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Il lutto nell’arte, nella letteratura, nella musica
Giuseppe De Martini
Unità di cure palliative – Ospedale S. Martino - Genova
"INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 43, maggio agosto 2001,
pagg. 20 - 25, Roma
"Ubi sunt?...ubi sunt?..." è lo sbigottito lamento di Carlomagno quando ritorna
nella gola di Roncisvalle alla ricerca dei suoi cavalieri morti nell’imboscata tesa alla
sua retroguardia dal nemico. "Dove sono Oliviero...Orlando...Turpino..? U estes
vos, bels niés?..."
Nel francese arcaico della "Chanson de Roland" (sec.XII) si esprime il lancinante
dolore della perdita. L’ansia per una risposta che si teme assente.
E’ il "cordoglio" (cor-doleo), il dolore acuto per la scomparsa di qualcuno che ci è
caro. Indica le reazioni interiori e psicologiche alla morte, e il periodo, più o meno
lungo, attraverso il quale chi resta torna all’equilibrio psichico e sociale.
Questa invocazione (ubi sunt?) è stata utilizzata dai predicatori cristiani di tutto il
Medioevo e oltre per invitare alla meditazione sulla caducità della vita terrena (i
famosi De contemptu mundi): "Che ne è stato di Davide e Salomone?/ di re Artù, di
Goffredo, di Carlomagno? / Dov’è finito Lancillotto dal cuore generoso?"
Ma il suo significato originario resta e indica il doloroso stupore che ci avvolge per
ogni perdita cara.
"Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley?" domanda Edgar Lee Masters
passeggiando un secolo dopo tra le lapidi del piccolo cimitero di Spoon River.
"Dormono, dormono sulla collina" risponde in musica Fabrizio De André
riprendendo lo stesso tema ai giorni nostri.
"Dove sono andati tutti questi fiori (Sag mir wo die Blumen sind) ?" cantava
Marlène Dietrich a proposito dei ragazzi morti in guerra..
Giosuè Carducci rivolge una analoga domanda al fratello morto, chiedendo notizie
del proprio figlioletto di tre anni appena scomparso:
"O tu che dormi là sulla fiorita
collina tosca, e ti sta il padre accanto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?
E’ il fanciulletto mio..."
La difficoltà a passare dal cordoglio al lutto (lugere=piangere) cioè a quell’insieme
di pratiche sociali che consentono di trasformare il dolore acuto della perdita in
quello profondo e lungo dell’assenza, la leggiamo paradossalmente sulle iscrizioni
tombali.
Noi diciamo che il nostro congiunto è scomparso e poi scriviamo qui giace; noi
diciamo che è trapassato, volato via, passato a miglior vita e poi scriviamo qui
riposa.
(La cosa buffa poi è che le lapidi funerarie situate nelle chiese intorno al XII-XIV
secolo, per esempio, non corrispondevano quasi mai al luogo in cui era deposto il
corpo del defunto...).
Era importante che ci fosse un luogo al quale comunque riferirsi per non sparire.
Guardiamo i monumenti funebri. Quello di Guidarello Guidarelli (1501) a Ravenna
lo raffigura proprio come morto. Ma come un morto ben presente, radicato in quel
luogo e per sempre. Lui giace, e dentro il sarcofago il suo corpo si corrompe, ma
fuori, la sua immagine resiste per sempre.
I coniugi etruschi scolpiti sul famoso sarcofago di Cerveteri si sono fatti riprendere
come se non fossero mai morti e ci aspettassero per cena...
In altri termini, nei monumenti funebri si vuol perpetuare la propria memoria (o
quella dei nostri cari) oppure il desiderio di essere (che siano) ancora in vita? Nel
Cimitero monumentale di Staglieno a Genova esistono scolpiti sulle tombe interi
gruppi familiari, compresi coloro che non sono ancora morti.
Questa difficoltà ad accettare la perdita, e la comprensibile tendenza a prolungare il
cordoglio senza voler entrare nel lutto, è connaturata all’uomo, ed è ben descritta fin
dalla mitologia e dalla letteratura più antica.
Nel Libro XXIII dell’Iliade il lutto del funerale di Patroclo (l’amico più caro di
Achille) ha rituali violenti e sanguinari. Giovenchi e agnelli squartati per cospargere
con il loro grasso il corpo del defunto, cavalli e cani di razza e addirittura dodici
giovanetti troiani sgozzati e scagliati ad ardere sul rogo funebre.
Poi i compagni trasportano il cadavere verso la pira, e dopo drammatici momenti di
attesa...finalmente "strepitoso immane incendio si destò". (E’ lo stesso rito pagano
cui viene sottoposto Sigfrido, e che culmina con la caduta degli dei e il rogo del
Walhalla.)
Eppure tra queste truculente immagini di un lutto crudele e primitivo vi è spazio per
uno squarcio lirico dolcissimo, ed è l’immagine di chi rifiuta ancora il lutto, e
protegge l’amico come quando lo medicava ferito nei combattimenti.
Racconta Omero che mentre i compagni trasportavano il corpo di Patroclo "...di
retro Achille con la man gli reggea la tremolante testa..."
E’ la descrizione di una morte che non si vuole accettare ancora tale. Quella
"tremolante testa" sembra ancora in vita. Il cordoglio tarda a farsi lutto.
Viene spontaneo l’accostamento con un’altra immagine di morte descritta pochi
versi prima da Omero (Iliade,libro XXII). Quella del volto di Ettore trascinato
cadavere dietro il carro di Achille: "...e la sparsa nera chioma agitavasi, e il volto
tutto bruttavasi; quel volto in prìa sì bello..."
Anche qui il presente non si vuol far memoria.
Una forma di lutto irrisolto, che non si dà pace e rifiuta la realtà è quello di Orfeo. In
virtù dei suoi lamenti e della bellezza del suo canto riesce a convincere le divinità
dell’oltretomba a restituirgli la moglie. A patto però di non voltarsi a guardarla
durante il viaggio di ritorno sulla terra. Lui si volta e la perde per sempre. Vagherà
disperato per il resto dei suoi giorni e morirà con il corpo straziato dalle Erinni.
Questa storia ha in sé un duplice ammaestramento. Se Orfeo rifiuta la morte di
Euridice e la rivuole in vita, così non è per lei che, ricondotta sulla terra
"...procedeva con lentissimo passo...malcerta e mite nella sua pazienza...e non
pensava all’uomo che era innanzi, non al cammino che saliva ai vivi. E quando a un
tratto il dio la trattenne e con voce di dolore pronunciò le parole "si è voltato", lei
non comprese e disse piano "chi?"...
(Nel testo latino di Virgilio l’ultima parola é un bisbiglio: quis?...)
C’è il contrasto tra il rifiuto della morte (Orfeo) e quindi l’incapacità di predisporsi al
pianto del lutto, e la serena accettazione (Euridice) della propria fine, indifferente
all’impossibile tentativo di salvataggio da parte del marito. Dopodiché, come è
naturale, nessuno parlerà più di Euridice, mentre Orfeo vivrà disperato fino alla
propria morte brutale.
Ecco un esempio di lutto irrisolto.
Nelle discese agl’inferi narrate da Omero (VIII sec.a.C.) nell’undicesimo libro
dell’Odissea e da Virgilio (I sec.a.C.) nel sesto libro dell’Eneide, noi troviamo le due
più belle metafore del lutto che siano mai state scritte. Anche Dante Alighieri ci
provò più tardi, ma Pia de’ Tolomei ("Siena mi fe’, disfecemi maremma";
purgatorio V), Paolo e Francesca ("Amor condusse noi ad una morte"; inferno V),
Manfredi ("Biondo era e bello e di gentile aspetto/ ma l’un dei cigli un colpo avea
diviso"; purgatorio III) e tanti altri sono "personaggi" che incontriamo, non
"persone" che si cercano come Ulisse cerca la madre Anticlea o Enea il padre
Anchise.
Ulisse per tre volte cerca di abbracciare la madre ma si accorge che:
"tre volte m’uscì fuor dalle braccia,
come nebbia sottile o lieve sogno".
Enea, che pure era atteso ("Venisti tandem, sei giunto finalmente" esclama
Anchise) si lancia nell’abbraccio al vecchio padre ma:
"tre volte abbracciandolo, altrettante –
come vento stringesse o fumo o sogno –
se ne tornò con le man vote al petto".
Viene raggiunta in entrambi i casi la consapevolezza che i morti non appartengono
più al nostro mondo terreno. Possiamo solo abbracciare le loro ombre. La relazione
non si è persa ma è cambiata.
Nella nostra cultura occidentale il lutto nel quale siamo stati educati è quello per la
morte di Gesù.
La religione cristiana ci invita non già alla rassegnazione ma alla speranza (vita
mutatur, non tollitur) in un’altra vita. Il lutto è perciò un’attesa. Le opere che più
testimoniano questa impostazione sono le Deposizioni. Non dimentichiamo che gli
affreschi riprodotti sulle pareti delle chiese avevano una funzione più che decorativa:
era una funzione didattica. Allora, quando la maggioranza delle persone non sapeva
leggere era necessario "impaginare le storie sui muri" affinché tutti
comprendessero. Così in Giotto a Padova (cappella degli Scrovegni), in Beato
Angelico a Firenze (convento di S.Marco) o in Pontormo, sempre a Firenze (chiesa
di Santa Felicita) non vi è disperazione né tragedia, ma dramma contenuto,
emozione incanalata, condivisa e risolta. Lo testimoniano le braccia spalancate di
Giovanni evangelista (nell’affresco di Giotto) che sembrano trasmettere
l’universalità di un dolore che non può esaurirsi solo tra i pochi presenti. I colori
dolci e chiari dell’Angelico, che invitano alla speranza. Lo stesso tormentato
Michelangelo, nella sua Pietà che si trova a Roma in Vaticano, fa scivolare la luce
sui corpi di Gesù e della Madonna con una delicatezza di chiaroscuri che non sarà
mai più capace di usare.
La morte di Gesù è per noi un racconto (come per Giotto, Michelangelo e gli altri
artisti) e un’esperienza di fede. Ma la perdita fisica, reale di un figlio, per esempio?
Di un figlio piccolo?
Carducci è incapace di lutto di fronte a un bimbo, qualunque bimbo. Non solo per il
proprio figlio ( la già citata "Funere mersit acerbo" tratta da un verso di Virgilio, o
la famosa "L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno...") ma
anche per i bimbi degli amici, siano essi loro figli o sorelle. La poesia "Mors"
dedicata a Felice Cavallotti per la perdita della sorella durante un’epidemia di
difterite é lugubremente e volutamente priva di ogni attesa di un lutto rasserenatore:
"L’ombra de l’ala che gelida gelida avanza /diffonde intorno lugubre silenzio [...]
Invecchian ivi nell’ombra i superstiti, al rombo / del tuo ritorno teso l’orecchio, o
dea."
Gustav Mahler compose per i due figli(Louise ed Ernst) morti giovanissimi, del
poeta tedesco Ruckert (su testi dello stesso poeta) gli struggenti "Kindertotenlieder,
nei quali il musicista (che tra fratellini e figlioletti morti aveva purtroppo una
lunghissima esperienza di dolore) esprime un così straziante senso di impotenza di
fronte alla morte infantile da far considerare il lutto un rituale inutile e
psicologicamente insufficiente. La musica di Mahler – tutta la musica di Mahler –
non raggiunge mai, pur cercandola, la dimensione serena del lutto, ma resta sempre
in quella sospesa e sofferente del cordoglio.
Oggi il lutto è ancora attuale? Oggi purtroppo abbiamo deritualizzato la morte
perché l’abbiamo negata e quindi abbiamo espropriato il lutto. Esso non serve più
perché non ha più nulla da esorcizzare.
Un quadro come "La veglia al cadavere" di E. Munch non ci dice più niente. La sua
immagine non ci è abituale, perché partecipiamo sempre meno di frequente a un
rito come quello. Perché c’inquieta: il morto potremmo essere noi.
La ritualità è conservata per le grandi scenografie collettive in occasione della morte
dei "divi", delle celebrità.
Allora Elton John può riproporre al funerale di Lady Diana la stessa canzone
composta per la morte di Marylin Monroe .
Il lutto non è più un rito collettivo ma un’esibizione a cui assistiamo passivamente.
Eppure immagini come quella della madre di Cecilia che accompagna la figlia
morta di peste verso il carro dei monatti (Promessi Sposi cap XXXIV) ci sono spesso
attuali ancora oggi, attraverso la televisione e i giornali:
"Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna,
il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa [...]. Portava
essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’
capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani
l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la
teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto,
come se fosse stata viva; senonché una manina bianca a guisa di cera spenzolava da
una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della
madre, con un abbandono più forte del sonno [...]. Il monatto si mise una mano al
petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui
era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affacendò a fare un po’ di
posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise
lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime
parole: "addio Cecilia! riposa in pace!"