di Conan, per esempio), senza però mai arrivare a capovolgerla. Per la morale cavalleresca texana, che ognuno dei protagonisti positivi dei western di Howard abbraccia in toto, la donna deve essere amata, protetta e rispettata; mai colpita, mai ferita, mai offesa. Ed è questa la figura femminile che, se presente, emerge in ognuno dei racconti di questa antologia, che traccia una panoramica completa del modo di fare western di Robert Howard, e si segnala quindi come punto di partenza per un’analisi più particolareggiata di una branca del suo vasto repertorio narrativo, troppo a lungo trascurata in un paese, il nostro, che più di ogni altro si è prodigato per perpetuare un genere da lungo tempo destinato all’estinzione, ma ancora capace di ripetuti canti del cigno da Oscar. E se il western di oggi è un’altra cosa, se gli Indiani non sono più considerati e visti come i “cattivi”, se le miti fanciulle di una volta assurgono al ruolo di eroine, se persino i rudi cow-boy possono esser gay, allora rituffiamoci nelle atmosfere di uno scrittore che, pur essendo figlio di un ebreo e di una scozzese, era nell’animo profondamente texano, atmosfere genuinamente, romanticamente e classicamente western. L. Ortino, W. Catalano, G. F. Pizzo, R. Chiavini 18 Tamburi al tramonto 1. Il vagabondo “Accorrete adesso tutti voi cowboy ad ascoltare la mia storia, che narra le vicende della Pista Chisholm!” S teve Harmer cavalcava alla texana, in modo lento e rilassato, con un ginocchio piegato attorno al collo della sella e la tesa del cappello calata sugli occhi per dare ombra al viso. Il corpo snello si muoveva al ritmo rilassato del passo del cavallo. Il sentiero saliva gradatamente, facendosi via via più ripido. Lo stretto percorso era fiancheggiato da cedri, alternati occasionalmente a noci e ginepri, che tutti quanti lasciavano il posto a degli abeti. Se si fosse voltato, Steve avrebbe visto l’intera pianura da poco lasciata, con pochi alberi a spuntare da un’erba molto alta. Sopra di lui si addensavano i fianchi boscosi delle montagne, in un’alternanza di picchi e vette separati da scoscesi pendii, che sembravano issate dal suolo da dita di gigante. All’improvviso, uno scalpiccio di zoccoli lo raggiunse da dietro e Steve si fece da parte per consentire ai cavalieri di superarlo; questi però si arrestarono accanto a lui. L’uomo drizzò la tesa del cappello. 19 Erano un uomo e una giovane donna che non conosceva. A Steve quest’ultima parve stranamente fuori posto in quell’ambiente primitivo. Cavalcava in modo insolito e il suo aspetto non era certo tipico del West. Indossava l’abbigliamento classico dell’Est, ma presto il cowboy lasciò perdere i vestiti e si concentrò sul suo viso. Un ricciolo ribelle, splendente come l’oro sotto i raggi del sole, le cadeva sulla fronte candida e da dietro di esso due occhi morbidi e grigi ricambiarono il suo sguardo. Le sue labbra piene erano appena discoste… “Ehi, tu?”. La voce aspra scosse Steve dal suo sogno a occhi aperti. Il compagno della fanciulla era invece il West fatto persona. Era un uomo di mezz’età, robusto, dalla folta barba e gli abiti rozzi. I lineamenti erano scuri e sbozzati, e il texano notò subito la grossa pistola che posava lungo la coscia. L’uomo parlò con modi duri e spicci. “Chi sei e dove pensi di andare?” Steve si irrigidì al tono di quella richiesta. Spostò gli occhi sulla ragazza, che sembrava piuttosto pallida e spaventata. “Mi chiamo Harmer” rispose secco. “Sto semplicemente passando di qui”. “Ah, sì?” Le labbra barbute si scostarono in un ghigno lupesco. “Immagino, straniero, che ti sia perso… avresti dovuto prendere il sentiero precedente in direzione sud”. “Non ti ho detto dove sto andando” rispose Steve, ora infastidito. “Forse ho i miei motivi per dirigermi da questa parte”. “È quel che pensavo” rispose l’uomo barbuto e il texano notò il tono minaccioso della voce. “Ma potresti comunque avere un buon motivo per prendere l’altro sentiero. Chi abi20 ta su queste colline non ama gli ospiti… fa’ attenzione, ragazzo, a non infilarti dentro a situazioni che non conosci”. E mentre Steve lo fissava a bocca aperta, attonito, l’uomo lanciò un ordine brusco alla giovane donna e tutti e due partirono a tutta velocità lungo il sentiero, con i cavalli spronati con frustino e speroni. Il texano li guardò allontanarsi pieno di stupore. “Diamine, non si curano certo di come trattano i loro cavalli in salita… cosa diavolo voleva dire tutta quella ramanzina? Forse dovrei veramente tornare indietro e prendere l’altro sentiero e… diamine, se era bella quella ragazza!” I cavalieri sparirono lungo il pendio boscoso e dopo aver rimuginato per qualche minuto, Steve mosse il suo cavallo con un piccolo movimento del ginocchio e riprese il cammino. “Vado a ovest per guidare del bestiame texano, con un cavallo da dieci dollari e una sella da quaranta”. Un suono secco interruppe la melodia e un lampo di fuoco emerse come una freccia dagli alberi più avanti lungo il pendio. Il cappello di Steve volò via, il cavallo sbuffò e si tirò indietro, mandando quasi per terra il suo cavaliere. Steve ruotò il mustang e scese dal lato coperto. Con la pistola in pugno scrutò con cautela da sopra la sella nella direzione dello sparo. Il lato della montagna coperto dagli alberi era immerso nel silenzio e nessun movimento fra i rami tradiva la presenza di un nemico nascosto. Alla fine, con enorme cautela, Steve si spostò da dietro la protezione offertagli dal cavallo: non accadde nulla; così rinfoderò l’arma, fece qualche passo e recuperò il cappello, 21 imprecando non appena vide il foro di proiettile che spiccava sulla parte alta. “Che quel buzzurro baffuto si sia fermato da qualche parte e si sia rimpiattato per spararmi?” si chiese. “Oppure lo abbia detto a qualcuno…o forse questo qualcuno non ha avuto bisogno di consigli? E a che scopo? Cosa c’è su queste colline che non vogliono far vedere? E questo cecchino intendeva uccidermi o solo avvertirmi?” Scosse la testa e scrollò le spalle. “Sia quel sia” meditò risalendo in sella, “immagino che il sentiero a sud sia quello migliore, in fin dei conti”. * * * Il sentiero meridionale, come scoprì subito, scendeva invece di salire, costeggiando le radici delle montagne. Notò parecchie mandrie di pecore e, proprio mentre il sole tramontava, giunse nei pressi di una piccola casetta costruita vicino a un ruscelletto di acqua limpida. “Hi yah! Scendi e accomodati!” lo salutò l’uomo che comparve sulla soglia. Era un vecchietto piccolo e rugoso, notevolmente calvo e apparentemente contentissimo della potenziale conversazione che l’arrivo di Steve prometteva. Ma il giovane lo guardò sospettoso prima di scendere. “Mi chiamo Steve Harmer” disse brusco. “Vengo dal Texas e sono solo di passaggio. Se preferisci che me ne vada subito, dillo e non ci sarà bisogno di farmelo capire a fu cilate”. Il vecchietto scoppiò a ridere. “Figliolo, posso leggere il tuo marchio! Ti sei imbattuto nei miei vicini delle Sunset!” 22 “Un gringo dall’aspetto tosto e una bella ragazza” ammise Steve. “E qualcuno che non si è presentato, ma ha rovinato il mio miglior cappello”. “Vieni!” lo invitò caldamente il vecchio. “Scendi e lega il tuo cavallo. Non è granché come albergo, ma forse potrai accontentarti della sistemazione. Mi chiamo Sfigato Harper e la mia vita segue questo nomignolo. Non è che per caso hai del liquore in quelle bisacce?” “No” rispose il giovane smontando. “È quel che temevo” sospirò il vecchio. “Devo proprio essere “sfigato” fino in fondo… dai, entra… sento l’odore della carne di cervo che si brucia”. Dopo una cena a base di carne di cervo, pane raffermo e caffè, i due si misero a sedere sulla veranda e osservarono il luccichio delle stelle, mentre conversavano. Il suono del cavallo di Steve impegnato a brucare l’erba lussureggiante giunse alle loro orecchie, mentre la brezza notturna portava l’olezzo speziato della foresta. “Questo paese sicuramente è molto diverso dal Texas” commentò Steve. “Mi piacciono molto queste montagne, però. Avevo pensato di trascorrervi la notte accampato, ed era per questo che avevo preso il sentiero occidentale. Arriva a Rifle Pass, vero?” “No” replicò il vecchio. “Rifle Pass è più a sud di qui ed è questo il percorso verso quella piccola cittadina in espansione. Il sentiero che stavi seguendo si inerpica fra quelle colline, ma nessuno sa dove vada realmente”. “E come mai?” “Ci sono due ragioni: prima di tutto, non c’è nessun motivo per un uomo sano di mente di arrampicarsi fin lassù. E immagino tu abbia capito da solo la seconda”. 23 “E che diritto ha questo tizio di impedire alla gente di andare su quelle montagne?” “Credo che si definisca un calibro .30-30” ridacchiò il vecchietto. “Il tizio che hai incontrato si chiama Gila Murken, che dichiara di essere il padrone di quelle montagne, e la ragazza era sua nipote, che mi sembra venga da New York. Non so quali siano le vere intenzioni di Gila. Lo conosco grosso modo da una ventina d’anni, e non mi ha mai fatto una buona impressione. Ora come ora, sono il suo vicino più prossimo, ma non ho la più pallida idea di dove sia il suo rifugio; è da qualche parte, lassù, fra le montagne”. Indicò la massa incombente e gigantesca delle Sunset, nere sotto la luce del cielo stellato. “Gila ha con sé un paio di altri tizi e ora questa ragazza. Nessun altro si avventura mai lungo quel sentiero. Gli altri due sono arrivati circa un anno fa”. Steve parve riflettere. “E quali credi che siano i motivi per scoraggiare così i forestieri?” Il vecchio alzò le spalle e scosse il capo. “Figliolo, me lo sono domandato spesso anch’io. Lui e i suoi compari stanno su quelle montagne e regolarmente, una volta la settimana, uno di loro scende fino a Rifle Pass o perfino fino a Stirrup, a est. Non entrano mai in contatto con me o con qualcun altro. Me lo sono chiesto, ma… diamine, non hanno possibilità!” “Possibilità di cosa?” “Steve” disse Sfigato, mentre indicava con la mano ossuta la nera vastità delle colline, “da qualche parte, in mezzo ai quei canyon, a quelle gole e a quelle scogliere, c’è una fortuna! E qualche volta mi chiedo se Gila Murken non l’abbia trovata. 24 Quarant’anni fa io e Bill Hansen siamo giunti in questa zona… i primi bianchi a farlo, per quanto ne so. Ero poco più di un ragazzo allora ed eravamo a caccia di bufali, ma molto distanti dalle piste più consuete. Salimmo quelle colline, le Montagne del Tramonto, come le chiamano gli indiani, e dopo un po’ ci imbattemmo in una lunga scogliera. Ora, guardandole da qui, non sembra proprio ma, in mezzo a quelle montagne, ci sono delle muraglie che salgono dritte verso il cielo per forse 150 metri, fatte di roccia e argilla… terreno infido. Ce ne saranno almeno una ventina; li chiamano Bastioni e sono tutti uguali fra loro: sono alberati nella parte alta e rinforzati alla base, ma sono molto frequenti smottamenti e slavine giù dalla cima. Io e Bill Hansen raggiungemmo uno di questi Bastioni e Bill osservava il punto verso la vetta dove la terra sembrava smossa, quando lasciò partire un grido di sorpresa. Oro! Una vena aurifera, la più grande che abbia mai visto, proprio lì, superficiale, pronta per chiunque avesse un piccone e un carro per portarlo via! Posammo i fucili e ci buttammo a scavare il suolo con le dita, spazzando via la terra. La vena sembrava voler arrivare in Cina, tanto si estendeva! Capisci, figliolo, c’era oro e quarzo sulla superficie di quel balzo roccioso. Bill, dico, siamo milionari! Non avevo fatto in tempo a dirlo che qualcosa fischiò accanto alla mia guancia e Bill cadde riverso in avanti con un grido strozzato: una freccia dalla punta di ferro lo aveva trapassato. Prima di potermi muovere sentii lo schianto di un fucile e qualcosa che mi sembrò una martellata di metallo fuso mi colpì nel petto e mi mise al tappeto. 25 Era un gruppo di scorridori indiani e ci aveva sorpreso durante lo scavo. Erano Cheyenne del nord, giunti per cantare le loro canzoni di guerra ai nostri danni. Bill era morto e io rimasi immobile, coperto di sangue, ma ancora vigile; fingevo soltanto di essere stato ucciso a mia volta. Così i pellerossa tolsero lo scalpo a Bill e poi a me…” Steve lasciò andare un’esclamazione di orrore. “Sì, è indubbiamente molto doloroso” convenne tranquillo Sfigato. “A dire il vero non sono a conoscenza di qualcosa che provochi un tale dolore. In qualche modo, però, riuscii a restare fermo immobile e a far credere loro di essere morto, anche se un paio di volte ho creduto di essere sul punto di lasciar partire un grido, a dispetto di me stesso”. “Ti hanno scalpato completamente fino alle tempie?” chiese Steve con una punta di macabra curiosità “No… i Cheyenne non usano così”. Sfigato si passò la mano sopra il cranio lucente con fare meditabondo. “Si limitano a tagliare un pezzo di cotenna dall’alto – bello spesso, in realtà – e il resto dei miei capelli… be’, nel corso degli anni si è scoraggiato ed è sparito da solo. Comunque, per un po’ rimasero a gridare e saltare, poi se ne andarono e io iniziai a controllare se fossi ancora vivo. Ero stato colpito al petto, ma per qualche caso miracoloso il proiettile era passato attraverso di me senza colpire nulla di importante. Pensavo, però, che sarei morto dissanguato. Riuscii a coprire la ferita con delle foglie e le ragnatele che quei grandi ragni bianchi tessono sui rami bassi degli alberi. Mi trascinai fino a una sorgente vicina e vi rimasi disteso come un cadavere fino al calare della notte; poi mi ripresi e rimasi giù a pensare al mio caro amico ormai scomparso, alle mie ferite e all’oro che non avrei mai potuto recuperare. 26 Poi… immagino di aver perso momentaneamente il senno, perché mi ritrovai a strisciare per la foresta, senza saperne il motivo. Ero come un ubriaco: sapevo cosa facevo, ma non la ragione del mio comportamento. Mi mossi a fatica per lungo, lungo tempo, finché, dopo aver perso varie volte i sensi, furono dei cacciatori di bufali a trovarmi in mezzo alla prateria, a molti chilometri di distanza dal punto dove ero stato ferito. Ero in preda ai brividi e al delirio della febbre, quasi morto. Si presero cura di me e dopo parecchio tempo le mie ferite guarirono e fui nuovamente in grado di padroneggiare la mia mente. Subito pensai a quell’oro, a come preparare una spedizione con un esperto cercatore d’oro e tornare lassù per una valutazione. Ma evidentemente non riuscivo a ricordare con precisione quanto era successo subito prima di perdere i sensi. Tutto era molto vago e non ero in grado di ritrovare la strada che io e Bill avevamo percorso per giungere a quella balza rocciosa; non ne ricordavo neppure l’aspetto. Si erano verificate anche molte frane e il paesaggio era molto diverso da come lo ricordavo. Insomma, non fui più in grado di trovare la miniera perduta sulle Montagne del Tramonto, e anche se mi sono recato lassù più e più volte per cercarlo, da ormai più di quarant’anni nessun uomo, me compreso, ha mai posato gli occhi su quello spuntone dorato. Immagino che sia rimasto coperto da qualche frana. O forse non ho mai trovato il posto giusto. Non so. Ormai ci ho rinunciato. Comincio a invecchiare. Ora mi contento del mio piccolo gregge. Però adesso sai il motivo del mio soprannome”. “E credi che forse questo Murken abbia trovato la tua vena aurifera e la stia sfruttando di nascosto?” 27 “No, non credo proprio. Gila Murken non terrebbe nascosta la notizia… sarebbe uscito allo scoperto, dichiarandone il possesso e sfidandomi a portargliela via. Comunque” il vecchio continuò con un tocco di vanagloria, “uno stupido come Gila Murken non potrebbe mai scoprire qualcosa che un vecchio cercatore come me insegue da quarant’anni, senza riuscire a trovarlo”. Scese il silenzio. Steve percepiva la brezza notturna che scendeva giù dalle montagne come un sussurro, trascinandosi dietro una strana pulsazione – una sorta di ritmo misurato, ossessivo e illusorio. “Tamburi” disse Sfigato, come avesse indovinato i pensieri del giovane compagno. “Indiani; c’è una tribù in mezzo alle montagne. Molto diversa da quelli che presero il mio scalpo. Sono Navajo, un piccolo gruppo trasferitosi da sud. Il governo ha concesso loro una parte di territorio come riserva. Sono amichevoli, a quel che sembra. Ogni tanto commerciano con noi bianchi. Sono alcune settimane che si odono quei tamburi. Nelle notti calme li senti facilmente, perché in questa zona il suono viaggia per molti, molti chilometri”. La sua voce si spense nel silenzio. Steve spostò lo sguardo verso ovest, dove i giganteschi picchi coperti di ombre si stagliavano neri contro le stelle. Il vento notturno sussurrava una melodia solitaria in mezzo ai cedri e agli abeti. Le narici erano piene del profumo dell’erba fresca e degli alberi della foresta. Le stelle brillavano bianche sopra le montagne brune e il ricordo di un viso bello e volitivo attraversò la mente del giovane come una visione. Mentre il sonno lo avvolgeva, quel viso sembrò diventare più nitido e più prossimo, mentre imperterriti in mezzo alle nebbia dei sogni giungevano ancora i ritmi cadenzati dei tamburi del Tramonto. 28 Indice Introduzione Lama, pallottola o cappio: Il western nella narrativa, nel cinema e nell’opera di R. E. Howard . . . . . . 7 Tamburi al tramonto . . . . . . . . . . . . . . . . . 19-59 1. Il vagabondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 2. Mistero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 3. Il racconto della ragazza . . . . . . . . . . . . . . 40 4. Pista di Sangue . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 5. Alture tonanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 La Collina degli Stivali . . . . . . . . . . . . . . . . 67-134 1. La Cavalcata dei Laramie . . . . . . . . . . . . . . 67 2. Civette fantasma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 3. Pagare i debiti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88 4. Il morso del serpente . . . . . . . . . . . . . . . . 96 5. Primo sangue . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 6. “Legatelo stretto!” . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 7. Imbottigliato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 8. Due chiacchiere sulla Collina degli Stivali . . . . 125 9. Il killer smascherato . . . . . . . . . . . . . . . . . 134 Il nido dell’avvoltoio . . . . . . . . . . . . . . . . . 147-173 Gli Avvoltoi di Whapeton . . . . . . . . . . . . . . 175-286 1. Spari nel buio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 2. Febbre dell’oro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 3. La trappola del pistolero . . . . . . . . . . . . . . 200 4. La follia che ottenebra gli uomini . . . . . . . . . 5. La ruota inizia a girare . . . . . . . . . . . . . . . 6. Il tribunale degli Avvoltoi . . . . . . . . . . . . . . 7. Le ali di un Avvoltoio vengono smussate . . . . . 8. L’arrivo dei Vigilantes . . . . . . . . . . . . . . . . 9. La discesa degli Avvoltoi . . . . . . . . . . . . . . 10. Sangue sull’oro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . FINALE ALTERNATIVO . . . . . . . . . . . . . . . 208 221 231 242 247 251 261 284 Lama, pallottola o capestro . . . . . . . . . . . . . . 287-303 Il “suicidio” di Donory il Codardo . . . . . . . . . 305-320 Sfida al Canyon Infernale . . . . . . . . . . . . . . . 321-362 1. Canna sinistra o barile rimasto . . . . . . . . . . . 321 2. Il volto alla finestra . . . . . . . . . . . . . . . . . 328 3. Frutto del deserto . . . . . . . . . . . . . . . . . . 331 4. Il canyon dell’Inferno . . . . . . . . . . . . . . . . 342 5. L’arrivo di Hansen . . . . . . . . . . . . . . . . . . 349 6. “O’Mara paga i suoi debiti!” . . . . . . . . . . . . 354 Lo scherzo del diavolo . . . . . . . . . . . . . . . . 363-376