SCARICA Quaderni di ricerca N° 56

Transcript

SCARICA Quaderni di ricerca N° 56
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Rivista di Economia, Cultura e Ricerca Sociale
dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Rivista di Economia, Cultura e Ricerca Sociale dell’
Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA
(Confederazione Generale Italiana Artigianato).
Spedizione in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96
- Filiale di Venezia - Numero 56 - III quadrimestre 2010.
Abonement poste - Taxe perçue
Direttore Responsabile
Renato Mason
Direttore
Giuseppe Bortolussi
Redazione
Favaretto Andrea, Gonella Andrea, Ventura Catia, Zabeo Paolo
Segretario di redazione
Paolo Zabeo
Direzione, redazione e Amministrazione
Mestre, via Torre Belfredo, 81/d
Tel. 041.23.86.711 - cap. 30174
“mailto: [email protected]”
“Registrazione del Tribunale di Venezia del 12-5-89 n° 975 del Reg. Stampa”
Stampa:
Arti Grafiche Molin - via Torino, 109 - Mestre-VE
ISSN 1590 - 296X
V
Indice
Approfondimenti
5
L’artigianato e il cambiamento: verso l’economia della
conoscenza
Francesco Giacomin
11
La crisi e le nuove sfide per l’artigianato veneto
Renzo Genovese
15
La crisi e le tutele del lavoro artigiano in veneto
Ferruccio Righetto
23
La piccola impresa tra cambiamento e nuova rappresentanza
Stefano Zanatta
27
Il vero significato dell’attività imprenditoriale
Giorgio Vittadini
Nuovi scenari
33
Conoscere i modelli e i bisogni di formazione in azienda.
I risultati di una ricerca empirica sulle imprese artigiane del
Piemonte
Renato Lanzetti, Davide Roccati, Giovanna Spolti, Emiliana
Armano
65
Flessibilita’, sicurezza e ammortizzatori sociali in italia:
necessita’ di un raccordo
Pasquale Tridico
111
L’artigianato e la rigenerazione urbana del Centro Storico di
Napoli
Gennaro Biondi
133
Le dinamiche e le strategie dell’edilizia e dell’artigianato di
fronte alla crisi
Federico Della Puppa
VII
Autori di questo numero
Emiliana Armano
Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione
Piemonte
Gennaro Biondi,
Direttore ISVE e Facoltà di Economia, Università “Federico II” di Napoli
Renzo Genovese
Direzione CNA Veneto
Francesco Giacomin
Presidente Fondazione La Fornace dell’Innovazione
Renato Lanzetti
Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione
Piemonte
Federico Della Puppa,
Professore a contratto di Economia e Gestione di Imprese – IUAV – Facoltà
di Architettura;
Ricercatore Senior - Cresme
Ferruccio Righetto
Responsabile Divisione Relazioni sindacali e contrattuali Confartigianato del
Veneto
Davide Roccati
Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione
Piemonte
Giovanna Spolti
Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione
Piemonte
Pasquale Tridico,
Ricercatore di Economia Politica e docente di Economia del Lavoro presso
l’Università di Roma Tre.
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazione per la Sussidiarietà
Stefano Zanatta
Confartigianato Asolo Montebelluna
APPROFONDIMENTI
APPROFONDIMENTI
La crisi economica nella quale è stato
coinvolto anche il nostro sistema produttivo continua
a far sentire i suoi effetti negativi senza concedere
certezze sul momento in cui comincerà la ripresa
definitiva. L’evento recessivo, dunque, non può che
fare da sfondo anche agli interventi proposti in questa
prima parte della rivista. In particolare, si parte da un
dato di fatto indiscutibile che è la forte contrazione
dell’economia italiana nel corso del 2009. Il primo
intervento svolge tuttavia il valido tentativo di non
soffermarsi troppo su quanto già successo per
guardare piuttosto a quanto potrà succedere non
appena la ripresa si sarà avviata definitivamente con
una inevitabile distinzione tra Paesi che saranno veloci
e Paesi che saranno invece lenti. L’individuazione
dell’Italia all’interno di questa seconda categoria con
annesso un verosimile elenco di punti critici che la
penalizzano, non esclude una lista di eccellenze che
appartengono al nostro Paese, che lo hanno tenuto
a galla nei momenti peggiori e che lo aiuteranno a
rialzarsi negli anni futuri a noi più vicini. Quest’ultima
migliore prospettiva avrà modo di realizzarsi tanto
più verrà data importanza a fattori quali la flessibilità,
la creatività, l’innovazione, le relazioni tra fornitori
e clienti, in due parole, alla cosiddetta economia
immateriale che risulta ancora particolarmente debole
in una regione come il Veneto.
1
2
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Su questa zona d’Italia si concentra anche il
secondo contributo; nel merito lo fa preoccupandosi
dei dati del 2009 relativi al minor numero di lavoratori
dipendenti. Lo scorso anno, infatti, è diminuito il
numero di addetti complessivi, soprattutto nei settori
manifatturieri e nelle aziende con maggior numero
di stipendiati ma si sottolinea che le associazioni
di categoria non sono state alla finestra a guardare
quanto stava e sta accadendo. Queste ultime, invero,
hanno individuato nel comportamento delle banche
e nella questione degli ammortizzatori sociali due
aspetti della stessa medaglia che riguardano il mondo
dell’artigianato e che nel primo caso penalizzano
le imprese ponendo ostacoli alla concessione del
credito, nel secondo i relativi dipendenti che si
ritrovano privi di garanzie in caso di perdita del lavoro.
Si collega proprio a questa annosa questione
il terzo articolo chiedendosi quali tutele fossero o
potessero venir previste in caso di crisi, in particolare
nei settori produttivi privi di CIGO (Cassa Integrazione
Guadagni Ordinaria). Le riflessioni riguardano dunque
i tentativi svolti in passato per giungere ad una
riforma organica relativa ai cosiddetti ammortizzatori
sociali in particolare nel settore dell’artigianato con
specifico riferimento alla Legge 2 del 2009 che ha
definitivamente sdoganato il metodo della bilateralità
quale base riformatrice in grado di avvicinare
intervento pubblico e privato.
Dell’artigianato veneto tratta il penultimo
intervento presentando lo stesso come spina dorsale
dell’economia regionale nonostante il momento poco
sereno che sta attraversando. In prospettiva futura,
vengono esaltate le caratteristiche del nostro sistema
produttivo fondato sulla piccola impresa rispetto a
quello di altre economie avanzate che si fondano sulle
APPROFONDIMENTI
grandi aziende: in tal senso, si sottolinea il fatto che il
nostro sistema economico non potrebbe mai morire
di piccola impresa quanto di “piccolo pensiero” e cioè
della presunzione di poter fare da soli, di non aver
bisogno di altri, di bastare a se stessi. Proprio alla
luce della recessione in corso, quello del cosiddetto
“approccio sistemico” piuttosto che della sinergia di
azione deve essere il paradigma della soluzione dei
problemi siano essi di dimensione microeconomico o
macroeconomica.
Infine, delle interessanti riflessioni sul
significato d’impresa e su quello da dare all’attività
di ogni singolo imprenditore. Il torto di chi indaga
l’economia imprenditoriale viene individuato proprio
nella concezione ridotta di uomo e di impresa
contrapponendo dunque
all’immagine di un
datore di lavoro privo di scrupoli e orientato al solo
guadagno, quella di un uomo che costituisce la prima
risorsa dell’impresa e che viene mosso da valori
umani quali la capacità creativa di trasformazione
della realtà, il desiderio di costruire, di migliorare la
propria condizione, quella della sua famiglia e del suo
territorio.
3
4
Quaderni di ricerca sull’artigianato
L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO
L’ARTIGIANATO E IL
CAMBIAMENTO:
VERSO L’ECONOMIA
DELLA CONOSCENZA
Francesco Giacomin
Presidente Fondazione La Fornace dell’Innovazione
Non vi sono dubbi che la crisi che stiamo
attraversando rappresenti un momento di discontinuità
significativo nella storia recente e che essa non
mancherà di far sentire i propri impatti economici e
sociali anche nei prossimi anni. La forte contrazione
dell’economia italiana nel 2009 è certamente il
risultato di uno “tsunami” economico internazionale
che, partendo dalla finanza americana ha con passo
veloce travolto la finanza e l’economia reale di tutti gli
altri continenti. Si rincorrono ancora oggi le previsioni
su quando inizierà la ripresa, su quale consistenza
avrà e su quali saranno i cambiamenti strutturali
che ci lascerà in eredità. Tutti gli esperti concordano
nel dire, comunque, che in certi in Paesi la ripresa
arriverà relativamente più tardi e sarà relativamente
più lenta. Tra questo elenco di Paesi vi è non a
caso l’Italia, un Paese entrato nella crisi con alcuni
nodi strutturali irrisolti. I punti critici sono noti: debito
pubblico elevato, carico fiscale soffocante, carenza di
infrastrutture, rendite di posizione, inefficienza della
Pubblica Amministrazione, divario di sviluppo fra
Nord e Sud, criminalità organizzata e una crescente
divisione politico-sociale rispetto a decisioni di portata
strategica. Vi sono però anche dei punti forti, che hanno
consentito al nostro Paese di rimanere competitivo,
nonostante l’affacciarsi ai mercati di nuovi temibili
competitors globali. Tra questi ricordiamo: la vitalità
5
6
Quaderni di ricerca sull’artigianato
economica, la flessibilità del suo tessuto produttivo,
il risparmio privato, l’appeal estero del Made in Italy,
il suo capitale turistico-culturale, la piccola impresa e
il piccolo imprenditore anche nell’accezione data da
Sennet nella sua ultima produzione letteraria.
Anche il Veneto ha risentito della forte
contrazione del PIL nel 2009 (pari ad un meno 5%
su base nazionale). Una Regione votata all’export
come quella veneta non poteva non rallentare il
passo dinnanzi alle incertezze dei principali mercati di
riferimento. I dati diffusi da infocamere, approfonditi
anche nel numero di questa rivista, chiariscono
esaurientemente gli effetti di una crisi che ha investito
un po’ tutti i principali comparti economici: l’edilizia,
la metalmeccanica, la plastica, l’abbigliamento, ecc.
Le imprese più colpite sono state quelle piccole, i
contoterzisti, ma non sono state certo risparmiate
aziende di dimensioni più grandi e internazionalizzate.
Analizzare la congiuntura economica è
ovviamente importante, ma qualsiasi considerazione
se ne traesse in merito, rischierebbe di essere
fuorviante se l’analisi non fosse completata da uno
sguardo più approfondito sulle dinamiche economiche
di lungo periodo, che attraversano e seguiranno
l’attuale congiuntura storica. Una in particolare ci pare
degna di menzione, perché si collega strettamente
con il ruolo della fornace e con quella che può essere
una ricetta per uscire dalla crisi con più velocità e
forza. Ci stiamo riferendo alla progressiva transizione
che sta avvenendo nei Paesi più sviluppati da
un’economia di impronta materiale-industriale ad
“un’economia della conoscenza”, “dell’immateriale”.
Una transizione che taglia trasversalmente tutta la
L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO
produzione, dall’industria e all’artigianato, sortendo
effetti evidenti anche sulla società e più in generale
sullo sviluppo differenziato dei territori.
L’economia industriale è un’economia
prevalentemente incentrata sul prodotto e sulle
modalità produttive. La caratteristica più evidente è
infatti la ricerca dell’uniformità, della standardizzazione
dei processi e dei prodotti, con l’obiettivo di elevare le
economie di scala e l’efficienza produttiva.
La transizione all’economia dell’immateriale
rivoluziona i principi sui quali si basa il sistema
produttivo, sposta l’attenzione dalla macchina alla
persona, dal prodotto ai valori tecnologici, culturali,
estetici ed identificativi che esso porta con sè. Ne
consegue che diventano fattori competitivi per le
imprese elementi come: la flessibilità, la creatività,
l’innovazione, le relazioni strategiche con i fornitori e i
clienti, nonché, il “brand” del produttore o del territorio
che lo produce. Nell’economia dell’immateriale, non
si vende solo la funzionalità di un prodotto, ma anche
i servizi e ai significati ad esso associati.
In Italia, in Veneto, questa transizione
epocale ha assunto sfumature originali in ragione
della frammentazione amministrativa, culturale e
produttiva che la caratterizza. Il tessuto produttivo
si è sviluppato impetuosamente disseminando
disordinatamente nel territorio botteghe artigiane e
piccole industrie. Il piccolo imprenditore che governa
l’azienda è però mediamente rimasto più concentrato
sulla produzione che sulla “guida” dell’impresa e sul
mercato, insostituibili premesse, quest’ultime, per
pianificare lo sviluppo del business partendo dai
repentini e continui cambiamenti dei mercati.
Si può sensatamente dedurre che se la
piccola impresa, quindi la stragrande maggioranza
7
8
Quaderni di ricerca sull’artigianato
delle nostro tessuto produttivo, si dedica poco ai
processi di creazione della conoscenza, la transizione
dall’economia del materiale a quella dell’immateriale,
in Veneto, sia ancora parzialmente incompiuta.
Parzialmente, perché dei passi in avanti significativi
sono stati fatti, almeno in quelle imprese che già da
tempo hanno investito nell’immateriale, investimenti
che peraltro hanno contribuito in modo determinante
alla tenuta del nostro comparto produttivo in questa
complicata crisi strutturale.
E’ evidente che queste considerazioni investono
direttamente anche l’artigianato. Quest’ ultimo lega
poi la propria identità al concetto di tradizione, che
semanticamente rimanda alla ripetizione ancestrale
nel tempo di prodotti, approcci e modalità di
produzione. Ma l’evidenza dei fatti ha sconfessato
con clamore coloro che pensavano che alcune
ricette (anche imprenditoriali) fossero ricette di “ogni
stagione”. Il forte ridimensionameto dell’artigianato
artistico e tradizionale registrato negli ultimi anni, si
lega proprio al suo congenito appiattimento sulla
cultura del prodotto; alla sua difficoltà nel capire
che c’è bisogno “del nuovo” nella “tradizione”, che
la valorizzi, non la tradisca; e quel nuovo, abbraccia
compiutamente la dimensione “dell’immateriale” così
come l’abbiamo descritta nel presente paragrafo.
Diversamente dovremmo assumere che, per qualche
incomprensibile motivo, l’artigianato riesce a sottrarsi
a tutte le logiche che governano le imprese di altri
comparti. Logiche che sono “di mercato” innanzitutto,
perché nessuna impresa riuscirà mai a sopravvivere
se non ha un mercato, e per aver un mercato, oggi,
bisogna conoscerlo ed essere poi in grado di orientare
il proprio prodotto ad esso e non viceversa.
E’ confortante, in questo senso, il percorso
L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO
intrapreso da non poche aziende appartenenti
all’artigianato, anche di settori merceologici diversi,
che sapendo puntare sull’ internazionalizzazione, sul
design, sulla co-progettazione, sulla diversificazione,
sull’innovazione (in una parola “sulla conoscenza”)
si sono resi protagonisti di performance in completa
controtendenza rispetto ai loro comparti economici.
Se le ipotesi di scenario sono corrette, il
passo successivo è pianificare le modalità di politica
economica attraverso le quali si può accompagnare
il traghettamento dell’artigianato “nell’economia della
conoscenza”. Anche perché la ristrutturazione in atto
sta creando un “divario di innovazione” che differenzia
“i territori” in base alla rispettiva capacità di trarre
vantaggio e prosperare nella nuova economia. In tale
prospettiva, la creazione di un ambiente favorevole
all’innovazione costituisce la risposta più adeguata
alle sfide che si vanno presentando. Per far questo
occorre migliorare le condizioni strutturali in cui la
società della conoscenza può maturare, creando
dei punti di snodo connessi a network sovra-locali,
capaci di stimolare il tessuto produttivo e le istituzioni
locali ad un continuo dialogo interno ed esterno.
La Fornace rappresenta già oggi uno di questi
punti di snodo con i servizi di accompagnamento allo
start-up d’impresa, con il laboratorio di ergonomia e
prototipazione virtuale e con gli eventi dedicati alla
creatività e all’innovazione. La Fondazione si impegna
infatti a favorire la crescita culturale della società,
delle istituzioni e del sistema produttivo locale affinché
maturino le precondizioni necessarie a creare un’area
innovativa. Più che un centro, parola che richiama
chiusura e limitatezza, potremmo definire la Fornace
un epicentro, un luogo dove si creano energie che
si propagano e contaminano l’esterno. Un “luogo
9
10
Quaderni di ricerca sull’artigianato
di visione” che è diventato simbolo di una nuova
processualità capace di rilasciare alla comunità locale
e all’artigianato significati che li aiutino a ri-costruirsi
generando nuovi percorsi di sviluppo.
LA CRISI E LE NUOVE SFIDE PER L’ARTIGIANATO VENETO
LA CRISI E LE NUOVE SFIDE
PER L’ARTIGIANATO VENETO
Renzo Genovese
Direzione CNA Veneto
Il 2009 è stato davvero un anno particolarmente
pesante per tutto il sistema produttivo veneto e per le
piccole imprese in particolare; purtroppo i mesi che ci
aspettano non miglioreranno la situazione e quindi il
pericolo di un ridimensionamento importante di tutto
l’artigianato diventa sempre più reale.
La crisi nata sul finire del 2008 sul terreno
strettamente finanziario, si è rapidamente allargata
all’economia e al mondo produttivo con una drastica
e repentina caduta della domanda e successivamente
è rimbalzata anche sul terreno della occupazione con
una pesante contrazione dei posti di lavoro e con
livelli altissimi di Cassa Integrazione.
L’Ebav ha stimato che alla fine del 2009 sono
stati perduti nel solo artigianato quasi 7500 posti di
lavoro pari a -5,2%, (escluso il settore edilizia). Con
133.000 dipendenti l’artigianato è tornato ai livelli del
Al di là dunque dell’andamento del numero delle
imprese iscritte agli Albi provinciali, andamento che
tutto sommato si attesta ad un livello più contenuto
del -1,5%, è soprattutto dal numero degli addetti
complessivi che proviene il segnale più preoccupante,
ed in particolare dai settori manifatturieri: sono
soprattutte le imprese più strutturate, con un maggior
numero di dipendenti che denunciano riduzioni di
occupati più significative.
Di fronte a questa situazione la Cna, di
concerto con le altre Associazioni di categoria, ha
concentrato la sua attenzione prioritariamente su due
11
12
Quaderni di ricerca sull’artigianato
questioni che hanno assunto caratteri di emergenza
e di trasversalità: il credito e l’ammortizzatore sociale;
salvaguardare il più possibile l’impresa e il suo
principale patrimonio, l’occupazione, sono stati al
centro dell’interesse di tutti.
La forte stretta creditizia impressa dal sistema
bancario al mondo delle imprese ha creato danni non
facilmente recuperabili specie sul decisivo terreno
della reciproca fiducia; non si è trattato tanto del
peggioramento delle condizioni e dei costi del credito,
ma della stessa possibilità di accesso o meno al
finanziamento. Ad attutire parzialmente il peso della
restrizione è intervenuto massicciamente il ruolo
dei Confidi che non a caso hanno visto aumentare
di molti punti la loro operatività aggiungendo le loro
garanzie a quelle proprie delle singole imprese.
Per quanto ci riguarda la fusione avvenuta nel
corso del 2008 di cinque Confidi provinciali in un’unica
struttura regionale e la sua successiva trasformazione
in intermediario finanziario vigilato dalla Banca
d’Italia, si sono rivelate scelte strategiche di grande
importanza, perchè hanno consentito al nuovo
Confidi “Sviluppo Artigiano” di affrontare l’emergenza
del 2009 con strumenti di valutazione del rischio e
del conseguente merito di credito, molto più affidabili,
trasparenti e certi rispetto ad un tradizionale Confidi
106.
Va sottolineato a proposito dei Confidi che
anche la Regione nel corso del 2009 ha provveduto
ad erogare contributi ai fondi rischi dei Confidi artigiani
nella misura di cinque milioni provenienti dalla legge
n. 48 e altrettanti in gestione su un totale però di 11
milioni promessi.
La seconda emergenza, quella della tenuta
occupazionale, è stata affrontata d’intesa anche con
LA CRISI E LE NUOVE SFIDE PER L’ARTIGIANATO VENETO
le organizzazioni sindacali, attraverso un accordo,
firmato prima alla fine del 2008 e poi rinnovato alla
fine del 2009, che di fatto ha consentito alle parti
sociali venete, prime rispetto a tutte le altre regioni
italiane, di aprire una sperimentazione concreta di
un nuovo ammortizzatore sociale; si è trattato di uno
strumento misto, privato-pubblico, sostenuto da
risorse sia provenienti dalle imprese e dai lavoratori
sia dallo Stato attraverso l’Inps.
Grazie a questo tipo di ammortizzatore
(sospensione pagata da Ebav e disoccupazione
pagata da Inps), nel corso del 2009, è stato sostenuto
il reddito di circa 15.000 lavoratori e quasi altrettanti nel
corso dei primi tre mesi del 2010. Terminato il periodo
delle sospensioni è scattata la Cassa Integrazione in
deroga che ha consentito il sostegno del reddito per
ulteriori 180 gionate lavorative.
Purtroppo, come si diceva all’inizio, l’onda
d’urto della crisi non è terminata e continuerà almeno
per tutto il 2010 a produrre effetti negativi. Ciò malgrado
si impone la necessità e l’urgenza di guardare avanti,
di cercare di capire quali sono le trasformazioni che
anche un settore come l’artigianato sta vivendo già in
questa fase, e ancor più nei prossimi anni.
La globalizzazione dei mercati, l’emergere
specie nell’Estremo Oriente di grandi poli
manifatturieri, l’impossibilità di competere con questi
nuovi soggetti al livello dei soli costi di produzione,
ma insieme anche l’allargamento in modo rapido e
in forme macroscopiche di nuovi importanti mercati
di sbocco, impongono a tutta la manifattura italiana
ed in particolare alle piccole imprese di ripensare al
proprio posizionamento. Già l’adozione dell’euro
aveva sottratto alla nostra competitività la flessibilità
della svalutazione monetaria; l’entrata in campo ora di
13
14
Quaderni di ricerca sull’artigianato
nuove grandi “fabbriche” mondiali (Cina, India, Brasile,
ecc) spingono il nostro apparato produttivo a cercare
nuovi livelli competitivi in fattori finora scarsamente
utilizzati dalle piccole imprese. Si pensi al ruolo che
sempre più sta assumendo nei processi produttivi
e nei prodotti la ricerca scientifica, la tecnologia, la
conoscenza in generale; si pensi al ruolo crescente
che ha la moda, la trasformazione dei gusti e dei
costumi, l’innovazione stilistica ed estetica, ecc.
Si tratta di frontiere nuove che anche le piccole
imprese devono cominciare ad affrontare passando
progressivamente da quella cultura del “saper fare”
che ha caratterizzato una intera generazione di artigiani
ad una cultura “del sapere e della conoscenza” che
comincia progressivamente ad emergere soprattutto
nelle nuove imprese.
Si tratta di un cambio di passo di notevole
importanza, che deve essere sorretto da adeguate
politiche pubbliche e associative in tema di
aggregazioni, di promozione commerciale, di
innovazione tecnica, di formazione professionale,
ecc..
Questa è la nuova sfida che ha di fronte
l’artigianato veneto.
LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO
LA CRISI E LE TUTELE DEL
LAVORO ARTIGIANO IN VENETO
Ferruccio Righetto
Responsabile Divisione Relazioni sindacali e contrattuali
Confartigianato del Veneto
Un problema acuto è sempre costituito dalla
questione degli ammortizzatori sociali nei settori privi
di CIGO (Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria).
Molti sono stati i tentativi di giungere ad una
riforma organica: dalla metà degli anni 90 a tutt’oggi
le varie deleghe al Governo votate dal parlamento
non hanno portato ad alcun risultato concreto.
Opinioni opposte tra le forze politiche, tra
le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali
hanno sicuramente frenato il processo legislativo.
Negli ultimi anni si è fatta strada la convinzione che
una riforma di tale portata dovesse avere una sorta
di sperimentazione iniziale utile per una verifica degli
assunti di partenza.
La legge 2 del 2009 va in questa direzione e
disegna per la prima volta un sistema organico che
pone come base riformatrice la commistione tra
intervento pubblico e del privato sociale, vale a dire
la bilateralità.
Non è facile quantificare il totale dei dipendenti
coinvolti in questa riforma: il solo settore artigiano
comprende a livello nazionale circa 1 milione e 200
mila dipendenti (con la sola esclusione dell’edilizia),
nel Veneto circa 150.000 dipendenti; all’artigianato
bisogna aggiungere il commercio (imprese sotto i 50
dipendenti) ed altri settori.
Quali sono le novità previste dalla legge? Per
meglio comprenderle dobbiamo fare un passo indietro
15
16
Quaderni di ricerca sull’artigianato
nel tempo vale a dire nel 2005 quando si tentò una
razionalizzazione dell’istituto della disoccupazione,
attraverso la legge 80 del 2005: per la prima volta
un testo legislativo parlava della concessione di
tale ammortizzatore sociale, conosciuto fino a quel
momento dai più solo per i lavoratori licenziati, anche
nel caso della sospensione per mancanza di lavoro.
La stessa legge 80 conteneva in vitro alcuni elementi
portanti che saranno ripresi dalla nuova architettura
disegnata dalla legge 2: in particolare mi riferisco
alla Ds con requisiti ridotti che veniva erogata a
condizione che vi fosse un intervento del 20% da
parte della bilateralità.
Quindi un ruolo rilevante viene assunto dalla
bilateralità.
Non è una novità per il Veneto dove, fin dal
1985 con la costituzione del Falac, fondo del settore
della ceramica alimentato da dipendenti e lavoratori
per i sussidi ai dipendenti sospesi, aveva preso corpo
un intervento congiunto tra disoccupazione (la cui
erogazione era stata ammessa dall’INPS del Veneto
anche per le sospensioni ma non così succedeva in
tutte le Regioni) e sussidio da parte della bilateralità.
Con la nascita di Ebav, come vedremo in
seguito, tale connubio viene esteso a tutte le imprese
artigiane, con esclusione dell’edilizia.
La legge 2 porta a sistema generale l’esperienza
nata nell’artigianato veneto.
Vediamo come risulta
l’architettura della
normativa:
• sfera di applicazione legata ai settori privi di
integrazione salariale
- sperimentalità degli strumenti di tutela del
reddito fino al 2012 con copertura derivante
LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO
dal Fondo per l’occupazione (i singoli istituti
possono prevedere durate inferiori);
- nel caso di lavoratori sospesi per crisi aziendali
ed occupazionali, si prevede l’erogazione
della DS requisiti normali (pari al 60% della
retribuzione entro il limite del massimale) da
parte dell’INPS per la durata massima di 90
giorni all’anno. Condizione indispensabile è
che vi sia una quota integrativa erogata dalla
bilateralità pari al 20 % dell’indennità di DS
stessa (ossia una quota minima del 12%).
- anche l’erogazione della DS a requisiti ridotti è
soggetta a questa previsione
• per la prima volta la normativa della DS viene
ampliata anche agli apprendisti: 90 giorni massimi
nell’intero periodo di vigenza del contratto di
apprendistato sempre erogabili qualora vi sia la
quota integrativa del 20% dell’indennità a carico
della bilateralità; l’erogazione può avvenire sia per
crisi aziendale come per licenziamento.
Solo un accenno al fatto che lo strumento è
stato esteso anche ai lavoratori parasubordinati con
l’erogazione del 30% del reddito percepito l’anno
precedente.
Lo stesso articolo 19, unitamente al DM che
disciplina tutta l’applicazione dell’art. 19 prevede
alcune clausole di intervento della bilateralità:
in sostanza l’impegno della bilateralità è fino a
concorrenza delle risorse disponibili.
Vista la fase di sperimentalità e la non generalità
dello strumento bilaterale, il ministero aveva previsto,
accanto all’utilizzo della disoccupazione, l’utilizzo
della cig in deroga su due momenti:
- un primo, appunto, che riguardava i periodi
17
18
Quaderni di ricerca sull’artigianato
-
temporali successivi all’intervento dell’ente
bilaterale;
un secondo riguardante
le imprese non
aderenti alla bilateralità che potevano accedere
immediatamente alla CIG in deroga.
Importante è conoscere quale sia stato
l’impatto dell’art. 19 legge nel Veneto.
Innanzitutto partiamo da una rappresentazione
della bilateralità nell’artigianato costituita da Ebav e
dalle casse edili artigiane.
Ebav è il più grande ente bilaterale esistente
in Italia: raccoglie i versamenti di 35mila imprese
per un totale di 145.000 lavoratori distribuiti su circa
18 settori. Il fondo è organizzato su due livelli: uno
con prestazioni generali rivolte a tutte le categorie;
un secondo livello, alimentato dalla contrattazione
regionale, nel quale ogni categoria articola e sceglie
i propri interventi. Nel secondo livello trova posto il
fondo destinato alle sospensioni. Nel 2009, anno di
maggiore crisi del nostro sistema produttivo veneto,
sono stati erogati 5 mln di € a 15000 lavoratori
dell’artigianato.
Nel corso del 2009 EBAV ha anche subito,
a seguito dell’accordo interconfederale del 21
settembre firmato dalle tre OOSS, CGIL, CISL e UIL,
una profonda rivisitazione per adeguare al periodo di
crisi le sue prestazioni a sostegno delle imprese e dei
lavoratori.
E’ opportuno sottolineare il fatto che, a
differenza della bilateralità artigiana di altre regioni,
la prestazione di sostegno al reddito destinata ai
lavoratori rappresenta solo il 16% per cento del
totale delle uscite dell’ente bilaterale artigianato
veneto. Infatti EBAV rispetto alla bilateralità di altre
LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO
regioni ha una notevole gamma di interventi che
spazia dai sussidi assistenziali ai lavoratori e sostegni
alla ristrutturazione del credito per le imprese, dalla
formazione agli interventi sulla sicurezza, dalla
promozione delle assunzioni per i lavoratori licenziati
ad interventi
Ebav rappresenta una sintesi importante e di
successo tra due elementi che appaiono centrali nel
dibattito sulle relazioni sindacali emerso recentemente.
Come abbiamo visto, le sue prestazioni ed
i suoi costi sono determinati dalla contrattazione
collettiva regionale anche di categoria, con una
intuizione nata ben prima dei recenti sviluppi derivanti
dai vari accordi nazionali in materia di regole sulla
contrattazione.
La casse edili artigiane rappresentano un
importante elemento di autonomia del settore
artigiano: 19000 lavoratori versanti, 6000 le imprese
aderenti. In questa maniera le imprese artigiane
possono adottare la propria contrattazione di
categoria. Tra le innovazioni portate nel settore
edile grazie alla contrattazione collettiva regionale,
l’attivazione di uno specifico fondo destinato ai
circa 2600 apprendisti del settore. Con tale fondo,
che ha permesso ai lavoratori di erogare una quota
integrativa, nel 2009 hanno potuto accedere alla
indennità di disoccupazione circa 600 apprendisti.
Certamente
il Veneto ha costituito un
importante laboratorio per la messa a punto di un
sistema di ammortizzatori sociali. Per far ciò non
era necessario solo registrare la macchina della
bilateralità ma anche agire in profondo sul coacervo di
disposizioni, circolari e di comportamenti che si erano
cristallizzati nel tempo con la precedenti normative.
19
20
Quaderni di ricerca sull’artigianato
In virtù delle esperienze acquisite nel tempo proprio
dal nostro settore sono arrivate le principali istanze.
Infatti si era manifestato un pericoloso intreccio tra
la normativa di DS dei lavoratori licenziati con quella
dei lavoratori sospesi. Pesante risultava l’applicazione
della normativa sulle riprese lavorative, elemento
residuale per i lavoratori licenziati, al contrario
elemento essenziale per i lavoratori sospesi. Grazie
all’intervento della direzione dell’INPS regionale,
che ha monitorato costantemente l’applicazione
della legge 2 e se ne è fatta carico rispetto alla sede
nazionale, i vari problemi sono stati qui risolti ed
hanno costituito il riferimento per la generalità delle
imprese italiane.
Se l’anno 2009 ha costituito una fase di
rodaggio di un sistema alla prova, l’anno 2010 ha
già dimostrato l’efficienza della bilateralità con la
messa in linea di pagamenti mensili ed un intreccio
di dati con l’Inps attraverso una apposita piattaforma
telematica.
Non sottovalutaviamo le critiche che, al di
fuori del Veneto, hanno messo in luce le criticità di un
siffatto modello:
- la fragilità di un sistema di enti bilaterali che
nell’artigianato appare forte solo al Nord e poco
presente nelle regioni del Sud mentre negli altri
settori appare appena abbozzato;
- gli eventuali elementi di incostituzionalità basati
sul principio di libertà sindacale (Art.39 Cost.)
e della distinzione tra parti obbligatorie e parti
economico-normative delle pattuizioni collettive.
Secondo questa tesi la parte obbligatoria (e
l’adesione all’ente bilaterale viene considerata tale)
impegna solo le imprese aderenti alle associazioni
LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO
sottoscrittrici e pertanto potrebbe generare un
danno ai lavoratori sulla base della volontà o
meno di aderire espressa dall’impresa oppure
al contrario avrebbe costretto ad una adesione
coatta contraria al principio di libertà sindacale già
espresso.
Malgrado tali critiche osserviamo come la
bilateralità nel corso del 2009 non sia rimasta solo
una eccezione dell’artigianato veneto.
Importanti interventi per le sospensioni sono
stati realizzati dal settore commercio e turismo ed in
misura minore dall’agricoltura.
Il fatto più eclatante rimane sicuramente lo
sdoganamento della bilateralità all’interno della
contrattazione delle imprese industriali. Nel contratto
della metalmeccanica è stato infatti introdotto il Fondo
nazionale, alimentato da imprese e lavoratori, che
andrà ad integrare la quota di CIG erogata dall’INPS.
Se vi sembra poco...
21
LA PICCOLA IMPRESA TRA CAMBIAMENTO E NUOVA RAPPRESENTANZA
LA PICCOLA IMPRESA
TRA CAMBIAMENTO
E NUOVA RAPPRESENTANZA
Stefano Zanatta
Confartigianato Asolo Montebelluna
L’artigianato veneto, al pari degli altri
comparti economici, non sta vivendo un momento
particolarmente sereno. Nonostante ciò, esso
continua ad essere la spina dorsale dell’economia
regionale. E’ grazie ad esso, e alla piccola industria,
che la nostra Regione si è sviluppata è arricchita nei
decenni scorsi, ed è ancora una volta grazie ad esso
se la crisi economica internazionale non si è abbattuta
con ancor maggior veemenza sui nostri lavoratori
e sulle nostre famiglie. Sono molti coloro che oggi
tessono le lodi della piccola impresa, sottolineando la
funzione di ammortizzatore sociale da essa esercitata
in questi difficili mesi, nonché elogiando retoricamente
i saperi e i valori che essa tramanda da generazioni.
Sembrano passati secoli da quando ci si affannava a
denunciare la fragilità del nostro tessuto produttivo al
cospetto di quella di altri Paesi che, grazie alle grandi
imprese e alle multinazionali, colonizzavano senza
posa le economie sviluppate e quelle emergenti. Il
grande imputato era proprio la piccola impresa, i suoi
limiti dimensionali, la sua conduzione famigliare, la sua
presunta incapacità di innovarsi e internazionalizzarsi.
Ebbene, noi crediamo che oggi più che mai
si debba uscire dalla retorica e dalla dietrologia per
concentrarsi sulla realtà, anziché costruire teorie che
non appena rinchiuse in un “sistema di pensiero”
già divengono anacronistiche perché superate da
qualche sconvolgimento macroeconomico. La realtà
23
24
Quaderni di ricerca sull’artigianato
ancora una volta sta “in mezzo”, non oscilla assieme
all’alternarsi delle scuole di pensiero, ma in qualche
modo in esse si specchia. La realtà è che viviamo
in un Paese che dovrebbe riconoscere finalmente a
sé stesso che non di piccola impresa, ma di “piccolo
pensiero”, può morire. Il “piccolo pensiero” è quello che
porta a pensare di essere capaci di fare da soli, di non
aver bisogno di altri, di bastare a se stessi. Il piccolo
pensiero induce a dividersi, a guardare il tornaconto
immediato, l’interesse particolare, trascurando, forse
perché “troppo grande”, l’interesse generale o un
ritorno dilazionato dei propri investimenti economici,
sociali e politici.
Belle parole, ma nei fatti, cosa si può fare?
Si può fare molto, se ci si rimette in discussione e
magari, prima di pretendere qualcosa dagli altri, si è
disposti a dare “il buon esempio”.
Non lo nascondiamo, è stata questa la tensione
morale, queste le “affinità elettive”, che due anni fa
hanno spinto il gruppo dirigente di Confartigianato
Asolo e di Confartigianato Montebelluna ad immaginare
un futuro assieme al servizio delle piccole imprese.
Una visione comune ci ha portato dunque alla fusione
in una nuova associazione, nata nel gennaio scorso,
che si chiama Confartigianato AsoloMontebelluna
ed oggi rappresenta 3.000 imprese impiegando
130 dipendenti. Ma la visione comune nasce solo
quando c’è una lettura convergente della realtà e dei
suoi probabili sviluppi futuri. La nostra lettura è che il
“piccolo è bello” purchè sia una scelta consapevole,
aperta al dialogo e alle collaborazioni e non
arroccata nel “piccolo pensiero”. Alla luce della crisi
odierna, ma ancor più in considerazione di alcune
dinamiche in atto da decenni, ci sembra davvero
una strada obbligata quella di avere un approccio
LA PICCOLA IMPRESA TRA CAMBIAMENTO E NUOVA RAPPRESENTANZA
sistemico alla soluzione dei problemi, siano essi di
dimensione microeconomico o macroeconomica.
Non dimentichiamo infatti che i decenni più recenti
sono stati caratterizzati da profondi cambiamenti a
livello internazionale che hanno sconvolto equilibri,
anche geopolitici, che sembravano ormai consolidati.
I cambiamenti repentini hanno prodotto tensioni
dirompenti nel mondo del lavoro, delle imprese e
delle relazioni sindacali. Mentre l’economia mondiale
si integrava velocemente, spinta dalla globalizzazione
e dall’apertura dei mercati, a livello locale “molti nodi
sono venuti al pettine”. L’interdipendenza dei mercati
obbliga infatti le imprese e le comunità a confrontarsi
con Paesi lontani e diversi, un confronto teso e
spiazzante trainato da una globalizzazione economica
che esige di ridurre repentinamente differenze
culturali, linguistiche e storiche in omologanti “modelli
di consumo”.
Senza banalizzare le complesse dinamiche
socio-economiche in atto, si può dire, a ragion
veduta, che il cambiamento, e quindi l’incertezza che
ne deriva, sia la caratteristica dominante che più di
ogni altra contraddistingue i nostri giorni. In questo
scenario evolutivo, come spesso accade, a rispondere
con maggior solerzia all’incalzare degli eventi sono
state le imprese che, con la loro flessibilità e capacità
di adattamento, hanno iniziato, non senza qualche
contraccolpo doloroso, un faticoso e inevitabile
percorso di ristrutturazione e riposizionamento.
Un percorso che a nostro giudizio può e deve
essere sostenuto con maggior vigore da parte della
rappresentanza (le associazioni di categoria) come
anche dalla politica.
Per quanto riguarda le associazioni, riteniamo
che oggi, accompagnare le piccole imprese alla
25
26
Quaderni di ricerca sull’artigianato
crescita e al consolidamento comporti la capacità
di erogare servizi nuovi ed evoluti, di migliorare la
qualità di quelli tradizionali, di rispondere in modo
efficace ed efficiente alle esigenze degli imprenditori
anche anticipando, laddove possibile, quelle che
emergeranno in futuro. Oggi “rappresentare” gli
imprenditori significa conoscerli davvero bene, saper
interpretare e rappresentare i loro interessi, saperli
guidare, saper fare un’azione di lobby autorevole e
incisiva presso le Istituzioni.
Per quanto riguarda la politica, accompagnare
le piccole imprese comporta il dovere di levare lo
sguardo dalle contingenti divisioni e metter mano
a quelle grandi riforme (welfare, liberalizzazioni,
efficienza della pubblica amministrazione, lotta agli
sprechi e all’evasione, riforma fiscale, investimenti
strategici) che se da sole non risolveranno tutti i
problemi, certamente non contribuiranno a crearne
costantemente di nuovi.
IL VERO SIGNIFICATO DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE
IL VERO SIGNIFICATO
DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazione per la Sussidiarietà
La crisi che ha recentemente colpito la gran
parte dei mercati - e di conseguenza tanti operatori
economici singoli e associati - offre molti spunti per
riflettere sull’impresa, sul suo ruolo ed anche sulla sua
natura. La crisi è stata determinata a livello dei mercati
finanziari pertanto da qui occorre partire. L’aziendaimpresa nasce perché qualcuno si accolla il rischio
imprenditoriale connesso all’incertezza sul fatto che il
mercato valorizzerà il suo tentativo.
Negli anni più recenti si sono creati mercati,
quelli finanziari, in cui questa dinamica è diventata
secondaria o talvolta del tutto assente e l’unica
incertezza da remunerare è stata quella delle
asimmetrie informative, delle informazioni mancanti,
dei surplus ingiustificati nell’economia reale.
La crisi finanziaria deve essere letta non solo
come esito di tecniche contabili usate in maniera
approssimativa o fraudolenta, ma come esito di una
concezione ridotta di uomo e di impresa.
Infatti, perché un soggetto deve accollarsi
un rischio così oneroso, che richiede tante energie
proprie e altrui? Perché la sua capacità creativa,
di trasformazione della realtà, il suo desiderio di
costruire, di migliorare la propria condizione, quella
della sua famiglia e del suo territorio, sono radicati
nella sua natura umana. Contrariamente a una certa
letteratura sociologico-economica, la disposizione
a “intraprendere” è direttamente proporzionale a
quanto un uomo vive la sua natura profonda, fatta
27
28
Quaderni di ricerca sull’artigianato
di desiderio di giustizia, verità, bellezza e a quanto
questo desiderio è educato nelle realtà sociali,
territoriali, ideali, a cui appartiene.
Ciò non significa negare il ruolo determinante
del profitto, indicatore indispensabile di ogni attività
economica. Significa mettere in rilievo la ragione
che sta alla base della creazione di ricchezza,
senza cui ogni descrizione del sistema economico è
un’interpretazione di come funziona ciò che c’è, ma
non spiega perché si è generato.
Rileggendo la storia di imprese divenute
poi colossi multinazionali, leggendo le vicende di
tantissime piccole e medie imprese di successo,
si vede come l’imprenditore è la prima risorsa
dell’impresa. Per parlare di casa nostra, se un
profitto svicolato dal desiderio di lavorare e costruire
dominasse l’azione, perché mai nell’attuale crisi i
piccoli e medi imprenditori italiani, che producono
il 70% del fatturato e danno lavoro all’80% degli
occupati italiani, dovrebbero resistere alla tentazione
di vendere l’impresa, tenere i soldi in famiglia senza
reinvestirli e vivere di rendita? Come insegnano
i grandi autori dell’economia aziendale italiana,
un’impresa, soprattutto piccola e media, che voglia
reggere nel lungo periodo deve essere mossa da un
insieme di valori e ideali legati alla valorizzazione dei
suoi lavoratori considerati come persone. Per questo,
dalla recente indagine Sussidiarietà e… piccole e
medie imprese (Mondadori Università, Milano, 2009)
è emerso come i piccoli e medi imprenditori siano
nella loro maggioranza spinti, oltre che dalla ricerca
del profitto, anche dal desiderio di creare posti di
lavoro e di rendere l’impresa, anche a proprie spese,
un luogo dove i lavoratori stiano bene. D’altra parte,
come ha affermato Giulio Sapelli, la piccola e media
IL VERO SIGNIFICATO DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE
impresa è una “comunità organica dove si pensa e si
fatica e si soffre e si gioisce e si vive nel lavoro gomito
a gomito, faccia a faccia, famiglia a famiglia, strada
per strada del paesino e della cittadina. Non ci sono
formule matematiche per definire e per capire queste
imprese: ci sono le regole della vita in comunità nella
cultura del lavoro e nella fedeltà al patto che s’instaura
con coloro che con l’imprenditore lavorano. E che
sono pronti a seguire non tanto lui, ma soprattutto
l’impresa con lui, l’impresa che dopo anni e anni di
lavoro diventa una proprietà condivisa moralmente
prima che giuridicamente”.
Occorre quindi riflettere su che cosa
significhi partire da una concezione dell’uomo non
ridotta in partenza e, sulla base di essa, porsi degli
interrogativi riguardanti i salari, la crescita aziendale,
le responsabilità, la governance dell’impresa, il tipo di
forma societaria.
Infatti la centralità della persona non è
strumentale a qualcos’altro, è un valore di per
sé. Altrimenti, dopo aver capito che motivazione
personale e passione al proprio lavoro sono risorse
importanti, per esprimerle al meglio si adotta una certa
strategia, senza domandarsi da dove nascano queste
risorse umane. E’ un problema di rapporto umano
con la persona nella sua integralità. Un uomo libero è
ciò che di meglio si possa sperare, anche dal punto
di vista aziendale. Avere una famiglia, dei legami, dei
rapporti, dei valori, è un bene per l’azienda, anche se
appartengono a qualcosa di diverso dall’azienda.
Se impostare il lavoro sulle risorse umane per
le aziende è stato un bene, cosa vuol dire allearsi con
il valore ultimo, il destino, la felicità della persona? Si
tratta di un valore metodologico nuovo.
Da questa rilettura della dinamica originaria del
29
30
Quaderni di ricerca sull’artigianato
fare impresa emerge una seconda considerazione.
L’impresa non è un tentativo solitario, che ha come
destinatario ultimo solo l’imprenditore; dice Benedetto
XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate: “Accanto al bene
individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle
persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”,
formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che
si uniscono in comunità sociale. Non è un bene
ricercato per se stesso, ma per le persone che
fanno parte della comunità sociale e che solo in essa
possono realmente e più efficacemente conseguire il
loro bene”.
Secondo l’indagine sopra citata, per ciò
che concerne la concorrenza, nei piccoli e medi
imprenditori italiani, prevale sulla “competizione
darwiniana” di tipo neoclassico una tendenza alla
condivisione con i concorrenti dell’attività di ricerca
e sviluppo, di internazionalizzazione, di strategia per
migliorare la competitività. Chi pensa che queste
siano divagazioni poetiche rifletta su come la fortuna
inaspettata dei nostri distretti nasca da questa strana
concezione di concorrenza creativa e collaborativa fra
imprese.
Nonostante questo, difficilmente il singolo
imprenditore, anche per chi lo rappresenta, è
importante: ci si fregia di difenderlo, ma non lo si
accompagna nel suo processo di sviluppo. Invece,
lo sviluppo della piccola e media impresa e la sua
trasformazione è la vera e grande emergenza
dell’Italia e la battaglia degli anni futuri: da essa
dipende lo sviluppo economico e sociale del nostro
Paese contro ogni tipo di rendita, quella politica e
quella economica.
NUOVI SCENARI
NUOVI SCENARI
Il primo articolo della sezione si fonda su
di una imprescindibile constatazione: negli ultimi
decenni l’economia ha conosciuto un mutamento
radicale che ha portato al centro della scena la
conoscenza quale fonte primaria dei processi
lavorativi, nonché settore trainante della produzione
e della ricchezza. Ma se è vero che finora le varie
teorie della formazione si sono declinate a partire
dalle grandi organizzazioni, pochissimo è stato scritto
sulle specificità della formazione imprenditoriale
rivolta alle piccole imprese. Si tenta nello specifico di
sottolineare, invece, l’importanza di questo aspetto
per le imprese artigiane: la formazione fruita dal titolare
o dai soci ha un effetto determinante ed immediato
sull’azienda, sulla sua organizzazione, sui contenuti
tecnici e sull’organizzazione del lavoro. Vengono
quindi presentati i risultati di una ricerca empirica sulle
imprese artigiane del Piemonte.
Il secondo saggio esplora la situazione del
mercato del lavoro italiano, in un contesto europeo
e comparato, dal punto di vista delle recenti
trasformazioni contrattuali e sociali intervenute. Si
sostiene la necessità di trovare un raccordo, in Italia,
tra la dimensione di flessibilità, ormai largamente
introdotta, e la dimensione di sicurezza sociale,
attraverso la riforma dell’attuale sistema complesso
31
32
Quaderni di ricerca sull’artigianato
e disorganizzato di ammortizzatori sociali dove si
percepisce un certo vacuum. Senza voler riconoscere
alla flessibilità meriti che non ha né in termini di aumenti
di occupazione né di incrementi di produttività,
questo lavoro suggerisce che in Italia, il recepimento
del modello flexicurity debba significare da un lato
l’incremento di protezione, tutele e diritti sociali per
occupati e disoccupati, dall’altro l’eliminazione di
certe rigidità nel mercato dei beni. Questa esigenza
è stata messa maggiormente in evidenza dall’attuale
crisi finanziaria che ha portato nei mercati reali una
crescita considerevole dei tassi di disoccupazione
e quindi una maggiore domanda di protezione del
reddito, soprattutto per una fascia notevole di ex
occupati con contratti atipici i quali si trovano senza
i requisiti necessari per poter accedere alle forme di
protezione sociali vigenti.
Il terzo intervento parla di artigianato
descrivendone le dinamiche in una zona specifica
come la città di Napoli. Le ambiguità e le contraddizioni
sedimentate nella sua storia millenaria fanno del
Centro Storico di Napoli un terreno di osservazione
privilegiato per approfondire il complesso rapporto
che lega le politiche urbane a quelle dello sviluppo
economico nelle grandi metropoli che faticosamente
vanno alla ricerca di una loro riconfigurazione
funzionale di tipo post-industriale.
L’ultimo articolo si concentra sulle reazioni
avutesi in Veneto nel settore dell’edilizia e più in
generale in quello dell’artigianato di fronte all’evento
recessivo di cui si è già detto. Tramite la presentazione
di dati riferiti al 2008 e al 2009, viene dimostrato
che la crisi del mercato ha colpito soprattutto la
microimpresa e la piccola impresa, mentre le imprese
più strutturate hanno dimostrato che la loro maggiore
NUOVI SCENARI
organizzazione e capitalizzazione ha consentito di
posticipare, e in alcuni casi annullare, gli effetti negativi
del mercato.
33
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
CONOSCERE I MODELLI
E I BISOGNI DI FORMAZIONE
IN AZIENDA
I risultati di una ricerca empirica sulle
imprese artigiane del Piemonte
Renato Lanzetti, Davide Roccati,
Giovanna Spolti, Emiliana Armano
L’artigiano è la figura rappresentativa
di una specifica condizione umana:
quella del mettere un impegno personale
nelle cose che si fanno.
Richard Sennett, L’uomo artigiano
Introduzione
Le piccole imprese costituiscono da sempre
una ricchezza imprescindibile, sia numericamente
che qualitativamente, per l’economia italiana, e non
solo. Eppure sia tutto il sapere manageriale che la
teoria della formazione si sono sviluppate e declinate
più che altro a partire dalle grandi organizzazioni.
Poco o nulla è stato scritto sulle specificità della
formazione imprenditoriale rivolta alle piccole imprese.
Lo stesso prestigio dei formatori molto spesso
riposa sulla frequentazione di top manager e grandi
gruppi industriali, ma non certo di quella miriade di
imprenditori protagonisti nella gestione di sfide che
vanno ben oltre quelle formali della propria impresa. E
che raccolgono innumerevoli successi.
Il presente articolo richiama e sintetizza i risultati
della ricerca empirica realizzata su questo tema dal
Sistema Informativo delle Attività produttive della
Regione Piemonte e realizzata dalla collaborazione
35
36
Quaderni di ricerca sull’artigianato
tra i ricercatori della società Seldon Ricerche Torino, il
Sistema Informativo delle Attività Produttive e L’IRES
Piemonte.
Lo studio, recentemente pubblicato e
interamente accessibile alla pagina web: http://
www.regione.piemonte.it/artig/dwd/mod_artig.pdf,
ha rappresentato l’ideale continuazione di precedenti
ricerche già realizzate nel periodo 2002-2007 e
promosse dal Sistema Informativo Attività Produttive
(già Osservatorio dell’Artigianato), sull’analisi dei
fabbisogni delle imprese, nonché la prosecuzione
delle ricerche sul capitale sociale e formativo nelle
imprese artigiane piemontesi.
Negli ultimi decenni l’economia ha conosciuto
un mutamento radicale che ha portato al centro
della scena la conoscenza, divenuta fonte primaria
nei processi lavorativi, nonché settore trainante della
produzione e delle ricchezza.
Parlare di formazione in azienda, ed in modo
specifico nelle imprese artigiane piemontesi, non
significa assolutamente limitare l’analisi al tema,
seppur importante, della formazione professionale.
Nelle imprese artigiane, infatti, la formazione fruita
dal titolare o dai soci ha un effetto determinante ed
immediato sull’azienda, sulla sua organizzazione, sui
contenuti tecnici e sull’organizzazione del lavoro.
Numerosi lavori hanno evidenziato come
l’atteggiamento dell’artigiano verso la formazione
professionale sia diverso a seconda che si tratti
di learning by doing o di formal learning: nel primo
caso l’approccio è quello dell’apprendimento on the
job, basato sull’esperienza acquisita direttamente
in situazione di lavoro, approccio a cui gli artigiani
si rifanno più frequentemente con dinamiche e
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
modalità che vedremo essere molto interessanti.
Il secondo è l’apprendimento più formale, a cui si
accede partecipando ad attività formative di aula
quali corsi, convegni, o e-learning; in questo caso la
pratica formativa dell’artigiano risulta spesso essere
“vincolata” a qualche disposizione normativa che ne
sancisce l’obbligatorietà.
All’interno di questa dualità di approccio le
vie percorse dai diversi attori sono molteplici e le
declinazioni che ne derivano disegnano uno spaccato
imprenditoriale variegato e dinamico.
Possiamo comunque affermare senza tema
di smentite che la formazione, sia essa formale
o informale, interna o esterna all’azienda, è un
importante strumento di costruzione della strategia
aziendale, e per questo va compresa a fondo.
A partire da questa esigenza, forte sia dal punto
di vista conoscitivo che da quello della definizione di
politiche attive per lo sviluppo, la ricerca ha indagato
l’atteggiamento e il rapporto che gli artigiani hanno
con questo importante strumento, e quali sono le
modalità che utilizzano per rapportarsi con esso.
Domande e obiettivi di ricerca
Alcune domande costituiscono le linee guida
dell’indagine: chi fa formazione, su cosa si fa, dove la
si effettua, quanta se ne fa, in che modo e per quali
motivi, quali sono gli atteggiamenti culturali verso la
formazione, che significato e che valore ad essa viene
assegnato.
Dare risposta a queste domande, riuscendo
ad analizzare il tema in maniera approfondita,
significa far emergere alcune tipologie di imprenditori
e di stili interpretativi della formazione, evidenziando
le relazioni tra i fenomeni che passano per aspetti
37
38
Quaderni di ricerca sull’artigianato
quali il settore di appartenenza, le caratteristiche
sociodemografiche dell’imprenditore, la dimensione
d’azienda, la localizzazione geografica.
Un ulteriore valore aggiunto della ricerca
è il tentativo di arrivare a costruire un “dizionario”
comune, o almeno condiviso delle diverse accezioni
e sfumature dei termini, grazie al quale sarà possibile
capire come gli artigiani interpretano espressioni
molto utilizzate quali, ad esempio, “affiancamento”,
“formazione on the job” “formazione tecnica” e
“formazione teorica”.
In questo modo sarà possibile leggere ed
interpretare come la formazione si relazioni con
gli aspetti esterni all’azienda (legislazione vigente,
obblighi di legge, disponibilità di incentivi) e con quelli
interni (legame tra livello di formazione pregressa,
fabbisogni formativi e strategie di assunzione).
Nel corso dell’indagine un approfondimento
specifico è stato dedicato alla formazione effettuata,
o che occorrerebbe effettuare, nelle imprese artigiane
che operano nel campo del cinema e della televisione:
infatti, Torino ed il Piemonte stanno proponendo
sempre più positivamente al mondo dello spettacolo
numerose location per riprese cinematografiche
e televisive, e questo sta diventando un mercato
nel quale le imprese artigiane piemontesi possono
inserirsi positivamente.
Metodologia.
Lo studio si è sviluppato in due parti; una
prima ricerca quantitativa di ampio respiro su tutto
il mondo dell’artigianato e un affondo esplorativo di
tipo qualitativo sui bisogni formativi dell’artigianato
piemontese inserito nella filiera del cinema. La
scelta quindi è stata quella di produrre una mappa
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
d’insieme sulla formazione nel suo complesso, alla
quale si è affiancata un’esplorazione qualificata su un
promettente ambito d’attività per le imprese artigiane.
Per lo svolgimento della ricerca empirica
quantitativa originale si intervistato telefonicamente
un campione di titolari e soci di imprese artigiane
del Piemonte, stratificato per settore di attività e
territorio. Sono stati scelti quattro settori (riparazioni,
metalmeccanica, costruzioni e servizi alle imprese)
rappresentativi della realtà artigiana piemontese e nei
quali ricerche precedenti hanno evidenziato un buon
livello di ricorso allo strumento formativo.
Rispetto agli addetti, è stato deciso dal gruppo
di lavoro di escludere le aziende monocellulari.
Una volta individuato l’universo di riferimento
lo step successivo è stata la definizione della
stratificazione del campione sulla base della classe
dimensionale.
La dimensione territoriale è stata trattata
assumendo la necessità di avere, per ciascun dei
quattro settori, 50 interviste sulla Provincia di Torino e
50 interviste sul resto del Piemonte.
La rilevazione, condotta su imprese allocate
sul territorio regionale estratte da elenchi ed
indirizzari forniti dalla Banca dati dello stesso Sistema
Informativo dell’Artigianato, è stata effettuata tra
marzo e maggio 2009 attraverso la somministrazione
di un questionario strutturato a 400 imprese artigiane.
L’obiettivo della rilevazione è stato raggiunto, con
l’effettuazione di 385 interviste complete. I dati raccolti
sono stati quindi elaborati con tecniche di analisi di
primo e di secondo livello attraverso software specifici
dedicati all’analisi statistica dei dati.
La seconda parte della ricerca, volta
all’approfondimento qualitativo sulla formazione
39
40
Quaderni di ricerca sull’artigianato
degli artigiani impegnati nella filiera del cinema, è
stata realizzata con interviste agli esperti locali che
maggiormente si occupano dello sviluppo di questo
settore e con uno specifico focus group che ha
coinvolto gli artigiani.
Risultati di ricerca
Dall’analisi dei dati raccolti sono emerse alcune
particolari e ben definite tipologie di imprenditori e di
stili di interpretazione della formazione.
In generale, si riscontra un atteggiamento
positivo verso il tema: quasi il 60% degli intervistati
considera la formazione un importante fattore di
sviluppo. Se ad essi si sommano coloro che pensano
che la formazione sia importante ma costosa, si
ottiene che il 66% degli imprenditori artigiani intervistati
considera la formazione una leva importante per la
propria attività. Tra le aziende che individuano nella
formazione un elemento strategico e di sviluppo
si trovano soprattutto quelle di riparazione (32%) e
di servizi alle imprese (25%), mentre tra gli artigiani
che pensano che la formazione non sia un aspetto
rilevante si riscontrano soprattutto i metalmeccanici
(24%); non esistono differenze significative per le
aziende di costruzioni.
L’importanza della formazione cresce con il
crescere delle dimensione: infatti, sono il 76% delle
aziende più grandi a sostenere che la formazione è
un elemento importante, contro il 52% di quelle più
piccole.
La citazione di Sennett riportata in capo
all’articolo, e che richiama anche alla radice
etimologica della parola “artigiano”, trova riscontro
nelle risposte che vengono fornite dagli intervistati
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
rispetto all’apparato produttivo esistente e al grado di
specializzazione degli addetti.
I dati evidenziano come le imprese artigiane
tendano a leggersi come soggetti con un patrimonio
elevato in termini di risorse umane: gli addetti sono
specializzati (76%) e si aggiornano continuamente
sulle ultime novità tecnologiche (67%); inoltre, gli
impianti sono adattati dal personale interno (67%),
il tutto a fronte di un basso turnover (7%) e di una
scarsa presenza di processi produttivi automatizzati
(19%).
Come si osserva nella figura successiva,
incrociando la dimensione della specializzazione degli
addetti con quella relativa all’esistenza di processi
produttivi automatizzati otteniamo quattro profili
di aziende che si collocano ad altrettanti livelli di
specializzazione del processo produttivo.
Emerge che, rispetto al grado di
specializzazione, la maggioranza delle imprese (60%)
si configura come il classico artigianato avanzato,
o di mestiere, che lavora con addetti altamente
specializzati ma con processi produttivi a bassa
automatizzazione.
41
42
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Modelli delle imprese secondo il livello di
specializzazione
Rispetto ai settori di appartenenza si osserva
che tra gli artigiani con alto livello di automazione
del processo produttivo si collocano soprattutto
le imprese metalmeccaniche (50% dell’artigianato
avanzato e 63% di quello fordista), mentre tra gli
artigiani di mestiere ritroviamo soprattutto le imprese
dei settori delle riparazioni (33%) e dei servizi (28%).
Per contro, più di un artigiano su cinque
(21,6%) dichiara di non avere addetti particolarmente
specializzati e nemmeno processi produttivi
automatizzati; sono gli artigiani definiti low-profile,
con un livello di specializzazione molto basso. Presenti
in tutti i settori, con leggera prevalenza nel settore
metalmeccanico (31,3%) e delle riparazioni (30,1%),
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
per il 69% sono imprese di piccole dimensioni, fino a
cinque addetti.
Significativa ma non elevata risulta essere la
presenza di artigiani che impiegano addetti altamente
specializzati in processi produttivi ad automazione
elevata. E’ l’artigiano che definiamo avanzato (15,8%).
Infine si riscontra una quota molto bassa di
artigiani che, pur operando in processi produttivi ad
elevata automazione, non richiedono un alto grado
di specializzazione degli addetti. Si tratta di un profilo
di artigiano che definiamo di tipo fordista, presente
solo nel 2,9% dei casi.
Per gli artigiani in genere, ma soprattutto per
l’artigianato avanzato e quello di mestiere, l’importanza
del capitale umano presente in azienda è strategica
per il benessere dell’impresa. Dal saper fare degli
addetti dipende largamente l’andamento e la buona
riuscita dell’impresa; per questo le caratteristiche
richieste agli operai diventano fondamentali.
Come evidenziato dai dati che emergono
dall’indagine, gli artigiani selezionano i collaboratori
sulla base di più fattori: oltre al curriculum formativo,
che non risulta essere la discriminante principale,
la selezione tiene conto soprattutto delle attitudini,
del carattere, delle capacità e della disponibilità del
candidato ad assumere ruoli e carichi di lavoro previsti
dalla mansione che esso dovrà ricoprire.
Alla luce di questo atteggiamento, spesso
latente ma largamente diffuso non solo nell’artigianato
ma anche in altre realtà produttive, in sede di selezione il
collaboratore ideale prediletto dall’artigiano dovrebbe
essere portatore di un mix di caratteristiche che viene
definito tecnico-caratteriale, dove le competenze
tecniche e la specializzazione coesistono con elementi
43
44
Quaderni di ricerca sull’artigianato
di atteggiamento verso il lavoro e con le capacità di
affrontare situazioni lavorative eterogenee.
Abbiamo poi domandato agli artigiani in quali
aree di competenze si rilevino dei fabbisogni di
formazione, sia per se stessi che per i propri soci di
impresa, nonché per gli addetti subordinati.
I risultati fanno emergere due profili di
richieste “formative” un po’ differenziati. Nel primo
caso, relativo ai titolari e soci, oltre alla necessità di
competenze tecnico-produttive spiccano le necessità
di competenze trasversali (informatiche, linguistiche
ecc…) che, insieme alle competenze commerciali
e amministrative, fanno di un artigiano che produce
un imprenditore che sa gestire le complessità di
un’impresa.
Infatti, la crescente complessità gestionale
imposta dal mercato richiede all’imprenditore di
oggi compiti e competenze sempre più trasversali.
L’imprenditore, anche quello artigiano, oltre che
continuare a lavorare e produrre, deve affrontare
incombenze gestionali e amministrative sempre più
complesse, e non tutti gli artigiani sono in grado
di farlo. Ecco quindi che la richiesta di formazione
trasversale, gestionale, commerciale e amministrativa,
fatta registrare degli imprenditori artigiani segnala
l’esistenza di un forte fabbisogno formativo di
competenze utili all’ampliamento progettuale e
strategico dell’impresa.
D’altra parte, le richieste formative per gli
addetti subordinati sono soprattutto di tipo tecnico e
meno di tipo gestionale amministrativo.
I dati evidenziano due modi differenti di
interpretare la formazione e quindi due importanti
visioni ascrivibili ad altrettante tipologie di cultura
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
aziendale diverse e ben definite, guidate da fattori
differenti e in qualche misura speculari:
1. Le aziende che vedono la formazione come
strumento per migliorare l’adattabilità
dell’impresa alle richieste del mercato e del
settore; la formazione, secondo questa visione,
serve per aggiornare e consolidare competenze già
presenti al fine di migliorare la qualità del prodotto
e le performances aziendali. La formazione, quindi,
è assunta come strumento finalizzato a migliorare
le potenzialità già in essere nell’azienda. Afferisce
a questa visione il 49% delle imprese intervistate.
2. Le aziende che vedono la formazione come
strumento di cambiamento organizzativo
e strategico, un cambiamento legato sia
all’organizzazione del lavoro sia alle risorse umane,
agli addetti. La formazione è qui intesa come leva
per una riorganizzazione aziendale che rompe con
gli schemi e le figure del passato. A questa visone
afferisce il 51% delle imprese intervistate.
I due tipi di approccio verso la formazione
sono portatori di due differenti concetti di “trasformazione”, se così possiamo dire. Il primo tipo di
“tras-formazione” è debole e implica l’acquisizione di
caratteristiche professionali intrinsecamente connesse
al contesto tecnico, produttivo, organizzativo e
culturale del luogo in cui opera. Il secondo tipo di “trasformazione” è forte e si caratterizza per l’acquisizione
di caratteristiche professionali che mantengono il
proprio valore in differenti contesti organizzativi.
E’ chiaro che le due tipologie di imprese
che emergono dall’analisi sono spinte da moventi
(fattori latenti) ben diversificati, dettati da diverse
caratteristiche intrinseche aziendali.
45
46
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Vediamo quali sono queste caratteristiche:
La formazione come strumento per una
migliore adattabilità dell’impresa alle richieste
del mercato e del settore:
Quali sono le aziende che si rifanno in prevalenza a
questa visione:
• Il 70% degli artigiani low-profile e il 64% degli
artigiani fordisti
• Le imprese di riparazione (54%)
• Nate in negli anni ‘80 (57%)
• Con meno di 5 addetti (52%)
• Con un prodotto rivolto al consumatore finale
(57%)
• Imprese che ritengono la formazione importante
ma costoso (70%)
• Imprese che ritengono la formazione un obbligo
formativo (67%)
• Con classe di fatturato medio basso: meno di
25.00 € (57%) – da 25.000 € a 50.000 € (71%)
• Andamento del fatturato in diminuzione (65%)
• Redditività di diminuzione (60%)
• Raggio di mercato in diminuzione (67%)
• Andamento della produzione in diminuzione
(57%)
Le imprese che si rifanno a questa visione sono
soprattutto quelle di minore dimensione, a bassa
specializzazione (artigiano low-profile e fordista)
con un fatturato medio basso ed un andamento
negli ultimi tre anni che complessivamente è
peggiorato. Aziende, quindi, che per caratteristiche
fisiologiche possiamo definire vulnerabili, con
difficoltà a rimanere nel mercato, che vedono, quindi,
l’importanza della formazione soprattutto in termini
strumentali, come occasione di miglioramento delle
proprie performances e di risposta alle richieste del
mercato.
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
La
formazione
come
strumento
di
cambiamento organizzativo e strategico:
Quali sono le aziende che si rifanno in prevalenza a
questa visione:
• Il 61% degli artigiani di mestiere e il 52%
dell’artigianato avanzato
• Le imprese di costruzione (58%) e
metalmeccaniche (54%)
• Le imprese più vecchie nate prima degli anni ‘80
(56%)
• Con più di 5 addetti (%)
• Le imprese che considerano la formazione un
elemento importante di sviluppo (57%) e un
obbligo normativo e contrattuale (59%)
• Con fatturato alto: sopra il 500.000€ (60%)
• Con benessere aziendale in aumento (54%) o
stabile (57%)
• Numero di addetti in aumento (58%)
• Con redditività in aumento (74%)
Tra le aziende afferenti a questa seconda
visione si ritrovano quelle potenzialmente più forti,
con una migliore collocazione di mercato, in crescita
e più specializzate. Per loro la formazione è, o è stata,
un fattore su cui puntare per un migliore sviluppo
aziendale, una strategia per innovare (è notevole tra
queste aziende la quota di quelle più vecchie).
Il “learning by doing”: un modello formativo che
persiste
Il modello formativo a cui le imprese artigiane
tendono, sia idealmente sia in modo pratico, si basa
sul learning by doing, imparare lavorando; la prima
fonte di conoscenza per gli addetti è l’artigiano stesso,
e la prima modalità di trasferimento della conoscenza
avviene attraverso l’affiancamento e lo scambio
interpersonale tra gli addetti con più esperienza e
quelli da formare. Nel 80% delle imprese intervistate i
47
48
Quaderni di ricerca sull’artigianato
formatori sono il titolare o i soci e solo nel 9% dei casi
si rileva la presenza di formatori esterni all’azienda.
In questo contesto va da sé che la tipologia di
formazione più idonea e richiesta dalle imprese sia
quella svolta all’interno del contesto lavorativo, sia per
gli addetti (84%) che per i titolari e soci (68%). Tuttavia,
per questi ultimi si rileva una richiesta di formazione,
debole ma degna di nota, inerente i temi più legati ad
aspetti gestionali – manageriali.
Facendo riferimento ai due modi di concepire
lo strumento della formazione che sono stati
descritti precedentemente, si osserva una differenza
importante: gli artigiani che vedono la formazione
quale strumento per adattare meglio l’impresa alle
richieste del mercato e del settore prediligono una
formazione pratica dettata dall’esperienza sui luoghi
di lavoro più di coloro che si rifanno alle seconda
visione, quella della formazione quale strumento di
cambiamento e innovazione (90% vs 79% nel caso
della formazione verso gli addetti subordinati e 82%
vs 55% nel caso della formazione per titolari e soci).
Per contro, gli artigiani che vedono la
formazione come strumento di cambiamento sono
maggiormente propensi verso un tipo di formazione
esterna all’azienda che preveda la partecipazione
a corsi svolti all’esterno oppure a convegni e/o
seminari. In particolare, se si tratta di formazione
per titolari e soci il 42% di coloro che si rifanno a
questo tipo di visione sceglie la formazione erogata
con partecipazione a corsi svolti fuori dall’azienda
e il 13% con partecipazione a convegni o seminari,
tipologia di formazione richiesta rispettivamente solo
dal 17% e 2% degli artigiani che invece si rifanno alla
visone della formazione come strumento di migliore
adattabilità dell’azienda.
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
La formazione è comunque una strada
intrapresa da molte realtà produttive: infatti, le
imprese artigiane che nel triennio 2006-2008
hanno partecipato ad attività formative di vario tipo
sono il 53%. La propensione alla partecipazione ad
attività formative è più elevata (58%) nelle imprese
di dimensioni maggiori (con almeno 5 addetti), che
riescono a conciliare meglio la programmazione
dell’attività formativa con la necessità della continuità
produttiva.
Le imprese che hanno investito in attività
formative nel periodo 2006-2008 hanno un fatturato
medio-alto (il 70% si colloca al di sopra dei 150.000 )
e si trovavano in una posizione di performances
generali più positive (con andamento stabile o in
crescita) rispetto a quelle che non lo hanno fatto.
Tra gli artigiani in Piemonte esiste una grande
consapevolezza del valore che ha la specializzazione
del capitale umano, specializzazione che si ritiene
di dover trasmettere, aggiornare e approfondire
attraverso strumenti formativi nei quali investire. Tra le
imprese che investono maggiormente in formazione
ci sono proprio quelle che hanno addetti altamente
specializzati.
49
50
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Tra il 2006 ed il 2008 la Sua azienda ha investito in attività formative,
sia interne che attraverso corsi realizzati all’esterno?
Sì, ma solo per
No
Sì
gli apprendisti
Provincia di Torino 42,0% 52,9%
5,2%
Provincia
Altre Province
38,9% 53,6%
7,6%
Settore
Classe
di fatturato
a due classi
Numero
complessivo
di addetti
Costruzioni
Metalmeccanica
Riparazioni
Servizi
30,0%
48,6%
34,5%
45,6%
62,9%
40,4%
61,2%
51,1%
7,1%
11,0%
4,3%
3,3%
meno di 150.000 € 55,0% 39,6%
5,4%
più di 150.000 €
non risponde
49,0% 60,4%
46,2% 48,7%
7,2%
5,1%
2-3
47,8% 45,7%
6,5%
4-5
6-10
più di 10
49,0% 45,1%
31,6% 62,1%
32,3% 60,4%
5,9%
6,3%
7,3%
In sintesi, si può affermare che nelle imprese
artigiane piemontesi la cultura tradizionale tipica
del settore, dove l’artigiano e il suo sapere tecnico
e produttivo primeggiano su qualsiasi altra forma di
conoscenza trasferita dall’esterno, persiste e continua
a tramandarsi in modo trasversale alle tipologia di
impresa. Accanto a questo atteggiamento valoriale
si rileva però la presenza di importanti segnali che le
imprese più giovani e avanzate rimandano al mondo
della formazione, inserendosi in questo processo e
manifestando interessi nuovi su temi e su meccanismi
più variegati di trasmissione della conoscenza.
La pratica della formazione
L’analisi del rapporto tra partecipazione ad
attività formative e benessere aziendale segnala che
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
tra le imprese che hanno fatto formazione il 24% è in
crescita, una percentuale decisamente maggiore di
quella registrata tra quelle che non hanno fatto alcuna
formazione (14%).
La grande maggioranza delle imprese afferma
che la formazione è servita ad accrescere la qualità
del prodotto: l’89% tra quelle in una situazione di
andamento complessivo definibile “in diminuzione”
ed il 79% tra quelle “in crescita”.
Le imprese che nel triennio 2006-2008 non
hanno partecipato ad alcuna attività formativa sono
il 40%: quali sono i motivi per i quali le imprese non
hanno investito in attività formative? Le risposte
indicano come la mancanza di esigenza percepita sia
la causa principale (75%), seguita a grande distanza
dai costi elevati attribuiti alla formazione (8%) e dalla
mancanza di tempo disponibile da dedicare all’attività
formativa (5%).
Rispetto alla conoscenza e all’utilizzo di fondi
pubblici a supporto della formazione, si segnala che
solamente il 7% delle aziende intervistate conosce ed
ha utilizzato almeno una linea di finanziamento, ed il
3% conosce e vorrebbe utilizzarne almeno una. La
risposta più frequente è l’assoluta non conoscenza
(riscontrata nel 74% delle risposte) delle suddette
linee di finanziamento.
Le previsioni per il 2009 non sono state
totalmente positive: infatti, il numero di imprese che
pensavano di investire in attività di formazione è
risultata in calo rispetto a ciò che è avvenuto per il
triennio 2006-2008. Le imprese che affermavano di
avere intenzione di investire in attività di formazione
sono risultate il 55% contro il 60% rilevato nello
triennio precedente.
51
52
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Interessante notare come emerga un
meccanismo di alternanza: da una parte, chi ha
investito in formazione nel triennio scorso e che
dichiara che non l’avrebbe fatto nel corso del 2009
(57%), e dall’altra, chi invece non ha investito nei tre
anni precedenti e affermava di aver intenzione di farlo
nel 2009 (72%).
Le dichiarazioni rispetto al fabbisogno formativo
delle imprese artigiane per il 2009 hanno continuato
ad essere relative all’attività propria del core business
d’impresa, per tutte le figure e in particolare per i titolari
o loro soci. La sfera delle esigenze di formazione degli
artigiani locali continua quindi a ruotare intorno ad
una formazione professionale di tipo tecnico e molto
specializzata e alla formazione obbligatoria inerente la
normativa in tema di ambiente e sicurezza. Tuttavia,
anche se in misura contenuta, i titolari rimangono
interessati ad una formazione di tipo più gestionale.
Conclusioni
Contrariamente a quanto si ritrova spesso
nella vulgata comune sul mondo dell’artigianato,
la ricerca ha evidenziato una buona sensibilità del
sistema imprenditoriale artigiano piemontese rispetto
al tema della formazione. Si tratta di una sensibilità
trasversale, presente in settori e territori differenti e
in imprese con caratteristiche anche notevolmente
diverse. Un alto grado di specializzazione degli addetti
caratterizza ancora tre imprese artigianali su quattro
ed è forte e viva la consapevolezza che la propria
forza passi necessariamente da un rafforzamento
continuo di tale peculiarità.
E’ quindi chiaro che esiste un’attenzione
dell’artigianato verso la formazione, attenzione
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
dettata soprattutto da un atteggiamento di
valutazione strategica. Tutto questo non si traduce
sempre ed immediatamente in una richiesta spinta di
formazione di alto livello: tra la necessità e la pratica
si interpongono aspetti quali la gestione dell’attività
quotidiana, la fragilità legata alle piccole dimensioni
aziendali, il costo in termini di tempo e di economie,
la difficoltà che si incontra a matchare le esigenze
aziendali con le disponibilità di corsi.
Questo dato porta a riflettere su quale tipo di
formazione vada rivolta al mondo dell’impresa artigiana,
sia in termini di contenuti sia in termini di impegno
richiesto. Infatti, se sappiamo che percentualmente
la tendenza ad investire in formazione è superiore
tra le aziende di maggiore dimensione, in termini
assoluti le attività formative coinvolgono soprattutto
aziende di piccole dimensioni che operano in un
quadro organizzativo e produttivo poco strutturato,
con dinamiche che, soprattutto se si tratta di
formazione rivolta agli addetti subordinati, si rifanno
alla polivalenza delle mansione e all’intercambiabilità
dei ruoli e delle funzioni, e che quando si tratta di
investire in attività formative spesso decidono di farlo
sottraendo risorse essenziali all’attività di produzione.
E’ poi vero che la formazione richiesta dalle
imprese artigiane si rivolge ancora, almeno in gran
parte, alla crescita di competenze tradizionali, anche
se stanno emergendo interessi nuovi, soprattutto
di tipo trasversale, legate quindi alla gestione
informatizzata delle attività e dell’azienda stessa o a
temi sempre più attuali quali l’ambiente.
A questa cultura della formazione, che
rappresenta un interessante substrato positivo dal
quale partire (due terzi degli artigiani la considera
un importante fattore di successo), fa da contraltare
53
54
Quaderni di ricerca sull’artigianato
una pratica reale che non corrisponde pienamente
alle intenzioni degli imprenditori (poco più della metà
ha fatto formazione) e coloro che hanno partecipato
a qualche attività formativa lo ha fatto soprattutto
secondo l’approccio del formal learnig.
Occorre poi leggere tra le righe le dichiarazioni
degli imprenditori per comprendere cosa sia per loro
la formazione: infatti, se nella pratica è ancora forte
il formal learning, si evidenzia come si stia facendo
strada anche un altro tipo di formazione, realizzato
con strumenti più vicini al loro modo di lavorare
e all’approccio dell’imparare sul campo. Si tratta
sicuramente di strumenti più professionali e, alla
lunga, anche più professionalizzanti.
I percorsi formativi effettivamente utilizzati dai
titolari e dagli addetti delle imprese artigiane dicono
che le imprese più floride e con migliori prospettive
per il futuro effettuano le proprie scelte secondo due
criteri:
- una generalizzata varietà di canali formativi;
- l’orientamento, soprattutto per gli apprendisti,
ad una formazione attraverso corsi svolti fuori
dall’azienda.
Tutto ciò avviene, comunque, in presenza
di una ancora forte, e forse sempre necessaria,
tendenza a sviluppare una parte di formazione on the
job: la differenza tra gli approcci sta nella proporzione
tra questo tipo di formazione, che troppo spesso si
riduce ad un mero apprendimento per affiancamento,
ed una formazione più ampia, completa ed aperta alle
novità presentate da agenzie formative specializzate.
Ma il legame tra formazione e lavoro deve
ancora integrarsi meglio, soprattutto nell’universo
dell’artigianato: molti imprenditori non conoscono
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
tutte le potenzialità del sistema formativo, ma anche
quest’ultimo può e deve ragionare sul proprio ruolo
e sul proprio modo di relazionarsi con la realtà
produttiva per la quale istituzionalmente sono stati
creati. Prova ne è il fatto che iniziative pubbliche sono
ancora ampiamente sottoutilizzate rispetto alle sue
reali potenzialità. Il limite forse rientra nella sfera della
visibilità, pubblicizzazione, e forse anche in quella delle
modalità di incontro tra domanda e offerta formativa.
Le modalità di accesso ai fondi si reggono, di fatto,
su meccanismi complessi e di difficile approccio; la
presenza di “facilitatori” quali associazioni di categorie,
agenzie formative o consulenti diviene quindi canale
indispensabile.
Detto ciò, la richiesta di formazione da
parte delle aziende non resta peraltro un ideale
accademico, un obiettivo da raggiungere ma senza
reali ricadute sul contesto produttivo e sulla redditività
dell’azienda. Anzi, quegli artigiani che più degli
altri intendono la formazione come uno strumento
di crescita complessiva dell’azienda segnalano
l’esistenza di una netta ricaduta sui processi produttivi
e sulla performance aziendale: è certamente da
questi soggetti che si può e si deve partire per una
promozione sistematica della formazione e dei suoi
strumenti di realizzazione per avviare un volano di
effettive ricadute positive sul sistema produttivo
regionale.
La sfida diventa quindi intercettare questa
domanda potenziale di formazione e trasformarla in
reale opportunità per il settore: occorre conoscere
meglio non solo le esigenze degli artigiani in termini di
fabbisogni formativi, ma anche anticiparne le richieste,
costruendo un quadro formativo che connetta bisogni
settoriali e generalistici con declinazioni soggettive,
55
56
Quaderni di ricerca sull’artigianato
nell’ottica della gestione di un servizio formativo
a tutto tondo, che accompagni gli imprenditori
a comprendere meglio loro stessi e la propria
impresa. Occorre altresì accompagnare quella quota
importante di imprese (30% del campione), che non
sente l’esigenza di partecipare ad attività formative, a
comprendere se l’esigenza non sia realmente sentita
oppure se non abbiano gli strumenti per poterla
leggere ed interpretare.
L’attore pubblico ha quindi il compito ineludibile
di progettare le caratteristiche del proprio intervento
su questo tema, un intervento pubblico che non
dovrà giocarsi tanto sul campo dei costi quanto sulla
specializzazione e semplificazione delle pratiche, ma
sopratutto sulla facile lettura in termini di utilità e di
ricadute immediate della formazione nel processo
strategico e produttivo dell’impresa.
Al di là di strumentalizzazioni informative che
non mancano mai di fare capolino quando si affronta
il tema dell’impresa privata, il settore pubblico non
viene estromesso “a priori” dalla vita delle imprese
private, ma diviene un soggetto pienamente titolare
di un ruolo qualificato quando è identificato come
portatore di un vantaggio differenziale. A riprova di
ciò, è importante ricordare che proprio in questo
lavoro emerge come i Centri per l’Impiego siano un
soggetto privilegiato dalle imprese artigiane nella
ricerca e selezione del proprio personale.
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
Indagine esplorativa sulla filiera del cinema e
l’artigianato piemontese; la formazione come
nuova opportunità da creare e da cogliere.
Nel corso di questa ricerca un affondo
specifico è stato realizzato sulla formazione effettuata
o che occorrerebbe effettuare nelle imprese
artigiane che operano nel campo del cinema e della
televisione. Torino ed il Piemonte stanno proponendo
sempre più al mondo dello spettacolo numerose
location per riprese cinematografiche e televisive e
contestualmente si sta creando un mercato nel quale
le imprese artigiane piemontesi possono inserirsi
positivamente. Non di meno, la nascita nel 2000 della
Film Commission Torino Piemonte ha comportato
un passaggio importante e significativo verso la
creazione di un “Sistema cinema Piemonte” che,
dal fulcro della città di Torino, si snoda verso l’intero
territorio regionale coinvolgendo luoghi, persone e
cose.
Visto l’intento meramente esplorativo di questa
seconda parte della ricerca e l’eterogeneità delle
dimensioni che compongono il mondo degli artigiani
che operano nel mercato cinematografico e televisivo
locale, il gruppo di ricerca ha concordato che le
tecniche più idonee al tipo di rilevazione fossero
quelle usate nella ricerca qualitativa.
Il percorso di studio utilizzato è stato quindi il seguente:
• Breve ricognizione sullo scenario di mercato
e occupazionale del settore televisivo e
cinematografico locale;
• Interviste con gli esperti locali che maggiormente
si occupano dello sviluppo di questo settore,
agevolando l’incontro tra i vari soggetti che si
occupano di cinema e televisione;
57
58
Quaderni di ricerca sull’artigianato
• Focus group con alcune imprese artigiani locali
afferenti a questo settore.
Sono emersi risultati molto interessanti.
Come indicatore di misura della dimensione e
dell’andamento del settore il numero di film prodotti
è stato ritenuto significativo a rappresentare un
indicatore dell’andamento di tutte le attività che ad
esso sono collegate e da esso ne conseguono.
Come fonte per una ricognizione sul numero
di imprese e di addetti impiegati nelle diverse indagini
sul tema viene spesso utilizzata la banca dati delle
posizioni previdenziali Enpals (Ente nazionale per la
previdenza e assistenza dei lavoratori dello spettacolo
e dello sport).
Si osserva che rispetto al numero di addetti
diretti e indiretti coinvolti nel settore si riscontrano
alcune difficoltà di misurazione dovute dalla presenza
di una polverizzazione di figure professionali e attività
produttive che, in termini indiretti, si occupa anche
del mondo dello del cinema, dello spettacolo e della
televisione, figure che in alcuni casi si prestano al
mondo dell’arte ma non solo. Quella cinematografica
è difatti una filiera dotata di contorni molto labili ed
estremamente variabili a seconda del periodo, del
luogo e dei soggetti coinvolti. Quantificare con
precisione il numero di addetti che nella nostra regione
a vario titolo operano nel mondo cinematografico
e televisivo, quindi, risulta essere difficoltoso. Si
stima che nel 2008 l’ammontare degli investimenti
dell’intera filiera cinema sia stato di oltre 25 milioni
nella sola provincia di Torino, con un coinvolgimento
complessivo di circa 20.000 addetti.
Significativi sono emersi alcuni aspetti
organizzativi del settore che sono da porre a premessa
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
per l’orientamento delle politiche riguardanti la
formazione.
In particolare, si evidenzia come in questa filiera
sia diffuso un modo di lavorare che vede un grande
movimento dei singoli professionisti, non organizzati
in impresa a servizio delle produzioni. Questo sistema
organizzativo di per sé è un elemento di vivacità e
sviluppo delle competenze tecniche e professionali,
ma risulta invalidante dal punto di vista delle tessuto
produttivo e delle opportunità corporative che da
esso ne derivano.
Questa tendenza si rileva anche tra le
affermazione dei testimoni privilegiati intervistati.
La pratica di lavorare nella filiera della produzione
come singolo professionista che viene “ingaggiato”
direttamente dal produttore per la fornitura di un
servizio o di una prestazione, risulta essere la dinamica
organizzativa più frequente, dinamica che porta con
sé conseguenze sulle performance lavorative.
Le difficoltà legate all’accesso e alla continuità
di lavoro che le imprese, i singoli professionisti e gli
artigiani incontrano sono alla base di un fenomeno
di mancata fidelizzazione e di mancato investimento
strategico di questi nel settore. Per molte aziende
artigiane lavorare nel settore cinematografico
e televisivo significa farlo in modo contingente
ed occasionale, secondo quanto dettato dalle
opportunità di mercato e in concomitanza con altre
prestazioni rivolte a settori totalmente estranei.
Lavorare esclusivamente per il cinema non garantisce
la sopravvivenza delle imprese e dei professionisti
locali, e quindi è necessario riuscire ad inserirsi in più
mercati contemporaneamente. Tutto questo avviene,
però, a discapito di una specializzazione e di una
crescita complessiva del settore.
59
60
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Alla luce di questi elementi emergono alcune
riflessioni sulla modalità più idonee di accedere
alla formazione ed alcuni suggerimenti per un
modello formativo rivolto gli artigiani del settore
cinematografico e televisivo.
a) Atteggiamento e visione della formazione. Pur
considerando la varietà delle figure artigiane
coinvolte dal settore, dalla rilevazione si deduce
che, in termini di livello di specializzazione, esse si
ripartiscono soprattutto tra gli artigiani di mestiere e
gli artigiani avanzati, quindi soggetti caratterizzati,
in termini di capitale umano, da un elevato livello di
specializzazione.
Questa caratteristica di settore risulta un fattore
importante per la formulazione di ipotesi di
modelli formativi ad hoc. Infatti, lo strumento per
rafforzare e ampliare il grado di specializzazione
è la formazione; si osserva come gli artigiani che
lavorano in questo settore considerino e vivano
la formazione come strumento di cambiamento
organizzativo e strategico. Le testimonianze
raccolte raccontano di strategie di cambiamento
intraprese
dall’artigiano
proprio
grazie
all’implementazione del proprio sapere e alla
capacità di intravvedere nella formazione una leva
per migliorare la qualità delle proprie performance.
b) In questo ambito emerge chiaramente e con una
certa forza come la trasmissione del sapere, della
conoscenze e delle tecniche sia legata alla pratica
e al lavoro sul campo. Quello del learning by doing
risulta essere il metodo formativo più auspicato e
desiderato. In larga misura, nella realtà quotidiana
avviene proprio così, e le testimonianze che
sono state raccolte lo confermano. Secondo il
parere degli operatori, la formazione che conta,
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
quella cioè che permette di imparare veramente
nuove tecniche e arricchire la specializzazione
delle prestazione tecniche e produttive, è quella
che si impara lavorando a fianco dei “maestri
del mestiere”; la figura del maestro racchiude
in sé conoscenza, sapere ed esperienza ma
anche passione e motivazione, elementi questi
ultimi considerati fondamentali per trasmettere e
consolidare saperi che altrimenti si perdono nella
sfera del nozionismo e del apprendimento nonesperienziale.
Dall’analisi emerge con chiarezza che il modello
formativo a cui tendere si declina attraverso alcune
specifiche coordinate.
1) Le caratteristiche del mercato locale, condizionato
dalla forza concorrenziale di altri siti, impone che
ad operare siano soprattutto figure altamente
qualificate che possano offrire prestazioni di
qualità e di alto livello professionale. Per questo la
formazione che si pensa essere quella più idonea,
e che appare una richiesta forte dei soggetti
che operano nel settore, è una formazione di
eccellenza. Con questa accezione si pensa ad
una formazione molto professionalizzante, i cui
contenuti si rifanno a specializzazioni di altissimo
livello.
2) Vista l’esigua possibilità del settore di occupare
stabilmente un elevato numero di figure ad
elevata professionalità, la formazione dovrebbe
coinvolgere un numero limitato di persone che,
una volta formate, possano accrescere la qualità
del sistema e, contemporaneamente, inserirsi
facilmente nel mercato del lavoro.
61
62
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Tenuto
conto
di
quanto
emerso
complessivamente circa la struttura del mercato, le
esigenze del settore, l’atteggiamento delle imprese e
la pratica della formazione, si intravvede la possibilità
di implementare, eventualmente in via esplorativa,
un percorso di formazione che per molti aspetti
si avvicini a ciò che già è stato fatto con il modello
“botteghe scuola”.1 Un percorso cioè strutturato
e personalizzato, in cui la formazione parta dalla
presenza di un maestro artigiano e che sia rivolto
a pochi ingressi selezionati per i quali si attiva in
questo modo una grande distribuzione di sapere.
Un percorso orientato a chi già lavora nel settore ma
che ha necessità di imparare meglio l’arte del fare
attraverso la condivisione di un sapere consolidato.
1
Per un approfondimento si veda: www.bottegascuolapiemonte.com
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
Bibliografia
-
Ascani Pierluigi. A cura di (2009) Artigianato e
politiche industriali. il Mulino, Bologna
-
Associazione IRES Lucia Morosini (2006)
Organizzazione, competenze, professionalità nelle
imprese artigiane. Modelli di analisi ed ipotesi di
lettura. Torino. IRES
-
Albertini S., Chiarvesio M., Grandinetti R., Pilotti
L.(1999) Artigianato e sistema locale, Milano,
Franco Angeli
-
Barberis R., Bondonio D., Merlo C., (2006)
Indagine sugli interventi di sostegno alle imprese
artigiane in Piemonte, a cura del Sistema
Informativo sull’artigianato - Regione Piemonte.
-
CGIA Mestre (2009), Quaderni di ricerca
sull’artigianato - Rivista di Economia, Cultura
e Ricerca Sociale dell’Associazione Artigiani e
Piccole Imprese Mestre CGIA. Numero 52 - II
quadrimestre 2009.
-
Compagno C., Nanut V., Venier F., (1999) Nascita
sviluppo e continuità dell’impresa artigiana,
Milano, Franco Angeli.
-
Confartigianato, (2007) “Il rilancio del cinema
comincia dagli artigiani”, Comunicato stampa,
url: www.confartigianato.it
-
Costa G., (1997), Economia e direzione delle
risorse umane, Torino, UTET.
63
64
Quaderni di ricerca sull’artigianato
-
Falciola L. (2009) “Mestieri dello spettacolo”
in Colombo P. Mestieri d’arte e made in Italy.
Giacimenti culturali da scoprire. Venezia, Marsilio.
-
Formaper A cura di (2001), Fare formazione con le
piccole imprese, Franco Angeli, Milano.
-
Lanzetti R., Cominu S., Tajani C., Merlo C., Armano
E., Zimelli A., (2009) Rapporto sull’artigianato
in Piemonte 2007-2008 a cura del Sistema
Informativo sull’artigianato - Regione Piemonte.
-
Lanzetti R., Roccati D., Spolti G., Merlo C.,
Armano E. (2009) La formazione nelle imprese
artigiane, paper proposto al convegno regionale
“Professione Artigiano”, Torino
-
Nonaka I., (1994) A dynamic theory of organizational
knowledge creation, in Organizational Science
Vol. 5 no. 1,
-
Ruffino M., (2001) Formazione continua e
competenze delle Pmi. Modelli, strumenti
e
standard
al
tempo
dell’economia
dell’apprendimento, Milano, Franco Angeli.
-
Ruffino M., (2008) Accedere all’apprendimento,
fra diritti e necessità. La condizione complessa
del sapere artigiano, in La Formazione Continua
nell’Artigianato, Fondartigianato.
-
Sennett R., (2008) L’uomo artigiano, Milano,
Feltrinelli.
CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA
-
Tellia B., (2001) La formazione imprenditoriale
e professionale nell’artigianato, Milano, Franco
Angeli.
-
Vanecloo N., (1982) Théorie de la trasformation de
la main-d’oeuvre, Economica, Paris.
Link dei siti di interesse
- www.piemonteincifre.it/
- http://www.regione.piemonte.it/artig/dati.htm
- http://ossart.regione.piemonte.it/oacspu/
- http://www.sisform.piemonte.it/site/index.php
- http://extranet.regione.piemonte.it/fp-lavoro/
centrorisorse/studi_statisti/index.htm
- www.casartigiani.org
- www.cnaformazione.it
- www.confartigiantoformazione.it
- www.bottegascuolapiemonte.com
- www.fondartigianato.it
- www.regione.piemonte.it
65
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
FLESSIBILITA’, SICUREZZA
E AMMORTIZZATORI SOCIALI
IN ITALIA: NECESSITA’ DI UN
RACCORDO
Pasquale Tridico
Ricercatore di Economia Politica e docente di Economia del
Lavoro presso l’Università di Roma Tre.
Fulbright Scholar (2010-11) presso la New York University.
Introduzione
Negli ultimi quindici anni il mercato del lavoro
italiano ha conosciuto un profondo mutamento dal
punto di vista legislativo, strutturale e sociale. L’origine
di questo cambiamento può essere fatto risalire a
quello che è successo in Italia dal 1993 in poi, ovvero
da quando il paese, successivamente alla recessione
economica del 1992 e alla stipula del trattato di
Maastricht decide di mirare ad entrare fin da subito
nell’Unione Economica e Monetaria (UEM). Questo
voleva dire innanzitutto rispettare i criteri di Maastricht
prima fra tutti la riduzione del tasso di inflazione,
cosa che in Italia era particolarmente problematica.
L’accordo del Luglio 1993 aveva esplicitamente come
scopo la riduzione della spirale inflazionista attraverso
una moderazione salariale e altri interventi come
la politica dei redditi, la crescita degli investimenti
innovativi, l’aumento della produttività, che come
molti economisti hanno dimostrato, non hanno avuto
molto successo. Al contrario la politica di moderazione
salariale e quindi la disinflazione ha avuto successo.
A completamento di questo processo di
cambiamento, viene introdotta nel mercato del lavoro
italiano una maggiore flessibilità del lavoro attraverso
prima il “pacchetto Treu” del 1997 e poi la legge
30 del 2003 che introducevano innovazioni radicali
67
68
Quaderni di ricerca sull’artigianato
nelle forme contrattuali e nel mercato del lavoro in
generale. Queste riforme nascevano nell’ambito
della Strategia Europea dell’Occupazione del 1997
sfociata poi nella più complessa Strategia di Lisbona
del marzo del 2000 che stabiliva, a livello comunitario,
le linee guida e gli obiettivi per una riforma del
mercato del lavoro al fine di fare dell’Europa, entro il
2010: “… the most competitive and most dynamic
knowledge-based economy in the world, capable of
sustainable economic growth, with more and better
jobs and greater social cohesion, and respect for the
environment”. Tuttavia in Europa la tendenza è quella
di raggiungere un equilibrio sociale attraverso un
modello che viene comunemente chiamato flexicurity
in grado di garantire elementi di sicurezza con
esigenze di flessibilità (Commissione Europea 2007).
Questo lavoro esplora la situazione del
mercato del lavoro italiano, in un contesto europeo
e comparato, e sostiene la necessità di trovare un
raccordo, in Italia, tra la dimensione di flessibilità, ormai
largamente introdotta, e la dimensione di sicurezza
sociale, attraverso la riforma dell’attuale sistema
complesso e disorganizzato di ammortizzatori sociali
dove si percepisce un certo vacuum oltre che una
lacuna istituzionale. In sostanza, sembra si possa
affermare che in Italia, il recepimento del modello
flexicurity debba significare l’incremento di protezione,
tutele e diritti sociali per occupati e disoccupati.
Questa esigenza è stata messa maggiormente in
evidenza dall’attuale crisi finanziaria che ha portato
nei mercati reali una crescita considerevole dei tassi
di disoccupazione e quindi una maggiore domanda di
protezione del reddito.
Il sistema di sicurezza sociale italiano è
fortemente obsoleto rispetto ai cambiamenti
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
intervenuti nell’ultimo decennio dal punto di vista
contrattuale e dal punto di vista strutturale. Per questo
sarebbe necessario adeguare gli ammortizzatori
sociali e le tutele esistenti alle nuove forme di lavoro e
alla crescente flessibilità introdotta, al fine di evitare,
come spesso è accaduto negli ultimi anni, che
rapporti di lavoro flessibili siano percepiti come precari
e diventino fonte di disagio sociale e mancanza
di reddito. La riforma degli ammortizzatori sociali
appare inoltre tanto più necessaria in un periodo di
recessione economica come quella attuale, poiché
avrebbe la doppia funzione di tutelare i lavoratori
garantendo comunque loro un potere di acquisto,
e sostenere la domanda aggregata che altrimenti
crollerebbe ulteriormente.
L’altro problema che emerge in Italia è la
presenza di forti rigidità e protezioni nel mercato
dei beni. Ciò sembra essere all’origine della bassa
dinamica di produttività che caratterizza l’economia
italiana da più di un decennio, poiché le imprese, a
causa dei costi del lavoro relativamente più bassi e
delle protezioni di cui possono godere nel mercato
dei beni, preferiscono una strategia di investimenti
labour intensive piuttosto che una strategia di
innovazione tecnologica, in contraddizione con quello
che si era pensato con l’accordo di luglio del 1993.
Questo risulta in maggiore occupazione ma in scarsa
produttività.
Il resto del lavoro è organizzato come segue: il
paragrafo 2 è una rassegna sui diversi modelli teorici
di flexicurity raggiunti in Europa; il paragrafo 3 è una
critica alla situazione del mercato del lavoro italiano
e alle sue lacune istituzionali verso un tipo ideale di
flexicurity; il paragrafo 4 illustra la situazione critica del
mercato del lavoro italiano alla luce dell’attuale crisi
69
70
Quaderni di ricerca sull’artigianato
economico-finanziaria e infine nell’ultimo paragrafo
sono riportate delle riflessioni conclusive.
Flexicurity: modelli teorici ed evidenza empirica
a confronto
La flessibilità è oggi al centro di qualsiasi
dibattito che interessi il mercato del lavoro e al centro
dell’agenda politica del Ministero del Welfare di
qualsiasi paese dell’UE e della Commissione stessa.
Una definizione complessa di flessibilità è
quella elaborata da Atkinson (1984) il quale introduce
quattro tipologie di flessibilità. Le prime due, la
flessibilità numerica esterna e la flessibilità numerica
interna, si distinguono a secondo che la flessibilità
prenda origine all’esterno o all’interno dell’impresa
attraverso rispettivamente aggiustamenti del numero
di lavoratori esterni, alle necessità dell’impresa, o
aggiustamenti dell’orario di lavoro dei lavoratori interni
all’impresa, alle sue necessità produttive. Le altre due
tipologie sono la flessibilità funzionale, che è legata
alle necessità organizzative e settoriali dell’impresa
e la flessibilità finanziaria o salariale che è basata
sui livelli retributivi del lavoratore, dipendente a sua
volta dalle performance dell’impresa e/o dai risultati
individuali del lavoratore.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Tab. 1 - Le dimensioni della Flessibilità.
Salari
Effetto combinato
(O-P-RC)
Riduzione Produtti- OccupaCosti (RC)* vità (P) zione (O)
Strumenti e modalità
Flessibilità
funzionale
legata alle
necessità
organizzative e settoriali dell’impresa
Tecnologica
produttiva
Lavoro
finanziaria
o salariale
numerica
interna
numerica
esterna
cambiamenti
tecnologici
e strutturali
Prende origiprende
ne all’interno
origine
dell’impresa all’esterno
adeguare
basata
attraverso
dell’impresa il lavoro ai
sui livelli aggiustamen- attraverso cambiamenti
retributivi
ti dell’orario
aggiustatecnologici,
corrisposti di lavoro dei
menti del
di offerta di
al lavoratore
lavoratori
numero di
prodotto e
interni all’im- lavoratori
di processi
presa, alle
esterni, alle
produttivi
sue necessità necessità
produttive
dell’impresa
Multioccupabilità,
possibilità di Legata alle
assegnare performance Straordinari, Possibilità di
diverse
dell’impresa part-time, ore assumere e
mansioni,
e/o ai
organizza- risultati del di lavoro, ecc licenziare
zione flessi- lavoratore
bile del
lavoro
processi di
formazione
continua e
addestramento dei
lavoratori
all’interno
della stessa
impresa.
NO
NO
SI
SI
SI
NO
SI/NO (?)
NO
NO
SI
SI
SI
SI
SI
NO
1-/2+
1 eff. neg.
2 positivi
1-/2+
1 eff. neg.
2 positivi
1-/2+
1 eff. neg.
2 positivi
1-/1?/1+
2-/1+
negat.
2 eff. negat. 11eff.
incerto.
1 eff. posit.
1 posit.
Fonte: propria elaborazione. Note: + indica un effetto positivo sulla dimensione
considerata; - indica un effetto negativo sulla dimensione considerata; ? indica
un effetto incerto sulla dimensione considerata.
* Con Riduzione dei Costi ci si riferisce unicamente alla possibilità per le imprese
di ridurre i costi del lavoro per unità di lavoro, quando diminuiscono i salari unitari,
e non per un’unità di prodotto. In questo modo le imprese otterrebbero comunque
un aumento di competitività ma non un aumento di produttività. Ciò vorrebbe
dire in sostanza rimanere sul mercato grazie a più bassi salari e non a maggiore
innovazione, competitività assoluta e produttività. (Una sorta di “svalutazione
salariale” per analogia alla famosa e precedente “svalutazione competitiva” di cui
tanto uso l’Italia ha fatto quando vigeva la Lira).
71
72
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Tuttavia, facendo una semplificazione, è
possibile ricondurre le quattro tipologie di flessibilità
di Atkinson ai due concetti di flessibilità dei salari
e di flessibilità del lavoro. Rispetto a ciò, numerosi
sono i contributi, da Keynes in poi, che dimostrano
che la “flessibilità dei salari”, intesa come riduzione
del costo netto del lavoro non garantisce pieno
impiego (Malinvaud, 1977; Leijonhfvud, 1967;
Clower 1965), mentre la “flessibilità del lavoro”, intesa
come aggiustamento e adattamento del lavoro ai
cambiamenti di offerta produttiva tra tutte le imprese
dell’economia, se da una parte potrebbe garantire
una allocazione efficiente del lavoro, dall’altra non
sembra portare maggiore produttività. Al contrario,
sia a livello teorico sia a livello empirico queste due
relazioni (flessibilità dei salari/occupazione e flessibilità
del lavoro/produttività) vengono messe fortemente
in discussione. Sarebbe invece diverso, in termini
di effetti sulla produttività, considerare la flessibilità
tecnologica-produttiva intesa come possibilità di
adeguare il lavoro ai cambiamenti tecnologici e di
offerta, attraverso processi di formazione continua e
addestramento dei lavoratori all’interno della stessa
impresa.
La tabella di sopra oltre a fare una
classificazione con le caratteristiche dei diversi tipi
di flessibilità, evidenzia anche che effetto potrebbe
avere il tipo di flessibilità su Occupazione, Produttività,
e Riduzione dei Costi. Questi effetti sono stimati sia
rispetto ai risultati empirici evidenziati dalle diverse
ricerche effettuate in tale ambito (Lucidi, 2006;
Tronti e Ceccato, 2005; Kok, 2004; Kleinknecht,
2008), sia rispetto ad una analisi della letteratura
in questo settore (Boyer, 2009; Dyrmarsky, 2008;
Tridico, 2009; Kleinknecht et al., 2006; Tronti 2005;
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Leon e Realfonzi, 2008). Dalla tabella 1 di sopra
risulta che la flessibilità del lavoro e la flessibilità
tecnologica potrebbero avere un maggior numero
di effetti positivi combinati, rispetto a Occupazione/
Produttività/Riduzione dei Costi. Tuttavia, tra le due
è preferibile sicuramente la flessibilità tecnologica,
in quanto attraverso di essa si possono ottenere
risultati positivi in termini sia di occupazione che di
produttività, che sono obiettivi perseguiti dai policy
maker e non sempre raggiunti simultaneamente. La
flessibilità tecnologica ovviamente potrebbe essere
più onerosa nel breve periodo per le imprese rispetto
alla flessibilità del lavoro e alla flessibilità dei salari,
poiché la prima richiede investimenti in capitale
umano, formazione e addestramento dei lavoratori,
maggiori innovazioni e cambiamenti strutturali delle
imprese. Tuttavia essa è più vantaggiosa nel lungo
periodo, e si potrebbe pensare che i maggiori costi
iniziali gravino in parte sulla società nel suo insieme,
e questo potrebbe essere giustificato dal fatto che i
benefici che derivano da essa sarebbero collettivi e
maggiori, rispetto alle altre forme di flessibilità, poiché
interesserebbero i livelli totali di occupazione e di
produttività, e quindi il livello di ricchezza del paese.
Lo Stato, ad esempio, potrebbe in parte finanziare
la formazione dei lavoratori, incentivare le imprese ad
effettuare cambiamenti strutturali innovativi, ridurre
i costi fiscali per le imprese che ottengono risultati
importanti in termini di R&S.
Uno dei paesi che negli ultimi anni ha raggiunto
elevati livelli di flessibilità associati ad elevati livelli di
sicurezza sociale intensi come mix di occupabilità
del lavoratore, garanzia di un reddito e formazione
continua, è la Danimarca, che non a caso è
considerato l’esempio da seguire nell’Unione Europea
73
74
Quaderni di ricerca sull’artigianato
per raggiungere il cd modello flexicurity. In Danimarca
esiste un alto livello di mobilità da un posto di lavoro
all’altro dovuto alla scarsa protezione del posto di
lavoro, ed un elevato tasso di sostituzione, nel senso
che il periodo di transizione da un lavoro ad un altro
ha dei tempi molto ridotti.
Da questo punto di vista il modello danese viene
considerato vicino ai modelli di stati che adottano
un mercato del lavoro fortemente liberalizzato
quali Canada, Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.
La mobilità danese è la più alta in Europa, con un
indice di Employment Protection Legislation molto
basso. Tra i paesi europei, la Danimarca si colloca
tra gli ultimi posti per la protezione del posto di lavoro
e tra i paesi OCSE è preceduta solo da Canada,
Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti (OCSE, 2007).
Alla flessibilità numerica dovuta alla forte mobilità del
lavoro vanno aggiunti alti livelli di flessibilità dell’orario
di lavoro (straordinari, part-time, ecc.), funzionale
e contestualmente organizzativa (mobilità interna
al posto di lavoro sia orizzontale sia verticale). Da
osservare tuttavia che tutte queste forme di flessibilità
non avvengono in Danimarca in un quadro di deregolazione ma attraverso una gestione politica e
un controllo dettagliato e concertato da parte delle
organizzazioni sindacali e padronali.
La forte mobilità ha una delle sue ragioni
importanti nella prevalenza delle piccole e medie
imprese nell’industria danese, ma c’è consenso sul
fatto che l’assenza di norme protettive contribuisca
ad accentuare il fenomeno. La durata media di un
lavoro è di otto anni, tra le più basse fra i paesi OCSE.
La mobilità è presente sia nei lavori non qualificati che
in quelli più qualificati. Una panoramica globale del
mercato danese del lavoro indica che a prescindere
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
dal tipo di lavoratore o dal comparto industriale, la
mobilità complessiva rimane elevata.
Gli sviluppi degli ultimi anni hanno impresso
una forte spinta all’indebolimento della contrattazione
collettiva centralizzata e un forte incremento della
decentralizzazione a livello delle singole aziende.
Nel settore privato i contratti collettivi regolano
centralmente non più del 15% del contenuto della
contrattazione salariale. Dagli inizi degli anni novanta
ad oggi la percentuale degli accordi collettivi che non
menzionano le retribuzioni sono aumentati da circa il
4% al 20%. La pratica delle contrattazioni collettive
ha introdotto una logica opposta a quella tradizionale:
il contratto nazionale promuove e raccomanda limiti
alla crescita salariale; a livello della contrattazione
aziendale si apre così la strada a retribuzioni che
vanno aggiustate a seconda delle condizioni di
concorrenza specifica che incontra la singola azienda
nel proprio settore o sui mercati internazionali.
Tuttavia, il basso livello di sicurezza del posto
di lavoro è sostanzialmente compensato da un
elevato grado di sicurezza del mercato del lavoro
nel suo complesso. Infatti ogni anno scompaiono
circa 260.000 posti di lavoro, ma ne viene creato
un numero equivalente, assicurando così un alto
livello di occupabilità nel mercato del lavoro. Così,
uno studio condotto dalla European Foundation for
the Improvement of Living and Working Condition
di Dublino nel 2006 mostra che i lavoratori danesi
godono, in Europa, sia della maggiore sicurezza nel
mercato del lavoro in termini di occupabilità, sia del
più alto livello di soddisfazione.
75
76
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Fig. 1a - Sicurezza mercato del lavoro.
SCALA: 1 (bassa) - 10 (alta)
Fig. 1b - Soddisfazione del proprio lavoro.
% di occupati soddisfatti
Fonte: - European Foundation for the Improvement of Living and
Working Condition, 2006
Tutto ciò potrebbe apparire come un paradosso,
dato che le imprese danesi possono licenziare i
propri lavoratori abbastanza facilmente e con costi
limitati. Tuttavia, molte ricerche individuano nella
tradizionale vocazione per la contrattazione collettiva
e nella presenza di rappresentanti sindacali in tutte le
imprese, i fattori significativi che contribuiscono alla
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
sicurezza dell’occupazione in questo paese. Inoltre,
i generosi sussidi di sostegno al reddito, uniti ad una
oculata politica del lavoro attiva che mira a formare
e reinserire lavoratori espulsi dal mercato del lavoro
attraverso programmi obbligatori per i lavoratori
e in collaborazione con le imprese, aumentano il
complessivo grado di sicurezza e di occupabilità
del mercato del lavoro danese. La tabella di seguito
evidenzia le caratteristiche principali dei paesi che,
nelle classifiche di sicurezza del posto del lavoro e di
flessibilità, appaiono tra i più virtuosi. Questi sono,
oltre alla Danimarca, l’Olanda, l’Austria e, per alcuni
versi, anche Irlanda e Spagna.
Paesi
Caratteristiche principali
Danimarca
Il triangolo d’oro danese. Il mercato del lavoro danese mostra
una combinazione positiva di flessibilità e sicurezza, con una
legislazione del lavoro flessibile, una protezione del lavoro
relativamente bassa, e il ruolo fondamentale della formazione
permanente dei lavoratori e delle politiche attive del mercato
del lavoro, il tutto accompagnato da un generoso sistema di
sicurezza sociale.
Olanda
Tab. 2 – Modelli di Flessibilità a confronto
Con il cosiddetto “Accordo di Wassenaar” del 1982 una certa
moderazione salariale è stata scambiata con una maggiore
occupazione e si è aperta la via, nell’ambito dei contratti
collettivi, al lavoro part-time, scelto su base volontaria
soprattutto da donne, e realizzato con contratti a tempo
determinato. Negli anni ‘90 una certa rigidità del mercato
del lavoro è stata superata dalle parti sociali con un accordo
entrato in vigore nel 1999. L’accordo prevedeva tre punti
chiave: (1) limitazione a tre contratti consecutivi a tempo
determinato. Il quarto doveva essere a tempo indefinito. (2)
Rafforzamento del ruolo delle agenzie di lavoro temporaneo.
(3) Assorbimento dei contratti a tempo determinato e di quelli
delle agenzie di lavoro temporaneo nel codice del lavoro e
introduzione di una protezione e di un salario minimi.
77
78
Irlanda
Accordo ‘Towards 2016’ tra le Parti Sociali. Il sistema
economico e il mercato del lavoro irlandesi negli ultimi anni
sono radicalmente mutati. L’Irlanda negli anni novanta si è
trasformata da un paese a basso reddito, bassa crescita,
con elevata disoccupazione in un paese con alto reddito,
elevata crescita e bassa disoccupazione. Il merito di questa
positiva trasformazione è legato anche al fatto che le ultime
generazioni hanno livelli di istruzione molto più elevati delle
precedenti. L’Irlanda ha un mercato del lavoro flessibile
e investe molto in politiche attive, trascurano tuttavia il
ruolo delle politiche di sostegno al reddito. Si investe molto
in formazione, apprendimento e aggiornamento delle
competenze sul posto di lavoro, soprattutto verso i lavoratori
con qualifiche più basse e verso gli immigrati. Più flessibile
risulta anche l’orario di lavoro e la possibilità di ricorrere
all’outsourcing.
Spagna
Contratti a tempo determinato. La Spagna registra una quota
costantemente elevata di contratti a tempo determinato, pari
a circa il 34% dell’occupazione totale. Nel 2006 è stato
firmato un accordo che garantiva ai lavoratori l’acquisizione
di un contratto a tempo indeterminato dopo due consecutivi
contratti nella stessa impresa a tempo determinato. L’elevata
quota di lavoro a tempo determinato ha senza dubbio
contribuito ad abbattere la disoccupazione, tradizionalmente
molto elevata nel Paese (dal 23% all’8% tra il 1996 e il
2008). Gli occupati in età da lavoro (15-64 anni) sono
passati nello stesso periodo da poco più del 50% al 66% del
totale, ma la quota femminile resta inferiore.
Austria
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Corporativismo, flessibilità e sicurezza. L’Austria combina
un’elevata flessibilità del mercato del lavoro con un livello
tradizionalmente alto d’indennità sociali, cui si affiancano
efficaci politiche attive del mercato del lavoro e una forte
concertazione tra Parti Sociali . L’uscita dal mercato del
lavoro è agevolata da una legislazione favorevole ai datori
di lavoro. Proprio per questo i datori di lavoro hanno
una limitata necessità di ricorrere a contratti a tempo
determinato (9% nel 2006, contro il 14,4% della media UE).
La partecipazione all’apprendimento permanente supera
l’obiettivo UE (12,9%).
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Il modello flexicurity ha prodotto buone
performance in Danimarca e Olanda soprattutto, non
solo in termini di occupazione: il potere di acquisto
dei lavoratori e la quota del lavoro sul reddito non è
diminuito come in Italia, e anche la crescita economica
è stato più sostenuta. Inoltre, durante periodi di
crisi come quella attuale, il sistema generoso di
welfare crea delle tutele e delle protezioni sociali e
al reddito importanti. Tuttavia bisogna dire invece
che nel contesto dell’attuale crisi stanno emergendo
molteplici problemi sociali in Spagna e Irlanda, che
secondo la Commissione erano giudicati due buoni
esempi di flexicurity in Europa. L’Austria infine, avendo
uno Stato sociale di partenza meglio funzionante
con un livello di spesa e di efficienza maggiore, sta
reggendo meglio nell’attuale contesto di crisi rispetto
a Spagna e Irlanda.
In altri paesi, quali in Svezia, Germania,
Finlandia, Francia, in cui il modello flexicurity non è
stato completamente introdotto, esistono tuttavia dei
livelli di protezione sociale di partenza maggiori rispetto
a quelli italiani. Questo determina che, nel momento
in cui si inseriscono più elevati livelli di flessibilità,
le garanzie per i lavoratori vengono comunque
mantenute a livelli sufficienti, e comunque superiori a
quelli italiani, e questo è evidente tanto dal punto di
vista della quota sul reddito della spesa sociale e della
spesa per le politiche del lavoro, quanto dal punto di
vista della durata dei contributi sociali per lavoratore.
Flexicurity in Italia: critiche e proposte di
cambiamento
In Italia il mancato raggiungimento di un
modello flexicurity soddisfacente, che assicuri
occupabilità e sicurezza allo stesso tempo, senza
79
80
Quaderni di ricerca sull’artigianato
conseguenze negative sulla produttività, può essere
ricondotto a due ordini di motivi:
1. da una parte il mancato raccordo tra politiche
attive e politiche passive
2. dall’altro la scarsa concorrenza nel mercato
dei beni.
1. Rispetto al primo punto, all’interno di un
modello di flexicurity efficiente, sarebbe necessario
che sostegno al reddito e programmi di reinserimento
andassero di pari passo, al fine di rendere più efficace
la spesa per le politiche passive e raggiungere più
facilmente l’obiettivo che è quello di trovare un nuovo
lavoro (o un primo lavoro) al disoccupato. A tal fine,
le politiche del lavoro dovrebbero seguire dei semplici
principi di efficienza:
- la formazione del lavoratore dovrebbe essere
mirata, ed orientata verso quei settori in cui
le imprese decidono di investire e richiedono
competenze;
- i programmi di reinserimento del lavoratore
dovrebbero prevedere una ricerca attiva del lavoro
da parte del lavoratore e da parte delle Agenzia
per l’Impiego, con dei meccanismi di incentivi e di
sanzioni efficaci;
- le autorità che sostengono il reddito del lavoratore
disoccupato, nel nostro caso l’INPS, dovrebbero
conoscere i programmi di reinserimento seguiti dal
lavoratore e le sue eventuali rinunce/accettazioni
di un nuovo lavoro;
- le autorità che sostengono il reddito dovrebbero
vigilare su eventuali lavori irregolari che durante il
periodo di disoccupazione il lavoratore potrebbe
illegalmente svolgere;
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
-
i servizi per l’impiego e le relative politiche devono
essere “tarati” alle realtà regionali al fine di evitare,
ad esempio, che nel Mezzogiorno del Paese,
affetto innanzitutto da problemi strutturali e da
una insufficiente e debole capacità produttiva, le
politiche siano le stesse a quelle del nord.
Un sistema efficiente appropriato dovrebbe
seguire grossomodo lo schema riportato di seguito.
Fig. 3 - Raccordo politiche attive e politiche
passive
A tal fine, se è difficilmente pensabile
che l’INPS o che i Centri per l’Impiego offrano
contemporaneamente i servizi appena elencati,
dovrebbe essere assolutamente necessario avere
uffici di raccordo da parte delle due istituzioni. Al
contrario, in Italia si osserva, in riferimento al lato delle
politiche attive del lavoro, una certa frammentarietà
e approssimazione nella somministrazione di
quei servizi. La formazione è svolta molto spesso
81
82
Quaderni di ricerca sull’artigianato
indipendentemente dalle esigenze delle imprese da
parte di numerose agenzie, istituzioni e associazioni
che comprendono le Regioni, il Fondo Sociale
Europeo, le Agenzie al Lavoro, i Centri per l’Impiego,
Associazioni legate al mondo sindacale, etc. Inoltre,
non esistono programmi coordinati di reinserimento
al lavoro che seguano il lavoratore nella ricerca attiva
del lavoro e funzionino attraverso meccanismi efficaci
di incentivi e sanzioni. Certamente tutto questo
dipende anche da una struttura istituzionale che in
Italia è tradizionalmente lacunosa, e che spesso
fornisce opportunità per free-rider e rent-seeker che
sono in grado di trasformare meccanismi legislativi
e istituzioni sociali in vantaggi particolari, benefici
personali e rendite di posizione. Una critica specifica
va poi fatta ai Centri per l’Impiego (CPI) e alle Agenzie
per il Lavoro.
Attraverso di essi l’allocazione del lavoro sul
mercato passa da Funzione Pubblica a Servizio
Pubblico, in cui i vecchi Uffici di Collocamento
vengono sostituiti da Centri Provinciali, i CPI appunto,
e Agenzie private (le Agenzie per il Lavoro), con
rischi di mancanza di competenze nel primo caso
e di distorsioni di orientamento verso un “proprio
business” nel secondo caso. Dopo quasi 10 anni di
attività i CPI e le Agenzie per il Lavoro si sono rivelate
scarsamente efficaci infatti nei loro obiettivi. Il livello di
formazione, selezione, collocamento e orientamento
che effettuano sembra ancora molto scarso. Il loro
grado di adeguamento tecnologico ed informatico sul
territorio nazionale è molto povero.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Tab. 3a - Centri per l’Impiego, 2008
CPI adeguati
tecnologicamente
Totale CPI
Centro Nord
33%
315
Sud e Isole
7%
217
Totale
22%
532
Tab. 3b - Agenzie Per il Lavoro, 2008
Agenzie
83
Filiali
2600
Dipendenti
9500
Posti lavoro attivati
300 mila max
Penetrazione
1%
Fonte: Isfol 2008, Ebitemp 2009
I dati emessi da questi enti sono spesso molto
frammentati e una visione completa è difficile da
raggiungere. Non esiste una condivisione strutturale
di informazioni e di dati con altri istituti quali INPS,
INAIL e consulenti del Lavoro, ed infine l’incidenza
in termini di posti di lavoro attivati per il loro tramite
appare molto scarso, intorno all’1% nel caso delle
Agenzie per il Lavoro e al 5% nel caso dei CPI in
media in Italia.
Una simile rappresentazione si ha esaminando
dai rapporti ISFOL sui centri per l’impiego (Landi,
2008). I CPI idonei a soddisfare alcune condizioni
minime di intervento del D.Lgs. 181/2000 sono circa
il 77%, con una forte variabilità tra il Centro Nord e il
Sud. Quando però le condizioni di valutazione si fanno
più stringenti e vengono prese in considerazione
contemporaneamente tutte le funzioni di intervento
dei CPI (condizioni strutturali) quali formazione,
83
84
Quaderni di ricerca sull’artigianato
selezione, allocazione e selezione, la gestione delle
informazioni e la tempistica, le percentuali si riducono
di molto, fino ad arrivare a un valore medio sul territorio
nazionale pari a circa il 30% dei CPI idonei.
Tab. 4 - Centri per l’Impiego adeguati alle
condizioni previste dal D.Lgs 181/2001
CPI adeguati
secondo le
condizioni
minime del
D. Lgs 181/2000
CPI adeguati
secondo le
condizioni
strutturali e
temporali del
D. Lgs 181/2000
Centro Nord
67%
45%
Sud e Isole
33%
18%
Totale Italia1
77%
34%
Fonte: Landi, 2008
La tabella di seguito confronta la gestione
delle politiche del lavoro e il relativo collegamento tra
i centri dell’impiego e gli enti di sostegno al reddito
in alcuni paesi europei. In questo modo emergono
in modo evidente le lacune del sistema italiano e lo
scarso collegamento tra CPI e INPS in particolare.
1 Per pura coincidenza la somma delle percentuali di questa
colonna (67% Centro Nord e 33% Sud e Isole) è 100%. Le percentuali si riferiscono alle rispettive are territoriali. Il dato totale Italia
(77%) si riferisce, di conseguenza, alla percentuale di CPI italiani
adeguati sul totale dei CPI.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Francia
In Francia la gestione delle politiche passive è attribuita alla
ASSEDIC, ente di diritto privato, mentre la gestione delle politiche
attive è attribuito all’ANPE. I due enti sono fortemente collegati
e collaborano insieme nella gestione complessiva delle politiche
del lavoro. In particolare il lavoratore disoccupato viene garantito
attraverso un “Piano di aiuto per il ritorno al lavoro” personalizzato
e condizionale rispetto al recepimento della prestazione sociale.
La flessibilità e i contratti atipici sono entrati solo recentemente e
con molta fatica. Esistono i contratti a tempo determinato (CDD)
che possono essere rinnovati fino ad un massimo di 36 mesi,
dopodiché, se l’impresa mantiene ancora il lavoratore è obbligata
ad assumerlo con contratto a tempo indeterminato (CDI). Oltre alle
indennità di disoccupazione esistono i sussidi di solidarietà elargiti
a tutti coloro che non lavorano attraverso la fiscalità generale.
Germania
Anche in Germania, così come in Francia, ci sono state poche
evoluzioni verso le forme contrattuali flessibili. Il sistema si regge
sulla centralizzazione della ricerca e l’allocazione del lavoro
attraverso l’Agenzia Federale del Lavoro, affiancata dal 2002 da
agenzie del lavoro private. Forme di lavoro a tempo determinato,
anche a brevissima durata, sono previste per particolari categorie
professionali (hotel e ristoranti, marinai, allevamento e agricoltura).
Inoltre le politiche attive del lavoro, formazione e programmi di
ricerca per disoccupati, sono sostenuti da generosi sistemi di
welfare, a regime di indennità di disoccupazione e con un sistema
di reddito sociale, in stretta collaborazione con il Ministero del
lavoro. Quest’ultimo si regge sulla fiscalità generale.
Regno Unito
Esistono dal 2002 i Jobcentre Plus costituiti con la missione di
implementare e monitorare la strategia governativa Welfare to work.
I Jobcentre Plus gestiscono sia le attività di ricerca e formazione,
che di sostegno al reddito. Le politiche del mercato del lavoro si
basano su un sistema di diverse forme contrattuali atipici e a tempo
determinato affiancato da sussidi e sostegno al reddito abbastanza
generosi ed efficaci in caso di disoccupazione
Polonia
Tab. 4 - Flexicurity e collegamenti tra politiche
attive e politiche passive in Europa
I Servizi pubblici, regionali, per l’impiego, sono affiancati da
numerose agenzie di collocamento/consulenza/fornitura di
lavoro, sia indeterminato che temporaneo. Il lavoro temporaneo è
molto diffuso e poco regolato. Allo stesso tempo però è in vigore
un forte sistema di sostegno al reddito gestito dai Centri regionali
per l’impiego che condizionano l’indennità alla ricerca del lavoro,
e può essere interrotto se il lavoratore rifiuta un’offerta di lavoro.
85
86
Ungheria
In Ungheria esiste un sistema generoso di sostegno al reddito per
i disoccupati. A questo si affianca un’indennità di incentivo per
chi abbia beneficiato del sussidio di disoccupazione e sia ancora
disoccupato dopo 180 giorni. I centri per l’impiego pubblico, che
si articolano in nazionali, regionali/provinciali (19) e locali (173),
gestiscono e monitorano questi sussidi, e allocano i lavoratori
sul mercato del lavoro. Forme di lavoro Part-time e a tempo
determinato sono particolarmente favorite e utilizzate per anziani,
similmente al modello tedesco.
Svezia
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Il Governo Svedese si muove in modo convinto verso un modello
di flexicurity che viene spesso riportato come “benchmark”,
insieme al modello danese, nel contesto dell’UE. Questo modello
si caratterizza per tre obiettivi principali: rendere sempre
più conveniente lavorare (attraverso salari elevati), facilitare
e rendere meno costoso, dal lato della domanda del lavoro,
assumere lavoratori, e migliorare il matching tra domanda e
offerta di lavoro. Questi tre obiettivi strategici sono sottoposti ad
un obiettivo generale dello Stato Svedese, quello di raggiungere
il pieno impiego. Obbiettivo al quale la Svezia è molto vicina. Tra
le forme di lavoro atipiche molto utilizzate primeggia il part-time,
soprattutto femminile. Le politiche passive del sostegno al reddito
sono altrettanto efficaci e generosi, e condizionati ad una ricerca
attiva del lavoro; il sistema è gestito attraverso Centri per l’impiego
pubblico che risultano essere molto efficienti negli obiettivi stabiliti.
Fonte: Marsala (2006)
Da questa rassegna emergono due elementi
importanti che caratterizzano un mercato del lavoro
efficiente ed equo: 1) la stretta collaborazione tra enti
che gestiscono funzioni di politiche attive e passive,
che in alcuni sono gestiti dallo stesso ente (come in
Inghilterra, in Svezia, in Danimarca, in Ungheria, ecc.);
2) la stretta connessione tra sussidio e ricerca attiva del
lavoro, ovvero, il sussidio è condizionato alla ricerca
attiva del lavoro e alla partecipazione in programmi di
allocazione da parte del lavoratore, seguiti dai centri
per l’impiego. Quest’ultimo elemento permette una
ricerca efficace del lavoro e una allocazione efficiente
e rapida del lavoratore sul mercato.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
D’altro canto va anche detto che la spesa
totale, in Italia, per le politiche attive e passive, è
molto bassa, e questo risulta ancora più grave se si
considera il fatto che il tasso di disoccupazione italiano
non è tra i più bassi in Europa. Come emerge dalla figura
di seguito, l’Italia è uno degli ultimi tra i paesi europei
che fanno parte dell’OCSE, per la spesa in politiche del
lavoro, con circa l’1,4% del PIL speso, contro una spesa
pari a più del 4% in Danimarca, e più del 3% in Belgio,
Olanda e Germania e superiore al 2 % in Finlandia,
Svezia, Francia e Spagna. Ancora minore risulta la spesa
per le politiche attive, fino ad arrivare al paradosso che
la somma delle politiche attive e passive in Italia (1,4%)
e inferiore alla sola spesa danese in politiche attive
(1,8%). In questo contesto, “la flessibilità all’italiana”
diventa semplicemente insostenibile, per parafrasare
un pensiero di Gallino (2003), sia da un punto di vista
sociale ma che umano.
Fig. 4 - Spesa Pubblica per le politiche del
lavoro, in % del Pil, 2007
Fonte: OCSE – Employment outlook 2007
87
88
Quaderni di ricerca sull’artigianato
2. Rispetto al secondo punto ovvero la
scarsa concorrenza nel mercato dei beni, addotta
da noi come causa soprattutto per la scarsa
dinamica della produttività, questo sembra essere
giustificato da numerosi contributi teorici (Tronti,
2005; Tarantelli, 1995; Sylos Labini, 1999; Blanchard
e Giavazzi, 2004) che in qualche modo si rifanno
ad un’impostazione keynesiana o classica. In
sostanza, quello che succede è che un mercato del
lavoro fortemente flessibile, che permette di ridurre
i costi del lavoro attraverso la pressione sui salari,
accompagnato da un mercato dei beni protetto e
scarsamente concorrenziale come quello italiano,
incentiva le imprese a non innovare e a non investire,
ma a godere comunque di vantaggi competitivi e di
profitti crescenti attraverso la moderazione salariale.
Contrariamente a quanto si era stabilito con l’accordo
del luglio del 1993 dove, attraverso un scambio
politico-sindacale, i sindacati avrebbero accettato
una moderazione salariale in cambio di una politica
dei redditi e di una forte strategia di investimenti
produttivi in settori avanzati, si può dire che questo
scambio non è avvenuto e gli investimenti produttivi
non sono cresciuti (Tronti, 2005). Al contrario la
moderazione salariale e la scarsa concorrenza nel
settore dei beni ha permesso la crescita di rendite
di posizioni e di profitti, e il mantenimento, almeno
temporaneo, di posizioni comunque competitive da
parte delle imprese. In Italia infatti sono numerosi
i settori protetti, poco concorrenziali e soggetti a
rendite di posizione, e vanno dalla vendita al dettaglio,
protetta da regolamenti e tecnicismi legislativi alla
distribuzione all’ingrosso, dominata da pochi grossi
monopolisti; dal settore agricolo sussidiato oltremodo
attraverso la Politica Agricola Comune, al settore
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
energetico, dominato da grandi imprese private che
godono di vantaggi derivanti dal fatto di essere stati
a lungo imprese pubbliche; dalle pochissime grandi
imprese private che operano in settori strategici,
quali le comunicazioni e i trasporti, alle imprese più
esposte alla concorrenza internazionale e sussidiate
per l’esportazione attraverso pressioni e lobbying
spesso poco trasparenti.
Tutto questo ovviamente avviene a scapito
degli incrementi di produttività, i quali sono strozzati
da una scarsa espansione della domanda aggregata,
da un aumento dei prezzi sul costo del lavoro per
unità di prodotto, e da una mancanza di investimenti
soprattutto in settori tecnologicamente avanzati.
Questo risultato è sostenuto anche teoricamente,
laddove si assume che la produttività dipende
dalla combinazione del cosiddetto effetto Smith
(espansione della domanda, con riorganizzazione e
divisione del lavoro) e dell’effetto Ricardo (investimenti
che sostituiscono lavoro con capitale con specifici
cambiamenti
tecnologici).
Attraverso
questo
approccio, si può osservare una relazione negativa
tra produttività e flessibilità, ovvero la flessibilità del
lavoro e la pressione sui salari possono risultare
dannosi per la crescita della produttività. La seguente
equazione, ripresa da Sylos Labini (1999), presenta
le determinanti della produttività del lavoro secondo
questo approccio:
La variazione della produttività del lavoro
(Δπ) dipende positivamente dalla variazione del
prodotto (ΔY), dalla variazione degli investimenti (ΔI)
e dalla differenze delle variabili in parentesi, dove P
è l’indice dei prezzi, PMA i prezzi delle macchine e
89
90
Quaderni di ricerca sull’artigianato
il CLUP è il costo del lavoro per unità di prodotto,
ovvero il rapporto tra la variazione dei salari e il tasso
di crescita della produttività. Se il CLUP cresce più
dell’indice dei prezzi, le imprese, avendo un margine
più basso di profitto, saranno costrette o a risparmiare
lavoro, quindi aumenteranno gli investimenti labour
saving, oppure a riorganizzare la manodopera
all’interno dell’impresa. Così, se i salari crescono
maggiormente rispetto ai prezzi dei macchinari le
imprese preferiranno aumentare gli investimenti
labour saving perché più convenienti rispetto a nuova
manodopera, aumentando così la produttività. Il
che d’altronde implica che se i salari non crescono
adeguatamente rispetto ai prezzi delle macchine gli
investimenti non vengono opportunamente stimolati,
gli imprenditori andranno essenzialmente alla ricerca
di rendite di posizione, e la competizione farà leva
essenzialmente sulla moderazione salariale. Questo
quadro rappresenta bene quello che è accaduto
in Italia dal 1993 in poi (Tronti, 2005; Sylos Labini
2003; Tridico, 2009; Lucidi, 2006), in cui a fianco
ad una modesta crescita dell’occupazione e ad una
forte moderazione salariale, si è avuta una dinamica
negativa e stagnante della produttività. Infatti, se per
definizione:
e se l, l’occupazione, aumenta e y, il Pil, non
cresce, la stagnazione del Pil è da ricercare nella
scarsa performance della produttività π. Tuttavia
potrebbe anche essere il contrario: che poiché il
Pil non cresce la produttività ristagna. In entrambi i
casi c’è un problema di interazione negativa tra Pil e
produttività legata all’effetto Smith.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Inoltre, ci sembra di poter dire che la flessibilità,
anche laddove svolgesse un ruolo sull’aumento
dell’occupazione, incidendo al margine sulla
disoccupazione frizionale, questo ruolo sarebbe
molto limitato in regioni, come il Mezzogiorno del
paese, dove i principali problemi sembrano essere
dal lato dell’offerta di beni piuttosto che dal lato della
domanda del lavoro e dall’incontro tra la domanda
e l’offerta di lavoro. Nel sud infatti la capacità delle
imprese di assorbire manodopera, in particolare
quella specializzata, è molto limitata per via di una
capacità produttiva ridotta, di un prodotto poco
differenziato e di una offerta produttiva inferiore,
che negli anni passati, in particolare negli anni delle
politiche pubbliche assistenziali, è stata fortemente
compensata da una domanda di importazioni
crescente dal nord verso il sud, che ha peggiorato
la bilancia dei pagamenti delle regioni meridionali
nei confronti di quelle settentrionali, che potremmo
dire, hanno di gran lunga beneficiato, anche se
indirettamente, delle politiche espansive nel sud.
91
92
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Fig. 5 – Tassi di occupazione in Italia per macro
aree: Centro nord e Mezzogiorno
Fonte: Ministero del Lavoro, 2009
In questo contesto sembra opportuno
modificare la tradizionale visione triangolare
(Flessibilità-PoliticheAttive-Welfare) che si ha di
flexicurity, inserendo esplicitamente, come nella figura
di seguito, una quarta dimensione nella struttura
classica di quel modello, e cioè la necessità di un
mercato dei beni concorrenziale come requisito
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
necessario e parallelo all’introduzione di flessibilità
(tecnologica-produttiva) nel mercato del lavoro,
affinché quest’ultima non risulti controproducente, o
usando le parole di Sylos Labini et al (1998): When
the labour market is too rigid there are troubles, but
troubles of different kind can arise when flexibility is
unlimited. Gli autori si riferiscono proprio alla scarsa
dinamica della produttività strozzata da eccessi di
flessibilità nel mercato del lavoro e eccessi di rigidità
nel mercato dei beni.
Fig. 6 - Il quadrilatero del nuovo modello
Flexicurity
Il collegamento, indicato dalle frecce
tratteggiate nella figura 10 di sopra, deve seguire,
nel caso del rapporto tra politiche attive e sicurezza
sociale il raccordo suggerito nel modello della figura
6, tra sostegno al reddito e reinserimento nel mercato
del lavoro.
Invece, il collegamento tra flessibilità e
concorrenza, sulla scia del modello di Sylos Labini
appena presentato, deve essere all’insegna di un
continuo investimento da parte delle imprese in settori
produttivi avanzati, in cui prevalgano i normali profitti
piuttosto che le rendite di posizione, che stimolino
93
94
Quaderni di ricerca sull’artigianato
di conseguenza l’innovazione e la concorrenza, e
aumentino la capacità produttiva e quindi la domanda
aggregata.
Le imprese che innovano, che si adeguano
ai cambiamenti tecnologici e che differenziano
il prodotto e i processi produttivi, in virtù della
concorrenza internazionale e della globalizzazione,
dovrebbero poter accedere a quote maggiori di
lavoratori flessibili, più specializzati, meglio retribuiti,
e garantiti da un sistema di ammortizzatori sociali
moderni, efficaci e generosi, di stile appunto danese.
Il tipo di flessibilità che si realizzerebbe sarebbe
quindi una flessibilità “tecnologica-produttiva” che
indurrebbe le imprese ad adattarsi ai cambiamenti
tecnologici e a competere nel mercato internazionale,
svincolate da rendite di posizione e concorrenza
falsata. Le imprese che non innovano dovrebbero
essere limitate nelle loro assunzioni di lavoratori
flessibili, perche potrebbero utilizzare il lavoro flessibile
unicamente come leva di competitività, sostituendo la
riduzione dei costi del lavoro a maggiori innovazioni.
In questo caso una modalità seppur approssimata
per misurare la capacità di innovazione delle
imprese potrebbe essere da una parte la verifica di
introduzione di brevetti di processo e di prodotto
provenienti dalle imprese e dall’altra la spesa in R&S
delle stesse. In particolare in sede di contrattazione
si può immaginare una negoziazione impresesindacato con lo stato da arbitro, che verifichi di volta
in volta le innovazioni fatte dalle imprese e le esigenze
di lavoro flessibile, per mansioni specializzati, in virtù
dei cambiamenti tecnologici effettuati dalle stesse, al
fine di facilitare e accompagnare i processi innovativi
delle imprese. Una formazione continua è l’appendice
necessaria, dal lato del lavoro, che completa questa
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
strategia. Conseguentemente, i risultati sarebbero
vantaggiosi sia per le imprese che otterrebbero
maggiori guadagni in produttività e sia per i lavoratori
flessibili, che otterrebbero maggiori salari.
La posizione dell’Italia è debole in entrambi i
collegamenti esposti nella figura 10. La valutazione che
la Commissione Europea ha fatto rispetto ai progressi
italiani nella dimensione delle liberalizzazioni e della
concorrenza è negativa (Commissione Europea, 2003;
Rapporto Kok, 2004). Inoltre, le valutazioni annuali
del CER, la cosiddetta Lisbon Scorecard, vedono
l’Italia continuamente nelle posizioni più basse della
classifica2 riferita alla concorrenza nei servizi generali,
e nei settori dell’Energia, delle Telecomunicazioni, dei
Trasporti, e dei Servizi finanziari (Murray e Wanlin,
2005; Tilford e Whyte, 2009).
Quanto al collegamento tra politiche attive e
passive, si registra in Italia, oltre che un insufficiente
investimento in politiche attive, uno scarso utilizzo delle
politiche stesse e del loro ruolo di attività formative
interne ed esterne alle imprese, laddove invece, il
ruolo di tali attività risulta cruciale nel determinare il
continuo aggiornamento dei lavoratori necessario per
il funzionamento virtuoso del modello di flexicurity, e
per il loro reinserimento nel caso venissero espulsi
a causa della flessibilità. Inoltre in Italia la gran parte
degli investimenti in attività formative è destinata ai
lavoratori più qualificati, mentre risorse molto limitate
sono rivolte a quelli meno qualificati. Nel confronto
con gli altri paesi europei emerge fortemente la
posizione di fanalino di coda dell’Italia anche in questa
dimensione.
2 Nella sua valutazione globale e sintetica il CER giudica l’Italia
continuamente nella posizione di “Villain” rispetto ai progressi effettuati verso gli obiettivi di Lisbona e in particolare nelle dimensioni
di concorrenza e liberalizzazione, mentre paesi quali la Svezia e la
Danimarca riportano il giudizio globale e sintetico di “Heros”.
95
96
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Tab. 5 - % di lavoratori che partecipano in
programmi lifelong learning
Svezia
32,1
Olanda
15,6
Danimarca
29,2
Slovenia
15,0
Regno
Unito
26,6
Spagna
10,4
Islanda
25,7
Francia
7.5
Finlandia
23,1
Italia
6,1
Norvegia
18,7
Fonte: Eurostat, 2007
Anche a proposito del limitato ruolo delle
politiche di formazione sul posto di lavoro si conferma il
ruolo svolto dalla specifica specializzazione produttiva
italiana; i lavoratori delle piccole e medie imprese,
come evidenzia la tabella di seguito, dominanti
in Italia per quota occupazionale, e specializzate,
generalmente, in settori tradizionali, partecipano a
corsi di formazione in misura ampiamente minore
rispetto agli occupati delle grandi imprese. La minor
offerta di attività formative da parte delle piccole
e medie imprese dipende presumibilmente sia
dal fatto che queste hanno a disposizione limitate
risorse finanziarie per organizzarli, sia dal fatto che le
mansioni richieste ai lavoratori necessitano in scarsa
misura di lunghi processi di apprendimento esterno
(Excelsior 2008).
Non va infine trascurato che l’accresciuto peso
delle forme contrattuali temporanee può contribuire a
ridurre sensibilmente gli incentivi per i datori di lavoro
di investire in attività formative. In effetti gli imprenditori
fanno investimento in formazione del proprio capitale
umano se sono sicuri di tenere per un periodo
sufficientemente lungo i lavoratori. Da questo punto di
vista l’incremento della flessibilità non sembra essersi
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
finora accompagnato ad un contestuale incremento
dell’offerta di politiche attive e formative proprio
per quei lavoratori che maggiormente risentono
dell’accresciuta instabilità delle relazioni lavorative.
Un mercato dei beni non concorrenziale
ostacola anche i processi di accumulazione di
capitale umano e di formazione continua, poiché se,
a causa di un costo del lavoro basso, non funziona
l’effetto Ricardo citato prima e non si fanno pertanto
investimenti tecnologicamente avanzati, i lavoratori
formati non verranno assunti, con conseguenze
negative sulla disoccupazione dei lavoratori
specializzati e dei laureati, oppure verranno assunti
per mansioni di rango e specializzazione inferiori
rispetto alle loro competenze. Nel sud del paese,
l’effetto Ricardo non sembra funzionare affatto,
l’offerta produttiva e la capacità delle imprese è
inferiore ed è labour intensive, questo fenomeno
porta ad una fuga dei cervelli dei laureati verso il nord,
o ad un’occupazione di laureati in settori inferiori alle
loro competenze, con contratti per la maggior parte
atipici e flessibili (Excelsior 2008).
La situazione attuale in Italia: tra crisi economica
e mancanza di protezione sociale
L’attuale crisi mette evidenzia le debolezze del
sistema degli ammortizzatori sociali italiani. Come
abbiamo visto, il sistema di ammortizzatori in Italia
appare insufficiente, frammentato e poco efficiente.
L’assenza di un sistema automatico e anticiclico di
ammortizzatori riduce ancor più il potere di acquisto
delle famiglie, con effetti ancora maggiori sul crollo
della domanda aggregata.
Da un punto di vista strettamente sociale
questo aumenta i conflitti tra insider e outsider.
97
98
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Questo problema va ben oltre il problema di natura
economica e occupazionale e riguarda anche
la sfera della coesione sociale.3 Il tema occupa
grande rilevanza anche tra i giuristi e giuslavoristi, i
quali mettono soprattutto in rilievo come, nel nuovo
contesto di flessibilità e globalizzazione, cambiano
le relazioni industriali: i contratti collettivi cedono
il passo alla contrattazione di secondo livello o alla
contrattazione individuale, e in un certo senso il
potere dei sindacati viene ridotto. Il rischio è che la
segmentazione del lavoro si acuisca e i conflitti sociali
e tra lavoratori aumentino. Una soluzione prospettata
è quella di rafforzare a livello europeo o internazionale
il diritto individuale del lavoratore attraverso “Carta
europea dei diritti fondamentali del lavoratore” (Treu,
2001).
Le necessità di una riforma sono dunque
palesi, e sono rafforzate soprattutto dall’evidenza
empirica che mostra una serie di disparità e squilibri
retributivi e assistenziali tra i beneficiari. In particolare
è possibile individuare due tipi di conflitto, (1) quello tra
insider rispetto allo status di occupato e (2) quello tra
outsider rispetto allo status di disoccupato. Problemi
del resto già affrontati in letteratura (Lindbeck e
Snower, 1988).
Il Ministero del Welfare stima che tra
il 2009 e il 2010 il tasso di disoccupazione aumenterà
3 A questo proposito è utile ricordare che la “Commissione per
l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale”,
presieduta dal Prof. Onofri e istituita dal Presidente del Consiglio
Romano Prodi nel 1996, ritenendo quanto mai opportuno un approccio interdisciplinare, affidasse l’analisi delle politiche del lavoro
ad un economista (Gianni Geroldi) e ad un sociologo (Massimo
Paci) i quali hanno affrontato i problemi degli ammortizzatori sociali
con riferimento a modelli più flessibili di gestione e regolazione del
mercato del lavoro ormai presenti e operanti in Europa. Tuttavia il
lavoro di tale commissione non è mai stato concretizzato da una
riforma legislativa adeguata e completa.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
di circa 2 punti percentuali. Questo significherebbe,
secondo le nostre stime, un aumento di circa 10
miliardi di € per coprire tutti i disoccupati. Nell’attuale
sistema di ammortizzatori sociali invece, al netto delle
deroghe, rimangono fuori dal sistema di protezione al
reddito una grande fetta di lavoratori che, inquadrati
con contratti atipici (interinali, a progetto, occasionali,
Job sharing, intermittenti, temporanei, etc.)
potrebbero non essere riusciti a maturare i requisiti
per l’indennità di disoccupazione.
L’accordo Stato-Regioni del Febbraio 2009
cerca di limitare i danni sociali di questa mancata
copertura e mette a disposizione, in uno sforzo
congiunto Stato-Regioni, 8 miliardi di Euro per
il biennio 2009-2010 per coprire il costo degli
ammortizzatori sociali in deroga per disoccupati che
altrimenti non risulterebbero beneficiari. Per questo
intervento sono state utilizzate, nella gran parte, le
risorse del Fondo Sociale Europeo (FSE) destinate alle
Regioni delle aree svantaggiate, e in misura minore
le risorse nazionali. Al fine di far quadrare i conti alla
fine le Regioni sono state dispensate dall’osservare il
patto di stabilità interno, in modo da poter sopperire
alle criticità aperte dalle mancate risorse del FSE.4
Misurare il tasso di copertura degli
ammortizzatori sociali è una cosa alquanto complessa.
4 Cf. www.pattocontrolacrisi.it Portale Regione Emilia Romagna.
L’accordo i questione rappresenta un compromesso appena sufficiente per tutelare il reddito nei periodi recessivi. Inoltre esso si
configura come un accordo che in parte sopperisce alle lacune del
mercato del lavoro italiano in tema di flexicurity in quanto attraverso
questo accordo si devolvono alle regioni molte funzioni di controllo
e monitoraggio dei sussidi elargiti ma anche di gestione dei programmi di riallocazione del lavoro, condizionati al sussidio. Tuttavia
è un accordo estemporaneo che nasce in un periodo di emergenza
e non rappresenta una soluzione definitiva ai problemi del mercato
del lavoro italiano, che si ripresenteranno non appena l’accordo in
deroga avrà esaurito le sue funzioni, alla fine del 2010.
99
100
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Da una parte non tutti i disoccupati accedono
agli ammortizzatori; dall’altro, paradossalmente
accedono alcune categorie che sono disoccupate
solo temporaneamente per via dell’indennità con
requisiti ridotti. Infine possono accedere i disoccupati
che sono tali solo al fine di prendere l’integrazione
di disoccupazione, come avviene nei settori speciali
dell’edilizia o dell’agricoltura. L’assenza di un reddito
sociale o di un contributo per la disoccupazione
ai disoccupati in quanto tali non è previsto
nell’ordinamento italiano. Rimangono quindi fuori dal
sistema di ammortizzatori sociali:
- i giovani in cerca di prima occupazione
- le persone che vorrebbero rientrare nel mercato
del lavoro dopo un periodo di inattività
- i disoccupati di lunga durata
- coloro che hanno concluso il rapporto di lavoro
dimettendosi
- coloro che hanno concluso il rapporto di lavoro
volontariamente
- inoltre, rimangono fuori una serie di lavoratori
atipici che non hanno maturato i requisiti per il
contributo della disoccupazione.
L’incidenza del lavoro atipico, o secondo
un’espressione spesso usata dai sindacati, l’area
dell’instabilità o della precarietà comprende una
popolazione lavorativa di circa 3.418.000 ed è
descritta dalla tabella di seguito. Essa annovera
tutti i lavoratori con contratti a tempo determinato,
collaboratori, a progetto, e l’insieme di ex dipendenti
a termine ed ex autonomi disoccupati da meno di un
anno.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Tab. 6 – L’area dell’instabilità in Italia 2008
Categorie
atipiche
In migliaia
% sul totale
degli occupati
Temporanei
2269
9.8
Coadiuvanti in
imprese familiari
421
1.8
Soci di cooperative
48
0.2
Collaboratori
coordinati
392
1.7
Prestatori d’opera
occasionali
98
0.4
Altri
(ex cococo,
ex partita iva)
190
0.8
Totale
3228
14.5
Fonte: proprie elaborazioni su fonti Banca d’Italia 2009, IRES
2009, Istat 2008
Alla luce di questo possiamo dire che nell’attuale
scenario di crisi, i costi del mercato del lavoro sono
enormi e possono essere riassunti nella tabella
seguente, in cui appaiono i costi immediatamente
visibili della crisi individuati dalla recessione del PIL
e dal calo degli occupati con il contemporaneo
aumento della disoccupazione, e quelli poco visibili
e che sfuggono alle statistiche sulla tensione del
mercato del lavoro (occupazione e disoccupazione)
e che si riferiscono alla cassa integrazione, che in
effetti non interrompe il rapporto di lavoro ma opera in
sospensione di esso.
101
102
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Tab. 7 - Costi visibili (disoccupazione) e poco
visibili (c. integrazione) dell’attuale crisi
2007
PIL
Variaz. %
1,6
2008
-1
2009
2010
-5,2
0,1-0,6
media
delle
previsioni
Forze di Lavoro
24.728 25.099 25.174
in migliaia
25.238
Occupati
in migliaia
23.222 23.245 22.897
22.690
Disoccupati
in migliaia e %
1.506 1.854
(6.1%) (7.3%)
2.295
(9.1%)
2.547
(10.1%)
2.277
(9%)
Cassa
integrazione
(variazione
% delle ore
concesse
rispetto all’anno
precedente)
-47%
+27%
+109%
Ore Cig + Cigs
(val assoluti)
148
mln
ore
(tot.
2007)
188
mln
ore
(tot.
2007)
480 mln
ore
(tot
2009)
Fonte: propria elaborazione su dati ISTAT, 2009; IRES, 2009;
Commissione Europea, 2008; OCSE, 2009; INPS, 2009; FMI,
2009.
L’elevata precarietà del mercato del lavoro
italiano è evidenziata dalla seguente tabella che mette
in luce come, in un periodo di crisi, l’attuale sistema
di ammortizzatori sociali sia poco idoneo a tutelare
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
tutti i disoccupati, ed in particolare coloro che fanno
parte di quell’area di instabilità occupazionale a cui fa
riferimento la tabella 11.
Tab. 8 - Sussidi di disoccupazione al netto di
deroghe
2009
Disoccupati con sussidi (val. assoluti)
Beneficiari sussidi in %
Spesa per sussidi €
Disoccupati senza sussidi
(val. assoluti)
Disoccupati senza sussidi (in %)
605.682
27
2.100.868.585
1.672.000
73
Fonte: Proprie elaborazioni su dati ISTAT
Il ricorso alla Cassa Integrazione (totale), infine,
è un altro modo di mettere in luce la magnitudine
dell’attuale crisi. Nel gennaio 2009 il totale delle
ore di cassa integrazione ordinaria e straordinaria
ammontava a circa 27 milioni e saliva a 42 milioni di
ore concesse già a Febbraio 2009, con un maggiore
uso ovviamente tra le grandi imprese dell’industria
(Ministero del Lavoro, 2009). L’utilizzo della Cassa
integrazione è in forte aumento dal mese di agosto
2008, e mostra un forte incremento nel mese di
novembre, con circa 50 ore di cig per mille ore lavorate.
Nel complesso le ore autorizzate di cassa integrazione
guadagni registrano un aumento del +109% a gennaio
2009 rispetto a gennaio 2008, aumento dovuto
principalmente alla cassa integrazione ordinaria,
dove l’aumento è stato del +209,3%. Gli incrementi
maggiori si registrano nel Nord-Ovest, come è naturale
che sia visto la maggior concentrazione in quell’aria di
imprese che hanno i requisiti per poter accedere. Di
103
104
Quaderni di ricerca sull’artigianato
conseguenza, nell’altre aree del paese il minor utilizzo
della cig non è da attribuire ad un quadro più positivo
ma ad una impossibilità delle imprese, e quindi alla
struttura produttiva in generale di quelle aree, di poter
accedere a questo tipo di strumenti sociali. In queste
aree è in forte calo però, come del resto anche nelle
aree che già ampiamente utilizzano la cig, l’incidenza
del lavoro straordinario rispetto alle ore ordinarie di
lavoro.
Conclusioni
Il lavoro appena esposto mette in luce
le debolezze del sistema economico italiano in
riferimento al mercato del lavoro. Queste debolezze
emergono con maggior forza nel contesto
dell’attuale crisi, che colpisce soprattutto i nuovi
disoccupati e privi di reddito di sostegno, a causa di
un’articolazione complessa, disordinata e limitata del
sistema di ammortizzatori sociali. Nel saggio vengono
individuate due ragioni principali che impediscono il
raggiungimento di un modello che possa conciliare,
in linea con i modelli migliori di alcuni paesi del
Nord Europa (in particolare Danimarca e Olanda),
sicurezza del lavoro ed esigenze di flessibilità legate
alla necessità tecnologica-produttiva delle imprese (la
sola che giustificherebbe, a nostro avviso, l’utilizzo di
lavoro flessibile). Queste due ragioni sono:
1. un mercato dei beni troppo rigido, associato
contemporaneamente ad un mercato del lavoro
flessibile che diventa molto spesso la sola leva
di pressione per aumentare la competitività di
imprese che altrimenti sarebbero fuori dal mercato;
2. l’altra ragione è il mancato raccordo tra le politiche
attive e le politiche passive di sostegno al reddito, in
cui quest’ultime appaiono fortemente insufficienti.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Una riforma del mercato del lavoro dovrebbe
innanzitutto risolvere questi due macro problemi
e seguire, in attuazione di un eventuale modello di
flexicurity, lo schema proposto in questo lavoro con
la precedente figura 6. In particolare rispetto al primo
problema, si devono eliminare le rigidità all’interno del
mercato dei beni, al fine di favorire la concorrenza tra le
imprese e al fine di impedire che la loro competizione
faccia leva esclusivamente sui costi di lavoro e sul
risparmio che il lavoro flessibile consentirebbe. In un
mercato dei beni più concorrenziale e meno legato
a rendite e posizioni dominanti le imprese sarebbero
maggiormente incentivate a investire in produzioni
tecnologicamente più avanzate e ad utilizzare lavoro
qualificato, stimolando inoltre la leva della formazione
continua dei lavoratori, con effetti positivi sia sulla
produttività del lavoro che sui salari dei lavoratori. In
questo contesto, come abbiamo prima argomentato,
si può realizzare un tipo di flessibilità “tecnologicaproduttiva” che permetterebbe alle imprese di
negoziare, in sede di contrattazione con i sindacati e
lo Stato, quote di lavoro flessibile, a patto che siano
utilizzate per tipi di lavoro high-skilled, al fine di facilitare
e accompagnare i processi innovativi delle imprese.
Le imprese che non innovano dovrebbero essere
limitate o escluse nelle loro assunzioni di lavoratori
flessibili, perche potrebbero utilizzarli unicamente
come leva di competitività, sostituendo la riduzione
dei costi del lavoro a maggiori innovazioni.
Rispetto al secondo punto, abbiamo verificato
che il sistema di politiche attive è molto frammentato,
poco utilizzato, e scarsamente integrato tra le diverse
autorità preposte. In particolare, come abbiamo visto,
i CPI e le Agenzie per il Lavoro hanno una incidenza
molto bassa in termini di allocazione, attraverso i loro
105
106
Quaderni di ricerca sull’artigianato
servizi, di lavoro sul mercato. Al di la delle seppur
frequenti distorsioni che fanno divergere questi
enti verso la ricerca di un “proprio business” con
impiegati e dirigenti creati ad hoc piuttosto che verso
la creazione di istituti di intermediazione con forte
incidenza nel mercato del lavoro, come avviene in
altri paesi europei, sembra comunque che molti CPI
e Agenzie per il lavoro non siano idonei secondo il
D. Lgs 181/2000, e preparati in termini tecnologici e
perfino in termini di competenze, a svolgere un lavoro
di selezione, allocazione, formazione e orientamento
sul mercato del lavoro. Inoltre esse sono lacunose
in termini di creazione di banche dati e condivisione
delle stesse con altre autorità del mercato del lavoro
(Ministero del Lavoro, Ispettorati al lavoro, Inps, Inail
ecc). Allo stesso tempo la spesa per politiche passive
risulta insufficiente e non adeguata al mutato scenario
del mercato del lavoro oggi più flessibile. Si dovrebbe
quindi aumentare la spesa per le politiche del
mercato del lavoro di almeno 1 punto percentuale sul
Pil, attualmente intorno all’1,4%, convergendo verso
quella che è la media dell’UE, pari al 2,5%. All’interno
di tale spesa dovrebbe essere aumentato il sostegno
al reddito, pari in Italia allo 0.8% del Pil contro una
media dell’UE pari all’1,5%, semplificando l’accesso
e garantendo a coloro che oggi sono esclusi ma
disoccupati, di poter accedere ad un reddito di
disoccupazione tra un lavoro e un altro.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
Bibliografia
-
Atkinson J., (1984), “Flexibility, Uncertainty and
Manpower Management”, IMS Report No.89,
Institute of Manpower Studies, Brighton.
-
Banca d’Italia, (2008), Bollettino Economico N.
54, Ottobre.
-
Banca d’Italia, (2009), Bollettino Economico N.
55, Gennaio.
-
Blanchard O., Giavazzi F., (2004), “Improving
the SGP Through a Proper Accounting of Public
Investment” CEPR Discussion Papers 4220.
-
Boyer R., (2009), “Come conciliare la solidarietà
sociale e l’efficienza economica nell’era della
globalizzazione: un punto di vista regolazioni sta”,
Argomenti, N. 1 gennaio/maggio, pp.5-31.
-
Clower R., (1965), “The Keynesian counterrevolution: a theoretical approach”, in Hahn F.H.
and Brechling F.P. (eds.), The theory of Interest
Rate, Macmillan, London.
-
CNEL, (2008), Rapporto sul mercato del lavoro
2007 – 2008.
-
Commissione Europea (2003), “Impact Evaluation
of the EES. Italian Employment Policy in Recent
Years”, Final Report, Provisional Version, Brussels.
107
108
Quaderni di ricerca sull’artigianato
-
Commissione Europea, (2008), “Economic
Forecast”, Directorate-General for Economic and
Financial Affairs, N. 6. Autumn, Brussels.
-
Dymarsky W., (2008), “Labour market
deregulation and performance of the economy.
What do these two things actually have in
common? EAEPE Conference 2008, University of
Roma Tre, Rome.
-
Ebitemp (2009), “Note mensili”, Osservatorio
Nazionale, Roma.
-
Ebitemp (2008) “Il Lavoro Interinale nel 2008:
un primo bilancio e un confronto con il 2007”,
Osservatorio Nazionale, Roma.
-
European Foundation for the Improvement of
Living and Working Condition, (2006), European
Opinion Research Group EEIG, Dublin.
-
Eurostat, (2007), Structural Indicators: www.
europa.eu.int/comm/eurostat/structuralindicators
-
Eurostat, (2008), Statistics Yearbook
-
Excelsior (2008), Unioncamere, Sistema
Informativo, Banca dati online http://excelsior.
unioncamere.net
-
Fleetwood S., (2001), “Towards a transformation
of the labour market”, Working Paper, Lancaster
University.
-
FMI (2009), World Economic Outlook.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
-
Gallino L., (2003) Il Costo umano della flessibilità.
Editori Laterza, Roma-Bari.
-
IRES, (2009), Nota Ires su recessione e calo
occupazionale, Roma
-
ISTAT, (2008), Rilevazione continua sulle forze di
lavoro, Roma.
-
ISTAT, (2009) Conti economici nazionali - Anni
2005-2008, marzo.
-
Isfol, (2008), Rapporto Isfol, ottobre, Il Rubettino,
Roma
-
INPS, (2009), Osservatori Statistici online www.
inps.it
-
Kleinknecht A. and Naastepad, C.W.M. (2005).
“The Netherlands: Failure of a Neo-classical Policy
Agenda”, European Planning Studies, 13, 8, pp.
1193-1203.
-
Kleinknecht A., Oostendorp M.N., Pradhan M.P.,
e Naastepad C. M., (2006). “Flexible Labour, Firm
Performance and the Dutch Job Creation Miracle”,
International Review of Applied Economics, 20, 2,
pp. 171–187.
-
Kleinknecht A., (2008), “The impact of labour
market deregulation on jobs and productivity:
Empirical evidence and a non-orthodox view”.
EAEPE Conference 2008, University of Roma Tre,
Rome.
109
110
Quaderni di ricerca sull’artigianato
-
Leijonhfvud A., (1967), “Keynes and the Keynesian:
a suggested interpretation”, American Economic
Review, 57.
-
Leon P., Realfonzo R., (2008), a cura di, L’Economia
della Precarietà, Manifestolibri.
-
Lindbeck A., e Snower D., (1988), The
Insider-Outsider Theory of Employment and
Unemployment, MIT Press, Cambridge (MA).
-
Lucidi F., (2006), “Is there a trade-off between
labour flexibility and productivity growth?
Preliminary evidence from Italian firms”, Università
di Roma La Sapienza, mimeo.
-
Malinvaud E., (1977), Theory of Unemployment
Reconsidered, Blackwell, Oxford.
-
Marsala A., (2006) (a cura di) Welfare to Work:
modelli di intervento europei, Italialavoro Edizioni.
-
Meade J.E., (1975), The Intelligent Radical’s Guide
to Economic Policy. The Mixed Economy, Allen &
Unwin, London.
-
Ministero del Lavoro, (2009), “Andamenti
dell’occupazione e della disoccupazione”,
Segretariato Generale, Roma.
-
Ministero del Lavoro, (2008), Rapporto di
monitoraggio delle politiche occupazionali e del
lavoro, Settembre 2008, Roma.
FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA
-
Murray A. e Wanlin A. (2005), “Can Europe
compete?”. The Lisbon scorecard V, Centre for
European Reform (CER), London.
-
OCSE, (2007), Employment Outlook.
-
OCSE (2009), Economic Outlook Interim Report.
-
Rapporto Kok (2004), “Facing the challenge. The
Lisbon Strategy for Employment and Growth”,
Report from the High Level Group, chaired by
Wim Kok.
-
Solow R., (1990), The labour market as a social
institution, Blackwell, Cambridge.
-
Stirati A., (2008), “La flessibilità del mercato del
lavoro e il mito del conflitto tra generazioni”, in
Leon P., Realfonzo R., (a cura di) L’Economia della
Precarietà, Manifestolibri.
-
Sylos Labini, Modigliani F, Fitoussi J.P., Moro B.,
Snower D., Solow R., (1998), “An economists”
Manifesto on Unemployment in European Union,
BNL Quarterly review..
-
Sylos Labini, (1999), “The employment issues:
investment, flexibility and the competition of
developing countries” BNL Quarterly Review, 210,
pp. 257-280
-
Sylos Labini (2003), Berlusconi e gli anticorpi,
Laterza, Roma-Bari.
111
112
Quaderni di ricerca sull’artigianato
-
Tarantelli E., (1995), La forza delle idee. Scritti di
economia e politica, Laterza, Roma-Bari.
-
Tilford S., and Whyte P., (2009), “How to emerge
from the wreckage”. The Lisbon scorecard IX,
Centre for European Reform (CER), London.
-
Treu T. (2001), Politiche del lavoro. Insegnamenti
di un decennio. Bologna, Il Mulino.
-
Tridico P., (2009), “Flessibilità e istituzioni nel
mercato del lavoro: dagli economisti classici agli
economisti istituzionalisti”, Lavoro&Economia, N.
1, gennaio/maggio, pp.113-139.
-
Tronti L., (2005), “Protocollo di luglio e crescita
economica:
l’occasione
perduta”,
Rivista
Internazionale di Scienze Sociali, 113 (2), pp.345370.
-
Tronti L., e Ceccato F., (2005) “Il Lavoro atipico
in Italia: caratteristiche, diffusione e dinamica”,
Argomenti, n. 14, pp.27-58.
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
L’ARTIGIANATO E LA
RIGENERAZIONE URBANA
DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
Gennaro Biondi
Direttore ISVE e Facoltà di Economia,
Università “Federico II” di Napoli
1. La nuova sfida “della complessità” economica
e territoriale
Le profonde trasformazioni che hanno
interessato l’organizzazione economica nel corso
degli ultimi decenni hanno riproposto all’attenzione
generale modelli organizzativi troppo frettolosamente
consegnati alla storia durante il lungo periodo di
sviluppo industriale che ha caratterizzato il nostro
Paese dalla fine del secondo conflitto mondiale.
In questo contesto va inquadrata la tendenza
ad una rivisitazione del ruolo dell’artigianato nel
nuovo modo di produrre imposto dall’innovazione
tecnologica e dalla globalizzazione dei mercati . Ci si
chiede, in particolare, se il settore vada considerato
ancora come un segmento residuale di quella
fase definita comunemente come pre-industriale o
piuttosto rappresenta anch’esso una componente
strategica del nuovo modo di essere dello sviluppo
economico e territoriale. Un primo dato incontestabile
sta nel fatto che l’artigianato, pur rappresentando il
risultato di una particolare combinazione di fattori
economici e sociali fortemente radicati nei contesti
locali, è stato interessato dall’imperversante
rivoluzione tecnologica della fine del secolo scorso
che ha rimesso in discussione la sua sopravvivenza
e la sua organizzazione. Il problema sta piuttosto nel
comprendere qual’é e quale può essere il ruolo del
113
114
Quaderni di ricerca sull’artigianato
settore nella nuova divisione sociale del lavoro che
ormai si basa su quella “specializzazione flessibile”
che ha riproposto nel corso degli ultimi trent’anni un
modo di produrre alternativo, basato sulla piccola
dimensione aziendale e su un alta specializzazione
del lavoro e della produzione.
Questa rivoluzione nel modo di produrre ha
portato all’affermazione di una serie di sistemi locali
nei quali le interrelazioni tra condizioni economiche,
sociali e territoriali hanno svolto un ruolo determinante
certamente non replicabile nelle asettiche grandi zone
industriali del modello taylorista che ha imperversato
nella seconda metà del secolo scorso. E qui il
discorso non può non interessare in maniera specifica
le grandi città storiche dove le botteghe artigiane
hanno resistito, spesso con grande dignità, alla
forza d’urto portata sul piano culturale dal processo
d’industrializzazione che, è bene ricordare, ha teso
a coniugare in tutto il mondo occidentale la grande
dimensione manifatturiera con la grande dimensione
urbana. Entrato in crisi tale modello di sviluppo
economico – territoriale, la città è stata investita da
un processo di irreversibile deindustrializzazione
che in molti casi ha segnato in maniera profonda gli
assetti funzionali ed ha attivato pericolosi processi
di esclusione sociale, così come è testimoniato
dall’esplosione dei tassi di emigrazione giovanile,
della disoccupazione operaia, della informalizzazione
del lavoro.
La reazione del settore artigianale a tale processi
ha assunto caratteri diversi in funzione delle sue
specificità strutturali ed organizzative. Le attività più
direttamente collegate alla grande industria hanno in
molti casi assecondato il processo di delocalizzazione
in direzione di nuove aree attrezzate, assumendo
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
anch’esse talvolta una nuova dimensione aziendale
(vedi le esperienze, per esempio, di Lione, Roubaix
o Sheffield). Invece l’artigianato artistico, di servizio
e di mercato hanno conservato la loro localizzazione
urbana, in quanto meno colpite da quel complesso di
diseconomie ambientali ( innanzitutto la disponibilità
di spazi liberi) che affliggono sempre più le grandi
metropoli. Piuttosto la progressiva terziarizzazione
dell’economia urbana si è tradotta in un incentivo per
il settore in quanto si è venuto definendo un nuovo
mercato urbano nel quale la piccola produzione
tradizionale e di qualità è apparsa vincente per due
diversi motivi.
Il primo è rappresentato dalla crescente
attenzione che è dedicata in tutte le maggiori città
al recupero dei centri storici in chiave turistica, il che
sollecita il settore ad un ammodernamento strutturale
in funzione della nuova tipologia dei clienti ed,
indirettamente, crea o amplia il mercato, sollecitando
in molti casi l’innovazione di prodotto, intesa come
riproposizione di antiche lavorazioni sul viale del
tramonto in una versione di tipo innovativo. Il secondo
si ritrova negli stili di vita che si accompagnano
alla terziarizzazione del mondo del lavoro e che si
concretizzano in una costante emancipazione del
consumatore e delle sue capacità critiche e valutative,
con il conseguente rifiuto della qualità poco curata e
di una tendenziale personalizzazione della domanda.
Tali cambiamenti, indotti dal benessere economico e
dalla crescita culturale dei consumatori, richiedono
una forte flessibilità nell’offerta che solo di produzioni
in piccole serie, ma elaborate in ambienti ad alta
tecnologia, possono garantire. In questa nuova
realtà le preesistenze artigianali, con il loro irripetibile
patrimonio costituito soprattutto da storie ed
115
116
Quaderni di ricerca sull’artigianato
esperienze umane, possono candidarsi ad un ruolo
di protagoniste nello sviluppo delle economie urbane.
L’affermazione di tale tendenza, che la ricerca
empirica testimonia con crescente convinzione,
capovolge in sostanza il paradigma della produzione
in quanto i settori considerati trainanti nel modello
tradizionale diventano marginali, mentre quelli
che erano subordinati assumono un nuovo ruolo
strategico nell’organizzazione degli spazi urbani.
Questo rovesciamento dei ruoli è apparso spesso
alquanto sconcertante per gli stessi protagonisti
e per i “pianificatori” dello sviluppo, al punto che di
fronte all’evidenza sono stati indotti a considerarlo del
tutto occasionale e quindi non portatore di una forza
destabilizzante degli equilibri consolidati nel tempo. Al
massimo il problema è stato collocato all’interno del
riordino funzionale degli spazi metropolitani, ovvero in
termini di razionalizzazione del rapporto produzione –
territorio. Certo l’ipotesi dello spostamento all’esterno
degli spazi centrali della città di alcune lavorazioni
non compatibili dal punto di vista ambientale o
per specifiche esigenze di spazi conserva una
sua oggettiva validità; ma con riferimento a tutti gli
altri comparti il problema va piuttosto collocato
all’interno di quella “sfida della complessità” che
risulta inevitabile per chi è impegnato nel ridisegno
funzionale delle città post-industriali. Napoli appare
in sostanza assimilabile alla città che Jonathan
Raban descrive nel suo celebre Soft City “ come “un
teatro, una serie di palcoscenici in cui gli individui
possono creare la loro magia (creatività) personale
assumendo diversi ruoli”. Un luogo dove realtà e
immaginazione semplicemente devono fondersi; un
luogo, cioè, dove lo sviluppo economico, l’inclusione
sociale e l’organizzazione del territorio concorrono in
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
uno stretto intreccio di interrelazioni a ridisegnarne
continuamente l’immagine ed il suo futuro.
2. Il Centro Storico : un territorio “in transizione”
Le ambiguità e le contraddizioni sedimentate
nella sua storia millenaria fanno del Centro Storico
di Napoli un terreno di osservazione privilegiato
per approfondire il complesso rapporto che lega le
politiche urbane a quelle dello sviluppo economico
nelle grandi metropoli che faticosamente vanno
alla ricerca di una loro riconfigurazione funzionale
di tipo post-industriale. L’elemento di novità che
induce a superare perplessità e diffidenze a lungo
metabolizzate nella coscienza collettiva è offerto
dall’affievolirsi di un atavico pregiudizio consistente
nel far coincidere l’immagine del centro storico con
il degrado economico e la marginalità sociale. Se
le precarie condizioni di vivibilità restano un dato
inconfutabile che non può dissolversi da solo, è
pur vero che ormai anche nei segmenti più scettici
e demotivati dell’opinione pubblica si è fatta strada
la consapevolezza del ruolo strategico che il grande
patrimonio artistico e culturale del cuore della città
può giocare nel riassetto economico e funzionale
dello spazio urbano, in particolare in direzione di
una moderna terziarizzazione che ha il suo fulcro
indiscutibile nel “ritorno” dei turisti nel capoluogo
campano. E’ questo il risultato di un processo lento
ma ormai consolidato dovuto, pur tra luci ed ombre,
tra accelerazioni e gravi ritardi, ad un complessivo
investimento della società locale (ed anche delle
istituzioni) sul piano dell’immagine. Il problema sta
nell’assecondare tale dinamica anche sul piano di un
generale riordino dello spazio urbano, in primis del
suo Centro Storico. Esso va inteso come quella parte
117
118
Quaderni di ricerca sull’artigianato
della città che si è formata fino all’Età preindustriale e
che può farsi coincidere – in buona approssimazione
– con ciò che resta dell’insediamento rappresentato
nelle carte del Regio Officio Topografico del 1853; in
termino attuali si tratta del più vasto Centro Storico
europeo con i suoi 7200 ettari, poco meno di 8000
edifici, circa 90.000 alloggi e circa 230.000 residenti.
Su un altro piano il caso Napoli rappresenta
anche una significativa testimonianza di una città “in
transizione” tra un modello economico - territoriale
incardinato sull’industria manifatturiera ed uno di tipo
post-fordista. La crisi industriale della fine del secolo
scorso, concretizzatesi nel dimezzamento delle unità
locali e dei posti di lavoro si è saldata in uno stretto
intreccio di causa ed effetto all’altrettanto vistosa crisi
urbana, misurata da un peggioramento della qualità
della vita e da una crescente dipendenza dall’esterno
con riferimento ai servizi a maggiore valore aggiunto.
La città, ancora una volta nella propria storia,
si ritrova di fronte ad una pluralità di percorsi possibili
che, talvolta, sembrano favorirne l’integrazione
ed il dialogo con la parte più dinamica e moderna
dell’Europa, e, talaltra, la spingono verso un ulteriore
accentuazione della marginalità economica e sociale.
La sua “ambiguità” sta nel fatto che mentre ha
recepito con tempestività gli aspetti negativi della
nuova complessità urbana stenta a mettere “ a
profitto” le sue potenzialità materiali ed immateriali.
Dal piano strategico a quello organizzativo il
passaggio è estremamente impegnativo in quanto
chiama in causa volontà e capacità che nel caso
specifico dell’artigianato devono fare i conti con
la nuova “rivoluzione tecnologica” e con i profondi
mutamenti della domanda e dei mercati. Sta di fatto
che la tradizionale figura dell’artigiano ricurvo sul banco
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
di lavoro ad esprimere la sua creatività, circondato da
giovani apprendisti, è stata da tempo consegnata
alla storia della città; qualche antica bottega dove si
respira ancore l’atmosfera dei mestieri tradizionali si
configura ormai come un semplice ed accattivante
strumento di marketing turistico e non più come una
vera e propria attività produttiva con la sua tradizionale
dignità sociale. Molto più spesso negli stessi locali
che hanno ospitato i maestri artigiani si ritrovano i
mille mestieri della sopravvivenza napoletana: in alcuni
casi si tratta di un’evoluzione fisiologica che riesce
a canalizzare verso nuove produzioni competenze
ed esperienze consolidate nella cultura locale del
lavoro, mentre in altri acquistano piuttosto i contorni
dell’informalità, della precarietà e dell’illegalità, il che
accentua – piuttosto che ricomporre – la marginalità
economica e l’esclusione sociale. A determinare
tale trasformazione ha contribuito senza dubbio
il vistoso processo di ricambio sociale che ha
interessato il nucleo centrale della città dove un
nuovo ceto si è sostituito all’antica comunità nobiliare
la quale appariva molto attenta ed interessata a
quelle lavorazioni artistiche che soddisfacevano
la loro curiosità e davano lustro ornamentale ai
loro salotti. Di conseguenza l’artigianato locale si è
ritrovato in difficoltà ed ha dovuto adattarsi ad una
nuova domanda più attenta alla presentazione ed
all’immagine del prodotto piuttosto che ai suoi effettivi
contenuti artistici. I risultati di tali cambiamenti sono
individuabili nel progressivo distacco della funzione
commerciale da quella della produzione, nel senso
che i nuovi artigiani trovano più conveniente lavorare
su commessa dei commercianti i quali garantiscono
una discreta regolarità negli ordinativi in cambio di
una progressiva standardizzazione dei prodotti.
119
120
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Il nuovo modo di produrre e le nuove tendenze
nella domanda propongono nei fatti un ripensamento
dell’antico legame tra Centro Storico ed il comparto
artigianale che si manifesta in alcuni casi in forme
di delocalizzazione di intere attività o fasi produttive
nella periferia metropolitana, conservando nei
quartieri centrali un punto di vendita: è questo il
caso soprattutto dei settori collegati all’edilizia o
alla lavorazione del legno. All’estremo opposto si
ritrovano piccole e piccolissime botteghe che di
fronte ai cambiamenti preferiscono mimetizzarsi nel
variegato pianeta dell’informale che sopravvive grazie
a tutta una serie di accorgimenti sovente ai limiti della
legalità.
Queste linee di tendenza nei fatti ci riportano
all’interrogativo di fondo rappresentato dal rapporto
che deve e può ancora avere l’artigianato con il
centro storico della città. In altri termini si tratta
di capire quali politiche di settore e di area vanno
definite in questa direzione: recuperare le produzioni
tradizionali o piuttosto assecondare il cambiamento in
atto; incentivare la delocalizzazione dell’intero settore
o solo dell’artigianato di produzione ; finalizzare le
produzioni al mercato locale o incentivare un’apertura
che guarda d una scala più ampia anche di quella
regionale. Più in generale considerare o meno il
settore come un caposaldo economico produttivo
per un rilancio possibile dell’intera area.
3. I dati strutturali e
gianato locale
L’esigenza di
convincente ai grossi
dalla diffusa presa di
e del consolidamento
comportamentali dell’artioffrire qualche risposta
interrogativi proposti nasce
coscienze della consistenza
di alcune dinamiche che in
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
maniera del tutto spontaneo stanno modificando
i rapporti di forza tra le diverse sezioni del territorio
napoletano. Innanzitutto va segnalato che nel
corso degli ultimi 40 anni il centro storico ha perso
circa il 60% della popolazione residente ed ha
visto modificarsi in maniera radicale la sua struttura
sociale, grazie ad un significativo invecchiamento del
patrimonio demografico ; con riferimento alle attività
produttive va ricordato che il centro storico ha sofferto
nell’ultimo ventennio una progressiva destrutturazione
del suo sistema manifatturiero con una perdita di
oltre il 50% della sua forza lavoro. In parallelo nello
stesso periodo è venuto sempre più affermandosi
un secondo circuito dell’economia, di tipo informale,
che talvolta si pone come un comparto rifugio per gli
esclusi dall’economia ufficiale e, talaltra, rappresenta
l’avamposto di attività che si posizionano ai limiti (ed
anche oltre) della legalità, ovvero in quella “zona
grigia” che falsa le regole del mercato e determina un
impoverimento generale dell’economia urbana.
L’artigianato nel centro storico - 2010
La prima difficoltà in cui ci si imbatte quando
si avvia una riflessione sul settore dell’artigianato è
rappresentata dalla scarsa disponibilità di dati ufficiali
121
122
Quaderni di ricerca sull’artigianato
utili per fotografare la realtà: le informazioni Istat
appaiono piuttosto datate e quelle della Camera di
Commercio (più precisamente quelle del Cerved)
lasciano molti dubbi in quanto non è prevista negli
elenchi ufficiali la cancellazione automatica ed
obbligatoria delle aziende che cessano la loro attività.
Per ricostruire in maniera il più possibile l’universo
di riferimento abbiamo sottoposto ad una verifica
“sul campo” i risultati di una precedente indagine
che abbiamo condotto nel 1997 basata sulla lettura
delle schede di rilevazione predisposte dai servizi
Statistici del Comune di Napoli per l’aggiornamento
del piano topografico e dell’ordinamento ecografico,
dalle quali fu possibile estrapolare la presenza delle
unità artigiane per ciascun numero civico. All’epoca
censimmo 2377 imprese nel settore delle quali il
50% formato da unità di produzione, il 41% da
unità di servizio ed il 9% da botteghe del comparto
artistico. Con riferimento ai settori merceologici
solo 5 contavano più di 100 imprese e tra questi
prevalevano nettamente l’alimentare, seguito dalla
lavorazione del legno, l’abbigliamento, le calzature,
le tipografie e la lavorazione del ferro. Grazie a tale
approccio abbiamo avuto la possibilità di verificare i
cambiamenti registratisi nel comparto nel corso degli
ultimi 13 anni. Nel complesso abbiamo censito la
presenza di 2201 unità locali con un numero di addetti
che sfiora i 4000 addetti; in termini percentuali le unità
locali sono diminuite del 7,4% mentre l’occupazione è
calata di poco meno del 10%. All’interno del settore,
si è assistito al sorpasso della componente dei servizi
che è cresciuta di 9 punti percentuali passando dal
41 al 50% del totale; viceversa il segmento della
produzione ha perso 11 punti attestandosi sul 39%
rispetto al 50% di 13 anni addietro; infine l’artigianato
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
artistico mostra un timido cenno di ripresa passando
da un’incidenza del 9 all’11%.
A questo cambiamento della composizione
merceologica corrisponde un tendenziale riassetto del
quadro localizzativo caratterizzato da un ripiegamento
delle attività artigianali dalle principali arterie del
centro storico, verso il reticolo stradale minore. Tale
fenomeno affonda le sue radici in un quadro socio
– economico ben più articolato e complesso, nel
quale i cambiamenti nella composizione sociale
della popolazione e la crescita del “valore d’uso”
degli spazi “centrali” tendono a periferizzare le
attività a minore valore aggiunto e contribuiscono a
ridisegnare, ancora una volta, l’assetto funzionale
della città sulla base della rendita fondiaria. Il caso del
subentro di attività commerciali anche in locali storici
della creatività dei maestri d’arte appaiono numerosi
e si segnalano un po’ ovunque ne cuore della città.
Di conseguenza l’artigianato ha in buona parte perso
la sua continuità territoriale ed attualmente presenta
un quadro localizzativo “ per punti”, nel senso che
si ritrovano diverse isole specializzate che sembrano
più esprimere strategie di arroccamento difensivo che
non dinamiche di tipo espansivo: sono i casi degli orafi
del quartiere Pendino, i tappezzieri ed i restauratori di
mobili in legno di Chiaia, i pellettieri della Sanità, le
tipografie che gravitano su Piazza Dante, i lavoranti
del ferro di Rua Catalana, gli artisti presepi ali di San
Gregorio Armeno, i librai di San Giovanni dei Librai,
i sarti ed i pellicciai di San Ferdinando ed anche le
più moderne botteghe che lavorano le pelli intorno a
Piazza Mercato, gli alimentaristi di Piazza Carlo III, la
meccanica di precisione dell’area portuale.
Tutta una serie di ulteriori informazioni ci è stata
offerta dalle risposte di un apposito questionario che
123
124
Quaderni di ricerca sull’artigianato
abbiamo somministrato ad un campione del 5%
delle imprese censite nel quale abbiamo rispettato le
proporzioni tra le diverse componenti merceologiche e
la relativa distribuzione territoriale tra le 4 Municipalità
interessate.
Con riferimento alle caratteristiche strutturali
emerge la netta prevalenza di unità locali di modeste
dimensioni (entro i 50 mq). L’organizzazione della
produzione resta piuttosto approssimativa e si
sviluppa nella maggior parte dei casi in un unico
locale che per circa i 3/4 risulta in affitto. La figura
del titolare che gestisce l’azienda interessandosi di
tutte le sue funzioni resta ancora prevalente, anche se
in alcuni casi, coincidenti soprattutto con le iniziative
attivate da giovani nuovi entrati nel settore, registra
una qualche forma di delega che comunque risulta
affidata ad un socio-familiare. Il numero degli addetti
per bottega non raggiunge le 2 unità.
Un contributo essenziale alla definizione degli
organici è offerto dalle relazioni familiari ed amicali che
si basano su regole inscritte nella cultura di quartiere
o di clan dove spesso “l’agenzia di collocamento”
è costituita da personaggi che offrono precise
referenze personali ai datori di lavoro in cambio del
riconoscimento del proprio ruolo di leader del vicolo
o del rione.
Questa è la chiave di lettura anche per
comprendere più in generale i rapporti interaziendali
ed i meccanismi di scambio. In alcuni settori, vedi
quello collegato alla moda, si delinea una vera e
propria filiera del lavoro informale,nel senso che tutti
i segmenti del processo produttivo risultano inscritti
in una trama di rapporti interpersonali che trovano
la loro legittimazione a scala micro-territoriale,
anche se il momento mercantile appare più ampio.
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
Si ha la sensazione di ritrovarci di fronte ad una
discrasia evidente tra la definizione dello spazio della
produzione e quello socio-culturale che lo sottende.
In altri termini, mentre le relazioni interpersonali
tendono a costruire una crisalide sociale con le sue
prassi consolidate ed i suoi codici di comportamento
condivisi ed autoreferenziati, le relazioni commerciali
spaziano in tutto il territorio cittadino ed oltre. Questa
contraddizione non favorisce
l’affermazione di
un moderna cultura imprenditoriale che per molti
versi resta estranea al settore e vista con estremo
scetticismo. L’esempio tipico è offerto dal crescente
numero di unità di produzione le quali rinunciano
alla loro indipendenza sul piano della selezione
dei prodotti e collaborano in maniera informale
con industrie del circuito ufficiale che tendono a
recuperare competitività attraverso il decentramento
delle loro fasi di produzione nella “zona grigia” del
centro storico.
La crescente perdita di autonomia decisionale
da parte degli artigiani napoletani si legge con
chiarezza dai dati relativi alla composizione della
clientela che per circa il 52% indica il riferimento
ad un unico committente che assorbe oltre il 60%
della produzione. Tale opzione comporta una scarsa
attenzione per il mercato al punto che circa il 3/4
degli operatori del settore dichiara di assumere
le informazioni sulla produzione direttamente dal
committente. Il rapporto diretto con il singolo cliente
privato appare in progressivo ridimensionamento
nel comparto della produzione mentre resta
alquanto solido con riferimento alla fornitura di
servizi, soprattutto di quelli rivolti alla persona ed alla
riparazione di oggetti, anche se quest’ultima categoria
riguarda quasi esclusivamente prodotti di provenienza
125
126
Quaderni di ricerca sull’artigianato
industriale (in primis gli elettrodomestici) mentre è
pressoché scomparsa la componente degli “aggiusti”,
fatti di piccoli interventi e modifiche atti a prolungare
la vita di abiti, mobili ed articoli dell’oreficeria. Per la
verità va segnalato qualche timido segnale di ripresa
di questo comparto da collegare, probabilmente,
alla imperversante crisi economica che impone un
ripensamento complessivo degli stili di vita e dei
consumi soprattutto presso le classi meno abbienti
che di fatto prevalgono nel centro storico della città.
A proposito dell’identikit
dell’imprenditore
artigiano si può constatare una netta frattura
generazionale che vede, da una parte, i vecchi
maestri artigiani, spesso ultrasessantacinquenni,
dediti soprattutto alle lavorazioni artistiche e, dall’altra,
l’affermarsi di una nuova soggettività artigiana
relativamente giovane ed impegnata nei comparti più
attenti all’innovazione ( alcuni segmenti della moda
e della meccanica di precisione , in particolare). In
questa seconda categoria la percentuale più alta
è rappresentata da persone con un’età media che
si aggira intorno ai 35-40 anni, per la stragrande
maggioranza di “prima generazione” e con un’anzianità
“di bottega” che non va oltre i 10 anni, il che esprime
un evidente innalzamento dell’età di ingresso nel
settore. In sostanza, la figura del ragazzo di bottega
che dopo aver terminato la scuola elementare andava
ad imparare il mestiere, come già avevano fatto suo
padre ed il nonno, è ormai definitivamente relegata
nell’album dei ricordi ; pur con tutti i suoi rischi ed
inconvenienti si trattava pur sempre di una forma di
apprendistato che permetteva il trasferimento per via
diretta e generazionale dell’arte delle mani sulla quale
si basava la fortuna di settori trainanti dell’economia
locale: gli incisori dell’oro, gli incastratori di pietre
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
preziose, i decoratori di mobili e cornici, gli artisti
presepiali a lungo hanno concorso a dare un senso
ed a disegnare l’immagine dell’economia locale ed
urbana.
All’artigiano erede del mestiere e della bottega
di famiglia si è ormai sostituito una nuova figura di
self-made il cui approdo al settore va ricercato in
altra direzione. In numerosi casi l’avvio dell’attività
artigianale non è stata indotta da una “vocazione”
familiare o da una scelta del tutto razionale in base
al proprio percorso formativo; essa rappresenta
sovente una soluzione di ripiego, dopo aver
esplorato altri canali di accesso al mercato del
lavoro, innanzitutto la possibilità di accedere ad un
“posto fisso”, secondo una prassi consolidatasi nella
cultura locale soprattutto durante gli anni Settanta ed
Ottanta. Appare chiaro che con l’aumento del grado
di istruzione e con la tendenziale standardizzazione
degli stili di vita e dei consumi, decresce la volontà
di sobbarcarsi a fatiche, orari di lavoro e rischi come
quelli affrontati dalle vecchie generazioni per le quali il
lavoro manuale aveva anche un posto prioritario nella
loro gerarchia valoriale e la bottega rappresentava
già di per se il luogo non solo del lavoro ma della
propria socialità. Una riprova indiretta di tale
fenomeno è offerta dalla ricorrente riconversione al
cambio di generazione della bottega artigianale in
direzione di un’attività commerciale il più delle volte
nello stesso settore merceologico di provenienza.
Questa strisciante terziarizzazione dell’artigianato si
coglie con puntualità in molti casi nei quali il padre
ed il figlio collaborano nella stessa azienda, ma con
ruoli complementari: il padre si dedica ancora alla
produzione mentre il figlio cura la commercializzazione
diretta del prodotto.
127
128
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Su un piano più generale, nel settore si
percepisce un diffuso scetticismo nei riguardi
dell’innovazione, che a sentire gli operatori dipende
soprattutto dalle incognite che presenta il quadro
macro economico, non solo a scala locale ma anche
regionale e nazionale. Alla scarsa propensione
all’innovazione gli artigiani contrappongono un’alta
sensibilità verso quelle politiche aziendali che
garantiscono, a loro dire, un minimo di competitività e
che riguardano soprattutto i prezzi. Dietro l’alibi della
concorrenzialità probabilmente si nasconde un’atavica
e mai sconfitta propensione a strumentalizzare il
cambiamento al fine di riorganizzare su nuove basi,
ed a vantaggio di pochi, la tradizionale precarietà
sociale che caratterizza il centro storico. Ancora una
volta riemerge la centralità del localismo più spinto
(alla scala familiare e di clan) che tende a proteggere
i suoi associati a discapito di una modernità e di
un mondo esterno che talvolta vengono addirittura
percepiti come controparte.
4. E’ possibile il ritorno degli esclusi?
L’immagine complessiva restituita dall’indagine
è quella di un settore alla ricerca di una nuova identità
che attualmente sembra affidata più a dinamiche
spontanee, ricche di ambiguità e contraddizioni , che
non ad un preciso quadro programmatico inserito nel
riordino funzionale e produttivo della città. Un dato di
scenario, figlio della storia locale del settore, aiuta a
capire di più; esso è costituito dal fatto che i lunghi
periodi di abbandono e di estraneità di cui ha sofferto
il settore ed il centro storico non hanno permesso il
definitivo consolidarsi di quelle dinamiche che hanno
agito in altre grandi città industriali del nostro Paese
dove i comparti più rappresentativi dell’artigianato
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
sono stati spinti a delocalizzarsi verso le periferie
metropolitane, lasciando alle funzioni direzionali ed alle
attività a maggiore valore aggiunto gli spazi centrali.
L’artigianato napoletano non si presta in maniera
meccanicistica a soluzioni di questo genere, in
quanto la sua storia e la sua organizzazione risultano
saldamente radicate nella geografia urbana e nella
cultura dominante in vasti strati della popolazione; di
questo intreccio esso risulta, d’altronde, un elemento
vitale che non può essere relegato ai margini della
progettualità urbana che interessa il centro storico.
In altri termini appare evidente che la crisi d’identità
del centro storico e le difficoltà di modernizzazione
e recupero dell’artigianato rappresentano due aspetti
fortemente correlati e quindi richiedono soluzioni
univoche. E’anche evidente che la salvaguardia
e la messa in valore dell’irripetibile patrimonio
rappresentato
dalla
creatività
dell’artigianato
non può non prendere le mosse dalla presa di
coscienza delle profonde trasformazioni che lo
hanno investito negli ultimi decenni, evitando il più
possibile sia atteggiamenti romantici e conservativi,
sia improponibili fughe in una modernità che almeno
nell’area stenta a manifestarsi. Innanzitutto appare
chiaro che il tradizionale modello organizzativo della
bottega artigiana è entrato definitivamente in crisi in
quanto Il suo successo si basava sulla coesione e
la concentricità degli elementi che lo componevano:
l’abitazione e l’opificio coesistevano; gli addetti erano
tutti collegati da rapporti di familiarità; le funzioni
domestiche e quelle professionali si intrecciavano e
si soprapponevano; il rione rappresentava la spazio
della produzione e del consumo e più in generale
era l’area nella quale si consumavano i tempi ed i
riti del lavoro e della socialità. Tutto ciò è stato ormai
129
130
Quaderni di ricerca sull’artigianato
consegnato alla riflessione degli storici mentre il nuovo
modello organizzativo e gestionale del settore stenta
a fare breccia nella cultura locale: esso si basa su una
rinnovata tensione verso l’innovazione e su nuove
relazioni spaziali con clienti e committenti. Certo non
mancano episodi di questo tipo, ma restano ancora
del tutto occasionali ed affidati essenzialmente alla
lungimiranza e l’intraprendenza di quella minoranza
che vanta un percorso culturale e formativo del
tutto atipico rispetto alle regole ed ai comportamenti
tradizionali.
Lo “zoccolo duro” del settore resta ancora
quello della molteplicità di lavorazioni che si
alimentano nel degrado urbano e sociale, ma non
va sottovalutato quel dato che indica un seppur
simbolico incremento della componente artistica che
nei fatti interrompe un’agonia che in alcuni momenti
anche del recente passato sembrava addirittura
irreversibile. Evidentemente il settore, interessato da
una ripresa della domanda “di qualità” e fortemente
personalizzata, oltre che sollecitato dal ritorno dei
turisti (soprattutto crocieristi) attratti dall’immenso
patrimonio artistico e dalle botteghe della città antica,
intravede la possibilità di riposizionarsi come segmento
non residuale dell’economia locale. Certo l’ipotesi
dello spostamento all’esterno degli spazi centrali di
alcune lavorazioni resta un’ipotesi “di lavoro” plausibile
soprattutto per quelle aziende che necessitano di
una dimensione aziendale maggiormente strutturata
rispetto alla tradizionale bottega; ma con riferimento
al comparto artistico il problema va piuttosto risolto
in un quadro più generale di ripensamento e di
rivitalizzazione economica e funzionale della città.
Resta il fatto che il nuovo dinamismo tecnologico,
finalizzato alla riduzione dei costi della produzione
ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI
personalizzata, consente lo spostamento delle
strategie aziendali da un approccio reattivo, mirante
alla sopravvivenza, ad un recupero di redditività delle
aziende di piccole e piccolissime dimensioni operanti
nei contesti urbani. Il che contiene un forte significato
non solo sul piano strettamente economico, ma
anche sociale e territoriale. Rassegnazione o
maturazione culturale a parte, da questa fase di
transizione e di “ambiguità” urbana va emergendo
una rinnovata attenzione verso valori più affini alla
cultura pre-industriale locale che appaiono mobilitabili
a patto che il rilancio dell’artigianato esca dai rituali
enunciati di principio ed entri con tutta la sua dignità
in un processo di riprogettazione “governata” del più
grande centro storico europeo.
131
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
LE DINAMICHE E LE STRATEGIE
DELL’EDILIZIA
E DELL’ARTIGIANATO
DI FRONTE ALLA CRISI
Federico Della Puppa
Professore a contratto di Economia
e Gestione di Imprese – IUAV – Facoltà di Architettura;
Ricercatore Senior - Cresme
In sintesi
Il 2008 per il settore delle costruzioni è stato,
a livello nazionale, il primo anno di inversione della
tendenza e dell’inizio di quella fase recessiva che
in Veneto era già iniziata timidamente qualche
anno prima e che nel 2009 ha consolidato il suo
trend negativo. Il Veneto, come spesso accade,
ha anticipato le dinamiche nazionali e si conferma,
anche nelle costruzioni, un “laboratorio territoriale” di
dinamiche, politiche, strategie. I dati a consuntivo nel
Veneto hanno evidenziato per il 2009 una diminuzione
degli investimenti del -7,9% in valori costanti. Questo
rallentamento segue il -5,5% relativo al 2008, quando i
fattori della crisi erano già espliciti, ma non ancora così
diffusi in tutti i comparti e in tutti i settori. La differenza
rispetto al passato è che nel 2009 tutti i segnali
congiunturali hanno assunto valori negativi, con una
diminuzione anche del numero di imprese (-1,4%) e
degli addetti (-4,3%). Rispetto alle crisi precedenti
alcuni fattori hanno inciso in modo più consistente
sulla dinamica negativa: dall’accesso al credito delle
imprese, dovuto alla crisi finanziaria internazionale,
alla minore domanda di famiglie e imprese, dovuta alla
crisi economica. Il 2009 si configura dunque come un
“annus horribilis” per l’edilizia veneta. Tuttavia emerge
anche che il segno “meno” si è diversamente riflesso
133
134
Quaderni di ricerca sull’artigianato
sul sistema dell’offerta. Si può affermare che la crisi
del mercato ha colpito soprattutto la microimpresa e
la piccola impresa, mentre le imprese più strutturate
hanno dimostrato che la loro maggiore organizzazione
e capitalizzazione ha consentito di posticipare, e in
alcuni casi annullare, gli effetti negativi del mercato.
Per il secondo anno consecutivo, infatti, le imprese
più strutturate hanno trovato comunque il modo
di restare sul mercato e crescere in quantità, non
solo nel settore industriale ma soprattutto in quello
artigianale. Un segnale importante per il rilancio del
settore in una fase congiunturale delicata.
1. Le dinamiche recenti del settore delle
costruzioni
Il 2008 è stato l’anno nel quale in Italia la crisi
del comparto delle costruzioni è diventata evidente.
Molti elementi hanno contribuito a velocizzarne
la dinamica. Lo scoppio della bolla speculativa
immobiliare e il ruolo strategico che il credito ha
giocato e gioca nel processo edilizio hanno di fatto
contribuito ad inasprire le condizioni operative per
le imprese. Va tuttavia ricordato che sul mercato
incide una domanda che era già in flessione e che le
condizioni generalizzate della crisi economica e della
scarsa fiducia dei consumatori e delle imprese riduce
ulteriormente la capacità di spesa e la propensione
agli investimenti.
Il settore da alcuni anni ha imboccato una
fase inevitabile di rallentamento delle dinamiche di
crescita, a causa dell’esaurirsi del ciclo espansivo
che aveva dominato nella prima metà degli anni
duemila, grazie alle favorevoli condizioni di mercato
dettate principalmente dai bassi tassi di interesse,
dal riorientamento degli investimenti dal mercato
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
borsistico a quello immobiliare, e dalla pressione di
una forte domanda abitativa, non esaurita. L’attuale
crisi del credito, il forte peso dell’invenduto (sia nel
settore residenziale che in quello non residenziale), la
scarsità di risorse per nuovi investimenti pubblici, la
discesa dei prezzi sul mercato e la crisi economica
sono tutti fattori che contribuiscono oggi a deprimere
il mercato, anche nel segmento delle ristrutturazioni
e del rinnovo edilizio, che avrebbe potuto in questa
congiuntura negativa limitare o contrastare, se non
del tutto almeno in parte, la frenata del mercato.
Tab. 1 - Italia. Investimenti e PIL a confronto (var.
% su anno precedente in valori costanti). Anni
2001-2008
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
Prodotto interno
lordo
Investimenti fissi
lordi
1,8
0,5
0,0
1,5
0,7
2,0
1,6
-1,0
2,7
3,7
-1,2
2,3
0,8
2,9
2,0
-3,0
Costruzioni
4,4
5,9
2,4
2,2
0,4
1,0
1,0
-1,8
Abitazioni
1,4
0,6
2,6
2,8
5,9
3,8
1,4
0,4
6,8
7,9
1,2
1,6
-3,0
-1,7
0,9
-2,4
4,1
18,5
8,4
2,9
-1,8
4,0
0,4
-7,3
Fabbr. non
residenziali e altre
opere
Trasferimenti di
proprietà
Fonte: elaborazione su Conti economici nazionali SEC 95
L’attuale fase di mercato a livello nazionale è
dunque in piena fase critica e il 2008 è stato l’anno
di una vera e propria svolta. Le compravendite
immobiliari, dopo anni di incrementi quantitativi
e di dinamiche positive dei prezzi, hanno visto
ridurre sia gli scambi che i prezzi. Su base annua
il mercato immobiliare italiano nel 2008 ha perso
242mila transazioni, delle quali ben 123mila nel
135
136
Quaderni di ricerca sull’artigianato
solo segmento residenziale, con una diminuzione
complessiva pari al -13,7% degli scambi, che sale al
-15,1% nel mercato residenziale. Certo, dopo dieci
anni di crescita ininterrotta – la seconda più lunga dal
dopoguerra – questa dinamica negativa del mercato
era inevitabile e, peraltro, largamente annunciata.
Ma le condizioni del contesto hanno contribuito ad
appesantirla, a partire dalla difficoltà di accesso ai
mutui e dal restringimento della liquidità da parte del
settore bancario.
Grafico 1 – Dinamica degli investimenti in
costruzioni e PIL (var. % su anno prec. in valori
costanti) a livello nazionale. Anni 1971-2008
Fonte: elaborazione su Conti economici nazionali SEC 95
In questo scenario, a livello nazionale, un
ulteriore elemento ha contribuito ad acuire la situazione
di difficoltà del mercato, ovvero il rallentamento del
mercato delle opere pubbliche, con una contrazione
degli investimenti che fa riferimento in particolare alla
capacità di spesa dei Comuni, delle Province, delle
Regioni, della Sanità e dello Stato, mentre enti come
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
l’ANAS, i settori energetico idrico-ambientale e della
mobilità, le imprese di servizio pubblico locale, le altre
imprese a partecipazione pubblica sono cresciute
nella spesa, così come anche nel 2008 è continuato
continuato a crescere il Partenariato Pubblico Privato,
che rappresenta ormai in modo stabile almeno un
quarto del totale del mercato dei lavori pubblici.
Il rallentamento del settore delle costruzioni a
livello nazionale contribuisce in modo determinante
a deprimere l’economia complessiva, in quanto negli
ultimi anni l’edilizia si è dimostrata il settore trainante
dell’economia. Il confronto infatti tra la dinamica
degli investimenti lordi in costruzioni e il prodotto
interno lordo a prezzi di mercato, evidenzia come
fino dalla seconda metà degli anni ottanta l’edilizia
abbia giocato un ruolo fortemente anticongiunturale,
mentre nei periodi precedenti avesse giocato sempre
un ruolo di settore al traino dell’economia.
Grafico 2 – Compravendite di abitazioni (totale
Italia) e capitalizzazione di borsa a confronto.
Anni 1985-2008
Fonte: elaborazione su dati Agenzia del Territorio-OMI e Borsa di
Milano
137
138
Quaderni di ricerca sull’artigianato
In sostanza a partire dalle politiche di sviluppo
degli ultimi vent’anni, l’edilizia ha assunto un carattere
predominante nell’economia nazionale, garantendo
e rilanciando tutta l’economia e invertendo,
paradossalmente, l’interpretazione che voleva
questo settore al servizio (ovvero al seguito) degli
altri settori economici (come era stato del resto dal
boom economico all’inizio degli anni ottanta). Ma le
condizioni che hanno permesso questa inversione di
tendenza si devono soprattutto al cambiamento dei
fattori di contesto. Se si mettono a confronto in una
dinamica ventennale il mercato immobiliare con quello
borsistico si evidenzia come la crescita degli ultimi
anni del primo abbia una velocizzazione proprio nella
fase di rallentamento e crisi del mercato borsistico,
fino al 2006, anno in cui si inverte la tendenza e dove
il mercato immobiliare segue la dinamica negativa di
quello borsistico. In sintesi, nel 2007 e soprattutto
a partire dal 2008 il mattone non rappresenta più
quell’investimento solido, quel “bene rifugio” in grado
di controbilanciare le difficoltà degli investimenti di
capitali in borsa.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
Grafico 3 – Confronto tra mercato immobiliare,
prodotto interno lordo e tasso di sconto a livello
nazionale. Anni 1985-2008
Fonte: elaborazione su dati Agenzia del Territorio-OMI e Banca
d’Italia
Dunque la caduta dei corsi azionari associati
all’incertezza della politica e dell’economia
internazionale e ai bassi tassi di interesse, hanno
spinto verso l’alto un mercato che per molti anni
aveva mantenuto una rotta di navigazione più o meno
consolidata (si noti l’andamento nel periodo 19851996). Una prima sterzata decisa è avvenuta nel 1997,
e una seconda a partire dal 2002, dopo la “pausa
tecnica” del 2001 (pausa dovuta allo spostamento al
2002 di molte transazioni, a causa dell’eliminazione
dell’INVIM).
Ma la caratteristica di mercato in
controtendenza, il mercato immobiliare la presenta in
modo ancora più evidente se si mettono a confronto il
numero di compravendite con l’andamento del tasso
ufficiale di riferimento e la variazione percentuale
del PIL. Al diminuire del tasso di sconto il mercato
immobiliare cresce, mentre al crescere del tasso
139
140
Quaderni di ricerca sull’artigianato
di sconto esso viene inibito. E questa dinamica è
accentuata in positivo o in negativo a seconda che
la dinamica del PIL sia positiva o negativa: quando
entrambi scendono (PIL e tasso di sconto) il mercato
immobiliare residenziale ha un andamento di forte
crescita. E appena i tassi di interesse aumentano, il
mercato immobiliare subisce un rallentamento.
Il 2008 e il 2009 mostrano una dinamica
immobiliare negativa come non si era mai registrata
da oltre vent’anni. All’inizio degli anni novanta e poi
all’inizio del duemila si erano verificate condizioni di
rallentamento degli scambi, in concomitanza con
debolezze economiche e innalzamento dei tassi di
interesse. L’elevato valore degli scambi sul mercato
immobiliare del 2006 non era evidentemente una
condizione sostenibile nel lungo periodo, soprattutto
in presenza di condizioni di mercato incerte e instabili,
al pari di quelle evidenziate per le crisi del passato.
Tuttavia, anche se con dimensioni ed impatti
diversi da quelli del passato, proprio la lettura della
dinamica di lungo periodo evidenzia che in presenza
di una diminuzione significativa dei tassi di interesse
il mercato immobiliare potrebbe riprendere quota.
La traduzione di questi dati macroeconomici infatti
è che in condizioni favorevoli di accesso al credito
e in condizioni di incertezza economica, la “casa” si
dimostra un vero e proprio bene rifugio nel quale si
investe. Ma in questo contesto gli ultimi anni hanno
anche evidenziato un cambiamento significativo della
domanda, un nuovo elemento con il quale il mercato
deve confrontarsi.
Secondo dati dell’Agenzia del Territorio, il
94,5% degli acquirenti è costituito da persone fisiche,
mentre nel caso dei venditori questa percentuale
scende al 76,1%. Per quanto riguarda il profilo
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
degli acquirenti la tipologia dominante è quella del
lavoratore dipendente (57% degli acquirenti) seguito
a molta distanza dal pensionato (11,5%). Per quanto
riguarda la fascia di età il segmento principale è
quello delle persone comprese tra 31 e 40 anni. Per
quanto riguarda la fascia di reddito, il 35,8% delle
compravendite fa riferimento a persone con reddito
compreso tra 15.000 e 30.000 euro. Ma la somma
delle tre fasce più basse (quelle al di sotto dei 30.000
euro) interessa l’86,6% degli acquirenti.1
Dunque la casa è un bene al quale guardano
per lo più lavoratori dipendenti di età compresa tra 31
e 50 anni e con redditi inferiori a 30.000 euro annui. E’
evidente che una domanda di questo tipo necessiti di
contrarre mutui immobiliari, ma l’accesso al bene oggi
è molto più difficile anche in ragione degli effetti della
crisi statunitense legata ai mutui subprime. La crisi
economica inoltre spinge verso il basso la capacità di
acquistare metri quadri di residenza. Nel 1998 i metri
quadri potenzialmente acquistabili con un’annualità di
reddito medio erano poco più di 14. Dal 2005 questo
valore è sceso a circa 10. Significa una perdita di
capacità di acquisto di circa il 40%. Significa, a parità
di metri quadri acquistati e di capacità economica,
allungare i tempi del mutuo. E infatti l’incidenza
della rata del mutuo sul reddito medio familiare è
aumentata di oltre un punto percentuale negli ultimi
cinque anni, superando il 12%, un valore comunque
inferiore ai canoni di locazione che le famiglie trovano
sul libero mercato.
Ma nonostante queste problematiche e queste
difficoltà, il bene casa rimane al centro delle vicende
economiche e sociali, dato che la domanda continua
1 Cfr. Federico Della Puppa (2007), “Analisi del fabbisogno abitativo nel Veneto, Profilo della domanda e aspetti tipologici dell’offerta”, IUAV, Venezia.
141
142
Quaderni di ricerca sull’artigianato
a crescere, anche forte delle nuove fasce sociali
che si affacciano a questo mercato. Ad esempio,
gli immigrati entrati in Italia prima del 2000 abitano
in case di proprietà nel 21,5% dei casi, quelli entrati
nel 2001-2002 sono proprietari nel 12% dei casi,
percentuale che scende all’1% per quelli giunti dopo
il 2005.2
Dal punto di vista della dinamica della
domanda, si deve considerare che ogni anno in
Italia si generano circa 250mila nuovi nuclei tramite
matrimonio. A queste nuove coppie vanno aggiunte
80mila separazioni (in crescita di 30mila rispetto al
decennio scorso). Secondo recenti stime, assieme
alle convivenze di fatto, la nuova domanda abitativa
per creazione di nuovi nuclei a livello nazionale si può
stimare rasenti ogni anno le 400mila unità.
La pressione residenziale e abitativa in Italia
dunque è forte, e lo è anche in Veneto.3 Basti
pensare che oltre ai 19mila matrimoni ogni anno, vi
è una domanda da sfratti e da domanda ERP non
soddisfatta che fa riferimento a 15mila domande
all’anno contro 1.000 assegnazioni e che ancora
nel 2001 ben 400mila persone in Veneto abitavano
in condizioni di sovraffollamento, e 100mila di esse
in situazioni di grave disagio. Senza pensare poi alla
domanda degli studenti, degli anziani autosufficienti,
dei single, dei lavoratori in trasferimento da altre
regioni, degli immigrati.
Infine, oltre alle questioni legate alla residenza,
vero e proprio motore dell’edilizia e delle costruzioni,
vi è tutto il tema degli investimenti commerciali,
produttivi e destinati al terziario e ai servizi, oltre alle
2 Cfr. il dossier “Immigrati in-stabili”, a cura di Stefania Bragato e
Vania Colladel, nuovadimensione, Venezia, 2009, pag. 73.
3
Federico Della Puppa (2007), op.cit.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
opere pubbliche, che in questo momento presentano
a livello nazionale, ma anche regionale, una dinamica
di rallentamento che difficilmente nel breve periodo
potrà essere contrastata. Le previsioni di sviluppo per
il settore, elaborate dal Cresme, infatti sono negative,
sia per il 2009 che per il 2010.4
2. Una crisi annunciata
La crisi del settore delle costruzioni peraltro era
stata ampiamente annunciata ed era ben visibile negli
indicatori congiunturali che ne rappresentano una
cartina di tornasole:
- nel 2008 la produzione di acciao in Italia è calata
del -3,1 per cento, il consumo di tondo per
cemento armato del -5,7 per cento ma nei primi
mesi del 2009 secondo Federacciai è diminuita
del -41,7 per cento;
- secondo dati Comamoter, le vendite di macchine
per il movimento terra sono diminuite del -22,4
per cento nel 2008 e del -46,5 per cento nel 2009;
- secondo Istat la produzione di piastrelle in
ceramica è calata del 7,8 per cento nel 2008 e
l’indice della produzione è sceso del 33,5 per
cento nel 2009;
- il consumo di calcestruzzo, secondo analisi
Cresme per la Consulta del Calcestruzzo
(Federbeton), è sceso del -15 per cento nel 2008
e di un ulteriore -15 per cento nel 2009;
- secondo dati Andil, la produzione di laterizi nel
2008 è calata del -12,7 per cento e del -29,3 per
cento nei primi nove mesi del 2009.
4 Cfr. Cresme, “XVIII Rapporto congiunturale e previsionale CRESME, Il mercato delle costruzioni: 2008-2013”, Roma, novembre
2010.
143
144
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Se si osserva il comparto residenziale, le
compravendite immobiliari sono diminuite del 14,9%
nel 2008 e di un ulteriore 15,6 per cento nei primi
sei mesi del 2009. Contemporaneamente sono
calate le erogazioni di finanziamenti per l’acquisto di
nuove abitazioni e di converso anche l’erogazione del
credito per costruzioni residenziali. Il comparto non
residenziale, che prosegue nella lunga crisi iniziata
nel 2003, ha visto ridursi nel 2008 le compravendite
dell’11,7 per cento e di un ulteriore 16 per cento nel
2009, con analoghe diminuzioni negli inidcatori relativi
al credito e agli investimenti. Il mercato delle opere
pubbliche, che nel passato nei momenti difficili ha
sempre rappresentato un settore anticongiunturale,
in questa fase segue le dinamiche negative degli altri
comparti. Unica nota diversa e parzialmente positiva,
quella delle domande per agevolazioni fiscali per
ristrutturazioni (“36%”), che sono aumentate nel 2009
del 14,3 per cento.
Osservando attentamente gli indicatori
strutturali del settore emerge che la crisi dell’edilizia
arriva da lontano, ed è in parte acuita dalla crisi
economica generale, ma trova i suoi elementi
strutturanti in alcune condizioni di fondo che
sono così riassumibili: un boom eccessivo ed
eccezionale nel 2002 (dovuto alla crisi delle borse
e alla contemporanea introduzione dell’euro, che
ha immesso nel mercato molte risorse finanziarie),
la crisi del comparto non residenziale a partire dal
2003 proseguita fino al 2009, la riqualificazione che
si stabilizza e non sostiene più la crescita del settore
come nella seconda metà degli anni novanta, il
mancato ruolo anticongiunturale degli investimenti in
opere pubbliche.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
Tab. 2 - Italia. Indicatori congiunturali dell’edilizia:
credito, produzione, investimenti (var. %)
2008
/2007
2009
/2008
Compravendite residenziali*
-14,9
-15,6
Erogazioni mutui residenziali*
Residenziale
-10,0
-12,9
Erogazioni credito costruzioni residenziali*
-8,6
-17,8
Nuova produzione residenziale (mc ultimati)**
-6,0
-11,5
Investimenti in nuova costruzione***
-8,3
-19,2
-11,7
-16,0
Non residenziale
Compravendite non residenziali*
Erogazioni mutui non residenziali*
-3,1
-48,7
-13,9
-16,4
Nuova produzione non residenziale (mc ultimati)**
-0,9
-16,4
Investimenti in nuova costruzione***
-2,8
-15,9
-5,7
-5,8
Domande ai fini della riduzione fiscale (36%)
-2,0
14,3
Consumi delle famiglie
-0,9
-1,9
Investimenti in rinnovo
-2,0
-4,0
Erogazioni credito costruzioni non residenziali*
Opere pubbliche
Investimenti in opere pubbliche
Riqualificazione residenziale
Fonte: CRESME
*Primo semestre 2009,
**Sistema Informativo CRESME sulla nuova produzione edilizia,
***stime investimenti CRESME
3. Le dinamiche del settore delle costruzioni nel
Veneto
Il quadro nazionale produce anche a livello
regionale effetti simili. Anzi, guardando con molta
attenzione ai dati rilevati negli ultimi anni5, si può
5 Ceav-Cresme, “Rapporto sul mercato delle costruzioni in Veneto”, report annuali riferiti al periodo 2001-2008 e dal 2008 Unioncamere-Ceav-Cresme “Osservatorio trimestrale sul mercato delle
costruzioni nel Veneto”.
145
146
Quaderni di ricerca sull’artigianato
osservare che il Veneto rappresenta una regione
che anticipa ed esemplifica trend e dinamiche che
poi si estendono anche a livello nazionale. I dati
a consuntivo sull’andamento del mercato delle
costruzioni nel Veneto, secondo le stime elaborate
dal Cresme per l’osservatorio CEAV-Unioncamere
sul mercato edilizio, hanno evidenziato per il 2009 un
decremento significativo degli investimenti, nell’ordine
del -5,5 per cento in termini reali e del -7,9 per cento
in valori costanti (al netto dell’inflazione).
Si tratta della diminuzione più significativa dalla
precedente crisi dell’edilizia, avvenuta nella prima
metà degli anni ’90 per l’effetto “tangentopoli”, e che
è dipesa tuttavia da andamenti molto diversificati nei
diversi comparti produttivi. Nel 2009 il settore delle
costruzioni nel Veneto ha attivato investimenti per
poco meno di 15 miliardi di euro. Se si aggiungono
circa altri 3 miliardi di manutenzioni ordinarie si arriva
ad un valore complessivo della produzione di circa
18 miliardi.
La nuova costruzione ha rappresentato come
sempre il principale mercato di riferimento, con il
53 per cento degli investimenti, mentre il rinnovo
ha costituito il 47 per cento del mercato. Il primo
segmento produttivo, nonostante la crisi, è rimasto
quello della nuova costruzione residenziale (26,4%),
anche se in forte frenata sul 2008 (-20,4% in valori
correnti). Anche i settori della nuova produzione e del
rinnovo non residenziale privato hanno presentato un
calo (rispettivamente -13,4% e -5,7%).
Dopo la stagnazione del 2008, il 2009 ha
fatto registrare incrementi significativi nelle opere
pubbliche: in crescita il segmento non residenziale
pubblico (+6,5% nel nuovo e +28,6% nel rinnovo)
e le opere del genio civile (+27,2% nella nuova
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
costruzione e +26,2% nel rinnovo). Tuttavia questi
andamenti positivi, data la loro quota complessiva,
non hanno consentito di recuperare il trend negativo
dei comparti quantitativamente più rilevanti. Va
segnalato tuttavia che il settore del rinnovo edilizio,
nel suo complesso, ha fatto registrare un incremento
dell’1,7 per cento, un timido segnale di ripresa che
potrebbe essere rafforzato dall’avvio dell’utilizzo degli
incentivi previsti dal “piano casa” regionale.
Tab. 3 - Veneto. Investimenti in costruzioni
(milioni di euro in valori correnti) - Anni 20072009
2007
2008
var. %
2008
/2007
2009
9.308
8.936
-4,0
7.937
-11,2
53,0%
Nuovo residenziale
5.286
4.962
-6,1
3.951
-20,4
26,4%
Nuovo non
residenziale privato
2.498
2.417
-3,2
2.094
-13,4
14,0%
403
428
6,4
456
6,5
3,0%
Nuovo genio civile
1.122
1.129
0,7
1.436
27,2
9,6%
RINNOVO
6.821
6.917
1,4
7.036
1,7
47,0%
rinnovo residenziale
3.488
3.534
1,3
3.477
-1,6
23,2%
rinnovo non
residenziale privato
2.210
2.251
1,8
2.122
-5,7
14,2%
rinnovo non
residenziale pubblico
345
351
1,7
451
28,6
3,0%
rinnovo genio civile
779
781
0,3
986
26,2
6,6%
16.129 15.852
-1,7
14.973
NUOVA
COSTRUZIONE
var. %
distr. %
2009
2009
/2008
di cui
Nuovo non
residenziale pubblico
di cui
TOTALE
INVESTIMENTI
-5,5 100,0%
Fonte: elaborazione e stime CRESME per osservatorio CEAVUnioncamere
147
148
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Il Veneto nel 2009 ha subito pertanto una forte
e brusca frenata, che è avvenuta successivamente ad
un anno, il 2008, in cui i fattori della crisi si erano già
ampiamente esplicitati (ed erano stati ben evidenziati
nel precedente rapporto), anche se con dinamiche
non ancora così consistenti. Va ricordato ancora una
volta che questo trend negativo è seguito alla seconda
più lunga fase di crescita positiva del dopoguerra, ma
rispetto alle crisi precedenti alcuni fattori hanno inciso
in modo più forte sul consolidamento della dinamica
negativa, in primo luogo il problema dell’accesso
al credito delle imprese, dovuto alla crisi finanziaria
internazionale, e in secondo luogo alla minore
domanda, dovuta alla crisi economica delle famiglie
e delle imprese.
Tab. 4 – Veneto. Variazione percentuale degli
investimenti in costruzioni (valori costanti)
2004 2005 2006 2007 2008 2009
NUOVA COSTRUZIONE -1,9 -1,4 -0,6 -4,5 -7,4 -13,4
di cui
Nuovo residenziale
3,0 4,1 3,1 -5,9 -9,3 -22,3
Nuovo non residenziale
privato
-10,8 -8,7 -6,1 8,5 -6,9 -15,5
Nuovo non residenziale
pubblico
4,0 -0,3 -8,1 -9,4 2,4
4,0
Nuovo genio civile
-2,4 -8,1 -3,4 -18,4 -3,1 24,1
RINNOVO
-1,3 -3,0 0,9 -2,6 -2,2 -0,8
di cui
rinnovo residenziale
0,3 -1,4 2,5 1,0 -2,1 -4,0
rinnovo non residenziale
privato
-2,0 -1,8 1,3 1,4 -2,0 -8,0
rinnovo non residenziale
pubblico
-5,3 -8,9 -4,3 -18,2 -2,1 25,4
rinnovo genio civile
-2,8 -8,1 -2,8 -18,0 -3,5 23,1
TOTALE INVESTIMENTI -1,6 -2,1 0,0 -3,7 -5,2 -7,9
Fonte: elaborazione e stime CRESME per Osservatorio CEAV-Unioncamere
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
4. Le dinamiche della nuova produzione edilizia
Il mercato della nuova costruzione, e in
particolare quella residenziale, ha rappresentato in
questi anni, nel Veneto, un fenomeno di mercato sotto
tutti i punti di vista, quantitativi e qualitativi, sia a livello
di investimenti che di quantità di alloggi prodotti e
costruiti. Ma a ben osservare i dati relativi alle pratiche
rilasciate tra il 2003 e il 2007 (dato più aggiornato a
disposizione) emerge come il rallentamento della
domanda fosse già presente ed evidente a partire dal
2005, anche se gli effetti sul mercato si sono sentiti
solo a partire dal 2007, a causa dei tempi effettivi di
utilizzazione dei permessi e dell’intervallo di tempo
intercorrente tra il rilascio del permesso, le attività
di cantiere e l’effettiva ultimazione degli alloggi in
produzione.
I dati in questo senso sono eclatanti ed
evidenziano che nell’edilizia residenziale il volume
concesso è cresciuto fino al 2004, raggiungendo
quasi la soglia di 16 milioni di metri cubi, una
pressione realizzativa molto consistente, per poi
ridimensionarsi dal 2005 al 2007. La riduzione del
numero di permessi per costruire nel 2005 è stata
del 3,5 per cento per numero di fabbricati, del 6 per
cento per il volume e del 6,2 per cento per numero
di alloggi. Nel 2006 è proseguita la dinamica di
riduzione per giungere al 2007 a poco meno di 6mila
fabbricati, 13 milioni di metri cubi, poco più di 28mila
alloggi e 2,24 milioni di metri quadrati di superficie
utile abitabile. La dinamica di riduzione delle quantità
prodotte dunque non è frutto della congiuntura degli
ultimi due anni, ma ha iniziato la sua fase discendente
a partire dal 2004. Il trend 2004-2007 è del -11,1 per
cento per i fabbricati, -17,5 per cento per il volume e
un significativo -24,9% per le abitazioni.
149
150
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Tab. 5 – Veneto. Permessi di costruire nell’edilizia
residenziale (2003-2007)
2003
2004
2005
2006
2007
6.289
6.684
6.447
6.370
5.944
6,3
-3,5
-1,2
-6,7
FABBRICATI
Numero
var. % su anno prec.
Volume (.000 mc)
13.865 15.793 14.844 14.131 13.034
var. % su anno prec.
13,9
-6,0
-4,8
-7,8
ABITAZIONI
Numero
32.374 37.755 35.432 31.680 28.347
var. % su anno prec.
Superficie utile (.000 mq)
2.375
var. % su anno prec.
16,6
-6,2
-10,6
-10,5
2.715
2.536
2.406
2.242
14,3
-6,6
-5,1
-6,8
Fonte: elaborazione su dati Istat
5. Il mercato immobiliare
Gli effetti della crisi economica e gli altri fattori
già ricordati in precedenza hanno insistito sul mercato
modificando comportamenti di acquisto e le quantità
scambiate. Nel Veneto nel 2009 le compravendite
di alloggi sono diminuite dell’11,7%, dopo il calo del
19,7 per cento del 2008, portando complessivamente
a ridurre gli scambi del 29,1 per cento nel biennio.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
Tab. 7.5 – Veneto. Compravendite di alloggi nel
settore immobiliare residenziale (2007-2009)
var. % var. % var. %
2008 2009 2009
/2007 /2008 /2007
2007
2008
2009
4.448
3.400
2.878
-23,6
-15,4
-35,3
Piccola dimensione 20.023 15.729 13.588
-21,4
-13,6
-32,1
Medio-piccola dim. 13.580 10.924 10.054
-19,6
-8,0
-26,0
Media
-18,4
-9,1
-25,9
Monolocali
19.808 16.154 14.686
Grande
7.820
6.648
5.902
-15,0
-11,2
-24,5
NC
6.890
5.386
4.338
-21,8
-19,5
-37,0
72.569 58.241 51.446
-19,7
-11,7
-29,1
Totale
Fonte: elaborazione su dati Agenzia del Territorio / OMI
E’ evidente che una diminuzione di tale
entità e portata ha avuto effetti negativi anche sul
sistema immobiliare delle agenzie e dei servizi di
intermediazione, nonché sui costruttori direttamente
impegnati in promozioni immobiliari, generando
una elevata quantità di invenduto, tutt’ora di difficile
quantificazione ma che difficilmente alle attuali
condizioni di mercato (crisi economica, minori
disponibilità finanziarie delle famiglie, difficoltà di
accesso ai mutui, scarsa fiducia) sarà possibile
ricollocare in tempi brevi. E generando al contempo
una difficoltà al sistema produttivo, che si trova
attraverso l’invenduto una forte immobilizzazione
finanziaria, peraltro gravata anche da una diminuzione
anche dei prezzi e dunque del valore stesso delle
immobilizzazioni.
Molto interessanti sono i dati dell’Agenzia
del Territorio (Osservatorio sul Mercato Immobiliare)
relativi alle tipologie di alloggi compravenduti, perché
evidenziano come anche se la maggior parte degli
151
152
Quaderni di ricerca sull’artigianato
scambi è avvenuta soprattutto per alloggi di piccola
e medio-piccola dimensione, la diminuzione degli
scambi è stata distribuita e generalizzata, con
punte rilevanti negli alloggi di piccola e piccolissima
dimensione (monolocali).
6. La dinamica imprenditoriale
Il 2009 dunque è stato il primo anno nel quale
tutti i segnali congiunturali hanno assunto valori
negativi. Infatti se nel 2008 la dinamica imprenditoriale,
nonostante il rallentamento del mercato, ha mostrato
una crescita delle imprese attive da 72.151 a 72.863
(+1%) e una crescita anche dell’occupazione da
175.827 a 179.764 addetti (+2,2%), nel 2009 si è
registrata una significativa diminuzione del numero di
imprese (-1,4%) e soprattutto degli addetti (-4,3%). Il
2009 si configura dunque come uno dei peggiori anni
per l’edilizia veneta. Tuttavia, a ben guardare i numeri,
emerge anche che il segno “meno” si è diversamente
riflesso sul sistema dell’offerta. Per il secondo anno
consecutivo, infatti, nonostante la crisi, le imprese
più strutturate hanno trovato comunque il modo di
restare sul mercato e crescere nel numero, sia nel
settore industriale che in quello artigianale.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
Tab. 7 – Veneto. Imprese attive artigiane e non
artigiane delle costruzioni per forma giuridica.
Anno 2000 e anni 2005-2009
2000
2005
2006
2007
2008
2009
118
1.185
1.464
1.720
1.949
2.091
7.726
8.495
8.453
8.434
8.370
8.120
ARTIGIANE
Forma giuridica
Società di capitale
Società di persone
Imprese individuali
Altre forme*
Totale
NON ARTIGIANE
Forma giuridica
36.623 46.752 48.391 49.519 49.389 48.073
48
55
55
50
45
54
44.515 56.487 58.363 59.723 59.753 58.338
Società di capitale
4.466
5.792
6.213
6.658
7.126
7.414
Società di persone
2.536
2.366
2.398
2.413
2.503
2.463
Imprese individuali
2.494
2.818
2.942
2.836
2.909
2.966
510
476
492
521
572
626
Altre forme*
Totale
10.006 11.452 12.045 12.428 13.110 13.469
TOTALE
54.521 67.939 70.408 72.151 72.863 71.807
Fonte: elaborazione del Veneto su dati Infocamere-Movimprese
* Nelle “Altre forme” sono comprese le cooperative e i consorzi.
Ancora una volta infatti è in questa logica che
vanno letti i dati relativi alle imprese attive, che nel
2009 sono diminuite complessivamente dell’1,4 per
cento, ma con una dinamica di crescita delle società
di capitali non artigiane (+4%) e di quelle artigiane
(+7,3%), portando il numero complessivo di questa
forma giuridica a superare le 9.500 unità, con un peso
percentuale pari al 13,2% del totale delle imprese
attive. In calo invece le società di persone, sia nel
settore artigiano (-3%) che in quello non artigiano
(-1,6%), e soprattutto dinamica negativa anche per
le imprese individuali artigiane, che con un calo del
153
154
Quaderni di ricerca sull’artigianato
2,7% hanno visto diminuire il loro numero di ben
oltre 1.300 unità. La crisi nel 2009 ha dunque colpito
soprattutto le piccole imprese artigiane, in particolare
quelle non specializzate, un elemento utile a ridefinire
il quadro strategico di intervento per la ripresa del
mercato nel futuro.
In questa dinamica di forte rallentamento
l’Osservatorio sul mercato delle costruzioni CEAVUnioncamere, ha evidenziato che la crisi è stata
percepita in modo più consistente nella prima
parte dell’anno, mentre il IV° trimestre ha iniziato a
mostrare una leggera inversione di tendenza, con un
rallentamento della crisi.6 Le interviste effettuate su un
panel di 600 imprese rappresentative dell’universo (sia
in senso tipologico che territoriale) ha mostrato che al
crescere della scala territoriale di riferimento cresce
anche la capacità dell’impresa di migliorare le proprie
performance. Infatti si sono registrate performance
significative nelle imprese più specializzate, con un
numero più elevato di addetti rispetto alla media di
settore e operanti a livello provinciale o regionale. Le
imprese meno strutturate, con pochi addetti e con
ambiti di mercato più ristretti (comunali) sono quelle
che hanno dichiarato le maggiori sofferenze.
7. L’occupazione
La dinamica di crisi che ha investito il settore,
e che come evidenziato in precedenza, per la prima
volta ha mostrato tutti gli indicatori con segno
negativo nel 2009, non fa eccezione anche per
quanto riguarda i dati sul’occupazione. Dopo un
trend fortemente positivo (+15,1% nel 2003, + 3,2%
nel 2004, +6,3% nel 2005, +1,6% nel 2006, quando
6 Per un approfondimento e una analisi dei dati citati, si rimanda
alle indagini trimestrali sul mercato delle costruzioni pubblicate da
Unioncamere.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
si è raggiunta la soglia massima di occupati, pari a
180.100 addetti) a partire dal 2007 si è registrato
una prima fase discendente, con un calo del -2,4
per cento, dovuto quasi totalmente alla diminuzione
dell’occupazione indipendente. Nel 2008 si è
registrato un andamento fortemente diversificato
tra occupazione dipendente (in crescita del +6,7%)
e indipendente (-4,2%), al quale è seguito un calo
generalizzato, pari ad una diminuzione del 4,3 per
cento, con una perdita ulteriore di occupazione
indipendente per il quarto anno consecutivo (-3,4%)
portando la perdita occupazionale in questo ambito
al -17,9 per cento sul 2005, mentre la dinamica nello
stesso periodo per l’occupazione dipendente rimane
positiva, con una crescita del 9,9 per cento.
Tab. 8 – Veneto. Occupati nelle costruzioni per
posizione nella professione. Anni 2004-2009
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Valori assoluti
Dipendenti
Indipendenti
Totale
87.205
95.347 103.728 103.130 110.084 104.796
79.539
81.958
76.372
72.697
69.680
67.322
166.743 177.305 180.100 175.827 179.764 172.117
Variazioni percentuali su anno precedente
Dipendenti
11,8
9,3
8,8
-0,6
6,7
-4,8
Indipendenti
-4,8
3,0
-6,8
-4,8
-4,2
-3,4
Totale
3,2
6,3
1,6
-2,4
2,2
-4,3
Fonte: elaborazioni su dati Istat
In sostanza la dinamica occupazionale di lungo
periodo associata ai trend di mercato ha di fatto
modificato strutturalmente il mercato dell’occupazione
assieme alla struttura stessa delle imprese. Infatti
associando questa dinamica alla lettura dei dati
155
156
Quaderni di ricerca sull’artigianato
relativi alle imprese, emerge come il settore già nel
2007 avesse imboccato la strada del rallentamento
alla quale il sistema imprenditoriale ha risposto in
modo differenziato, con una dinamica negativa delle
imprese meno strutturate e un rafforzamento di quelle
più strutturate e con occupati dipendenti. Come
peraltro già rilevato nel rapporto dello scorso anno,
in questo quadro negativo questa strutturazione
del settore potrà consentire di contenere nel breve
periodo la dinamica negativa del mercato, un fattore
che va valutato positivamente nell’insieme degli
indicatori congiunturali negativi di mercato presentati.
Un segnale importante per il rilancio del settore in una
fase congiunturale così delicata.
8. Strategie di fronte alla crisi
Il 2008 e il 2009 consegnano al Veneto dunque
un mercato delle costruzioni in evidente difficoltà.
Ma la crisi, come dice l’etimologia della parola,
porta dentro sé i motivi della possibilità di uscita e di
ripresa dello sviluppo. Vi sono molteplici elementi che
potrebbero essere messi in evidenza. In questa sede
se ne sottolineano tre: uno legato al sistema della
domanda e due al sistema dell’offerta.
Per quanto riguarda la domanda, va sfatato un
luogo comune che vorrebbe che in Veneto ci siano
case a sufficienza per molti anni e che dunque non
sia più necessario costruire nuovi alloggi. Qualche
dato può aiutarci in questo ragionamento. In Veneto
al censimento Istat del 2001 erano presenti 1.714mila
nuclei familiari. Nel 2008 il dato è salito a 1.951mila, pari
ad un incremento di 237mila nuove famiglie (+13,8%
sul 2001, a fronte di una crescita demografica del
7,2% nello stesso periodo, che ripropone la stessa
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
dinamica registrata tra il censimento del 1991 e quello
del 2001).
Crescono le famiglie con una dinamica doppia
rispetto alla popolazione e il mercato residenziale è
un mercato che fa riferimento alla domanda delle
famiglie (quelle già esistenti e quelle dovute ai nuovi
matrimoni), dei nuclei unipersonali (giovani, single,
anziani), delle convivenze e delle giovani coppie, dei
trasferimenti per lavoro, degli immigrati e dei loro
ricongiungimenti. Non della popolazione in termini
di abitanti (come erroneamente si potrebbe essere
portati a pensare). Nello stesso periodo le statistiche
sui permessi di costruire evidenziano che in Veneto
tra il 2001 e il 2006 i permessi di costruire edifici
residenziali sono stati 37.986 per complessivi 85,4
milioni di mc. Ma la produzione effettiva relativa a quei
permessi di costruire come abbiamo visto è entrata
nel mercato solo nel 2008, a causa dei tempi relativi
alla costruzione. Le abitazioni ultimate tra il 2002 e il
2008 sono state in tutto 268mila, delle quali 226mila
da nuova costruzione e 42mila da ampliamenti e in
fabbricati non residenziali. Dunque il confronto tra
quanto realizzato e quanto richiesto del mercato
evidenzia che a una domanda di 237mila nuove
famiglie il mercato ha risposto producendo un po’ di
più del necessari, ma questo “di più” si deve per ben
42mila alloggi ad ampliamenti e ad alloggi inseriti in
fabbricati non residenziali. Insomma, non proprio una
risposta adeguata alle esigenze del mercato.
Inoltre va puntualizzato che nel 2001 il 14,3%
delle abitazioni occupate (una ogni sette) si trovava
in mediocri o pessime condizioni di conservazione.
Significa che una famiglia veneta ogni sette viveva in
condizioni di disagio, quando non di vero e proprio
degrado. Non è una percentuale trascurabile. E’ una
157
158
Quaderni di ricerca sull’artigianato
percentuale che fa riferimento a 242mila famiglie,
che giustamente aspirano ad un miglioramento della
propria condizione abitativa (e se si guarda non al
numero degli alloggi, ma agli edifici, la percentuale
di situazioni di degrado sale al 17%, un edificio ogni
sei). Altre puntualizzazioni potrebbero essere fatte
sulla domanda proveniente da nuovi nuclei familiari (si
contano circa 19mila matrimoni ogni anno in Veneto),
da sfratti e da domanda ERP non soddisfatta (15mila
domande all’anno contro 1.000 assegnazioni), da
mobilità, da condizioni di disagio (nel 2001 ben 400mila
persone abitavano in condizioni di sovraffollamento,
e 100mila di esse in situazioni di grave disagio), da
studenti, da anziani autosufficienti, da trasferimenti da
altre regioni, da immigrati.
Questi dati mettono in evidenza che la
domanda residenziale è ben lungi dall’essere
soddisfatta e anzi esercita oggi ed eserciterà domani
una pressione molto consistente, nel segmento
dell’edilizia sociale di nuova concezione, quella che in
gergo tecnico viene chiamata social housing, ovvero
edilizia sociale di qualità per il ceto medio. Questo è
il primo elemento di riflessione: l’edilizia oggi deve
guardare alle vere esigenze del mercato, con azioni
di grande impatto quantitativo ricvolte a riqualificare
le città e dare un alloggio a quei soggetti che oggi,
soprattutto per motivi economici, cono espulsi dal
mercato. Ma questa è una domanda di nuovi alloggi
a canone calmierato, per i quali serve una nuova,
efficiente ed efficace politica di intervento pubblico,
che realizzi in ogni comune interventi edilizi pubblici
destinati al social housing, con piani di investimento
e rientro finanziario a 30 anni, e con una politica degli
affitti in grado di calmierare il mercato. Questi segnali
evidenziano che il mercato delle costruzioni, pur nella
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
negatività del momento, ha tutte le potenzialità per
ripartire e riaprire una stagione di successo per le
imprese, in particolare sia quelle artigiane che non
artigiane, ma soprattutto quelle più strutturate e
imprenditorialmente solide.
Dal punto di vista dell’offerta le considerazioni
da fare sono due. La prima è relativa al prodotto
edilizio e alle esigenze di promuovere una nuova
stagione costruttiva che ponga al centro del prodotto
e del processo costruttivo la qualità dell’edificato e
il contenimento energetico. Come noto secondo
dati UE, il settore delle costruzioni è il settore
industriale a più alto impatto ambientale: consuma
il 45% dell’energia complessiva, produce il 50%
dell’inquinamento e produce quasi il 50% dei rifiuti.
Secondo l’Enea gli sprechi energetici delle abitazioni
sono molteplici: 57% riscaldamento, 25% acqua
calda sanitaria, 11% apparecchi elettrici e 7% gas
e cucina. La crisi dell’edilizia può essere un ottimo
spunto per rinnovare e rivedere i processi porduttivi
e riorientare massicciamente l’attività verso soluzioni
tecnicamente avanzate ed ecocompatibili, con
obiettivi di risparmio energetico e certificazione dei
consumi. E’ importante pertanto puntare su una forte
qualificazione del settore e sull’uso delle tecnologie
innovative e orientate al risparmio energetico.
Il secondo fattore di riflessione riguarda più da
vicino il sistema delle imprese e la stessa dimensione
di impresa. I dati di mercato presentati in queste
pagine dimostrano che la crisi che sta colpendo il
settore non è una crisi di breve periodo e soprattutto
non è una crisi congiunturale ma strutturale. In
questo senso il mercato delle costruzioni, attraverso
questa crisi, non solo spinge le mprese a muoversi
verso aree e ambiti di mercato un tempo relegati
159
160
Quaderni di ricerca sull’artigianato
a “nicchie” (bioedilizia, bioarchitettura, risparmio
energetico, domotica, ecc.) e a rinnovarsi nei prodotti
e nei processi forniti al sistema della domanda, ma
spinge soprattutto a guardare all’interno dell’impresa
e ai suoi assett gestionali, al fine di ottimizzare i
processi interni di gestione e recuperare competitività
e redditività. Un punto nodale, infatti, che emerge dai
dati relativi al sistema delle imprese e all’occupazione,
è che la crisi ha colpito soprattutto le microimprese,
in particolare quelle artigiane. Si tratta di imprese che
nel passato hanno saputo ben posizionarsi all’interno
della filiera delle costruzioni, ottimizzando il proprio
operare in ragione delle possibilità offerte dal sistema
del subappalti a cascata e delle piccole commesse
locali. Nel momento in cui la crisi spinge tutta la filiera
a riorganizzarsi e a ottimizzare tempi e modi della
produzione, le medie e grandi imprese, ma anche
le medio-piccole imprese, ovvero quelle con 6 e più
addetti, hanno iniziato a rivedere i propri processi
organizzativi, produttivi e gestionali, riducendo
i subappalti laddove possibile, mantenendo e
ottimizzando al proprio interno i processi e rivedendo
il sistema di accordi e partenariati promossi a livello
locale. Ciò ha consentito di recuperare competitività e
prova ne è la dinamica delle imprese strutturate, che
crescono nonostante la crisi. Per le microimprese,
e per le piccole imprese artigiane, la crisi invece si
traduce in una necessaria e doverosa riflessione
sulle prospettive oggi non più premiate dal mercato,
di rimanere “piccoli”. Una crisi di questo tipo e di
questa dimensione può e deve far riflettere su quali
sono i modelli oggi più adatti a superare non solo
la congiuntura negativa, ma a dare una risposta
strutturale e strutturata ad un mercato che esige
non più velocità e improvvisazione, ma qualità e
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
specializzazione. Piccolo è bello se specializzato e se
inserito all’interno di una logica di filiera integrata nella
quale il processo e il prodotto siano posti al centro
dell’agire di tutta la filiera stessa. Per le imprese
artigiane è una doppia sfida: da un lato dimostrare che
l’imprenditoria artigiana non è solo un’imprenditoria
di piccole imprese operanti a valle della filiera, e da
un altro lato evidenziare che proprio nell’artigianato
si esprimono alcuni dei più interessanti e innovativi
modelli di operatività integrata. I successi delle
società di capitale artigiane e la crescita vertiginosa
negli ultimi anni del loro numero (erano poco più di
100 dieci anni fa, sono oltre 2.000 oggi) fanno ben
sperare in questo senso.
161
162
Quaderni di ricerca sull’artigianato
Riferimenti bibliografici
-
AGENZIA DEL TERRITORIO (2009), Osservatorio
Mercato Immobiliare, Rapporto Immobiliare
2009, Roma.
-
BANCA D’ITALIA (2009), L’economia italiana in breve,
Roma.
-
BANCA D’ITALIA (2009), Sondaggio congiunturale
sul mercato delle abitazioni in Italia, Supplemento
al Bollettino Statistico, Roma.
-
CEAV–UNIONCAMERE (2009), Osservatorio sul
mercato delle costruzioni nel Veneto, Venezia.
-
CEAV–UNIONCAMERE
(2010),
Osservatorio
congiunturale trimestrale sul mercato delle
costruzioni nel Veneto, Venezia.
-
COSES-ISMU (2009), Immigrati in-stabili, a
cura di Stefania Bragato e Vania Colladel,
nuovadimensione, Venezia, 2009.
-
Cresme (2010), XVIII Rapporto congiunturale
e previsionale CRESME, Il mercato delle
costruzioni: 2010-2015, Roma, novembre 2010.
-
CRESME-CEAV-CEVA (2008), Indagine congiunturale
sulle imprese artigiane delle costruzioni, Venezia.
-
CRESME–ANCEVENETO (2006), La domanda abitativa
nel Veneto 2006-2015, Padova.
DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI
-
FEDERICO DELLA PUPPA (2007), Analisi del fabbisogno
abitativo nel Veneto, Profilo della domanda e
aspetti tipologici dell’offerta, IUAV, Venezia.
-
ISTAT (2009), Conti economici nazionali, Serie
storiche 1970-2008, Roma.
-
ISTAT (2009), Rilevazione sulle forze di lavoro,
anno 2008, Roma.
-
ISTAT (2009), Statistiche sui permessi di costruire,
anni 2000-2006, Roma.
-
Istat (2010), Conti economici nazionali, Serie
storiche 1970-2009, Roma.
-
Istat (2010), Rilevazione sulle forze di lavoro,
anno 2009, Roma.
-
Istat (2010), Statistiche sui permessi di costruire,
anni 2000-2007, Roma.
-
VENETOLAVORO (2009), Crisi aziendali, L’impatto
occupazionale, Venezia.
-
VENETOLAVORO (2009), La cassa integrazione
guadagni nel 2008, Venezia.
-
VENETOLAVORO (2009), Tendenze del mercato del
lavoro veneto, Venezia.
163
www.bancosanmarco.it
LA
CO DEL
L FIAN
MPRE A
A
ES
R
P
M
I
TUA
SE
Per gli investimenti delle Piccole Imprese:
apertura di credito fino a 300.000 euro in 36 mesi
con rimborso programmato e flessibile.
0HVVDJJLRSURPR]LRQDOHFRQ¿QDOLWjFRPPHUFLDOH3HUOHFRQGL]LRQLFRQWUDWWXDOLIDQQRULIHULPHQWRL)RJOL,QIRUPDWLYLGLVSRQLELOLSUHVVROH¿OLDOL
LA FORZA DI UN’IDEA
A SOSTEGNO DELLE
PICCOLE IMPRESE.
LA VOSTRA REALTÀ
È ANCHE LA NOSTRA.
www.carive.it
Cassa di Risparmio di Venezia è una banca del gruppo