SCARICA Quaderni di ricerca N° 56
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SCARICA Quaderni di ricerca N° 56
Quaderni di ricerca sull’artigianato Quaderni di ricerca sull’artigianato Rivista di Economia, Cultura e Ricerca Sociale dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA Quaderni di ricerca sull’artigianato Rivista di Economia, Cultura e Ricerca Sociale dell’ Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA (Confederazione Generale Italiana Artigianato). Spedizione in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Venezia - Numero 56 - III quadrimestre 2010. Abonement poste - Taxe perçue Direttore Responsabile Renato Mason Direttore Giuseppe Bortolussi Redazione Favaretto Andrea, Gonella Andrea, Ventura Catia, Zabeo Paolo Segretario di redazione Paolo Zabeo Direzione, redazione e Amministrazione Mestre, via Torre Belfredo, 81/d Tel. 041.23.86.711 - cap. 30174 “mailto: [email protected]” “Registrazione del Tribunale di Venezia del 12-5-89 n° 975 del Reg. Stampa” Stampa: Arti Grafiche Molin - via Torino, 109 - Mestre-VE ISSN 1590 - 296X V Indice Approfondimenti 5 L’artigianato e il cambiamento: verso l’economia della conoscenza Francesco Giacomin 11 La crisi e le nuove sfide per l’artigianato veneto Renzo Genovese 15 La crisi e le tutele del lavoro artigiano in veneto Ferruccio Righetto 23 La piccola impresa tra cambiamento e nuova rappresentanza Stefano Zanatta 27 Il vero significato dell’attività imprenditoriale Giorgio Vittadini Nuovi scenari 33 Conoscere i modelli e i bisogni di formazione in azienda. I risultati di una ricerca empirica sulle imprese artigiane del Piemonte Renato Lanzetti, Davide Roccati, Giovanna Spolti, Emiliana Armano 65 Flessibilita’, sicurezza e ammortizzatori sociali in italia: necessita’ di un raccordo Pasquale Tridico 111 L’artigianato e la rigenerazione urbana del Centro Storico di Napoli Gennaro Biondi 133 Le dinamiche e le strategie dell’edilizia e dell’artigianato di fronte alla crisi Federico Della Puppa VII Autori di questo numero Emiliana Armano Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione Piemonte Gennaro Biondi, Direttore ISVE e Facoltà di Economia, Università “Federico II” di Napoli Renzo Genovese Direzione CNA Veneto Francesco Giacomin Presidente Fondazione La Fornace dell’Innovazione Renato Lanzetti Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione Piemonte Federico Della Puppa, Professore a contratto di Economia e Gestione di Imprese – IUAV – Facoltà di Architettura; Ricercatore Senior - Cresme Ferruccio Righetto Responsabile Divisione Relazioni sindacali e contrattuali Confartigianato del Veneto Davide Roccati Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione Piemonte Giovanna Spolti Collaboratore di ricerca Sistema Informativo Attività Produttive – Regione Piemonte Pasquale Tridico, Ricercatore di Economia Politica e docente di Economia del Lavoro presso l’Università di Roma Tre. Giorgio Vittadini Presidente Fondazione per la Sussidiarietà Stefano Zanatta Confartigianato Asolo Montebelluna APPROFONDIMENTI APPROFONDIMENTI La crisi economica nella quale è stato coinvolto anche il nostro sistema produttivo continua a far sentire i suoi effetti negativi senza concedere certezze sul momento in cui comincerà la ripresa definitiva. L’evento recessivo, dunque, non può che fare da sfondo anche agli interventi proposti in questa prima parte della rivista. In particolare, si parte da un dato di fatto indiscutibile che è la forte contrazione dell’economia italiana nel corso del 2009. Il primo intervento svolge tuttavia il valido tentativo di non soffermarsi troppo su quanto già successo per guardare piuttosto a quanto potrà succedere non appena la ripresa si sarà avviata definitivamente con una inevitabile distinzione tra Paesi che saranno veloci e Paesi che saranno invece lenti. L’individuazione dell’Italia all’interno di questa seconda categoria con annesso un verosimile elenco di punti critici che la penalizzano, non esclude una lista di eccellenze che appartengono al nostro Paese, che lo hanno tenuto a galla nei momenti peggiori e che lo aiuteranno a rialzarsi negli anni futuri a noi più vicini. Quest’ultima migliore prospettiva avrà modo di realizzarsi tanto più verrà data importanza a fattori quali la flessibilità, la creatività, l’innovazione, le relazioni tra fornitori e clienti, in due parole, alla cosiddetta economia immateriale che risulta ancora particolarmente debole in una regione come il Veneto. 1 2 Quaderni di ricerca sull’artigianato Su questa zona d’Italia si concentra anche il secondo contributo; nel merito lo fa preoccupandosi dei dati del 2009 relativi al minor numero di lavoratori dipendenti. Lo scorso anno, infatti, è diminuito il numero di addetti complessivi, soprattutto nei settori manifatturieri e nelle aziende con maggior numero di stipendiati ma si sottolinea che le associazioni di categoria non sono state alla finestra a guardare quanto stava e sta accadendo. Queste ultime, invero, hanno individuato nel comportamento delle banche e nella questione degli ammortizzatori sociali due aspetti della stessa medaglia che riguardano il mondo dell’artigianato e che nel primo caso penalizzano le imprese ponendo ostacoli alla concessione del credito, nel secondo i relativi dipendenti che si ritrovano privi di garanzie in caso di perdita del lavoro. Si collega proprio a questa annosa questione il terzo articolo chiedendosi quali tutele fossero o potessero venir previste in caso di crisi, in particolare nei settori produttivi privi di CIGO (Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria). Le riflessioni riguardano dunque i tentativi svolti in passato per giungere ad una riforma organica relativa ai cosiddetti ammortizzatori sociali in particolare nel settore dell’artigianato con specifico riferimento alla Legge 2 del 2009 che ha definitivamente sdoganato il metodo della bilateralità quale base riformatrice in grado di avvicinare intervento pubblico e privato. Dell’artigianato veneto tratta il penultimo intervento presentando lo stesso come spina dorsale dell’economia regionale nonostante il momento poco sereno che sta attraversando. In prospettiva futura, vengono esaltate le caratteristiche del nostro sistema produttivo fondato sulla piccola impresa rispetto a quello di altre economie avanzate che si fondano sulle APPROFONDIMENTI grandi aziende: in tal senso, si sottolinea il fatto che il nostro sistema economico non potrebbe mai morire di piccola impresa quanto di “piccolo pensiero” e cioè della presunzione di poter fare da soli, di non aver bisogno di altri, di bastare a se stessi. Proprio alla luce della recessione in corso, quello del cosiddetto “approccio sistemico” piuttosto che della sinergia di azione deve essere il paradigma della soluzione dei problemi siano essi di dimensione microeconomico o macroeconomica. Infine, delle interessanti riflessioni sul significato d’impresa e su quello da dare all’attività di ogni singolo imprenditore. Il torto di chi indaga l’economia imprenditoriale viene individuato proprio nella concezione ridotta di uomo e di impresa contrapponendo dunque all’immagine di un datore di lavoro privo di scrupoli e orientato al solo guadagno, quella di un uomo che costituisce la prima risorsa dell’impresa e che viene mosso da valori umani quali la capacità creativa di trasformazione della realtà, il desiderio di costruire, di migliorare la propria condizione, quella della sua famiglia e del suo territorio. 3 4 Quaderni di ricerca sull’artigianato L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO: VERSO L’ECONOMIA DELLA CONOSCENZA Francesco Giacomin Presidente Fondazione La Fornace dell’Innovazione Non vi sono dubbi che la crisi che stiamo attraversando rappresenti un momento di discontinuità significativo nella storia recente e che essa non mancherà di far sentire i propri impatti economici e sociali anche nei prossimi anni. La forte contrazione dell’economia italiana nel 2009 è certamente il risultato di uno “tsunami” economico internazionale che, partendo dalla finanza americana ha con passo veloce travolto la finanza e l’economia reale di tutti gli altri continenti. Si rincorrono ancora oggi le previsioni su quando inizierà la ripresa, su quale consistenza avrà e su quali saranno i cambiamenti strutturali che ci lascerà in eredità. Tutti gli esperti concordano nel dire, comunque, che in certi in Paesi la ripresa arriverà relativamente più tardi e sarà relativamente più lenta. Tra questo elenco di Paesi vi è non a caso l’Italia, un Paese entrato nella crisi con alcuni nodi strutturali irrisolti. I punti critici sono noti: debito pubblico elevato, carico fiscale soffocante, carenza di infrastrutture, rendite di posizione, inefficienza della Pubblica Amministrazione, divario di sviluppo fra Nord e Sud, criminalità organizzata e una crescente divisione politico-sociale rispetto a decisioni di portata strategica. Vi sono però anche dei punti forti, che hanno consentito al nostro Paese di rimanere competitivo, nonostante l’affacciarsi ai mercati di nuovi temibili competitors globali. Tra questi ricordiamo: la vitalità 5 6 Quaderni di ricerca sull’artigianato economica, la flessibilità del suo tessuto produttivo, il risparmio privato, l’appeal estero del Made in Italy, il suo capitale turistico-culturale, la piccola impresa e il piccolo imprenditore anche nell’accezione data da Sennet nella sua ultima produzione letteraria. Anche il Veneto ha risentito della forte contrazione del PIL nel 2009 (pari ad un meno 5% su base nazionale). Una Regione votata all’export come quella veneta non poteva non rallentare il passo dinnanzi alle incertezze dei principali mercati di riferimento. I dati diffusi da infocamere, approfonditi anche nel numero di questa rivista, chiariscono esaurientemente gli effetti di una crisi che ha investito un po’ tutti i principali comparti economici: l’edilizia, la metalmeccanica, la plastica, l’abbigliamento, ecc. Le imprese più colpite sono state quelle piccole, i contoterzisti, ma non sono state certo risparmiate aziende di dimensioni più grandi e internazionalizzate. Analizzare la congiuntura economica è ovviamente importante, ma qualsiasi considerazione se ne traesse in merito, rischierebbe di essere fuorviante se l’analisi non fosse completata da uno sguardo più approfondito sulle dinamiche economiche di lungo periodo, che attraversano e seguiranno l’attuale congiuntura storica. Una in particolare ci pare degna di menzione, perché si collega strettamente con il ruolo della fornace e con quella che può essere una ricetta per uscire dalla crisi con più velocità e forza. Ci stiamo riferendo alla progressiva transizione che sta avvenendo nei Paesi più sviluppati da un’economia di impronta materiale-industriale ad “un’economia della conoscenza”, “dell’immateriale”. Una transizione che taglia trasversalmente tutta la L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO produzione, dall’industria e all’artigianato, sortendo effetti evidenti anche sulla società e più in generale sullo sviluppo differenziato dei territori. L’economia industriale è un’economia prevalentemente incentrata sul prodotto e sulle modalità produttive. La caratteristica più evidente è infatti la ricerca dell’uniformità, della standardizzazione dei processi e dei prodotti, con l’obiettivo di elevare le economie di scala e l’efficienza produttiva. La transizione all’economia dell’immateriale rivoluziona i principi sui quali si basa il sistema produttivo, sposta l’attenzione dalla macchina alla persona, dal prodotto ai valori tecnologici, culturali, estetici ed identificativi che esso porta con sè. Ne consegue che diventano fattori competitivi per le imprese elementi come: la flessibilità, la creatività, l’innovazione, le relazioni strategiche con i fornitori e i clienti, nonché, il “brand” del produttore o del territorio che lo produce. Nell’economia dell’immateriale, non si vende solo la funzionalità di un prodotto, ma anche i servizi e ai significati ad esso associati. In Italia, in Veneto, questa transizione epocale ha assunto sfumature originali in ragione della frammentazione amministrativa, culturale e produttiva che la caratterizza. Il tessuto produttivo si è sviluppato impetuosamente disseminando disordinatamente nel territorio botteghe artigiane e piccole industrie. Il piccolo imprenditore che governa l’azienda è però mediamente rimasto più concentrato sulla produzione che sulla “guida” dell’impresa e sul mercato, insostituibili premesse, quest’ultime, per pianificare lo sviluppo del business partendo dai repentini e continui cambiamenti dei mercati. Si può sensatamente dedurre che se la piccola impresa, quindi la stragrande maggioranza 7 8 Quaderni di ricerca sull’artigianato delle nostro tessuto produttivo, si dedica poco ai processi di creazione della conoscenza, la transizione dall’economia del materiale a quella dell’immateriale, in Veneto, sia ancora parzialmente incompiuta. Parzialmente, perché dei passi in avanti significativi sono stati fatti, almeno in quelle imprese che già da tempo hanno investito nell’immateriale, investimenti che peraltro hanno contribuito in modo determinante alla tenuta del nostro comparto produttivo in questa complicata crisi strutturale. E’ evidente che queste considerazioni investono direttamente anche l’artigianato. Quest’ ultimo lega poi la propria identità al concetto di tradizione, che semanticamente rimanda alla ripetizione ancestrale nel tempo di prodotti, approcci e modalità di produzione. Ma l’evidenza dei fatti ha sconfessato con clamore coloro che pensavano che alcune ricette (anche imprenditoriali) fossero ricette di “ogni stagione”. Il forte ridimensionameto dell’artigianato artistico e tradizionale registrato negli ultimi anni, si lega proprio al suo congenito appiattimento sulla cultura del prodotto; alla sua difficoltà nel capire che c’è bisogno “del nuovo” nella “tradizione”, che la valorizzi, non la tradisca; e quel nuovo, abbraccia compiutamente la dimensione “dell’immateriale” così come l’abbiamo descritta nel presente paragrafo. Diversamente dovremmo assumere che, per qualche incomprensibile motivo, l’artigianato riesce a sottrarsi a tutte le logiche che governano le imprese di altri comparti. Logiche che sono “di mercato” innanzitutto, perché nessuna impresa riuscirà mai a sopravvivere se non ha un mercato, e per aver un mercato, oggi, bisogna conoscerlo ed essere poi in grado di orientare il proprio prodotto ad esso e non viceversa. E’ confortante, in questo senso, il percorso L’ARTIGIANATO E IL CAMBIAMENTO intrapreso da non poche aziende appartenenti all’artigianato, anche di settori merceologici diversi, che sapendo puntare sull’ internazionalizzazione, sul design, sulla co-progettazione, sulla diversificazione, sull’innovazione (in una parola “sulla conoscenza”) si sono resi protagonisti di performance in completa controtendenza rispetto ai loro comparti economici. Se le ipotesi di scenario sono corrette, il passo successivo è pianificare le modalità di politica economica attraverso le quali si può accompagnare il traghettamento dell’artigianato “nell’economia della conoscenza”. Anche perché la ristrutturazione in atto sta creando un “divario di innovazione” che differenzia “i territori” in base alla rispettiva capacità di trarre vantaggio e prosperare nella nuova economia. In tale prospettiva, la creazione di un ambiente favorevole all’innovazione costituisce la risposta più adeguata alle sfide che si vanno presentando. Per far questo occorre migliorare le condizioni strutturali in cui la società della conoscenza può maturare, creando dei punti di snodo connessi a network sovra-locali, capaci di stimolare il tessuto produttivo e le istituzioni locali ad un continuo dialogo interno ed esterno. La Fornace rappresenta già oggi uno di questi punti di snodo con i servizi di accompagnamento allo start-up d’impresa, con il laboratorio di ergonomia e prototipazione virtuale e con gli eventi dedicati alla creatività e all’innovazione. La Fondazione si impegna infatti a favorire la crescita culturale della società, delle istituzioni e del sistema produttivo locale affinché maturino le precondizioni necessarie a creare un’area innovativa. Più che un centro, parola che richiama chiusura e limitatezza, potremmo definire la Fornace un epicentro, un luogo dove si creano energie che si propagano e contaminano l’esterno. Un “luogo 9 10 Quaderni di ricerca sull’artigianato di visione” che è diventato simbolo di una nuova processualità capace di rilasciare alla comunità locale e all’artigianato significati che li aiutino a ri-costruirsi generando nuovi percorsi di sviluppo. LA CRISI E LE NUOVE SFIDE PER L’ARTIGIANATO VENETO LA CRISI E LE NUOVE SFIDE PER L’ARTIGIANATO VENETO Renzo Genovese Direzione CNA Veneto Il 2009 è stato davvero un anno particolarmente pesante per tutto il sistema produttivo veneto e per le piccole imprese in particolare; purtroppo i mesi che ci aspettano non miglioreranno la situazione e quindi il pericolo di un ridimensionamento importante di tutto l’artigianato diventa sempre più reale. La crisi nata sul finire del 2008 sul terreno strettamente finanziario, si è rapidamente allargata all’economia e al mondo produttivo con una drastica e repentina caduta della domanda e successivamente è rimbalzata anche sul terreno della occupazione con una pesante contrazione dei posti di lavoro e con livelli altissimi di Cassa Integrazione. L’Ebav ha stimato che alla fine del 2009 sono stati perduti nel solo artigianato quasi 7500 posti di lavoro pari a -5,2%, (escluso il settore edilizia). Con 133.000 dipendenti l’artigianato è tornato ai livelli del Al di là dunque dell’andamento del numero delle imprese iscritte agli Albi provinciali, andamento che tutto sommato si attesta ad un livello più contenuto del -1,5%, è soprattutto dal numero degli addetti complessivi che proviene il segnale più preoccupante, ed in particolare dai settori manifatturieri: sono soprattutte le imprese più strutturate, con un maggior numero di dipendenti che denunciano riduzioni di occupati più significative. Di fronte a questa situazione la Cna, di concerto con le altre Associazioni di categoria, ha concentrato la sua attenzione prioritariamente su due 11 12 Quaderni di ricerca sull’artigianato questioni che hanno assunto caratteri di emergenza e di trasversalità: il credito e l’ammortizzatore sociale; salvaguardare il più possibile l’impresa e il suo principale patrimonio, l’occupazione, sono stati al centro dell’interesse di tutti. La forte stretta creditizia impressa dal sistema bancario al mondo delle imprese ha creato danni non facilmente recuperabili specie sul decisivo terreno della reciproca fiducia; non si è trattato tanto del peggioramento delle condizioni e dei costi del credito, ma della stessa possibilità di accesso o meno al finanziamento. Ad attutire parzialmente il peso della restrizione è intervenuto massicciamente il ruolo dei Confidi che non a caso hanno visto aumentare di molti punti la loro operatività aggiungendo le loro garanzie a quelle proprie delle singole imprese. Per quanto ci riguarda la fusione avvenuta nel corso del 2008 di cinque Confidi provinciali in un’unica struttura regionale e la sua successiva trasformazione in intermediario finanziario vigilato dalla Banca d’Italia, si sono rivelate scelte strategiche di grande importanza, perchè hanno consentito al nuovo Confidi “Sviluppo Artigiano” di affrontare l’emergenza del 2009 con strumenti di valutazione del rischio e del conseguente merito di credito, molto più affidabili, trasparenti e certi rispetto ad un tradizionale Confidi 106. Va sottolineato a proposito dei Confidi che anche la Regione nel corso del 2009 ha provveduto ad erogare contributi ai fondi rischi dei Confidi artigiani nella misura di cinque milioni provenienti dalla legge n. 48 e altrettanti in gestione su un totale però di 11 milioni promessi. La seconda emergenza, quella della tenuta occupazionale, è stata affrontata d’intesa anche con LA CRISI E LE NUOVE SFIDE PER L’ARTIGIANATO VENETO le organizzazioni sindacali, attraverso un accordo, firmato prima alla fine del 2008 e poi rinnovato alla fine del 2009, che di fatto ha consentito alle parti sociali venete, prime rispetto a tutte le altre regioni italiane, di aprire una sperimentazione concreta di un nuovo ammortizzatore sociale; si è trattato di uno strumento misto, privato-pubblico, sostenuto da risorse sia provenienti dalle imprese e dai lavoratori sia dallo Stato attraverso l’Inps. Grazie a questo tipo di ammortizzatore (sospensione pagata da Ebav e disoccupazione pagata da Inps), nel corso del 2009, è stato sostenuto il reddito di circa 15.000 lavoratori e quasi altrettanti nel corso dei primi tre mesi del 2010. Terminato il periodo delle sospensioni è scattata la Cassa Integrazione in deroga che ha consentito il sostegno del reddito per ulteriori 180 gionate lavorative. Purtroppo, come si diceva all’inizio, l’onda d’urto della crisi non è terminata e continuerà almeno per tutto il 2010 a produrre effetti negativi. Ciò malgrado si impone la necessità e l’urgenza di guardare avanti, di cercare di capire quali sono le trasformazioni che anche un settore come l’artigianato sta vivendo già in questa fase, e ancor più nei prossimi anni. La globalizzazione dei mercati, l’emergere specie nell’Estremo Oriente di grandi poli manifatturieri, l’impossibilità di competere con questi nuovi soggetti al livello dei soli costi di produzione, ma insieme anche l’allargamento in modo rapido e in forme macroscopiche di nuovi importanti mercati di sbocco, impongono a tutta la manifattura italiana ed in particolare alle piccole imprese di ripensare al proprio posizionamento. Già l’adozione dell’euro aveva sottratto alla nostra competitività la flessibilità della svalutazione monetaria; l’entrata in campo ora di 13 14 Quaderni di ricerca sull’artigianato nuove grandi “fabbriche” mondiali (Cina, India, Brasile, ecc) spingono il nostro apparato produttivo a cercare nuovi livelli competitivi in fattori finora scarsamente utilizzati dalle piccole imprese. Si pensi al ruolo che sempre più sta assumendo nei processi produttivi e nei prodotti la ricerca scientifica, la tecnologia, la conoscenza in generale; si pensi al ruolo crescente che ha la moda, la trasformazione dei gusti e dei costumi, l’innovazione stilistica ed estetica, ecc. Si tratta di frontiere nuove che anche le piccole imprese devono cominciare ad affrontare passando progressivamente da quella cultura del “saper fare” che ha caratterizzato una intera generazione di artigiani ad una cultura “del sapere e della conoscenza” che comincia progressivamente ad emergere soprattutto nelle nuove imprese. Si tratta di un cambio di passo di notevole importanza, che deve essere sorretto da adeguate politiche pubbliche e associative in tema di aggregazioni, di promozione commerciale, di innovazione tecnica, di formazione professionale, ecc.. Questa è la nuova sfida che ha di fronte l’artigianato veneto. LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO Ferruccio Righetto Responsabile Divisione Relazioni sindacali e contrattuali Confartigianato del Veneto Un problema acuto è sempre costituito dalla questione degli ammortizzatori sociali nei settori privi di CIGO (Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria). Molti sono stati i tentativi di giungere ad una riforma organica: dalla metà degli anni 90 a tutt’oggi le varie deleghe al Governo votate dal parlamento non hanno portato ad alcun risultato concreto. Opinioni opposte tra le forze politiche, tra le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali hanno sicuramente frenato il processo legislativo. Negli ultimi anni si è fatta strada la convinzione che una riforma di tale portata dovesse avere una sorta di sperimentazione iniziale utile per una verifica degli assunti di partenza. La legge 2 del 2009 va in questa direzione e disegna per la prima volta un sistema organico che pone come base riformatrice la commistione tra intervento pubblico e del privato sociale, vale a dire la bilateralità. Non è facile quantificare il totale dei dipendenti coinvolti in questa riforma: il solo settore artigiano comprende a livello nazionale circa 1 milione e 200 mila dipendenti (con la sola esclusione dell’edilizia), nel Veneto circa 150.000 dipendenti; all’artigianato bisogna aggiungere il commercio (imprese sotto i 50 dipendenti) ed altri settori. Quali sono le novità previste dalla legge? Per meglio comprenderle dobbiamo fare un passo indietro 15 16 Quaderni di ricerca sull’artigianato nel tempo vale a dire nel 2005 quando si tentò una razionalizzazione dell’istituto della disoccupazione, attraverso la legge 80 del 2005: per la prima volta un testo legislativo parlava della concessione di tale ammortizzatore sociale, conosciuto fino a quel momento dai più solo per i lavoratori licenziati, anche nel caso della sospensione per mancanza di lavoro. La stessa legge 80 conteneva in vitro alcuni elementi portanti che saranno ripresi dalla nuova architettura disegnata dalla legge 2: in particolare mi riferisco alla Ds con requisiti ridotti che veniva erogata a condizione che vi fosse un intervento del 20% da parte della bilateralità. Quindi un ruolo rilevante viene assunto dalla bilateralità. Non è una novità per il Veneto dove, fin dal 1985 con la costituzione del Falac, fondo del settore della ceramica alimentato da dipendenti e lavoratori per i sussidi ai dipendenti sospesi, aveva preso corpo un intervento congiunto tra disoccupazione (la cui erogazione era stata ammessa dall’INPS del Veneto anche per le sospensioni ma non così succedeva in tutte le Regioni) e sussidio da parte della bilateralità. Con la nascita di Ebav, come vedremo in seguito, tale connubio viene esteso a tutte le imprese artigiane, con esclusione dell’edilizia. La legge 2 porta a sistema generale l’esperienza nata nell’artigianato veneto. Vediamo come risulta l’architettura della normativa: • sfera di applicazione legata ai settori privi di integrazione salariale - sperimentalità degli strumenti di tutela del reddito fino al 2012 con copertura derivante LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO dal Fondo per l’occupazione (i singoli istituti possono prevedere durate inferiori); - nel caso di lavoratori sospesi per crisi aziendali ed occupazionali, si prevede l’erogazione della DS requisiti normali (pari al 60% della retribuzione entro il limite del massimale) da parte dell’INPS per la durata massima di 90 giorni all’anno. Condizione indispensabile è che vi sia una quota integrativa erogata dalla bilateralità pari al 20 % dell’indennità di DS stessa (ossia una quota minima del 12%). - anche l’erogazione della DS a requisiti ridotti è soggetta a questa previsione • per la prima volta la normativa della DS viene ampliata anche agli apprendisti: 90 giorni massimi nell’intero periodo di vigenza del contratto di apprendistato sempre erogabili qualora vi sia la quota integrativa del 20% dell’indennità a carico della bilateralità; l’erogazione può avvenire sia per crisi aziendale come per licenziamento. Solo un accenno al fatto che lo strumento è stato esteso anche ai lavoratori parasubordinati con l’erogazione del 30% del reddito percepito l’anno precedente. Lo stesso articolo 19, unitamente al DM che disciplina tutta l’applicazione dell’art. 19 prevede alcune clausole di intervento della bilateralità: in sostanza l’impegno della bilateralità è fino a concorrenza delle risorse disponibili. Vista la fase di sperimentalità e la non generalità dello strumento bilaterale, il ministero aveva previsto, accanto all’utilizzo della disoccupazione, l’utilizzo della cig in deroga su due momenti: - un primo, appunto, che riguardava i periodi 17 18 Quaderni di ricerca sull’artigianato - temporali successivi all’intervento dell’ente bilaterale; un secondo riguardante le imprese non aderenti alla bilateralità che potevano accedere immediatamente alla CIG in deroga. Importante è conoscere quale sia stato l’impatto dell’art. 19 legge nel Veneto. Innanzitutto partiamo da una rappresentazione della bilateralità nell’artigianato costituita da Ebav e dalle casse edili artigiane. Ebav è il più grande ente bilaterale esistente in Italia: raccoglie i versamenti di 35mila imprese per un totale di 145.000 lavoratori distribuiti su circa 18 settori. Il fondo è organizzato su due livelli: uno con prestazioni generali rivolte a tutte le categorie; un secondo livello, alimentato dalla contrattazione regionale, nel quale ogni categoria articola e sceglie i propri interventi. Nel secondo livello trova posto il fondo destinato alle sospensioni. Nel 2009, anno di maggiore crisi del nostro sistema produttivo veneto, sono stati erogati 5 mln di € a 15000 lavoratori dell’artigianato. Nel corso del 2009 EBAV ha anche subito, a seguito dell’accordo interconfederale del 21 settembre firmato dalle tre OOSS, CGIL, CISL e UIL, una profonda rivisitazione per adeguare al periodo di crisi le sue prestazioni a sostegno delle imprese e dei lavoratori. E’ opportuno sottolineare il fatto che, a differenza della bilateralità artigiana di altre regioni, la prestazione di sostegno al reddito destinata ai lavoratori rappresenta solo il 16% per cento del totale delle uscite dell’ente bilaterale artigianato veneto. Infatti EBAV rispetto alla bilateralità di altre LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO regioni ha una notevole gamma di interventi che spazia dai sussidi assistenziali ai lavoratori e sostegni alla ristrutturazione del credito per le imprese, dalla formazione agli interventi sulla sicurezza, dalla promozione delle assunzioni per i lavoratori licenziati ad interventi Ebav rappresenta una sintesi importante e di successo tra due elementi che appaiono centrali nel dibattito sulle relazioni sindacali emerso recentemente. Come abbiamo visto, le sue prestazioni ed i suoi costi sono determinati dalla contrattazione collettiva regionale anche di categoria, con una intuizione nata ben prima dei recenti sviluppi derivanti dai vari accordi nazionali in materia di regole sulla contrattazione. La casse edili artigiane rappresentano un importante elemento di autonomia del settore artigiano: 19000 lavoratori versanti, 6000 le imprese aderenti. In questa maniera le imprese artigiane possono adottare la propria contrattazione di categoria. Tra le innovazioni portate nel settore edile grazie alla contrattazione collettiva regionale, l’attivazione di uno specifico fondo destinato ai circa 2600 apprendisti del settore. Con tale fondo, che ha permesso ai lavoratori di erogare una quota integrativa, nel 2009 hanno potuto accedere alla indennità di disoccupazione circa 600 apprendisti. Certamente il Veneto ha costituito un importante laboratorio per la messa a punto di un sistema di ammortizzatori sociali. Per far ciò non era necessario solo registrare la macchina della bilateralità ma anche agire in profondo sul coacervo di disposizioni, circolari e di comportamenti che si erano cristallizzati nel tempo con la precedenti normative. 19 20 Quaderni di ricerca sull’artigianato In virtù delle esperienze acquisite nel tempo proprio dal nostro settore sono arrivate le principali istanze. Infatti si era manifestato un pericoloso intreccio tra la normativa di DS dei lavoratori licenziati con quella dei lavoratori sospesi. Pesante risultava l’applicazione della normativa sulle riprese lavorative, elemento residuale per i lavoratori licenziati, al contrario elemento essenziale per i lavoratori sospesi. Grazie all’intervento della direzione dell’INPS regionale, che ha monitorato costantemente l’applicazione della legge 2 e se ne è fatta carico rispetto alla sede nazionale, i vari problemi sono stati qui risolti ed hanno costituito il riferimento per la generalità delle imprese italiane. Se l’anno 2009 ha costituito una fase di rodaggio di un sistema alla prova, l’anno 2010 ha già dimostrato l’efficienza della bilateralità con la messa in linea di pagamenti mensili ed un intreccio di dati con l’Inps attraverso una apposita piattaforma telematica. Non sottovalutaviamo le critiche che, al di fuori del Veneto, hanno messo in luce le criticità di un siffatto modello: - la fragilità di un sistema di enti bilaterali che nell’artigianato appare forte solo al Nord e poco presente nelle regioni del Sud mentre negli altri settori appare appena abbozzato; - gli eventuali elementi di incostituzionalità basati sul principio di libertà sindacale (Art.39 Cost.) e della distinzione tra parti obbligatorie e parti economico-normative delle pattuizioni collettive. Secondo questa tesi la parte obbligatoria (e l’adesione all’ente bilaterale viene considerata tale) impegna solo le imprese aderenti alle associazioni LA CRISI E LE TUTELE DEL LAVORO ARTIGIANO IN VENETO sottoscrittrici e pertanto potrebbe generare un danno ai lavoratori sulla base della volontà o meno di aderire espressa dall’impresa oppure al contrario avrebbe costretto ad una adesione coatta contraria al principio di libertà sindacale già espresso. Malgrado tali critiche osserviamo come la bilateralità nel corso del 2009 non sia rimasta solo una eccezione dell’artigianato veneto. Importanti interventi per le sospensioni sono stati realizzati dal settore commercio e turismo ed in misura minore dall’agricoltura. Il fatto più eclatante rimane sicuramente lo sdoganamento della bilateralità all’interno della contrattazione delle imprese industriali. Nel contratto della metalmeccanica è stato infatti introdotto il Fondo nazionale, alimentato da imprese e lavoratori, che andrà ad integrare la quota di CIG erogata dall’INPS. Se vi sembra poco... 21 LA PICCOLA IMPRESA TRA CAMBIAMENTO E NUOVA RAPPRESENTANZA LA PICCOLA IMPRESA TRA CAMBIAMENTO E NUOVA RAPPRESENTANZA Stefano Zanatta Confartigianato Asolo Montebelluna L’artigianato veneto, al pari degli altri comparti economici, non sta vivendo un momento particolarmente sereno. Nonostante ciò, esso continua ad essere la spina dorsale dell’economia regionale. E’ grazie ad esso, e alla piccola industria, che la nostra Regione si è sviluppata è arricchita nei decenni scorsi, ed è ancora una volta grazie ad esso se la crisi economica internazionale non si è abbattuta con ancor maggior veemenza sui nostri lavoratori e sulle nostre famiglie. Sono molti coloro che oggi tessono le lodi della piccola impresa, sottolineando la funzione di ammortizzatore sociale da essa esercitata in questi difficili mesi, nonché elogiando retoricamente i saperi e i valori che essa tramanda da generazioni. Sembrano passati secoli da quando ci si affannava a denunciare la fragilità del nostro tessuto produttivo al cospetto di quella di altri Paesi che, grazie alle grandi imprese e alle multinazionali, colonizzavano senza posa le economie sviluppate e quelle emergenti. Il grande imputato era proprio la piccola impresa, i suoi limiti dimensionali, la sua conduzione famigliare, la sua presunta incapacità di innovarsi e internazionalizzarsi. Ebbene, noi crediamo che oggi più che mai si debba uscire dalla retorica e dalla dietrologia per concentrarsi sulla realtà, anziché costruire teorie che non appena rinchiuse in un “sistema di pensiero” già divengono anacronistiche perché superate da qualche sconvolgimento macroeconomico. La realtà 23 24 Quaderni di ricerca sull’artigianato ancora una volta sta “in mezzo”, non oscilla assieme all’alternarsi delle scuole di pensiero, ma in qualche modo in esse si specchia. La realtà è che viviamo in un Paese che dovrebbe riconoscere finalmente a sé stesso che non di piccola impresa, ma di “piccolo pensiero”, può morire. Il “piccolo pensiero” è quello che porta a pensare di essere capaci di fare da soli, di non aver bisogno di altri, di bastare a se stessi. Il piccolo pensiero induce a dividersi, a guardare il tornaconto immediato, l’interesse particolare, trascurando, forse perché “troppo grande”, l’interesse generale o un ritorno dilazionato dei propri investimenti economici, sociali e politici. Belle parole, ma nei fatti, cosa si può fare? Si può fare molto, se ci si rimette in discussione e magari, prima di pretendere qualcosa dagli altri, si è disposti a dare “il buon esempio”. Non lo nascondiamo, è stata questa la tensione morale, queste le “affinità elettive”, che due anni fa hanno spinto il gruppo dirigente di Confartigianato Asolo e di Confartigianato Montebelluna ad immaginare un futuro assieme al servizio delle piccole imprese. Una visione comune ci ha portato dunque alla fusione in una nuova associazione, nata nel gennaio scorso, che si chiama Confartigianato AsoloMontebelluna ed oggi rappresenta 3.000 imprese impiegando 130 dipendenti. Ma la visione comune nasce solo quando c’è una lettura convergente della realtà e dei suoi probabili sviluppi futuri. La nostra lettura è che il “piccolo è bello” purchè sia una scelta consapevole, aperta al dialogo e alle collaborazioni e non arroccata nel “piccolo pensiero”. Alla luce della crisi odierna, ma ancor più in considerazione di alcune dinamiche in atto da decenni, ci sembra davvero una strada obbligata quella di avere un approccio LA PICCOLA IMPRESA TRA CAMBIAMENTO E NUOVA RAPPRESENTANZA sistemico alla soluzione dei problemi, siano essi di dimensione microeconomico o macroeconomica. Non dimentichiamo infatti che i decenni più recenti sono stati caratterizzati da profondi cambiamenti a livello internazionale che hanno sconvolto equilibri, anche geopolitici, che sembravano ormai consolidati. I cambiamenti repentini hanno prodotto tensioni dirompenti nel mondo del lavoro, delle imprese e delle relazioni sindacali. Mentre l’economia mondiale si integrava velocemente, spinta dalla globalizzazione e dall’apertura dei mercati, a livello locale “molti nodi sono venuti al pettine”. L’interdipendenza dei mercati obbliga infatti le imprese e le comunità a confrontarsi con Paesi lontani e diversi, un confronto teso e spiazzante trainato da una globalizzazione economica che esige di ridurre repentinamente differenze culturali, linguistiche e storiche in omologanti “modelli di consumo”. Senza banalizzare le complesse dinamiche socio-economiche in atto, si può dire, a ragion veduta, che il cambiamento, e quindi l’incertezza che ne deriva, sia la caratteristica dominante che più di ogni altra contraddistingue i nostri giorni. In questo scenario evolutivo, come spesso accade, a rispondere con maggior solerzia all’incalzare degli eventi sono state le imprese che, con la loro flessibilità e capacità di adattamento, hanno iniziato, non senza qualche contraccolpo doloroso, un faticoso e inevitabile percorso di ristrutturazione e riposizionamento. Un percorso che a nostro giudizio può e deve essere sostenuto con maggior vigore da parte della rappresentanza (le associazioni di categoria) come anche dalla politica. Per quanto riguarda le associazioni, riteniamo che oggi, accompagnare le piccole imprese alla 25 26 Quaderni di ricerca sull’artigianato crescita e al consolidamento comporti la capacità di erogare servizi nuovi ed evoluti, di migliorare la qualità di quelli tradizionali, di rispondere in modo efficace ed efficiente alle esigenze degli imprenditori anche anticipando, laddove possibile, quelle che emergeranno in futuro. Oggi “rappresentare” gli imprenditori significa conoscerli davvero bene, saper interpretare e rappresentare i loro interessi, saperli guidare, saper fare un’azione di lobby autorevole e incisiva presso le Istituzioni. Per quanto riguarda la politica, accompagnare le piccole imprese comporta il dovere di levare lo sguardo dalle contingenti divisioni e metter mano a quelle grandi riforme (welfare, liberalizzazioni, efficienza della pubblica amministrazione, lotta agli sprechi e all’evasione, riforma fiscale, investimenti strategici) che se da sole non risolveranno tutti i problemi, certamente non contribuiranno a crearne costantemente di nuovi. IL VERO SIGNIFICATO DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE IL VERO SIGNIFICATO DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE Giorgio Vittadini Presidente Fondazione per la Sussidiarietà La crisi che ha recentemente colpito la gran parte dei mercati - e di conseguenza tanti operatori economici singoli e associati - offre molti spunti per riflettere sull’impresa, sul suo ruolo ed anche sulla sua natura. La crisi è stata determinata a livello dei mercati finanziari pertanto da qui occorre partire. L’aziendaimpresa nasce perché qualcuno si accolla il rischio imprenditoriale connesso all’incertezza sul fatto che il mercato valorizzerà il suo tentativo. Negli anni più recenti si sono creati mercati, quelli finanziari, in cui questa dinamica è diventata secondaria o talvolta del tutto assente e l’unica incertezza da remunerare è stata quella delle asimmetrie informative, delle informazioni mancanti, dei surplus ingiustificati nell’economia reale. La crisi finanziaria deve essere letta non solo come esito di tecniche contabili usate in maniera approssimativa o fraudolenta, ma come esito di una concezione ridotta di uomo e di impresa. Infatti, perché un soggetto deve accollarsi un rischio così oneroso, che richiede tante energie proprie e altrui? Perché la sua capacità creativa, di trasformazione della realtà, il suo desiderio di costruire, di migliorare la propria condizione, quella della sua famiglia e del suo territorio, sono radicati nella sua natura umana. Contrariamente a una certa letteratura sociologico-economica, la disposizione a “intraprendere” è direttamente proporzionale a quanto un uomo vive la sua natura profonda, fatta 27 28 Quaderni di ricerca sull’artigianato di desiderio di giustizia, verità, bellezza e a quanto questo desiderio è educato nelle realtà sociali, territoriali, ideali, a cui appartiene. Ciò non significa negare il ruolo determinante del profitto, indicatore indispensabile di ogni attività economica. Significa mettere in rilievo la ragione che sta alla base della creazione di ricchezza, senza cui ogni descrizione del sistema economico è un’interpretazione di come funziona ciò che c’è, ma non spiega perché si è generato. Rileggendo la storia di imprese divenute poi colossi multinazionali, leggendo le vicende di tantissime piccole e medie imprese di successo, si vede come l’imprenditore è la prima risorsa dell’impresa. Per parlare di casa nostra, se un profitto svicolato dal desiderio di lavorare e costruire dominasse l’azione, perché mai nell’attuale crisi i piccoli e medi imprenditori italiani, che producono il 70% del fatturato e danno lavoro all’80% degli occupati italiani, dovrebbero resistere alla tentazione di vendere l’impresa, tenere i soldi in famiglia senza reinvestirli e vivere di rendita? Come insegnano i grandi autori dell’economia aziendale italiana, un’impresa, soprattutto piccola e media, che voglia reggere nel lungo periodo deve essere mossa da un insieme di valori e ideali legati alla valorizzazione dei suoi lavoratori considerati come persone. Per questo, dalla recente indagine Sussidiarietà e… piccole e medie imprese (Mondadori Università, Milano, 2009) è emerso come i piccoli e medi imprenditori siano nella loro maggioranza spinti, oltre che dalla ricerca del profitto, anche dal desiderio di creare posti di lavoro e di rendere l’impresa, anche a proprie spese, un luogo dove i lavoratori stiano bene. D’altra parte, come ha affermato Giulio Sapelli, la piccola e media IL VERO SIGNIFICATO DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE impresa è una “comunità organica dove si pensa e si fatica e si soffre e si gioisce e si vive nel lavoro gomito a gomito, faccia a faccia, famiglia a famiglia, strada per strada del paesino e della cittadina. Non ci sono formule matematiche per definire e per capire queste imprese: ci sono le regole della vita in comunità nella cultura del lavoro e nella fedeltà al patto che s’instaura con coloro che con l’imprenditore lavorano. E che sono pronti a seguire non tanto lui, ma soprattutto l’impresa con lui, l’impresa che dopo anni e anni di lavoro diventa una proprietà condivisa moralmente prima che giuridicamente”. Occorre quindi riflettere su che cosa significhi partire da una concezione dell’uomo non ridotta in partenza e, sulla base di essa, porsi degli interrogativi riguardanti i salari, la crescita aziendale, le responsabilità, la governance dell’impresa, il tipo di forma societaria. Infatti la centralità della persona non è strumentale a qualcos’altro, è un valore di per sé. Altrimenti, dopo aver capito che motivazione personale e passione al proprio lavoro sono risorse importanti, per esprimerle al meglio si adotta una certa strategia, senza domandarsi da dove nascano queste risorse umane. E’ un problema di rapporto umano con la persona nella sua integralità. Un uomo libero è ciò che di meglio si possa sperare, anche dal punto di vista aziendale. Avere una famiglia, dei legami, dei rapporti, dei valori, è un bene per l’azienda, anche se appartengono a qualcosa di diverso dall’azienda. Se impostare il lavoro sulle risorse umane per le aziende è stato un bene, cosa vuol dire allearsi con il valore ultimo, il destino, la felicità della persona? Si tratta di un valore metodologico nuovo. Da questa rilettura della dinamica originaria del 29 30 Quaderni di ricerca sull’artigianato fare impresa emerge una seconda considerazione. L’impresa non è un tentativo solitario, che ha come destinatario ultimo solo l’imprenditore; dice Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate: “Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene”. Secondo l’indagine sopra citata, per ciò che concerne la concorrenza, nei piccoli e medi imprenditori italiani, prevale sulla “competizione darwiniana” di tipo neoclassico una tendenza alla condivisione con i concorrenti dell’attività di ricerca e sviluppo, di internazionalizzazione, di strategia per migliorare la competitività. Chi pensa che queste siano divagazioni poetiche rifletta su come la fortuna inaspettata dei nostri distretti nasca da questa strana concezione di concorrenza creativa e collaborativa fra imprese. Nonostante questo, difficilmente il singolo imprenditore, anche per chi lo rappresenta, è importante: ci si fregia di difenderlo, ma non lo si accompagna nel suo processo di sviluppo. Invece, lo sviluppo della piccola e media impresa e la sua trasformazione è la vera e grande emergenza dell’Italia e la battaglia degli anni futuri: da essa dipende lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese contro ogni tipo di rendita, quella politica e quella economica. NUOVI SCENARI NUOVI SCENARI Il primo articolo della sezione si fonda su di una imprescindibile constatazione: negli ultimi decenni l’economia ha conosciuto un mutamento radicale che ha portato al centro della scena la conoscenza quale fonte primaria dei processi lavorativi, nonché settore trainante della produzione e della ricchezza. Ma se è vero che finora le varie teorie della formazione si sono declinate a partire dalle grandi organizzazioni, pochissimo è stato scritto sulle specificità della formazione imprenditoriale rivolta alle piccole imprese. Si tenta nello specifico di sottolineare, invece, l’importanza di questo aspetto per le imprese artigiane: la formazione fruita dal titolare o dai soci ha un effetto determinante ed immediato sull’azienda, sulla sua organizzazione, sui contenuti tecnici e sull’organizzazione del lavoro. Vengono quindi presentati i risultati di una ricerca empirica sulle imprese artigiane del Piemonte. Il secondo saggio esplora la situazione del mercato del lavoro italiano, in un contesto europeo e comparato, dal punto di vista delle recenti trasformazioni contrattuali e sociali intervenute. Si sostiene la necessità di trovare un raccordo, in Italia, tra la dimensione di flessibilità, ormai largamente introdotta, e la dimensione di sicurezza sociale, attraverso la riforma dell’attuale sistema complesso 31 32 Quaderni di ricerca sull’artigianato e disorganizzato di ammortizzatori sociali dove si percepisce un certo vacuum. Senza voler riconoscere alla flessibilità meriti che non ha né in termini di aumenti di occupazione né di incrementi di produttività, questo lavoro suggerisce che in Italia, il recepimento del modello flexicurity debba significare da un lato l’incremento di protezione, tutele e diritti sociali per occupati e disoccupati, dall’altro l’eliminazione di certe rigidità nel mercato dei beni. Questa esigenza è stata messa maggiormente in evidenza dall’attuale crisi finanziaria che ha portato nei mercati reali una crescita considerevole dei tassi di disoccupazione e quindi una maggiore domanda di protezione del reddito, soprattutto per una fascia notevole di ex occupati con contratti atipici i quali si trovano senza i requisiti necessari per poter accedere alle forme di protezione sociali vigenti. Il terzo intervento parla di artigianato descrivendone le dinamiche in una zona specifica come la città di Napoli. Le ambiguità e le contraddizioni sedimentate nella sua storia millenaria fanno del Centro Storico di Napoli un terreno di osservazione privilegiato per approfondire il complesso rapporto che lega le politiche urbane a quelle dello sviluppo economico nelle grandi metropoli che faticosamente vanno alla ricerca di una loro riconfigurazione funzionale di tipo post-industriale. L’ultimo articolo si concentra sulle reazioni avutesi in Veneto nel settore dell’edilizia e più in generale in quello dell’artigianato di fronte all’evento recessivo di cui si è già detto. Tramite la presentazione di dati riferiti al 2008 e al 2009, viene dimostrato che la crisi del mercato ha colpito soprattutto la microimpresa e la piccola impresa, mentre le imprese più strutturate hanno dimostrato che la loro maggiore NUOVI SCENARI organizzazione e capitalizzazione ha consentito di posticipare, e in alcuni casi annullare, gli effetti negativi del mercato. 33 CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA I risultati di una ricerca empirica sulle imprese artigiane del Piemonte Renato Lanzetti, Davide Roccati, Giovanna Spolti, Emiliana Armano L’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno. Richard Sennett, L’uomo artigiano Introduzione Le piccole imprese costituiscono da sempre una ricchezza imprescindibile, sia numericamente che qualitativamente, per l’economia italiana, e non solo. Eppure sia tutto il sapere manageriale che la teoria della formazione si sono sviluppate e declinate più che altro a partire dalle grandi organizzazioni. Poco o nulla è stato scritto sulle specificità della formazione imprenditoriale rivolta alle piccole imprese. Lo stesso prestigio dei formatori molto spesso riposa sulla frequentazione di top manager e grandi gruppi industriali, ma non certo di quella miriade di imprenditori protagonisti nella gestione di sfide che vanno ben oltre quelle formali della propria impresa. E che raccolgono innumerevoli successi. Il presente articolo richiama e sintetizza i risultati della ricerca empirica realizzata su questo tema dal Sistema Informativo delle Attività produttive della Regione Piemonte e realizzata dalla collaborazione 35 36 Quaderni di ricerca sull’artigianato tra i ricercatori della società Seldon Ricerche Torino, il Sistema Informativo delle Attività Produttive e L’IRES Piemonte. Lo studio, recentemente pubblicato e interamente accessibile alla pagina web: http:// www.regione.piemonte.it/artig/dwd/mod_artig.pdf, ha rappresentato l’ideale continuazione di precedenti ricerche già realizzate nel periodo 2002-2007 e promosse dal Sistema Informativo Attività Produttive (già Osservatorio dell’Artigianato), sull’analisi dei fabbisogni delle imprese, nonché la prosecuzione delle ricerche sul capitale sociale e formativo nelle imprese artigiane piemontesi. Negli ultimi decenni l’economia ha conosciuto un mutamento radicale che ha portato al centro della scena la conoscenza, divenuta fonte primaria nei processi lavorativi, nonché settore trainante della produzione e delle ricchezza. Parlare di formazione in azienda, ed in modo specifico nelle imprese artigiane piemontesi, non significa assolutamente limitare l’analisi al tema, seppur importante, della formazione professionale. Nelle imprese artigiane, infatti, la formazione fruita dal titolare o dai soci ha un effetto determinante ed immediato sull’azienda, sulla sua organizzazione, sui contenuti tecnici e sull’organizzazione del lavoro. Numerosi lavori hanno evidenziato come l’atteggiamento dell’artigiano verso la formazione professionale sia diverso a seconda che si tratti di learning by doing o di formal learning: nel primo caso l’approccio è quello dell’apprendimento on the job, basato sull’esperienza acquisita direttamente in situazione di lavoro, approccio a cui gli artigiani si rifanno più frequentemente con dinamiche e CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA modalità che vedremo essere molto interessanti. Il secondo è l’apprendimento più formale, a cui si accede partecipando ad attività formative di aula quali corsi, convegni, o e-learning; in questo caso la pratica formativa dell’artigiano risulta spesso essere “vincolata” a qualche disposizione normativa che ne sancisce l’obbligatorietà. All’interno di questa dualità di approccio le vie percorse dai diversi attori sono molteplici e le declinazioni che ne derivano disegnano uno spaccato imprenditoriale variegato e dinamico. Possiamo comunque affermare senza tema di smentite che la formazione, sia essa formale o informale, interna o esterna all’azienda, è un importante strumento di costruzione della strategia aziendale, e per questo va compresa a fondo. A partire da questa esigenza, forte sia dal punto di vista conoscitivo che da quello della definizione di politiche attive per lo sviluppo, la ricerca ha indagato l’atteggiamento e il rapporto che gli artigiani hanno con questo importante strumento, e quali sono le modalità che utilizzano per rapportarsi con esso. Domande e obiettivi di ricerca Alcune domande costituiscono le linee guida dell’indagine: chi fa formazione, su cosa si fa, dove la si effettua, quanta se ne fa, in che modo e per quali motivi, quali sono gli atteggiamenti culturali verso la formazione, che significato e che valore ad essa viene assegnato. Dare risposta a queste domande, riuscendo ad analizzare il tema in maniera approfondita, significa far emergere alcune tipologie di imprenditori e di stili interpretativi della formazione, evidenziando le relazioni tra i fenomeni che passano per aspetti 37 38 Quaderni di ricerca sull’artigianato quali il settore di appartenenza, le caratteristiche sociodemografiche dell’imprenditore, la dimensione d’azienda, la localizzazione geografica. Un ulteriore valore aggiunto della ricerca è il tentativo di arrivare a costruire un “dizionario” comune, o almeno condiviso delle diverse accezioni e sfumature dei termini, grazie al quale sarà possibile capire come gli artigiani interpretano espressioni molto utilizzate quali, ad esempio, “affiancamento”, “formazione on the job” “formazione tecnica” e “formazione teorica”. In questo modo sarà possibile leggere ed interpretare come la formazione si relazioni con gli aspetti esterni all’azienda (legislazione vigente, obblighi di legge, disponibilità di incentivi) e con quelli interni (legame tra livello di formazione pregressa, fabbisogni formativi e strategie di assunzione). Nel corso dell’indagine un approfondimento specifico è stato dedicato alla formazione effettuata, o che occorrerebbe effettuare, nelle imprese artigiane che operano nel campo del cinema e della televisione: infatti, Torino ed il Piemonte stanno proponendo sempre più positivamente al mondo dello spettacolo numerose location per riprese cinematografiche e televisive, e questo sta diventando un mercato nel quale le imprese artigiane piemontesi possono inserirsi positivamente. Metodologia. Lo studio si è sviluppato in due parti; una prima ricerca quantitativa di ampio respiro su tutto il mondo dell’artigianato e un affondo esplorativo di tipo qualitativo sui bisogni formativi dell’artigianato piemontese inserito nella filiera del cinema. La scelta quindi è stata quella di produrre una mappa CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA d’insieme sulla formazione nel suo complesso, alla quale si è affiancata un’esplorazione qualificata su un promettente ambito d’attività per le imprese artigiane. Per lo svolgimento della ricerca empirica quantitativa originale si intervistato telefonicamente un campione di titolari e soci di imprese artigiane del Piemonte, stratificato per settore di attività e territorio. Sono stati scelti quattro settori (riparazioni, metalmeccanica, costruzioni e servizi alle imprese) rappresentativi della realtà artigiana piemontese e nei quali ricerche precedenti hanno evidenziato un buon livello di ricorso allo strumento formativo. Rispetto agli addetti, è stato deciso dal gruppo di lavoro di escludere le aziende monocellulari. Una volta individuato l’universo di riferimento lo step successivo è stata la definizione della stratificazione del campione sulla base della classe dimensionale. La dimensione territoriale è stata trattata assumendo la necessità di avere, per ciascun dei quattro settori, 50 interviste sulla Provincia di Torino e 50 interviste sul resto del Piemonte. La rilevazione, condotta su imprese allocate sul territorio regionale estratte da elenchi ed indirizzari forniti dalla Banca dati dello stesso Sistema Informativo dell’Artigianato, è stata effettuata tra marzo e maggio 2009 attraverso la somministrazione di un questionario strutturato a 400 imprese artigiane. L’obiettivo della rilevazione è stato raggiunto, con l’effettuazione di 385 interviste complete. I dati raccolti sono stati quindi elaborati con tecniche di analisi di primo e di secondo livello attraverso software specifici dedicati all’analisi statistica dei dati. La seconda parte della ricerca, volta all’approfondimento qualitativo sulla formazione 39 40 Quaderni di ricerca sull’artigianato degli artigiani impegnati nella filiera del cinema, è stata realizzata con interviste agli esperti locali che maggiormente si occupano dello sviluppo di questo settore e con uno specifico focus group che ha coinvolto gli artigiani. Risultati di ricerca Dall’analisi dei dati raccolti sono emerse alcune particolari e ben definite tipologie di imprenditori e di stili di interpretazione della formazione. In generale, si riscontra un atteggiamento positivo verso il tema: quasi il 60% degli intervistati considera la formazione un importante fattore di sviluppo. Se ad essi si sommano coloro che pensano che la formazione sia importante ma costosa, si ottiene che il 66% degli imprenditori artigiani intervistati considera la formazione una leva importante per la propria attività. Tra le aziende che individuano nella formazione un elemento strategico e di sviluppo si trovano soprattutto quelle di riparazione (32%) e di servizi alle imprese (25%), mentre tra gli artigiani che pensano che la formazione non sia un aspetto rilevante si riscontrano soprattutto i metalmeccanici (24%); non esistono differenze significative per le aziende di costruzioni. L’importanza della formazione cresce con il crescere delle dimensione: infatti, sono il 76% delle aziende più grandi a sostenere che la formazione è un elemento importante, contro il 52% di quelle più piccole. La citazione di Sennett riportata in capo all’articolo, e che richiama anche alla radice etimologica della parola “artigiano”, trova riscontro nelle risposte che vengono fornite dagli intervistati CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA rispetto all’apparato produttivo esistente e al grado di specializzazione degli addetti. I dati evidenziano come le imprese artigiane tendano a leggersi come soggetti con un patrimonio elevato in termini di risorse umane: gli addetti sono specializzati (76%) e si aggiornano continuamente sulle ultime novità tecnologiche (67%); inoltre, gli impianti sono adattati dal personale interno (67%), il tutto a fronte di un basso turnover (7%) e di una scarsa presenza di processi produttivi automatizzati (19%). Come si osserva nella figura successiva, incrociando la dimensione della specializzazione degli addetti con quella relativa all’esistenza di processi produttivi automatizzati otteniamo quattro profili di aziende che si collocano ad altrettanti livelli di specializzazione del processo produttivo. Emerge che, rispetto al grado di specializzazione, la maggioranza delle imprese (60%) si configura come il classico artigianato avanzato, o di mestiere, che lavora con addetti altamente specializzati ma con processi produttivi a bassa automatizzazione. 41 42 Quaderni di ricerca sull’artigianato Modelli delle imprese secondo il livello di specializzazione Rispetto ai settori di appartenenza si osserva che tra gli artigiani con alto livello di automazione del processo produttivo si collocano soprattutto le imprese metalmeccaniche (50% dell’artigianato avanzato e 63% di quello fordista), mentre tra gli artigiani di mestiere ritroviamo soprattutto le imprese dei settori delle riparazioni (33%) e dei servizi (28%). Per contro, più di un artigiano su cinque (21,6%) dichiara di non avere addetti particolarmente specializzati e nemmeno processi produttivi automatizzati; sono gli artigiani definiti low-profile, con un livello di specializzazione molto basso. Presenti in tutti i settori, con leggera prevalenza nel settore metalmeccanico (31,3%) e delle riparazioni (30,1%), CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA per il 69% sono imprese di piccole dimensioni, fino a cinque addetti. Significativa ma non elevata risulta essere la presenza di artigiani che impiegano addetti altamente specializzati in processi produttivi ad automazione elevata. E’ l’artigiano che definiamo avanzato (15,8%). Infine si riscontra una quota molto bassa di artigiani che, pur operando in processi produttivi ad elevata automazione, non richiedono un alto grado di specializzazione degli addetti. Si tratta di un profilo di artigiano che definiamo di tipo fordista, presente solo nel 2,9% dei casi. Per gli artigiani in genere, ma soprattutto per l’artigianato avanzato e quello di mestiere, l’importanza del capitale umano presente in azienda è strategica per il benessere dell’impresa. Dal saper fare degli addetti dipende largamente l’andamento e la buona riuscita dell’impresa; per questo le caratteristiche richieste agli operai diventano fondamentali. Come evidenziato dai dati che emergono dall’indagine, gli artigiani selezionano i collaboratori sulla base di più fattori: oltre al curriculum formativo, che non risulta essere la discriminante principale, la selezione tiene conto soprattutto delle attitudini, del carattere, delle capacità e della disponibilità del candidato ad assumere ruoli e carichi di lavoro previsti dalla mansione che esso dovrà ricoprire. Alla luce di questo atteggiamento, spesso latente ma largamente diffuso non solo nell’artigianato ma anche in altre realtà produttive, in sede di selezione il collaboratore ideale prediletto dall’artigiano dovrebbe essere portatore di un mix di caratteristiche che viene definito tecnico-caratteriale, dove le competenze tecniche e la specializzazione coesistono con elementi 43 44 Quaderni di ricerca sull’artigianato di atteggiamento verso il lavoro e con le capacità di affrontare situazioni lavorative eterogenee. Abbiamo poi domandato agli artigiani in quali aree di competenze si rilevino dei fabbisogni di formazione, sia per se stessi che per i propri soci di impresa, nonché per gli addetti subordinati. I risultati fanno emergere due profili di richieste “formative” un po’ differenziati. Nel primo caso, relativo ai titolari e soci, oltre alla necessità di competenze tecnico-produttive spiccano le necessità di competenze trasversali (informatiche, linguistiche ecc…) che, insieme alle competenze commerciali e amministrative, fanno di un artigiano che produce un imprenditore che sa gestire le complessità di un’impresa. Infatti, la crescente complessità gestionale imposta dal mercato richiede all’imprenditore di oggi compiti e competenze sempre più trasversali. L’imprenditore, anche quello artigiano, oltre che continuare a lavorare e produrre, deve affrontare incombenze gestionali e amministrative sempre più complesse, e non tutti gli artigiani sono in grado di farlo. Ecco quindi che la richiesta di formazione trasversale, gestionale, commerciale e amministrativa, fatta registrare degli imprenditori artigiani segnala l’esistenza di un forte fabbisogno formativo di competenze utili all’ampliamento progettuale e strategico dell’impresa. D’altra parte, le richieste formative per gli addetti subordinati sono soprattutto di tipo tecnico e meno di tipo gestionale amministrativo. I dati evidenziano due modi differenti di interpretare la formazione e quindi due importanti visioni ascrivibili ad altrettante tipologie di cultura CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA aziendale diverse e ben definite, guidate da fattori differenti e in qualche misura speculari: 1. Le aziende che vedono la formazione come strumento per migliorare l’adattabilità dell’impresa alle richieste del mercato e del settore; la formazione, secondo questa visione, serve per aggiornare e consolidare competenze già presenti al fine di migliorare la qualità del prodotto e le performances aziendali. La formazione, quindi, è assunta come strumento finalizzato a migliorare le potenzialità già in essere nell’azienda. Afferisce a questa visione il 49% delle imprese intervistate. 2. Le aziende che vedono la formazione come strumento di cambiamento organizzativo e strategico, un cambiamento legato sia all’organizzazione del lavoro sia alle risorse umane, agli addetti. La formazione è qui intesa come leva per una riorganizzazione aziendale che rompe con gli schemi e le figure del passato. A questa visone afferisce il 51% delle imprese intervistate. I due tipi di approccio verso la formazione sono portatori di due differenti concetti di “trasformazione”, se così possiamo dire. Il primo tipo di “tras-formazione” è debole e implica l’acquisizione di caratteristiche professionali intrinsecamente connesse al contesto tecnico, produttivo, organizzativo e culturale del luogo in cui opera. Il secondo tipo di “trasformazione” è forte e si caratterizza per l’acquisizione di caratteristiche professionali che mantengono il proprio valore in differenti contesti organizzativi. E’ chiaro che le due tipologie di imprese che emergono dall’analisi sono spinte da moventi (fattori latenti) ben diversificati, dettati da diverse caratteristiche intrinseche aziendali. 45 46 Quaderni di ricerca sull’artigianato Vediamo quali sono queste caratteristiche: La formazione come strumento per una migliore adattabilità dell’impresa alle richieste del mercato e del settore: Quali sono le aziende che si rifanno in prevalenza a questa visione: • Il 70% degli artigiani low-profile e il 64% degli artigiani fordisti • Le imprese di riparazione (54%) • Nate in negli anni ‘80 (57%) • Con meno di 5 addetti (52%) • Con un prodotto rivolto al consumatore finale (57%) • Imprese che ritengono la formazione importante ma costoso (70%) • Imprese che ritengono la formazione un obbligo formativo (67%) • Con classe di fatturato medio basso: meno di 25.00 € (57%) – da 25.000 € a 50.000 € (71%) • Andamento del fatturato in diminuzione (65%) • Redditività di diminuzione (60%) • Raggio di mercato in diminuzione (67%) • Andamento della produzione in diminuzione (57%) Le imprese che si rifanno a questa visione sono soprattutto quelle di minore dimensione, a bassa specializzazione (artigiano low-profile e fordista) con un fatturato medio basso ed un andamento negli ultimi tre anni che complessivamente è peggiorato. Aziende, quindi, che per caratteristiche fisiologiche possiamo definire vulnerabili, con difficoltà a rimanere nel mercato, che vedono, quindi, l’importanza della formazione soprattutto in termini strumentali, come occasione di miglioramento delle proprie performances e di risposta alle richieste del mercato. CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA La formazione come strumento di cambiamento organizzativo e strategico: Quali sono le aziende che si rifanno in prevalenza a questa visione: • Il 61% degli artigiani di mestiere e il 52% dell’artigianato avanzato • Le imprese di costruzione (58%) e metalmeccaniche (54%) • Le imprese più vecchie nate prima degli anni ‘80 (56%) • Con più di 5 addetti (%) • Le imprese che considerano la formazione un elemento importante di sviluppo (57%) e un obbligo normativo e contrattuale (59%) • Con fatturato alto: sopra il 500.000€ (60%) • Con benessere aziendale in aumento (54%) o stabile (57%) • Numero di addetti in aumento (58%) • Con redditività in aumento (74%) Tra le aziende afferenti a questa seconda visione si ritrovano quelle potenzialmente più forti, con una migliore collocazione di mercato, in crescita e più specializzate. Per loro la formazione è, o è stata, un fattore su cui puntare per un migliore sviluppo aziendale, una strategia per innovare (è notevole tra queste aziende la quota di quelle più vecchie). Il “learning by doing”: un modello formativo che persiste Il modello formativo a cui le imprese artigiane tendono, sia idealmente sia in modo pratico, si basa sul learning by doing, imparare lavorando; la prima fonte di conoscenza per gli addetti è l’artigiano stesso, e la prima modalità di trasferimento della conoscenza avviene attraverso l’affiancamento e lo scambio interpersonale tra gli addetti con più esperienza e quelli da formare. Nel 80% delle imprese intervistate i 47 48 Quaderni di ricerca sull’artigianato formatori sono il titolare o i soci e solo nel 9% dei casi si rileva la presenza di formatori esterni all’azienda. In questo contesto va da sé che la tipologia di formazione più idonea e richiesta dalle imprese sia quella svolta all’interno del contesto lavorativo, sia per gli addetti (84%) che per i titolari e soci (68%). Tuttavia, per questi ultimi si rileva una richiesta di formazione, debole ma degna di nota, inerente i temi più legati ad aspetti gestionali – manageriali. Facendo riferimento ai due modi di concepire lo strumento della formazione che sono stati descritti precedentemente, si osserva una differenza importante: gli artigiani che vedono la formazione quale strumento per adattare meglio l’impresa alle richieste del mercato e del settore prediligono una formazione pratica dettata dall’esperienza sui luoghi di lavoro più di coloro che si rifanno alle seconda visione, quella della formazione quale strumento di cambiamento e innovazione (90% vs 79% nel caso della formazione verso gli addetti subordinati e 82% vs 55% nel caso della formazione per titolari e soci). Per contro, gli artigiani che vedono la formazione come strumento di cambiamento sono maggiormente propensi verso un tipo di formazione esterna all’azienda che preveda la partecipazione a corsi svolti all’esterno oppure a convegni e/o seminari. In particolare, se si tratta di formazione per titolari e soci il 42% di coloro che si rifanno a questo tipo di visione sceglie la formazione erogata con partecipazione a corsi svolti fuori dall’azienda e il 13% con partecipazione a convegni o seminari, tipologia di formazione richiesta rispettivamente solo dal 17% e 2% degli artigiani che invece si rifanno alla visone della formazione come strumento di migliore adattabilità dell’azienda. CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA La formazione è comunque una strada intrapresa da molte realtà produttive: infatti, le imprese artigiane che nel triennio 2006-2008 hanno partecipato ad attività formative di vario tipo sono il 53%. La propensione alla partecipazione ad attività formative è più elevata (58%) nelle imprese di dimensioni maggiori (con almeno 5 addetti), che riescono a conciliare meglio la programmazione dell’attività formativa con la necessità della continuità produttiva. Le imprese che hanno investito in attività formative nel periodo 2006-2008 hanno un fatturato medio-alto (il 70% si colloca al di sopra dei 150.000 ) e si trovavano in una posizione di performances generali più positive (con andamento stabile o in crescita) rispetto a quelle che non lo hanno fatto. Tra gli artigiani in Piemonte esiste una grande consapevolezza del valore che ha la specializzazione del capitale umano, specializzazione che si ritiene di dover trasmettere, aggiornare e approfondire attraverso strumenti formativi nei quali investire. Tra le imprese che investono maggiormente in formazione ci sono proprio quelle che hanno addetti altamente specializzati. 49 50 Quaderni di ricerca sull’artigianato Tra il 2006 ed il 2008 la Sua azienda ha investito in attività formative, sia interne che attraverso corsi realizzati all’esterno? Sì, ma solo per No Sì gli apprendisti Provincia di Torino 42,0% 52,9% 5,2% Provincia Altre Province 38,9% 53,6% 7,6% Settore Classe di fatturato a due classi Numero complessivo di addetti Costruzioni Metalmeccanica Riparazioni Servizi 30,0% 48,6% 34,5% 45,6% 62,9% 40,4% 61,2% 51,1% 7,1% 11,0% 4,3% 3,3% meno di 150.000 € 55,0% 39,6% 5,4% più di 150.000 € non risponde 49,0% 60,4% 46,2% 48,7% 7,2% 5,1% 2-3 47,8% 45,7% 6,5% 4-5 6-10 più di 10 49,0% 45,1% 31,6% 62,1% 32,3% 60,4% 5,9% 6,3% 7,3% In sintesi, si può affermare che nelle imprese artigiane piemontesi la cultura tradizionale tipica del settore, dove l’artigiano e il suo sapere tecnico e produttivo primeggiano su qualsiasi altra forma di conoscenza trasferita dall’esterno, persiste e continua a tramandarsi in modo trasversale alle tipologia di impresa. Accanto a questo atteggiamento valoriale si rileva però la presenza di importanti segnali che le imprese più giovani e avanzate rimandano al mondo della formazione, inserendosi in questo processo e manifestando interessi nuovi su temi e su meccanismi più variegati di trasmissione della conoscenza. La pratica della formazione L’analisi del rapporto tra partecipazione ad attività formative e benessere aziendale segnala che CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA tra le imprese che hanno fatto formazione il 24% è in crescita, una percentuale decisamente maggiore di quella registrata tra quelle che non hanno fatto alcuna formazione (14%). La grande maggioranza delle imprese afferma che la formazione è servita ad accrescere la qualità del prodotto: l’89% tra quelle in una situazione di andamento complessivo definibile “in diminuzione” ed il 79% tra quelle “in crescita”. Le imprese che nel triennio 2006-2008 non hanno partecipato ad alcuna attività formativa sono il 40%: quali sono i motivi per i quali le imprese non hanno investito in attività formative? Le risposte indicano come la mancanza di esigenza percepita sia la causa principale (75%), seguita a grande distanza dai costi elevati attribuiti alla formazione (8%) e dalla mancanza di tempo disponibile da dedicare all’attività formativa (5%). Rispetto alla conoscenza e all’utilizzo di fondi pubblici a supporto della formazione, si segnala che solamente il 7% delle aziende intervistate conosce ed ha utilizzato almeno una linea di finanziamento, ed il 3% conosce e vorrebbe utilizzarne almeno una. La risposta più frequente è l’assoluta non conoscenza (riscontrata nel 74% delle risposte) delle suddette linee di finanziamento. Le previsioni per il 2009 non sono state totalmente positive: infatti, il numero di imprese che pensavano di investire in attività di formazione è risultata in calo rispetto a ciò che è avvenuto per il triennio 2006-2008. Le imprese che affermavano di avere intenzione di investire in attività di formazione sono risultate il 55% contro il 60% rilevato nello triennio precedente. 51 52 Quaderni di ricerca sull’artigianato Interessante notare come emerga un meccanismo di alternanza: da una parte, chi ha investito in formazione nel triennio scorso e che dichiara che non l’avrebbe fatto nel corso del 2009 (57%), e dall’altra, chi invece non ha investito nei tre anni precedenti e affermava di aver intenzione di farlo nel 2009 (72%). Le dichiarazioni rispetto al fabbisogno formativo delle imprese artigiane per il 2009 hanno continuato ad essere relative all’attività propria del core business d’impresa, per tutte le figure e in particolare per i titolari o loro soci. La sfera delle esigenze di formazione degli artigiani locali continua quindi a ruotare intorno ad una formazione professionale di tipo tecnico e molto specializzata e alla formazione obbligatoria inerente la normativa in tema di ambiente e sicurezza. Tuttavia, anche se in misura contenuta, i titolari rimangono interessati ad una formazione di tipo più gestionale. Conclusioni Contrariamente a quanto si ritrova spesso nella vulgata comune sul mondo dell’artigianato, la ricerca ha evidenziato una buona sensibilità del sistema imprenditoriale artigiano piemontese rispetto al tema della formazione. Si tratta di una sensibilità trasversale, presente in settori e territori differenti e in imprese con caratteristiche anche notevolmente diverse. Un alto grado di specializzazione degli addetti caratterizza ancora tre imprese artigianali su quattro ed è forte e viva la consapevolezza che la propria forza passi necessariamente da un rafforzamento continuo di tale peculiarità. E’ quindi chiaro che esiste un’attenzione dell’artigianato verso la formazione, attenzione CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA dettata soprattutto da un atteggiamento di valutazione strategica. Tutto questo non si traduce sempre ed immediatamente in una richiesta spinta di formazione di alto livello: tra la necessità e la pratica si interpongono aspetti quali la gestione dell’attività quotidiana, la fragilità legata alle piccole dimensioni aziendali, il costo in termini di tempo e di economie, la difficoltà che si incontra a matchare le esigenze aziendali con le disponibilità di corsi. Questo dato porta a riflettere su quale tipo di formazione vada rivolta al mondo dell’impresa artigiana, sia in termini di contenuti sia in termini di impegno richiesto. Infatti, se sappiamo che percentualmente la tendenza ad investire in formazione è superiore tra le aziende di maggiore dimensione, in termini assoluti le attività formative coinvolgono soprattutto aziende di piccole dimensioni che operano in un quadro organizzativo e produttivo poco strutturato, con dinamiche che, soprattutto se si tratta di formazione rivolta agli addetti subordinati, si rifanno alla polivalenza delle mansione e all’intercambiabilità dei ruoli e delle funzioni, e che quando si tratta di investire in attività formative spesso decidono di farlo sottraendo risorse essenziali all’attività di produzione. E’ poi vero che la formazione richiesta dalle imprese artigiane si rivolge ancora, almeno in gran parte, alla crescita di competenze tradizionali, anche se stanno emergendo interessi nuovi, soprattutto di tipo trasversale, legate quindi alla gestione informatizzata delle attività e dell’azienda stessa o a temi sempre più attuali quali l’ambiente. A questa cultura della formazione, che rappresenta un interessante substrato positivo dal quale partire (due terzi degli artigiani la considera un importante fattore di successo), fa da contraltare 53 54 Quaderni di ricerca sull’artigianato una pratica reale che non corrisponde pienamente alle intenzioni degli imprenditori (poco più della metà ha fatto formazione) e coloro che hanno partecipato a qualche attività formativa lo ha fatto soprattutto secondo l’approccio del formal learnig. Occorre poi leggere tra le righe le dichiarazioni degli imprenditori per comprendere cosa sia per loro la formazione: infatti, se nella pratica è ancora forte il formal learning, si evidenzia come si stia facendo strada anche un altro tipo di formazione, realizzato con strumenti più vicini al loro modo di lavorare e all’approccio dell’imparare sul campo. Si tratta sicuramente di strumenti più professionali e, alla lunga, anche più professionalizzanti. I percorsi formativi effettivamente utilizzati dai titolari e dagli addetti delle imprese artigiane dicono che le imprese più floride e con migliori prospettive per il futuro effettuano le proprie scelte secondo due criteri: - una generalizzata varietà di canali formativi; - l’orientamento, soprattutto per gli apprendisti, ad una formazione attraverso corsi svolti fuori dall’azienda. Tutto ciò avviene, comunque, in presenza di una ancora forte, e forse sempre necessaria, tendenza a sviluppare una parte di formazione on the job: la differenza tra gli approcci sta nella proporzione tra questo tipo di formazione, che troppo spesso si riduce ad un mero apprendimento per affiancamento, ed una formazione più ampia, completa ed aperta alle novità presentate da agenzie formative specializzate. Ma il legame tra formazione e lavoro deve ancora integrarsi meglio, soprattutto nell’universo dell’artigianato: molti imprenditori non conoscono CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA tutte le potenzialità del sistema formativo, ma anche quest’ultimo può e deve ragionare sul proprio ruolo e sul proprio modo di relazionarsi con la realtà produttiva per la quale istituzionalmente sono stati creati. Prova ne è il fatto che iniziative pubbliche sono ancora ampiamente sottoutilizzate rispetto alle sue reali potenzialità. Il limite forse rientra nella sfera della visibilità, pubblicizzazione, e forse anche in quella delle modalità di incontro tra domanda e offerta formativa. Le modalità di accesso ai fondi si reggono, di fatto, su meccanismi complessi e di difficile approccio; la presenza di “facilitatori” quali associazioni di categorie, agenzie formative o consulenti diviene quindi canale indispensabile. Detto ciò, la richiesta di formazione da parte delle aziende non resta peraltro un ideale accademico, un obiettivo da raggiungere ma senza reali ricadute sul contesto produttivo e sulla redditività dell’azienda. Anzi, quegli artigiani che più degli altri intendono la formazione come uno strumento di crescita complessiva dell’azienda segnalano l’esistenza di una netta ricaduta sui processi produttivi e sulla performance aziendale: è certamente da questi soggetti che si può e si deve partire per una promozione sistematica della formazione e dei suoi strumenti di realizzazione per avviare un volano di effettive ricadute positive sul sistema produttivo regionale. La sfida diventa quindi intercettare questa domanda potenziale di formazione e trasformarla in reale opportunità per il settore: occorre conoscere meglio non solo le esigenze degli artigiani in termini di fabbisogni formativi, ma anche anticiparne le richieste, costruendo un quadro formativo che connetta bisogni settoriali e generalistici con declinazioni soggettive, 55 56 Quaderni di ricerca sull’artigianato nell’ottica della gestione di un servizio formativo a tutto tondo, che accompagni gli imprenditori a comprendere meglio loro stessi e la propria impresa. Occorre altresì accompagnare quella quota importante di imprese (30% del campione), che non sente l’esigenza di partecipare ad attività formative, a comprendere se l’esigenza non sia realmente sentita oppure se non abbiano gli strumenti per poterla leggere ed interpretare. L’attore pubblico ha quindi il compito ineludibile di progettare le caratteristiche del proprio intervento su questo tema, un intervento pubblico che non dovrà giocarsi tanto sul campo dei costi quanto sulla specializzazione e semplificazione delle pratiche, ma sopratutto sulla facile lettura in termini di utilità e di ricadute immediate della formazione nel processo strategico e produttivo dell’impresa. Al di là di strumentalizzazioni informative che non mancano mai di fare capolino quando si affronta il tema dell’impresa privata, il settore pubblico non viene estromesso “a priori” dalla vita delle imprese private, ma diviene un soggetto pienamente titolare di un ruolo qualificato quando è identificato come portatore di un vantaggio differenziale. A riprova di ciò, è importante ricordare che proprio in questo lavoro emerge come i Centri per l’Impiego siano un soggetto privilegiato dalle imprese artigiane nella ricerca e selezione del proprio personale. CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA Indagine esplorativa sulla filiera del cinema e l’artigianato piemontese; la formazione come nuova opportunità da creare e da cogliere. Nel corso di questa ricerca un affondo specifico è stato realizzato sulla formazione effettuata o che occorrerebbe effettuare nelle imprese artigiane che operano nel campo del cinema e della televisione. Torino ed il Piemonte stanno proponendo sempre più al mondo dello spettacolo numerose location per riprese cinematografiche e televisive e contestualmente si sta creando un mercato nel quale le imprese artigiane piemontesi possono inserirsi positivamente. Non di meno, la nascita nel 2000 della Film Commission Torino Piemonte ha comportato un passaggio importante e significativo verso la creazione di un “Sistema cinema Piemonte” che, dal fulcro della città di Torino, si snoda verso l’intero territorio regionale coinvolgendo luoghi, persone e cose. Visto l’intento meramente esplorativo di questa seconda parte della ricerca e l’eterogeneità delle dimensioni che compongono il mondo degli artigiani che operano nel mercato cinematografico e televisivo locale, il gruppo di ricerca ha concordato che le tecniche più idonee al tipo di rilevazione fossero quelle usate nella ricerca qualitativa. Il percorso di studio utilizzato è stato quindi il seguente: • Breve ricognizione sullo scenario di mercato e occupazionale del settore televisivo e cinematografico locale; • Interviste con gli esperti locali che maggiormente si occupano dello sviluppo di questo settore, agevolando l’incontro tra i vari soggetti che si occupano di cinema e televisione; 57 58 Quaderni di ricerca sull’artigianato • Focus group con alcune imprese artigiani locali afferenti a questo settore. Sono emersi risultati molto interessanti. Come indicatore di misura della dimensione e dell’andamento del settore il numero di film prodotti è stato ritenuto significativo a rappresentare un indicatore dell’andamento di tutte le attività che ad esso sono collegate e da esso ne conseguono. Come fonte per una ricognizione sul numero di imprese e di addetti impiegati nelle diverse indagini sul tema viene spesso utilizzata la banca dati delle posizioni previdenziali Enpals (Ente nazionale per la previdenza e assistenza dei lavoratori dello spettacolo e dello sport). Si osserva che rispetto al numero di addetti diretti e indiretti coinvolti nel settore si riscontrano alcune difficoltà di misurazione dovute dalla presenza di una polverizzazione di figure professionali e attività produttive che, in termini indiretti, si occupa anche del mondo dello del cinema, dello spettacolo e della televisione, figure che in alcuni casi si prestano al mondo dell’arte ma non solo. Quella cinematografica è difatti una filiera dotata di contorni molto labili ed estremamente variabili a seconda del periodo, del luogo e dei soggetti coinvolti. Quantificare con precisione il numero di addetti che nella nostra regione a vario titolo operano nel mondo cinematografico e televisivo, quindi, risulta essere difficoltoso. Si stima che nel 2008 l’ammontare degli investimenti dell’intera filiera cinema sia stato di oltre 25 milioni nella sola provincia di Torino, con un coinvolgimento complessivo di circa 20.000 addetti. Significativi sono emersi alcuni aspetti organizzativi del settore che sono da porre a premessa CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA per l’orientamento delle politiche riguardanti la formazione. In particolare, si evidenzia come in questa filiera sia diffuso un modo di lavorare che vede un grande movimento dei singoli professionisti, non organizzati in impresa a servizio delle produzioni. Questo sistema organizzativo di per sé è un elemento di vivacità e sviluppo delle competenze tecniche e professionali, ma risulta invalidante dal punto di vista delle tessuto produttivo e delle opportunità corporative che da esso ne derivano. Questa tendenza si rileva anche tra le affermazione dei testimoni privilegiati intervistati. La pratica di lavorare nella filiera della produzione come singolo professionista che viene “ingaggiato” direttamente dal produttore per la fornitura di un servizio o di una prestazione, risulta essere la dinamica organizzativa più frequente, dinamica che porta con sé conseguenze sulle performance lavorative. Le difficoltà legate all’accesso e alla continuità di lavoro che le imprese, i singoli professionisti e gli artigiani incontrano sono alla base di un fenomeno di mancata fidelizzazione e di mancato investimento strategico di questi nel settore. Per molte aziende artigiane lavorare nel settore cinematografico e televisivo significa farlo in modo contingente ed occasionale, secondo quanto dettato dalle opportunità di mercato e in concomitanza con altre prestazioni rivolte a settori totalmente estranei. Lavorare esclusivamente per il cinema non garantisce la sopravvivenza delle imprese e dei professionisti locali, e quindi è necessario riuscire ad inserirsi in più mercati contemporaneamente. Tutto questo avviene, però, a discapito di una specializzazione e di una crescita complessiva del settore. 59 60 Quaderni di ricerca sull’artigianato Alla luce di questi elementi emergono alcune riflessioni sulla modalità più idonee di accedere alla formazione ed alcuni suggerimenti per un modello formativo rivolto gli artigiani del settore cinematografico e televisivo. a) Atteggiamento e visione della formazione. Pur considerando la varietà delle figure artigiane coinvolte dal settore, dalla rilevazione si deduce che, in termini di livello di specializzazione, esse si ripartiscono soprattutto tra gli artigiani di mestiere e gli artigiani avanzati, quindi soggetti caratterizzati, in termini di capitale umano, da un elevato livello di specializzazione. Questa caratteristica di settore risulta un fattore importante per la formulazione di ipotesi di modelli formativi ad hoc. Infatti, lo strumento per rafforzare e ampliare il grado di specializzazione è la formazione; si osserva come gli artigiani che lavorano in questo settore considerino e vivano la formazione come strumento di cambiamento organizzativo e strategico. Le testimonianze raccolte raccontano di strategie di cambiamento intraprese dall’artigiano proprio grazie all’implementazione del proprio sapere e alla capacità di intravvedere nella formazione una leva per migliorare la qualità delle proprie performance. b) In questo ambito emerge chiaramente e con una certa forza come la trasmissione del sapere, della conoscenze e delle tecniche sia legata alla pratica e al lavoro sul campo. Quello del learning by doing risulta essere il metodo formativo più auspicato e desiderato. In larga misura, nella realtà quotidiana avviene proprio così, e le testimonianze che sono state raccolte lo confermano. Secondo il parere degli operatori, la formazione che conta, CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA quella cioè che permette di imparare veramente nuove tecniche e arricchire la specializzazione delle prestazione tecniche e produttive, è quella che si impara lavorando a fianco dei “maestri del mestiere”; la figura del maestro racchiude in sé conoscenza, sapere ed esperienza ma anche passione e motivazione, elementi questi ultimi considerati fondamentali per trasmettere e consolidare saperi che altrimenti si perdono nella sfera del nozionismo e del apprendimento nonesperienziale. Dall’analisi emerge con chiarezza che il modello formativo a cui tendere si declina attraverso alcune specifiche coordinate. 1) Le caratteristiche del mercato locale, condizionato dalla forza concorrenziale di altri siti, impone che ad operare siano soprattutto figure altamente qualificate che possano offrire prestazioni di qualità e di alto livello professionale. Per questo la formazione che si pensa essere quella più idonea, e che appare una richiesta forte dei soggetti che operano nel settore, è una formazione di eccellenza. Con questa accezione si pensa ad una formazione molto professionalizzante, i cui contenuti si rifanno a specializzazioni di altissimo livello. 2) Vista l’esigua possibilità del settore di occupare stabilmente un elevato numero di figure ad elevata professionalità, la formazione dovrebbe coinvolgere un numero limitato di persone che, una volta formate, possano accrescere la qualità del sistema e, contemporaneamente, inserirsi facilmente nel mercato del lavoro. 61 62 Quaderni di ricerca sull’artigianato Tenuto conto di quanto emerso complessivamente circa la struttura del mercato, le esigenze del settore, l’atteggiamento delle imprese e la pratica della formazione, si intravvede la possibilità di implementare, eventualmente in via esplorativa, un percorso di formazione che per molti aspetti si avvicini a ciò che già è stato fatto con il modello “botteghe scuola”.1 Un percorso cioè strutturato e personalizzato, in cui la formazione parta dalla presenza di un maestro artigiano e che sia rivolto a pochi ingressi selezionati per i quali si attiva in questo modo una grande distribuzione di sapere. Un percorso orientato a chi già lavora nel settore ma che ha necessità di imparare meglio l’arte del fare attraverso la condivisione di un sapere consolidato. 1 Per un approfondimento si veda: www.bottegascuolapiemonte.com CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA Bibliografia - Ascani Pierluigi. A cura di (2009) Artigianato e politiche industriali. il Mulino, Bologna - Associazione IRES Lucia Morosini (2006) Organizzazione, competenze, professionalità nelle imprese artigiane. Modelli di analisi ed ipotesi di lettura. Torino. IRES - Albertini S., Chiarvesio M., Grandinetti R., Pilotti L.(1999) Artigianato e sistema locale, Milano, Franco Angeli - Barberis R., Bondonio D., Merlo C., (2006) Indagine sugli interventi di sostegno alle imprese artigiane in Piemonte, a cura del Sistema Informativo sull’artigianato - Regione Piemonte. - CGIA Mestre (2009), Quaderni di ricerca sull’artigianato - Rivista di Economia, Cultura e Ricerca Sociale dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA. Numero 52 - II quadrimestre 2009. - Compagno C., Nanut V., Venier F., (1999) Nascita sviluppo e continuità dell’impresa artigiana, Milano, Franco Angeli. - Confartigianato, (2007) “Il rilancio del cinema comincia dagli artigiani”, Comunicato stampa, url: www.confartigianato.it - Costa G., (1997), Economia e direzione delle risorse umane, Torino, UTET. 63 64 Quaderni di ricerca sull’artigianato - Falciola L. (2009) “Mestieri dello spettacolo” in Colombo P. Mestieri d’arte e made in Italy. Giacimenti culturali da scoprire. Venezia, Marsilio. - Formaper A cura di (2001), Fare formazione con le piccole imprese, Franco Angeli, Milano. - Lanzetti R., Cominu S., Tajani C., Merlo C., Armano E., Zimelli A., (2009) Rapporto sull’artigianato in Piemonte 2007-2008 a cura del Sistema Informativo sull’artigianato - Regione Piemonte. - Lanzetti R., Roccati D., Spolti G., Merlo C., Armano E. (2009) La formazione nelle imprese artigiane, paper proposto al convegno regionale “Professione Artigiano”, Torino - Nonaka I., (1994) A dynamic theory of organizational knowledge creation, in Organizational Science Vol. 5 no. 1, - Ruffino M., (2001) Formazione continua e competenze delle Pmi. Modelli, strumenti e standard al tempo dell’economia dell’apprendimento, Milano, Franco Angeli. - Ruffino M., (2008) Accedere all’apprendimento, fra diritti e necessità. La condizione complessa del sapere artigiano, in La Formazione Continua nell’Artigianato, Fondartigianato. - Sennett R., (2008) L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli. CONOSCERE I MODELLI E I BISOGNI DI FORMAZIONE IN AZIENDA - Tellia B., (2001) La formazione imprenditoriale e professionale nell’artigianato, Milano, Franco Angeli. - Vanecloo N., (1982) Théorie de la trasformation de la main-d’oeuvre, Economica, Paris. Link dei siti di interesse - www.piemonteincifre.it/ - http://www.regione.piemonte.it/artig/dati.htm - http://ossart.regione.piemonte.it/oacspu/ - http://www.sisform.piemonte.it/site/index.php - http://extranet.regione.piemonte.it/fp-lavoro/ centrorisorse/studi_statisti/index.htm - www.casartigiani.org - www.cnaformazione.it - www.confartigiantoformazione.it - www.bottegascuolapiemonte.com - www.fondartigianato.it - www.regione.piemonte.it 65 FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA: NECESSITA’ DI UN RACCORDO Pasquale Tridico Ricercatore di Economia Politica e docente di Economia del Lavoro presso l’Università di Roma Tre. Fulbright Scholar (2010-11) presso la New York University. Introduzione Negli ultimi quindici anni il mercato del lavoro italiano ha conosciuto un profondo mutamento dal punto di vista legislativo, strutturale e sociale. L’origine di questo cambiamento può essere fatto risalire a quello che è successo in Italia dal 1993 in poi, ovvero da quando il paese, successivamente alla recessione economica del 1992 e alla stipula del trattato di Maastricht decide di mirare ad entrare fin da subito nell’Unione Economica e Monetaria (UEM). Questo voleva dire innanzitutto rispettare i criteri di Maastricht prima fra tutti la riduzione del tasso di inflazione, cosa che in Italia era particolarmente problematica. L’accordo del Luglio 1993 aveva esplicitamente come scopo la riduzione della spirale inflazionista attraverso una moderazione salariale e altri interventi come la politica dei redditi, la crescita degli investimenti innovativi, l’aumento della produttività, che come molti economisti hanno dimostrato, non hanno avuto molto successo. Al contrario la politica di moderazione salariale e quindi la disinflazione ha avuto successo. A completamento di questo processo di cambiamento, viene introdotta nel mercato del lavoro italiano una maggiore flessibilità del lavoro attraverso prima il “pacchetto Treu” del 1997 e poi la legge 30 del 2003 che introducevano innovazioni radicali 67 68 Quaderni di ricerca sull’artigianato nelle forme contrattuali e nel mercato del lavoro in generale. Queste riforme nascevano nell’ambito della Strategia Europea dell’Occupazione del 1997 sfociata poi nella più complessa Strategia di Lisbona del marzo del 2000 che stabiliva, a livello comunitario, le linee guida e gli obiettivi per una riforma del mercato del lavoro al fine di fare dell’Europa, entro il 2010: “… the most competitive and most dynamic knowledge-based economy in the world, capable of sustainable economic growth, with more and better jobs and greater social cohesion, and respect for the environment”. Tuttavia in Europa la tendenza è quella di raggiungere un equilibrio sociale attraverso un modello che viene comunemente chiamato flexicurity in grado di garantire elementi di sicurezza con esigenze di flessibilità (Commissione Europea 2007). Questo lavoro esplora la situazione del mercato del lavoro italiano, in un contesto europeo e comparato, e sostiene la necessità di trovare un raccordo, in Italia, tra la dimensione di flessibilità, ormai largamente introdotta, e la dimensione di sicurezza sociale, attraverso la riforma dell’attuale sistema complesso e disorganizzato di ammortizzatori sociali dove si percepisce un certo vacuum oltre che una lacuna istituzionale. In sostanza, sembra si possa affermare che in Italia, il recepimento del modello flexicurity debba significare l’incremento di protezione, tutele e diritti sociali per occupati e disoccupati. Questa esigenza è stata messa maggiormente in evidenza dall’attuale crisi finanziaria che ha portato nei mercati reali una crescita considerevole dei tassi di disoccupazione e quindi una maggiore domanda di protezione del reddito. Il sistema di sicurezza sociale italiano è fortemente obsoleto rispetto ai cambiamenti FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA intervenuti nell’ultimo decennio dal punto di vista contrattuale e dal punto di vista strutturale. Per questo sarebbe necessario adeguare gli ammortizzatori sociali e le tutele esistenti alle nuove forme di lavoro e alla crescente flessibilità introdotta, al fine di evitare, come spesso è accaduto negli ultimi anni, che rapporti di lavoro flessibili siano percepiti come precari e diventino fonte di disagio sociale e mancanza di reddito. La riforma degli ammortizzatori sociali appare inoltre tanto più necessaria in un periodo di recessione economica come quella attuale, poiché avrebbe la doppia funzione di tutelare i lavoratori garantendo comunque loro un potere di acquisto, e sostenere la domanda aggregata che altrimenti crollerebbe ulteriormente. L’altro problema che emerge in Italia è la presenza di forti rigidità e protezioni nel mercato dei beni. Ciò sembra essere all’origine della bassa dinamica di produttività che caratterizza l’economia italiana da più di un decennio, poiché le imprese, a causa dei costi del lavoro relativamente più bassi e delle protezioni di cui possono godere nel mercato dei beni, preferiscono una strategia di investimenti labour intensive piuttosto che una strategia di innovazione tecnologica, in contraddizione con quello che si era pensato con l’accordo di luglio del 1993. Questo risulta in maggiore occupazione ma in scarsa produttività. Il resto del lavoro è organizzato come segue: il paragrafo 2 è una rassegna sui diversi modelli teorici di flexicurity raggiunti in Europa; il paragrafo 3 è una critica alla situazione del mercato del lavoro italiano e alle sue lacune istituzionali verso un tipo ideale di flexicurity; il paragrafo 4 illustra la situazione critica del mercato del lavoro italiano alla luce dell’attuale crisi 69 70 Quaderni di ricerca sull’artigianato economico-finanziaria e infine nell’ultimo paragrafo sono riportate delle riflessioni conclusive. Flexicurity: modelli teorici ed evidenza empirica a confronto La flessibilità è oggi al centro di qualsiasi dibattito che interessi il mercato del lavoro e al centro dell’agenda politica del Ministero del Welfare di qualsiasi paese dell’UE e della Commissione stessa. Una definizione complessa di flessibilità è quella elaborata da Atkinson (1984) il quale introduce quattro tipologie di flessibilità. Le prime due, la flessibilità numerica esterna e la flessibilità numerica interna, si distinguono a secondo che la flessibilità prenda origine all’esterno o all’interno dell’impresa attraverso rispettivamente aggiustamenti del numero di lavoratori esterni, alle necessità dell’impresa, o aggiustamenti dell’orario di lavoro dei lavoratori interni all’impresa, alle sue necessità produttive. Le altre due tipologie sono la flessibilità funzionale, che è legata alle necessità organizzative e settoriali dell’impresa e la flessibilità finanziaria o salariale che è basata sui livelli retributivi del lavoratore, dipendente a sua volta dalle performance dell’impresa e/o dai risultati individuali del lavoratore. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Tab. 1 - Le dimensioni della Flessibilità. Salari Effetto combinato (O-P-RC) Riduzione Produtti- OccupaCosti (RC)* vità (P) zione (O) Strumenti e modalità Flessibilità funzionale legata alle necessità organizzative e settoriali dell’impresa Tecnologica produttiva Lavoro finanziaria o salariale numerica interna numerica esterna cambiamenti tecnologici e strutturali Prende origiprende ne all’interno origine dell’impresa all’esterno adeguare basata attraverso dell’impresa il lavoro ai sui livelli aggiustamen- attraverso cambiamenti retributivi ti dell’orario aggiustatecnologici, corrisposti di lavoro dei menti del di offerta di al lavoratore lavoratori numero di prodotto e interni all’im- lavoratori di processi presa, alle esterni, alle produttivi sue necessità necessità produttive dell’impresa Multioccupabilità, possibilità di Legata alle assegnare performance Straordinari, Possibilità di diverse dell’impresa part-time, ore assumere e mansioni, e/o ai organizza- risultati del di lavoro, ecc licenziare zione flessi- lavoratore bile del lavoro processi di formazione continua e addestramento dei lavoratori all’interno della stessa impresa. NO NO SI SI SI NO SI/NO (?) NO NO SI SI SI SI SI NO 1-/2+ 1 eff. neg. 2 positivi 1-/2+ 1 eff. neg. 2 positivi 1-/2+ 1 eff. neg. 2 positivi 1-/1?/1+ 2-/1+ negat. 2 eff. negat. 11eff. incerto. 1 eff. posit. 1 posit. Fonte: propria elaborazione. Note: + indica un effetto positivo sulla dimensione considerata; - indica un effetto negativo sulla dimensione considerata; ? indica un effetto incerto sulla dimensione considerata. * Con Riduzione dei Costi ci si riferisce unicamente alla possibilità per le imprese di ridurre i costi del lavoro per unità di lavoro, quando diminuiscono i salari unitari, e non per un’unità di prodotto. In questo modo le imprese otterrebbero comunque un aumento di competitività ma non un aumento di produttività. Ciò vorrebbe dire in sostanza rimanere sul mercato grazie a più bassi salari e non a maggiore innovazione, competitività assoluta e produttività. (Una sorta di “svalutazione salariale” per analogia alla famosa e precedente “svalutazione competitiva” di cui tanto uso l’Italia ha fatto quando vigeva la Lira). 71 72 Quaderni di ricerca sull’artigianato Tuttavia, facendo una semplificazione, è possibile ricondurre le quattro tipologie di flessibilità di Atkinson ai due concetti di flessibilità dei salari e di flessibilità del lavoro. Rispetto a ciò, numerosi sono i contributi, da Keynes in poi, che dimostrano che la “flessibilità dei salari”, intesa come riduzione del costo netto del lavoro non garantisce pieno impiego (Malinvaud, 1977; Leijonhfvud, 1967; Clower 1965), mentre la “flessibilità del lavoro”, intesa come aggiustamento e adattamento del lavoro ai cambiamenti di offerta produttiva tra tutte le imprese dell’economia, se da una parte potrebbe garantire una allocazione efficiente del lavoro, dall’altra non sembra portare maggiore produttività. Al contrario, sia a livello teorico sia a livello empirico queste due relazioni (flessibilità dei salari/occupazione e flessibilità del lavoro/produttività) vengono messe fortemente in discussione. Sarebbe invece diverso, in termini di effetti sulla produttività, considerare la flessibilità tecnologica-produttiva intesa come possibilità di adeguare il lavoro ai cambiamenti tecnologici e di offerta, attraverso processi di formazione continua e addestramento dei lavoratori all’interno della stessa impresa. La tabella di sopra oltre a fare una classificazione con le caratteristiche dei diversi tipi di flessibilità, evidenzia anche che effetto potrebbe avere il tipo di flessibilità su Occupazione, Produttività, e Riduzione dei Costi. Questi effetti sono stimati sia rispetto ai risultati empirici evidenziati dalle diverse ricerche effettuate in tale ambito (Lucidi, 2006; Tronti e Ceccato, 2005; Kok, 2004; Kleinknecht, 2008), sia rispetto ad una analisi della letteratura in questo settore (Boyer, 2009; Dyrmarsky, 2008; Tridico, 2009; Kleinknecht et al., 2006; Tronti 2005; FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Leon e Realfonzi, 2008). Dalla tabella 1 di sopra risulta che la flessibilità del lavoro e la flessibilità tecnologica potrebbero avere un maggior numero di effetti positivi combinati, rispetto a Occupazione/ Produttività/Riduzione dei Costi. Tuttavia, tra le due è preferibile sicuramente la flessibilità tecnologica, in quanto attraverso di essa si possono ottenere risultati positivi in termini sia di occupazione che di produttività, che sono obiettivi perseguiti dai policy maker e non sempre raggiunti simultaneamente. La flessibilità tecnologica ovviamente potrebbe essere più onerosa nel breve periodo per le imprese rispetto alla flessibilità del lavoro e alla flessibilità dei salari, poiché la prima richiede investimenti in capitale umano, formazione e addestramento dei lavoratori, maggiori innovazioni e cambiamenti strutturali delle imprese. Tuttavia essa è più vantaggiosa nel lungo periodo, e si potrebbe pensare che i maggiori costi iniziali gravino in parte sulla società nel suo insieme, e questo potrebbe essere giustificato dal fatto che i benefici che derivano da essa sarebbero collettivi e maggiori, rispetto alle altre forme di flessibilità, poiché interesserebbero i livelli totali di occupazione e di produttività, e quindi il livello di ricchezza del paese. Lo Stato, ad esempio, potrebbe in parte finanziare la formazione dei lavoratori, incentivare le imprese ad effettuare cambiamenti strutturali innovativi, ridurre i costi fiscali per le imprese che ottengono risultati importanti in termini di R&S. Uno dei paesi che negli ultimi anni ha raggiunto elevati livelli di flessibilità associati ad elevati livelli di sicurezza sociale intensi come mix di occupabilità del lavoratore, garanzia di un reddito e formazione continua, è la Danimarca, che non a caso è considerato l’esempio da seguire nell’Unione Europea 73 74 Quaderni di ricerca sull’artigianato per raggiungere il cd modello flexicurity. In Danimarca esiste un alto livello di mobilità da un posto di lavoro all’altro dovuto alla scarsa protezione del posto di lavoro, ed un elevato tasso di sostituzione, nel senso che il periodo di transizione da un lavoro ad un altro ha dei tempi molto ridotti. Da questo punto di vista il modello danese viene considerato vicino ai modelli di stati che adottano un mercato del lavoro fortemente liberalizzato quali Canada, Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti. La mobilità danese è la più alta in Europa, con un indice di Employment Protection Legislation molto basso. Tra i paesi europei, la Danimarca si colloca tra gli ultimi posti per la protezione del posto di lavoro e tra i paesi OCSE è preceduta solo da Canada, Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti (OCSE, 2007). Alla flessibilità numerica dovuta alla forte mobilità del lavoro vanno aggiunti alti livelli di flessibilità dell’orario di lavoro (straordinari, part-time, ecc.), funzionale e contestualmente organizzativa (mobilità interna al posto di lavoro sia orizzontale sia verticale). Da osservare tuttavia che tutte queste forme di flessibilità non avvengono in Danimarca in un quadro di deregolazione ma attraverso una gestione politica e un controllo dettagliato e concertato da parte delle organizzazioni sindacali e padronali. La forte mobilità ha una delle sue ragioni importanti nella prevalenza delle piccole e medie imprese nell’industria danese, ma c’è consenso sul fatto che l’assenza di norme protettive contribuisca ad accentuare il fenomeno. La durata media di un lavoro è di otto anni, tra le più basse fra i paesi OCSE. La mobilità è presente sia nei lavori non qualificati che in quelli più qualificati. Una panoramica globale del mercato danese del lavoro indica che a prescindere FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA dal tipo di lavoratore o dal comparto industriale, la mobilità complessiva rimane elevata. Gli sviluppi degli ultimi anni hanno impresso una forte spinta all’indebolimento della contrattazione collettiva centralizzata e un forte incremento della decentralizzazione a livello delle singole aziende. Nel settore privato i contratti collettivi regolano centralmente non più del 15% del contenuto della contrattazione salariale. Dagli inizi degli anni novanta ad oggi la percentuale degli accordi collettivi che non menzionano le retribuzioni sono aumentati da circa il 4% al 20%. La pratica delle contrattazioni collettive ha introdotto una logica opposta a quella tradizionale: il contratto nazionale promuove e raccomanda limiti alla crescita salariale; a livello della contrattazione aziendale si apre così la strada a retribuzioni che vanno aggiustate a seconda delle condizioni di concorrenza specifica che incontra la singola azienda nel proprio settore o sui mercati internazionali. Tuttavia, il basso livello di sicurezza del posto di lavoro è sostanzialmente compensato da un elevato grado di sicurezza del mercato del lavoro nel suo complesso. Infatti ogni anno scompaiono circa 260.000 posti di lavoro, ma ne viene creato un numero equivalente, assicurando così un alto livello di occupabilità nel mercato del lavoro. Così, uno studio condotto dalla European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition di Dublino nel 2006 mostra che i lavoratori danesi godono, in Europa, sia della maggiore sicurezza nel mercato del lavoro in termini di occupabilità, sia del più alto livello di soddisfazione. 75 76 Quaderni di ricerca sull’artigianato Fig. 1a - Sicurezza mercato del lavoro. SCALA: 1 (bassa) - 10 (alta) Fig. 1b - Soddisfazione del proprio lavoro. % di occupati soddisfatti Fonte: - European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, 2006 Tutto ciò potrebbe apparire come un paradosso, dato che le imprese danesi possono licenziare i propri lavoratori abbastanza facilmente e con costi limitati. Tuttavia, molte ricerche individuano nella tradizionale vocazione per la contrattazione collettiva e nella presenza di rappresentanti sindacali in tutte le imprese, i fattori significativi che contribuiscono alla FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA sicurezza dell’occupazione in questo paese. Inoltre, i generosi sussidi di sostegno al reddito, uniti ad una oculata politica del lavoro attiva che mira a formare e reinserire lavoratori espulsi dal mercato del lavoro attraverso programmi obbligatori per i lavoratori e in collaborazione con le imprese, aumentano il complessivo grado di sicurezza e di occupabilità del mercato del lavoro danese. La tabella di seguito evidenzia le caratteristiche principali dei paesi che, nelle classifiche di sicurezza del posto del lavoro e di flessibilità, appaiono tra i più virtuosi. Questi sono, oltre alla Danimarca, l’Olanda, l’Austria e, per alcuni versi, anche Irlanda e Spagna. Paesi Caratteristiche principali Danimarca Il triangolo d’oro danese. Il mercato del lavoro danese mostra una combinazione positiva di flessibilità e sicurezza, con una legislazione del lavoro flessibile, una protezione del lavoro relativamente bassa, e il ruolo fondamentale della formazione permanente dei lavoratori e delle politiche attive del mercato del lavoro, il tutto accompagnato da un generoso sistema di sicurezza sociale. Olanda Tab. 2 – Modelli di Flessibilità a confronto Con il cosiddetto “Accordo di Wassenaar” del 1982 una certa moderazione salariale è stata scambiata con una maggiore occupazione e si è aperta la via, nell’ambito dei contratti collettivi, al lavoro part-time, scelto su base volontaria soprattutto da donne, e realizzato con contratti a tempo determinato. Negli anni ‘90 una certa rigidità del mercato del lavoro è stata superata dalle parti sociali con un accordo entrato in vigore nel 1999. L’accordo prevedeva tre punti chiave: (1) limitazione a tre contratti consecutivi a tempo determinato. Il quarto doveva essere a tempo indefinito. (2) Rafforzamento del ruolo delle agenzie di lavoro temporaneo. (3) Assorbimento dei contratti a tempo determinato e di quelli delle agenzie di lavoro temporaneo nel codice del lavoro e introduzione di una protezione e di un salario minimi. 77 78 Irlanda Accordo ‘Towards 2016’ tra le Parti Sociali. Il sistema economico e il mercato del lavoro irlandesi negli ultimi anni sono radicalmente mutati. L’Irlanda negli anni novanta si è trasformata da un paese a basso reddito, bassa crescita, con elevata disoccupazione in un paese con alto reddito, elevata crescita e bassa disoccupazione. Il merito di questa positiva trasformazione è legato anche al fatto che le ultime generazioni hanno livelli di istruzione molto più elevati delle precedenti. L’Irlanda ha un mercato del lavoro flessibile e investe molto in politiche attive, trascurano tuttavia il ruolo delle politiche di sostegno al reddito. Si investe molto in formazione, apprendimento e aggiornamento delle competenze sul posto di lavoro, soprattutto verso i lavoratori con qualifiche più basse e verso gli immigrati. Più flessibile risulta anche l’orario di lavoro e la possibilità di ricorrere all’outsourcing. Spagna Contratti a tempo determinato. La Spagna registra una quota costantemente elevata di contratti a tempo determinato, pari a circa il 34% dell’occupazione totale. Nel 2006 è stato firmato un accordo che garantiva ai lavoratori l’acquisizione di un contratto a tempo indeterminato dopo due consecutivi contratti nella stessa impresa a tempo determinato. L’elevata quota di lavoro a tempo determinato ha senza dubbio contribuito ad abbattere la disoccupazione, tradizionalmente molto elevata nel Paese (dal 23% all’8% tra il 1996 e il 2008). Gli occupati in età da lavoro (15-64 anni) sono passati nello stesso periodo da poco più del 50% al 66% del totale, ma la quota femminile resta inferiore. Austria Quaderni di ricerca sull’artigianato Corporativismo, flessibilità e sicurezza. L’Austria combina un’elevata flessibilità del mercato del lavoro con un livello tradizionalmente alto d’indennità sociali, cui si affiancano efficaci politiche attive del mercato del lavoro e una forte concertazione tra Parti Sociali . L’uscita dal mercato del lavoro è agevolata da una legislazione favorevole ai datori di lavoro. Proprio per questo i datori di lavoro hanno una limitata necessità di ricorrere a contratti a tempo determinato (9% nel 2006, contro il 14,4% della media UE). La partecipazione all’apprendimento permanente supera l’obiettivo UE (12,9%). FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Il modello flexicurity ha prodotto buone performance in Danimarca e Olanda soprattutto, non solo in termini di occupazione: il potere di acquisto dei lavoratori e la quota del lavoro sul reddito non è diminuito come in Italia, e anche la crescita economica è stato più sostenuta. Inoltre, durante periodi di crisi come quella attuale, il sistema generoso di welfare crea delle tutele e delle protezioni sociali e al reddito importanti. Tuttavia bisogna dire invece che nel contesto dell’attuale crisi stanno emergendo molteplici problemi sociali in Spagna e Irlanda, che secondo la Commissione erano giudicati due buoni esempi di flexicurity in Europa. L’Austria infine, avendo uno Stato sociale di partenza meglio funzionante con un livello di spesa e di efficienza maggiore, sta reggendo meglio nell’attuale contesto di crisi rispetto a Spagna e Irlanda. In altri paesi, quali in Svezia, Germania, Finlandia, Francia, in cui il modello flexicurity non è stato completamente introdotto, esistono tuttavia dei livelli di protezione sociale di partenza maggiori rispetto a quelli italiani. Questo determina che, nel momento in cui si inseriscono più elevati livelli di flessibilità, le garanzie per i lavoratori vengono comunque mantenute a livelli sufficienti, e comunque superiori a quelli italiani, e questo è evidente tanto dal punto di vista della quota sul reddito della spesa sociale e della spesa per le politiche del lavoro, quanto dal punto di vista della durata dei contributi sociali per lavoratore. Flexicurity in Italia: critiche e proposte di cambiamento In Italia il mancato raggiungimento di un modello flexicurity soddisfacente, che assicuri occupabilità e sicurezza allo stesso tempo, senza 79 80 Quaderni di ricerca sull’artigianato conseguenze negative sulla produttività, può essere ricondotto a due ordini di motivi: 1. da una parte il mancato raccordo tra politiche attive e politiche passive 2. dall’altro la scarsa concorrenza nel mercato dei beni. 1. Rispetto al primo punto, all’interno di un modello di flexicurity efficiente, sarebbe necessario che sostegno al reddito e programmi di reinserimento andassero di pari passo, al fine di rendere più efficace la spesa per le politiche passive e raggiungere più facilmente l’obiettivo che è quello di trovare un nuovo lavoro (o un primo lavoro) al disoccupato. A tal fine, le politiche del lavoro dovrebbero seguire dei semplici principi di efficienza: - la formazione del lavoratore dovrebbe essere mirata, ed orientata verso quei settori in cui le imprese decidono di investire e richiedono competenze; - i programmi di reinserimento del lavoratore dovrebbero prevedere una ricerca attiva del lavoro da parte del lavoratore e da parte delle Agenzia per l’Impiego, con dei meccanismi di incentivi e di sanzioni efficaci; - le autorità che sostengono il reddito del lavoratore disoccupato, nel nostro caso l’INPS, dovrebbero conoscere i programmi di reinserimento seguiti dal lavoratore e le sue eventuali rinunce/accettazioni di un nuovo lavoro; - le autorità che sostengono il reddito dovrebbero vigilare su eventuali lavori irregolari che durante il periodo di disoccupazione il lavoratore potrebbe illegalmente svolgere; FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA - i servizi per l’impiego e le relative politiche devono essere “tarati” alle realtà regionali al fine di evitare, ad esempio, che nel Mezzogiorno del Paese, affetto innanzitutto da problemi strutturali e da una insufficiente e debole capacità produttiva, le politiche siano le stesse a quelle del nord. Un sistema efficiente appropriato dovrebbe seguire grossomodo lo schema riportato di seguito. Fig. 3 - Raccordo politiche attive e politiche passive A tal fine, se è difficilmente pensabile che l’INPS o che i Centri per l’Impiego offrano contemporaneamente i servizi appena elencati, dovrebbe essere assolutamente necessario avere uffici di raccordo da parte delle due istituzioni. Al contrario, in Italia si osserva, in riferimento al lato delle politiche attive del lavoro, una certa frammentarietà e approssimazione nella somministrazione di quei servizi. La formazione è svolta molto spesso 81 82 Quaderni di ricerca sull’artigianato indipendentemente dalle esigenze delle imprese da parte di numerose agenzie, istituzioni e associazioni che comprendono le Regioni, il Fondo Sociale Europeo, le Agenzie al Lavoro, i Centri per l’Impiego, Associazioni legate al mondo sindacale, etc. Inoltre, non esistono programmi coordinati di reinserimento al lavoro che seguano il lavoratore nella ricerca attiva del lavoro e funzionino attraverso meccanismi efficaci di incentivi e sanzioni. Certamente tutto questo dipende anche da una struttura istituzionale che in Italia è tradizionalmente lacunosa, e che spesso fornisce opportunità per free-rider e rent-seeker che sono in grado di trasformare meccanismi legislativi e istituzioni sociali in vantaggi particolari, benefici personali e rendite di posizione. Una critica specifica va poi fatta ai Centri per l’Impiego (CPI) e alle Agenzie per il Lavoro. Attraverso di essi l’allocazione del lavoro sul mercato passa da Funzione Pubblica a Servizio Pubblico, in cui i vecchi Uffici di Collocamento vengono sostituiti da Centri Provinciali, i CPI appunto, e Agenzie private (le Agenzie per il Lavoro), con rischi di mancanza di competenze nel primo caso e di distorsioni di orientamento verso un “proprio business” nel secondo caso. Dopo quasi 10 anni di attività i CPI e le Agenzie per il Lavoro si sono rivelate scarsamente efficaci infatti nei loro obiettivi. Il livello di formazione, selezione, collocamento e orientamento che effettuano sembra ancora molto scarso. Il loro grado di adeguamento tecnologico ed informatico sul territorio nazionale è molto povero. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Tab. 3a - Centri per l’Impiego, 2008 CPI adeguati tecnologicamente Totale CPI Centro Nord 33% 315 Sud e Isole 7% 217 Totale 22% 532 Tab. 3b - Agenzie Per il Lavoro, 2008 Agenzie 83 Filiali 2600 Dipendenti 9500 Posti lavoro attivati 300 mila max Penetrazione 1% Fonte: Isfol 2008, Ebitemp 2009 I dati emessi da questi enti sono spesso molto frammentati e una visione completa è difficile da raggiungere. Non esiste una condivisione strutturale di informazioni e di dati con altri istituti quali INPS, INAIL e consulenti del Lavoro, ed infine l’incidenza in termini di posti di lavoro attivati per il loro tramite appare molto scarso, intorno all’1% nel caso delle Agenzie per il Lavoro e al 5% nel caso dei CPI in media in Italia. Una simile rappresentazione si ha esaminando dai rapporti ISFOL sui centri per l’impiego (Landi, 2008). I CPI idonei a soddisfare alcune condizioni minime di intervento del D.Lgs. 181/2000 sono circa il 77%, con una forte variabilità tra il Centro Nord e il Sud. Quando però le condizioni di valutazione si fanno più stringenti e vengono prese in considerazione contemporaneamente tutte le funzioni di intervento dei CPI (condizioni strutturali) quali formazione, 83 84 Quaderni di ricerca sull’artigianato selezione, allocazione e selezione, la gestione delle informazioni e la tempistica, le percentuali si riducono di molto, fino ad arrivare a un valore medio sul territorio nazionale pari a circa il 30% dei CPI idonei. Tab. 4 - Centri per l’Impiego adeguati alle condizioni previste dal D.Lgs 181/2001 CPI adeguati secondo le condizioni minime del D. Lgs 181/2000 CPI adeguati secondo le condizioni strutturali e temporali del D. Lgs 181/2000 Centro Nord 67% 45% Sud e Isole 33% 18% Totale Italia1 77% 34% Fonte: Landi, 2008 La tabella di seguito confronta la gestione delle politiche del lavoro e il relativo collegamento tra i centri dell’impiego e gli enti di sostegno al reddito in alcuni paesi europei. In questo modo emergono in modo evidente le lacune del sistema italiano e lo scarso collegamento tra CPI e INPS in particolare. 1 Per pura coincidenza la somma delle percentuali di questa colonna (67% Centro Nord e 33% Sud e Isole) è 100%. Le percentuali si riferiscono alle rispettive are territoriali. Il dato totale Italia (77%) si riferisce, di conseguenza, alla percentuale di CPI italiani adeguati sul totale dei CPI. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Francia In Francia la gestione delle politiche passive è attribuita alla ASSEDIC, ente di diritto privato, mentre la gestione delle politiche attive è attribuito all’ANPE. I due enti sono fortemente collegati e collaborano insieme nella gestione complessiva delle politiche del lavoro. In particolare il lavoratore disoccupato viene garantito attraverso un “Piano di aiuto per il ritorno al lavoro” personalizzato e condizionale rispetto al recepimento della prestazione sociale. La flessibilità e i contratti atipici sono entrati solo recentemente e con molta fatica. Esistono i contratti a tempo determinato (CDD) che possono essere rinnovati fino ad un massimo di 36 mesi, dopodiché, se l’impresa mantiene ancora il lavoratore è obbligata ad assumerlo con contratto a tempo indeterminato (CDI). Oltre alle indennità di disoccupazione esistono i sussidi di solidarietà elargiti a tutti coloro che non lavorano attraverso la fiscalità generale. Germania Anche in Germania, così come in Francia, ci sono state poche evoluzioni verso le forme contrattuali flessibili. Il sistema si regge sulla centralizzazione della ricerca e l’allocazione del lavoro attraverso l’Agenzia Federale del Lavoro, affiancata dal 2002 da agenzie del lavoro private. Forme di lavoro a tempo determinato, anche a brevissima durata, sono previste per particolari categorie professionali (hotel e ristoranti, marinai, allevamento e agricoltura). Inoltre le politiche attive del lavoro, formazione e programmi di ricerca per disoccupati, sono sostenuti da generosi sistemi di welfare, a regime di indennità di disoccupazione e con un sistema di reddito sociale, in stretta collaborazione con il Ministero del lavoro. Quest’ultimo si regge sulla fiscalità generale. Regno Unito Esistono dal 2002 i Jobcentre Plus costituiti con la missione di implementare e monitorare la strategia governativa Welfare to work. I Jobcentre Plus gestiscono sia le attività di ricerca e formazione, che di sostegno al reddito. Le politiche del mercato del lavoro si basano su un sistema di diverse forme contrattuali atipici e a tempo determinato affiancato da sussidi e sostegno al reddito abbastanza generosi ed efficaci in caso di disoccupazione Polonia Tab. 4 - Flexicurity e collegamenti tra politiche attive e politiche passive in Europa I Servizi pubblici, regionali, per l’impiego, sono affiancati da numerose agenzie di collocamento/consulenza/fornitura di lavoro, sia indeterminato che temporaneo. Il lavoro temporaneo è molto diffuso e poco regolato. Allo stesso tempo però è in vigore un forte sistema di sostegno al reddito gestito dai Centri regionali per l’impiego che condizionano l’indennità alla ricerca del lavoro, e può essere interrotto se il lavoratore rifiuta un’offerta di lavoro. 85 86 Ungheria In Ungheria esiste un sistema generoso di sostegno al reddito per i disoccupati. A questo si affianca un’indennità di incentivo per chi abbia beneficiato del sussidio di disoccupazione e sia ancora disoccupato dopo 180 giorni. I centri per l’impiego pubblico, che si articolano in nazionali, regionali/provinciali (19) e locali (173), gestiscono e monitorano questi sussidi, e allocano i lavoratori sul mercato del lavoro. Forme di lavoro Part-time e a tempo determinato sono particolarmente favorite e utilizzate per anziani, similmente al modello tedesco. Svezia Quaderni di ricerca sull’artigianato Il Governo Svedese si muove in modo convinto verso un modello di flexicurity che viene spesso riportato come “benchmark”, insieme al modello danese, nel contesto dell’UE. Questo modello si caratterizza per tre obiettivi principali: rendere sempre più conveniente lavorare (attraverso salari elevati), facilitare e rendere meno costoso, dal lato della domanda del lavoro, assumere lavoratori, e migliorare il matching tra domanda e offerta di lavoro. Questi tre obiettivi strategici sono sottoposti ad un obiettivo generale dello Stato Svedese, quello di raggiungere il pieno impiego. Obbiettivo al quale la Svezia è molto vicina. Tra le forme di lavoro atipiche molto utilizzate primeggia il part-time, soprattutto femminile. Le politiche passive del sostegno al reddito sono altrettanto efficaci e generosi, e condizionati ad una ricerca attiva del lavoro; il sistema è gestito attraverso Centri per l’impiego pubblico che risultano essere molto efficienti negli obiettivi stabiliti. Fonte: Marsala (2006) Da questa rassegna emergono due elementi importanti che caratterizzano un mercato del lavoro efficiente ed equo: 1) la stretta collaborazione tra enti che gestiscono funzioni di politiche attive e passive, che in alcuni sono gestiti dallo stesso ente (come in Inghilterra, in Svezia, in Danimarca, in Ungheria, ecc.); 2) la stretta connessione tra sussidio e ricerca attiva del lavoro, ovvero, il sussidio è condizionato alla ricerca attiva del lavoro e alla partecipazione in programmi di allocazione da parte del lavoratore, seguiti dai centri per l’impiego. Quest’ultimo elemento permette una ricerca efficace del lavoro e una allocazione efficiente e rapida del lavoratore sul mercato. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA D’altro canto va anche detto che la spesa totale, in Italia, per le politiche attive e passive, è molto bassa, e questo risulta ancora più grave se si considera il fatto che il tasso di disoccupazione italiano non è tra i più bassi in Europa. Come emerge dalla figura di seguito, l’Italia è uno degli ultimi tra i paesi europei che fanno parte dell’OCSE, per la spesa in politiche del lavoro, con circa l’1,4% del PIL speso, contro una spesa pari a più del 4% in Danimarca, e più del 3% in Belgio, Olanda e Germania e superiore al 2 % in Finlandia, Svezia, Francia e Spagna. Ancora minore risulta la spesa per le politiche attive, fino ad arrivare al paradosso che la somma delle politiche attive e passive in Italia (1,4%) e inferiore alla sola spesa danese in politiche attive (1,8%). In questo contesto, “la flessibilità all’italiana” diventa semplicemente insostenibile, per parafrasare un pensiero di Gallino (2003), sia da un punto di vista sociale ma che umano. Fig. 4 - Spesa Pubblica per le politiche del lavoro, in % del Pil, 2007 Fonte: OCSE – Employment outlook 2007 87 88 Quaderni di ricerca sull’artigianato 2. Rispetto al secondo punto ovvero la scarsa concorrenza nel mercato dei beni, addotta da noi come causa soprattutto per la scarsa dinamica della produttività, questo sembra essere giustificato da numerosi contributi teorici (Tronti, 2005; Tarantelli, 1995; Sylos Labini, 1999; Blanchard e Giavazzi, 2004) che in qualche modo si rifanno ad un’impostazione keynesiana o classica. In sostanza, quello che succede è che un mercato del lavoro fortemente flessibile, che permette di ridurre i costi del lavoro attraverso la pressione sui salari, accompagnato da un mercato dei beni protetto e scarsamente concorrenziale come quello italiano, incentiva le imprese a non innovare e a non investire, ma a godere comunque di vantaggi competitivi e di profitti crescenti attraverso la moderazione salariale. Contrariamente a quanto si era stabilito con l’accordo del luglio del 1993 dove, attraverso un scambio politico-sindacale, i sindacati avrebbero accettato una moderazione salariale in cambio di una politica dei redditi e di una forte strategia di investimenti produttivi in settori avanzati, si può dire che questo scambio non è avvenuto e gli investimenti produttivi non sono cresciuti (Tronti, 2005). Al contrario la moderazione salariale e la scarsa concorrenza nel settore dei beni ha permesso la crescita di rendite di posizioni e di profitti, e il mantenimento, almeno temporaneo, di posizioni comunque competitive da parte delle imprese. In Italia infatti sono numerosi i settori protetti, poco concorrenziali e soggetti a rendite di posizione, e vanno dalla vendita al dettaglio, protetta da regolamenti e tecnicismi legislativi alla distribuzione all’ingrosso, dominata da pochi grossi monopolisti; dal settore agricolo sussidiato oltremodo attraverso la Politica Agricola Comune, al settore FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA energetico, dominato da grandi imprese private che godono di vantaggi derivanti dal fatto di essere stati a lungo imprese pubbliche; dalle pochissime grandi imprese private che operano in settori strategici, quali le comunicazioni e i trasporti, alle imprese più esposte alla concorrenza internazionale e sussidiate per l’esportazione attraverso pressioni e lobbying spesso poco trasparenti. Tutto questo ovviamente avviene a scapito degli incrementi di produttività, i quali sono strozzati da una scarsa espansione della domanda aggregata, da un aumento dei prezzi sul costo del lavoro per unità di prodotto, e da una mancanza di investimenti soprattutto in settori tecnologicamente avanzati. Questo risultato è sostenuto anche teoricamente, laddove si assume che la produttività dipende dalla combinazione del cosiddetto effetto Smith (espansione della domanda, con riorganizzazione e divisione del lavoro) e dell’effetto Ricardo (investimenti che sostituiscono lavoro con capitale con specifici cambiamenti tecnologici). Attraverso questo approccio, si può osservare una relazione negativa tra produttività e flessibilità, ovvero la flessibilità del lavoro e la pressione sui salari possono risultare dannosi per la crescita della produttività. La seguente equazione, ripresa da Sylos Labini (1999), presenta le determinanti della produttività del lavoro secondo questo approccio: La variazione della produttività del lavoro (Δπ) dipende positivamente dalla variazione del prodotto (ΔY), dalla variazione degli investimenti (ΔI) e dalla differenze delle variabili in parentesi, dove P è l’indice dei prezzi, PMA i prezzi delle macchine e 89 90 Quaderni di ricerca sull’artigianato il CLUP è il costo del lavoro per unità di prodotto, ovvero il rapporto tra la variazione dei salari e il tasso di crescita della produttività. Se il CLUP cresce più dell’indice dei prezzi, le imprese, avendo un margine più basso di profitto, saranno costrette o a risparmiare lavoro, quindi aumenteranno gli investimenti labour saving, oppure a riorganizzare la manodopera all’interno dell’impresa. Così, se i salari crescono maggiormente rispetto ai prezzi dei macchinari le imprese preferiranno aumentare gli investimenti labour saving perché più convenienti rispetto a nuova manodopera, aumentando così la produttività. Il che d’altronde implica che se i salari non crescono adeguatamente rispetto ai prezzi delle macchine gli investimenti non vengono opportunamente stimolati, gli imprenditori andranno essenzialmente alla ricerca di rendite di posizione, e la competizione farà leva essenzialmente sulla moderazione salariale. Questo quadro rappresenta bene quello che è accaduto in Italia dal 1993 in poi (Tronti, 2005; Sylos Labini 2003; Tridico, 2009; Lucidi, 2006), in cui a fianco ad una modesta crescita dell’occupazione e ad una forte moderazione salariale, si è avuta una dinamica negativa e stagnante della produttività. Infatti, se per definizione: e se l, l’occupazione, aumenta e y, il Pil, non cresce, la stagnazione del Pil è da ricercare nella scarsa performance della produttività π. Tuttavia potrebbe anche essere il contrario: che poiché il Pil non cresce la produttività ristagna. In entrambi i casi c’è un problema di interazione negativa tra Pil e produttività legata all’effetto Smith. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Inoltre, ci sembra di poter dire che la flessibilità, anche laddove svolgesse un ruolo sull’aumento dell’occupazione, incidendo al margine sulla disoccupazione frizionale, questo ruolo sarebbe molto limitato in regioni, come il Mezzogiorno del paese, dove i principali problemi sembrano essere dal lato dell’offerta di beni piuttosto che dal lato della domanda del lavoro e dall’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Nel sud infatti la capacità delle imprese di assorbire manodopera, in particolare quella specializzata, è molto limitata per via di una capacità produttiva ridotta, di un prodotto poco differenziato e di una offerta produttiva inferiore, che negli anni passati, in particolare negli anni delle politiche pubbliche assistenziali, è stata fortemente compensata da una domanda di importazioni crescente dal nord verso il sud, che ha peggiorato la bilancia dei pagamenti delle regioni meridionali nei confronti di quelle settentrionali, che potremmo dire, hanno di gran lunga beneficiato, anche se indirettamente, delle politiche espansive nel sud. 91 92 Quaderni di ricerca sull’artigianato Fig. 5 – Tassi di occupazione in Italia per macro aree: Centro nord e Mezzogiorno Fonte: Ministero del Lavoro, 2009 In questo contesto sembra opportuno modificare la tradizionale visione triangolare (Flessibilità-PoliticheAttive-Welfare) che si ha di flexicurity, inserendo esplicitamente, come nella figura di seguito, una quarta dimensione nella struttura classica di quel modello, e cioè la necessità di un mercato dei beni concorrenziale come requisito FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA necessario e parallelo all’introduzione di flessibilità (tecnologica-produttiva) nel mercato del lavoro, affinché quest’ultima non risulti controproducente, o usando le parole di Sylos Labini et al (1998): When the labour market is too rigid there are troubles, but troubles of different kind can arise when flexibility is unlimited. Gli autori si riferiscono proprio alla scarsa dinamica della produttività strozzata da eccessi di flessibilità nel mercato del lavoro e eccessi di rigidità nel mercato dei beni. Fig. 6 - Il quadrilatero del nuovo modello Flexicurity Il collegamento, indicato dalle frecce tratteggiate nella figura 10 di sopra, deve seguire, nel caso del rapporto tra politiche attive e sicurezza sociale il raccordo suggerito nel modello della figura 6, tra sostegno al reddito e reinserimento nel mercato del lavoro. Invece, il collegamento tra flessibilità e concorrenza, sulla scia del modello di Sylos Labini appena presentato, deve essere all’insegna di un continuo investimento da parte delle imprese in settori produttivi avanzati, in cui prevalgano i normali profitti piuttosto che le rendite di posizione, che stimolino 93 94 Quaderni di ricerca sull’artigianato di conseguenza l’innovazione e la concorrenza, e aumentino la capacità produttiva e quindi la domanda aggregata. Le imprese che innovano, che si adeguano ai cambiamenti tecnologici e che differenziano il prodotto e i processi produttivi, in virtù della concorrenza internazionale e della globalizzazione, dovrebbero poter accedere a quote maggiori di lavoratori flessibili, più specializzati, meglio retribuiti, e garantiti da un sistema di ammortizzatori sociali moderni, efficaci e generosi, di stile appunto danese. Il tipo di flessibilità che si realizzerebbe sarebbe quindi una flessibilità “tecnologica-produttiva” che indurrebbe le imprese ad adattarsi ai cambiamenti tecnologici e a competere nel mercato internazionale, svincolate da rendite di posizione e concorrenza falsata. Le imprese che non innovano dovrebbero essere limitate nelle loro assunzioni di lavoratori flessibili, perche potrebbero utilizzare il lavoro flessibile unicamente come leva di competitività, sostituendo la riduzione dei costi del lavoro a maggiori innovazioni. In questo caso una modalità seppur approssimata per misurare la capacità di innovazione delle imprese potrebbe essere da una parte la verifica di introduzione di brevetti di processo e di prodotto provenienti dalle imprese e dall’altra la spesa in R&S delle stesse. In particolare in sede di contrattazione si può immaginare una negoziazione impresesindacato con lo stato da arbitro, che verifichi di volta in volta le innovazioni fatte dalle imprese e le esigenze di lavoro flessibile, per mansioni specializzati, in virtù dei cambiamenti tecnologici effettuati dalle stesse, al fine di facilitare e accompagnare i processi innovativi delle imprese. Una formazione continua è l’appendice necessaria, dal lato del lavoro, che completa questa FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA strategia. Conseguentemente, i risultati sarebbero vantaggiosi sia per le imprese che otterrebbero maggiori guadagni in produttività e sia per i lavoratori flessibili, che otterrebbero maggiori salari. La posizione dell’Italia è debole in entrambi i collegamenti esposti nella figura 10. La valutazione che la Commissione Europea ha fatto rispetto ai progressi italiani nella dimensione delle liberalizzazioni e della concorrenza è negativa (Commissione Europea, 2003; Rapporto Kok, 2004). Inoltre, le valutazioni annuali del CER, la cosiddetta Lisbon Scorecard, vedono l’Italia continuamente nelle posizioni più basse della classifica2 riferita alla concorrenza nei servizi generali, e nei settori dell’Energia, delle Telecomunicazioni, dei Trasporti, e dei Servizi finanziari (Murray e Wanlin, 2005; Tilford e Whyte, 2009). Quanto al collegamento tra politiche attive e passive, si registra in Italia, oltre che un insufficiente investimento in politiche attive, uno scarso utilizzo delle politiche stesse e del loro ruolo di attività formative interne ed esterne alle imprese, laddove invece, il ruolo di tali attività risulta cruciale nel determinare il continuo aggiornamento dei lavoratori necessario per il funzionamento virtuoso del modello di flexicurity, e per il loro reinserimento nel caso venissero espulsi a causa della flessibilità. Inoltre in Italia la gran parte degli investimenti in attività formative è destinata ai lavoratori più qualificati, mentre risorse molto limitate sono rivolte a quelli meno qualificati. Nel confronto con gli altri paesi europei emerge fortemente la posizione di fanalino di coda dell’Italia anche in questa dimensione. 2 Nella sua valutazione globale e sintetica il CER giudica l’Italia continuamente nella posizione di “Villain” rispetto ai progressi effettuati verso gli obiettivi di Lisbona e in particolare nelle dimensioni di concorrenza e liberalizzazione, mentre paesi quali la Svezia e la Danimarca riportano il giudizio globale e sintetico di “Heros”. 95 96 Quaderni di ricerca sull’artigianato Tab. 5 - % di lavoratori che partecipano in programmi lifelong learning Svezia 32,1 Olanda 15,6 Danimarca 29,2 Slovenia 15,0 Regno Unito 26,6 Spagna 10,4 Islanda 25,7 Francia 7.5 Finlandia 23,1 Italia 6,1 Norvegia 18,7 Fonte: Eurostat, 2007 Anche a proposito del limitato ruolo delle politiche di formazione sul posto di lavoro si conferma il ruolo svolto dalla specifica specializzazione produttiva italiana; i lavoratori delle piccole e medie imprese, come evidenzia la tabella di seguito, dominanti in Italia per quota occupazionale, e specializzate, generalmente, in settori tradizionali, partecipano a corsi di formazione in misura ampiamente minore rispetto agli occupati delle grandi imprese. La minor offerta di attività formative da parte delle piccole e medie imprese dipende presumibilmente sia dal fatto che queste hanno a disposizione limitate risorse finanziarie per organizzarli, sia dal fatto che le mansioni richieste ai lavoratori necessitano in scarsa misura di lunghi processi di apprendimento esterno (Excelsior 2008). Non va infine trascurato che l’accresciuto peso delle forme contrattuali temporanee può contribuire a ridurre sensibilmente gli incentivi per i datori di lavoro di investire in attività formative. In effetti gli imprenditori fanno investimento in formazione del proprio capitale umano se sono sicuri di tenere per un periodo sufficientemente lungo i lavoratori. Da questo punto di vista l’incremento della flessibilità non sembra essersi FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA finora accompagnato ad un contestuale incremento dell’offerta di politiche attive e formative proprio per quei lavoratori che maggiormente risentono dell’accresciuta instabilità delle relazioni lavorative. Un mercato dei beni non concorrenziale ostacola anche i processi di accumulazione di capitale umano e di formazione continua, poiché se, a causa di un costo del lavoro basso, non funziona l’effetto Ricardo citato prima e non si fanno pertanto investimenti tecnologicamente avanzati, i lavoratori formati non verranno assunti, con conseguenze negative sulla disoccupazione dei lavoratori specializzati e dei laureati, oppure verranno assunti per mansioni di rango e specializzazione inferiori rispetto alle loro competenze. Nel sud del paese, l’effetto Ricardo non sembra funzionare affatto, l’offerta produttiva e la capacità delle imprese è inferiore ed è labour intensive, questo fenomeno porta ad una fuga dei cervelli dei laureati verso il nord, o ad un’occupazione di laureati in settori inferiori alle loro competenze, con contratti per la maggior parte atipici e flessibili (Excelsior 2008). La situazione attuale in Italia: tra crisi economica e mancanza di protezione sociale L’attuale crisi mette evidenzia le debolezze del sistema degli ammortizzatori sociali italiani. Come abbiamo visto, il sistema di ammortizzatori in Italia appare insufficiente, frammentato e poco efficiente. L’assenza di un sistema automatico e anticiclico di ammortizzatori riduce ancor più il potere di acquisto delle famiglie, con effetti ancora maggiori sul crollo della domanda aggregata. Da un punto di vista strettamente sociale questo aumenta i conflitti tra insider e outsider. 97 98 Quaderni di ricerca sull’artigianato Questo problema va ben oltre il problema di natura economica e occupazionale e riguarda anche la sfera della coesione sociale.3 Il tema occupa grande rilevanza anche tra i giuristi e giuslavoristi, i quali mettono soprattutto in rilievo come, nel nuovo contesto di flessibilità e globalizzazione, cambiano le relazioni industriali: i contratti collettivi cedono il passo alla contrattazione di secondo livello o alla contrattazione individuale, e in un certo senso il potere dei sindacati viene ridotto. Il rischio è che la segmentazione del lavoro si acuisca e i conflitti sociali e tra lavoratori aumentino. Una soluzione prospettata è quella di rafforzare a livello europeo o internazionale il diritto individuale del lavoratore attraverso “Carta europea dei diritti fondamentali del lavoratore” (Treu, 2001). Le necessità di una riforma sono dunque palesi, e sono rafforzate soprattutto dall’evidenza empirica che mostra una serie di disparità e squilibri retributivi e assistenziali tra i beneficiari. In particolare è possibile individuare due tipi di conflitto, (1) quello tra insider rispetto allo status di occupato e (2) quello tra outsider rispetto allo status di disoccupato. Problemi del resto già affrontati in letteratura (Lindbeck e Snower, 1988). Il Ministero del Welfare stima che tra il 2009 e il 2010 il tasso di disoccupazione aumenterà 3 A questo proposito è utile ricordare che la “Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale”, presieduta dal Prof. Onofri e istituita dal Presidente del Consiglio Romano Prodi nel 1996, ritenendo quanto mai opportuno un approccio interdisciplinare, affidasse l’analisi delle politiche del lavoro ad un economista (Gianni Geroldi) e ad un sociologo (Massimo Paci) i quali hanno affrontato i problemi degli ammortizzatori sociali con riferimento a modelli più flessibili di gestione e regolazione del mercato del lavoro ormai presenti e operanti in Europa. Tuttavia il lavoro di tale commissione non è mai stato concretizzato da una riforma legislativa adeguata e completa. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA di circa 2 punti percentuali. Questo significherebbe, secondo le nostre stime, un aumento di circa 10 miliardi di € per coprire tutti i disoccupati. Nell’attuale sistema di ammortizzatori sociali invece, al netto delle deroghe, rimangono fuori dal sistema di protezione al reddito una grande fetta di lavoratori che, inquadrati con contratti atipici (interinali, a progetto, occasionali, Job sharing, intermittenti, temporanei, etc.) potrebbero non essere riusciti a maturare i requisiti per l’indennità di disoccupazione. L’accordo Stato-Regioni del Febbraio 2009 cerca di limitare i danni sociali di questa mancata copertura e mette a disposizione, in uno sforzo congiunto Stato-Regioni, 8 miliardi di Euro per il biennio 2009-2010 per coprire il costo degli ammortizzatori sociali in deroga per disoccupati che altrimenti non risulterebbero beneficiari. Per questo intervento sono state utilizzate, nella gran parte, le risorse del Fondo Sociale Europeo (FSE) destinate alle Regioni delle aree svantaggiate, e in misura minore le risorse nazionali. Al fine di far quadrare i conti alla fine le Regioni sono state dispensate dall’osservare il patto di stabilità interno, in modo da poter sopperire alle criticità aperte dalle mancate risorse del FSE.4 Misurare il tasso di copertura degli ammortizzatori sociali è una cosa alquanto complessa. 4 Cf. www.pattocontrolacrisi.it Portale Regione Emilia Romagna. L’accordo i questione rappresenta un compromesso appena sufficiente per tutelare il reddito nei periodi recessivi. Inoltre esso si configura come un accordo che in parte sopperisce alle lacune del mercato del lavoro italiano in tema di flexicurity in quanto attraverso questo accordo si devolvono alle regioni molte funzioni di controllo e monitoraggio dei sussidi elargiti ma anche di gestione dei programmi di riallocazione del lavoro, condizionati al sussidio. Tuttavia è un accordo estemporaneo che nasce in un periodo di emergenza e non rappresenta una soluzione definitiva ai problemi del mercato del lavoro italiano, che si ripresenteranno non appena l’accordo in deroga avrà esaurito le sue funzioni, alla fine del 2010. 99 100 Quaderni di ricerca sull’artigianato Da una parte non tutti i disoccupati accedono agli ammortizzatori; dall’altro, paradossalmente accedono alcune categorie che sono disoccupate solo temporaneamente per via dell’indennità con requisiti ridotti. Infine possono accedere i disoccupati che sono tali solo al fine di prendere l’integrazione di disoccupazione, come avviene nei settori speciali dell’edilizia o dell’agricoltura. L’assenza di un reddito sociale o di un contributo per la disoccupazione ai disoccupati in quanto tali non è previsto nell’ordinamento italiano. Rimangono quindi fuori dal sistema di ammortizzatori sociali: - i giovani in cerca di prima occupazione - le persone che vorrebbero rientrare nel mercato del lavoro dopo un periodo di inattività - i disoccupati di lunga durata - coloro che hanno concluso il rapporto di lavoro dimettendosi - coloro che hanno concluso il rapporto di lavoro volontariamente - inoltre, rimangono fuori una serie di lavoratori atipici che non hanno maturato i requisiti per il contributo della disoccupazione. L’incidenza del lavoro atipico, o secondo un’espressione spesso usata dai sindacati, l’area dell’instabilità o della precarietà comprende una popolazione lavorativa di circa 3.418.000 ed è descritta dalla tabella di seguito. Essa annovera tutti i lavoratori con contratti a tempo determinato, collaboratori, a progetto, e l’insieme di ex dipendenti a termine ed ex autonomi disoccupati da meno di un anno. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Tab. 6 – L’area dell’instabilità in Italia 2008 Categorie atipiche In migliaia % sul totale degli occupati Temporanei 2269 9.8 Coadiuvanti in imprese familiari 421 1.8 Soci di cooperative 48 0.2 Collaboratori coordinati 392 1.7 Prestatori d’opera occasionali 98 0.4 Altri (ex cococo, ex partita iva) 190 0.8 Totale 3228 14.5 Fonte: proprie elaborazioni su fonti Banca d’Italia 2009, IRES 2009, Istat 2008 Alla luce di questo possiamo dire che nell’attuale scenario di crisi, i costi del mercato del lavoro sono enormi e possono essere riassunti nella tabella seguente, in cui appaiono i costi immediatamente visibili della crisi individuati dalla recessione del PIL e dal calo degli occupati con il contemporaneo aumento della disoccupazione, e quelli poco visibili e che sfuggono alle statistiche sulla tensione del mercato del lavoro (occupazione e disoccupazione) e che si riferiscono alla cassa integrazione, che in effetti non interrompe il rapporto di lavoro ma opera in sospensione di esso. 101 102 Quaderni di ricerca sull’artigianato Tab. 7 - Costi visibili (disoccupazione) e poco visibili (c. integrazione) dell’attuale crisi 2007 PIL Variaz. % 1,6 2008 -1 2009 2010 -5,2 0,1-0,6 media delle previsioni Forze di Lavoro 24.728 25.099 25.174 in migliaia 25.238 Occupati in migliaia 23.222 23.245 22.897 22.690 Disoccupati in migliaia e % 1.506 1.854 (6.1%) (7.3%) 2.295 (9.1%) 2.547 (10.1%) 2.277 (9%) Cassa integrazione (variazione % delle ore concesse rispetto all’anno precedente) -47% +27% +109% Ore Cig + Cigs (val assoluti) 148 mln ore (tot. 2007) 188 mln ore (tot. 2007) 480 mln ore (tot 2009) Fonte: propria elaborazione su dati ISTAT, 2009; IRES, 2009; Commissione Europea, 2008; OCSE, 2009; INPS, 2009; FMI, 2009. L’elevata precarietà del mercato del lavoro italiano è evidenziata dalla seguente tabella che mette in luce come, in un periodo di crisi, l’attuale sistema di ammortizzatori sociali sia poco idoneo a tutelare FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA tutti i disoccupati, ed in particolare coloro che fanno parte di quell’area di instabilità occupazionale a cui fa riferimento la tabella 11. Tab. 8 - Sussidi di disoccupazione al netto di deroghe 2009 Disoccupati con sussidi (val. assoluti) Beneficiari sussidi in % Spesa per sussidi € Disoccupati senza sussidi (val. assoluti) Disoccupati senza sussidi (in %) 605.682 27 2.100.868.585 1.672.000 73 Fonte: Proprie elaborazioni su dati ISTAT Il ricorso alla Cassa Integrazione (totale), infine, è un altro modo di mettere in luce la magnitudine dell’attuale crisi. Nel gennaio 2009 il totale delle ore di cassa integrazione ordinaria e straordinaria ammontava a circa 27 milioni e saliva a 42 milioni di ore concesse già a Febbraio 2009, con un maggiore uso ovviamente tra le grandi imprese dell’industria (Ministero del Lavoro, 2009). L’utilizzo della Cassa integrazione è in forte aumento dal mese di agosto 2008, e mostra un forte incremento nel mese di novembre, con circa 50 ore di cig per mille ore lavorate. Nel complesso le ore autorizzate di cassa integrazione guadagni registrano un aumento del +109% a gennaio 2009 rispetto a gennaio 2008, aumento dovuto principalmente alla cassa integrazione ordinaria, dove l’aumento è stato del +209,3%. Gli incrementi maggiori si registrano nel Nord-Ovest, come è naturale che sia visto la maggior concentrazione in quell’aria di imprese che hanno i requisiti per poter accedere. Di 103 104 Quaderni di ricerca sull’artigianato conseguenza, nell’altre aree del paese il minor utilizzo della cig non è da attribuire ad un quadro più positivo ma ad una impossibilità delle imprese, e quindi alla struttura produttiva in generale di quelle aree, di poter accedere a questo tipo di strumenti sociali. In queste aree è in forte calo però, come del resto anche nelle aree che già ampiamente utilizzano la cig, l’incidenza del lavoro straordinario rispetto alle ore ordinarie di lavoro. Conclusioni Il lavoro appena esposto mette in luce le debolezze del sistema economico italiano in riferimento al mercato del lavoro. Queste debolezze emergono con maggior forza nel contesto dell’attuale crisi, che colpisce soprattutto i nuovi disoccupati e privi di reddito di sostegno, a causa di un’articolazione complessa, disordinata e limitata del sistema di ammortizzatori sociali. Nel saggio vengono individuate due ragioni principali che impediscono il raggiungimento di un modello che possa conciliare, in linea con i modelli migliori di alcuni paesi del Nord Europa (in particolare Danimarca e Olanda), sicurezza del lavoro ed esigenze di flessibilità legate alla necessità tecnologica-produttiva delle imprese (la sola che giustificherebbe, a nostro avviso, l’utilizzo di lavoro flessibile). Queste due ragioni sono: 1. un mercato dei beni troppo rigido, associato contemporaneamente ad un mercato del lavoro flessibile che diventa molto spesso la sola leva di pressione per aumentare la competitività di imprese che altrimenti sarebbero fuori dal mercato; 2. l’altra ragione è il mancato raccordo tra le politiche attive e le politiche passive di sostegno al reddito, in cui quest’ultime appaiono fortemente insufficienti. FLESSIBILITA’, SICUREZZA E AMMORTIZZATORI SOCIALI IN ITALIA Una riforma del mercato del lavoro dovrebbe innanzitutto risolvere questi due macro problemi e seguire, in attuazione di un eventuale modello di flexicurity, lo schema proposto in questo lavoro con la precedente figura 6. In particolare rispetto al primo problema, si devono eliminare le rigidità all’interno del mercato dei beni, al fine di favorire la concorrenza tra le imprese e al fine di impedire che la loro competizione faccia leva esclusivamente sui costi di lavoro e sul risparmio che il lavoro flessibile consentirebbe. In un mercato dei beni più concorrenziale e meno legato a rendite e posizioni dominanti le imprese sarebbero maggiormente incentivate a investire in produzioni tecnologicamente più avanzate e ad utilizzare lavoro qualificato, stimolando inoltre la leva della formazione continua dei lavoratori, con effetti positivi sia sulla produttività del lavoro che sui salari dei lavoratori. In questo contesto, come abbiamo prima argomentato, si può realizzare un tipo di flessibilità “tecnologicaproduttiva” che permetterebbe alle imprese di negoziare, in sede di contrattazione con i sindacati e lo Stato, quote di lavoro flessibile, a patto che siano utilizzate per tipi di lavoro high-skilled, al fine di facilitare e accompagnare i processi innovativi delle imprese. Le imprese che non innovano dovrebbero essere limitate o escluse nelle loro assunzioni di lavoratori flessibili, perche potrebbero utilizzarli unicamente come leva di competitività, sostituendo la riduzione dei costi del lavoro a maggiori innovazioni. Rispetto al secondo punto, abbiamo verificato che il sistema di politiche attive è molto frammentato, poco utilizzato, e scarsamente integrato tra le diverse autorità preposte. In particolare, come abbiamo visto, i CPI e le Agenzie per il Lavoro hanno una incidenza molto bassa in termini di allocazione, attraverso i loro 105 106 Quaderni di ricerca sull’artigianato servizi, di lavoro sul mercato. Al di la delle seppur frequenti distorsioni che fanno divergere questi enti verso la ricerca di un “proprio business” con impiegati e dirigenti creati ad hoc piuttosto che verso la creazione di istituti di intermediazione con forte incidenza nel mercato del lavoro, come avviene in altri paesi europei, sembra comunque che molti CPI e Agenzie per il lavoro non siano idonei secondo il D. Lgs 181/2000, e preparati in termini tecnologici e perfino in termini di competenze, a svolgere un lavoro di selezione, allocazione, formazione e orientamento sul mercato del lavoro. Inoltre esse sono lacunose in termini di creazione di banche dati e condivisione delle stesse con altre autorità del mercato del lavoro (Ministero del Lavoro, Ispettorati al lavoro, Inps, Inail ecc). Allo stesso tempo la spesa per politiche passive risulta insufficiente e non adeguata al mutato scenario del mercato del lavoro oggi più flessibile. Si dovrebbe quindi aumentare la spesa per le politiche del mercato del lavoro di almeno 1 punto percentuale sul Pil, attualmente intorno all’1,4%, convergendo verso quella che è la media dell’UE, pari al 2,5%. All’interno di tale spesa dovrebbe essere aumentato il sostegno al reddito, pari in Italia allo 0.8% del Pil contro una media dell’UE pari all’1,5%, semplificando l’accesso e garantendo a coloro che oggi sono esclusi ma disoccupati, di poter accedere ad un reddito di disoccupazione tra un lavoro e un altro. 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La nuova sfida “della complessità” economica e territoriale Le profonde trasformazioni che hanno interessato l’organizzazione economica nel corso degli ultimi decenni hanno riproposto all’attenzione generale modelli organizzativi troppo frettolosamente consegnati alla storia durante il lungo periodo di sviluppo industriale che ha caratterizzato il nostro Paese dalla fine del secondo conflitto mondiale. In questo contesto va inquadrata la tendenza ad una rivisitazione del ruolo dell’artigianato nel nuovo modo di produrre imposto dall’innovazione tecnologica e dalla globalizzazione dei mercati . Ci si chiede, in particolare, se il settore vada considerato ancora come un segmento residuale di quella fase definita comunemente come pre-industriale o piuttosto rappresenta anch’esso una componente strategica del nuovo modo di essere dello sviluppo economico e territoriale. Un primo dato incontestabile sta nel fatto che l’artigianato, pur rappresentando il risultato di una particolare combinazione di fattori economici e sociali fortemente radicati nei contesti locali, è stato interessato dall’imperversante rivoluzione tecnologica della fine del secolo scorso che ha rimesso in discussione la sua sopravvivenza e la sua organizzazione. Il problema sta piuttosto nel comprendere qual’é e quale può essere il ruolo del 113 114 Quaderni di ricerca sull’artigianato settore nella nuova divisione sociale del lavoro che ormai si basa su quella “specializzazione flessibile” che ha riproposto nel corso degli ultimi trent’anni un modo di produrre alternativo, basato sulla piccola dimensione aziendale e su un alta specializzazione del lavoro e della produzione. Questa rivoluzione nel modo di produrre ha portato all’affermazione di una serie di sistemi locali nei quali le interrelazioni tra condizioni economiche, sociali e territoriali hanno svolto un ruolo determinante certamente non replicabile nelle asettiche grandi zone industriali del modello taylorista che ha imperversato nella seconda metà del secolo scorso. E qui il discorso non può non interessare in maniera specifica le grandi città storiche dove le botteghe artigiane hanno resistito, spesso con grande dignità, alla forza d’urto portata sul piano culturale dal processo d’industrializzazione che, è bene ricordare, ha teso a coniugare in tutto il mondo occidentale la grande dimensione manifatturiera con la grande dimensione urbana. Entrato in crisi tale modello di sviluppo economico – territoriale, la città è stata investita da un processo di irreversibile deindustrializzazione che in molti casi ha segnato in maniera profonda gli assetti funzionali ed ha attivato pericolosi processi di esclusione sociale, così come è testimoniato dall’esplosione dei tassi di emigrazione giovanile, della disoccupazione operaia, della informalizzazione del lavoro. La reazione del settore artigianale a tale processi ha assunto caratteri diversi in funzione delle sue specificità strutturali ed organizzative. Le attività più direttamente collegate alla grande industria hanno in molti casi assecondato il processo di delocalizzazione in direzione di nuove aree attrezzate, assumendo ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI anch’esse talvolta una nuova dimensione aziendale (vedi le esperienze, per esempio, di Lione, Roubaix o Sheffield). Invece l’artigianato artistico, di servizio e di mercato hanno conservato la loro localizzazione urbana, in quanto meno colpite da quel complesso di diseconomie ambientali ( innanzitutto la disponibilità di spazi liberi) che affliggono sempre più le grandi metropoli. Piuttosto la progressiva terziarizzazione dell’economia urbana si è tradotta in un incentivo per il settore in quanto si è venuto definendo un nuovo mercato urbano nel quale la piccola produzione tradizionale e di qualità è apparsa vincente per due diversi motivi. Il primo è rappresentato dalla crescente attenzione che è dedicata in tutte le maggiori città al recupero dei centri storici in chiave turistica, il che sollecita il settore ad un ammodernamento strutturale in funzione della nuova tipologia dei clienti ed, indirettamente, crea o amplia il mercato, sollecitando in molti casi l’innovazione di prodotto, intesa come riproposizione di antiche lavorazioni sul viale del tramonto in una versione di tipo innovativo. Il secondo si ritrova negli stili di vita che si accompagnano alla terziarizzazione del mondo del lavoro e che si concretizzano in una costante emancipazione del consumatore e delle sue capacità critiche e valutative, con il conseguente rifiuto della qualità poco curata e di una tendenziale personalizzazione della domanda. Tali cambiamenti, indotti dal benessere economico e dalla crescita culturale dei consumatori, richiedono una forte flessibilità nell’offerta che solo di produzioni in piccole serie, ma elaborate in ambienti ad alta tecnologia, possono garantire. In questa nuova realtà le preesistenze artigianali, con il loro irripetibile patrimonio costituito soprattutto da storie ed 115 116 Quaderni di ricerca sull’artigianato esperienze umane, possono candidarsi ad un ruolo di protagoniste nello sviluppo delle economie urbane. L’affermazione di tale tendenza, che la ricerca empirica testimonia con crescente convinzione, capovolge in sostanza il paradigma della produzione in quanto i settori considerati trainanti nel modello tradizionale diventano marginali, mentre quelli che erano subordinati assumono un nuovo ruolo strategico nell’organizzazione degli spazi urbani. Questo rovesciamento dei ruoli è apparso spesso alquanto sconcertante per gli stessi protagonisti e per i “pianificatori” dello sviluppo, al punto che di fronte all’evidenza sono stati indotti a considerarlo del tutto occasionale e quindi non portatore di una forza destabilizzante degli equilibri consolidati nel tempo. Al massimo il problema è stato collocato all’interno del riordino funzionale degli spazi metropolitani, ovvero in termini di razionalizzazione del rapporto produzione – territorio. Certo l’ipotesi dello spostamento all’esterno degli spazi centrali della città di alcune lavorazioni non compatibili dal punto di vista ambientale o per specifiche esigenze di spazi conserva una sua oggettiva validità; ma con riferimento a tutti gli altri comparti il problema va piuttosto collocato all’interno di quella “sfida della complessità” che risulta inevitabile per chi è impegnato nel ridisegno funzionale delle città post-industriali. Napoli appare in sostanza assimilabile alla città che Jonathan Raban descrive nel suo celebre Soft City “ come “un teatro, una serie di palcoscenici in cui gli individui possono creare la loro magia (creatività) personale assumendo diversi ruoli”. Un luogo dove realtà e immaginazione semplicemente devono fondersi; un luogo, cioè, dove lo sviluppo economico, l’inclusione sociale e l’organizzazione del territorio concorrono in ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI uno stretto intreccio di interrelazioni a ridisegnarne continuamente l’immagine ed il suo futuro. 2. Il Centro Storico : un territorio “in transizione” Le ambiguità e le contraddizioni sedimentate nella sua storia millenaria fanno del Centro Storico di Napoli un terreno di osservazione privilegiato per approfondire il complesso rapporto che lega le politiche urbane a quelle dello sviluppo economico nelle grandi metropoli che faticosamente vanno alla ricerca di una loro riconfigurazione funzionale di tipo post-industriale. L’elemento di novità che induce a superare perplessità e diffidenze a lungo metabolizzate nella coscienza collettiva è offerto dall’affievolirsi di un atavico pregiudizio consistente nel far coincidere l’immagine del centro storico con il degrado economico e la marginalità sociale. Se le precarie condizioni di vivibilità restano un dato inconfutabile che non può dissolversi da solo, è pur vero che ormai anche nei segmenti più scettici e demotivati dell’opinione pubblica si è fatta strada la consapevolezza del ruolo strategico che il grande patrimonio artistico e culturale del cuore della città può giocare nel riassetto economico e funzionale dello spazio urbano, in particolare in direzione di una moderna terziarizzazione che ha il suo fulcro indiscutibile nel “ritorno” dei turisti nel capoluogo campano. E’ questo il risultato di un processo lento ma ormai consolidato dovuto, pur tra luci ed ombre, tra accelerazioni e gravi ritardi, ad un complessivo investimento della società locale (ed anche delle istituzioni) sul piano dell’immagine. Il problema sta nell’assecondare tale dinamica anche sul piano di un generale riordino dello spazio urbano, in primis del suo Centro Storico. Esso va inteso come quella parte 117 118 Quaderni di ricerca sull’artigianato della città che si è formata fino all’Età preindustriale e che può farsi coincidere – in buona approssimazione – con ciò che resta dell’insediamento rappresentato nelle carte del Regio Officio Topografico del 1853; in termino attuali si tratta del più vasto Centro Storico europeo con i suoi 7200 ettari, poco meno di 8000 edifici, circa 90.000 alloggi e circa 230.000 residenti. Su un altro piano il caso Napoli rappresenta anche una significativa testimonianza di una città “in transizione” tra un modello economico - territoriale incardinato sull’industria manifatturiera ed uno di tipo post-fordista. La crisi industriale della fine del secolo scorso, concretizzatesi nel dimezzamento delle unità locali e dei posti di lavoro si è saldata in uno stretto intreccio di causa ed effetto all’altrettanto vistosa crisi urbana, misurata da un peggioramento della qualità della vita e da una crescente dipendenza dall’esterno con riferimento ai servizi a maggiore valore aggiunto. La città, ancora una volta nella propria storia, si ritrova di fronte ad una pluralità di percorsi possibili che, talvolta, sembrano favorirne l’integrazione ed il dialogo con la parte più dinamica e moderna dell’Europa, e, talaltra, la spingono verso un ulteriore accentuazione della marginalità economica e sociale. La sua “ambiguità” sta nel fatto che mentre ha recepito con tempestività gli aspetti negativi della nuova complessità urbana stenta a mettere “ a profitto” le sue potenzialità materiali ed immateriali. Dal piano strategico a quello organizzativo il passaggio è estremamente impegnativo in quanto chiama in causa volontà e capacità che nel caso specifico dell’artigianato devono fare i conti con la nuova “rivoluzione tecnologica” e con i profondi mutamenti della domanda e dei mercati. Sta di fatto che la tradizionale figura dell’artigiano ricurvo sul banco ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI di lavoro ad esprimere la sua creatività, circondato da giovani apprendisti, è stata da tempo consegnata alla storia della città; qualche antica bottega dove si respira ancore l’atmosfera dei mestieri tradizionali si configura ormai come un semplice ed accattivante strumento di marketing turistico e non più come una vera e propria attività produttiva con la sua tradizionale dignità sociale. Molto più spesso negli stessi locali che hanno ospitato i maestri artigiani si ritrovano i mille mestieri della sopravvivenza napoletana: in alcuni casi si tratta di un’evoluzione fisiologica che riesce a canalizzare verso nuove produzioni competenze ed esperienze consolidate nella cultura locale del lavoro, mentre in altri acquistano piuttosto i contorni dell’informalità, della precarietà e dell’illegalità, il che accentua – piuttosto che ricomporre – la marginalità economica e l’esclusione sociale. A determinare tale trasformazione ha contribuito senza dubbio il vistoso processo di ricambio sociale che ha interessato il nucleo centrale della città dove un nuovo ceto si è sostituito all’antica comunità nobiliare la quale appariva molto attenta ed interessata a quelle lavorazioni artistiche che soddisfacevano la loro curiosità e davano lustro ornamentale ai loro salotti. Di conseguenza l’artigianato locale si è ritrovato in difficoltà ed ha dovuto adattarsi ad una nuova domanda più attenta alla presentazione ed all’immagine del prodotto piuttosto che ai suoi effettivi contenuti artistici. I risultati di tali cambiamenti sono individuabili nel progressivo distacco della funzione commerciale da quella della produzione, nel senso che i nuovi artigiani trovano più conveniente lavorare su commessa dei commercianti i quali garantiscono una discreta regolarità negli ordinativi in cambio di una progressiva standardizzazione dei prodotti. 119 120 Quaderni di ricerca sull’artigianato Il nuovo modo di produrre e le nuove tendenze nella domanda propongono nei fatti un ripensamento dell’antico legame tra Centro Storico ed il comparto artigianale che si manifesta in alcuni casi in forme di delocalizzazione di intere attività o fasi produttive nella periferia metropolitana, conservando nei quartieri centrali un punto di vendita: è questo il caso soprattutto dei settori collegati all’edilizia o alla lavorazione del legno. All’estremo opposto si ritrovano piccole e piccolissime botteghe che di fronte ai cambiamenti preferiscono mimetizzarsi nel variegato pianeta dell’informale che sopravvive grazie a tutta una serie di accorgimenti sovente ai limiti della legalità. Queste linee di tendenza nei fatti ci riportano all’interrogativo di fondo rappresentato dal rapporto che deve e può ancora avere l’artigianato con il centro storico della città. In altri termini si tratta di capire quali politiche di settore e di area vanno definite in questa direzione: recuperare le produzioni tradizionali o piuttosto assecondare il cambiamento in atto; incentivare la delocalizzazione dell’intero settore o solo dell’artigianato di produzione ; finalizzare le produzioni al mercato locale o incentivare un’apertura che guarda d una scala più ampia anche di quella regionale. Più in generale considerare o meno il settore come un caposaldo economico produttivo per un rilancio possibile dell’intera area. 3. I dati strutturali e gianato locale L’esigenza di convincente ai grossi dalla diffusa presa di e del consolidamento comportamentali dell’artioffrire qualche risposta interrogativi proposti nasce coscienze della consistenza di alcune dinamiche che in ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI maniera del tutto spontaneo stanno modificando i rapporti di forza tra le diverse sezioni del territorio napoletano. Innanzitutto va segnalato che nel corso degli ultimi 40 anni il centro storico ha perso circa il 60% della popolazione residente ed ha visto modificarsi in maniera radicale la sua struttura sociale, grazie ad un significativo invecchiamento del patrimonio demografico ; con riferimento alle attività produttive va ricordato che il centro storico ha sofferto nell’ultimo ventennio una progressiva destrutturazione del suo sistema manifatturiero con una perdita di oltre il 50% della sua forza lavoro. In parallelo nello stesso periodo è venuto sempre più affermandosi un secondo circuito dell’economia, di tipo informale, che talvolta si pone come un comparto rifugio per gli esclusi dall’economia ufficiale e, talaltra, rappresenta l’avamposto di attività che si posizionano ai limiti (ed anche oltre) della legalità, ovvero in quella “zona grigia” che falsa le regole del mercato e determina un impoverimento generale dell’economia urbana. L’artigianato nel centro storico - 2010 La prima difficoltà in cui ci si imbatte quando si avvia una riflessione sul settore dell’artigianato è rappresentata dalla scarsa disponibilità di dati ufficiali 121 122 Quaderni di ricerca sull’artigianato utili per fotografare la realtà: le informazioni Istat appaiono piuttosto datate e quelle della Camera di Commercio (più precisamente quelle del Cerved) lasciano molti dubbi in quanto non è prevista negli elenchi ufficiali la cancellazione automatica ed obbligatoria delle aziende che cessano la loro attività. Per ricostruire in maniera il più possibile l’universo di riferimento abbiamo sottoposto ad una verifica “sul campo” i risultati di una precedente indagine che abbiamo condotto nel 1997 basata sulla lettura delle schede di rilevazione predisposte dai servizi Statistici del Comune di Napoli per l’aggiornamento del piano topografico e dell’ordinamento ecografico, dalle quali fu possibile estrapolare la presenza delle unità artigiane per ciascun numero civico. All’epoca censimmo 2377 imprese nel settore delle quali il 50% formato da unità di produzione, il 41% da unità di servizio ed il 9% da botteghe del comparto artistico. Con riferimento ai settori merceologici solo 5 contavano più di 100 imprese e tra questi prevalevano nettamente l’alimentare, seguito dalla lavorazione del legno, l’abbigliamento, le calzature, le tipografie e la lavorazione del ferro. Grazie a tale approccio abbiamo avuto la possibilità di verificare i cambiamenti registratisi nel comparto nel corso degli ultimi 13 anni. Nel complesso abbiamo censito la presenza di 2201 unità locali con un numero di addetti che sfiora i 4000 addetti; in termini percentuali le unità locali sono diminuite del 7,4% mentre l’occupazione è calata di poco meno del 10%. All’interno del settore, si è assistito al sorpasso della componente dei servizi che è cresciuta di 9 punti percentuali passando dal 41 al 50% del totale; viceversa il segmento della produzione ha perso 11 punti attestandosi sul 39% rispetto al 50% di 13 anni addietro; infine l’artigianato ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI artistico mostra un timido cenno di ripresa passando da un’incidenza del 9 all’11%. A questo cambiamento della composizione merceologica corrisponde un tendenziale riassetto del quadro localizzativo caratterizzato da un ripiegamento delle attività artigianali dalle principali arterie del centro storico, verso il reticolo stradale minore. Tale fenomeno affonda le sue radici in un quadro socio – economico ben più articolato e complesso, nel quale i cambiamenti nella composizione sociale della popolazione e la crescita del “valore d’uso” degli spazi “centrali” tendono a periferizzare le attività a minore valore aggiunto e contribuiscono a ridisegnare, ancora una volta, l’assetto funzionale della città sulla base della rendita fondiaria. Il caso del subentro di attività commerciali anche in locali storici della creatività dei maestri d’arte appaiono numerosi e si segnalano un po’ ovunque ne cuore della città. Di conseguenza l’artigianato ha in buona parte perso la sua continuità territoriale ed attualmente presenta un quadro localizzativo “ per punti”, nel senso che si ritrovano diverse isole specializzate che sembrano più esprimere strategie di arroccamento difensivo che non dinamiche di tipo espansivo: sono i casi degli orafi del quartiere Pendino, i tappezzieri ed i restauratori di mobili in legno di Chiaia, i pellettieri della Sanità, le tipografie che gravitano su Piazza Dante, i lavoranti del ferro di Rua Catalana, gli artisti presepi ali di San Gregorio Armeno, i librai di San Giovanni dei Librai, i sarti ed i pellicciai di San Ferdinando ed anche le più moderne botteghe che lavorano le pelli intorno a Piazza Mercato, gli alimentaristi di Piazza Carlo III, la meccanica di precisione dell’area portuale. Tutta una serie di ulteriori informazioni ci è stata offerta dalle risposte di un apposito questionario che 123 124 Quaderni di ricerca sull’artigianato abbiamo somministrato ad un campione del 5% delle imprese censite nel quale abbiamo rispettato le proporzioni tra le diverse componenti merceologiche e la relativa distribuzione territoriale tra le 4 Municipalità interessate. Con riferimento alle caratteristiche strutturali emerge la netta prevalenza di unità locali di modeste dimensioni (entro i 50 mq). L’organizzazione della produzione resta piuttosto approssimativa e si sviluppa nella maggior parte dei casi in un unico locale che per circa i 3/4 risulta in affitto. La figura del titolare che gestisce l’azienda interessandosi di tutte le sue funzioni resta ancora prevalente, anche se in alcuni casi, coincidenti soprattutto con le iniziative attivate da giovani nuovi entrati nel settore, registra una qualche forma di delega che comunque risulta affidata ad un socio-familiare. Il numero degli addetti per bottega non raggiunge le 2 unità. Un contributo essenziale alla definizione degli organici è offerto dalle relazioni familiari ed amicali che si basano su regole inscritte nella cultura di quartiere o di clan dove spesso “l’agenzia di collocamento” è costituita da personaggi che offrono precise referenze personali ai datori di lavoro in cambio del riconoscimento del proprio ruolo di leader del vicolo o del rione. Questa è la chiave di lettura anche per comprendere più in generale i rapporti interaziendali ed i meccanismi di scambio. In alcuni settori, vedi quello collegato alla moda, si delinea una vera e propria filiera del lavoro informale,nel senso che tutti i segmenti del processo produttivo risultano inscritti in una trama di rapporti interpersonali che trovano la loro legittimazione a scala micro-territoriale, anche se il momento mercantile appare più ampio. ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI Si ha la sensazione di ritrovarci di fronte ad una discrasia evidente tra la definizione dello spazio della produzione e quello socio-culturale che lo sottende. In altri termini, mentre le relazioni interpersonali tendono a costruire una crisalide sociale con le sue prassi consolidate ed i suoi codici di comportamento condivisi ed autoreferenziati, le relazioni commerciali spaziano in tutto il territorio cittadino ed oltre. Questa contraddizione non favorisce l’affermazione di un moderna cultura imprenditoriale che per molti versi resta estranea al settore e vista con estremo scetticismo. L’esempio tipico è offerto dal crescente numero di unità di produzione le quali rinunciano alla loro indipendenza sul piano della selezione dei prodotti e collaborano in maniera informale con industrie del circuito ufficiale che tendono a recuperare competitività attraverso il decentramento delle loro fasi di produzione nella “zona grigia” del centro storico. La crescente perdita di autonomia decisionale da parte degli artigiani napoletani si legge con chiarezza dai dati relativi alla composizione della clientela che per circa il 52% indica il riferimento ad un unico committente che assorbe oltre il 60% della produzione. Tale opzione comporta una scarsa attenzione per il mercato al punto che circa il 3/4 degli operatori del settore dichiara di assumere le informazioni sulla produzione direttamente dal committente. Il rapporto diretto con il singolo cliente privato appare in progressivo ridimensionamento nel comparto della produzione mentre resta alquanto solido con riferimento alla fornitura di servizi, soprattutto di quelli rivolti alla persona ed alla riparazione di oggetti, anche se quest’ultima categoria riguarda quasi esclusivamente prodotti di provenienza 125 126 Quaderni di ricerca sull’artigianato industriale (in primis gli elettrodomestici) mentre è pressoché scomparsa la componente degli “aggiusti”, fatti di piccoli interventi e modifiche atti a prolungare la vita di abiti, mobili ed articoli dell’oreficeria. Per la verità va segnalato qualche timido segnale di ripresa di questo comparto da collegare, probabilmente, alla imperversante crisi economica che impone un ripensamento complessivo degli stili di vita e dei consumi soprattutto presso le classi meno abbienti che di fatto prevalgono nel centro storico della città. A proposito dell’identikit dell’imprenditore artigiano si può constatare una netta frattura generazionale che vede, da una parte, i vecchi maestri artigiani, spesso ultrasessantacinquenni, dediti soprattutto alle lavorazioni artistiche e, dall’altra, l’affermarsi di una nuova soggettività artigiana relativamente giovane ed impegnata nei comparti più attenti all’innovazione ( alcuni segmenti della moda e della meccanica di precisione , in particolare). In questa seconda categoria la percentuale più alta è rappresentata da persone con un’età media che si aggira intorno ai 35-40 anni, per la stragrande maggioranza di “prima generazione” e con un’anzianità “di bottega” che non va oltre i 10 anni, il che esprime un evidente innalzamento dell’età di ingresso nel settore. In sostanza, la figura del ragazzo di bottega che dopo aver terminato la scuola elementare andava ad imparare il mestiere, come già avevano fatto suo padre ed il nonno, è ormai definitivamente relegata nell’album dei ricordi ; pur con tutti i suoi rischi ed inconvenienti si trattava pur sempre di una forma di apprendistato che permetteva il trasferimento per via diretta e generazionale dell’arte delle mani sulla quale si basava la fortuna di settori trainanti dell’economia locale: gli incisori dell’oro, gli incastratori di pietre ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI preziose, i decoratori di mobili e cornici, gli artisti presepiali a lungo hanno concorso a dare un senso ed a disegnare l’immagine dell’economia locale ed urbana. All’artigiano erede del mestiere e della bottega di famiglia si è ormai sostituito una nuova figura di self-made il cui approdo al settore va ricercato in altra direzione. In numerosi casi l’avvio dell’attività artigianale non è stata indotta da una “vocazione” familiare o da una scelta del tutto razionale in base al proprio percorso formativo; essa rappresenta sovente una soluzione di ripiego, dopo aver esplorato altri canali di accesso al mercato del lavoro, innanzitutto la possibilità di accedere ad un “posto fisso”, secondo una prassi consolidatasi nella cultura locale soprattutto durante gli anni Settanta ed Ottanta. Appare chiaro che con l’aumento del grado di istruzione e con la tendenziale standardizzazione degli stili di vita e dei consumi, decresce la volontà di sobbarcarsi a fatiche, orari di lavoro e rischi come quelli affrontati dalle vecchie generazioni per le quali il lavoro manuale aveva anche un posto prioritario nella loro gerarchia valoriale e la bottega rappresentava già di per se il luogo non solo del lavoro ma della propria socialità. Una riprova indiretta di tale fenomeno è offerta dalla ricorrente riconversione al cambio di generazione della bottega artigianale in direzione di un’attività commerciale il più delle volte nello stesso settore merceologico di provenienza. Questa strisciante terziarizzazione dell’artigianato si coglie con puntualità in molti casi nei quali il padre ed il figlio collaborano nella stessa azienda, ma con ruoli complementari: il padre si dedica ancora alla produzione mentre il figlio cura la commercializzazione diretta del prodotto. 127 128 Quaderni di ricerca sull’artigianato Su un piano più generale, nel settore si percepisce un diffuso scetticismo nei riguardi dell’innovazione, che a sentire gli operatori dipende soprattutto dalle incognite che presenta il quadro macro economico, non solo a scala locale ma anche regionale e nazionale. Alla scarsa propensione all’innovazione gli artigiani contrappongono un’alta sensibilità verso quelle politiche aziendali che garantiscono, a loro dire, un minimo di competitività e che riguardano soprattutto i prezzi. Dietro l’alibi della concorrenzialità probabilmente si nasconde un’atavica e mai sconfitta propensione a strumentalizzare il cambiamento al fine di riorganizzare su nuove basi, ed a vantaggio di pochi, la tradizionale precarietà sociale che caratterizza il centro storico. Ancora una volta riemerge la centralità del localismo più spinto (alla scala familiare e di clan) che tende a proteggere i suoi associati a discapito di una modernità e di un mondo esterno che talvolta vengono addirittura percepiti come controparte. 4. E’ possibile il ritorno degli esclusi? L’immagine complessiva restituita dall’indagine è quella di un settore alla ricerca di una nuova identità che attualmente sembra affidata più a dinamiche spontanee, ricche di ambiguità e contraddizioni , che non ad un preciso quadro programmatico inserito nel riordino funzionale e produttivo della città. Un dato di scenario, figlio della storia locale del settore, aiuta a capire di più; esso è costituito dal fatto che i lunghi periodi di abbandono e di estraneità di cui ha sofferto il settore ed il centro storico non hanno permesso il definitivo consolidarsi di quelle dinamiche che hanno agito in altre grandi città industriali del nostro Paese dove i comparti più rappresentativi dell’artigianato ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI sono stati spinti a delocalizzarsi verso le periferie metropolitane, lasciando alle funzioni direzionali ed alle attività a maggiore valore aggiunto gli spazi centrali. L’artigianato napoletano non si presta in maniera meccanicistica a soluzioni di questo genere, in quanto la sua storia e la sua organizzazione risultano saldamente radicate nella geografia urbana e nella cultura dominante in vasti strati della popolazione; di questo intreccio esso risulta, d’altronde, un elemento vitale che non può essere relegato ai margini della progettualità urbana che interessa il centro storico. In altri termini appare evidente che la crisi d’identità del centro storico e le difficoltà di modernizzazione e recupero dell’artigianato rappresentano due aspetti fortemente correlati e quindi richiedono soluzioni univoche. E’anche evidente che la salvaguardia e la messa in valore dell’irripetibile patrimonio rappresentato dalla creatività dell’artigianato non può non prendere le mosse dalla presa di coscienza delle profonde trasformazioni che lo hanno investito negli ultimi decenni, evitando il più possibile sia atteggiamenti romantici e conservativi, sia improponibili fughe in una modernità che almeno nell’area stenta a manifestarsi. Innanzitutto appare chiaro che il tradizionale modello organizzativo della bottega artigiana è entrato definitivamente in crisi in quanto Il suo successo si basava sulla coesione e la concentricità degli elementi che lo componevano: l’abitazione e l’opificio coesistevano; gli addetti erano tutti collegati da rapporti di familiarità; le funzioni domestiche e quelle professionali si intrecciavano e si soprapponevano; il rione rappresentava la spazio della produzione e del consumo e più in generale era l’area nella quale si consumavano i tempi ed i riti del lavoro e della socialità. Tutto ciò è stato ormai 129 130 Quaderni di ricerca sull’artigianato consegnato alla riflessione degli storici mentre il nuovo modello organizzativo e gestionale del settore stenta a fare breccia nella cultura locale: esso si basa su una rinnovata tensione verso l’innovazione e su nuove relazioni spaziali con clienti e committenti. Certo non mancano episodi di questo tipo, ma restano ancora del tutto occasionali ed affidati essenzialmente alla lungimiranza e l’intraprendenza di quella minoranza che vanta un percorso culturale e formativo del tutto atipico rispetto alle regole ed ai comportamenti tradizionali. Lo “zoccolo duro” del settore resta ancora quello della molteplicità di lavorazioni che si alimentano nel degrado urbano e sociale, ma non va sottovalutato quel dato che indica un seppur simbolico incremento della componente artistica che nei fatti interrompe un’agonia che in alcuni momenti anche del recente passato sembrava addirittura irreversibile. Evidentemente il settore, interessato da una ripresa della domanda “di qualità” e fortemente personalizzata, oltre che sollecitato dal ritorno dei turisti (soprattutto crocieristi) attratti dall’immenso patrimonio artistico e dalle botteghe della città antica, intravede la possibilità di riposizionarsi come segmento non residuale dell’economia locale. Certo l’ipotesi dello spostamento all’esterno degli spazi centrali di alcune lavorazioni resta un’ipotesi “di lavoro” plausibile soprattutto per quelle aziende che necessitano di una dimensione aziendale maggiormente strutturata rispetto alla tradizionale bottega; ma con riferimento al comparto artistico il problema va piuttosto risolto in un quadro più generale di ripensamento e di rivitalizzazione economica e funzionale della città. Resta il fatto che il nuovo dinamismo tecnologico, finalizzato alla riduzione dei costi della produzione ARTIGIANATO E RIGENERAZIONE URBANA DEL CENTRO STORICO DI NAPOLI personalizzata, consente lo spostamento delle strategie aziendali da un approccio reattivo, mirante alla sopravvivenza, ad un recupero di redditività delle aziende di piccole e piccolissime dimensioni operanti nei contesti urbani. Il che contiene un forte significato non solo sul piano strettamente economico, ma anche sociale e territoriale. Rassegnazione o maturazione culturale a parte, da questa fase di transizione e di “ambiguità” urbana va emergendo una rinnovata attenzione verso valori più affini alla cultura pre-industriale locale che appaiono mobilitabili a patto che il rilancio dell’artigianato esca dai rituali enunciati di principio ed entri con tutta la sua dignità in un processo di riprogettazione “governata” del più grande centro storico europeo. 131 DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI LE DINAMICHE E LE STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI Federico Della Puppa Professore a contratto di Economia e Gestione di Imprese – IUAV – Facoltà di Architettura; Ricercatore Senior - Cresme In sintesi Il 2008 per il settore delle costruzioni è stato, a livello nazionale, il primo anno di inversione della tendenza e dell’inizio di quella fase recessiva che in Veneto era già iniziata timidamente qualche anno prima e che nel 2009 ha consolidato il suo trend negativo. Il Veneto, come spesso accade, ha anticipato le dinamiche nazionali e si conferma, anche nelle costruzioni, un “laboratorio territoriale” di dinamiche, politiche, strategie. I dati a consuntivo nel Veneto hanno evidenziato per il 2009 una diminuzione degli investimenti del -7,9% in valori costanti. Questo rallentamento segue il -5,5% relativo al 2008, quando i fattori della crisi erano già espliciti, ma non ancora così diffusi in tutti i comparti e in tutti i settori. La differenza rispetto al passato è che nel 2009 tutti i segnali congiunturali hanno assunto valori negativi, con una diminuzione anche del numero di imprese (-1,4%) e degli addetti (-4,3%). Rispetto alle crisi precedenti alcuni fattori hanno inciso in modo più consistente sulla dinamica negativa: dall’accesso al credito delle imprese, dovuto alla crisi finanziaria internazionale, alla minore domanda di famiglie e imprese, dovuta alla crisi economica. Il 2009 si configura dunque come un “annus horribilis” per l’edilizia veneta. Tuttavia emerge anche che il segno “meno” si è diversamente riflesso 133 134 Quaderni di ricerca sull’artigianato sul sistema dell’offerta. Si può affermare che la crisi del mercato ha colpito soprattutto la microimpresa e la piccola impresa, mentre le imprese più strutturate hanno dimostrato che la loro maggiore organizzazione e capitalizzazione ha consentito di posticipare, e in alcuni casi annullare, gli effetti negativi del mercato. Per il secondo anno consecutivo, infatti, le imprese più strutturate hanno trovato comunque il modo di restare sul mercato e crescere in quantità, non solo nel settore industriale ma soprattutto in quello artigianale. Un segnale importante per il rilancio del settore in una fase congiunturale delicata. 1. Le dinamiche recenti del settore delle costruzioni Il 2008 è stato l’anno nel quale in Italia la crisi del comparto delle costruzioni è diventata evidente. Molti elementi hanno contribuito a velocizzarne la dinamica. Lo scoppio della bolla speculativa immobiliare e il ruolo strategico che il credito ha giocato e gioca nel processo edilizio hanno di fatto contribuito ad inasprire le condizioni operative per le imprese. Va tuttavia ricordato che sul mercato incide una domanda che era già in flessione e che le condizioni generalizzate della crisi economica e della scarsa fiducia dei consumatori e delle imprese riduce ulteriormente la capacità di spesa e la propensione agli investimenti. Il settore da alcuni anni ha imboccato una fase inevitabile di rallentamento delle dinamiche di crescita, a causa dell’esaurirsi del ciclo espansivo che aveva dominato nella prima metà degli anni duemila, grazie alle favorevoli condizioni di mercato dettate principalmente dai bassi tassi di interesse, dal riorientamento degli investimenti dal mercato DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI borsistico a quello immobiliare, e dalla pressione di una forte domanda abitativa, non esaurita. L’attuale crisi del credito, il forte peso dell’invenduto (sia nel settore residenziale che in quello non residenziale), la scarsità di risorse per nuovi investimenti pubblici, la discesa dei prezzi sul mercato e la crisi economica sono tutti fattori che contribuiscono oggi a deprimere il mercato, anche nel segmento delle ristrutturazioni e del rinnovo edilizio, che avrebbe potuto in questa congiuntura negativa limitare o contrastare, se non del tutto almeno in parte, la frenata del mercato. Tab. 1 - Italia. Investimenti e PIL a confronto (var. % su anno precedente in valori costanti). Anni 2001-2008 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 Prodotto interno lordo Investimenti fissi lordi 1,8 0,5 0,0 1,5 0,7 2,0 1,6 -1,0 2,7 3,7 -1,2 2,3 0,8 2,9 2,0 -3,0 Costruzioni 4,4 5,9 2,4 2,2 0,4 1,0 1,0 -1,8 Abitazioni 1,4 0,6 2,6 2,8 5,9 3,8 1,4 0,4 6,8 7,9 1,2 1,6 -3,0 -1,7 0,9 -2,4 4,1 18,5 8,4 2,9 -1,8 4,0 0,4 -7,3 Fabbr. non residenziali e altre opere Trasferimenti di proprietà Fonte: elaborazione su Conti economici nazionali SEC 95 L’attuale fase di mercato a livello nazionale è dunque in piena fase critica e il 2008 è stato l’anno di una vera e propria svolta. Le compravendite immobiliari, dopo anni di incrementi quantitativi e di dinamiche positive dei prezzi, hanno visto ridurre sia gli scambi che i prezzi. Su base annua il mercato immobiliare italiano nel 2008 ha perso 242mila transazioni, delle quali ben 123mila nel 135 136 Quaderni di ricerca sull’artigianato solo segmento residenziale, con una diminuzione complessiva pari al -13,7% degli scambi, che sale al -15,1% nel mercato residenziale. Certo, dopo dieci anni di crescita ininterrotta – la seconda più lunga dal dopoguerra – questa dinamica negativa del mercato era inevitabile e, peraltro, largamente annunciata. Ma le condizioni del contesto hanno contribuito ad appesantirla, a partire dalla difficoltà di accesso ai mutui e dal restringimento della liquidità da parte del settore bancario. Grafico 1 – Dinamica degli investimenti in costruzioni e PIL (var. % su anno prec. in valori costanti) a livello nazionale. Anni 1971-2008 Fonte: elaborazione su Conti economici nazionali SEC 95 In questo scenario, a livello nazionale, un ulteriore elemento ha contribuito ad acuire la situazione di difficoltà del mercato, ovvero il rallentamento del mercato delle opere pubbliche, con una contrazione degli investimenti che fa riferimento in particolare alla capacità di spesa dei Comuni, delle Province, delle Regioni, della Sanità e dello Stato, mentre enti come DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI l’ANAS, i settori energetico idrico-ambientale e della mobilità, le imprese di servizio pubblico locale, le altre imprese a partecipazione pubblica sono cresciute nella spesa, così come anche nel 2008 è continuato continuato a crescere il Partenariato Pubblico Privato, che rappresenta ormai in modo stabile almeno un quarto del totale del mercato dei lavori pubblici. Il rallentamento del settore delle costruzioni a livello nazionale contribuisce in modo determinante a deprimere l’economia complessiva, in quanto negli ultimi anni l’edilizia si è dimostrata il settore trainante dell’economia. Il confronto infatti tra la dinamica degli investimenti lordi in costruzioni e il prodotto interno lordo a prezzi di mercato, evidenzia come fino dalla seconda metà degli anni ottanta l’edilizia abbia giocato un ruolo fortemente anticongiunturale, mentre nei periodi precedenti avesse giocato sempre un ruolo di settore al traino dell’economia. Grafico 2 – Compravendite di abitazioni (totale Italia) e capitalizzazione di borsa a confronto. Anni 1985-2008 Fonte: elaborazione su dati Agenzia del Territorio-OMI e Borsa di Milano 137 138 Quaderni di ricerca sull’artigianato In sostanza a partire dalle politiche di sviluppo degli ultimi vent’anni, l’edilizia ha assunto un carattere predominante nell’economia nazionale, garantendo e rilanciando tutta l’economia e invertendo, paradossalmente, l’interpretazione che voleva questo settore al servizio (ovvero al seguito) degli altri settori economici (come era stato del resto dal boom economico all’inizio degli anni ottanta). Ma le condizioni che hanno permesso questa inversione di tendenza si devono soprattutto al cambiamento dei fattori di contesto. Se si mettono a confronto in una dinamica ventennale il mercato immobiliare con quello borsistico si evidenzia come la crescita degli ultimi anni del primo abbia una velocizzazione proprio nella fase di rallentamento e crisi del mercato borsistico, fino al 2006, anno in cui si inverte la tendenza e dove il mercato immobiliare segue la dinamica negativa di quello borsistico. In sintesi, nel 2007 e soprattutto a partire dal 2008 il mattone non rappresenta più quell’investimento solido, quel “bene rifugio” in grado di controbilanciare le difficoltà degli investimenti di capitali in borsa. DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI Grafico 3 – Confronto tra mercato immobiliare, prodotto interno lordo e tasso di sconto a livello nazionale. Anni 1985-2008 Fonte: elaborazione su dati Agenzia del Territorio-OMI e Banca d’Italia Dunque la caduta dei corsi azionari associati all’incertezza della politica e dell’economia internazionale e ai bassi tassi di interesse, hanno spinto verso l’alto un mercato che per molti anni aveva mantenuto una rotta di navigazione più o meno consolidata (si noti l’andamento nel periodo 19851996). Una prima sterzata decisa è avvenuta nel 1997, e una seconda a partire dal 2002, dopo la “pausa tecnica” del 2001 (pausa dovuta allo spostamento al 2002 di molte transazioni, a causa dell’eliminazione dell’INVIM). Ma la caratteristica di mercato in controtendenza, il mercato immobiliare la presenta in modo ancora più evidente se si mettono a confronto il numero di compravendite con l’andamento del tasso ufficiale di riferimento e la variazione percentuale del PIL. Al diminuire del tasso di sconto il mercato immobiliare cresce, mentre al crescere del tasso 139 140 Quaderni di ricerca sull’artigianato di sconto esso viene inibito. E questa dinamica è accentuata in positivo o in negativo a seconda che la dinamica del PIL sia positiva o negativa: quando entrambi scendono (PIL e tasso di sconto) il mercato immobiliare residenziale ha un andamento di forte crescita. E appena i tassi di interesse aumentano, il mercato immobiliare subisce un rallentamento. Il 2008 e il 2009 mostrano una dinamica immobiliare negativa come non si era mai registrata da oltre vent’anni. All’inizio degli anni novanta e poi all’inizio del duemila si erano verificate condizioni di rallentamento degli scambi, in concomitanza con debolezze economiche e innalzamento dei tassi di interesse. L’elevato valore degli scambi sul mercato immobiliare del 2006 non era evidentemente una condizione sostenibile nel lungo periodo, soprattutto in presenza di condizioni di mercato incerte e instabili, al pari di quelle evidenziate per le crisi del passato. Tuttavia, anche se con dimensioni ed impatti diversi da quelli del passato, proprio la lettura della dinamica di lungo periodo evidenzia che in presenza di una diminuzione significativa dei tassi di interesse il mercato immobiliare potrebbe riprendere quota. La traduzione di questi dati macroeconomici infatti è che in condizioni favorevoli di accesso al credito e in condizioni di incertezza economica, la “casa” si dimostra un vero e proprio bene rifugio nel quale si investe. Ma in questo contesto gli ultimi anni hanno anche evidenziato un cambiamento significativo della domanda, un nuovo elemento con il quale il mercato deve confrontarsi. Secondo dati dell’Agenzia del Territorio, il 94,5% degli acquirenti è costituito da persone fisiche, mentre nel caso dei venditori questa percentuale scende al 76,1%. Per quanto riguarda il profilo DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI degli acquirenti la tipologia dominante è quella del lavoratore dipendente (57% degli acquirenti) seguito a molta distanza dal pensionato (11,5%). Per quanto riguarda la fascia di età il segmento principale è quello delle persone comprese tra 31 e 40 anni. Per quanto riguarda la fascia di reddito, il 35,8% delle compravendite fa riferimento a persone con reddito compreso tra 15.000 e 30.000 euro. Ma la somma delle tre fasce più basse (quelle al di sotto dei 30.000 euro) interessa l’86,6% degli acquirenti.1 Dunque la casa è un bene al quale guardano per lo più lavoratori dipendenti di età compresa tra 31 e 50 anni e con redditi inferiori a 30.000 euro annui. E’ evidente che una domanda di questo tipo necessiti di contrarre mutui immobiliari, ma l’accesso al bene oggi è molto più difficile anche in ragione degli effetti della crisi statunitense legata ai mutui subprime. La crisi economica inoltre spinge verso il basso la capacità di acquistare metri quadri di residenza. Nel 1998 i metri quadri potenzialmente acquistabili con un’annualità di reddito medio erano poco più di 14. Dal 2005 questo valore è sceso a circa 10. Significa una perdita di capacità di acquisto di circa il 40%. Significa, a parità di metri quadri acquistati e di capacità economica, allungare i tempi del mutuo. E infatti l’incidenza della rata del mutuo sul reddito medio familiare è aumentata di oltre un punto percentuale negli ultimi cinque anni, superando il 12%, un valore comunque inferiore ai canoni di locazione che le famiglie trovano sul libero mercato. Ma nonostante queste problematiche e queste difficoltà, il bene casa rimane al centro delle vicende economiche e sociali, dato che la domanda continua 1 Cfr. Federico Della Puppa (2007), “Analisi del fabbisogno abitativo nel Veneto, Profilo della domanda e aspetti tipologici dell’offerta”, IUAV, Venezia. 141 142 Quaderni di ricerca sull’artigianato a crescere, anche forte delle nuove fasce sociali che si affacciano a questo mercato. Ad esempio, gli immigrati entrati in Italia prima del 2000 abitano in case di proprietà nel 21,5% dei casi, quelli entrati nel 2001-2002 sono proprietari nel 12% dei casi, percentuale che scende all’1% per quelli giunti dopo il 2005.2 Dal punto di vista della dinamica della domanda, si deve considerare che ogni anno in Italia si generano circa 250mila nuovi nuclei tramite matrimonio. A queste nuove coppie vanno aggiunte 80mila separazioni (in crescita di 30mila rispetto al decennio scorso). Secondo recenti stime, assieme alle convivenze di fatto, la nuova domanda abitativa per creazione di nuovi nuclei a livello nazionale si può stimare rasenti ogni anno le 400mila unità. La pressione residenziale e abitativa in Italia dunque è forte, e lo è anche in Veneto.3 Basti pensare che oltre ai 19mila matrimoni ogni anno, vi è una domanda da sfratti e da domanda ERP non soddisfatta che fa riferimento a 15mila domande all’anno contro 1.000 assegnazioni e che ancora nel 2001 ben 400mila persone in Veneto abitavano in condizioni di sovraffollamento, e 100mila di esse in situazioni di grave disagio. Senza pensare poi alla domanda degli studenti, degli anziani autosufficienti, dei single, dei lavoratori in trasferimento da altre regioni, degli immigrati. Infine, oltre alle questioni legate alla residenza, vero e proprio motore dell’edilizia e delle costruzioni, vi è tutto il tema degli investimenti commerciali, produttivi e destinati al terziario e ai servizi, oltre alle 2 Cfr. il dossier “Immigrati in-stabili”, a cura di Stefania Bragato e Vania Colladel, nuovadimensione, Venezia, 2009, pag. 73. 3 Federico Della Puppa (2007), op.cit. DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI opere pubbliche, che in questo momento presentano a livello nazionale, ma anche regionale, una dinamica di rallentamento che difficilmente nel breve periodo potrà essere contrastata. Le previsioni di sviluppo per il settore, elaborate dal Cresme, infatti sono negative, sia per il 2009 che per il 2010.4 2. Una crisi annunciata La crisi del settore delle costruzioni peraltro era stata ampiamente annunciata ed era ben visibile negli indicatori congiunturali che ne rappresentano una cartina di tornasole: - nel 2008 la produzione di acciao in Italia è calata del -3,1 per cento, il consumo di tondo per cemento armato del -5,7 per cento ma nei primi mesi del 2009 secondo Federacciai è diminuita del -41,7 per cento; - secondo dati Comamoter, le vendite di macchine per il movimento terra sono diminuite del -22,4 per cento nel 2008 e del -46,5 per cento nel 2009; - secondo Istat la produzione di piastrelle in ceramica è calata del 7,8 per cento nel 2008 e l’indice della produzione è sceso del 33,5 per cento nel 2009; - il consumo di calcestruzzo, secondo analisi Cresme per la Consulta del Calcestruzzo (Federbeton), è sceso del -15 per cento nel 2008 e di un ulteriore -15 per cento nel 2009; - secondo dati Andil, la produzione di laterizi nel 2008 è calata del -12,7 per cento e del -29,3 per cento nei primi nove mesi del 2009. 4 Cfr. Cresme, “XVIII Rapporto congiunturale e previsionale CRESME, Il mercato delle costruzioni: 2008-2013”, Roma, novembre 2010. 143 144 Quaderni di ricerca sull’artigianato Se si osserva il comparto residenziale, le compravendite immobiliari sono diminuite del 14,9% nel 2008 e di un ulteriore 15,6 per cento nei primi sei mesi del 2009. Contemporaneamente sono calate le erogazioni di finanziamenti per l’acquisto di nuove abitazioni e di converso anche l’erogazione del credito per costruzioni residenziali. Il comparto non residenziale, che prosegue nella lunga crisi iniziata nel 2003, ha visto ridursi nel 2008 le compravendite dell’11,7 per cento e di un ulteriore 16 per cento nel 2009, con analoghe diminuzioni negli inidcatori relativi al credito e agli investimenti. Il mercato delle opere pubbliche, che nel passato nei momenti difficili ha sempre rappresentato un settore anticongiunturale, in questa fase segue le dinamiche negative degli altri comparti. Unica nota diversa e parzialmente positiva, quella delle domande per agevolazioni fiscali per ristrutturazioni (“36%”), che sono aumentate nel 2009 del 14,3 per cento. Osservando attentamente gli indicatori strutturali del settore emerge che la crisi dell’edilizia arriva da lontano, ed è in parte acuita dalla crisi economica generale, ma trova i suoi elementi strutturanti in alcune condizioni di fondo che sono così riassumibili: un boom eccessivo ed eccezionale nel 2002 (dovuto alla crisi delle borse e alla contemporanea introduzione dell’euro, che ha immesso nel mercato molte risorse finanziarie), la crisi del comparto non residenziale a partire dal 2003 proseguita fino al 2009, la riqualificazione che si stabilizza e non sostiene più la crescita del settore come nella seconda metà degli anni novanta, il mancato ruolo anticongiunturale degli investimenti in opere pubbliche. DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI Tab. 2 - Italia. Indicatori congiunturali dell’edilizia: credito, produzione, investimenti (var. %) 2008 /2007 2009 /2008 Compravendite residenziali* -14,9 -15,6 Erogazioni mutui residenziali* Residenziale -10,0 -12,9 Erogazioni credito costruzioni residenziali* -8,6 -17,8 Nuova produzione residenziale (mc ultimati)** -6,0 -11,5 Investimenti in nuova costruzione*** -8,3 -19,2 -11,7 -16,0 Non residenziale Compravendite non residenziali* Erogazioni mutui non residenziali* -3,1 -48,7 -13,9 -16,4 Nuova produzione non residenziale (mc ultimati)** -0,9 -16,4 Investimenti in nuova costruzione*** -2,8 -15,9 -5,7 -5,8 Domande ai fini della riduzione fiscale (36%) -2,0 14,3 Consumi delle famiglie -0,9 -1,9 Investimenti in rinnovo -2,0 -4,0 Erogazioni credito costruzioni non residenziali* Opere pubbliche Investimenti in opere pubbliche Riqualificazione residenziale Fonte: CRESME *Primo semestre 2009, **Sistema Informativo CRESME sulla nuova produzione edilizia, ***stime investimenti CRESME 3. Le dinamiche del settore delle costruzioni nel Veneto Il quadro nazionale produce anche a livello regionale effetti simili. Anzi, guardando con molta attenzione ai dati rilevati negli ultimi anni5, si può 5 Ceav-Cresme, “Rapporto sul mercato delle costruzioni in Veneto”, report annuali riferiti al periodo 2001-2008 e dal 2008 Unioncamere-Ceav-Cresme “Osservatorio trimestrale sul mercato delle costruzioni nel Veneto”. 145 146 Quaderni di ricerca sull’artigianato osservare che il Veneto rappresenta una regione che anticipa ed esemplifica trend e dinamiche che poi si estendono anche a livello nazionale. I dati a consuntivo sull’andamento del mercato delle costruzioni nel Veneto, secondo le stime elaborate dal Cresme per l’osservatorio CEAV-Unioncamere sul mercato edilizio, hanno evidenziato per il 2009 un decremento significativo degli investimenti, nell’ordine del -5,5 per cento in termini reali e del -7,9 per cento in valori costanti (al netto dell’inflazione). Si tratta della diminuzione più significativa dalla precedente crisi dell’edilizia, avvenuta nella prima metà degli anni ’90 per l’effetto “tangentopoli”, e che è dipesa tuttavia da andamenti molto diversificati nei diversi comparti produttivi. Nel 2009 il settore delle costruzioni nel Veneto ha attivato investimenti per poco meno di 15 miliardi di euro. Se si aggiungono circa altri 3 miliardi di manutenzioni ordinarie si arriva ad un valore complessivo della produzione di circa 18 miliardi. La nuova costruzione ha rappresentato come sempre il principale mercato di riferimento, con il 53 per cento degli investimenti, mentre il rinnovo ha costituito il 47 per cento del mercato. Il primo segmento produttivo, nonostante la crisi, è rimasto quello della nuova costruzione residenziale (26,4%), anche se in forte frenata sul 2008 (-20,4% in valori correnti). Anche i settori della nuova produzione e del rinnovo non residenziale privato hanno presentato un calo (rispettivamente -13,4% e -5,7%). Dopo la stagnazione del 2008, il 2009 ha fatto registrare incrementi significativi nelle opere pubbliche: in crescita il segmento non residenziale pubblico (+6,5% nel nuovo e +28,6% nel rinnovo) e le opere del genio civile (+27,2% nella nuova DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI costruzione e +26,2% nel rinnovo). Tuttavia questi andamenti positivi, data la loro quota complessiva, non hanno consentito di recuperare il trend negativo dei comparti quantitativamente più rilevanti. Va segnalato tuttavia che il settore del rinnovo edilizio, nel suo complesso, ha fatto registrare un incremento dell’1,7 per cento, un timido segnale di ripresa che potrebbe essere rafforzato dall’avvio dell’utilizzo degli incentivi previsti dal “piano casa” regionale. Tab. 3 - Veneto. Investimenti in costruzioni (milioni di euro in valori correnti) - Anni 20072009 2007 2008 var. % 2008 /2007 2009 9.308 8.936 -4,0 7.937 -11,2 53,0% Nuovo residenziale 5.286 4.962 -6,1 3.951 -20,4 26,4% Nuovo non residenziale privato 2.498 2.417 -3,2 2.094 -13,4 14,0% 403 428 6,4 456 6,5 3,0% Nuovo genio civile 1.122 1.129 0,7 1.436 27,2 9,6% RINNOVO 6.821 6.917 1,4 7.036 1,7 47,0% rinnovo residenziale 3.488 3.534 1,3 3.477 -1,6 23,2% rinnovo non residenziale privato 2.210 2.251 1,8 2.122 -5,7 14,2% rinnovo non residenziale pubblico 345 351 1,7 451 28,6 3,0% rinnovo genio civile 779 781 0,3 986 26,2 6,6% 16.129 15.852 -1,7 14.973 NUOVA COSTRUZIONE var. % distr. % 2009 2009 /2008 di cui Nuovo non residenziale pubblico di cui TOTALE INVESTIMENTI -5,5 100,0% Fonte: elaborazione e stime CRESME per osservatorio CEAVUnioncamere 147 148 Quaderni di ricerca sull’artigianato Il Veneto nel 2009 ha subito pertanto una forte e brusca frenata, che è avvenuta successivamente ad un anno, il 2008, in cui i fattori della crisi si erano già ampiamente esplicitati (ed erano stati ben evidenziati nel precedente rapporto), anche se con dinamiche non ancora così consistenti. Va ricordato ancora una volta che questo trend negativo è seguito alla seconda più lunga fase di crescita positiva del dopoguerra, ma rispetto alle crisi precedenti alcuni fattori hanno inciso in modo più forte sul consolidamento della dinamica negativa, in primo luogo il problema dell’accesso al credito delle imprese, dovuto alla crisi finanziaria internazionale, e in secondo luogo alla minore domanda, dovuta alla crisi economica delle famiglie e delle imprese. Tab. 4 – Veneto. Variazione percentuale degli investimenti in costruzioni (valori costanti) 2004 2005 2006 2007 2008 2009 NUOVA COSTRUZIONE -1,9 -1,4 -0,6 -4,5 -7,4 -13,4 di cui Nuovo residenziale 3,0 4,1 3,1 -5,9 -9,3 -22,3 Nuovo non residenziale privato -10,8 -8,7 -6,1 8,5 -6,9 -15,5 Nuovo non residenziale pubblico 4,0 -0,3 -8,1 -9,4 2,4 4,0 Nuovo genio civile -2,4 -8,1 -3,4 -18,4 -3,1 24,1 RINNOVO -1,3 -3,0 0,9 -2,6 -2,2 -0,8 di cui rinnovo residenziale 0,3 -1,4 2,5 1,0 -2,1 -4,0 rinnovo non residenziale privato -2,0 -1,8 1,3 1,4 -2,0 -8,0 rinnovo non residenziale pubblico -5,3 -8,9 -4,3 -18,2 -2,1 25,4 rinnovo genio civile -2,8 -8,1 -2,8 -18,0 -3,5 23,1 TOTALE INVESTIMENTI -1,6 -2,1 0,0 -3,7 -5,2 -7,9 Fonte: elaborazione e stime CRESME per Osservatorio CEAV-Unioncamere DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI 4. Le dinamiche della nuova produzione edilizia Il mercato della nuova costruzione, e in particolare quella residenziale, ha rappresentato in questi anni, nel Veneto, un fenomeno di mercato sotto tutti i punti di vista, quantitativi e qualitativi, sia a livello di investimenti che di quantità di alloggi prodotti e costruiti. Ma a ben osservare i dati relativi alle pratiche rilasciate tra il 2003 e il 2007 (dato più aggiornato a disposizione) emerge come il rallentamento della domanda fosse già presente ed evidente a partire dal 2005, anche se gli effetti sul mercato si sono sentiti solo a partire dal 2007, a causa dei tempi effettivi di utilizzazione dei permessi e dell’intervallo di tempo intercorrente tra il rilascio del permesso, le attività di cantiere e l’effettiva ultimazione degli alloggi in produzione. I dati in questo senso sono eclatanti ed evidenziano che nell’edilizia residenziale il volume concesso è cresciuto fino al 2004, raggiungendo quasi la soglia di 16 milioni di metri cubi, una pressione realizzativa molto consistente, per poi ridimensionarsi dal 2005 al 2007. La riduzione del numero di permessi per costruire nel 2005 è stata del 3,5 per cento per numero di fabbricati, del 6 per cento per il volume e del 6,2 per cento per numero di alloggi. Nel 2006 è proseguita la dinamica di riduzione per giungere al 2007 a poco meno di 6mila fabbricati, 13 milioni di metri cubi, poco più di 28mila alloggi e 2,24 milioni di metri quadrati di superficie utile abitabile. La dinamica di riduzione delle quantità prodotte dunque non è frutto della congiuntura degli ultimi due anni, ma ha iniziato la sua fase discendente a partire dal 2004. Il trend 2004-2007 è del -11,1 per cento per i fabbricati, -17,5 per cento per il volume e un significativo -24,9% per le abitazioni. 149 150 Quaderni di ricerca sull’artigianato Tab. 5 – Veneto. Permessi di costruire nell’edilizia residenziale (2003-2007) 2003 2004 2005 2006 2007 6.289 6.684 6.447 6.370 5.944 6,3 -3,5 -1,2 -6,7 FABBRICATI Numero var. % su anno prec. Volume (.000 mc) 13.865 15.793 14.844 14.131 13.034 var. % su anno prec. 13,9 -6,0 -4,8 -7,8 ABITAZIONI Numero 32.374 37.755 35.432 31.680 28.347 var. % su anno prec. Superficie utile (.000 mq) 2.375 var. % su anno prec. 16,6 -6,2 -10,6 -10,5 2.715 2.536 2.406 2.242 14,3 -6,6 -5,1 -6,8 Fonte: elaborazione su dati Istat 5. Il mercato immobiliare Gli effetti della crisi economica e gli altri fattori già ricordati in precedenza hanno insistito sul mercato modificando comportamenti di acquisto e le quantità scambiate. Nel Veneto nel 2009 le compravendite di alloggi sono diminuite dell’11,7%, dopo il calo del 19,7 per cento del 2008, portando complessivamente a ridurre gli scambi del 29,1 per cento nel biennio. DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI Tab. 7.5 – Veneto. Compravendite di alloggi nel settore immobiliare residenziale (2007-2009) var. % var. % var. % 2008 2009 2009 /2007 /2008 /2007 2007 2008 2009 4.448 3.400 2.878 -23,6 -15,4 -35,3 Piccola dimensione 20.023 15.729 13.588 -21,4 -13,6 -32,1 Medio-piccola dim. 13.580 10.924 10.054 -19,6 -8,0 -26,0 Media -18,4 -9,1 -25,9 Monolocali 19.808 16.154 14.686 Grande 7.820 6.648 5.902 -15,0 -11,2 -24,5 NC 6.890 5.386 4.338 -21,8 -19,5 -37,0 72.569 58.241 51.446 -19,7 -11,7 -29,1 Totale Fonte: elaborazione su dati Agenzia del Territorio / OMI E’ evidente che una diminuzione di tale entità e portata ha avuto effetti negativi anche sul sistema immobiliare delle agenzie e dei servizi di intermediazione, nonché sui costruttori direttamente impegnati in promozioni immobiliari, generando una elevata quantità di invenduto, tutt’ora di difficile quantificazione ma che difficilmente alle attuali condizioni di mercato (crisi economica, minori disponibilità finanziarie delle famiglie, difficoltà di accesso ai mutui, scarsa fiducia) sarà possibile ricollocare in tempi brevi. E generando al contempo una difficoltà al sistema produttivo, che si trova attraverso l’invenduto una forte immobilizzazione finanziaria, peraltro gravata anche da una diminuzione anche dei prezzi e dunque del valore stesso delle immobilizzazioni. Molto interessanti sono i dati dell’Agenzia del Territorio (Osservatorio sul Mercato Immobiliare) relativi alle tipologie di alloggi compravenduti, perché evidenziano come anche se la maggior parte degli 151 152 Quaderni di ricerca sull’artigianato scambi è avvenuta soprattutto per alloggi di piccola e medio-piccola dimensione, la diminuzione degli scambi è stata distribuita e generalizzata, con punte rilevanti negli alloggi di piccola e piccolissima dimensione (monolocali). 6. La dinamica imprenditoriale Il 2009 dunque è stato il primo anno nel quale tutti i segnali congiunturali hanno assunto valori negativi. Infatti se nel 2008 la dinamica imprenditoriale, nonostante il rallentamento del mercato, ha mostrato una crescita delle imprese attive da 72.151 a 72.863 (+1%) e una crescita anche dell’occupazione da 175.827 a 179.764 addetti (+2,2%), nel 2009 si è registrata una significativa diminuzione del numero di imprese (-1,4%) e soprattutto degli addetti (-4,3%). Il 2009 si configura dunque come uno dei peggiori anni per l’edilizia veneta. Tuttavia, a ben guardare i numeri, emerge anche che il segno “meno” si è diversamente riflesso sul sistema dell’offerta. Per il secondo anno consecutivo, infatti, nonostante la crisi, le imprese più strutturate hanno trovato comunque il modo di restare sul mercato e crescere nel numero, sia nel settore industriale che in quello artigianale. DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI Tab. 7 – Veneto. Imprese attive artigiane e non artigiane delle costruzioni per forma giuridica. Anno 2000 e anni 2005-2009 2000 2005 2006 2007 2008 2009 118 1.185 1.464 1.720 1.949 2.091 7.726 8.495 8.453 8.434 8.370 8.120 ARTIGIANE Forma giuridica Società di capitale Società di persone Imprese individuali Altre forme* Totale NON ARTIGIANE Forma giuridica 36.623 46.752 48.391 49.519 49.389 48.073 48 55 55 50 45 54 44.515 56.487 58.363 59.723 59.753 58.338 Società di capitale 4.466 5.792 6.213 6.658 7.126 7.414 Società di persone 2.536 2.366 2.398 2.413 2.503 2.463 Imprese individuali 2.494 2.818 2.942 2.836 2.909 2.966 510 476 492 521 572 626 Altre forme* Totale 10.006 11.452 12.045 12.428 13.110 13.469 TOTALE 54.521 67.939 70.408 72.151 72.863 71.807 Fonte: elaborazione del Veneto su dati Infocamere-Movimprese * Nelle “Altre forme” sono comprese le cooperative e i consorzi. Ancora una volta infatti è in questa logica che vanno letti i dati relativi alle imprese attive, che nel 2009 sono diminuite complessivamente dell’1,4 per cento, ma con una dinamica di crescita delle società di capitali non artigiane (+4%) e di quelle artigiane (+7,3%), portando il numero complessivo di questa forma giuridica a superare le 9.500 unità, con un peso percentuale pari al 13,2% del totale delle imprese attive. In calo invece le società di persone, sia nel settore artigiano (-3%) che in quello non artigiano (-1,6%), e soprattutto dinamica negativa anche per le imprese individuali artigiane, che con un calo del 153 154 Quaderni di ricerca sull’artigianato 2,7% hanno visto diminuire il loro numero di ben oltre 1.300 unità. La crisi nel 2009 ha dunque colpito soprattutto le piccole imprese artigiane, in particolare quelle non specializzate, un elemento utile a ridefinire il quadro strategico di intervento per la ripresa del mercato nel futuro. In questa dinamica di forte rallentamento l’Osservatorio sul mercato delle costruzioni CEAVUnioncamere, ha evidenziato che la crisi è stata percepita in modo più consistente nella prima parte dell’anno, mentre il IV° trimestre ha iniziato a mostrare una leggera inversione di tendenza, con un rallentamento della crisi.6 Le interviste effettuate su un panel di 600 imprese rappresentative dell’universo (sia in senso tipologico che territoriale) ha mostrato che al crescere della scala territoriale di riferimento cresce anche la capacità dell’impresa di migliorare le proprie performance. Infatti si sono registrate performance significative nelle imprese più specializzate, con un numero più elevato di addetti rispetto alla media di settore e operanti a livello provinciale o regionale. Le imprese meno strutturate, con pochi addetti e con ambiti di mercato più ristretti (comunali) sono quelle che hanno dichiarato le maggiori sofferenze. 7. L’occupazione La dinamica di crisi che ha investito il settore, e che come evidenziato in precedenza, per la prima volta ha mostrato tutti gli indicatori con segno negativo nel 2009, non fa eccezione anche per quanto riguarda i dati sul’occupazione. Dopo un trend fortemente positivo (+15,1% nel 2003, + 3,2% nel 2004, +6,3% nel 2005, +1,6% nel 2006, quando 6 Per un approfondimento e una analisi dei dati citati, si rimanda alle indagini trimestrali sul mercato delle costruzioni pubblicate da Unioncamere. DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI si è raggiunta la soglia massima di occupati, pari a 180.100 addetti) a partire dal 2007 si è registrato una prima fase discendente, con un calo del -2,4 per cento, dovuto quasi totalmente alla diminuzione dell’occupazione indipendente. Nel 2008 si è registrato un andamento fortemente diversificato tra occupazione dipendente (in crescita del +6,7%) e indipendente (-4,2%), al quale è seguito un calo generalizzato, pari ad una diminuzione del 4,3 per cento, con una perdita ulteriore di occupazione indipendente per il quarto anno consecutivo (-3,4%) portando la perdita occupazionale in questo ambito al -17,9 per cento sul 2005, mentre la dinamica nello stesso periodo per l’occupazione dipendente rimane positiva, con una crescita del 9,9 per cento. Tab. 8 – Veneto. Occupati nelle costruzioni per posizione nella professione. Anni 2004-2009 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Valori assoluti Dipendenti Indipendenti Totale 87.205 95.347 103.728 103.130 110.084 104.796 79.539 81.958 76.372 72.697 69.680 67.322 166.743 177.305 180.100 175.827 179.764 172.117 Variazioni percentuali su anno precedente Dipendenti 11,8 9,3 8,8 -0,6 6,7 -4,8 Indipendenti -4,8 3,0 -6,8 -4,8 -4,2 -3,4 Totale 3,2 6,3 1,6 -2,4 2,2 -4,3 Fonte: elaborazioni su dati Istat In sostanza la dinamica occupazionale di lungo periodo associata ai trend di mercato ha di fatto modificato strutturalmente il mercato dell’occupazione assieme alla struttura stessa delle imprese. Infatti associando questa dinamica alla lettura dei dati 155 156 Quaderni di ricerca sull’artigianato relativi alle imprese, emerge come il settore già nel 2007 avesse imboccato la strada del rallentamento alla quale il sistema imprenditoriale ha risposto in modo differenziato, con una dinamica negativa delle imprese meno strutturate e un rafforzamento di quelle più strutturate e con occupati dipendenti. Come peraltro già rilevato nel rapporto dello scorso anno, in questo quadro negativo questa strutturazione del settore potrà consentire di contenere nel breve periodo la dinamica negativa del mercato, un fattore che va valutato positivamente nell’insieme degli indicatori congiunturali negativi di mercato presentati. Un segnale importante per il rilancio del settore in una fase congiunturale così delicata. 8. Strategie di fronte alla crisi Il 2008 e il 2009 consegnano al Veneto dunque un mercato delle costruzioni in evidente difficoltà. Ma la crisi, come dice l’etimologia della parola, porta dentro sé i motivi della possibilità di uscita e di ripresa dello sviluppo. Vi sono molteplici elementi che potrebbero essere messi in evidenza. In questa sede se ne sottolineano tre: uno legato al sistema della domanda e due al sistema dell’offerta. Per quanto riguarda la domanda, va sfatato un luogo comune che vorrebbe che in Veneto ci siano case a sufficienza per molti anni e che dunque non sia più necessario costruire nuovi alloggi. Qualche dato può aiutarci in questo ragionamento. In Veneto al censimento Istat del 2001 erano presenti 1.714mila nuclei familiari. Nel 2008 il dato è salito a 1.951mila, pari ad un incremento di 237mila nuove famiglie (+13,8% sul 2001, a fronte di una crescita demografica del 7,2% nello stesso periodo, che ripropone la stessa DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI dinamica registrata tra il censimento del 1991 e quello del 2001). Crescono le famiglie con una dinamica doppia rispetto alla popolazione e il mercato residenziale è un mercato che fa riferimento alla domanda delle famiglie (quelle già esistenti e quelle dovute ai nuovi matrimoni), dei nuclei unipersonali (giovani, single, anziani), delle convivenze e delle giovani coppie, dei trasferimenti per lavoro, degli immigrati e dei loro ricongiungimenti. Non della popolazione in termini di abitanti (come erroneamente si potrebbe essere portati a pensare). Nello stesso periodo le statistiche sui permessi di costruire evidenziano che in Veneto tra il 2001 e il 2006 i permessi di costruire edifici residenziali sono stati 37.986 per complessivi 85,4 milioni di mc. Ma la produzione effettiva relativa a quei permessi di costruire come abbiamo visto è entrata nel mercato solo nel 2008, a causa dei tempi relativi alla costruzione. Le abitazioni ultimate tra il 2002 e il 2008 sono state in tutto 268mila, delle quali 226mila da nuova costruzione e 42mila da ampliamenti e in fabbricati non residenziali. Dunque il confronto tra quanto realizzato e quanto richiesto del mercato evidenzia che a una domanda di 237mila nuove famiglie il mercato ha risposto producendo un po’ di più del necessari, ma questo “di più” si deve per ben 42mila alloggi ad ampliamenti e ad alloggi inseriti in fabbricati non residenziali. Insomma, non proprio una risposta adeguata alle esigenze del mercato. Inoltre va puntualizzato che nel 2001 il 14,3% delle abitazioni occupate (una ogni sette) si trovava in mediocri o pessime condizioni di conservazione. Significa che una famiglia veneta ogni sette viveva in condizioni di disagio, quando non di vero e proprio degrado. Non è una percentuale trascurabile. E’ una 157 158 Quaderni di ricerca sull’artigianato percentuale che fa riferimento a 242mila famiglie, che giustamente aspirano ad un miglioramento della propria condizione abitativa (e se si guarda non al numero degli alloggi, ma agli edifici, la percentuale di situazioni di degrado sale al 17%, un edificio ogni sei). Altre puntualizzazioni potrebbero essere fatte sulla domanda proveniente da nuovi nuclei familiari (si contano circa 19mila matrimoni ogni anno in Veneto), da sfratti e da domanda ERP non soddisfatta (15mila domande all’anno contro 1.000 assegnazioni), da mobilità, da condizioni di disagio (nel 2001 ben 400mila persone abitavano in condizioni di sovraffollamento, e 100mila di esse in situazioni di grave disagio), da studenti, da anziani autosufficienti, da trasferimenti da altre regioni, da immigrati. Questi dati mettono in evidenza che la domanda residenziale è ben lungi dall’essere soddisfatta e anzi esercita oggi ed eserciterà domani una pressione molto consistente, nel segmento dell’edilizia sociale di nuova concezione, quella che in gergo tecnico viene chiamata social housing, ovvero edilizia sociale di qualità per il ceto medio. Questo è il primo elemento di riflessione: l’edilizia oggi deve guardare alle vere esigenze del mercato, con azioni di grande impatto quantitativo ricvolte a riqualificare le città e dare un alloggio a quei soggetti che oggi, soprattutto per motivi economici, cono espulsi dal mercato. Ma questa è una domanda di nuovi alloggi a canone calmierato, per i quali serve una nuova, efficiente ed efficace politica di intervento pubblico, che realizzi in ogni comune interventi edilizi pubblici destinati al social housing, con piani di investimento e rientro finanziario a 30 anni, e con una politica degli affitti in grado di calmierare il mercato. Questi segnali evidenziano che il mercato delle costruzioni, pur nella DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI negatività del momento, ha tutte le potenzialità per ripartire e riaprire una stagione di successo per le imprese, in particolare sia quelle artigiane che non artigiane, ma soprattutto quelle più strutturate e imprenditorialmente solide. Dal punto di vista dell’offerta le considerazioni da fare sono due. La prima è relativa al prodotto edilizio e alle esigenze di promuovere una nuova stagione costruttiva che ponga al centro del prodotto e del processo costruttivo la qualità dell’edificato e il contenimento energetico. Come noto secondo dati UE, il settore delle costruzioni è il settore industriale a più alto impatto ambientale: consuma il 45% dell’energia complessiva, produce il 50% dell’inquinamento e produce quasi il 50% dei rifiuti. Secondo l’Enea gli sprechi energetici delle abitazioni sono molteplici: 57% riscaldamento, 25% acqua calda sanitaria, 11% apparecchi elettrici e 7% gas e cucina. La crisi dell’edilizia può essere un ottimo spunto per rinnovare e rivedere i processi porduttivi e riorientare massicciamente l’attività verso soluzioni tecnicamente avanzate ed ecocompatibili, con obiettivi di risparmio energetico e certificazione dei consumi. E’ importante pertanto puntare su una forte qualificazione del settore e sull’uso delle tecnologie innovative e orientate al risparmio energetico. Il secondo fattore di riflessione riguarda più da vicino il sistema delle imprese e la stessa dimensione di impresa. I dati di mercato presentati in queste pagine dimostrano che la crisi che sta colpendo il settore non è una crisi di breve periodo e soprattutto non è una crisi congiunturale ma strutturale. In questo senso il mercato delle costruzioni, attraverso questa crisi, non solo spinge le mprese a muoversi verso aree e ambiti di mercato un tempo relegati 159 160 Quaderni di ricerca sull’artigianato a “nicchie” (bioedilizia, bioarchitettura, risparmio energetico, domotica, ecc.) e a rinnovarsi nei prodotti e nei processi forniti al sistema della domanda, ma spinge soprattutto a guardare all’interno dell’impresa e ai suoi assett gestionali, al fine di ottimizzare i processi interni di gestione e recuperare competitività e redditività. Un punto nodale, infatti, che emerge dai dati relativi al sistema delle imprese e all’occupazione, è che la crisi ha colpito soprattutto le microimprese, in particolare quelle artigiane. Si tratta di imprese che nel passato hanno saputo ben posizionarsi all’interno della filiera delle costruzioni, ottimizzando il proprio operare in ragione delle possibilità offerte dal sistema del subappalti a cascata e delle piccole commesse locali. Nel momento in cui la crisi spinge tutta la filiera a riorganizzarsi e a ottimizzare tempi e modi della produzione, le medie e grandi imprese, ma anche le medio-piccole imprese, ovvero quelle con 6 e più addetti, hanno iniziato a rivedere i propri processi organizzativi, produttivi e gestionali, riducendo i subappalti laddove possibile, mantenendo e ottimizzando al proprio interno i processi e rivedendo il sistema di accordi e partenariati promossi a livello locale. Ciò ha consentito di recuperare competitività e prova ne è la dinamica delle imprese strutturate, che crescono nonostante la crisi. Per le microimprese, e per le piccole imprese artigiane, la crisi invece si traduce in una necessaria e doverosa riflessione sulle prospettive oggi non più premiate dal mercato, di rimanere “piccoli”. Una crisi di questo tipo e di questa dimensione può e deve far riflettere su quali sono i modelli oggi più adatti a superare non solo la congiuntura negativa, ma a dare una risposta strutturale e strutturata ad un mercato che esige non più velocità e improvvisazione, ma qualità e DINAMICHE E STRATEGIE DELL’EDILIZIA E DELL’ARTIGIANATO DI FRONTE ALLA CRISI specializzazione. Piccolo è bello se specializzato e se inserito all’interno di una logica di filiera integrata nella quale il processo e il prodotto siano posti al centro dell’agire di tutta la filiera stessa. Per le imprese artigiane è una doppia sfida: da un lato dimostrare che l’imprenditoria artigiana non è solo un’imprenditoria di piccole imprese operanti a valle della filiera, e da un altro lato evidenziare che proprio nell’artigianato si esprimono alcuni dei più interessanti e innovativi modelli di operatività integrata. I successi delle società di capitale artigiane e la crescita vertiginosa negli ultimi anni del loro numero (erano poco più di 100 dieci anni fa, sono oltre 2.000 oggi) fanno ben sperare in questo senso. 161 162 Quaderni di ricerca sull’artigianato Riferimenti bibliografici - AGENZIA DEL TERRITORIO (2009), Osservatorio Mercato Immobiliare, Rapporto Immobiliare 2009, Roma. - BANCA D’ITALIA (2009), L’economia italiana in breve, Roma. - BANCA D’ITALIA (2009), Sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia, Supplemento al Bollettino Statistico, Roma. - CEAV–UNIONCAMERE (2009), Osservatorio sul mercato delle costruzioni nel Veneto, Venezia. - CEAV–UNIONCAMERE (2010), Osservatorio congiunturale trimestrale sul mercato delle costruzioni nel Veneto, Venezia. - COSES-ISMU (2009), Immigrati in-stabili, a cura di Stefania Bragato e Vania Colladel, nuovadimensione, Venezia, 2009. - Cresme (2010), XVIII Rapporto congiunturale e previsionale CRESME, Il mercato delle costruzioni: 2010-2015, Roma, novembre 2010. - CRESME-CEAV-CEVA (2008), Indagine congiunturale sulle imprese artigiane delle costruzioni, Venezia. - CRESME–ANCEVENETO (2006), La domanda abitativa nel Veneto 2006-2015, Padova. 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