Il Romanico in Ossola – II

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Il Romanico in Ossola – II
OSCELLANA
Rivista Illustrata della Val d’Ossola
Anno XXXVIII n° 3 Luglio - Settembre 2008
s
SOMMARIO
Romanico in Ossola. II Parte
di Alessandro Chiello
Pieve di Oscela:
San Brizio di Vagna
Sant’Ambrogio di Seppiana
San Martino e Sant’Abbondio di Masera
Beata Vergine Assunta di S. M. Maggiore
Santo Stefano di Crodo
San Giulio di Cravegna
San Gaudenzio di Baceno
San Giorgio di Beura
161
La Pieve di Vergonte:
San Pietro di Pallanzeno
San Lorenzo di Megolo
La Pieve di Mergozzo:
San Graziano di Candoglia
Santa Marta di Mergozzo
Santa Maria di Bracchio
San Giovanni in Montorfano
176
123
164
Conclusioni:
Romanico in Ossola
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ALESSANDRO CHIELLO
R
ROMANICO
IN OSSOLA
II parte
O
Pieve Oscela: San Brizio di Vagna
La strada che porta verso l’alpe Lusentino
partendo da Domodossola si snoda lungo le
pendici settentrionali del Moncucco è molto frequentata dagli sciatori, allettati dagli impianti
di Domobianca, e da tutti coloro che vogliono
ritemprarsi tra i piacevoli boschi della montagna. Se qualcuno volesse rinfrancare pure lo
spirito, e male non fa, ha la possibilità di fare
una sosta in località Vagna, adesso frazione del
capoluogo e un tempo comune autonomo, per
visitare la chiesa parrocchiale di San Brizio. Ne
vale veramente la pena!
A prima vista davanti al tempio niente
ci ricorda l’architettura romanica, leit-motiv
della nostra ricerca, ma, spostandoci di qualche
metro e alzando gli occhi, osserviamo il campanile, posto nell’angolo sud-orientale dell’attuale
edificio, e subito riconosciamo l’antico prestigio
di sapore medioevale che le caratteristiche della
muratura denotano chiaramente.
Ci avviciniamo e analizziamo la torre che ci
appare veramente di “elegantis forma”, come già
si annotava in una visita pastorale del 1616.
Il fusto (base 3,60 x 3,55 m) è caratterizzato
da una robusta muratura formata da materiale
irregolare nelle dimensioni, ma discretamente
ordinato in corsi orizzontali grazie ad un uso
intelligente della malta, che corregge la disomogeneità dei blocchi di diversa grandezza.
Peccato per lo strato di intonaco che ricopre
la muratura dei tre ordini superiori disturbandone l’uniformità, oltre che la bellezza del
campanile stesso. Sopra il robusto basamento
che, nel lato settentrionale, ospita la porta di
accesso, si sviluppano quattro piani cadenzati
dalle tipiche cornici segnapiano a dente di sega
e a linee zigzaganti, classici motivi ornamentali
dei campanili romanici.
I quattro piani del fusto si organizzano in
modo estremamente compatto: ospitate in quattro riseghe, dal basso verso l’alto, si registrano
una specchiatura appena aperta da un’esile feritoia strombata, e tre specchiature alleggerite da
tre monofore sempre più ampie, con l’ultima,
la più alta, archivoltata. Concludeva il fusto la
cuspide piramidale in piode, secondo il modello-matrice del San Bartolomeo di Villa, in luogo
dell’attuale cella campanaria che dilata, e non
poco, le originarie dimensioni.
Sebbene i pieni e i vuoti non siano distri-
123
1 - Vagna: Chiesa di San Brizio.
2 - Nella pagina accanto: Vagna, Chiesa di San Brizio, particolare del campanile.
buiti con l’insuperabile equilibrio dell’illustre “predecessore” che si specchia sulle acque
dell’Ovesca, il fusto, ben conservato, è pregevole nel suo ordinato impianto decorativo, austero
e accurato, e nelle sue forme proporzionate ed
armoniose. Il campanile, confrontato con gli
altri della regione, è databile ai primi decenni
dell’XI secolo e faceva da ottimo corollario ad
una chiesa di cui immaginiamo la semplice
struttura rettangolare, ad aula unica coperta da
un soffitto ligneo.
A questo unico spazio venne aggiunto successivamente, sul lato settentrionale, un’ulteriore navata, ma durante la prima metà del
Seicento si procedette all’abbattimento dell’antico tempio per edificarne uno più ampio, in
modo da assecondare maggiormente le nuove
esigenze della comunità di Vagna, che nel frattempo, dal XIII secolo, era divenuta parrocchia
autonoma con la responsabilità della cura delle
anime anche degli abitanti di San Marco e di
Monteossolano. A loro volta queste due località
diventeranno parrocchie indipendenti nel 1542
e nel 15711. Qualche indicazione sull’antichità
della chiesa di Vagna ce la offre il Bertamini,
analizzando la titolazione che celebra il santo
vescovo Brizio di Tours, successore del più
famoso Martino, che ebbe la sventura di essere
martirizzato non in maniera violenta, bensì con
maldicenze e offese alla sua moralità. Fu infatti
accusato da una donna di essere il padre del
suo nascituro, ma proprio la creatura innocente
assolse il vescovo, parlando miracolosamente e
indicando il nome del vero responsabile di quella paternità. Per questo l’iconografia ufficiale
presenta il santo accompagnato da un bimbo
in culla. Questo culto si sviluppò ovviamente
Oltralpe e fu importato nell’VIII secolo dai
Franchi, nell’epoca alla quale potrebbe verosimilmente risalire il primo tempio di Vagna2.
124
Preceduta da una facciata dalla candida intonacatura, semplice e regolare nelle sue membrature, la struttura stranamente definita dal De
Maurizi “di stile romanico”3 anche se di romanico
nulla presenta, nemmeno il ricordo, è orientata come la precedente sul tipico asse ovest/est
delle cappelle antiche e mostra una pianta a tre
navate, segnate da due file di quattro colonne di serizzo che sostengono le ariose arcate a
tutto sesto. La copertura è assicurata da volte a
crociera che si presentano caratterizzate da una
decorazione in stucchi e in affreschi, peraltro
di qualità non certo indimenticabile. Ben altri
i motivi di lustro che può vantare l’interno di
questa chiesa, come il notevole altare di stile
barocco del 1767, opera del maestro Stefano
Burri di Viggiù, preceduto dalla balaustra in
marmi policromi che separa il presbiterio dalla
navata centrale. Ma il vero punto di interesse dell’intero complesso è la prestigiosa pala
d’altare che onora la cappella della Visitazione
della Vergine, intenso saggio di quel Tanzio da
Varallo che già aveva già lasciato tracce della
sua maestria nella Collegiata di Domodossola
con l’incantevole “San Carlo che comunica gli
appestati”. Incorniciata da un esuberante altare
ligneo, degno telaio protettivo del maestro intagliatore locale, Bartolomeo Zanini Piroia, nativo proprio di Vagna, “La Visitazione”, realizzata
nel 1626/27, rappresenta un’altra grande prova
del maestro valsesiano. La rappresentazione è
incentrata sulle monumentali figure delle due
donne, unite dalle miracolose gestazioni, il cui
incontro è segnato da delicate e solenni movenze; particolarmente indimenticabile la mano
della Vergine Maria che preme sul suo grembo.
L’apparato cromatico, ravvivato da un restauro nel 1973, viene esaltato da un trattamento
luministico che risente ancora della lezione
caravaggesca, appresa durante gli anni della formazione a Roma, e che valorizza ulteriormente
il suo stile, tendenzialmente tardo manierista.
Da notare la cura, quasi fiamminga, dei dettagli realistici dei volti (impressionanti quelli
di San Zaccaria e San Giuseppe) e delle mani.
La composizione risulta abilmente studiata su
un serrato gioco di sguardi e sulla significativa
contrapposizione tra le tre figure “vegliarde”,
a sinistra, e gli incarnati rosei e freschi della
Madonna e delle due giovani alle sue spalle.
Un vero e proprio capolavoro che si nasconde in
una modesta chiesa, in una piccola frazione di
un paese di provincia nascosto tra le montagne:
peculiarità che ricorre spesso nella produzione
di questo grande artista, che realizza “una pittura di straordinaria intensità mistica, ma troppo
cruda e intenzionalmente popolare per raccogliere
gli apprezzamenti incondizionati delle altre sfere
ecclesiastiche”4. Ed eccolo quindi alle prese con
una committenza periferica, meno autorevole
forse, ma sicuramente più stimolante, in quanto l’artista può liberamente assecondare il suo
125
estro. In questo caso il merito va ascritto alla
Confraternita del SS. Rosario, a cui erano legate
le agiate famiglie di notai Pattarone e De Gratis
che permisero la prestigiosa committenza.
La chiesa offre comunque altre pregevoli
opere d’arte: nella cappella di Santa Marta, più
che sulla pala d’altare vale la pena soffermarsi
sull’ancona lignea, sfarzosa nei suoi intagli,
nelle sue dorature e nel forte impatto cromatico,
realizzata negli ultimi decenni del Seicento dal
valente Giulio Gualio, maestro antronese che ha
lasciato in Ossola altri preziosi saggi della sua
opera. La cappella del Santissimo Nome di Gesù
si pregia di un’interessantissima pala, un tempo
incorniciata dal più sobrio altare ligneo in cui
si armonizzano con notevole fascino il rosso e
le dorature, e che oggi è invece posto in una
parete laterale della cappella. Essa rappresenta
un piccolo Bambino Gesù sopra il monogramma IHS che simbolicamente richiama il suo
nome. Un cartiglio sottostante riporta il monito
biblico “Sanctum et Terribile Nomen eius” e sotto
un mostruoso groviglio di demoni che occupa i
2/3 dell’intera superficie del quadro: uno spazio
ritenuto eccessivo dalle autorità ecclesiastiche.
Il vescovo Gentile nel 1846 lo giudica “poco
decente… sebbene di distinto pennello”, tanto da
farlo spostare dalla privilegiata posizione in
mezzo al prezioso altare, che ospitò in seguito
una “Circoncisione”, certo più convenzionale, ma
infinitamente meno interessante del precedente, anche dal punto di vista artistico.
Il professor Bertamini attribuisce la pala del
SS. Nome di Gesù alla prestigiosa scuola del
Cerano, e in alcune parti all’intervento diretto del maestro stesso, il quale ricordiamolo,
rappresenta uno dei principali esponenti della
pittura lombarda della Controriforma.
Sempre nella stessa cappella, alziamo lo
sguardo e ritroviamo sulla cupoletta le familiari
pennellate del Borgnis, in una vivace raffigurazione del Paradiso incentrata sulla figura
del Bambino Gesù, festosamente attorniata da
angeli musicanti.
Usciamo rasserenati da questo luogo sacro e
ci sorprendiamo ancora una volta dal contrasto
tra la modesta per quanto graziosa frazione,
formata da un piccolo agglomerato di case, e la
sua chiesa, “palladio della religione e della storia
di Vagna”, così ricca di perle artistiche che i
fedeli dei secoli passati hanno voluto regalare
ai posteri. Speriamo che anche la nostra generazione, distratta dalla grettezza e dalle volgarità
imperanti, sappia nonostante tutto essere degna
di cotanta eredità.
Note
1
T. Bertamini, “L’Ossola nella diocesi di Novara”, in
Oscellana 1998, p. 222.
2 T. Bertamini, “San Brizio di Vagna”, in Oscellana
1974, p. 115-130.
3 G. De Maurizi, “L’Ossola e le sue valli”, op. cit., p.
106.
4 V. Sgarbi, “Le tenebre e la rosa. Un’antologia”, Cernusco
sul Naviglio 2000.
126
S. Ambrogio
di Seppiana
Peculiarità comuni delle valli che si aprono
sul bacino principale di raccolta delle acque del
Toce, sono la strettezza e la tortuosità, a causa
delle incombenti forre che caratterizzano il loro
tratto iniziale, per poi schiudersi in incantevoli
bacini alpestri ricchi di vegetazione. La valle
Antrona, invece, nel suo svolgersi preserva per
molti chilometri questo elemento distintivo che
la connota per certi versi come la valle ossolana
più selvaggia e affascinante dal punto di vista
paesaggistico, con le imponenti catene che sembrano quasi cozzare fra di loro in alcuni tratti,
stringendo il povero letto del torrente Ovesca
nella sua inesorabile discesa a valle.
Storicamente forte è il legame con Villadossola
lentamente sviluppatasi a ridosso dell’imbocco
della valle, sulle pendici del Moncucco, relazione che trova un’immediata conferma nell’organizzazione religiosa che ha accomunato per
secoli le comunità di questi territori.
Come sappiamo, Villadossola e la valle
Antrona nei difficili secoli dell’alto medioevo
fino a tutto il XII secolo rientravano nei territori
che facevano capo alla pieve di Oxila, che provvedeva “con le sue pertinenze” alla cura d’anime nella
cosiddetta Ossola superiore. Nell’importante
fase di decentramento che portò alla fondazione
di nuove parrocchie, intorno alla chiesa di Villa
intitolata ai SS.Fabiano e Sebastiano e poi a
San Bartolomeo si organizzarono le comunità
della valle Antrona, che successivamente per
ovvie ragioni pratiche e logistiche, istituirono
una nuova parrocchia indipendente, la quale si
costituì a Seppiana, dove esisteva una cappella
costruita non molto tempo dopo quella prestigiosa di Villa, dedicata a Sant’Ambrogio.
Questo paese si trovava in un luogo strategico dal punto di vista logistico, in una posizione
mediana sull’antica strada antronesca, quindi si
1 - S. Ambrogio di Seppiana: protomi umane dell’antico
apparato decorativo.
prestava bene a servire le esigenze non solo spirituali (ribadiamo la fondamentale importanza
sociale delle nostre chiese nei secoli medioevali)
delle comunità montane sparse nella valle.
La parrocchia di San Bartolomeo si stacca
dalla pieve domese verso la metà del XII secolo; nel corso del secolo successivo si costituisce
la prima parrocchia indipendente della valle
Antrona a Seppiana, cui seguiranno le parrocchie di San Lorenzo ad Antronapiana all’inizio
del XIV secolo, di San Pietro a Schieranco
istituita nel 1571, della Beata Vergine del
Carmine a Viganella nel 1618, e infine, a metà
del Settecento, la parrocchia di Montescheno
intitolata ai Santi Giovanni Battista e Carlo.
Da questo si evince l’importanza della chiesa
di Seppiana nella storia della valle Antrona.
La chiesa sorge su un promontorio sul dorsale della montagna su cui si è sviluppato il
grazioso paese, le cui abitazioni serrate intorno
127
b.
a.
osservare alcuni elementi del primitivo edificio,
tanto da poterne abbozzare una ricostruzione
delle linee originali abbastanza plausibile. Già
sulla facciata, terminata nel corso del Seicento,
notiamo inseriti a casaccio nel paramento murario, che conserva pregevolmente una certa rusticità, con i blocchi di pietra a vista alternati a
spessi letti di malta, alcuni archetti pensili, che
rivelano una notevole somiglianza con quelli
del corredo decorativo del San Bartolomeo. Gli
elementi distintivi di questa costruzione non
possono non avere influenzato i fabbricanti della
chiesa romanica di Seppiana, anche per motivi
di contiguità spirituale e geografica. Anche
nella facciata di San Bartolomeo avevamo notato molte parti dell’antico materiale ornamentale
riutilizzato nelle riedificazioni successive.
Oltre agli archetti, troviamo altri resti che
testimoniano gli antichi fasti del luogo di culto:
nel muro perimetrale del cimitero, che conclude il sagrato a pochi metri della parete settentrionale della chiesa, consideriamo un blocco
di marmo decorato con un giglio nella parte
superiore, e un fiore con cinque petali in quella inferiore. Originariamente il blocco doveva
essere posto a corona di un portale di accesso
con funzione di chiave di arco, unitamente alle
sue particolarissime testine appena sgrezzate, i
cui volumi si allungano con uno strano copricapo a forma di tortiglione, che nel disegno origi-
2 - S. Ambrogio di Seppiana: a) Pianta del primitivo edificio romanico risalente al XI secolo. b) Pianta della chiesa dopo l’ampliamento risalente alla fine del XII secolo.
c) Pianta dell’attuale chiesa.
alla strada principale “hanno un aspetto severo,
quasi medioevale”, così come le descriveva il De
Maurizi nella sua più volte citata guida.
Lo spiazzo su cui si leva il sacro edificio
nelle sue successive trasformazioni è stato eroso
al poggio di morena che sovrastava il paese e
che oggi è occupato dal pregevole sagrato e dal
cimitero che affianca la chiesa.
Il tempio attuale ha praticamente conservato
l’aspetto che aveva assunto dopo gli interventi
seicenteschi che avevano ampliato e razionalizzato la struttura, sotto l’energica spinta del
parroco Antonio Giavinelli, titolare per circa
un quarantennio della cura d’anima dei fedeli
della vivace comunità che, seguendo una concreta costante storica, ha avuto un profondo e
duraturo rapporto con la sua chiesa.
Solitamente, nelle rare pubblicazioni che
si sono occupate del romanico ossolano, per la
chiesa di Sant’Ambrogio si delineano le caratteristiche del solo campanile, il cui fusto, cella
campanaria a parte, testimonia chiaramente le
sue origini. Ma anche con uno sguardo poco
attento, nel resto della struttura si possono
128
Tutte queste componenti facevano parte della
chiesa romanica o dei primi interventi che interessarono la struttura a partire dal XII secolo.
Ancora una volta, i sottotetti dell’attuale
struttura hanno permesso la conservazione di
parte della cintura ornamentale dell’edificio
originario, facilitando così la possibilità di ricostruirne la genesi con buona approssimazione2.
La pianta evidenzia la consueta sala rettangolare con la facciata orientata ad occidente e
l’abside curvilineo ad oriente; due porte d’accesso erano poste nella fiancata settentrionale
che circa a metà era affiancata dal campanile.
Un solo ingresso si apriva nel lato opposto e
nessuno in facciata, per mancanza di spazio
dato l’incombente fianco della montagna; due
strette monofore tagliate nell’abside davano
luce al presbiterio, mentre due o tre aperture
sulla parete meridionale illuminavano la navata, unitamente alla finestra cruciforme e ai due
oculi aperti sul catino absidale. Le misure erano
modeste, con una lunghezza di quindici metri
ed una larghezza di poco inferiore agli otto.
Esternamente le solide pareti erano ritmate
da lesene, formate da vari blocchi rettangolari
di pietra, che disegnavano campiture irregolari, coronate dalla fuga di archetti monolitici,
suddivisi a tre o a quattro. Anche saltuariamente, da un’unica pioda venivano ricavati due
archetti, che ripetono abbastanza fedelmente
la decorazione degli omologhi elementi di San
Bartolomeo, con le doppie soprallineature e le
incisioni a zig-zag e a forma di croce. I modesti
peducci non presentano alcun intento ornamentale. Anche per la muratura dell’abside si può
facilmente supporre una ripartizione in campi
più o meno regolari e la ripetizione dei moduli
decorativi delle fiancate. Il tetto formato da
piode si appoggiava sull’usuale trabeazione
lignea.
La costruzione, di notevole impatto anche in
relazione all’ambiente in cui è sorta, dimostra
ancora una volta la rilevante capacità di adattamento agli ostacoli naturali espressa dagli anonimi edificatori medioevali: una sensazione di
perfetta armonia, di stretta simbiosi tra architettura e natura si può cogliere ancora oggi,
sostando sul bel sagrato che cinge la struttura,
c.
nale si univano per formare l’arco. Un Crocifisso
scolpito in marmo di Crevola, materiale che si
comincia a lavorare dal XII secolo, e che quindi
ci dà un preciso punto cronologico di riferimento, opera di un anonimo Maestro locale1,
completava l’abbellimento di questo portale.
La fascia a tortiglione è un elemento decorativo
che abbiamo già osservato nella facciata della
B. Vergine di Trontano, facente parte anch’esso del primitivo portale d’accesso dell’edificio
romanico.
Sulla cuspide del portichetto che attualmente sovrasta l’ingresso principale è osservabile,
con qualche difficoltà, vista la posizione, un
frammento marmoreo che riproduce un collo e
una testa animalesca con enormi fauci e inquietanti occhi larghi: probabilmente faceva parte
di un leone stiloforo che un tempo sosteneva la
colonna di un protiro, scomparso nei rifacimenti successivi. Il leone era un elemento ricorrente
della statuaria romanica, in funzione apotropaica del luogo sacro, in pratica una simbolica
protezione dalle potenze del Maligno, argomento molto presente nella profonda spiritualità
medioevale. Una testa caratterizzata da un volto
dai lineamenti inespressivi e da una folta barba
è incastrata nell’odierna parete settentrionale
dirimpetto al cimitero. Alcune testoline molto
smussate compaiono nell’arco che introduce al
sagrato e in alcune mensole in serizzo del tetto.
129
3 - S. Ambrogio di Seppiana: facciata della chiesa.
Analizziamo il campanile, la testimonianza
più evidente del complesso romanico: lo osserviamo ponendoci a fianco del muro di cinta
del cimitero. Esso si presenta inglobato circa
nel mezzo della parete settentrionale, rappresentando una robusta cesura quadrata nella
navata settentrionale, il cui vano centrale risulta
attualmente scoperchiato. Il fusto liscio segue la
tendenza, consolidatasi nel corso del XII secolo,
di non interrompere la superficie muraria con
che nemmeno i numerosi rimaneggiamenti
susseguitisi nei secoli sono riusciti a cancellare.
Possiamo solo chiudere gli occhi e volare con la
fantasia, e immaginarci le spoglie mura argentee della chiesetta medioevale immersa nella
folta vegetazione dei boschi, tra le asperità del
versante morenico della montagna, e i silenziosi fedeli della valle camminare per le strette
stradine del paese e avvicinarsi ossequiosi ed
orgogliosi verso il sacro tempio.
130
specchiature o altri elementi architettonici,
dando un risalto particolare alle componenti
strutturali. Quindi viene esaltato un effetto di
maggiore robustezza e solidità. Solo le aperture
animano la muratura, che ai nostri occhi appare
molto più accurata negli spigoli che nelle parti
centrali, in cui a spessi letti di malta è affidato
l’assemblaggio dei vari blocchi di pietra piuttosto disomogenei nelle dimensioni. Il risultato
comunque non è disprezzabile, anzi, la veduta
complessiva denota una certa attenzione e accuratezza.
Risultano aperte attualmente una feritoia,
una monofora e le interessanti ed eleganti bifore cigliate: una peculiarità che ritroveremo a
Bracchio, nel quarto ordine con la colonna provvista di capitello a gruccia. Le restanti aperture
sono state murate e per completare l’opera di
abbrutimento, è stata aggiunta nel 1858 una
cella campanaria, sormontata da una cupoletta
ottagonale che definire di scarsa coerenza stilistica è il minimo. Il campanile originale prevedeva un’armonica successione di cinque ordini
di aperture sempre più ampie, con due piani di
feritoie, uno di monofora, uno di bifora e i due
terminali di trifore. Una cuspide in piode segnata alla base da una cintura di archetti chiudeva
la torre, che sicuramente non sfigurava nella
gloriosa tradizione dei campanili ossolani. Se la
chiesa può essere datata non molto tempo dopo
il tempio di San Bartolomeo di Villadossola,
visti gli evidenti richiami dell’apparato decorativo, e quindi nella prima metà dell’XI secolo, il campanile, dal caratteristico fusto liscio
apparentato con gli esemplari di Megolo, del
Sant’Abbondio di Masera e di Santa Maria del
capoluogo vigezzino, può essere ascritto al secolo successivo, prima o forse in concomitanza
con la separazione dalla pieve madre di Oxila,
in quanto spesso la costruzione di un campanile
segnava momenti particolarmente significativi
della vita di una comunità.
Il fatto di essere il punto di riferimento
religioso della valle e, in seguito, la sede parrocchiale doveva portare necessariamente ad un
ampliamento dello spazio, che naturalmente si
scontrava con la perfetta semplicità dello schema originario. Già verso la fine del XII secolo
e nel seguente vengono costruite due cappelle,
una per lato, che portano al taglio dei muri
perimetrali e alla conseguente creazione di una
piccola navata nella parete meridionale a cui
viene aggiunto un portale d’accesso, mentre in
quello settentrionale la presenza del campanile
impedisce l’allungamento della nave fino alla
facciata.
Ma le più decise trasformazioni sono da
ascrivere alla seconda metà del Cinquecento
e a due importanti personaggi: il venerato e
attivissimo vescovo Carlo Bascapè, zelante e
partecipe pastore, uno dei migliori interpreti di
quell’ardente clima controriformista che diede
nuova linfa vitale al Cattolicesimo, e al parroco
don Antonio Giavinelli, originario della valle
Anzasca ma formatosi in quella Milano nella
quale San Carlo Borromeo stava completando la
sua indefessa opera di riforma secondo i principi
e lo spirito del Concilio di Trento.
Il 17 settembre del 1596 monsignor Bascapè
visitò la chiesa di Seppiana, imponendo direttive riguardo al culto e ovviamente al miglioramento edilizio della sacra struttura, che sotto
don Giavinelli ebbe un impulso notevolissimo.
Nei quaranta anni di servizio nella parrocchia di Sant’Ambrogio, don Giavinelli divenne infatti uno dei migliori collaboratori del
Vescovo e oltre a garantire solerte assistenza
spirituale e materiale e la costante attenzione
alle esigenze della comunità, non si stancò mai
di dare un assetto più conveniente e decoroso
alla sua amata chiesa.
Nella prima metà del Seicento, quindi,
la chiesa di Seppiana diventa un cantiere che
fece assumere le sembianze attuali al tempio,
attraverso la fondazione di nuove cappelle che
allargheranno progressivamente le navate laterali sia meridionale, sia settentrionale, con
il conseguente inglobamento del campanile
(1610-1620), l’innalzamento della nave centrale per ottimizzare l’illuminazione (1622),
la ricopertura con volte a crociera delle navate
(1623-1624), l’allungamento di cinque metri in
senso longitudinale della chiesa (1601-02) verso
la facciata, che sarà completata nelle attuali
forme nel 1634, aperta da tre ingressi che davano accesso alle corrispondenti navate, la decisa
131
espansione del presbiterio che portò alla sostituzione dell’umile abside romanico (1605-06),
la costruzione in capo alla nave settentrionale
della nuova sacrestia (1659) e la fabbricazione
del vestibolo sorretto da due colonne in serizzo
e coperto da una volta a crociera, semplice ma
adeguato raccordo tra esterno ed interno (16401642).
Anche in questa chiesa sono presenti pregiate opere d’arte, tra le quali ne segnaliamo alcune
con ammirazione: nell’altare della cappella del
Santissimo Rosario fa bella mostra di sé l’ancona lignea del maestro Giorgio de Bernardis,
eseguita nel 1645, disgraziatamente mutilata
da alcuni furti, veri e propri flagelli sacrilegi
che hanno deturpato il patrimonio artistico di
tante chiese ossolane, e di questa in particolare.
Dalle fotografie precedenti al furto ci possiamo
fare solo una pallida idea di questo capolavoro
di uno dei grandi intagliatori ossolani: una
miscela ben assortita di vitalità barocca su un
impianto che sa conservare proporzioni e armonie classiche, con le due bellissime colonne
ornate di angioletti e di fronde che convergono
sui due capitelli corinzi, sui quali si sostiene un
timpano squarciato dalla maestosa figura del
Padre Eterno benedicente: incantevoli sono le
formelle con i Misteri del Rosario che circondano la statua della Madonna con Bambino. Il De
Bernadis aveva sapientemente scolpito anche
la porta che chiudeva l’ingresso principale, con
storie di Sant’Ambrogio, ma anche di questa
non ci restano che tristi fotografie, visto che è
stata anch’essa depredata dai “soliti ignoti”. In
sacrestia possiamo ancora osservare la maestria
degli intagli dell’armadio di noce (1660) scolpito dal De Bernardis e dal dotato allievo Giulio
Gualio, autore anche delle pregevoli ante del
Deposito delle Sante Reliquie e di altre preziose
sculture facenti parte delle suppellettili sacre
della chiesa e dell’altare di Sant’Ambrogio,
composizione dal decoro misurato e classicheggiante.
La cappella del Rosario è impreziosita inoltre
dagli affreschi di Carlo Mellerio eseguiti tra il
1660 e il 1680 con scene della vita di Maria,
incorniciate in una ricca serie di stucchi. Sopra
il portale principale, prima di entrare nel tem-
pio, ci aspetta la raffigurazione del Santo titolare realizzata da Luigi Reali.
Usciamo dalla struttura e ci soffermiamo
ancora in questo luogo di pace, e con lo sguardo
abbracciamo l’intero sagrato, che oltre alla chiesa ospita il piccolo cimitero e due archi d’accesso: lo spazio sottratto alle asperità naturali
è così armonicamente occupato dall’uomo, che
un senso di serenità e di appagamento pervade
l’animo, commosso da questo complesso che gli
parla di un passato glorioso per il sentimento
religioso e importantissimo per la storia di
questa valle.
Un passato forse un po’ trascurato negli
ultimi secoli, ma che, siamo sicuri, saprà essere
protetto e conservato dalle attuali generazioni.
Note
1 G. Bianchetti, “Il Maestro del Crocifisso di Seppiana”,
in Oscellana 1985, p. 15-24.
2 T. Bertamini, “S. Ambrogio di Seppiana”, in Oscellana
1988, p. 17-72.
132
San Martino e
Sant’Abbondio
di Masera
L’imbocco della valle Vigezzo, serrato dalle
aspre fiancate delle catene montuose e lambito
dalle acque del torrente Melezzo, si può pregiare da più di otto secoli della preziosa presenza di
una “sentinella romanica”: il bel campanile della
cappella di sant’Abbondio, collocato proprio
all’ingresso meridionale di Masera, “dolcemente
assisa alle falde del monte”, grazioso e soleggiato
paese che si espande verso nord sino ai bordi del
fiume Isorno, la cui sponda opposta è già nel
comune di Montecrestese.
Fino alla fine dell’Ottocento questo notevole
vestigio non era l’unica testimonianza dell’epoca storica che stiamo considerando, in quanto
proprio alle spalle di Sant’Abbondio, a poche
decine di metri di distanza, sorgeva la chiesa di
San Martino, documentata da numerose fotografie che ci mostrano un edificio di indubbio
valore architettonico in linea con le migliori
realizzazioni della regione: “una limpida adesione
allo stile romanico tanto nell’impostazione quanto
negli elementi decorativi” (Bertamini).
Purtroppo nel 1882 l’ansia di dotarsi di
una struttura più ampia e confortevole portò
alla “suicida” decisione di abbattere la gloriosa chiesa, che aveva resistito al degrado e alle
secolari intemperie, ma che purtroppo non era
destinato a resistere all’uomo! Incredibile come
questa decisione sia stata avallata dalle autorità
ecclesiastiche e civili alla fine di un secolo in
cui già si era formata una buona coscienza critica sulle arti, e il dibattito sulla tutela e sulla
corretta conservazione e restauro dei beni architettonici ed artistici aveva già dato buone e utili
indicazioni, che però, si vede, non raggiunsero
le rive del Melezzo… Sta di fatto che il tempio
romanico di San Martino venne “inspiegabilmente”, “supinamente” e “inconsultamente” abbat-
1 - Masera: l’oratorio di Sant’Abbondio.
tuto, e al suo posto oggi possiamo apprezzare
l’attuale chiesa parrocchiale, non così “brutta e
moderna” come la definì l’Errera a suo tempo,
che comunque merita attenzione in quanto
contiene tra le sue mura alcune opere meritorie
per gli amanti delle arti. Su tutte, il bellissimo
trittico, posto attualmente in capo alla navata
laterale di destra, “Madonna e Bambino con San
Martino, San Giovanni Battista, Sant’Antonio
Abate e San Sebastiano, San Rocco e San Giulio”,
variamente attribuito e spesso associato alla
scuola gaudenziana, ma riconducibile ai pennelli più marcatamente incisivi di Fermo Stella
di Caravaggio, e il gruppo scultoreo, visibile
in fondo alla navata sinistra, che forma un pregevole “Compianto sul Cristo Morto”, opera del
primo Seicento uscita dalla fiorente bottega dei
craveggesi Merzagora, autori anche della bella
ancona del San Bartolomeo di Villa e del coro
della Madonna di Campagna di Pallanza.
Ma torniamo alle nostre tristi fotografie in
bianco e nero, che testimoniano l’aspetto della
chiesa romanica e che alimentano il nostro
rimpianto, preziosa documentazione che il dottor Antonioli, tenace e illuminato oppositore
133
dell’abbattimento della struttura, volle lasciare
ai posteri, come ricordo e molto probabilmente
come condanna per chi ha contribuito a tale
scempio della memoria storica e della bellezza.
La pianta ripeteva la sala unica di forma
rettangolare con soffitto ligneo, conclusa dalle
linee semicircolari dell’abside che guarda a
levante, come voleva la tradizione.
Decorosissima appare la facciata, che ripete
fedelmente l’impianto compositivo che aveva
caratterizzato le chiese di San Bartolomeo a
Villa, di Santa Maria a Trontano e l’Assunta di
Montecrestese, con uno stato di conservazione
ancora migliore rispetto ai celebrati modelli, presentando minori manomissioni evidenti.
Turbava l’armonia dell’insieme solo una navata,
che verso la fine del Cinquecento aveva unificato le cappelle sorte nel frattempo sul fianco
settentrionale, e che andò ad inglobare, come
nella chiesa di Seppiana, il campanile. Un portichetto è documentato a partire del XIII secolo.
La decorazione della facciata è caratterizzata da
tre ordini sovrapposti: nella parte inferiore solo
il portale, di semplice fattura e non originale,
e la lunetta con arco di scarico interrompono
la liscia muratura, che rispettava abbastanza i
corsi paralleli, con rustici conci di pietra non
perfettamente squadrati e uniti da massicce dosi
di malta.
Il piano soprastante segue direi fedelmente
i canoni tradizionali, con un’elegante bifora,
separata da un’esile colonna con capitello a
gruccia e coronata da un arco a tutto sesto, che
apre mirabilmente la campitura centrale. Strette
lesene definiscono e animano con ritmo serrato
la superficie sino a formare cinque campiture.
Queste dividono i dieci archetti in brevi gruppi
da due, che vanno a formare la cornice, insieme
a un corso di denti di sega, che segna il piano;
gli archetti si presentano cigliati, come nella
chiesa dell’Assunta di Montecrestese. Il terzo
ordine occupa il timpano e presenta la caratteristica finestra a croce e la cimasa di archetti che
segue il corso degli spioventi del tetto.
L’apparato ornamentale del secondo e del
terzo ordine sono assemblati in una risega che
anima ulteriormente la superficie muraria, che
nel suo complesso si fa notare per una certa raf-
finatezza e un equilibrio che presuppongono un
disegno e una progettazione rapportabili a quelle maestranze lombarde attive a Villadossola e a
Trontano e forse in altri cantieri, mentre i lavori
veri e propri paiono frutto di manovalanze locali, che comunque, pur con qualche ruvidezza
nella squadratura del materiale, hanno dato
forma ad un edificio di pregio. Un’altra foto ci
mostra la fiancata meridionale, che stilisticamente segue la facciata, con i ventitré archetti
coronati da una fascia a dente di sega e suddivisi, a gruppi di due o di tre, dalle lesene. In tre
campiture erano aperti tre brutte e ampie finestre rettangolari, che avevano sostituito quelle
originali a doppia strombatura, così armoniche
e funzionali all’architettura che le conteneva.
Anche questi elementi decorativi sono contenuti in un’ampia risega, mentre la parte
inferiore era tutta caratterizzata dalla muratura,
aperta solo da una porta nella parte terminale
verso il lato del presbiterio. Nell’abside, sostituito dallo sproporzionato coro successivo, e
nella fiancata opposta possiamo solo immaginarci ed aspettarci una decorazione simile al
resto dell’edificio. Dalla mediocre qualità delle
fotografia non riusciamo ad appurare se le mensole di forma parallelepipeda su cui poggiano
archetti, ottimamente sagomati, fossero lisce e
quindi prive di ornamentazione, oppure scolpiti
o almeno incisi. Propendiamo tuttavia per la
seconda ipotesi.
Per quanto riguarda la data di costruzione, la
bibliografia riporta pareri molto variegati, che
vanno dall’XI secolo alla fine del XII, ma dalle
fonti archivistiche conosciamo la data di consacrazione: durante una contesa fra ecclesiastici
su alcuni interessi economici, fra i testimoni
chiamati a deporre per dirimere la questione
troviamo il nome di Gualberto, religioso di
Domodossola, che dichiara di essere stato presente alla consacrazione di alcune chiese fatte
dai vescovi Riccardo (1117-1122) e Litifredo
(1122-1151), fra le quali la nostra di Masera,
non citata con il Titolo (solo in un documento
del 1260 viene citata con il nome del Santo
Vescovo di Tours, Martino). Siamo precisamente nel 1157, quindi si presume che la consacrazione del luogo debba essere avvenuta qualche
134
2 - Masera: l’oratorio di Sant’Abbondio, veduta laterale dell’attuale edificio.
decennio prima1. Pertanto la costruzione, che
potrebbe aver preceduto di qualche anno la consacrazione, può essere collocata intorno alla fine
dell’XI secolo o all’inizio del successivo.
La datazione che può essere avallata anche
dall’analisi dell’apparato decorativo che presenta pregevoli caratteristiche che sembrano
la naturale evoluzione di quelli, già pregiati, dei modelli di Montecrestese, Trontano e
Villadossola. Una conferma indiretta proviene
anche dal fatto che nello stesso periodo della
consacrazione la chiesa divenne sede parrocchiale, nell’ambito di quel deciso decentramento
voluto dal vescovo Litifredo, staccandosi dalla
pieve di Domodossola da cui dipendeva, e non
dalla pieve di Vergonte, come invece asseriva il
Bianchetti.
Dopo aver accennato per sommi capi alla
infelice sorte di questa chiesa, spostiamo la
nostra attenzione poche decine di metri oltre,
dove possiamo ancora osservare una tangibile
testimonianza romanica: il campanile dell’oratorio di Sant’Abbondio, posto in una curiosa
posizione, all’entrata di Masera, in corrispondenza delle prime forre della valle Vigezzo.
A dir la verità, anche l’attuale oratorio è per
lo meno curioso, con la sua strana forma obliqua
che sembra adeguarsi all’isola erbosa lasciata
dalla strada comunale, che si biforca proprio in
prossimità dell’edificio, il quale è dovuto sorgere adattandosi ad uno strapiombo roccioso eroso
dalle acque del Melezzo.
Cerchiamo di risalire alle sue origini.
Un’antica tradizione trasmetteva il ricor-
135
do di un monastero accanto alla chiesa di
Sant’Abbondio, e un documento riportato dal
professor Bertamini, la bolla di papa Alessandro
III, ha finalmente confermato la presenza di una
chiesa con questo titolo a metà del XII secolo, e
la gestione del monastero da parte dei Canonici
Regolari di Sant’Agostino. Certo è che la posizione non era molto felice, vista la pericolosa
vicinanza delle acque del torrente vigezzino,
che comunque scorreva in un alveo molto più
basso dell’attuale. Questa fu la causa dello spostamento della costruzione sullo scoglio roccioso, attualmente visibile ancora in parte alla base
del campanile. Per il resto, questa struttura ha
lasciato poche tracce di sé nel corso della sua
lunga storia. Consisteva in una modesta sala
rettangolare, con un orientamento da levante
a ponente che si adattava alle sporgenze della
roccia su cui si posava. La presenza di una piccola abside è testimoniata ancora dalla traccia
lasciata sotto la finestra a croce del frontone
posteriore; non è difficile ipotizzare una sua
frana nelle acque del torrente sottostante. Dagli
inventari ricaviamo una povertà d’ornato, una
deplorevole incuria e una scarsa considerazione
anche dal punto di vista degli uffici sacri. Una
progressiva decadenza e una serie di interventi
di ampliamento, disordinati e disarticolati,
hanno portato alla situazione attuale, modificandone l’orientamento primitivo e causando la
perdita pressoché totale dell’antico corpo, di cui
solo qualche frammento del paramento murario
si è salvato dallo sfacelo.
La visita al “meschino”2 e “insignificante” ora-
3 - Masera: l’oratorio di Sant’Abbondio, particolare dell’alzata posteriore con elementi di recupero del primitivo oratorio.
136
torio non ci dice alcunché, anzi rattrista vederlo
impiegato come magazzino e deposito comunale; rispetto e memoria storica esigerebbero una
maggiore considerazione, ma purtroppo in questo lembo di terra ossolana le affascinanti mura
romaniche non hanno avuto molta fortuna…
Fortunatamente si è conservato e in
maniera egregia il campanile dell’oratorio di
Sant’Abbondio e finalmente possiamo parlare di
una testimonianza ancora integra e soprattutto
tangibile.
Lo osserviamo portandoci sul lato della strada
che conduce verso la valle Vigezzo, dove il “pittoresco” fusto si mostra al meglio. Notiamo subito la caratteristica muratura liscia, non interrotta da membrature architettoniche, e la notevole
perizia dei vari blocchi di pietra, sufficientemente squadrati soprattutto negli spigoli, che
si raccordano in corsi paralleli e discretamente
ordinati. La tipologia del fusto liscio senza specchiatura, che abbiamo già trovato a Megolo e a
Seppiana, denota la tendenza dei costruttori a
concentrare le loro abilità sulla muratura stessa
piuttosto che su elementi decorativi che sicuramente conoscevano, come dimostra il campanile di San Bartolomeo a Villadossola, che aveva
fatto scuola in Ossola, ma che non ritenevano
di dover prendere a modello: un cambiamento
di gusto che si concentra e si rafforza nel corso
del XII secolo. Nel caso di Sant’Abbondio la
massiccia parete muraria viene ingentilita dalla
successione di aperture, due piani di feritoie,
uno di bifora e uno di trifora con i capitelli a
forma di gruccia. Il tetto è modellato su una
cuspide a piramide. Troviamo anche una specchiatura coronata da tre archetti nell’ordine
inferiore del lato settentrionale (un omaggio
alla tradizione?), e un bovindo che pare proprio
una guardiola da caserma nella parete orientale, con una feritoia: un chiaro riferimento alla
funzione anche strategica e difensiva che spesso
i campanili hanno assunto nel corso della loro
storia3. Una modesta ma significativa testimonianza scultorea è presente sul lato settentrionale del fusto, all’altezza della finestra a trifora,
attualmente murata, del primo piano: raffigura
un quadrupede dalle forme appena abbozzate,
con un corpo allungato sostenuto da zampe
corte e con un muso caratterizzato da un occhio
circolare e da un piccolo corno. Un soggetto
abbastanza comune, tratto forse da quei bestiari
tanto in voga nei secoli medioevali, che aveva
una marcata valenza simbolica e apotropaica.
Una struttura dalle dimensioni contenute,
che riesce a trasmetterci un senso di nobile
eleganza nelle sue snelle proporzioni e che,
nonostante la mancanza di ornamentazioni, può
tranquillamente essere annoverato tra i migliori
esemplari della regione ossolana.
Note
1 T.
Bertamini, “Fede e arte a Masera”, op. cit..
Errera, “L’Ossola”, op. cit., p. 26-27.
3 G. Mormandi, “L’architettura romanica della Val d’Ossola”, op. cit., p.12.
2 C.
137
Beata Vergine
Assunta di Santa Maria Maggiore
Tutte le valli ossolane sono affascinanti e di
ognuna risulta facile cantare le lodi e le meraviglie naturali: è sempre un’esperienza edificante
spostarsi dal fondovalle principale e salire per le
strette gole iniziali, e osservare i versanti delle
montagne aprirsi gradualmente fino al culmine
di ciascuna valle, solitamente contraddistinta da
ampi bacini ricoperti da una folta vegetazione.
Per la valle Vigezzo questa scoperta può essere fatta percorrendo in automobile la strada che
da Masera si snoda sui tortuosi fianchi rocciosi,
oppure con il caratteristico treno della ferrovia
vigezzina: “quel trenino sgusciante tra neri boschi
di conifere, rocce grigie e cupe gallerie e ponti arditi
sospesi su archi aerei giganteschi e ripidi pascoli brulli
e sassosi, balzerà improvviso all’aperto e, d’un tratto,
l’occhio stanco d’uno spettacolo orrido e buio si poserà stupito sul piano verdeggiante al sole, sulle pinete
ombrose, sui pendii dolci e la valle Vigezzo si svelerà,
così, a sorpresa, in tutta la sua maestosa e ridente
bellezza.” Così il De Maurizi con ispirata vena
poetica descrive un’emozione che ancora oggi è
alla portata di tutti.
Meno emozionante è più difficoltosa deve
essere stata l’avventura dei primi missionari
che hanno introdotto la religione cristiana in
questa terre. La tradizione ha conservato anche
per la valle Vigezzo i leggendari nomi dei santi
Giulio e Giuliano che abbiamo già incontrato
sotto le mura del San Quirico. A Santa Maria
Maggiore e a Druogno avrebbero eretto le prime
mura cristiane, “ristorando con la rugiada della
dottrina” le popolazioni locali immerse ancora
nelle tenebre del paganesimo. Anche se menti
meno romantiche storceranno la bocca ascoltando questa leggenda, il contesto storico da cui si
è scaturita è del tutto plausibile e, tra la fine del
IV secolo e l’inizio del seguente, nella valle il
messaggio cristiano maturava già i suoi frutti e
1 - Santa Maria Maggiore, Beata Vergine, il campanile
gradualmente trasformava le secolari abitudini e
credenze dei vigezzini.
Se proprio non furono le sante mani di Giulio
e Giuliano a costruire la prima chiesa, di certo i
neofiti convertiti alla nuova religione dovettero
provvedere a trovare nuovi spazi per celebrare
le funzioni sacre. Spesso si riadattarono i vecchi
templi pagani o anche si utilizzò il materiale di
questi per costruire ex novo gli edifici funzionali
al culto cristiano. Nella piana vigezzina si scelse
come luogo di edificazione un sito particolare,
in posizione centrale rispetto ai vari villaggi
sparsi sulle pendici delle montagne. Questo sito
si trovava all’incirca nel mezzo della “dolcissima
conca”, in un posto appartato e disagevole per la
maggior parte degli abitanti, e pericolosa per la
vicinanza alle acque del Melezzo, ma prevalse
proprio per la sua centralità rispetto alle diverse
comunità. Addirittura pare che solo a partire
dal XIII secolo si cominciò a costruire abitazioni
intorno alla chiesa.
Lo storico Pollini mette in dubbio il fatto che quella di Santa Maria sia stata la prima
cappella edificata nella valle, accennando ad una
persistente tradizione che asseriva la precedenza
138
di un oratorio a Gagnone1, ma siamo nel campo
delle ipotesi non dimostrabili, mentre abbiamo
indicazioni più certe per la data di consacrazione. Infatti, nella già citata disputa fra canonici
novaresi riportata da atti del 1157, compaiono
testimonianze circa la consacrazione di alcune
chiese ossolane, tra le quali vengono citate “ecclesie de Viglezie et ecclesie Coimi”. Quindi l’unica
certezza che possediamo è che all’inizio del XII
secolo in valle esistono due chiese, una a Santa
Maria, così va inteso “chiesa di Vigezzo”, e una
a Coimo, sebbene, come ammonisce il Bertamini, “nulla vieti di pensare che ne potessero esistere
altre”2.
Al centro dell’odierno capoluogo, magnificato da una splendida posizione geografica e da una
serie di bellissimi edifici, si erge ancora la chiesa
parrocchiale a navata unica con sei cappelle, che
si mostra ai nostri occhi moderni con le forme
assunte durante la completa ristrutturazione
avvenuta tra il 1733 e il 1742, che modellò la
struttura secondo il gusto neoclassico imperante
in quei decenni, non a caso l’architetto Francesco Tamiotti la disegnò partendo da un progetto
di Pellegrino Tebaidi. Tra i maggiori e generosi committenti dell’opera troviamo il nome di
Gian Paolo Femminis, l’inventore della famosa
Acqua di Colonia.
Una passeggiata dentro questa ampia e godibilissima costruzione sacra, “dopo quella di Domodossola, la più grandiosa e la più bella dell’Ossola”3,
ci permette di ammirare le imprese decorative
dedicate alla Madonna Assunta, titolare della
chiesa, dei due mostri sacri della pittura vigezzina tra Settecento e Ottocento: Giuseppe Mattia Borgnis, “ingegno dominante”( Bianchetti) e
“artefice della tradizione pittorica vigezzina e del suo
alto valore”(Gnemmi) e del suo valente “erede”
Lorenzo Peretti, “artista in bilico tra la grazia
settecentesca e il rigore neoclassico”. Artisticamente pregevoli anche il tabernacolo marmoreo di
Lorenzo Arrigoni di Pavia, dalle raffinate linee
rinascimentali risalenti al 535 nella prima cappella a sinistra, l’altare maggiore ottocentesco
in marmo di Carrara di gusto classicheggiante,
il pregiato reliquiario d’argento di stile barocco
che protegge le reliquie di San Carlo Borromeo,
donato nel 1627 dal cardinale Federico, cugino
e successore del santo, e infine il battistero con
un vasca in serpentino sormontata da una cupola tardo gotica, già lodato in un inventario del
1629 come “antiquissimo et multo bello”.
E la chiesa romanica? Non abbiamo notizie
certe, oltre come detto, alla sua esistenza, alla
riutilizzazione dei resti sopravvissuti nella ricostruzione e al rimaneggiamento del campanile,
come analizzeremo in seguito.
Lo storico Cavalli, seguito anche dal Pollini,
nel suo ponderoso studio sugli eventi della valle
riporta una affascinante esposizione che anche
noi, per dovere di cronaca, ripetiamo: “questa
chiesa era di molto infossata nella terra, con piccole
aperture, e piccolissime finestre, per modo che riusciva
assai oscura anche di pieno giorno: era poi tutta composta di pietra ollare, detta comunemente Lavegera,
e su tutte le pareti vedevansi tratto tratto scolpiti dei
grotteschi, e degli animali d’ogni sorta e d’ogni misura, che le davano un singolare aspetto. Noi possediamo
un antico dipinto su grossa tavola di legno di questo
antichissimo tempio, sul tetto del quale stanno effigiati una pianticella in piena vegetazione, e la Beata
Vergine che afferra i capelli un uomo che giù cadeva
dall’attiguo campanile… appare poi dal medesimo che
il primitivo tempio di Santa Maria veniva costituito
da una navata di mezzo alta ed assai stretta e da due
laterali molto basse, che avea una sola ed ampia parte
con un rosone trasparente al di sopra, e diverse finestre laterali strette, e terminanti nella parte superiore
ad arco rotondo; che i muri all’esterno erano perfettamente lisci e costituiti da pietre quadrilatere uniformi sovrapposte alternativamente le une alle altre; che
il tetto veniva formato da tanti pezzi di legno pure
uniformi e quadrilateri…”4. Questa minuziosa
descrizione, ripresa quindi da un quadro votivo,
ci mostra forse l’aspetto originario del tempio
romanico di Santa Maria? Molti particolari lo
indicano chiaramente, e lo stesso campanile e le
parti decorative giunte fino a noi non lascerebbero dubbi, e lo stesso storico vigezzino accosta
queste caratteristiche al cosiddetto stile “lombardo” in uso nell’XI secolo. Qualche dubbio,
invece, lascia la planimetria a tre navate, accettata comunque da tutti i critici che si sono occupati del romanico ossolano. Come già affermato
per la chiesa dell’Assunta di Montecrestese, in
Ossola nei secoli romanici si privilegia la sem-
139
plicità della navata unica e gli studi e le scoperte
recenti hanno confermato questa tendenza stilistica. Possiamo ipotizzare che la raffigurazione
dell’ex-voto si riferisca ad un edificio posteriore a tale epoca, risalente ad un periodo in cui,
come nelle altre chiese ossolane, l’esigenza di
ampliare lo spazio per meglio accogliere i fedeli
e le loro necessità devozionali, tra Quattrocento e Cinquecento, portò all’allargamento della
costruzione, con il taglio dei muri perimetrali
e l’aggiunta di navate laterali. Mi sembra meno
praticabile supporre, vista la vicinanza al territorio comasco e ticinese, un’influenza di qualche
edificio di questi territori, in cui sono presenti
chiese romaniche dallo schema più complicato e
movimentato, come il bel complesso di San Pietro di Muralto, alle porte di Locarno. Lo stesso
Cavalli, e sulla sua scia quasi tutti gli storici,
hanno assegnato alla valle Vigezzo, prima del
Mille, una dipendenza ecclesiastica della diocesi
di Milano o da quella di Como, e addirittura
la costituzione della parrocchia autonoma della valle Vigezzo al tempo in cui sorse la chiesa
romanica che “eressero in Parrocchia, la quale fu
la prima nella valle e la matrice di tutte le altre”.
Il Bertamini smentisce queste ipotesi e sposta
la nascita della pieve indipendente al XII secolo, dopo l’opera di decentramento incoraggiata
dal vescovo Litifredo. Prima di allora la pieve
di Oxila continuava la sua secolare opera di pieve madre “cum suis pertinentiis”, riunendo a sé
tutte le comunità cristiane delle vallate dell’Ossola superiore, Vigezzo compresa.
Si può quindi pensare che maggiori e più intensi siano stati i contatti con la valle del Toce, e
soprattutto con le sue usanze e con il suo modo
di edificare templi sacri. Ricordiamo che proprio alle porte della valle, in quell’epoca sorgevano l’oratorio di Sant’Abbondio, la compianta
chiesa di San Martino a Masera e la prestigiosa
Santa Maria a Trontano, tutte fedeli al linguaggio del romanico ossolano.
Dopo i bagliori cromatici degli affreschi
dell’interno ci spostiamo ai piedi del campanile, l’unico edificio medioevale sopravvissuto ai
secoli che la valle può ancora vantare. Visibile
non certo nella nitidezza primitiva, in quanto,
al momento della costruzione dell’edificio set-
tecentesco, si pensò bene di coprire le pareti del
pregevole fusto con uno spesso strato d’intonaco, vizio antico e moderno dei maestri ossolani
che si sono occupati dei restauri dei campanili e
delle chiese romaniche. Per una volta il degrado
e l’inesorabile fluire del tempo ci hanno fatto un
piacere, staccando alcune parti di questa “gabbia cementizia” e offrendoci la possibilità di
osservare una muratura di notevole ed ordinata
fattura con regolari corsi paralleli. Nella zona
inferiore i blocchi ottimamente sagomati, sono
disposti alternativamente di piatto e di taglio;
meno impostato e preciso è invece il materiale
della zona superiore, con blocchi più piccoli e
frammentari. Interessante il tessuto decorativo,
che emerge nonostante le fastidiose manomissioni successive: i sei piani sono organizzati su
un alto basamento, privo di aperture e membrature architettoniche, e su tre ordini definiti
da ampie specchiature, incorniciate da una serie
di otto archetti costituiti da piccoli conci poco
aggettanti, e da un marcapiano a dente di sega.
Gli archetti poggiano su mensolette trapezoidali su cui non compare alcun tipo di decorazione. Esternamente le originarie aperture non
sono più riconoscibili, perché otturate dall’ansia
settecentesca di nascondere ogni residuo medioevale. Per aiutare l’immaginazione nel cercare di
ricostruire le forme primitive, all’interno del fusto si possono ancora individuare i vani di queste aperture, che consistevano in una successione
dal basso verso l’alto con un piano di monofore,
due di bifore e due trifore, la più alta delle quali ospitava la cella campanaria sulla quale svettava la cuspide a piramide. La cella sovrastante
che ammiriamo oggi è frutto dell’innalzamento
documentato dopo il 1596. Una possente struttura che, come ben ha fatto notare il Verzone,
rappresenta il momento di transizione tra gli
esemplari caratterizzati da un paramento murario molto animato nelle sue ornamentazioni
(S. Bartolomeo di Villa, San Pietro e Paolo di
Crevola, S. Brizio di Vagna) e i fusti con pareti
lisce prive di partizioni architettoniche (S. Lorenzo di Megolo, S. Ambrogio di Seppiana), il
che giustifica una datazione intorno alla metà
del XII secolo5.
Passiamo ad analizzare gli altri resti riferibi-
140
li all’epoca romanica o addirittura a precedenti
edificazioni: per rimanere al campanile, osserviamo all’altezza del secondo piano, nella parete
meridionale, una formella con un bassorilievo
raffigurante un drago che si attorciglia la coda,
rappresentazione con valenza simbolica negativa, in quanto questo animale è una delle più
frequenti immagini simboliche del demonio
nell’immaginario medioevale; una scultura animalesca stilofora, un leone più che un orso come
asseriva il Cavalli, che “proteggeva” l’ingresso
dell’antico portale, e quindi lo spazio consacrato
della chiesa dai malefici influssi del mondo profano; una colonna che sosteneva una croce con
un interessante capitello cubico, con quattro
facce decorate a rilievi zoomorfi e i 29 pregevoli archetti monolitici e cigliati, sostenuti da 30
mensolette di cui 28 figurate, ricomposti nella
parte superiore della facciata settecentesca. Non
tutte paiono originali, infatti la qualità e la perizia non sembrano omogenee e ci indicano diverse epoche di elaborazione e di integrazione.
La maggior parte reca una decorazione di
tipo geometrico, con alberelli stilizzati, intrecci viminei, motivi floreali e spiraliformi, nodi
a quattro occhielli. Alcune mensole sembrano
riprendere le rappresentazioni degli ornati di
Villadossola (San Bartolomeo) e di Trontano.
Qualche mensola invece presenta forme plastiche, come le due testine umane affiancate, che
ripetono un analogo rilievo della decorazione
della facciata dell’Assunta di Montecrestese,
dove si suppone vengano rappresentati Adamo
ed Eva. In questo caso si può ipotizzare un’allegoria del Padre e del Figlio o del segno zodiacale dei Gemelli, emblematici soggetti in cui
prevale quel dualismo “componente essenziale del
simbolismo romanico”6.
La visita a questa interessante costruzione
sacra, che, come abbiamo cercato di delineare
sommariamente, offre molti spunti per una piacevole ed edificante visita culturale ed artistica,
con le composte linee classicheggianti della sua
veste settecentesca, gli affreschi e le pregiate
suppellettili, è quindi vivamente consigliata. Se
invece salite in valle esclusivamente alla ricerca del fascino antico del Medioevo e delle sue
creazioni architettoniche ed artistiche, potreste
rattristarvi alla vista del campanile, ultimo ed
unico baluardo di quei secoli, così degradato e
mutilato e desideroso quanto mai di un efficace
“lifting” che ne elimini le impurità cementizie e
faccia affiorare la nobile superficie della muratura primitiva, e che apra nuovamente le finestre
che i maestri medioevali avevano concepito per
alleggerire e ingentilire la massiccia struttura.
Non lo chiediamo noi, ma il rispetto della
storia della valle e di questa chiesa in particolare, e soprattutto un minimo di decente e corretto senso estetico7.
Note
1
G. Pollini, Notizie storiche, Torino 1896.
T. Bertamini, Origine delle parrocchie della Valle Vigezzo, Comunità Montana Valle Vigezzo 2004.
2
3
E. Brusoni, Guida alle Alpi Centrali Italiane I, Domodossola 1892, p. 205.
4 C. Cavalli, Cenni statistico-storici della valle Vigezzo I,
Torino 1845.
5 P. Verzone, L’architettura romanica nel novarese, op.
cit., p. 339.
6 R. Cusa, Decoro romanico, Milano 1993, Vangelista
Editori.
7 Lavori di restauro alla torre campanaria sono stati intrapresi e portati a termine in tempi recenti (2006).
141
Santo Stefano
di Crodo
L’ultima propaggine settentrionale delle
terre indicate come ossolane è rappresentata
dalla lunga e spettacolare vallata, ora angusta e
tormentata, ora amena e lieta, che viene generalmente divisa in Antigorio e Formazza, e che
ospita e protegge il primo tratto della Toce, il
quale al suo culmine sorge per cominciare la sua
discesa verso i più sereni e distesi paesaggi del
lago Maggiore. Una serie di incantevoli paesini
e di suggestivi paesaggi si succede dal confine
meridionale, rappresentato dall’angusto restringimento roccioso della stretta di Pontemaglio,
sino alle somme catene che separano la Formazza
dal territorio elvetico.
Oltre alle superbe meraviglie della natura,
che fanno di questa parte della regione ossolana
un’ambita meta di villeggiatura e di ristoro,
alcune eccellenze artistiche e architettoniche ci
attendono con il loro carico di storia e di interesse. La prima che incontriamo è quella che
presenta i caratteri di maggiore antichità: la
parrocchiale di Crodo dedicata a Santo Stefano,
“madre delle chiese della valle sebbene quella di
Baceno splenda di veneranda e vetusta bellezza e
vastità”1. In effetti la chiesa di San Gaudenzio
si presenta oggi come la manifestazione architettonica di maggior pregio dell’intera Ossola,
come vedremo, ma anche il tempio di Crodo
merita la dovuta attenzione, in quanto recenti
studi, che hanno indirizzato pregevoli ed opportuni restauri, hanno portato alla luce elementi
di grande interesse del primitivo aspetto, che
ne hanno rivalutato l’importanza nel campo
sia storico, sia architettonico. L’antichità della
cappella di Crodo è abbastanza presumibile in
quanto anche nella valle Antigorio il messaggio cristiano giunse tra la fine del IV e l’inizio
del V secolo e, come vedremo per la chiesa di
Cravegna, i primi missionari sarebbero stati
1 - Crodo: la facciata della chiesa di Santo Stefano.
ancora i Santi Giulio e Giuliano. Un altro
importante indizio lo suggerisce la titolazione
a Santo Stefano, venerato dalla Chiesa come
protomartire, il primo testimone della Fede
a cadere di morte violenta, in nome di quel
Cristo che da poco aveva sconfitto la morte e
redento l’umanità. Commovente e attendibile
la cruda narrazione degli Atti degli Apostoli:
“…ma quelli, mandando alte grida, si turarono le
orecchie, e tutti insieme si precipitarono contro di lui,
lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono…
E lapidarono Stefano che pregava e diceva: ‘Signore
Gesù, ricevi il mio spirito’. Poi, piegate le ginocchia,
gridò ad alta voce: ‘Signore, non imputar loro questo peccato’. E, ciò detto, spirò” (At: 7, 57-60). La
lapidazione di Stefano, primo martirio della
storia cristiana, primo di una sterminata serie
che dura tuttora in molti luoghi del mondo,
alimentò certamente un fiorente culto fin dai
primi secoli, e molte cappelle ed oratori fin
da allora furono dedicati a questo Santo, tanto
importante che gli fu dedicato il giorno dopo il
142
Natale, poiché secondo una leggenda calabrese,
Stefano sarebbe nato il giorno dopo il Bambino
Gesù.
Non molto distante dalla regione ossolana,
il Santo viene onorato come patrono e protettore della città di Biella, il cui Duomo quattrocentesco conserva l’impianto romanico del
campanile.
Torniamo a Crodo. Agli inizi del Novecento
un critico come l’Errera liquidava la chiesa di
Santo Stefano descrivendola come una struttura
priva di “memorie antiche, se non in qualche lapide
di dubbia autenticità murata nel massiccio campanile. I rifacimenti del XVII secolo e posteriori hanno
tolto ogni interesse alla chiesa, tanto all’esterno con
cattivo gusto dipinto, quanto all’interno dove nulla
attira l’attenzione”2.
Non sorprende quindi che il Verzone, nella
sua catalogazione degli edifici romanici del
Novarese, non ne faccia menzione, e lo stesso
vale per la Mormandi, in tempi più recenti.
Il De Maurizi ricorda l’antichità della struttura come pieve della valle, ma è con il professor Bertamini che la chiesa di Santo Stefano
entra, e a pieno e meritato titolo, in un capitolo
importante della storia dell’architettura romanica dell’Ossola. Infatti nel 1975 le ricerche
dello storico rosminiano hanno portato alla
scoperta dei sottotetti che celavano l’antica e
pregevole muratura della struttura primitiva, la
quale ancora conservava egregiamente l’apparato decorativo, che si presenta indiscutibilmente
in chiare forme romaniche. Ma non è tutto: i
rifacimenti settecenteschi avevano coperto la
facciata sotto una spessa coltre di intonaco che,
sorprendentemente, una volta rimossa ha rivelato il paramento primitivo della struttura e,
fatto unico nell’Ossola superiore, si è riusciti a
recuperare questo fondamentale elemento architettonico nel suo aspetto originario.
La cappella di Crodo, che esercitava la cura
d’anime per conto della pieve madre di Oxila,
fu tra le prime ad erigersi a parrocchia indipendente nel corso del XII secolo, e ad assumersi
la responsabilità per tutta la valle, Formazza
compresa. Soltanto Baceno ambì precocemente
ad una propria autonomia, riconosciuta nello
stesso secolo, fermo restando l’obbligo del rico-
2 - Crodo: pianta dell’attuale chiesa di Santo Stefano
143
noscimento della matrice, il che diede inizio
ad una serie di incomprensioni e diatribe che
si protrarranno nei secoli tra le due comunità
ecclesiastiche in merito alle decime spettanti
alla chiesa madre.
Progressivamente si staccarono dalla chiesa
plebana di Santo Stefano la valle Formazza sul
finire del Trecento, e nel corso del Cinquecento
si formarono le parrocchie di Cravegna (1564) e
di Mozzio (1578)3.
Anche della chiesa romanica di Crodo è
documentata la consacrazione grazie al già citato prete di Domodossola, Gualberto, che afferma di essere stato presente a tale avvenimento;
un’altra testimonianza ci informa che il vescovo
Litifredo in persona era presente alla celebrazione. Litifredo fu a capo della diocesi novarese dal
1122 al 1151, periodo quindi in cui si colloca
la consacrazione della chiesa, che presumibilmente fu eretta qualche tempo prima: l’analisi
stilistica e il confronto con le altre chiese ci permettono di anticipare la datazione alla seconda
metà o alla fine dell’XI secolo4.
La planimetria era a navata unica rettangolare, lunga esternamente 18,40 m e larga 9,80,
e seguiva l’orientamento Ovest/Est con abside
semicircolare verso levante: tutto secondo lo
stile ossolano ormai ben codificato.
Le forme primitive di questa struttura sono
abbastanza ricostruibili dopo la scoperta dei
sottotetti, che hanno svelato le caratteristiche
decorative del paramento murario delle pareti
perimetrali. Questo si mostra organizzato in
maniera molto accurata, con conci di serizzo
abbastanza regolari, disposti in corsi alternati
di piatto e di taglio, uniti da sottili strati di
malta.
Questa cura nella muratura di per sé assume
già un valore decorativo, che diventerà nel corso
del XII secolo la caratteristica più evidente
nell’animato gioco ritmico e chiaroscurale delle
ampie campiture, scandite da riseghe e da membrature architettoniche di cui le più antiche San
Bartolomeo di Villadossola e Santa Maria di
Trontano furono i conclamati modelli.
Nonostante il pregevole e accurato paramento murario, la superficie presenta comunque
le tradizionali partizioni con otto campiture
3 - Crodo: la facciata della chiesa di Santo Stefano con il
maestoso campanile.
di dimensioni variabili, segnate da sette lesene squadrate e cintate da serie di tre archetti
assemblati con modesti conci di pietra uniti
con malta intorno ed appoggiati su semplici
peduncoli appuntiti, privi di motivi decorativi. Il fianco meridionale è aperto da quattro
finestre a doppia strombatura, archivoltate con
blocchi di pietra disposti a raggera. La parete
opposta, esposta a settentrione, non presenta
tracce di aperture per i noti e pratici motivi
meteorologici.
La struttura semicircolare dell’abside ripeteva con buona approssimazione il disegno ornamentale delle fiancate, e sull’alzata soprastante
144
la buona organizzazione della muratura presentava la tipica apertura cruciforme.
Il tetto a doppio spiovente rispettava la tradizione ossolana, con la copertura di piode sostenuta da robuste trabeazioni lignee. Dell’interno
sappiamo solo che aveva un soffitto piano, e
immaginiamo mura spoglie che convergono
verso il catino absidale, dove su un modesto
altare si celebrava il già millenario Mistero
dell’Incarnazione.
Grazie ai recenti restauri, la facciata è tornata
alla luce rivelando il suo antico prestigio5. Oggi
possiamo ammirare il paramento murario romanico, coerente con la decorazione delle fiancate,
con i suoi corsi regolari ed ordinati e disposti
a piatto e taglio, armonicamente inserito nelle
parti soprastanti e laterali, frutto dei lavori
settecenteschi, caratterizzate dai nitidi strati di
intonaco bianco con un risultato estetico degno
e rispettoso.
E’ consolante appurare finalmente interventi
di restauro ben documentati che, una volta conclusi, hanno migliorato la lettura complessiva
di un monumento. In Ossola non sempre si
sono rispettate la storia e la dignità estetica e
formale dei nostri beni architettonici.
Anche la muratura della facciata viene
contrassegnata da un’ampia specchiatura, delimitata da una risega che parte poco sopra il
portale e suddivisa in tre campi da due lesene
squadrate. Gli archetti seguono la pendenza
del tetto e sono raggruppati in serie di tre:
un’impostazione che ricorda l’alzata posteriore
della chiesa di San Bartolomeo di Villadossola
e la facciata della parrocchiale di Baveno. In
origine la facciata aveva anche una finestra circolare sopra il portale, e una bifora e una fascia
di archetti ciechi alla stessa altezza di quelle
delle pareti laterali, secondo quanto riportato
da un inventario redatto nel 1652, epoca in cui
la facciata “decorosa” non aveva ancora subito
l’innalzamento che comportò la perdita delle
caratteristiche originarie.
Il campanile “maestoso e degno di nota”, con i
suoi 25 metri di altezza e l’imponente guglia
a vele, è stato variamente interpretato, spesso
ricondotto allo stile romanico a causa della presenza di una fascia di archetti nella parte alta e
di un’errata lettura di alcune incisioni poste sui
tre blocchi di sarizzo ben visibili nella parete
che si mostra sul sagrato. Ma più che altro è lo
stile del campanile che non pare proprio accordarsi con gli altri fusti del periodo romanico: il
robusto impianto squadrato, formato da grossi
blocchi di sarizzo aperto solo da qualche feritoia
e dall’ampia monofora nella cella campanaria è
di epoca successiva e più probabilmente l’epoca
di costruzione sarebbe da ricercare nel secolo
XV. La guglia dalle linee slanciate è un’aggiunta cinquecentesca.
Tradizione ed armonia si fondevano in un
altro edificio di pregevole qualità che accresceva
il fascino dell’antico borgo di Crodo.
Naturalmente l’innalzamento al rango di
chiesa parrocchiale di tutta la valle comportava
la necessità di spazio maggiori e soprattutto
di nuovi altari che furono aggiunti in cappelle
laterali, ottenute mediante il taglio delle pareti
laterali e finanziate dai signori locali con donazioni e creazioni di benefici da trasmettere agli
eredi. Pratica consueta, che ribadisce l’importanza anche sociale di queste chiese e della fede
cristiana, che per secoli hanno rappresentato un
collante indissolubile della difficile storia delle
nostre comunità.
Ai primi del Cinquecento, l’impianto cominciò a modificare il progetto originario con la
formazione delle navi laterali, con l’apertura
di arcate a tutto sesto sulle pareti, sostenute da
tozze colonne. La consacrazione di cinque nuovi
altari nel 1523 ci dà un termine preciso di riferimento per l’esecuzione di questi interventi,
che riguardarono anche la conca absidale che fu
squadrata e resa più ampia.
Successivamente, nei primi decenni del
Seicento, queste nuove navate furono aperte in
facciata con le rispettive porte, mentre quella
centrale venne resa più decorosa con ornamenti
marmorei alla fine del secolo. Il portichetto di
semplici e di eleganti forme venne aggiunto
nel 1658, e la cappella con funzione di ossario
venne inserita a fine secolo tra il corpo della
chiesa e il campanile.
Nel Settecento la navata centrale fu alzata
e provvista di volta, e di conseguenza fu organizzata la facciata, la cui superficie muraria fu
145
ricoperta e intonacata. Nel 1782 fu completato
l’ampliamento del coro e nel decennio seguente
lavori di manutenzione ristabilirono le guglie
del campanile.
Nonostante il parere negativo dell’Errera,
anche nella chiesa di Crodo si possono osservare interessanti testimonianze artistiche che
meritano considerazione. Innanzitutto la bella
vasca battesimale, “aggraziatissima”, scolpita in
marmo di Crevola con gusto sobrio e raffinato,
con un fascio di semicolonne che raccorda il
basamento di forma ottagonale con la vasca,
ornata di festoni floreali di classica memoria.
Nell’altare di San Pietro, appoggiato a metà
della navata sinistra, è conservata una pala
di pittore anonimo ma di pennello felicissimo, da quello che osserviamo: raffigura una
Madonna con Bambino che consegna le chiavi
a San Pietro, San Paolo, un altro santo e, alla
sinistra di Maria, il “papa ossolano” Innocenzo
IX, originario della limitrofa Cravegna, al
secolo Giovanni Antonio Facchinetti, sommo
Pontefice per soli due mesi nel 1591. La sua
salma riposa in un sarcofago marmoreo nelle
Grotte Vaticane a pochi metri dai grandi papi
degli ultimi decenni, Paolo VI, Giovanni Paolo
I e Giovanni Paolo II. E’ proprio dalla capitale
della Cristianità che arriva questo pregevole
dipinto, grazie alla generosità di qualche emigrante che volle omaggiare la parrocchia della
sua terra natale.
Agli amanti della tecnica ad intarsio consigliamo di vedere l’interessante armadio della
sacrestia, completato intorno al 1648 e abbellito dalle sculture di Giorgio de Bernardis di
Buttogno. Anche nella parrocchiale di Crodo
possiamo vedere i frutti della feconda opera
di Lorenzo Peretti, attivo negli affreschi della
volta della cappella del santo Rosario, a capo
della navata di destra, tra il 1833 e 1834, e nei
quindici quadretti con i Misteri del S. Rosario,
sorprendenti ed ispirati nelle miniaturistiche
pennellate dagli esiti cromatici felicissimi.
Bello anche l’altare maggiore, impreziosito da
marmi policromi. Peccato invece che i brutti affreschi ottocenteschi di modesta qualità
abbiano imbruttito la navata centrale e la volta
del presbiterio.
Della prima metà del Settecento si fa ammirare il coro ligneo addobbato con angioletti e
amorini di ottima esecuzione. Nella cappella di
Sant’Anna, oltre alla bella pala, opera di pennelli riferibili alla scuola del Peretti, si trova l’urna
che protegge i resti mortali di Santa Lupercilla,
giovanissima martire dei primi secoli cristiani,
la cui salma venne trasportata dalle catacombe romane di San Callisto e data in dono alla
comunità parrocchiale nel 1819, e che da allora
affianca il Santo Titolare della chiesa come
patrona del paese.
Insomma, un interessante edificio, ricco di
storia e di arte da rivalutare e da conoscere.
Anche ai piedi del monte Cistella abbiamo
potuto analizzare testimonianze del periodo
romanico e ancora una volta, nonostante gli
ottimi interventi di restauro, il rammarico per
ciò è stato nascosto e trasformato ci induce a
malinconiche riflessioni sul destino di queste
case di Dio, con troppa facilità manomesse e
alterate.
Note
1
L. Pellanda, “L’insigne Collegiata di Domodossola”,
Domodossola 1943, p. 182.
2 C. Errera, “L’Ossola”, Bergamo 1908, p. 70.
3 T. Bertamini, “L’Ossola nella diocesi di Novara”, in
Oscellana 1995, p. 222.
4 T. Bertamini, “Santo Stefano di Crodo”, in Oscellana
1976, p. 47-52.
5
G. Bianchetti, “La facciata di S. Stefano di Crodo”,
in Oscellana 1977, p. 187-188.
146
San Giulio
di Cravegna
Tra le frazioni che nella nostra epoca sono
raggruppate nel comune di Crodo, ci sono
alcune graziose località appoggiate sul dolce
versante orientale del monte Cistella: dalla antica parrocchiale che abbiamo appena visitato ci
muoviamo alla loro scoperta. Ecco Mozzio, con
il suo piccolo ma incantevole Santuario della
Madonna della Vita: anche se non c’entra nulla
con il periodo romanico, vi consigliamo vivamente una sosta per vedere i soffitti “squarciati”
dalle paradisiache visioni affrescate dal Borgnis,
la cui ispirazione tocca qui momenti di grazia
notevolissima. Le serene figure e il raffinato
impianto coloristico acquietano la mente e rinfrancano lo spirito. Come sono lontani, geograficamente e stilisticamente, i soffitti barocchi
romani di Pietro da Cortona e di padre Andrea
Pozzo, con le loro dinamiche ed esuberanti
rappresentazioni celesti. Attraversiamo l’amena
Viceno ed arriviamo a Cravegna, dove concentriamo la nostra attenzione davanti alle sacre
mura di San Giulio, “chiesa assai più notevole dal
lato artistico che non s’attenderebbe il viandante capitato per caso lassù”1.
Dell’antichità di questo illustre monumento
architettonico ci sono varie indicazioni, tra le
quali spicca il santo a cui è dedicata, ancora quel
Giulio che, con il fratello Giuliano, portava la
nuova ed altissima Speranza rappresentata dal
Vangelo alle popolazioni delle terre dell’alto
Novarese, edificando nuovi templi o adattando
quelli esistenti al nuovo culto: “portossi nell’Ossola, ed in primo luogo si condusse a Cravegna, dove
eresse la chiesa parrocchiale”. Secondo la tradizione, proprio a Cravegna cominciò l’infaticabile
opera di questa produttiva “compagnia edile
sacra”, che concluderà la sua attività sulle acque
del lago d’Orta con le costruzioni di Gozzano e
dell’isola del medesimo lago, la centesima, che
1 - Cravegna : Chiesa di San Giulio, particolare di due
protomi che decorano una parete della facciata.
il santo decise di scegliere come estremo ritiro.
Sulla scelta di Cravegna può avere influito il
fatto che fosse in quel tempo un importante
borgo, che già in epoca romana possedeva un
“certo sviluppo civile”, come attestano alcuni
ritrovamenti archeologici.
Ci portiamo davanti al complesso sacro,
posto ai margini meridionali del paese, dove
le abitazioni private lasciano lo spazio a prati
e boschi. Preceduto da un viale alberato e da
un morbido sagrato erboso, il tempio si lascia
riconoscere subito per la calda muratura a vista
della facciata. E’ facile cadere nell’inganno di
pensare di trovarsi di fronte finalmente ad una
147
struttura medioevale integra nelle sue caratteristiche principali. Anche in questo caso veniamo
delusi, almeno in parte; infatti davanti a noi si
stagliano le pur notevoli forme di una struttura
cinquecentesca. Stavolta meritano un plauso
questi anonimi costruttori, in quanto nella loro
opera hanno voluto rendere un omaggio alla
tradizione e alla storia di quel luogo, modellando una facciata in pietra viva del tutto coerente
con l’architettura romanica e addirittura utilizzando materiale della precedente chiesa, che
sicuramente venne edificata nei secoli romanici
e quindi nel XI o nel XII secolo. Solo nel 1291
troviamo un documento che attesta l’esistenza
della chiesa e del cimitero attiguo2.
Osserviamo subito che la struttura cinquecentesca che abbiamo davanti segue l’orientamento nord-sud, diversamente dalla antica, che
era orientata secondo il canonico asse ovest-est,
senza eccezioni fondamentale caratteristica delle
primitive cappelle, dalla quale anche la nostra a
Cravegna non si discostava.
Un’altra particolarità si fa notare ai nostri
occhi moderni, ed è la spiccata tendenza al verticalismo della facciata “a salienti” che la slancia
maggiormente rispetto alle chiese romaniche
ossolane che abbiamo analizzato, le quali si presentano piuttosto schiacciate e compatte.
E’ segno che ormai l’architettura gotica
aveva lasciato la sua influenza. Non per niente le chiese di Cravegna e di Baceno vengono
considerate nel territorio ossolano come testimonianze del passaggio dal romanico al gotico,
e gli interni con le ariose arcate a sesto acuto lo
manifestano ampiamente3.
L’attuale muratura si presenta pregevole con
i notevoli blocchi di serizzo perfettamente squadrati e affiancati in corsi regolari e paralleli. La
forma della facciata segue perfettamente le linee
delle tre navate che caratterizzano la pianta
della struttura, e due paraste ne segnano i margini. Volgiamo lo sguardo verso la parte alta,
dove si concentrano maggiormente le memorie
del precedente tempio romanico: nel triangolo
che delimita il timpano sono stati sovrapposti
tre corsi di archetti ciechi di sarizzo, monolitici,
così suddivisi: nella prima fascia, appena sotto
la cornice aggettante che fa da base al timpano,
sono allineati 17 archetti, nella seconda, quella
mediana, 10, e nella più alta ne contiamo 7.
Questi due fasci superiori si alternano con due
cornicette a denti di sega. Due aperture cruciformi, una aperta sotto le fasce di archetti e
l’altra chiusa con blocchetti di pietra più chiara,
proprio sotto il vertice del timpano richiamano
le tipiche finestre romaniche: un altro riverente
richiamo alla tradizione.
Quindi ribadiamo insieme al Bertamini che
“la facciata romanica della chiesa di San Giulio
non è originale, ma una ricomposizione di elementi
di recupero, analogamente a quello che avvenne anche
in altre chiese viciniori e specialmente in quella di
Baceno di cui arieggia lo stile”. L’intera costruzione risulta terminata nel 1523.
Continuiamo con l’esame degli altri elementi della facciata e notiamo sulla parasta
sinistra due interessanti protomi ben modellate,
anch’esse elementi decorativi di recupero, che
potrebbero far pensare ad altri simili che decorano molte chiese medioevali anche nel nostro
territorio: scolpite da blocchi di granito grigio,
raffigurano un uomo contrassegnato da tre
vistosi bulbi sotto il mento e un volto femminile con un copricapo ornato da piccoli gioielli.
Ricordano vagamente alcuni volti che avevamo
visto plasmati nelle mensole dell’Assunta di
Montecrestese. Secondo un’antica tradizione
riportata anche dal Bettinelli4 sarebbero due
ritratti dei feudatari del luogo, i De Rhodis,
che avrebbero pure finanziato l’opera. Questa
affascinante memoria non ha trovato riscontri
d’archivio e peraltro, secondo il Bertamini, le
due sculture sono databili non prima del XIV
secolo. Il protiro fu aggiunto, come per altri
templi ossolani, per volere del vescovo Bascapè
dopo la visita pastorale del 1596, per proteggere l’entrata caratterizzata da un bellissimo
portale, datato 1516, di cui ammiriamo le
pregevoli modanature in marmo di Crevola che
circondano la lunetta, decorata da un dipinto
di Battista da Legnano, malamente ridipinta
nell’Ottocento. Nello stesso materiale, anche se
più tardo, è il rosone collocato sopra il portico al
centro della facciata: peccato che l’inserimento
abbia sfondato il bel paramento, senza che si sia
provveduto ad integrarlo in maniera adegua-
148
2 - Cravegna, Chiesa di San Giulio, particolare del timpano in cui sono stati utilizzati elementi decorativi del primitivo
edificio romanico.
sagoma del santo dipinta, pare, dallo stesso artista, Antonio Zanetti da Borgomanero, passato
alla storia dell’arte locale con il soprannome
“Bugnate”.
Nella parte opposta alla grande figura del
santo, e quindi alla sinistra del portale, un alone
cementizio si evidenzia interrompendo l’ordinata disposizione della muratura; anche la parasta
risulta completamente ricostruita: è un ricordo
dell’antica sagoma del campanile romanico che
si trovava proprio in quel punto, e che fu incluso nella struttura della facciata cinquecentesca
che abbiamo appena delineato. Era di modeste
dimensioni e mal si adattava alla nuova realtà
architettonica. Nel 1769 un fulmine distrusse
la parte superiore della torre, danneggiando
seriamente la parte rimasta. In questa occasione
fu presa la decisione di abbatterlo e di costruir-
ta come possiamo osservare dalla disordinata
striscia di cemento che segue la circonferenza
del rosone. Anche a Cravegna troviamo traccia
di un’antica e consolatoria pratica devozionale,
ossia quella di porre un gigantesco affresco di
San Cristoforo sulla fronte delle chiese, in modo
da essere visibile anche da considerevoli distanze, cosicché i viandanti e i pellegrini potessero
essere ristorati e incoraggiati dalla vista del
loro santo protettore. Oggi, abituati a viaggi
segnati dal comfort più estremo, può far sorridere un’usanza di questo genere, ma non certo
nei secoli passati, quando gli spostamenti e i
viaggi erano soggetti a svariati ed imprevedibili
pericoli. Attualmente il culto di San Cristoforo
si è modernizzato e a questo santo si rivolgono,
speranzosi, i ferrovieri e i motociclisti.
Anche a Baceno ritroveremo la rassicurante
149
3 - Cravegna : facciata della Chiesa di San Giulio.
ne un altro maggiormente decoroso e di dimensioni più adeguate, a poche decine di metri
dalla chiesa e appena fuori il sagrato. La prima
pietra fu posta nel 1771 e per quasi un decennio
si alzò una robusta ed imponente torre, con una
cella campanaria aperta da finestre a serliane e
sormontata da una cupola ottagonale. In una
parete del fusto un busto bronzeo collocato
in una nicchia ci ricorda l’illustre oriundo di
Cravegna, “massimo figlio” di due concittadini
del paese, il pontefice Innocenzo IX che abbiamo visto ritratto nella pala d’altare nella chiesa
di Santo Stefano di Crodo.
La struttura venne infine completata con
la messa in posa dei vari altari, dei quali ne
sopravvivono sei, collocati in cappelle aggettanti verso l’esterno della costruzione, e con la
ricostruzione dell’area cimiteriale che fu allogata nel terreno sul retro della chiesa.
L’interno, suggestivo e coinvolgente, è diviso
in tre navate alleggerite da archi a sesto acuto
appoggiati su due file di tre colonne di sarizzo
“sciaguratamente dipinte ad imitazione di porfido con
capitelli color canarino…”. L’arco trionfale, sempre a sesto acuto, separa la navata mediana con
il bel coro impreziosito dai vivacissimi affreschi
con scene della Passione di Cristo di Battista
da Legnano, abile artista proveniente dall’area
lombarda, di cui porta con sé le influenze
pittoriche legate alla tradizione rinascimentale di Vincenzo Foppa, pregne di un pacato
realismo su cui si innestano le impressioni dei
grandi innovatori dell’arte lombarda segnati
dall’avvento di Leonardo, Bramantino su tutti.
Bellissima la Crocifissione sulla parete di fondo
del presbiterio, in cui la raffigurazione s’adatta
con estrema incisività alla superficie della parete, che include il rosoncino traforato e due eleganti finestre trilobate di chiara impostazione
gotica. Ma tutto il ciclo di affreschi merita la
nostra attenzione, per il felice impianto cromatico che impreziosisce composizioni ben equilibrate nella disposizione delle figure, ed efficaci
nella pacata e trattenuta espressività.
Un altro mirabile quadro è da vedere nella
cappella dell’Epifania, nella prima campata
150
della navata destra: raffigura una Adorazione dei
Magi del XVII, secolo di un autore di scuola
bolognese, caratterizzato da un impasto coloristico caldo e morbido. Un cenno merita anche
l’affresco quattrocentesco della Madonna con
Bambino nella cappella a Lei dedicata, in capo
alla navata sinistra. Un tempo decorava la facciata della gloriosa chiesa romanica, nel 1492
fu protagonista di fatti miracolosi e ben documentati, analogamente a quanto accadrà due
anni dopo a Re, in valle Vigezzo. Ovviamente
questo generò una fervida ed intensa devozione,
con processioni ed altre manifestazioni di fede,
che si perse con il tempo fino quasi a scomparire
del tutto, mentre maggiore fortuna ebbero il
ricordo dei fatti di Re e del Boden di Ornavasso,
sempre per rimanere in Ossola, ancora oggi
mete di intensi pellegrinaggi.
Ricordiamo anche il bel fonte battesimale
in marmo di Crevola del 1564, opera dello
stesso scultore che realizzerà quello di Crodo,
di cui ricorda abbastanza fedelmente le forme e
l’ornato di stampo classico, e il pregevole armadio della sacrestia della fine del Cinquecento,
recentemente restaurato, che richiama moduli
decorativi nordici.
Il complesso sacro, oltre alla chiesa e al
cimitero, comprende anche l’oratorio di San
Giovanni Battista, alla destra dopo l’entrata
del sagrato, sorto intorno alla metà del XVII
secolo, legato alle pratiche devozionali della
Confraternita dei Disciplinati di San Giovanni
Battista e dirimpetto un Ossario costruito circa
un secolo dopo, di cui restano le mura e il tetto,
recentemente rinnovati.
Appena fuori del recinto sacro, a pochi metri
dalla base del campanile, è posta una colonna
che sostiene una croce, datata 1646, che un
tempo si trovava all’interno del sagrato, tra
l’Ossario e l’Oratorio.
Ci è davvero difficile lasciare questo luogo
piacevolissimo in cui le mura sacre colme di
storia si ergono in un paesaggio alpino maestoso
ed incantevole, dove gli occhi possono spaziare e
alternare la visione tra capolavori della natura e
capolavori dell’uomo, qui osservabili in magica
e perenne simbiosi. Cosa chiedere di meglio, se
non tornarci?
Note
1 C.
Errera, “L’Ossola”, op. cit., p. 66.
T. Bertamini, “Cravegna, Storia, fede e arte”, Cravegna
2002.
3 G.Mormandi, “L’architettura romanica della Val
d’Ossola”, tesi di laurea, Università Cattolica di Milano
1967/68, p. 28.
4 C.Bettinelli, “Memorie storiche ed artistiche della chiesa
monumentale di Baceno”, Saronno 1957.
2
151
San Gaudenzio
di Baceno
Pochi chilometri e qualche tornante separano Cravegna da un altro luogo straordinario dal
punto di vista sia artistico, sia paesaggistico:
Baceno, con la sua splendida chiesa monumentale dedicata a San Gaudenzio, la manifestazione architettonica più imponente dell’Ossola e
delle sue valli.
Arroccata su un colle roccioso “proteso verso
le forre dove ribolle nell’ombra perpetua delle pareti
strapiombanti il torrente Devero”, ai margini del
paese, la chiesa s’impone alla vista con il suo
massiccio e robusto impianto che ormai occupa
la gran parte del poggio su cui si è sviluppata
nei secoli, con il quale armonizza alla perfezione.
Affascinante ripercorrerne le vicende storiche, in quanto questo imponente complesso
è originato, prima dell’anno Mille, da una
semplice cappella di modeste dimensioni che
occupava un lembo di terreno modesto rispetto
all’attuale collocazione.
Baceno è adagiata in una meravigliosa conca
verdeggiante, nel punto di convergenza tra le
vie che conducono alle superbe bellezze della
valle Formazza e dell’alpe Devero.
Abbiamo visto come dal XII secolo la valle
Antigorio dipendesse per gli uffici sacri dalla
pieve di Santo Stefano di Crodo, dopo che questa, nei secoli precedenti, era stata sussidiaria
della pieve di Domodossola. E abbiamo notato
come la comunità di Baceno si sia distaccata
precocemente da quella di Crodo già sul finire di quel secolo, o al più tardi, agli esordi di
quello successivo, con l’obbligo di riconoscere
dei benefici alla chiesa matrice, che causeranno
secolari contrasti fra le due comunità.
Gli archivi ci parlano di un’antica cappella
di Baceno di proprietà del Vescovo di Novara
Gualberto, che resse le sorti della diocesi nova-
1 - Baceno: panoramica del paese.
rese tra il 1032 e il 1039. Questo vescovo aveva
rapporti di parentela con quei signori feudali che
i libri di storia denominano Conti di Castello, i
quali erano a loro volta legati ai feudatari della
valle Antigorio, i vari De Rodis, De Baceno,
De Campieno che formeranno quella nobiltà
armata che avrebbe signoreggiato su questa
amena vallata. Il professor Bertamini ipotizza
che il luogo dove si costruì la cappella, forse
preceduta in origine da un tempietto pagano,
faceva parte di un complesso che comprendeva
anche un modesto fortilizio, uno dei tanti sorti
a difesa di quel poco di difendibile che offrivano le nostre povere valli, fiaccate come il resto
152
sostituire
con diapo “Baceno panoramica di
Antonio Fabbri”
sco 297
scheletriche mura di un antico maniero lasciato
impietosamente decadere.
Quindi la nostra era una tipica cappella
“ad castrum”, analoga a tante altre nell’arco
alpino; la stessa Santa Maria del Piaggio che
abbiamo incontrato sulle sponde dell’Ovesca a
Villadossola era stata eretta con questo servizio.
Nel vasto e piacevole sagrato che la ospita, il
tempio ha assunto nel tempo l’aspetto attuale,
che si caratterizza con un impianto a cinque
navate, unico esemplare in terra ossolana con
questa peculiarità, riservata solitamente ai centri maggiori, preceduto da una robusta facciata
della penisola da secoli di scorrerie barbare nei
tremendi secoli altomedioevali, dove solo dopo
l’anno Mille cominciavano a palesarsi i segni di
una lenta ma inesorabile ripresa, di cui l’edificazione o la ricostruzione delle chiese era uno dei
segni più tangibili. In queste rocche recintate,
erette su alture strategiche, si ammassavano i
poveri abitanti, le loro bestie e gli scarsi averi
nei momenti di estremo pericolo, e pensiamo
che non siano stati pochi.
Oggi questi castelli sono quasi tutti scomparsi nell’oblio millenario, ma poco più a valle,
precisamente a Rencio di Crodo, sopra un enorme masso sono ancora visibili le sopravvissute e
153
che segue la forma a capanna del tetto. Gli
ampliamenti e gli estesi interventi di decorazione non hanno comunque cancellato del tutto
le preziose tracce della sua veste romanica.
Cerchiamo di rintracciarle per meglio delinearne il primitivo aspetto.
Osserviamo innanzitutto che la cappella
romanica, che occupava la parte più elevata
all’estremo lembo meridionale dell’altura rocciosa, era fedele all’orientamento canonico di
antica memoria ossia Ovest verso Est, mentre per
gli ingrandimenti successivi fu imprescindibile
seguire la direzione perpendicolare ed ampliarsi
verso nord. La dedicazione con la quale è citata dalla carte d’archivio è quella all’indomito
santo vescovo di Novara, Gaudenzio, che resse
la diocesi nei difficili e pionieristici anni che
vanno dal 337 al 417, epoca cruciale e decisiva
per l’espansione della nostra religione. La sua
collaborazione con Sant’Ambrogio nella predicazione e nella difesa dell’ortodossia del messaggio cristiano dagli attacchi delle eresie, ariana
innanzitutto, e delle ultime e tenaci sacche del
paganesimo ne fanno una della figure chiave
della storia della Chiesa delle nostre terre.
Le dimensioni di quel piccolo edificio, probabilmente fatto costruire o ricostruire dallo
stesso Gualberto che in seguito la cederà ai
canonici di Santa Maria di Novara, sono quelle
del rettangolo compreso fra l’attuale campanile
e l’angolo Sud-Ovest del presbiterio, che misura
14 metri in lunghezza, 9 in larghezza e circa 12
in altezza1. Dalle parti originali della struttura
primitiva sopravvissute possiamo farci un’idea
delle sue prestigiose quanto semplici forme
romaniche, che rispecchiano coerentemente e
fedelmente lo stile delle altre chiese ossolane.
La facciata era divisa da due lesene che formavano tre specchiature che si concludevano in
alto con gli archetti: cinque nelle specchiature
esterne, quattro in quella centrale. Questa era
caratterizzata dal portale, dalla relativa lunetta
archivoltata con conci a raggera e dalla bella
bifora con colonnina e capitello a gruccia, ancora visibile, che convogliava la luce all’interno.
La corona di archetti delle specchiature era sormontata da una banda di “denti di sega”, che
correva per tutto il perimetro della costruzione,
dal timpano aperto dalla finestra a croce e dagli
archetti modulati secondo gli spioventi del
tetto. Le fiancate ripetevano l’animata muratura della facciata, con una regolare scansione di
specchiature ritmate da lesene che dividevano
gli archetti in gruppi di tre. Per l’abside supponiamo la stessa decorazione e le tipiche finestre
strombate per illuminare il catino absidale.
Come a Villa e a Trontano, uno zoccolo di 2,30
metri segue le pareti esterne; uno più basso di
un metro distingue la facciata. Del campanile
posto in luogo dell’attuale non ci resta nulla,
se non la fantasia per immaginarcelo bello ed
armonioso, secondo la consuetudine ossolana.
Una cappella romanica pregevole, dunque,
che conferma l’omogeneità di stile e di gusto
che accomunava le strutture dell’Ossola superiore. Per qualcuno è indice di ripetitività e di
scarsa fantasia; per noi di scarso c’erano solo i
mezzi e le possibilità di edificare edifici monumentali ma per quanto riguarda il resto, dal
poco di originale che è giunto a noi deduciamo
la grande capacità di sfruttare al meglio ciò
che il luogo e la natura concedevano con un
risultato che il più delle volte ci meraviglia per
l’austera ed armonica bellezza.
Dal XIII secolo cresce e si consolida la
potenza feudale dei De Rodis, che naturalmente
rivolgono la loro attenzione anche alla chiesa
parrocchiale, legando il loro nome all’erezione
di nuove cappelle ed altari, insieme a confraternite piene di zelo e di fervore. Questo fenomeno
porta inevitabilmente con sé l’ampliamento
della nostra cappella, in concomitanza con
l’aumento demografico i cui effetti si palesano
anche in valle.
La prima modifica all’impianto primitivo fu
proprio la costruzione di due cappelle aggettanti nella fiancata settentrionale, nei primi
decenni del XIV, dedicate alla Madonna e a
Santa Maria Maddalena, questa documentata
nel 1434. Il successivo intervento fu l’aggiunta
di un piccolo portico davanti alla facciata, che
col tempo si trasformerà nell’attuale cappella
del Rosario, come attestano i resti di un affresco incorniciato in una lunetta, raffigurante
una Madonna allattante, databile agli inizi del
1400. Come in altre chiese, la lunetta dipinta
154
si
conto
2 - Baceno: veduta della facciata della Chiesa di San Gaudenzio. Da notare il timpano con elementi decorativi della primitiva
cappella romanica
faceva bella mostra di sé sopra il portale di
facciata. Lo abbiamo appena appurato sopra il
portale di Cravegna, che presenta lo stesso soggetto iconografico.
Il momento storico tra Quattrocento e
Cinquecento segna per la regione ossolana,
e per la valle Antigorio in particolare, un
momento di notevole espansione economica per
un maggiore attivismo degli abitanti, disposti
anche ad emigrare verso terre di maggiori ricchezze: Lombardia, Toscana, Svizzera, Francia,
Germania, solo per citare le più ambite, anche
per intraprendere mestieri umilissimi: spazzacamini, ciabattini, stallieri oltre ai più elevati
come pittori, orafi e mercanti in genere. I sacrifici di questi emigranti furono spesso premiati,
e la loro fortuna ebbe una ripercussione anche
nelle valli che avevano lasciato, grazie al denaro
che inviavano ai familiari rimasti in patria e a
donazioni di vario genere. Anche le campagne
militari che caratterizzarono questi secoli, e che
spesso videro l’Ossola come scenario di battaglie e di scontri, fra cui rimase epico quello
che decretò la fine delle incursioni svizzere al
155
ponte di Crevola nel 1487, con il decisivo intervento delle truppe viscontee, ebbero risonanza
sulla nobiltà ossolana, che ne uscì rinforzata e
arricchita. Paolo Della Silva fu l’archetipo del
guerriero che, grazie al coraggio e alle indubbie qualità militari, accrebbe la sua fortuna e
il prestigio della sua famiglia, e l’omonimo
palazzo, eretto nel 1519, che onora il centro di
Domodossola, unica vera gloria dell’architettura
rinascimentale della nostra terra, lo testimonia
ampiamente. Già abbiamo ravvisato le tracce
della sua illuminata committenza nell’abbellimento e nel rinnovamento della parrocchiale di
Crevola. Nello stesso periodo vengono ampliate
le parrocchiali di Varzo, di Domodossola, di
Montecrestese, di Crodo, di Villadossola (purtroppo…), di Cravegna e ovviamente di Baceno.
Dopo quasi due secoli di quasi totale assenza
di produzione architettonica, ecco ricomparire
cantieri e maestri in grado di gestirli.
Quindi non deve stupire più di tanto l’imponenza della chiesa che sorgerà nello spazio di un
secolo su questo colle, inglobando la nostra pur
notevole cappella romanica. Una monumentalità e una magnificenza esornativa che certo
sorprendono in paesino di montagna quale era
ed è Baceno.
La piccola chiesa quindi non poteva bastare alle esigenze di questa comunità in forte
espansione economica e sociale, e si decise
così di ingrandirla: vista la posizione sul colle,
l’ampliamento dovette necessariamente abbandonare l’orientamento della cappella e svilupparsi perpendicolarmente verso nord e in lieve
pendenza, andando a invadere quella parte di
terreno un tempo occupata dal castello e dalle
sue fortificazioni. La cappella divenne quindi
il presbiterio della nuova chiesa, subendo l’abbattimento della parete settentrionale e delle
relative cappelle, e la costruzione della navata
rettangolare che praticamente era larga quanto
la lunghezza dell’edificio romanico.
Per aumentare la stabilità e il sostegno
del massiccio e gravoso tetto di piode furono
aggiunte due piccole navatelle. Come a Crevola
e a Cravegna, due file di colonne segnarono le
navate e diedero sostegno alle arcate a sesto
acuto, lasciando trapelare quell’attardato gusto
6 - Baceno: Chiesa di San Gaudenzio, particolare della
muratura della cappella originaria sopravvissuta ai vari
ampliamenti.
gotico di derivazione transalpina che caratterizzò le nostre vallate nel corso del Cinquecento,
mentre il resto della penisola coglieva ormai i
frutti più maturi dell’esaltante esperienza rinascimentale. Anche il presbiterio fu coperto con
una volta a crociera e illuminato da una finestra
che culmina con un arco a sesto acuto in luogo
della consueta arcatella a tutto sesto.
Il soffitto delle tre navate era caratterizzato
da una copertura lignea a cassettoni, mentre il
tetto era assicurato da robuste capriate di legno.
La facciata in serizzo venne aperta dal portale
e dal rosone in marmo di Crevola, anch’esso di
stile prettamente goticheggiante, e decorata,
nel triangolo superiore del timpano, con gli
archetti monolitici della vecchia chiesa romanica, organizzati in tre corsi paralleli sovrapposti,
coronati dalla cornice a dente di sega, secondo
il medesimo disegno che caratterizza la faccia-
156
ta del tempio di San Giulio di Cravegna, che
prevedeva anch’esso le due aperture cruciformi,
una aperta e una chiusa, nella parte terminale
del timpano. E’curioso questo reimpiego di
materiale antico con una nuova e diversa funzione decorativa.
Il completamento di questa fase dei lavori
che il Bertamini definisce “momento gotico”, è documentato nel 1505, ma certo non si
esaurisce l’ansia di abbellire e di ingrandire la
chiesa di San Gaudenzio da parte del popolo
e della prestigiosa committenza. Si sostituisce
innanzitutto il campanile romanico, che non
doveva essere di imponenti dimensioni, con
una struttura proporzionata al nuovo aspetto
della chiesa. S’innalza una superba torre con
una base di 7 metri per lato, elevata sino alla
ragguardevole altezza di 31 metri, con la cella
campanaria aperta da quattro finestre bifore, in
seguito sostituite da altrettante aperture con
arco a tutto sesto. Un ricordo dell’antico fusto
romanico è ravvisabile nelle tre file di archetti
che caratterizza le tre cornici terminali. Una
bassa cuspide chiudeva la pregevole costruzione, datata al 1523. Nel secolo successivo fu
posta l’attuale guglia, snella e slanciata, che
portava a 50 metri l’altezza totale dell’imponente fusto, che divenne parte integrante
dell’incantevole panorama di questa porzione
della valle Antigorio.
Nel 1524 viene consacrata la nuova chiesa,
ma negli anni seguenti un nuovo cantiere era
in piena attività per ampliare lo spazio con
l’aggiunta di due navate laterali, più ampie
delle precedenti. Per ricavare le nuove navate fu
necessario tagliare i muri perimetrali con arcate
a tutto sesto, e non più a sesto acuto, poggianti su quattro basse e tozze colonne sulle quali
si impostarono anche le volte a crociera, che
vennero a coprire le cinque cappelle per parte
che si formarono. Dei semipilastri fissati alle
pareti estremali rassicurarono vieppiù queste
nuove formazioni, che insieme alle volte a botte
delle navatelle (“singolari corridoi” li definisce
l’Errera) intermedie concorsero ad un’adeguata
distribuzione delle spinte del massiccio e vasto
tetto a due spioventi che gravava sull’edificio.
Caratteristico il contrasto stilistico tra gli archi
acuti, imponenti e leggiadri, che segnano la
navata centrale, e gli archi a tutto sesto, bassi e
pesanti, che delimitano le navate laterali. Sulla
porta orientale della facciata è riportata la data
del 1546, che probabilmente indica la fine di
questo intervento, che comportò anche l’ampliamento della zona del presbiterio. Nel Seicento
(1626) registriamo la costruzione della grande
cappella dedicata al Santissimo Sacramento,
curata dall’omonima Confraternita, che aprì
ulteriormente parte della fiancata occidentale; a
fine secolo (1698) si rinnova anche l’abside, che
assume forma semiottagonale, e si costruisce la
nuova sacrestia che va porsi tra essa e il campanile. Nel 1715, sempre sulla parete occidentale,
viene aggiunta una cappella dedicata a Santa
Vittoria, poco aggettante rispetto alla precedente cappella del SS. Sacramento, per accoglierne
le sacre spoglie, provenienti dalle catacombe
romane.
Nell’Ottocento si rinnovano i soffitti con
i medaglioni affrescati da Gian Maria Bonari
(1824-25), che sostituiscono la precedente soffittatura a cassettoni. Il Novecento registra la
costruzione all’esterno della struttura, di una
grotta (1914) che ricorda le miracolose apparizioni della Vergine a Lourdes.
Attenteremmo al nostro amore per le arti se
non citassimo almeno il formidabile apparato
decorativo, pittorico e non, che fa di questa
chiesa un vero e proprio museo di arte sacra.
Per gli amanti degli affreschi, questa chiesa
è pura manna dal cielo, in quanto sono presenti
e visibili, e in discrete condizioni di conservazione, alcuni cicli davvero ragguardevoli per
tecnica di esecuzione e per interesse iconografico. Gli stili che possiamo ammirare e studiare
vanno dal tardo gotico al Rinascimento maturo
e oltre. Il primo nome da citare è quello di
Giacomo di Cardone, che nella seconda metà
del Cinquecento affrontò l’intera decorazione
delle volte e dei sottarchi delle navate laterali,
da poco erette, e intervenne con altri saggi del
suo stile, manieristico con decisive influenze
nordiche, nel battistero e nella parete di controfacciata con un’ Ultima Cena interessantissima per le novità compositive, per il gusto
cromatico e per l’innovativa scelta iconografica.
157
Un’opera veramente “grandiosa per il tempo e il
luogo in cui venne realizzata”2.
La grazia e la raffinatezza tardo-gotica caratterizzano il notevole affresco della Madonna
in trono con Bambino, osservabile sull’ultimo
pilastro della navata destra. La cappella del
santo Rosario, originata dall’antico portichetto della cappella romanica, conserva seppur
disordinatamente alcuni pregevolissimi saggi
a fresco di notevole spessore, tra i quali il
Transito della Vergine, gravemente danneggiato,
riferibili ai pennelli dei Cagnola di Novara,
degli Sperindio, Francesco e Giovanni, figli di
quel Tommaso già attivo tra Quattrocento e
Cinquecento nella regione; molto bella anche
una delicata Annunciazione. In questa cappella
osserviamo anche la preesistente, quattrocentesca Madonna del Latte.
Il presbiterio, che, ripetiamo, occupa lo
spazio della originaria cappella, si discosta enormemente dalla semplicità e austerità romanica
con un apparato ornamentale magniloquente:
alla destra dell’altare la Crocifissione (che praticamente ricopre la parete interna della vetusta facciata romanica) e Il Peccato originale del Bugnate,
opere eccellenti, ricche di gusto popolaresco per
la vivacità delle figure e dei loro abbigliamenti, veramente lodevoli nella ricerca espressiva
di alcuni volti e nella fluidità di disegno e di
stesura cromatica. Sempre del medesimo autore
segnaliamo, sulla volta sopra la Crocifissione, la
raffigurazione di un brano tratto dall’Apocalisse, il Drago dalle sette teste, orrido e fantasioso,
“sfrenata e folle rappresentazione... che merita lode di
originale ed efficace opera d’arte”3.
Sulla colonna della navata centrale dirimpetto al pulpito ci attrae un’eloquente raffigurazione della Pietà del 1509, opera di Giovanni
Cagnola, dall’accorato e partecipato pathos,
rafforzato da una preghiera in caratteri gotici,
bellissimo documento del forte sentimento religioso che ha animato le nostre valli nei secoli
passati. Ricordiamo ancora il coro in legno di
noce con stalli finemente intarsiati nel 1698 dal
maestro Lorenzo Battaglia; il polittico di scuola
tedesca del 1526, opera d’intaglio policroma di
sorprendente eleganza; l’altare barocco con il
fastoso baldacchino dalle salomoniche colonne
tortili che sorreggono un’esuberante corona,
lavoro d’intarsio del 1747 eseguito dal maestro
di Macugnaga Giacomo Iacchetti; i vetri istoriati cinquecenteschi che producono mirabili effetti luminosi; il battistero marmoreo che ricalca
abbastanza fedelmente gli analoghi manufatti
delle parrocchiali di Crodo e di Cravegna. Il soffitto della navata centrale mostra quattro medaglioni, di disegno classico e di discreta qualità,
del vigezzino Gian Maria Bonari, datati 1825,
mentre gli altri affreschi ottocenteschi, che
ornano le pareti esterne delle navate laterali con
le vicende della vita di San Gaudenzio, dipinte
da Paolo Ranieri di Cannobio rappresentano per
la verità la parte più debole, per ispirazione e
per qualità, dell’intero apparato decorativo.
Come si può facilmente immaginare, si
tratta di un capolavoro architettonico che racchiude molti capolavori artistici, il tutto in
uno scenario ambientale che è già di per sé
un capolavoro della natura. Sì, l’unica parola
che viene in mente, dopo aver passato alcune
piacevolissime ore in questo luogo d’incanto, è
capolavoro! Edificante e appassionante è l’idea
che all’opera mirabile e perfetta del Creatore
si sia affiancata l’azione ispirata di generazioni
di architetti e artisti, che hanno modellato la
cima di una collinetta per lasciarci un’opera
d’arte che giustamente si pregia del titolo di
Monumento nazionale.
Note
1
T.Bertamini, “Per la storia della chiesa di San
Gaudenzio di Baceno”, in Oscellana, 1989.
2 G.Bianchetti, “I monumenti e i segni d’arte”, in
Ossola, Storia, Arte, Civiltà, Anzola d’Ossola 1993.
3 C.Errera, “L’Ossola”, op. cit., 79.
158
togliere
elettrici
San Giorgio
di Beura
Torniamo sulle rive del Toce, nell’ampia
piana che accoglie i centri maggiori dell’Ossola Superiore, e poniamo la nostra attenzione
sul piccolo centro abitato di Beura, una località nota soprattutto per il marmo locale, una
delle risorse più importanti nell’economia delle
nostre vallate.
Si è sviluppata in un sito geografico molto
importante dal punto di vista della viabilità ossolana, organizzata in due tronconi che
hanno servito rispettivamente le due sponde
del grande fiume ossolano. Una viabilità, per
quanto riguarda la sponda sinistra, condizionata dal percorso delle acque del Toce, che nei
secoli passati lambiva le pendici rocciose del
Croppo di Trontano, si dirigeva verso il centro
del bacino ossolano, per poi ripiegare ancora
verso le creste rocciose dello Scopello della
Masone, nel territorio di Vogogna. Sui coni di
deiezione dei torrenti di questa fascia montana
si sono sviluppati gli insediamenti di Prata,
Cuzzego e Beura. Sopra queste località è sorta
Cardezza, attraversata dalla strada che doveva
spesso arrampicarsi sulla montagna per evitare
la pericolosa vicinanza con il fiume. Questo
lembo di territorio ha avuto notevole importanza dal punto di vista difensivo, in quanto
ancora ai tempi di Ludovico il Moro, e quindi
alla fine del Quattrocento, furono rimesse in
funzione le antiche torri di avvistamento che
facevano di questa zona, denominata appunto
“della Guardia”, uno degli avamposti difensivi
fondamentali nella storia della strategia militare ossolana. La stessa chiesetta di San Giovanni
Battista di Cuzzego1 trova le sue origini dentro
una fortificazione difensiva con tanto di torre
e quindi un’altra struttura sacra “ad castrum”
come abbiamo già rilevato per le chiese di
Baceno e di Santa Maria del Piaggio.
1 - Beura: Chiesa di San Giorgio, il campanile.
Un collegamento alla difesa militare del territorio si ritrova nella dedicazione della chiesa
di Beura, che onora quel Giorgio santo e guerriero che ne attesta una lunga quanto oscura
storia.
Infatti per questo territorio, tanto importante sin dall’antichità per il sistema difensivo
della valle, sono veramente pochi i documenti
storici che permettono di tracciarne un profilo
dettagliato. Proprio la chiesa di San Giorgio ci
interessa dal punto di vista architettonico, in
quanto il campanile della struttura si mostra
ancora ben conservato nelle sue linee originarie,
che richiamano inequivocabilmente la stagione
romanica.
Andiamo ad osservarle.
A prima vista notiamo subita la discrepanza
delle proporzione tra il fusto e il corpo della
chiesa, chiaramente ricostruita in seguito con
dimensioni maggiori che mal si accordano con
quelle del campanile.
La struttura della torre, anche stilistica-
159
mente indipendente da quella della chiesa, si
nota dal massiccio basamento, probabilmente
rinforzato in epoca successiva alla costruzione.
Da questo si elevano cinque ordini sui quali
si aprivano monofore nei primi due piani,
sul terzo una bifora, e due trifore chiudevano
quello che doveva essere un notevole esemplare
nel quale, ancora una volta, l’alternanza tra la
massiccia muratura di buona qualità e i vuoti
delle aperture armonizzavano gradevolmente la
struttura.
I segni del tempo e l’intervento dell’uomo
si fanno notare chiaramente ai nostri giorni, in
quanto le aperture appaiono murate e si delineano appena gli antichi contorni. Ancora ben leggibili, nelle ampie specchiature, i coronamenti
di archetti in numero di quattro, appoggiati su
peduncoli appuntiti. Appare anche successiva la
cella campanaria che si apre nell’ultimo piano
della torre.
Una spessa coltre di intonaco ricopre l’originaria muratura.
La chiesa adiacente non ha molto da dirci
anche se per gli amanti della pittura sono
presenti due belle tele di Lorenzo Peretti e di
Daniele Crespi. Nella parete meridionale permangono tracce di pareti sulle quali s’intravedono due lesene e due bifore, forse gli estremi
resti della struttura primitiva.
Di questa non abbiamo molte informazioni:
non conosciamo la data di costruzione né quella
di consacrazione. Gli storici l’hanno spesso associata alla Pieve di Vergonte, mentre pare certo
che invece la sua amministrazione rispondeva a
quella di Oxila, in quanto la linea di confine tra
le due Pievi seguiva la direttrice, certo molto
ideale e aleatoria, da Cuzzego a Villadossola
in prossimità del Sasso di San Maurizio, dove
abbiamo incontrato i resti romanici del campanile dell’omonimo oratorio. Quindi Beura e
la sua chiesa parrocchiale facevano parte della
Curia di Mattarella, prima della elevazione a
parrocchia autonoma nel corso del XII secolo.
Qualche secolo prima, il X dell’era cristiana,
il territorio di Beura era assegnato dal Vescovo
di Novara ad un suo nipote.
Come detto, non conosciamo la data di
edificazione di questa struttura: secondo la
Mormandi il campanile è stato elevato nella
prima metà del XII secolo2, forse qualche
decennio dopo la costruzione della chiesa che
possiamo solo immaginare di forme semplici e
disadorne, simile alle altre della valle nel periodo romanico. Si discosta da questo giudizio la
Mazzilli che, seguendo la datazione proposta dal
Magni, la posticipa nel terzo quarto dello stesso
secolo, dopo aver messo a confronto la torre con
altri esemplari del Canton Ticino3.
Ai nostri tempi la chiesa appare ampliata
grazie all’aggiunta di una navata laterale, avvenuta prima del 1618, e ai lavori di rinnovamento e di restauro del 1823.
Note
1
T. Bertamini, “Da Cuzzego a Prata: appunti storici”,
in Oscellana 1997.
2 G.Mormandi, “L’architettura romanica della Val
d’Ossola”, tesi di laurea, Università Cattolica di Milano
1967/68.
3 M.T.Mazzilli, “Gli edifici di culto dell’XI e XII secolo.
L’alto Verbano e le valli ossolane” in Novara e la sua terra:
storia, documenti, architettura, Milano 1980, Silvana
Editoriale.
160
La Pieve di Vergonte:
San Pietro di Pallanzeno
e San Lorenzo di Megolo
1 - Pallanzeno: Chiesa di San Pietro.
L’immaginaria linea di confine che univa
Villadossola con Cuzzego sanciva non solo la
divisione geografica tra Ossola superiore e inferiore, ma anche i limiti delle due pievi storiche
di Oxila e di Vergonte. Questa gravava intorno alla chiesa plebana dei Santi Vincenzo ed
Anastasio e includeva anche la cura d’anime nei
territori di Prata e Vogogna sino a Migiandone,
nonché della valle Anzasca sino a Macugnaga.
Documentata assai tardivamente nel 1006, la
Pieve di Vergonte che si era resa autonoma da
quella di Oxila in epoca longobarda o franca1;
a metà del XIII aveva subito le devastazioni di
un’alluvione che aveva spazzato via il borgo di
Vergonte e la sua chiesa, ricostruita in seguito,
nel 1266, nel luogo ove si trova attualmente.
Questi eventi catastrofici sancirono la decadenza politica di questo borgo a favore della più
sicura Vogogna, sulla riva opposta del grande
fiume ossolano.
Oltre alla chiesa madre di San Vincenzo,
esistevano altre cappelle sussidiarie ad essa: San
Martino di Cuzzago, Santa Maria Assunta di
Premosello, San Pietro di Dresio, alle porte di
Vogogna, San Pietro di Pallanzeno e San Lorenzo
di Megolo. Sulle ultime due ci soffermeremo
161
2 - Megolo: Chiesa e campanile di San Lorenzo.
poiché sono ancora presenti tracce romaniche
nelle loro torri campanarie. Da ricordare anche
la chiesa di San Bartolomeo di Bannio, già citata a partire dal XIII secolo, che si renderà ben
presto plebana di tutta la valle Anzasca.
Di queste chiese di antica memoria le sole
che hanno conservato elementi riferibili al
romanico sono, come abbiamo detto, le strutture di Pallanzeno e di Megolo.
Al centro del paese di Pallanzeno si trova la
chiesa di San Pietro, parrocchiale sin dal 1542,
circondata da edifici privati, aperta solo nella
parete settentrionale su una piazzetta, da cui è
ben visibile il campanile della struttura.
Ai nostri giorni questo campanile non offre
più nulla di visibile della sua gloriosa muratura
romanica, in quanto restauri ciechi e ignoranti
l’hanno completamente rivestito di una massic-
cia coltre d’intonaco grigiastro per armonizzarlo
alle pareti della chiesa adiacente. Dobbiamo
affidarci a qualche foto di qualche decennio fa
per farci un’idea delle linee del campanile romanico, sicuramente più interessante dell’attuale
“torre cementizia” che ne offende la storia e lo
stile.
Situato accanto alla parete settentrionale
della chiesa, il campanile si animava con una
scansione in verticale di tre specchiature, coronate da serie di tre archetti appoggiati su
rustici peduncoli a punta. Seguivano altri tre
ordini aperti da una finestra a feritoia, dove si
potevano vedere i profili di bifore, poi murate,
e la cella campanaria, chiaramente di epoca
posteriore. La Mormandi fa notare la particolare
scansione delle aperture originali, che passano
dalle tre inferiori “a feritoia” alle tre bifore nei
162
piani superiori senza la più consueta monofora
intermedia2.
Una muratura formata da materiale povero e
disorganico, “costituita di scapoli di cava rozzamente disposti”, come scriveva il Verzone negli anni
Trenta del Novecento, che comunque si faceva
ammirare per la sua semplice austerità, coerentemente con i dettami di questo stile architettonico. Le specchiature, delineate da archetti formati da frammenti e raccolti in piccoli gruppi,
le avevamo già incontrate nei fusti della chiesa
del Piaggio a Villadossola, a Trasquera e nel San
Brizio di Vagna. Queste concordanze, così come
l’analisi delle pareti murarie, hanno permesso
un’ipotesi di datazione che ci porta alla seconda
metà del XI secolo.
Quindi una struttura antica, tale da meritarsi una cura e un rispetto assolutamente doveroso… ovvero tutto quello che non è avvenuto.
I recenti restauri, “oppressivi” più che conservativi…, che pur si erano resi necessari hanno
purtroppo cancellato nove secoli di storia.
Auspichiamo in tempi brevi il ripristino della
muratura originaria, oggi oppressa dal cemento
e dalla cecità di qualche addetto ai lavori.
termine il cambiamento di orientamento della
facciata, che fu rivolta a levante.
Il fusto che si eleva alla destra della facciata
è un notevole esemplare della tipologia a fusto
liscio che in Ossola ha lasciato i migliori prodotti a Masera, nel Sant’Abbondio, e in valle
Antrona, nella chiesa di Sant’Ambrogio di
Seppiana. Il paramento murario, ben conservato, è formato da blocchi di pietra non sempre
omogenei nelle dimensioni e posti in corsi più
o meno regolari. Come spesso accade, i blocchi
migliori sono utilizzati per gli spigoli della
struttura.
La massiccia muratura viene esaltata dalla
mancanza delle partiture orizzontali e verticali
che invece animano la maggior parte delle torri
campanarie ossolane, “figlie” del modello del
San Bartolomeo di Villadossola. Le aperture si
limitano ad una feritoia architravata nel primo
ordine, e alla raffinata bifora con capitello a
gruccia in quello sovrastante. La parte terminale del fusto, la cella campanaria con la slanciata cuspide gotica, appartengono ad aggiunte
posteriori.
Ci spostiamo qualche chilometro più a valle
e, dopo aver superato l’odierna Pieve Vergonte,
incontriamo nella frazione di Megolo un’altra
pregevole testimonianza dell’austera bellezza
delle linee romaniche.
La chiesa di San Lorenzo presenta anch’essa
la particolare dicotomia stilistica tra il corpo
stesso dell’edificio sacro, una modesta costruzione preceduta da atrio, più volte rimaneggiata
e rinnovata, e la possente mole del campanile in
pietra viva.
La storia di questo luogo rimanda a un antico monastero denominato appunto San Lorenzo
“in Clonza” citato in documenti del 1086,
del 1095 e in altri successivi3. Come per ogni
monastero, attigua ad esso esisteva una chiesa
che con molta probabilità è questa di Megolo.
Il monastero decadde alla fine del XIII secolo
e i suoi beni risultano incamerati dall’omonimo
monastero di Novara. Sopravvisse la cappella,
che risultò ampliata già alla fine del secolo successivo, mentre nei lavori del 1596 si portò a
Note
1
T.Bertamini, “L’Ossola nella diocesi di Novara”, in
Oscellana 1995.
2 G.Mormandi, “L’architettura romanica della Val d’Ossola”, op. cit., p. 22-23
3 E.Bianchetti, “L’Ossola Inferiore”, Torino 1878.
163
La Pieve di Mergozzo:
San Graziano di Candoglia
La porzione meridionale della regione è
quella occupata storicamente dai territori della
pieve di Mergozzo, geograficamente meno estesa rispetto a quelle di Oxila e di Vergonte ma
che conserva molti ricordi tangibili della stagione che è l’oggetto di questa ricerca.
Citata anch’essa dalla bolla di papa Innocenzo
II, sappiamo che era attiva ed organizzata già
nei secoli prelongobardi, come confermano le
fondamenta di una cappella con tre absidi, che
troviamo accanto alla chiesa romanica di San
Giovanni in località Montorfano. Dal XIII secolo il suo centro focale era rappresentato dalla
chiesa di Santa Maria Assunta di Mergozzo,
dove la pieve si era trasferita, lasciando così il
Montorfano in seguito non a catastrofici eventi
come spesso qualche storico ha lasciato intendere, ma in conseguenza del passaggio giuridico
di Mergozzo a Borgofranco, status che portava
numerosi vantaggi a coloro che vi si inurbavano, primo fra tutti lo svincolo dagli obblighi
feudali. Nei secoli che ci interessano l’amministrazione civile di questa fetta di territorio di
confine sottostava alla contea di Pombia.
Scendendo il fondovalle ossolano verso le
acque del lago Maggiore, incontriamo la località di Candoglia, il cui toponimo, ricavato
dall’aggettivo latino “candidus”, rammenta una
delle qualità del pregiato marmo rosato tratto
dalle sue celeberrime cave, che hanno fornito
il materiale per la costruzione del Duomo di
Milano1. Ai nostri giorni Candoglia si presenta
come un piccolo agglomerato di case che fanno
da corona all’edificio che ci interessa, e che si
mostra su un modesto poggio verso le pendici
della montagna.
L’oratorio, discretamente conservato, si trova
ai margini di una zona molto ricca dal punto di
vista archeologico, grazie agli scavi che hanno
fatto emergere suppellettili di epoca romana.
1 - Candoglia: Chiesa di San Graziano, facciata.
Le sue forme richiamano la semplicità tipica
delle cappelle ossolane, con l’aula rettangolare
animata dall’ampia abside semicircolare a corona dell’altare. L’interno ha perso praticamente
tutti i riferimenti originari con il succedersi di
interventi che hanno modificato il primitivo
tetto a capriate, la pavimentazione e le pareti
con la consueta modesta intonacatura.
Più interessante l’analisi degli elementi
esterni. La facciata innanzitutto: la forma a
capanna viene in questo caso qualificata da due
arconi ciechi, stretti, lunghi e poco profondi, ai
lati del portale, il quale si presenta sormontato
da un archivolto formato da irregolari conci trapezoidali di marmo rosa. Il gradevole campanile
a vela che si alza sul margine sinistro è di epoca
posteriore rispetto all’edificazione dell’oratorio
romanico.
164
Il particolare decorativo dei due arconi ciechi
si ritrova a pochi chilometri da Candoglia, nella
chiesa di San Vittore, sull’isola dei Pescatori sul
lago Maggiore, però nella struttura absidale e
non in facciata.
La muratura delle pareti esterni trapela tra
i vari strati di intonaco che coprono l’intera
superficie muraria, e si rivela composta di
materiale povero e frammentario, con masselli
di reimpiego disposti a casaccio.
Le pareti laterali sono divise in tre campi da
lesene abbastanza larghe, mentre la struttura
absidale viene ripartita in cinque campiture.
Anche gli archetti pensili che corrono
nell’abside e nelle pareti laterali denotano una
fattura povera e modesta. Attualmente sono
stati “aggrediti” e consolidati da spessi strati di
cemento. Anche le aperture sono state alterate
e possiamo osservare solo le due finestre rettangolari “seicentesche” nella parete meridionale, e
tre anguste feritoie a doppia strombatura nei tre
campi centrali dell’abside.
Anche per questo edificio le certezze storiche
si sono sfilacciate nei secoli sino a scomparire.
Forse è una delle cappelle citate dalla bolla
papale di Innocenzo II nel 1133, dove si legge
“Plebem Mergotii cum capellis suis”; la datazione
sulla quale concordano i pochi storici che si
sono interessati al romanico ossolano si concentra nella seconda metà del XI secolo2.
Comunque, nonostante i pesanti interventi
di consolidamento, l’oratorio di San Graziano,
per via dei suoi austeri e disadorni elementi
decorativi, riesce a conservare quell’aura arcaica
e “romantica” che caratterizza, affascinando, il
romanico ossolano.
Note
1
M. Maffioli, “Montorfano, fogli di carta, blocchi di
piera, storie di uomini”, Mergozzo, p. 19-20.
2 P. Verzone, “L’architettura romanica del novarese” in
Bollettino storico di Novara XXXI, 1937.
2 - Candoglia: Chiesa di San Graziano, parete meridionale ed abside.
165
Santa Marta di Mergozzo
1 - Mergozzo: Oratorio di Santa Marta.
una cornice di sei archetti pensili, minuti ma
eseguiti con precisione e privi di ornamentazione scultorea. Altresì notiamo sulla parete
meridionale una fascia a dente di sega, tra la
seconda e la terza specchiatura. Le aperture si
limitavano a strette feritoie, alcune giunte ai
nostri giorni murate.
Un esemplare di buona fattura, che fu rialzato di due piani nel 1665. La parte originaria
viene assegnata invece alla prima metà del XII
secolo (Verzone), ma l’aspetto degli archetti,
di modesta dimensione e raggruppati in serie
alquanto numerose, può indicare una edificazione più recente (Mazzilli).
Alcuni resti del campanile e della chiesa
primitiva, rinvenuti duranti alcuni lavori urbanistici, furono inglobati nella muratura della
parete est della sacrestia.
A poche decine di metri dalla chiesa madre
Certamente una delle più affascinanti località dell’Ossola inferiore è Mergozzo, con il
suo piccolo ma incantevole lago, le sue frazioni
abbarbicate sui dolci pendii che la circondano,
la sua lunga storia, testimoniata fra l’altro da
una serie di edifici sacri di sicuro interesse.
La chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta
si fa apprezzare nella sontuosa veste baroccheggiante, dovuta alla ricostruzione seicentesca che
l’ha ampliata con le attuale tre navate, intensamente decorate. Ci interessa invece il notevole
campanile, il cui fusto a pianta quadrata si fa
ammirare nel suo robusto impianto sulla quale
si è realizzato una paramento murario con materiale frammentario, granito per lo più, organizzato “con una certa cura” in corsi abbastanza
regolari. Sono visibili ancora le due specchiature romaniche, nel terzo e nel quarto ordine,
poco profonde e sormontate superiormente da
166
della Pieve di Mergozzo, ci attendono le mura
estremamente ben conservate di un grazioso
oratorio, la cui bella e calda muratura in pietra
viva ci riporta ai secoli romanici: la chiesa di
Santa Marta, un tempo intitolata invece ai santi
Quirico e Giulitta, che abbiamo già incontrato,
onorati sulle pendici del colle di Mattarella alle
porte di Domodossola.
Circondato su tre lati da edifici di epoca
moderna, e a meridione dalla strada comunale
che corre verso il piccolo lago, posto a pochissima distanza da queste antiche mura, non
possiamo non apprezzarlo nelle sue ordinate ed
armoniose linee.
Le fonti rivelano che contiguo ad esso esisteva già nel basso Medioevo un complesso
assistenziale e la stessa cappella che “non sorse
per essere luogo di culto (per il quale c’era già la
parrocchia): sorse per essere un rifugio-cappella per
i viandanti e i pellegrini”1. Ecco spiegata la dedicazione ai due santi orientali, Giulitta madre
e Quirico figlio, invocati a quei tempi come
patroni dei viandanti. Già nel VII secolo papa
Gregorio Magno autorizzava questa particolare
funzione di queste cappelle conformemente al
dettato evangelico “Ero pellegrino e mi avete consolato”.
Notiamo subito la leggera irregolarità della
geometria rettangolare della sua pianta, le pareti divergenti verso la facciata, conclusa nella
parte opposta dall’abside semicircolare.
Guardiamo la facciata a capanna, non senza
qualche impaccio per la presenza dell’edificio
costruito a pochi metri dirimpetto ad essa, con
il semplice portale sormontato da un architrave
di granito, da un archivolto con blocchi trapezoidali disposti a raggera e dall’unica altra
apertura della sua superficie muraria, la tipica
finestra cruciforme. Il timpano viene segnato da
blocchi sporgenti e dalla cornice sguanciata che
segue ed unisce gli spioventi del tetto.
Una diversa attenzione decorativa caratterizza le due fiancate: quella che guarda a settentrione è appena animata da una lesena, che la
divide in due ampie campiture, e dalla cornice
di archetti. Nessuna finestra apre la superficie,
così come avveniva per l’oratorio di Candoglia
che ci siamo lasciati alle spalle prima di entrare
a Mergozzo.
Interessante invece la parete opposta, che si
2 - Mergozzo: Santa Marta, pianta dell’edificio.
167
mostra alla strada comunale e che attesta l’importanza della costruzione con il suo discreto
apparato decorativo. Anch’essa suddivisa in due
campi irregolari da lesene formate da blocchi
di pietra, è segnata superiormente dalla fuga di
archetti che poggiano su mensoline di granito
o di serizzo, scolpite con semplici figure antropomorfe o con elementari stilizzazioni geometriche. Anche il bel portale, situato verso l’angolo con la facciata e preceduto da tre gradini a
causa del dislivello del terreno a cui si è dovuta
adattare la cappella, si mostra strombato e con
piccole colonne con capitelli ornati da sculture
appena leggibili su cui si poggia un archivolto
con conci ben squadrati e disposti a raggera. Da
notare la bella ghiera toroidale, nella parte più
interna sotto l’archivolto.
L’abside è tripartito da due lesene semicircolari poggianti su una zoccolatura ed è abbellito
da dodici archetti ben sagomati e spartiti in
gruppi di quattro.
Al primo colpo d’occhio si apprezza l’ottima
qualità della muratura, con i blocchi di pietra
squadrati direi in maniera impeccabile, e organizzati in corsi regolari di piatto e di taglio da
maestranze di sicura esperienza. Apprezzabili
anche gli archetti ricavati da un solo concio e le
rudimentali testine di forma umana che troviamo sui beccatelli.
Gli elementi primitivi vennero modificati
in seguito agli inevitabili interventi di manutenzione: il rustico soffitto a capriate lignee,
descritto ancora nel 1597, fu sostituito nel
secolo successivo dall’attuale volta in muratura.
Nel 1729 fu costruito il piccolo campanile a
vela in facciata, e pochi decenni dopo furono
ampliate e modificate le finestre absidali, poi
murate ma opportunamente ripristinate nel
1932, tranne per quella centrale, ancora chiusa
ai nostri giorni.
Una curiosità: la lunetta posta sopra il
portale della parete che dà sulla strada rappresenta Santa Marta, venerata dalla confraternita
dei Disciplinati che dal 1603 trasferirono la
loro sede in questa cappella, la quale da allora
cominciò ad essere conosciuta con il titolo di
questa santa, soppiantando l’antica denominazione.
Un oratorio modesto nelle dimensioni ma
prezioso nella sua veste esterna, che ha conservato le sue caratteristiche originarie, tanto
da meritarsi una citazione dal Porter nel suo
ponderoso studio sull’architettura lombarda2.
Lo studioso inglese la assegna ai primi decenni
del XII secolo; si discosta di poco il Verzone,
che colloca l’edificazione alla metà di quel
secolo. Di certo concordiamo con la Mazzili
quando afferma che “l’alta qualità del paramento
murario… rivela la presenza di un’abile maestranza
più che una tarda cronologia e l’estrema coerenza tra
decorazione e struttura indica l’appartenenza al pieno
stile romanico”3.
Note
1
D. Imperiali, “Mergozzo memorie storiche”, Mergozzo
1969, p.50.
2 K. Porter, “Lombard Architecture”, I, Londra 1917,
p. 519.
3 M. T. Mazzilli, “Gli edifici di culto dell’XI e XII secolo.
L’alto Verbano e le valli ossolane” in Novara e la sua terra:
storia, documenti, architettura, op. cit.
168
Santa Maria
di Bracchio
Rimaniamo ancora nel territorio comunale
di Mergozzo, spostandoci solamente in una
delle sue frazioni superiori, per scoprire un altro
edificio che non deluderà gli amanti e i cultori
di questo stile architettonico: la chiesa intitolata alla Natività della Vergine al Cimitero in
località Bracchio.
La possiamo osservare in posizione periferica
rispetto al centro abitato, circondata dal cimitero, caratteristica tipica e consolatoria dei secoli
medioevali, che si è conservata in pochi edifici
sacri della nostra regione.
Sono facilmente riconoscibili le peculiarità romaniche ancora presenti nella struttura,
individuabili nella parte posteriore e nel campanile.
Fu edificata nella prima metà del XI secolo
secondo i dettami del più tipico stile romanico
alpino, con l’unica navata rettangolare conclusa
dall’abside semicircolare.
La navata era lunga una decina di metri
meno dell’attuale costruzione, e dall’analisi
delle pareti esterne è facilmente ravvisabile la
parte più moderna aggiunta in seguito (1550).
Del paramento murario primitivo si può avere
un’idea osservando la fiancata meridionale con la
cornice di archetti discretamente assemblati con
materiale frammentario e appoggiati su mensoline scolpite a forma di testine umane come già
abbiamo appurato nella cappella di Santa Marta
e come vedremo nella chiesa di Montorfano. I
blocchi di pietra appaiono squadrati in maniera abbastanza sommaria e talvolta intervallati
da mattoni, il tutto giunto da spesse coltri di
malta; i corsi sono sufficientemente regolari,
disposti di piatto e di taglio. Attualmente la
parete si osserva consolidata e riordinata dai
restauri ottocenteschi. Brutte finestre rettangolari hanno sostituito nel tempo le aperture pri-
1 - Bracchio: Chiesa di Santa Maria, particolare del campanile.
mitive, che possiamo presumere ricalcassero le
monofore strombate che si intravedono ancora
nella muratura dell’abside, seppur murate.
Questa si presenta divisa in tre campiture coronate ciascuna da quattro archetti, che
ripetono gli stessi moduli stilistici della fiancata meridionale, salvo la presenza di cocci di
cotto alla base degli archetti e negli archivolti
delle aperture. Alcune iscrizioni marmoree di
carattere funerario attualmente ne caricano la
superficie.
169
2 - Bracchio: Chiesa di Santa Maria, particolare dell’abside e dell’alzata posteriore
170
Nell’alzata posteriore ritroviamo la tipica
finestra cruciforme, semplice di forma ma di
forti motivazioni simboliche, come abbiamo
appurato a Villadossola nel San Bartolomeo, e
nel San Quirico del capoluogo ossolano. Peccato
che ai nostri tempi si mostri deformata per la
mancanza di qualche frammento e bisognosa
anch’essa di qualche intervento di manutenzione.
Attiguo alla fiancata settentrionale, in zona
presbiteriale, si eleva il campanile che presenta
quattro ordini di specchiature, coronate da una
coppia di archi. Nei primi tre piani le aperture
sono malamente murate e brutalmente intonacate; aperta si conserva la bella bifora terminale
con la colonnina cilindrica, il capitello a stampella e la coronatura a ghiera.
La muratura originaria è anch’essa ricoperta
da strati cementizi che non consentono di osservare la superficie originaria che gli storici del
passato ci hanno descritto “formata da materiale
frammentario”. Una struttura che meriterebbe un
accurato restauro e un repentino ripristino delle
caratteristiche originarie per essere armonizzata
con la parte posteriore, la più interessante, la
più antica, la più bella!
Per la cronaca, registriamo gli interventi che
hanno portato la costruzione alle forme attuali:
come già accennato, nel 1550 fu distrutta l’antica facciata e allungata la chiesa anteriormente;
le nuove porzioni di parete non furono decorate
con gli elementi che connotavano le restanti
parti originarie cosicché appaiono spoglie e
disadorne e poco consonanti fra loro. Nei decenni successivi venne costruita una navata, tanto
che nel 1597 la chiesa veniva descritta con una
navata maggiore terminata da un’abside semicircolare, e con una minore fornita di un nuovo
altare1.
Tre erano gli ingressi: uno in facciata e gli
altri due che servivano le fiancate della costruzione.
Nel secolo successivo fu rinnovato il soffitto
con l’attuale volta, e nel corso del Settecento
alla facciata venne aggiunto un ampio atrio voltato; nel 1861 si procedette alla pesante copertura della torre campanaria “con un rozzo intonaco
tinteggiato di giallo”. Oggi osserviamo un triste
campanile intonacato con un brutto grigio che
non ha nessuna attrattiva e nessuna coerenza
stilistica con la struttura adiacente.
Molte operazioni di ripristino furono approntate nei decenni del secolo scorso, fino alla situazione attuale, con una struttura che mostra tutti
i segni del tempo trascorso e tutte le varie fasi
degli interventi umani che l’hanno più volte
manomessa senza tanti scrupoli stilistici.
Come per altre chiese del nostro territorio
sarebbe veramente auspicabile un deciso intervento di recupero, che completasse il decoro
delle pareti laterali, seguendo quello così degno
di attenzione della originaria struttura romanica e soprattutto il restauro del campanile, assurdamente “coperto” di cemento e brutto almeno
quanto quello di Pallanzeno.
Concordi gli storici nell’ attribuire a due
diverse epoche di edificazione per la torre e
il corpo della chiesa: la seconda metà del XII
secolo per questa, circa un secolo prima per il
campanile, che mostrava nella muratura originaria una maggiore presenza di elementi arcaici
e rifiniture grossolane, con materiale povero e
frammentario rispetto al paramento murario
della chiesa. Questa denota un’accuratezza senza
dubbio più marcata e una ricerca di decoro sensibilmente migliore2.
Note
1 C.
Bascapè, “Novara sacra”, Novara 1929, p. 219.
Verzone, “L’architettura romanica del novarese”, op.
cit., p.79-81.
2 P.
171
San Giovanni
in Montorfano
Concludiamo, direi in maniera eccellente, il
nostro devoto pellegrinaggio alla ricerca delle
memorie romaniche della nostra bella regione
con la visita di una delle testimonianze più
importanti: la chiesa di San Giovanni Battista,
ubicata in una amena radura erbosa tra i boschi
di quella “sentinella avanzata” che è il Monte
Orfano.
Non c’è migliore descrizione di quella
lasciataci da don Dante Imperiali, parroco di
Mergozzo e storico per diletto, che con parole
accorate ci introduce in questa affascinante
località:
“…poche case, casupole di pietra addossate le une
alle altre, con una ventina di abitanti, abbarbicati
alla loro montagna, che si ostinano a vivere in quella
quiete operosa. Lì il tempo sembra che si sia fermato; è
un angolo stupendo. Alla mente di chi non sia digiuno di storia ed ami retrocedere con il pensiero verso
lontani tempi andati, il villaggio offre quanto di
più fascinoso la immaginazione possa concepire. D’un
balzo lo fa retrocedere di undici secoli e lo trasporta
nell’alta antichità del primo medioevo. Si chiama
San Giovanni e come i villaggi più antichi ha preso
il nome dal titolo della sua chiesa. C’è ancora ed è
stupenda”1.
Stupenda… non c’è che dire; anche in questo caso è da sottolineare la simbiotica armonia
tra struttura architettonica e ambiente che la
ospita.
La caratteristica che più sorprende è il suo
discostarsi dall’usuale disegno ad aula rettangolare, ripetuto praticamente in tutta la regione
ossolana, per una pianta a navata unica e a croce
latina con tiburio ottagonale, abside semicircolare e un apparato decorativo davvero notevole.
Già un documento datato 885 cita l’arcidiacono novarese Raginaldo, della famiglia
dei conti di Pombia, che donò in eredità un
1 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni
Battista, particolare della decorazione di una fiancata e
del tiburio.
oliveto che si stendeva nei pressi della “terra di
Sancti Johannis”: si può presumere che si tratti
di una chiesa intitolata a San Giovanni, che
sorgeva più o meno nella stessa zona. A tale
proposito, negli anni Settanta del Novecento, a
pochi metri dalla fiancata meridionale dell’attuale costruzione, furono rinvenute dal Gruppo
Archeologico di Mergozzo le fondamenta di
un’antica struttura triabsidata, che svelarono
quello che già molti storici avevano ipotizzato,
e cioè la presenza di una chiesa preromanica sul
pianoro di Montorfano2, addirittura una chiesa
battesimale, da cui il titolo a San Giovanni
Battista, dove aveva sede l’antica Pieve, spostatasi nell’attuale sede parrocchiale nel centro di
Mergozzo nel corso del XIII secolo, allorquando
questo fu elevato al rango di Borgofranco3.
Quando fu eretta l’antica costruzione, di cui
adesso possiamo solo osservare le fondamenta?
Un indizio prezioso è fornito da un reperto
che faceva parte di questa struttura: un capitello
a forma cubica, che presenta in due facce alcune
172
incisioni rapportabili alla sensibilità artistica
longobarda con segni stilizzati di carattere
vegetale; conservato all’interno dell’impianto
romanico, è stato svuotato al centro e utilizzato
come acquasantiera. Quindi in piena età longobarda una chiesa intitolata a San Giovanni
serviva la cura d’anime del piccolo abitato di
Montorfano, che dal X secolo in poi rientrerà
tra i tanti possedimenti dei conti di Pombia. Le
fonti ci parlano anche di un antico castello, le
cui fondamenta erano ancora visibili nel 1603.
Un terremoto del 1117, che secondo il Cassani
fece deperire per sempre quello che rimaneva
del municipio longobardo del lago Maggiore di
Stazzona4, potrebbe essere la causa della scomparsa di queste antiche mura sacre, e quindi
dell’edificazione della nuova chiesa che è quella
che possiamo ancora ammirare ai nostri giorni,
ben conservata e quasi intatta nelle sue caratteristiche originali.
Come detto, è stata eretta seguendo lo schema a croce latina; la facciata ripete la semplicità
della forma a capanna e non viene interrotta da
nessuna partizione architettonica, quali lesene o
cornici aggettanti. La bella e ordinata muratura
composta da conci ben sagomati si apre solo
nell’interessante portale che richiama quello di
Santa Marta di Mergozzo, con la strombatura
formata da lesene e semicolonne sulle quali troviamo capitelli decorati da semplici incisioni.
Un archivolto con conci a raggera circoscrive una lunetta, sopra la quale una monofora
strombata richiama il disegno del portale.
Notevolissimi gli archetti della cornice, costituiti da piccoli conci di cotto e di granito, la
cui alternanza cromatica anima e non poco la
semplice e solenne austerità della facciata.
Più articolate le fiancate, che mostrano l’inedito modulo decorativo degli archetti intrecciati, un gradevole effetto ornamentale che non
troviamo in Ossola e che ricordiamo nella chiesa
di San Pietro a Gallarate e nel celebre San Pietro
in Ciel d’Oro di Pavia5.
Le pareti dei transetti ripetono invece la
semplicità della facciata.
L’abside si fa apprezzare per la nitidezza delle
sue linee e l’estrema perizia della sua superficie
muraria; inoltre si anima della finta galleria for-
mata da dodici archi sostenuti da sottili colonne
con capitelli variamente modellati. Due ampie
monofore con archivolto formato da un unico
blocco di pietra si aprono sotto il loggiato.
Sopra l’incrocio dei transetti, il tiburio ottagonale impostato su una base quadrata è sormontato da una lanterna, anch’essa quadrata,
conclusa da una cuspide. Ancora il motivo ad
archi intrecciati corona il tiburio, mentre quattro semplici archetti segnano le specchiature
della lanterna.
Vale la pena di soffermarsi sull’apparato
scultoreo che abbellisce le mensole e i peducci
degli archetti e delle altre strutture dell’edificio: un vero e proprio campionario dei motivi
decorativi medievali, con testine antropomorfe,
volatili, motivi vegetali, fiori, tori, il serpente
che si morde la coda, il drago. Ornamentazione
che caratterizzano sia il paramento murario
esterno, sia le strutture interne dell’edificio.
L’interno, come del resto l’intera struttura,
si è giovato degli ottimi interventi di restauro
del 1970 che oltre a consolidare gli elementi
decorativi hanno riportato alla luce il fascino
del paramento murario, che si mostra ancora
integro nelle sua struttura originaria: lo spazio
viene razionalmente diviso in campate, due per
la navata e una per ogni transetto, e ogni campata è coperta da volte a crociera.
Da non perdere un reperto archeologico
fondamentale per la storia del Cristianesimo
in Ossola, scoperto sotto il pavimento davanti
all’altare, ovvero il fonte battesimale del VI-VII
secolo, una delle testimonianze più antiche che
ci riportano ai remoti tempi dell’affermazione
e della diffusione della nostra religione negli
angusti territori ossolani.
Una perla architettonica omogenea e compatta, che esprime una tipologia che la avvicina più a modelli lombardi che alla “preziosa”
povertà del romanico ossolano, e che ha saputo
assemblare al meglio il materiale proveniente
dalla precedente costruzione con quello forgiato
dalle sapienti mani dei lapicidi operanti nel
nuovo cantiere.
Molti storici hanno assegnato a questa bellissima chiesa una committenza prestigiosa
come quella della potente famiglia dei conti
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2 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, facciata.
3 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, veduta laterale.
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4 - Montorfano di Mergozzo: Chiesa di San Giovanni Battista, veduta posteriore con abside.
5 - Montorfano di Mergozzo: fondamenta della cappella preromanica.
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Conclusioni
Da Pombia, mentre altri hanno invece legato la
struttura al monachesimo cluniacense, dato che
la pianta latina era tipica delle chiese abbaziali.
In effetti alcune testimonianze fanno riferimento ad un monastero, così la datata penna
del Moriggia scriveva nel 1603: “sopra il Monte
Orfano vi è una villetta di 12 fuochi dove si vede
una chiesa antichissima… ed ivi, sopra v’era un
fortissimo castello del quale ancora si vedono i fondamenti: appresso in detto luogo vi era anticamente un
monastero”.
Comunque pare assolutamente accettabile
collocare la ricostruzione “romanica” del San
Giovanni in Montorfano, il terzo edificio edificato in questo luogo, dopo quello paleocristiano, solamente ipotizzabile, e quello pre-romanico, testimoniato dalle fondamenta, nel corso
del XII secolo; alla fine del secolo, secondo gli
storici dell’arte che più volte abbiamo citato in
bibliografia, qualche decennio prima secondo
alcuni storici6.
Con la visita al San Giovanni di Montorfano
concludiamo la ricognizione di quello che
rimane della affascinante stagione romanica del
territorio ossolano. Una serie di piccoli capolavori incastonati spesso in luoghi incantevoli dal
punto paesaggistico, a volte repressi da costruzioni moderne attigue, ma sempre capaci di
regalare ricordi di un passato lontano ma fecondo dal punto di vista estetico e spirituale.
Sensazioni? Impressioni? Tante e spesso contrastanti.
Appagamento, per l’incontaminata bellezza che antichi edifici in pietra sanno ancora
esprimere nonostante le precarie condizioni di
manutenzione e gli stravolgimenti architettonici che le hanno manomesse; stupore, per la scoperta, forse ingenua ma sicuramente spontanea,
di siti storici e culturali di sicura importanza
a pochi chilometri dal nostro vivere quotidiano. Registriamo ancora oggi un’insufficiente
valorizzazione di queste chiese, troppo poco
conosciute dagli stessi abitanti, se non dagli
stessi addetti ai lavori. Delusione; per l’assoluta
mancanza di attenzioni che questi monumenti
denunciano abbastanza chiaramente. Non parliamo certo degli assurdi restauri che hanno
versato colate di cemento su preziosi paramenti
murari che meritavano ben altre attenzioni, ma
soprattutto dell’indifferenza delle autorità preposte alla cura di queste fondamentali testimonianze della nostra storia. Infine riconoscenza;
per le oscure, ignote e feconde generazioni di
lapicidi, architetti, maestri artigiani che si sono
succeduti nell’edificazione di questi piccoli
capolavori, sfruttando al meglio il materiale che
il contesto sociale e geografico poteva offrire.
La speranza, e in fondo la motivazione che
ha prodotto queste povere pagine è che possano
aiutare a far conoscere e apprezzare le nostre
“vecchie” chiese di pietra, sorte sul nostro territorio prima di tutti gli altri edifici che oggi ci
circondano.
Sicuramente ne vale la pena…
Note
1
D. Imperiali, “Mergozzo memorie storiche”, op. cit., p.
34.
2 F. Colombo, A. De Giuli, M. Maffioli, “Una chiesa
pre-romanica in Montorfano di Mergozzo”,
in Oscellana 1973, p. 78-81.
3 G.A.M., “Storia di Mergozzo. Dalle origini ad oggi”,
Mergozzo 2003.
4 L. Cassani, “Montorfano di Mergozzo e la sua chiesa”,
in Bollettino Storico della Provincia di Novara XXVII
1933, p. 97-132.
5 G. Mormandi, “L’architettura romanica della Val d’Ossola”, op. cit., nota a p. 35.
6 G.A.M., “Storia di Mergozzo. Dalle origini ad oggi”, op.
cit., P. 125.
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