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Azienda Pubblica
3.2009
Teoria ed esperienze di management
Rivista trimestrale
anno XXII
numero 3
luglio • settembre
2009
Sommario
Editoriale
Elio Borgonovi, Giovanni Valotti
Riforme istituzionali e management:
un’alleanza per il cambiamento
403
Saggi
Raffaele Adinolfi
La qualità nella formazione.
Un’indagine sulle determinanti
409
Luigi Lepore
Efficienza, efficacia ed equità nell’amministrazione
della giustizia 429
Cinzia Raimondi
Programmazione delle politiche pubbliche
e bilancio dello Stato: esperienze e metodologie
di valutazione
449
Esperienze innovative
Antonio D. Barretta,
Patrizio Monfardini
Utilizzo e vantaggi del bilancio sociale in sanità:
analisi di un caso aziendale
481
Vincenzo F. Cavaliere,
Dario Rosini,
Daria Sarti
Antonio Sofi
Verso un approccio evolutivo allo sviluppo delle
competenze nei processi di formazione. Un caso
di studio 505
Alessandro Sancino
L’esercizio dello spoil system nella governance
dell’ente locale: alcuni casi a confronto
531
Fonti di approfondimento
Spoglio riviste
559
In libreria
561
Nell’articolo “La governance delle società per azioni, dei servizi pubblici locali: attualità e
prospettive”, di Paolo Ricci e Tiziana Landi, pubblicato nelle Esperienze Innovative del n. 2/2009 di
Azienda Pubblica, per un errore di cui la Redazione si scusa con gli autori e i lettori, nel § 3, sottoparagrafo La governance delle società dei servizi e loro accountability, dopo il periodo “A queste relazioni
potrebbero [...] normalmente svolta dai partiti” manca il seguente passaggio:
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Editoriale
Riforme istituzionali e management: un’alleanza per il cambiamento
Elio Borgonovi, Giovanni Valotti (1)
La legge 15/2009 e i collegati decreti attuativi aprono una nuova stagione di riforme del
settore pubblico. Molte sono le innovazioni introdotte dalla nuova modifica del quadro normativo.
Si pone, innanzitutto, grande enfasi sul tema della misurazione e della valutazione. Per la
prima volta in una legge dello Stato si usa il termine, inglese, di performance e questo non è,
dal punto di vista culturale, un piccolo passo in avanti.
Si esplicitano il concetto di ciclo di gestione della performance e le fasi che lo caratterizzano,
secondo uno schema logico di base per i manuali di management ma sconosciuto, nei fatti, a
molti enti.
Si precisano gli ambiti di misurazione della performance e si introduce l’obbligo di valutazione della stessa, con riferimento alle amministrazioni e ai singoli individui.
Si prevede la redazione e la pubblicazione di un apposito rapporto sulla performance.
Insomma, si pone il risultato al centro delle preoccupazioni delle amministrazioni pubbliche, il
che non è male.
Ancora più importante è la grande enfasi attribuita dalla riforma al tema della trasparenza.
Ciascuna amministrazione deve predisporre un programma triennale per la trasparenza, è definito
l’obbligo di pubblicazione, sul sito istituzionale, di tutte le informazioni relative alle nomine, alla
performance, ai trattamenti retributivi e all’uso effettivo dei sistemi incentivanti.
Anche questo sembra un passo avanti importante e in linea con le necessità.
Non da ultimo, viene molto enfatizzato il tema della meritocrazia. Si ipotizzano distribuzioni
maggiormente differenziate delle valutazioni individuali e si introducono meccanismi premianti
articolati, di natura monetaria e non monetaria.
Sullo sfondo c’è però anche dell’altro: il riordino della disciplina della dirigenza pubblica,
nella direzione di rafforzarne sia l’ambito di autonomia che le connesse responsabilità; il ridisegno
degli organi di controllo, attraverso l’attivazione di un nuovo organismo centrale e la rilettura
delle funzioni e delle responsabilità di quelli operanti all’interno delle singole amministrazioni;
infine, un ripensamento del sistema delle relazioni sindacali, nel tentativo di meglio delineare
l’ambito più appropriato della contrattazione.
Anche su questi piani, si può sostenere che le innovazioni introdotte siano un utile contributo
alla creazione di condizioni di sviluppo degli enti.
Ma la nuova riforma rappresenta, soprattutto, un segnale politico importante. Dopo anni di
colpevole disattenzione, la stessa riporta ai primi posti dell’agenda della modernizzazione del
Paese il cambiamento delle amministrazioni pubbliche. È questo un segnale importante, una
sferzata agli enti, un richiamo alle loro responsabilità, che appariva necessario.
Stupisce, per contro, la reazione, spesso di grande preoccupazione e di spiazzamento. In
fondo i principi tracciati dalla riforma sono, quasi per definizione, giusti e condivisibili.
Gli enti evoluti non hanno nulla da temere, stanno già facendo molte delle cose previste, in alcuni
casi sono addirittura più avanti. Addirittura, gli stessi possono trovare nella riforma un “alleato” per portare avanti, con ancora maggiore determinazione, i processi di cambiamento da tempo intrapresi.
1 Tratto dal libro di G. Valotti (2009), Fannulloni si diventa, Milano: Egea.
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Editoriale
All’estremo opposto, le amministrazioni pubbliche più arretrate si diano, finalmente, da
fare. Per queste la riforma può rappresentare l’innesco di un percorso di miglioramento che,
evidentemente, non hanno avuto sin’ora la forza di intraprendere da sole.
Se funzionerà, lo vedremo. Anche la riforma, come le amministrazioni, è chiamata alla prova dei risultati. Serve un po’ di tempo e poi potremo giudicare gli effetti prodotti sulle singole
amministrazioni e sul settore pubblico nell’insieme.
Quello che non deve succedere è che gli enti si disperdano in cavillose e infinite discussioni
sull’interpretazione del dettato normativo. I principi sono chiari, non è nei dettagli che ci si deve
perdere.
Inoltre, è importante che le amministrazioni non sovraccarichino di responsabilità la riforma:
l’attuazione della stessa e la trasformazione vera delle organizzazioni, ancora una volta, è in
gran parte nelle loro mani.
Soprattutto, la nuova stagione di riforme può essere finalmente l’occasione per saldare virtuosamente tra di loro l’approccio giuridico-istituzionale e quello manageriale.
Secondo l’approccio istituzionale, infatti, la riforma delle pubbliche amministrazioni transita
da un riassetto complessivo dei poteri e delle funzioni dei diversi livelli di governo e, al tempo
stesso, si fonda su di un adeguamento generale del quadro delle regole di sistema. Il veicolo
del cambiamento è, in questo caso, rappresentato principalmente da una modifica delle norme
che si propone di indurre una trasformazione delle funzioni, delle responsabilità formali e dei
processi amministrativi dei diversi enti pubblici.
L’approccio manageriale, al contrario, considera la norma come un vincolo o una condizione di contesto rispetto allo sviluppo di processi evolutivi fortemente centrati sull’esercizio
responsabile di autonomia da parte delle singole amministrazioni. Il veicolo del cambiamento
è, di conseguenza, principalmente rappresentato da un adeguamento dei modelli di gestione e
delle competenze professionali che si propone di migliorare la capacità di valorizzazione delle
risorse amministrate e di perseguimento dei fini istituzionali.
Si tratta, evidentemente, di prospettive e chiavi di lettura dei processi di cambiamento differenziate ma, al tempo stesso, sempre più complementari.
Il pieno dispiegarsi del management all’interno del settore pubblico presuppone, infatti, una
serie di condizioni che solo le riforme sul piano istituzionale possono garantire.
Tra le più rilevanti si possono ricordare: a) il miglioramento della qualità del quadro giuridico complessivo, attraverso un processo di semplificazione e coordinamento della legislazione
vigente che sia in grado di assicurare, al minimo, il requisito essenziale della certezza del diritto
e, più compiutamente, non costituisca un ostacolo al perseguimento degli obiettivi di efficacia
ed efficienza degli enti; b) una chiara definizione delle competenze facenti capo ai diversi livelli
di governo, nonché degli eventuali gradi di libertà connessi, tale da consentire la definizione
della mission e dei confini dell’intervento dei singoli enti; c) il ridisegno del sistema di relazioni
all’interno del settore pubblico, sia di natura amministrativa che finanziaria, al fine di garantire
al tempo stesso una migliore responsabilizzazione dei singoli enti rispetto ai risultati da produrre
e il superamento di complessi processi decisionali interistituzionali; ciò significa un ripensamento
dei meccanismi di finanziamento e di salvaguardia degli equilibri economico-finanziari degli
enti, un adeguamento delle modalità di programmazione, indirizzo e controllo, la previsione di
forme flessibili di confronto e condivisione delle risorse tra gli enti, la definizione di tempi certi per
l’assunzione delle decisioni; d) l’adeguamento dei principi e dei sistemi di responsabilizzazione
degli enti e di coloro che, pro-tempore, ne assumono le funzioni di governo e gestione; rientrano
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in questa prospettiva la revisione del sistema dei controlli nella direzione di una maggiore enfasi
su aspetti sostanziali, rispetto a quelli relativi alla semplice correttezza amministrativa, della
disciplina delle responsabilità dell’amministratore e del dipendente pubblico, del sistema degli
incentivi e delle sanzioni collegati alle performance realizzate dagli enti; e) infine, la qualificazione del quadro competitivo all’interno del quale si esercitano le funzioni pubbliche, attraverso
la definizione del ruolo da riconoscere al mercato e al libero dispiegarsi della concorrenza,
piuttosto che a politiche di più o meno restrittiva regolamentazione.
È altrettanto vero, in senso opposto, che la qualità e l’efficacia delle riforme istituzionali
risultano essere fortemente influenzate dall’apporto del management. Ciò vale almeno dai
seguenti punti di vista: a) l’approccio e le discipline manageriali hanno svolto e possono
svolgere in prospettiva un ruolo rilevante nel processo di messa a fuoco dei principi cardine e
delle linee guida dei processi di riforma; concetti ormai consolidati, come quelli di efficacia,
efficienza, economicità, sono entrati nell’“agenda del riformatore” proprio grazie all’influenza del management; in un percorso più avanzato di innovazione dell’intervento pubblico, le
istanze di decentramento e sussidiarietà proprie delle riforme istituzionali, trovano conferma
e ispirazione nei principi di autonomia e responsabilizzazione, cooperazione e integrazione,
propri dell’approccio manageriale; in altri termini, e questo vale nell’esperienza dei principali
Paesi industrializzati, il management può al tempo stesso contribuire alla definizione dei principi
ispiratori delle riforme istituzionali e garantire un contributo attivo e propositivo per la concreta
progettazione delle stesse; b) è tipico, inoltre, del management, il governo della fase attuativa
delle riforme, tradizionale aspetto di crisi dei processi di cambiamento dei sistemi complessi, in
particolare pubblici; in questo senso diviene fondamentale la capacità di andare oltre la fase
progettuale e di formalizzazione del disegno di riforma; l’approccio manageriale fornisce, da
questo punto di vista, un contributo essenziale nelle diverse fasi concatenate di definizione delle
modalità e dei tempi di attuazione delle riforme, di verifica sull’effettivo grado di realizzazione dei programmi, di analisi e valutazione delle difficoltà attuative e di eventuale rimozione
degli ostacoli emergenti, di valutazione dei risultati prodotti attraverso i processi di riforma, di
elaborazione di ipotesi evolutive dei percorsi di riforma alla luce degli esiti delle diverse fasi di
attuazione degli stessi; c) non da ultimo, il management, garantisce la funzionalità e l’efficacia
delle riforme in atto, fornendo un contributo determinante al miglioramento delle modalità di
gestione e sviluppo dei singoli enti pubblici; ciò rappresenta evidentemente una condizione
essenziale affinché le riforme istituzionali e degli assetti complessivi di sistema si traducano in
processi amministrativi e servizi in grado di generare valore finale per il cittadino.
Non si ritiene quindi utile, nella sostanza, ricercare un “primato” tra riforme istituzionali e
riforme manageriali nel contributo fornito al miglioramento del settore pubblico. Tanto meno
convince l’ipotesi di autosufficienza di uno dei due piani di intervento. Eppure, non va sottovalutato, i due approcci spesso appaiono tra di loro non in sintonia ed espressione di idee, valori
guida, modi di interpretare i problemi, molto distanti e a volte addirittura contrapposti.
Nei sostenitori delle riforme istituzionali emerge così, talora, la non piena comprensione
del management correttamente inteso e l’identificazione dello stesso con logiche e metodologie
dell’impresa privata, combinato con una sorta di sfiducia in merito all’apporto effettivo dello stesso
al cambiamento delle amministrazioni pubbliche. Viceversa, i fautori delle riforme manageriali,
rischiano spesso di sottovalutare le necessarie coerenze e condizioni istituzionali per sostenere
i processi di trasformazione degli enti e del settore pubblico nel suo insieme.
È proprio, allora, il superamento di queste visioni parziali e semplificate e la capacità di
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ricondurre a sintesi approcci in realtà complementari, che può determinare la qualità, l’effettività
e l’efficacia finale dei processi di riforma intrapresi.
Soprattutto, riforme istituzionali e manageriali, sempre più si devono confrontare con i complessi problemi della gestione del cambiamento. I processi di modernizzazione del settore pubblico,
infatti, per quanto innovativi e rigorosi sul piano dell’impostazione e delle scelte di fondo, si
sono, di fatto, scontrati con assetti fortemente consolidati di poteri, funzioni e responsabilità.
Velleitaria, e quindi inefficace, appare l’ipotesi di una trasformazione delle amministrazioni
pubbliche guidata dal centro, in applicazione di un disegno di riforma generale che i diversi
enti si vedrebbero costretti ad applicare, grazie anche all’impiego di metodi coercitivi e sanzionatori. Molti sono, al riguardo, gli esempi di difesa delle tradizionali burocrazie, nel pieno
rispetto formale degli indirizzi di cambiamento definiti a livello di sistema.
La piena applicazione delle riforme istituzionali al contrario richiede, come sopra delineato,
trasformazioni radicali nei modelli di funzionamento e nelle logiche di gestione degli enti, in
buona parte dipendenti dall’autonoma iniziativa degli stessi, per quanto quest’ultima possa
essere stimolata e orientata da progetti evolutivi più generali di sistema.
Assume, di conseguenza, grande rilievo il tema del change management, ovvero la capacità
di messa a fuoco di una strategia di cambiamento, del settore pubblico nel suo insieme e dei
diversi enti che lo compongono, che sia in grado di mettere concretamente in atto le innovazioni
progettate, superando le forme di resistenza tipiche di qualunque assetto consolidato.
Da questo punto di vista il contributo delle discipline manageriali appare quanto mai rilevante, in considerazione del fatto che l’oggetto di studio e analisi delle stesse riguarda, in buona
sostanza, proprio le organizzazioni “in azione”.
La chiave di lettura del management consente quindi di indagare nel merito l’evoluzione,
o la staticità, delle amministrazioni pubbliche al modificarsi delle condizioni di contesto e in
attuazione dei processi di riforma.
Una precisa e strutturata analisi delle leve effettive e potenziali del cambiamento, delle principali forme di inerzia organizzativa, del comportamento atteso ed effettivo dei principali attori
in gioco, del quadro dei vincoli esistenti e delle condizioni di relativa rimozione, delle possibili
fasi e dei tempi dei processi evolutivi, rappresentano spesso elementi determinanti dell’efficacia
e della qualità delle riforme attivate.
Al tempo stesso appare rilevante l’apporto fornito dalle discipline manageriali in merito
all’analisi sistematica, e di regola comparata a livello nazionale e internazionale, dei processi di
riforma realizzati o in corso di svolgimento. Emerge in questo, spesso, il distacco tra cambiamenti
annunciati e trasformazioni reali, combinato con elementi di valutazione dei risultati conseguiti
e degli effetti prodotti e con analisi degli aspetti di maggiore criticità o al contrario successo,
degli interventi attivati. Tutte dimensioni che possono rappresentare un input fondamentale per
l’adattamento dei processi di riforma in essere.
Infine, lo sviluppo del management all’interno del settore pubblico può contribuire alla formazione di nuove abilità e professionalità essenziali alla gestione dei processi di cambiamento.
Imprenditorialità, propensione al rischio, capacità di gestire l’incertezza, esercizio della leadership, capacità di coinvolgimento, innovatività, orientamento al risultato, competenza gestionale,
sono solo alcuni dei tratti che con maggiore frequenza vengono al riguardo richiamati.
Tutto ciò può indubbiamente favorire l’affermazione di un nuovo sistema di valori all’interno
del settore pubblico, capace di combinare il perseguimento delle finalità istituzionali e le istanze
di equità e legalità dell’intervento, con una nuova tensione al cambiamento e all’assunzione
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delle correlate responsabilità.
Sono questi i presupposti per una significativa trasformazione della cultura organizzativa
degli enti pubblici, ideale saldatura tra i disegni di riforma di sistema, i processi di innovazione
all’interno degli enti e i comportamenti di coloro che, nei fatti, devono dare sostanza a quanto
progettato.
Su questo piano ancora pesano, a riprova del rilievo dei percorsi di cambiamento manageriale, le distanze tra amministrazioni più evolute, in grado di valorizzare appieno il potenziale
di miglioramento delle riforme ed enti più arretrati, spesso incapaci di coglierne le opportunità. È
importante che, nell’ambito del processo di riforma complessiva del settore pubblico, si consideri
questo aspetto al fine di favorire dinamiche di propagazione delle migliori pratiche ed esperienze. In questa direzione vanno, ad esempio, le comunità di pratica o i network professionali
recentemente attivati a sostegno dei disegni di cambiamento delle amministrazioni pubbliche in
molti Paesi. Ciò potrà, infatti, consentire la piena affermazione di una nuova visione del settore
pubblico e dei modelli di amministrazione, in linea con gli indirizzi e le scelte dei riformatori,
ma al tempo stesso in grado di permeare le decisioni e i comportamenti operativi dei soggetti
attuatori.
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Saggi
La qualità nell’alta formazione
La qualità nella formazione. Un’indagine sulle determinanti
Raffaele Adinolfi
Assegnista di ricerca presso l’Università degli studi di Salerno
Sommario: 1. Introduzione. 2. Disegno di ricerca e metodologia. 3. Sviluppo del questionario. 4. Individuazione del
campione e somministrazione del questionario. 5. Analisi dei dati. 6. Conclusioni.
Il lavoro mira a comprendere quali sono, nella percezione degli allievi, le caratteristiche ritenute
essenziali per definire la qualità di un percorso formativo. L’obiettivo è quello di migliorare la
comprensione delle scelte operate dagli studenti e di fornire utili spunti a chi opera nel settore della
progettazione di corsi di alta formazione. Le riflessioni proposte si basano su un’indagine empirica
quantitativa condotta su un campione di studenti iscritti a master e a corsi di alta formazione.
The work aims to understand students’ perception about the characteristics deemed essential to
define the quality of a course. The objective is to improve understanding of the students’ choices
and provide useful insights for those engaged in the higher education courses’ design. The ideas
proposed are based on quantitative empirical survey conducted on a sample of students enrolled
in master and advanced training courses.
L’articolo è una elaborazione del paper presentato al III Workshop Nazionale di Azienda Pubblica Governare e
programmare: l’azienda pubblica tra innovazione e sviluppo al servizio del cittadino e del Paese, Università di Salerno
– Università degli Studi del Sannio, giugno 2008 e ha ricevuto una menzione speciale dalla Commissione per il best
paper award.
Parole chiave: qualità dei servizi – alta formazione – valutazione della formazione
Key words: service quality – high education – training evaluation
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Saggi
La qualità nell’alta formazione
1. Introduzione
L’avvento della rivoluzione digitale e dell’economia globalizzata e postfordista hanno reso più importante il ruolo del sapere e hanno determinato
condizioni per le quali è essenziale che le conoscenze e abilità debbano
essere diffuse tra tutta la forza lavoro. La conoscenza è divenuta il fattore
chiave per la competitività delle imprese e dei sistemi Paese. L’aumento
delle componenti immateriali spiega la maggior parte del Pil di tutti i
Paesi industrializzati. è convinzione diffusa che un incremento del prodotto
nazionale di un Paese, così come un’istruzione di migliore qualità contribuisca allo sviluppo individuale delle persone, ad una crescita economica
sostenibile, alla coesione sociale e alla creazione di posti di lavoro più
numerosi e migliori. Il tema della qualità, pertanto, è, e continuerà ad
essere, centrale nel dibattito sul funzionamento dei sistemi di istruzione
e formazione.
Non è semplice definire la qualità. Ci sono due grandi scuole di pensiero che affrontano in maniera differente la tematica della qualità: la prima
privilegia il lato dell’offerta (supply-side approach), la seconda attribuisce
maggior rilievo alle attese del consumatore (consumer approach).
Con il primo approccio la qualità viene considerata come dipendente dalla capacità delle organizzazioni di definire, misurare, valutare e
monitorare determinati standard di qualità. I principi di tale modello
risalgono alle scuole di Deming (1986) e Juran (1989). Sebbene né
Deming né Juran abbiano affrontato il tema della qualità dell’istruzione,
la loro filosofia è evidente nelle scelte adottate dalle istituzioni formative
occidentali, soprattutto di matrice anglosassone (Ryland, King, 1992), che
privilegiano un approccio manageriale di tipo top-down, definiscono specifici e quantificabili obiettivi annuali, enfatizzano tecniche di valutazione
quantitative e, infine, individuano nell’efficienza economica il principale
obiettivo organizzativo.
Con il secondo approccio la definizione della qualità privilegia il lato
della domanda. La qualità è funzione delle percezioni, delle attese e delle valutazioni dei consumatori (Lewis, Blooms, 1983; Gronroos, 1984;
Parasuraman et al., 1985; Smith, 1995).
In tale filone di studi si inserisce la presente ricerca che presenta un’analisi sulle determinanti di qualità nell’istruzione e formazione superiore così
come percepite dai partecipanti prima e dopo le attività corsuali. L’obiettivo
è quello di definire i fattori che secondo i partecipanti influiscono maggiormente sulla qualità dei corsi di istruzione e formazione. (1)
1 La ricerca è stata realizzata con la collaborazione di alcuni dirigenti e funzionari della Regione Campania in servizio sia presso il Consiglio regionale che presso le sedi provinciali
degli Stap (Settore tecnico amministrativo provinciale). Agli stessi va il ringraziamento per la
gentile collaborazione.
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Saggi
La qualità nell’alta formazione
2. Disegno di ricerca e metodologia
La ricerca si è articolata in tre fasi:
- sviluppo del questionario:
• focus groups
• interviste in profondità
• esame della letteratura
- individuazione del campione e somministrazione del questionario:
• individuazione del campione
• somministrazione del questionario prima dell’avvio delle attività formative
• somministrazione del questionario al termine delle attività corsuali
- analisi dei dati:
• valutazione di affidabilità
• domande di ricerca e discussione dei risultati
3. Sviluppo del questionario
Dopo una preliminare ricognizione della letteratura si è deciso di indagare
il tema della qualità attraverso un’analisi dell’importanza che gli allievi
attribuiscono ai differenti aspetti che caratterizzano un percorso formativo.
Il questionario è stato definito attraverso un processo articolato in tre fasi:
in primo luogo sono stati organizzati dei focus groups per acquisire sulla
problematica un’ampia panoramica iniziale; successivamente, e sulla base
di quanto emerso nel primo step, sono state realizzate alcune interviste in
profondità; infine, le indicazioni ottenute sono state confrontate con i principali lavori di ricerca rinvenuti nella letteratura nazionale e internazionale
anche per rendere i risultati sostanzialmente comparabili. In tal modo si è
addivenuti al questionario definitivo.
Focus groups
Sono stati organizzati due focus groups costituiti da studenti ammessi a
partecipare a corsi di master universitari e non e studenti ammessi ad altri
corsi di formazione finanziati dalla Regione Campania. (2) Il primo gruppo
caratterizzato da studenti non residenti nei luoghi di fruizione del corso (di
seguito definiti studenti fuori sede), il secondo composto da studenti residenti
nei luoghi di frequenza del corso (in prosieguo studenti residenti). I membri
dei due gruppi sono stati selezionati, in questa fase della ricerca, secondo
un criterio di convenienza e disponibilità. In particolare i nominativi degli
2 Si noti che il finanziamento della Regione Campania è stato realizzato con la tecnica dei
voucher erogati dopo la partecipazione e frequenza al corso. Pertanto il finanziamento, giunto a posteriori, non ha influito sulle scelte dei partecipanti.
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Saggi
La qualità nell’alta formazione
studenti residenti sono stati individuati tra gli iscritti a corsi di alta formazione finanziati dalla Regione Campania, il focus group dei ‘fuori sede’ è
stato organizzato anche con la collaborazione di alcuni enti di formazione
attuatori di corsi di alta formazione finanziati dal Miur nell’ambito del Pon
Ricerca scientifica tecnologica e alta formazione Ob. 1, misura 3.6. L’ampiezza dei focus group è conforme alle principali prescrizioni e raccomandazioni metodologiche della letteratura (Morgan, 1988; Malhotra, 1993).
In particolare il gruppo dei residenti era costituito da 12 unità mentre quello
dei ‘fuori sede’ era composto da 8 persone. Va sottolineato che di norma
sono auspicabili due o più gruppi di riflessione per gli studi e le indagini
esplorative su fenomeni per i quali esistono poche o nessuna informazione.
Nella nostra ricerca, un solo gruppo di riflessione per tipologia (residenti
e fuori sede) è stato ritenuto sufficiente vista la disponibilità di letteratura
sulla tematica indagata.
Il protocollo di conduzione dei gruppi prevedeva un preliminare chiarimento sulla natura della ricerca e sulle modalità di trattamento dei dati e
una rassicurazione sulla garanzia dell’anonimato. Inoltre, è stato chiarito
che le discussioni sarebbero state audio-registrate e trascritte senza consentire l’identificazione degli studenti. Ai focus group ha presenziato anche
un osservatore (non partecipante alla discussione) che, separatamente e
indipendentemente dal conduttore, prendeva nota dei temi emersi dalla
discussione, della loro frequenza e del loro ordine.
Al termine è stata elaborata una matrice comune di identificazione delle
variabili. Per questa ricerca si è ritenuto più opportuno adottare il metodo
sopra illustrato – basato sui principi generali adottati da Miglia e Huberman
(1984) – rispetto all’analisi etnografica computerizzata.
Interviste in profondità
Il ricorso alla metodologia dei focus group è utile per ottenere un’ampia
panoramica iniziale su una situazione complessa. Tuttavia, è difficile ottenere
significative e raffinate riflessioni personali sia a causa del tempo limitato
sia a causa della tendenza all’omologazione di gruppo. Per tale ragione,
si è ritenuto opportuno realizzare anche una serie di interviste in profondità
utilizzando le informazioni emerse durante i focus group. Queste interviste
hanno riguardato sia gli studenti fuori sede che quelli residenti non essendoci,
in letteratura, ricerche specifiche sui due differenti gruppi.
Al fine di ottenere informazioni più utili possibile sui fattori percepiti come
rilevanti per la definizione del livello qualitativo del corso di formazione, si
è deciso di intervistare gli studenti che avevano appena superato le prove
di selezione per l’ammissione a dei master universitari e non.
La dimensione del campione per le interviste in profondità non è stata
predeterminata; essa è stata collegata alla completezza dei dati e delle
informazioni acquisite e alla disponibilità di allievi. Dopo 14 interviste si è
ritenuto che le informazioni acquisite fossero sufficienti. Sono state realizzate
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8 interviste a studenti di sesso femminile e sei a studenti di sesso maschile. Al
termine di ogni intervista è stata preparata una relazione sui risultati emersi
e sugli item considerati rilevanti per la valutazione qualitativa dei corsi di
formazione che si accingevano a seguire.
Esame della letteratura
Le indicazioni ottenute nelle precedenti fasi sono state confrontate con quelle
di analoghe ricerche riscontrate in letteratura.
Tra le principali ricerche analizzate si sottolineano, per affinità metodologiche, quelle riportate nei contributi di Conant et al. (1985), Kellaris
J.J. e Kellaris W.K (1988), Ryland e King (1992), Lapidus e Brown (1993),
mentre approcci e finalità differenti caratterizzano i lavori di Swiierczek e
Carmichael (1985), Williams (1989), Kaplan e Norton (1993 e 1996),
Kirkpatrick (1983 e 1994), Quaglino (1992), Kotler e Fox (1995), Amietta
(1996), Baccarani (1998), Butera (1998), Cafferata (1999), Mele e Popoli
(1999), Ferrara (2001), Varaldo (2001), CNVSU (rapporti annuali sullo stato
delle Università 2000-2004), Rebora (2002), Borgonovi (2003), Boldizzoni
(2004), Mussari (2004), Boldizzoni e Nacamulli (2005).
Va sottolineato che gli autori nazionali prediligono approcci d’indagine differenti da quello seguito nel presente lavoro di ricerca. Infatti nella
letteratura italiana sono più frequenti i contributi di tipo teorico-qualitativo
e le indagini quantitative esistenti analizzano l’andamento degli indicatori
di qualità definiti dagli autori oppure con indagini di customer satisfaction
esaminano i giudizi sulla qualità forniti a posteriori dagli allievi.
Il presente lavoro, invece, mira a comprendere quali sono, nella percezione degli allievi, gli elementi ritenuti essenziali per definire la qualità di
un percorso formativo sia prima che il corso sia erogato sia dopo aver fruito
dell’attività didattica. Tali informazioni sono fondamentali per comprendere
le scelte operate dagli studenti, inoltre consentono di individuare gli elementi
di qualità su cui concentrare le indagini di customer satisfaction. Il principale
limite dell’approccio è che l’analisi si limita a fornire informazioni utili per
comprendere solo il gradimento degli allievi, ossia solo il livello I della scala
di Kirkpatrick (3) (1983, 1994). Nessuna informazione è fornita sui livelli
superiori: su quanto la formazione influisce effettivamente sulle competenze
degli allievi, su quanto la formazione determina miglioramenti delle prestazioni lavorative e infine su quanto la formazione influisce sugli eventuali
risultati conseguiti dalle organizzazioni in cui sono inseriti gli allievi. (4)
3 Il modello di Kirkpatrick individua 4 livelli su cui impatta la formazione e che occorre misurare per valutare l’efficacia di un’attività formativa: il livello della reazione (gradimento dell’allievo), quello delle competenze, quello delle prestazioni ed infine quello dei risultati.
4 L’approccio di Kirkpatrick riguarda la valutazione della formazione vista dal lato dell’azienda che eroga direttamente attività formative nei confronti dei propri dipendenti o sostiene costi per consentire loro la partecipazione ad attività formative esterne. A ben vedere, tuttavia,
il modello di Kirkpatrck è estendibile a tutte le attività educative, basta considerare i miglioramenti nelle competenze, prestazioni e risultati dei singoli visti come cittadini.
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Gli indicatori di qualità emersi nelle fasi di focus group e nelle interviste
in profondità sono stati, laddove possibile, adattati in modo da renderli
comparabili con quelli riscontrati nelle ricerche internazionali caratterizzate
da analoghe metodologie e in particolare con le ricerche di Ryland e King
(1992) e Lapidus e Brown (1993). Ciò ha reso possibili ulteriori spunti di
verifica, comparazione e riflessione.
In totale sono state individuate 26 variabili ritenute pertinenti e significative per la definizione e determinazione della qualità così come percepita
dagli studenti:
1. contenuti del corso;
2. corpo docente;
3. imparzialità nelle valutazioni;
4. capacità di stimolo intellettivo;
5. varietà delle tematiche affrontate;
6. accessibilità e disponibilità dei docenti;
7. piccola dimensione delle classi;
8. orario delle lezioni;
9. materiale didattico;
10. coordinamento tra docenti e programmi didattici;
11. gradevolezza dell’ambiente fisico;
12. rispetto delle norme di sicurezza;
13. raggiungibilità della sede;
14. rispetto delle norme sanitarie;
15. disponibilità di parcheggio;
16. servizi bar e di ristorazione;
17. attività socio-culturali parallele;
18. disponibilità di biblioteca e banche dati;
19. laboratori informatici;
20. guida dello studente;
21. pubblicizzazione degli obiettivi formativi e orientamento in ingresso;
22. test intermedi di autovalutazione;
23. servizi per il placement;
24. riconoscimento dei crediti formativi e universitari;
25. stage;
26. reputazione dell’istituto educativo.
Per comprendere l’importanza attribuita dagli studenti a ciascuno dei 26
item è stato sviluppato un questionario caratterizzato dall’utilizzazione di
una scala di Likert a sette punti con le seguenti polarità (1 = non importante,
7 = molto importante). Ad esempio:
Item 1. I contenuti del corso sono... 1 2 3 4 5 6 7.
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La qualità nell’alta formazione
4. Individuazione del campione e somministrazione del questionario
Il campione è stato estratto tra tutti i partecipanti, distinti tra in sede e fuori
sede, a corsi di master e alta formazione realizzati in Campania e finanziati dalla Regione Campania nell’ambito del Por 2000-2006 e dal Miur
nell’ambito del Pon Ricerca scientifica tecnologica e alta formazione Ob. 1,
misura 3.6. L’attività di collaborazione e sensibilizzazione di alcuni dirigenti
e funzionari della Regione Campania, alcuni in servizio presso il Consiglio
regionale e la Giunta e altri presso i Settori tecnici amministrativi provinciali,
ha permesso il coinvolgimento attivo degli enti di formazione coinvolti i cui
responsabili hanno garantito l’attività di raccolta e somministrazione dei
questionari. Ciò ha permesso di avere un missing pari a 0, ossia di non
avere perdita di dati.
Il questionario è stato somministrato a un totale di 400 studenti di cui
302 residenti e 98 fuori sede.
Le caratteristiche quali-quantitative del campione sono riportate nella
tabella 1.
Tabella 1 – Caratteristiche quali-quantitative del campione
descrizione
n.
età
media
deviazione
standard
dell’età
Iscritti a corsi di alta formazione post laurea mis.3.6 in sede
88
28.34
2.94
Iscritti a corsi di alta formazione post laurea mis.3.6 fuori sede
33
27.68
3.12
Iscritti a master universitari finanziati dalla Regione
Campania in sede
84
27.23
3.02
Iscritti a master universitari finanziati dalla Regione
Campania fuori sede
31
27.91
4.26
Iscritti a master non universitari finanziati dalla Regione
Campania in sede
76
27.12
5.16
Iscritti a master non universitari finanziati dalla Regione
Campania fuori sede
22
27.43
5.87
Altri corsi di formazione finanziati dalla Regione
Campania in sede
54
25.38
7.13
Altri corsi di formazione finanziati dalla Regione
Campania fuori sede
12
26.19
6.98
Va sottolineato che, a differenza delle altre ricerche presenti in letteratura,
il questionario è stato somministrato agli stessi allievi due volte: la prima
durante le selezioni al corso e prima dell’avvio delle attività formative; la
seconda volta al termine delle attività corsuali, di norma dopo circa un anno.
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In questo modo è stato anche possibile verificare eventuali modifiche nelle
percezioni degli allievi sui fattori che influenzano la qualità.
5. Analisi dei dati
L’analisi statistica, sulla base delle correlazioni tra le risposte, ha consentito
l’individuazione di 4 fattori (‘variabili latenti’ ) nominati:
• insegnamento;
• struttura;
• orientamento;
• riconoscimento/occupabilità.
L’analisi fattoriale ha così sintetizzato i 26 item in 4 nuove variabili (o fattori)
e ne ha calcolato i valori associandoli a ciascun rispondente. L’affidabilità
dei dati è stata valutata mediante determinazione del valore alpha di Cronbach. (5) Il valore calcolato è pari a 0,889, ossia ben superiore al limite
minimo 0,60 prescritto dalla letteratura Malhotra (1993). Ciò conferma la
bontà dell’elaborazione.
Dall’analisi è emerso che le comunalità per l’item 14 (rispetto delle norme sanitarie) sono state particolarmente basse, ciò suggerisce che questa
voce può essere considerata estranea tra le variabili (Tachnichnick, Fidell,
1989). è stato eseguito pertanto il test alpha di Cronbach per valutare
l’affidabilità del set di dati con e senza l’inclusione della variabile 14; è
emerso che l’attendibilità del set di dati aumentava eliminando la variabile
14. Si è deciso, pertanto, di eliminare l’item 14 e di ri-analizzare i dati. Il
risultato finale dell’analisi fattoriale con l’indicazione semantica dei fattori
individuati è mostrato nella tabella 2 (cfr. tabella 2).
In tutti i casi i valori ottenuti per i singoli item in corrispondenza del fattore
cui sono stati assegnati sono quelli più elevati. Unica eccezione è costituita
dall’item 12 (rispetto delle norme di sicurezza) che fornisce valori leggermente più elevati in corrispondenza del fattore 1 (insegnamento) rispetto
al fattore 2 (struttura). Ciononostante si è comunque deciso di attribuire
l’item 12 (rispetto delle norme di sicurezza) al fattore 2 (struttura) vista la
sua maggiore inerenza (semantica) e preso atto della bassa significatività
della differenza, contenuta entro l’1%.
L’analisi dei quattro fattori ha mostrato che essi hanno tutti un autovalore maggiore di uno e che il raggruppamento fattoriale effettuato spiega
5 Il coefficiente alpha di Cronbach sintetizza l’attendibilità di un test. Tale coefficiente descrive la
coerenza interna di raggruppamenti di item; elevati valori di alpha indicano che i soggetti esaminati esprimono un atteggiamento coerente riguardo a ciascun item appartenente a ciascuna
dimensione. La verifica della coerenza interna di ogni subtest permette non solo di approfondire lo studio e la definizione della struttura fattoriale, ma anche di conoscere e definire la validità
di costrutto della scala. In questo senso i ricercatori, nell’applicabilità alle scale likert di questa
tecnica, sono concordi nell’adottare il valore di alpha=.60 come riferimento di un livello appena accettabile di coerenza interna e di adeguatezza di costrutto del test costruito.
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Tabella 2 – Risultati finali dell’analisi fattoriale
Item
Fattore 1:
Insegnamento
1
0,65242
2
0,68342
3
0,67644
4
0,50012
5
0,49981
6
0,61210
7
0,52101
8
0,58142
9
0,71221
10
0,48323
Fattore 2:
Struttura
11
0,49877
12
0,45354
13
0,72321
15
0,78221
16
0,61553
17
0,76002
18
0,70012
19
0,72022
Fattore 3:
Riconoscimento
Occupabilità
Fattore 4:
Orientamento
20
0,62001
21
0,61123
22
0,66544
23
0,61987
24
0,76112
25
0,88778
26
0,87322
il 56,89% della variabilità complessiva, come indicato nella tabella 3. In
sostanza la riduzione dalle 26 variabili iniziali alle 4 variabili latenti individuate non ha determinato una significativa perdita di informazioni. Si
conferma, pertanto, la validità concettuale dello strumento statistico utilizzato
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(analisi fattoriale ortogonale VARIMAX). D’altra parte il risultato è in linea
con un analogo studio condotto in Usa da Ryland e King (1992) su studenti
di programmi MBA e in cui una simile analisi fattoriale spiegava circa il
52% della varianza complessiva.
Tabella 3 – Risultati dell’analisi fattoriale - Questionari di inizio corso
item
autovalore
varianza
spiegata
1
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
6,89
29,89%
2
11, 12, 13, 15, 16, 17, 18, 19
2,81
13,41%
3
23, 24, 25, 26
1,78
8,32%
4
20, 21, 22
1,20
5,27%
fattore
Domande di ricerca e discussione dei risultati
Una volta verificata la solidità della struttura di dati ottenuta, si è testata la
validità di alcune ipotesi di ricerca riguardanti l’ordine di importanza attribuito ai diversi fattori di qualità dai diversi gruppi di studenti. In particolare
l’analisi ha riguardato le differenze esistenti tra il gruppo degli studenti di
master e di corsi di alta formazione e il gruppo di studenti di altre tipologie di
corsi e le differenze esistenti tra studenti residenti e studenti fuori sede. Infine
lo stesso procedimento di analisi è stato realizzato per i questionari compilati
al termine delle attività corsuali. In tal modo si è cercato di comprendere se
la partecipazione a un corso di formazione/master influisca sulle variabili
ritenute determinanti per giudicare la qualità di un corso. (6)
Ritenendo che il fattore “struttura” potesse influire maggiormente sulle
due tipologie residenti/fuori sede si è deciso di valutare i dati in un primo
momento escludendo il fattore “struttura” e considerando la seguente:
ipotesi 1: sia gli studenti residenti che i fuori sede ritengono che per definire la qualità di un percorso formativo i fattori assumano importanza nel
seguente ordine: 1° insegnamento, 2° riconoscimento/occupabilità, 3°
orientamento.
Per verificare tale ipotesi si è condotta un’analisi della varianza (Anova) ad
effetti fissi ad una via con successiva analisi delle medie prima per il gruppo
dei residenti poi per il gruppo dei fuori sede.
Per il gruppo dei residenti il test F2,602=232,12 con p=<0,001 e l’analisi
delle medie riportate nella tabella 4 confermano la validità dell’ipotesi 1.
6 Le ipotesi di ricerca sono state elaborate anche in considerazione di analoghi studi, richiamati nel testo, condotti in Usa su studenti americani di programmi MBA. Tali studi, tuttavia non
prevedevano una doppia rilevazione (pre e post-corsuale); ne deriva che i risultati di ricerca
confrontabili sono quelli relativi alle ipotesi 1, 2, 3 e 5.
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Tabella 4 – Medie e deviazioni standard dei fattori di qualità (popolazione
n=302 studenti residenti)
fattori di qualità
medie
deviazione standard
Insegnamento
6,11
0,89
Riconoscimento/occupabilità
5,66
1,02
Orientamento
3,79
0,96
Anche per il gruppo dei non residenti il test F2,194=40,02 con p=<0,001
e l’analisi delle medie riportate nella tabella 5 confermano la validità
dell’ipotesi 1.
Tabella 5 – Medie e deviazioni standard dei fattori di qualità (popolazione
n=98 studenti fuori sede)
fattori di qualità
medie
deviazione standard
Insegnamento
6,16
0,76
Riconoscimento/occupabilità
5,59
0,98
Orientamento
3,86
1,21
In entrambi i casi dunque i fattori di qualità sono ordinati nello stesso modo
sia dagli studenti residenti che dai fuori sede e precisamente: insegnamento, riconoscimento/occupabilità, orientamento. Risulta pertanto verificata
l’ipotesi 1.
A questo punto la stessa analisi, pur se limitata agli studenti di corsi
master e di alta formazione, (7) distinta per residenza o meno nei luoghi di
fruizione del corso, è stata condotta inserendo anche il fattore “struttura”
per verificare la seguente:
ipotesi 2: per i corsi di alta formazione gli studenti fuori sede attribuiscono
al fattore “struttura” un ordine di importanza differente.
Per il gruppo dei residenti il test F2,494=198,22 con p=<0,001 e l’analisi delle
medie riportate nella tabella 6 indicano che i fattori assumono il seguente
ordine di importanza: 1° insegnamento, 2° riconoscimento/occupabilità,
3° struttura, 4° orientamento.
7 Per questa domanda di ricerca si è preferito esporre i risultati limitatamente al gruppo degli
studenti di master e corsi di alta formazione. Tuttavia il lettore sappia che applicando l’analisi all’intero campione si è pervenuti allo stesso risultato.
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Tabella 6 – Medie e deviazioni standard dei fattori di qualità (popolazione
n=248 studenti di corsi di alta formazione residenti)
fattori di qualità
medie
deviazione standard
Insegnamento
6,15
0,87
Riconoscimento/occupabilità
5,78
0,98
Struttura
4,02
1,15
Orientamento
3,73
1,01
Per il gruppo degli studenti fuori sede il test F2,172=39,32 con p=<0,001 e
l’analisi delle medie riportate nella tabella 7 indicano che i fattori assumono
il seguente ordine di importanza: 1° insegnamento, 2° riconoscimento /
occupabilità, 3° struttura, 4° orientamento.
Tabella 7 – Medie e deviazioni standard dei fattori di qualità (popolazione
n=86 studenti di corsi di alta formazione fuori sede)
fattori di qualità
medie
deviazione standard
Insegnamento
6,19
0,82
Riconoscimento/occupabilità
5,71
1,01
Struttura
4,18
1,27
Orientamento
3,65
1,12
Dal confronto dei dati riportati nelle tabelle 6 e 7 emerge che l’ipotesi 2 non
è confermata. In particolare gli studenti residenti e quelli fuori sede attribuiscono ai fattori di qualità lo stesso ordine di importanza ossia: 1° insegnamento,
2° riconoscimento/occupabilità, 3° struttura, 4° orientamento.
Va sottolineato che il risultato si discosta da quanto emerso nelle ricerche
condotte in Usa da Ryland e King (1992) e da Lapidus e Brown (2003)
dove il fattore struttura assumeva un ruolo e un’importanza maggiore per
gli studenti fuori sede. Va altresì evidenziato che il valore medio attribuito al
fattore struttura dagli studenti residenti è sostanzialmente analogo a quello
attribuito dai fuori sede. Nel primo caso il valore osservato è pari a 4,02
mentre nel secondo è pari a 4,18. Si è verificato, quindi, che per i residenti
e i fuori sede non solo l’ordine di importanza attribuito ai quattro fattori è
lo stesso, ma anche il valore assoluto dell’importanza attribuita al fattore
struttura non cambia in modo sensibile.
L’ipotesi 3 che è stata oggetto di indagine è la seguente: l’ordine di importanza dei fattori di qualità non differisce tra gli iscritti alle diverse tipologie
di corsi.
La questione è stata esaminata con un’analisi della varianza Anova conAzienda Pubblica 3.2009
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siderando il tipo di corso come variabile tra i gruppi e i fattori di qualità
(insegnamento, riconoscimento/occupabilità, struttura, orientamento) come
variabilità all’interno dei gruppi. Il risultato indica una sostanziale invariabilità dell’importanza attribuita ai fattori di qualità all’interno dei differenti
gruppi di studenti con conferma dell’ipotesi 3.
Nella seconda fase di analisi lo studio ha esaminato le risposte ai questionari compilati al termine delle attività corsuali dagli stessi partecipanti
ai corsi di formazione per testare la validità delle seguenti ulteriori ipotesi
di ricerca:
Ipotesi 4: l’analisi fattoriale condotta sui questionari compilati a fine corso
conserva la sua robustezza iniziale.
Ipotesi 5: l’importanza attribuita al fattore struttura è influenzata dalla caratteristica della residenzialità o meno degli studenti.
Ipotesi 6: l’importanza attribuita ai quattro fattori di qualità resta invariata
a fine corso così come il relativo ordine.
L’ipotesi 4 è stata testata con la stessa metodologia seguita per i questionari
compilati a inizio corso ma con definizione a priori (ossia prima dell’elaborazione statistica) del numero dei fattori latenti (4) e dell’associazione
agli specifici item. Il valore alpha di Cronbach è pari a 0,631. Tale dato
è inferiore a quello calcolato nella precedente analisi (pari a 0,889) ma
è comunque appena superiore al limite minimo prescritto dalla letteratura
(pari a 0,60).
Tuttavia il raggruppamento degli item nei quattro fattori latenti fornisce
risultati differenti. In primo luogo va sottolineato che l’analisi fattoriale nei
quattro fattori spiega solo il 45,23% della variabilità complessiva, come
indicato in dettaglio nella tabella 8. Quindi la riduzione dalle 26 variabili
iniziali alle 4 variabili latenti individuate comporta, in questo caso, una
maggiore perdita di informazioni. Non è possibile confrontare il dato con
analoghe ricerche non essendoci ricerche del genere in letteratura.
Tabella 8 – Risultati dell’analisi fattoriale – Questionari di fine corso
item
varianza spiegata
1
fattore
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
22,13%
2
11, 12, 13, 15, 16, 17, 18, 19
11,02%
3
23, 24, 25, 26
7,91%
4
20, 21, 22
4,17%
Sebbene i dati conservino una significatività statistica, anche se più limitata,
si ritiene che l’ipotesi 4 non sia pienamente confermata. Infatti, è evidente
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che nelle risposte di fine corso è cambiata la percezione degli allievi rispetto
all’importanza dei fattori di qualità. Probabilmente l’esperienza corsuale,
positiva o negativa, ha influito sulle valutazioni dei partecipanti.
Per tentare di comprendere i motivi dei cambiamenti riscontrati, i dati
relativi alle due osservazioni sono stati confrontati. In particolare sono state
calcolate le medie osservate per i 4 fattori latenti prima e dopo l’intervento
formativo (tabella 9); successivamente sono state riportate su un grafico le
medie osservate per ciascun item prima e dopo l’intervento formativo.
Tabella 9 – Valore medio complessivo attribuito ai 4 fattori latenti prima e dopo
le attività corsuali
Valore medio
attribuito prima
del corso
Valore medio
attribuito dopo il
corso
Insegnamento
(item 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10)
6,15
6,05
Riconoscimento/occupabilità
(item 11, 12, 13, 15, 16, 17, 18, 19)
5,78
5,41
Struttura
(item 23, 24, 25, 26)
4,02
5,12
Orientamento
(item 20, 21, 22)
3,73
3,65
Dall’analisi dei valori risulta che mentre l’importanza attribuita ai fattori
“insegnamento” e “orientamento” rimane pressocché costante, l’importanza
mediamente attribuita al fattore “riconoscimento/occupabilità” diminuisce
leggermente passando da 5,78 a 5,41. Aumenta, invece, in maniera
considerevole, l’importanza attribuita al fattore “struttura” che passa da
4,02 a 5,12.
Da una lettura incrociata dei dati dei questionari con alcune interviste a
campione, svolte a posteriori, è risultato che gli allievi hanno la tendenza,
dopo le attività corsuali, ad attribuire un maggior valore di importanza agli
item per i quali sono rimasti insoddisfatti durante il corso. (8)
La figura 1, letta in tal senso, fornisce indicazioni circa la soddisfazione
sia dei singoli item che dei macrofattori.
Limitando l’analisi solo agli item per i quali sono rilevanti le differenze di
importanza attribuite dagli allievi prima e dopo il corso si può osservare che
esiste una differenza notevole per l’item 25 (stage) che da un’importanza media
di 5,21 fa registrare, dopo le attività corsuali, un incremento fino a 6,21.
8 La tematica è oggetto di una specifica ed estesa ricerca appena avviata e finalizzata a verificare l’esistenza di una relazione tra il grado di soddisfazione dichiarato dall’allievo e la
variazione nella percezione di importanza dei fattori qualità. Se tale ipotesi fosse confermata si fornirebbe al management di istituzioni educative uno strumento (il confronto dell’importanza attribuita ai fattori di qualità prima e dopo le attività corsuali) utile per corroborare o
meno eventuali indagini dirette di customer satisfaction realizzate.
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Anche l’importanza dei “contenuti” (item 1) registra un incremento di valore
(seppur più modesto) passando da 6,41 a 6,78 così come l’item 10 (coordinamento tra docenti e programmi didattici) che passa da 6,24 a 6,44.
Degno di nota è il fatto che, a eccezione dell’item 17 “previsione di
attività socio-culturali parallele”, tutti gli item del macrofattore “struttura”
presentano un sensibile incremento di importanza/insoddisfazione. Il fattore
“struttura”, nel suo complesso, prima delle attività corsuali viene caratterizzato da un valore di importanza media percepita pari a 4,02, mentre al
termine delle attività corsuali esso presenta un valore pari a 5,12. Il fattore
“struttura” è quindi caratterizzato da una modesta considerazione prima
delle attività corsuali e assume maggior rilievo dopo le attività corsuali.
Figura 1
Valore medio attribuito agli item prima e dopo il corso
Valore medio
7
4
1
Item
Items
Valore medio prima
Valore medio dopo
Per verificare le ipotesi 5 e 6 si sono confrontate, e riportate nella tabella10, le medie distinte per i due gruppi di studenti e per i quattro fattori
latenti (cfr. tabella 10).
Dall’analisi della tabella emerge, a differenza di quanto avviene per gli
studenti americani di programmi MBA indagati da Ryland e King (1992)
e da Lapidus e Brown (2003), che il requisito di residenza o meno non
influisce in modo significativo sull’attribuzione di una rilevanza diversa al
fattore “struttura”. L’ipotesi 5, pertanto, non risulta confermata.
Infine con riferimento all’ultima ipotesi valgono le considerazioni già anticipate: l’ordine di importanza attribuito ai quattro fattori di qualità non muta
prima e dopo il corso, tuttavia mentre il fattore riconoscimento/occupabilità è
caratterizzato da un lieve decremento aumenta sensibilmente l’importanza attribuita al fattore struttura. L’ipotesi 6, pertanto, appare parzialmente verificata.
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La qualità nell’alta formazione
Tabella 10 – Valore medio complessivo attribuito ai 4 fattori latenti dopo le attività corsuali distinto
per la caratteristica di residenza o meno degli allievi
Valore medio
attribuito dopo
il corso
Intera popolazione
n=400
Valore medio
attribuito dopo
il corso
Residenti
N=302
Valore medio
attribuito dopo
il corso
Fuori sede
N=98
Insegnamento
(item 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10)
6,05
6,02
6,15
Riconoscimento/occupabilità
(item 11, 12, 13, 15, 16, 17, 18, 19)
5,41
5,43
5,35
Struttura
(item 23, 24, 25, 26)
5,12
5,06
5,31
Orientamento
(item 20, 21, 22)
3,65
3,68
3,56
6. Conclusioni
Diversi sono gli elementi che influiscono sulla definizione e sulla percezione
di qualità da parte degli allievi. Lo studio ha consentito l’individuazione di
26 item per la definizione della qualità percepita dagli allievi e ha evidenziato che gli stessi possono essere ricondotti a 4 macrofattori denominati:
insegnamento; orientamento; riconoscimento/occupabilità; struttura.
La ricerca dimostra che esiste un ordine di importanza ben definito tra
i quattro fattori di qualità che prescinde sia dalla tipologia dell’attività formativa, sia dalla residenza o meno nei luoghi di fruizione del corso. Infatti
sia per il gruppo degli studenti residenti che per i fuori sede l’ordine di
importanza attribuito ai fattori è lo stesso. Il fattore ritenuto più importante
è l’insegnamento. Questo fattore oltre ad avere un valore medio rilevante
consente di raggruppare 10 item (contenuti del corso, corpo docente,
imparzialità nelle valutazioni, capacità di stimolo intellettivo, varietà delle
tematiche affrontate, accessibilità e disponibilità dei docenti, piccola dimensione delle classi, orario delle lezioni, materiale didattico, coordinamento
tra docenti e programmi didattici) e di spiegare circa il 30% della varianza
complessiva. Seguono in ordine di importanza i fattori: riconoscimento/
occupabilità (servizi per il placement, riconoscimento dei crediti formativi
e universitari, stage, reputazione dell’istituto educativo); struttura (gradevolezza dell’ambiente fisico, laboratori informatici, raggiungibilità della sede,
rispetto delle norme sanitarie, disponibilità di parcheggio, servizi bar e di
ristorazione, attività socio culturali parallele, disponibilità di biblioteca e
banche dati, rispetto delle norme di sicurezza) e orientamento (guida dello
studente, pubblicizzazione degli obiettivi formativi orientamento in ingresso,
test intermedi di autovalutazione).
Contrariamente a quanto constatato in altri studi condotti su allievi di
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La qualità nell’alta formazione
master americani il fattore struttura ha un’importanza più o meno simile tra
studenti residenti e fuori sede e un rilievo inferiore al fattore riconoscimento/
occupabilità. Ciò probabilmente deriva dal fatto che il parametro struttura
in America afferisce a un campus universitario e quindi incide molto sulla
qualità della vita degli allievi mentre in Italia riguarda esclusivamente la
sede della struttura educativa.
Sempre in relazione al parametro struttura va sottolineato come nelle
valutazioni post corsuali esso acquisisce un’importanza molto maggiore. Ciò
denota alti livelli di insoddisfazione negli allievi. In sostanza, per dirla alle
Hertzberg, sembra che il fattore struttura sia dal punto di vista motivazionale
un fattore igienico. Esso infatti non influisce in maniera rilevante sulle scelte
dell’allievo, bensì – laddove non soddisfatto – determina un alto livello di
demotivazione e frustrazione. Altri item qualitativi che presentano le stesse
caratteristiche igieniche sono risultati lo stage, i contenuti del corso e il coordinamento tra docenti e programmi. Per tutti questi item la percezione di
importanza è cresciuta dopo lo svolgimento delle attività corsuali.
La ricerca fornisce utili spunti a chi opera nel settore della progettazione
di master e di corsi di alta formazione e a chi si occupa della promozione
dei relativi progetti formativi.
In particolare si può senza dubbio sostenere che gli elementi motivazionali
su cui far leva nei programmi promozionali sono la qualità dell’insegnamento,
il riconoscimento dei crediti e dei titoli rilasciati, la reputazione dell’istituzione
erogante e i servizi connessi al placement. Nelle scelte degli allievi, infatti, assumono un peso molto minore le caratteristiche strutturali del soggetto erogante
e i servizi di orientamento e autovalutazione. In tema di progettazione delle
attività didattiche particolare attenzione va dedicata ai contenuti del corso
per i quali è sovente richiesta una maggior concretezza e coerenza con la
pratica lavorativa e una minore connotazione teorica. Altro elemento cruciale
appare il coordinamento didattico tra i vari docenti. Anche l’aspetto strutturale
non va sottovalutato. Se esso non sembra influire in fase di scelta, ossia prima
delle attività corsuali, lo stesso fattore, se non soddisfatto, può pregiudicare
il gradimento dell’allievo e, nel lungo periodo, influire negativamente sulla
reputazione dell’istituzione educativa. In tal senso va assecondata e sostenuta
la rigidità e severità, di sovente criticata, adottata dalla Regione Campania
nella gestione del processo di accreditamento degli enti formativi.
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Performance nell’amministrazione della giustizia
Efficienza, efficacia ed equità nell’amministrazione della giustizia
Luigi Lepore
Ricercatore di Economia Aziendale presso l’Università degli Studi di Napoli Parthenope - Dipartimento di Studi
Aziendali
Sommario: 1. Premessa. 2. Un approccio economico aziendale per lo studio del sistema giudiziario. 3. Le performance del sistema giudiziario italiano e i fattori determinanti. 4. Sistemi operativi e modelli amministrativi
innovativi nelle amministrazioni della giustizia: la Gestione per obiettivi e il Court Management. 5. Conclusioni.
L’amministrazione della giustizia in Italia, coerentemente all’evoluzione in senso aziendale della
pubblica amministrazione, è stata caratterizzata negli ultimi anni da rilevanti processi di riforma
che hanno avuto come filo conduttore la ricerca dell’efficienza e dell’efficacia. Sono state sperimentate nelle amministrazioni della giustizia: un maggiore decentramento nei processi decisionali;
un aumento del grado di autonomia e responsabilizzazione in capo ai dirigenti amministrativi;
l’orientamento all’economicità dell’azione e il contestuale avvio di logiche gestionali innovative
(Court Management – Management by Objectives); nonché strumenti di monitoraggio e valutazione
dei costi, dei rendimenti e dei risultati. In tale direzione può risultare interessante il focus di osservazione della dottrina economico-aziendale alla qualificazione delle peculiarità delle dimensioni
dell’economicità e dell’equità, nonché dei caratteri d’aziendalità nel sistema giudiziario.
In the last few years Justice Administration has had very interesting changes within public administration in Italy; for this reason, judicial institutions consider new public management systems applying
the effectiveness and efficiency principles. In this perspective, it would be interesting to analyze
the different and typical aspects of economy and equity in judicial system, its innovations (Court
Management - Management by Objectives) also in international contest.
Parole chiave: sistema giudiziario – economicità – Court Management
Key words: Judicial System – effectiveness – Court Management
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Performance nell’amministrazione della giustizia
1. Premessa
L’amministrazione della giustizia, negli ultimi anni, ha assunto una crescente
centralità politica, economica e sociale. Al pari di altri servizi pubblici di
interesse collettivo, servizi giudiziari efficienti ed efficaci, oltre che equi,
possono rappresentare un fattore critico essenziale per il progresso economico-sociale del Paese. Gli stessi, difatti, nella misura in cui garantiscono
diritti di proprietà e certezza del diritto per la definizione dei contratti,
contribuiscono a creare opportunità di sviluppo alle imprese, disponibilità
del credito, propensione all’investimento nel capitale di rischio e capacità
di attrarre capitali dall’estero (Shleifer et al., 1996; Zingales et al.,1999;
Masciandaro et al., 2000; Bianco, Giacomelli, 2004).
La consapevolezza della rilevanza dei servizi di cui si dice, congiuntamente alle performance sistematicamente poco soddisfacenti delle amministrazioni giudiziarie italiane, (1) sembra essere alla base del processo
di riforma in senso aziendale che da qualche anno coinvolge il sistema
giudiziario (Sg) del nostro Paese. (2) Coerentemente a quanto accaduto in
altri comparti della pubblica amministrazione (p.a.), il processo di cambiamento ha quale filo conduttore la ricerca dell’efficienza, dell’efficacia e
dell’economicità. Sono stati sperimentati, a tal proposito, nelle amministrazioni del sistema principi organizzativi e logiche gestionali innovative che
ne valorizzano, appunto, l’aspetto aziendale.
Nel quadro delineato, l’obiettivo che il presente studio si è posto è quello di compiere, attraverso una lente di tipo economico-aziendale, (3) una
prima analisi esplorativa delle amministrazioni giudiziarie in Italia, nonché
del processo di modernizzazione in atto. L’analisi è stata diretta, da un
lato, a definire e specificare la dimensione economica degli istituti pubblici
indagati e, dall’altro, ad analizzare e proporre best practice gestionali e
organizzative di ispirazione manageriale che possano agevolare il recupero
di più elevati margini di funzionalità. (4) Quanto a quest’ultimo punto, nella
parte finale del lavoro, si è provato a:
1 Per un approfondimento in merito alle performance si veda Cepej (2006, 2008); World Bank
(2007, 2008); Mef (2007). Per amministrazioni giudiziarie in questo lavoro s’intendono: il ministero (amministrazione centrale), i tribunali e i penitenziari (amministrazioni periferiche).
2 In campo internazionale il processo a cui si fa riferimento viene identificato spesso con il
termine “managerializzazione” (Pollitt, 1993), ovvero nel caso italiano “aziendalizzazione”
(Anselmi, 1995).
3 L’economia aziendale sviluppa conoscenze riferite ad un aspetto parziale dei fenomeni concreti, facendo sue conoscenze che costituiscono il patrimonio conoscitivo di altre discipline.
Come tutti i sistemi pubblici, anche il Sg è oggetto di studio potenziale di scienze differenti,
ognuna della quali ha lo scopo di approfondirne determinati aspetti. Le scienze aziendali studiano “i processi economici interni degli enti/istituti, nei quali si articola il sistema pubblico,
le loro relazioni economiche con altri soggetti esterni, le condizioni, i principi, i criteri, gli strumenti per perseguire l’equilibrio economico” (Borgonovi, 2005: p. 5).
4 Tali considerazioni sono state svolte con la consapevolezza che qualsiasi tentativo di innovazione che presti scarsa attenzione alle specificità della realtà innovata fondandosi “sull’illusione di poter trasferire regole da un sistema a un altro […], (può solo) determinare un peggioramento dell’amministrazione o lasciarla inalterata” (Borgonovi, 2005: p. 189).
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Performance nell’amministrazione della giustizia
- indagare la soluzione del Management by Objectives utilizzata nel
ministero della giustizia italiano, al fine di verificarne l’estendibilità alle
amministrazioni periferiche del Sg;
- delineare alcuni tratti salienti di un modello di amministrazione dei
tribunali utilizzato nel contesto statunitense (Court Management), per verificarne l’eventuale replicabilità ai tribunali italiani.
In merito alla metodologia di ricerca, lo studio è stato condotto attraverso
l’analisi delle fonti istituzionali e della normativa in materia, avvalendosi
della ricognizione della letteratura internazionale sui Sg (Judicial Administration), nonché attraverso la realizzazione di interviste semi-strutturate ad
alcuni dirigenti di tribunali.
La dottrina economico-aziendale italiana, nonostante le accresciute attese del “bisogno giustizia” espresse dalle diverse categorie di stakeholder,
ha manifestato, finora, un limitato interessamento. Si è registrato, invece,
il prevalere di studi a matrice giuridica e socio-politica, rilevanti, ma non
esaustivi della complessità del Sg. Tali studi, infatti, si sono dimostrati in
parte inefficaci ad offrire risposte ai mali endemici e alle gravi inefficienze
di cui il sistema soffre. (5) Si crea, quindi, uno spazio per un proficuo confronto con la metodologia e le peculiarità di analisi delle scienze aziendali,
nell’ottica di introdurre, come accaduto in altri comparti della p.a., logiche
di economicità e modelli di gestione che contribuiscono a realizzare obiettivi
comuni di equità, garanzia e tutela democratica di tutti gli stakeholder.
Diversamente da quanto accaduto nel nostro Paese, all’estero già da
svariati anni si vanno diffondendo studi di matrice manageriale che hanno
ad oggetto l’amministrazione della giustizia (Prison/Court Management).
Questi studi si sono sviluppati in Paesi quali gli Usa, il Canada, ma negli
ultimi anni cominciano ad attrarre l’attenzione anche di studiosi europei,
in particolare in quei Paesi ove è stato avviato un processo di sviluppo del
Sg in senso manageriale (Fabri, 2006). è il caso dei Paesi Bassi, della
Svizzera, del Regno Unito.
2. Un approccio economico aziendale per lo studio del sistema
giudiziario
La funzione istituzionale di un Sg può essere individuata nella produzione
di servizi finalizzati a garantire l’esercizio del potere giudiziario, il quale si
compendia nel dare attuazione, in maniera equa, al comando legislativo,
5 L’eccessiva durata dei procedimenti, causa delle numerose sentenze di condanna che l’Italia
riceve dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e il disumano sovraffollamento delle carceri
sono soltanto alcuni dei sintomi che mettono in evidenza lo “stato di sofferenza” e la poca efficienza del Sg italiano. In generale, l’efficienza indica il rapporto tra risultati ottenuti e risorse impiegate per ottenerli. “Che tale rapporto nel caso della giustizia italiana sia insoddisfacente è noto […]. Meno chiara è la diagnosi che spiega il perché di un rendimento così poco
soddisfacente dell’intero sistema” (Zan, 2004, p. 63).
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Performance nell’amministrazione della giustizia
al fine di garantire — attraverso la tutela giuridica, l’ordine pubblico e la
certezza del diritto — l’ordinato svolgimento della vita di relazione e un
clima di stabilità e sicurezza sociale.
La scomposizione della complessiva attività di erogazione dei servizi
giudiziari consente di enucleare le attività specifiche poste in essere da
ciascuna delle istituzioni coinvolte:
• l’attività di “pianificazione strategica” (assegnazione di obiettivi,
risorse e responsabilità) che compete al ministero;
• la “amministrazione” della giustizia (funzione giudicante o requirente-investigativa) che è affidata ai tribunali;
• l’attività “esecutiva” della giustizia (esecuzione della pena e riabilitazione dei colpevoli) che è affidata ai penitenziari.
In maniera più intensa rispetto al passato, oggi, utenti, politici e altri stakeholder manifestano la consapevolezza che le attività del Sg debbano essere
intese come un servizio da rendere alla collettività, un servizio pubblico “la
cui efficienza può e deve essere misurata, così come la sua utilità e il suo
costo, senza che questa valutazione sia considerata inappropriata perché
riferita ad una funzione sovrana” (Mirabelli, 2005, p. 6). L’economicità, in
effetti, assurge a principio che guida le scelte d’azienda, tanto nel settore
privato, quanto in quello pubblico. Conseguenza diretta dell’orientamento
all’economicità è la necessità che in ogni amministrazione giudiziaria si
tenda a massimizzare il risultato differenziale tra il valore generato e la
ricchezza consumata nell’ambito delle combinazioni aziendali. La funzione economico-sociale di qualsivoglia azienda del settore pubblico è stata
interpretata, in tal modo, come processo di “creazione di valore pubblico”
(Moore, 1995; Borgonovi, 2001).
Nell’ambito del complessivo processo di modernizzazione che negli
ultimi decenni ha posto l’economicità di gestione fra le priorità delle amministrazioni pubbliche, il Sg rappresenta probabilmente il comparto che si è
mosso con maggiore lentezza. Lo stesso infatti è rimasto immune, per molti
anni e in buona parte dei Paesi occidentali, alle riforme del New Public
Management. In merito a quanto si dice, c’è da fare, tuttavia, sin d’ora
un’importante precisazione: il ritardo nel processo di managerializzazione
è un fenomeno che riguarda i Sg europei, e, a dire il vero, neanche tutti.
In Svizzera, per esempio, da diversi anni è stato avviato un ambizioso
progetto di revisione della complessiva organizzazione giudiziaria, il cui
obiettivo esplicito è quello di orientare le amministrazioni alla qualità dei
servizi, all’economicità e alla soddisfazione dell’utente. Oltreoceano, invece,
il processo ha preso avvio ormai da decenni. (6) Recentemente, comunque,
anche nel nostro Paese sembra assistersi ad un’inversione di tendenza. Alcu6 Per un approfondimento si veda Tobin (1997).
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Performance nell’amministrazione della giustizia
ne innovazioni normative, infatti, sembrano aver dato avvio ad un processo
di modernizzazione anche nelle amministrazioni giudiziarie, generando
il nostro interessamento per un’analisi delle stesse nella prospettiva delle
scienze economico-aziendali.
La possibilità di formulare ipotesi di analisi aziendale appare, in effetti,
coerente con la concezione di azienda intesa quale “ordine economico
dell’istituto” (Masini, 1970). Considerando, infatti, che in qualsivoglia
istituto della p.a. ha luogo, fra le altre, un’attività economica volta alla
realizzazione di certe finalità, è possibile enucleare l’azienda, intesa
quale “ordine strettamente economico dell’istituto; questa astrazione (però)
deve essere opportunamente vincolata agli altri caratteri dell’istituto, ad
esempio sociali, etici, religiosi, politici” (Masini, 1970, p. 13). In questo
senso, il riconoscimento nelle amministrazioni del Sg dei caratteri aziendali e la conseguente realizzazione di analisi che ne seguono la logica,
è compatibile con il perseguimento di finalità istituzionali di carattere non
economico.
La prospettiva di analisi economico-aziendale focalizza la dimensione
economica degli istituti del Sg, senza tra l’altro, trascurare gli aspetti politici, sociali, rieducativi, assistenziali, in generale, non economici che ne
caratterizzano l’attività. In questa prospettiva, i tribunali, i penitenziari, così
come il ministero danno luogo, fra le altre, ad attività economiche strumentali e complementari rispetto alla realizzazione del fine complessivo che il
Sg persegue, ossia la soddisfazione del “bisogno giustizia” inteso come
“tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini in base al principio dell’eguaglianza di tutti dinanzi alla legge” (Mariani Marini, 2005, p. 99).
L’approccio economico-aziendale allo studio del Sg, oltre che possibile, appare dunque di notevole utilità, lo stesso invero può fornire un
contributo propositivo e interpretativo rilevante dei fenomeni innovativi
cui il legislatore ha dato avvio per orientare l’amministrazione della giustizia all’economicità, almeno in misura pari a quanto accaduto per altri
comparti della p.a.
L’economicità, cui sopra si faceva riferimento, rappresenta uno dei
fondamentali caratteri di aziendalità, i quali sono oggetto di un rilevante e
ampio dibattito fra gli studiosi sin dalle fondamenta delle scienze aziendali.
Negli anni recenti, tale dibattito è giunto a individuare, con una visione di
sintesi, nella coordinazione sistemica, nella durabilità e nella autonomia i
requisiti comuni della fenomenologia aziendale. (7) Nell’ambito di questo
lavoro, diviene rilevante provare a contestualizzare il dibattito rispetto
alla realtà considerata, cercando di chiarire le conseguenze sui caratteri
di aziendalità del processo di modernizzazione in atto.
Nella tabella 1 sono indicati alcuni dei provvedimenti che hanno interessato il settore nella dimensione considerata.
7 Cfr. Viganò (2000).
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Performance nell’amministrazione della giustizia
Tabella – 1 Alcune riforme legislative nel settore della giustizia
D.lgs. 286/1999
D.lgs. 300/1999
d.P.R. 55/2001
D.lgs. 240/2006
prevede l’introduzione nella p.a. di strumenti di tipo
manageriale adeguati a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa (controllo
strategico, gestionale, amministrativo-contabile e valutazione della dirigenza)
crea le premesse per una sistematizzazione strutturale
ed una riorganizzazione delle attività e dei compiti del
Ministero della giustizia
stabilisce che il Ministero della giustizia si articoli in
dipartimenti costituiti per assicurare l’esercizio organico
ed integrato delle funzioni
provvede all’individuazione delle competenze dei
magistrati capo e dei dirigenti amministrativi degli uffici
giudiziari, nonché al decentramento su base regionale
di alcune competenze del Ministero (istituzione di direzioni regionali e interregionali)
Come è evidente, l’azione di riforma ha agito su diverse “leve” (Meneguzzo, 1997) del processo di “aziendalizzazione” delle strutture giudiziarie,
sperimentando nelle stesse:
• un maggiore decentramento dei poteri e delle responsabilità ministeriali
di definizione delle politiche e dell’amministrazione della giustizia;
• un aumento del grado di autonomia e responsabilizzazione dei dirigenti
amministrativi delle varie istituzioni;
• l’orientamento all’economicità e il contestuale avvio di logiche gestionali
innovative;
• strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi e dei risultati dell’attività svolta.
Il complessivo intervento di rinnovamento del Sg può essere collocato, a ben
vedere, nell’ambito di quel processo di ridimensionamento e trasformazione
in senso aziendale che ha coinvolto, negli ultimi anni, diverse burocrazie
pubbliche, trasformandole in organizzazioni decentrate, caratterizzate
da maggiore autonomia gestionale e operativa, orientamento all’utente e
all’economicità. La figura 1 fornisce una rappresentazione sintetica della
nuova configurazione del Sg. (8)
8 La rappresentazione non include il CSM, non essendo tale istituzione oggetto del presente studio, e si limita ad esplicitare i “collegamenti funzionali” fra il ministero e le amministrazioni periferiche.
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Figura 1 – La nuova configurazione del sistema giudiziario
Al fine di garantire l’orientamento all’economicità delle istituzioni coinvolte
nel Sg, la composizione a sistema tra le decisioni assunte dagli organi di
governo e dal management, tra le operazioni di gestione, tra il sistema
delle decisioni e quello delle operazioni, tra le risorse impiegate, tra le forze
interne e dell’ambiente, costituisce una prima fondamentale condizione.
La coordinazione sistemica è infatti fonte dell’equilibrio economico, della
durabilità e, quindi, della capacita di operare in condizioni d’autonomia
decisionale e finanziaria. (9)
Un penitenziario come un tribunale, un dipartimento ministeriale come
l’intero ministero, sono chiamati dunque a realizzare le proprie finalità ispirando la loro azione all’economicità, a tal fine diviene necessario comporre a
sistema beni, persone, fenomeni e decisioni coinvolte nello svolgimento delle
attività istituzionali. Per garantire l’esecuzione della pena e la riabilitazione
dei colpevoli, un penitenziario sviluppa relazioni reciproche di scambio di
servizi ad alto valore sociale con una pluralità di organismi pubblici e privati (Della Porta, 2006). Sistemi di relazioni analoghi sono generati anche
dai tribunali nell’esercizio della funzione giudicante e requirente. I rapporti
suddetti si sviluppano, tuttavia, in un contesto di autonomia relativa, nel
senso che l’orientamento all’economicità e quindi la ricerca dell’equilibrio
economico si sviluppa in un campo d’azione limitato (Farneti, 1994). Un
9 L’autonomia finanziaria può essere intesa in senso non assoluto, ossia come capacità dell’istituto di realizzare le proprie finalità senza l’esigenza imperativa di copertura perdurante da
parte del vertice ministeriale. Cfr. Masini, (1970).
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istituto di pena, un tribunale, non può allo stato attuale esercitare liberamente
la propria potestà decisionale in merito all’assetto organizzativo, in merito
alla scelta delle aziende presso cui approvvigionarsi, così come non potrà
selezionare autonomamente il personale, dovendo uniformarsi, invece, alle
prescrizioni normative.
Le considerazioni svolte consentono di dedurre dunque che, probabilmente, il grado di autonomia decisionale negli istituti del Sg è ancora modesto
perché si possano conseguire condizioni di equilibrio economico, attraverso
l’orientamento dell’azione all’economicità.
Quanto all’equilibrio economico, è evidente che nelle aziende di erogazione del settore pubblico lo stesso debba intendersi come capacità
di generare utilità in misura almeno pari alla ricchezza sacrificata nelle
combinazioni produttive, (10) soddisfacendo adeguatamente nel tempo le
istanze di tutti i portatori di interesse (equilibrio economico propriamente
detto). Come sottolineato dalla dottrina, infatti, in queste realtà, l’equilibrio
economico non può essere inteso semplicemente come capacità di generare afflussi di risorse superiori al deflusso delle stesse (equilibrio minimo)
(Farneti, 2002). (11)
La concezione ampia di equilibrio economico cui si fa riferimento sembra
“racchiudere” in sé un altro principio guida dell’amministrazione di risorse
pubbliche, ossia l’equità nell’allocazione delle stesse e, quindi, nell’erogazione
dei servizi di interesse collettivo. (12) In tal senso, “l’economicità contiene al
proprio interno la socialità, rappresentandone un’estensione logica, nell’ottica
del soddisfacimento degli interessi della pluralità di stakeholder che guardano,
con diverse attese, all’azienda” (Landriani, 2006, p. 213). (13)
10 Il riferimento al concetto di utilità in luogo di quello di ricchezza svela importanti problematiche di tipo valutativo riferite alle performance delle amministrazioni del Sg. L’equilibrio
economico, infatti, pur manifestandosi in valori monetari non si esaurisce in questi: alcune dimensioni dell’agire sfuggono al metro monetario e richiedono misuratori di natura diversa,
spesso di tipo qualitativo, capaci di apprezzare l’utilità creata.
11 Come sottolinea Ferrara (1994), è necessario che l’azienda si dimostri in grado di soddisfare, in maniera continuativa, gli interessi di tutti gli stakeholder ricercando un bilanciamento
fra gli stessi. In mancanza di tale capacità, può risultare infatti compromesso, nel lungo termine, l’equilibrio economico aziendale. A tal proposito si veda anche Mariniello (2000).
12 Meneguzzo (2005), riferendosi ad un’accezione nuova di public governance precisa che,
nella stessa, in luogo dei tradizionali riferimenti all’efficienza e all’efficacia, si fanno avanti
concetti come etica, equità, accountability. Del concetto di equità può essere immediatamente percepita l’ambiguità, in dipendenza del suo stretto collegamento con profili diversi, che
sono morali, etici, filosofici, sociologici e che precedono e accompagnano il suo riconoscimento quale categoria rilevante negli studi di matrice economico-aziendale. Ne deriva l’idoneità dell’indagine sulla stessa ad essere influenzata dall’ideologia dell’interprete e dalla sua
disciplina di riferimento. Da ciò discende che ogni tentativo di definizione risulta caratterizzato necessariamente da incertezza e varietà. In questo lavoro l’equità è intesa secondo un’accezione ampia, ossia come condizione di allocazione delle risorse e corrispondente erogazione di servizi che garantiscano opportune condizioni d’accesso e trattamento a tutta la collettività, soddisfacendo in modo generale i bisogni. Riprendendo una definizione di Aristotele (riferita all’equità del giudizio, ma estremamente utile anche al nostro caso), equità è sinonimo di giustizia, in altre parole l’equità risulta caratterizzata dalla copresenza di uguaglianza e singolarità, è proprio quest’ultima che consente all’azione della p.a. di raggiungere quel
vertice di giustizia che non è nella generalità, ma come diceva appunto Aristotele nell’equità
che adatta l’universalità ai vari casi.
13 Deidda Gagliardo (2002, pp. 18 ss.) in riferimento allo scopo istituzionale delle p.a., rappresentato dal soddisfacimento dei bisogni dei diversi portatori di interessi, fa riferimento alla
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Una concezione di equilibrio quale quella considerata agevola il superamento del tipico trade-off tra equità sociale ed efficienza economica che
presidia le scelte pubbliche. In questi termini l’equità delle amministrazioni
del Sg si traduce nella capacità delle stesse di generare una rete di servizi
di qualità su tutto il territorio nazionale capace di annullare, o almeno ridurre, le “posizioni di svantaggio socio-economico” presenti nella società,
attivando un recupero e una promozione delle classi svantaggiate, quindi,
migliori condizioni di eguaglianza, garanzia e tutela democratica degli
stakeholder. Quest’approccio precisa meglio il ruolo della socialità nell’ambito dell’equilibrio economico, chiarendo che la stessa riguarda le modalità
di redistribuzione, in chiave perequativa, del valore prodotto dalle istituzioni
giudiziarie. Va precisato però che, in tutte quelle situazioni, invero non rare
nella realtà della p.a. italiana, in cui un orientamento miope alla socialità
impedisce l’autonoma copertura dei costi, si determinano conseguenze negative per l’equilibrio economico. In tali condizioni diviene difficile garantire
servizi efficienti ed efficaci, per cui la finalità sociale risulterà compromettere
la stessa funzionalità aziendale e le possibilità di sopravvivenza autonoma
dell’istituto, danneggiando a quel punto, di fatto, proprio quelle categorie
più deboli cui erano rivolte le sue azioni. Dalle considerazioni svolte deriva
la necessità di un orientamento alla socialità non svincolato dall’economicità
intesa in senso stretto.
3. Le performance del sistema giudiziario italiano e i fattori
determinanti
Il processo di cambiamento del Sg, come anticipato, sembra trovare la
propria origine nella rilevanza economico-sociale dei servizi giudiziari e
nelle performance sistematicamente poco soddisfacenti delle istituzioni cui
è affidata l’erogazione degli stessi. Quanto alle performance, ai fini del
presente lavoro, può risultare utile fare qualche breve accenno, al fine di
agevolare l’individuazione dei fattori determinanti delle stesse e, dunque,
delle spinte endogene ed esogene all’origine del processo di cambiamento.
L’analisi dei problemi di funzionalità del Sg sembra essere, in effetti, una
necessità se si ha l’obiettivo non solo di tracciare la situazione esistente,
bensì anche l’ambizione di offrire elementi utili per individuare possibili linee
d’intervento necessarie a superare, o quanto meno correggere, le criticità
che compromettono l’efficienza delle amministrazioni giudiziarie.
Operare un confronto fra Sg di diversi Paesi, al fine di avere una misura
delle performance delle amministrazioni coinvolte, non è cosa agevole.
La disponibilità di dati varia notevolmente da un Paese all’altro, in alcuni
neanche esistono statistiche ufficiali delle risorse impiegate e dei servizi
socialità accanto all’economicità. Matacena (1990, p. 179), a riguardo, parla di economicità
sociale raggiunta nel rispetto del vincolo dell’economicità aziendale. Ferrero (1980, pp. 108109) definisce la socialità come sollecitudine a perseguire il bene comune e afferma che la
stessa è naturalmente presente nei “soggetti pubblici”.
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prodotti; inoltre, quand’anche le fonti disponibili fornissero dati completi e
sufficientemente attendibili, l’utilizzazione potrebbe risultare preclusa dalle
differenze esistenti in termini di organizzazione del sistema, ripartizione
delle competenze e dei servizi, regole di funzionamento processuali, ecc.
Pur mancando statistiche ufficiali precise e dettagliate utili per il benchmarking,
comunque, che il livello di efficienza delle nostre amministrazioni della
giustizia sia insoddisfacente si evince chiaramente non solo dalla crescente
disaffezione degli utenti, ma anche da studi di diversa matrice che negli
ultimi anni hanno avuto ad oggetto aspetti diversi, parziali, ma comunque
importanti, del sistema indagato (Fabri, 1994 e 2006; Masciandaro et
al., 2000; Marchesi, 2003; Zan, 2004; Bruti Liberati et al. 2005). Questi
studi, nonché i recenti confronti internazionali realizzati dalla Commissione
europea per l’efficienza della giustizia (CepeJ) e dalla Banca mondiale, (14)
indicano che l’amministrazione giudiziaria in Italia è più inefficiente non soltanto di quella dei maggiori Paesi industrializzati, ma anche di molti di quelli
di recente industrializzazione o in via di sviluppo. Solo a titolo di esempio si
consideri che, adoperando come parametro di riferimento la tempestività di
risoluzione dei procedimenti, (15) gli studi disponibili evidenziano che i tempi
necessari per la risoluzione delle controversie nel nostro Paese sono di gran
lunga superiori a quelli di molte Nazioni europee: il tempo necessario in
Italia per concludere una causa di licenziamento in primo grado nel 2004
era pari a 696 giorni, quasi triplo rispetto a quello del Portogallo e della
Finlandia, più che doppio rispetto a quello della Francia e quasi nove volte
il tempo necessario in Spagna. Quanto alle risorse finanziarie utilizzate,
c’è da rilevare che dai dati presentati nel Libro verde sulla spesa pubblica
(MEF, 2007) risulta evidente come, nel confronto internazionale, la spesa
del Sg in Italia non è affatto bassa. Nel 2004, per esempio, la spesa per
tribunali e procure è pari a 67 euro per abitante e risulta superiore a quella
del Regno Unito, della Spagna, della Svezia, dell’Irlanda, della Francia,
della Finlandia e della Danimarca. Quella dell’Olanda si attesta ad un
livello molto vicino a quello italiano. Più elevata risulta, invece, soltanto
quella della Germania. Nel corso degli anni, inoltre, l’ammontare delle
risorse finanziarie a disposizione del Sg è aumentato, mantenendosi negli
stessi rapporti con quella degli altri Paesi europei. Lo stesso trend crescente
si è registrato anche per le risorse umane: i magistrati in servizio sono aumentati del 15% circa. Nonostante l’incremento nella dotazione di risorse,
non si sono registrati tuttavia gli auspicati recuperi di efficienza: il numero
14 Cfr. Cepej (2006, 2008); World Bank (2007, 2008); Mef (2007).
15 Il tempo medio di risoluzione dei procedimenti rappresenta solo una delle dimensioni della complessiva performance di un Sg. Si tratta di un indice di efficienza al quale andrebbero affiancati altri capaci di valutare, per esempio, l’economicità nell’impiego delle risorse,
oppure indicatori di efficacia misuratori delle possibilità di accesso ai servizi giudiziari. Nel
contesto statunitense, e più di recente in qualche Paese europeo, si vanno diffondendo sistemi di misurazione delle performance che fanno ampio uso di indicatore di tipo quanti-qualitativo. Un esempio è rappresentato dal CourTools statunitense. Per un approfondimento vedi
Ostrom et al. (2008).
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dei procedimenti pendenti (backlog of cases) non è affatto diminuito, anzi
il tasso di crescita è risultato in continua ascesa, così come la durata media
dei processi. I dati presentati all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009
mettono in evidenza una situazione preoccupante: sono quasi cinque milioni e mezzo i procedimenti civili pendenti, più di tre milioni quelli penali.
Come risulta evidente, dunque, la domanda di giustizia insoddisfatta è
estremamente rilevante. Ciò che è ancor più rilevante, comunque, è che
il numero di procedimenti sopravvenuti ogni anno (nuova domanda di
giustizia) supera quasi sistematicamente quelli esauriti nell’anno (domanda
di servizi giudiziari soddisfatta), incrementando regolarmente lo stock di
procedimenti pendenti.
Di quanto si è brevemente scritto sopra in merito alle performance del Sg,
ciò che più interessa in questa sede, è che, nel confronto internazionale, le
amministrazioni giudiziarie italiane risultano disporre di un ammontare di
risorse umane e finanziarie non inferiore, e talvolta superiore, a Paesi che
mostrano performance migliori. Fra le cause di crisi del Sg italiano, dunque,
sembra non potersi annoverare, almeno in maniera esclusiva, la carenza
di risorse. Deve, invece, considerarsi con maggiore attenzione l’ipotesi che
alla base delle performance deludenti vi siano determinate caratteristiche
strutturali e organizzative delle amministrazioni della giustizia, le quali determinano l’impossibilità, o talvolta l’incapacità, di gestire le risorse in maniera
razionale. Ciò potrebbe dipendere, per esempio, dalla scarsa integrazione
presente nel sistema, la quale impedisce la necessaria comunicazione e il
coordinamento inter-istituzionale (Tobin, 1997). Un ruolo importante può
essere giocato dalla presenza di modelli organizzativi inadeguati, che
spesso “ingessano” le strutture (Fabri, 1991; Zan, 2006); dalle logiche
burocratiche che guidano il comportamento degli individui, orientandolo
al rispetto delle norme e delle prassi consolidate, anche quando inefficienti,
più che al conseguimento del risultato; dalla limitata autonomia gestionale,
organizzativa e finanziaria di cui dispongono le singole amministrazioni, la
quale impedisce talvolta l’assunzione di decisioni rivolte al conseguimento
dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità. Fra le cause di cui si dice
si può annoverare inoltre la prevalenza nel Sg di strumenti di controllo
focalizzati su verifiche formali più che sostanziali o, ancora, la carenza di
competenze di natura manageriale. (16) L’importanza di queste conoscenze
diviene tanto più evidente quanto più il lavoro dei magistrati si arricchisce di
incombenze amministrative e gestionali, ossia di funzioni extragiudiziali —
definibili di amministrazione per la giurisdizione — che richiedono logiche
di svolgimento e strumenti di gestione differenti da quelli tipici dell’amministrazione della giurisdizione che è invece la tipica attività giurisdizionale.
16 “C’è molto di più nell’amministrazione del tribunale di quanto si impari nelle facoltà di
legge […]. Il management è come il diritto, una professione, ed è tanto inappropriato per un
manager provare a trattare una causa quanto è per un giurista – senza il beneficio di un lungo addestramento – dirigere efficacemente un’organizzazione complessa qual è un tribunale” (Gallas, 1968, p. 334).
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Fra le determinanti delle performance si deve includere, infine, anche la
dimensione, a volte troppo modesta, dei tribunali che impedisce di sfruttare
eventuali economie di scala (Antonelli, Marchesi, 1999).
4. Sistemi operativi e modelli amministrativi innovativi nelle
amministrazioni della giustizia: la gestione per obiettivi e il
Court Management
La possibilità paventata sopra che le performance non esaltanti del Sg siano correlabili, in qualche misura, a disfunzioni organizzative e gestionali
presenti nelle singole amministrazioni rende particolarmente interessante
l’analisi di modelli e logiche di gestione sperimentate nel contesto nazionale
e in quello internazionale per fronteggiare disfunzioni analoghe.
Esempi di rilievo, in questo senso, sono rappresentati dalla Gestione per
Obiettivi (GpO) che da qualche anno viene utilizzata nel Ministero della
giustizia italiano e dal Court Management statunitense.
Quello realizzato nel ministero rappresenta un rinnovamento radicale
del modello gestionale: da una logica di amministrazione e controllo di tipo
giuridico-formale che focalizza esclusivamente l’esecuzione dei compiti e delle procedure si passa, progressivamente, ad una logica di tipo manageriale
che focalizza il risultato, in termini sia di output che di outcome. La portata
innovativa è evidente se si pensa che le amministrazioni centrali dello Stato
hanno sempre avuto a disposizione sistemi di programmazione e controllo
caratterizzati da un approccio prettamente burocratico. Contrariamente a
quanto accadeva in passato, il nuovo modello gestionale fa largo uso delle
informazioni sulle performance nei processi decisionali di definizione delle
strategie, degli obiettivi e dei programmi da realizzare, nonché nei sistemi
d’incentivazione del personale.
Nella fase di pianificazione si provvede alla declinazione della mission
istituzionale in strategie e alla successiva definizione degli obiettivi di livello
strategico, i quali con cadenza annuale vengono formalizzati nella Direttiva
generale sull’attività amministrativa e sulla gestione. Si tratta di obiettivi
generali quali la riduzione del debito giudiziario, la valorizzazione delle
risorse umane, la formazione e responsabilizzazione della dirigenza, l’orientamento ai risultati. Nella fase successiva, gli obiettivi strategici vengono
declinati in obiettivi operativi misurabili e assegnabili ai diversi dipartimenti.
Questi provvedono a definire i Programmi esecutivi d’azione (Pea) che
descrivono il modo in cui i risultati programmati verranno perseguiti. Si
tratta di programmi e interventi che riguardano gli investimenti tecnologici,
la contabilità economica, il project financing, l’ottimizzazione dell’impiego
delle risorse, il perfezionamento dei sistemi di controllo gestionale, ecc.
Nella fase operativa i dirigenti hanno un certo margine di autonomia per
garantirne la realizzazione e nella fase del controllo rispondono del grado
di realizzazione dei risultati.
Nonostante l’importante innovazione introdotta, i risultati ottenuti finora
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in termini di obiettivi realizzati non sono incoraggianti. Sebbene, infatti,
alla fine del 2006 ogni dipartimento avesse realizzato mediamente più del
65% dei propri Pea, gli obiettivi non possono dirsi raggiunti. Lo stesso è
accaduto anche nel 2005 e l’anno prima ancora. Gli obiettivi formalizzati
nelle direttive ministeriali cioè sono stati realizzati solo parzialmente.
Questo risultato, probabilmente, è conseguenza del forte radicamento
della cultura burocratica e della renitenza al cambiamento tipica delle amministrazioni dello Stato — la quale impedisce di interiorizzare le nuove
logiche di gestione — ma anche dello scarso legame di causalità che sembra
legare i processi in cui devono impegnarsi i soggetti (Pea) e i risultati che
si vogliono ottenere. Nel definire i programmi attraverso cui si persegue il
risultato, “il management deve assicurarsi che esista un rapporto causa-effetto
tra i processi e i risultati” (Anthony, Young, 2002, p. 446).
Le considerazioni svolte consentono di dedurre che, allo stato attuale,
la GpO può considerarsi uno strumento gestionale le cui logiche devono
considerarsi acquisite solo parzialmente nell’amministrazione centrale del
Sg. Probabilmente l’innovazione è destinata a produrre i suoi effetti in un
arco temporale medio-lungo, parallelamente alla diffusione di una cultura
nuova che, coinvolgendo tutti gli attori del Sg, consenta un impianto efficace
dei principi, delle logiche e degli schemi di ragionamento propri dell’economia aziendale. Un significativo passo avanti potrebbe essere compiuto,
inoltre, legando meglio i Pea con gli obiettivi strategici e trasferendo progressivamente tali logiche, nonché altre tecniche e strumenti manageriali,
dal centro verso le amministrazioni periferiche (tribunali), poiché anche a
questo livello si avverte, sempre più intensa, la necessità di modelli e strumenti operativi capaci di consentire un orientamento più efficace ai risultati
e all’efficienza.
Nella direzione delineata di diffusione delle logiche manageriali verso la
“periferia” del Sg si è mosso il legislatore statunitense. Negli Usa, infatti, il
dibattito sulla necessità di recuperare margini di efficienza nell’amministrazione della giustizia tende a focalizzarsi ormai da anni e con intensità crescente sul profilo organizzativo e manageriale dei tribunali. Questo dibattito
ha avuto origine negli anni settanta, quando diversi studiosi (Oglesby, Gallas,
1971; Friesen, 1971) cominciarono a mettere in evidenza le peculiarità e
la complessità del sistema dei tribunali nell’ambito delle istituzioni preposte
all’erogazione del “servizio giustizia”, e auspicarono l’implementazione
nelle stesse di modelli di management che potessero garantirne l’efficacia
e l’efficienza (Court Management). Quello che gli studiosi proponevano
rappresenta un approccio gestionale nuovo che, facendo leva sulla professionalizzazione degli attori e sull’attribuzione alle singole istituzioni di
maggiori margini di autonomia gestionale e organizzativa, pone in primo
piano le esigenze di recupero dell’economicità, di gestione razionale delle
risorse, nonché di orientamento ai risultati.
Nel contesto di cui si dice, l’innovazione del Court Management è stata
messa in opera già sul finire degli anni Sessanta, generando quasi da subito
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importanti miglioramenti nelle performance delle singole istituzioni. Un ruolo
di rilievo in questo processo di recupero dell’efficienza deve essere riconosciuto probabilmente all’introduzione della figura nuova del Court Manager
(Oglesby, Gallas, 1971). L’ingresso di abilità e conoscenze manageriali
accanto a quelle tipiche di natura giuridica, infatti, deve riconoscersi come
forte elemento di stimolo di tutto il processo di riforma realizzatosi sino ad
oggi (Tobin, 1997; Baar, 1999; Steelman, 2000).
Dalle soluzioni adottate nei diversi Stati americani emergono concezioni
diverse del ruolo del Court Manager, il che impedisce di tracciare un profilo
unitario della figura. Con una visione di sintesi, comunque, è possibile individuare tre diverse concezioni: quella del giudice-amministratore fondata
sull’idea che i giudici possono essere amministrati soltanto da giudici. In
tal caso il giudice assume a sé, come unico vertice gerarchico, le funzioni
amministrative e quelle giurisdizionali; la concezione del Court Manager
esterno, specialista in management, secondo la quale il presidente del
tribunale viene sgravato dei compiti amministrativi e si limita a garantire la
sorveglianza generale, si crea in questo caso una duplice linea gerarchica
nell’ambito del tribunale; la concezione del giudice responsabile che assume
un ruolo attivo nella gestione amministrativa, pur affidando una funzione di
supporto ad un Court Administrator. Si tratta di un giurista con formazione
manageriale che viene collocato in posizione di staff al giudice.
I modelli elaborati dalla dottrina e dalla pratica statunitense hanno ispirato discussioni dottrinali anche in altri Paesi. In Germania, per esempio, è
emerso che la concezione americana del Court Manager non è adatta al
contesto tedesco. Si ritiene invece necessario rafforzare le competenze di
gestione e d’organizzazione in seno ai tribunali e si auspica che la professionalizzazione dei magistrati, dei giuristi e del personale amministrativo
avvenga quanto prima (Groother, 1999, pp. 458-462). Anche in Inghilterra
e in altri Paesi sono stati avviati processi di riforma per l’introduzione di
soluzioni innovative ispirate al Court & Case Management. In Olanda per
esempio si è provveduto alla creazione di una unità organizzativa nuova, il
comitato direttivo della corte, di cui fanno parte il dirigente amministrativo, il
giudice-manager della sezione e altri soggetti. Con la creazione di tale unità
e una serie di altre innovazioni viene incrementata l’autonomia finanziaria
e gestionale dei tribunali, vengono individuate specifiche responsabilità e
definiti criteri e sistemi di misura delle performance.
Quanto al nostro Paese, diverse analisi hanno evidenziato l’insufficiente
livello di efficacia dei tribunali, mettendo in luce, “una carenza generalizzata di management e di utilizzo sistematico di metodologie di gestione”
(Zan, 2004, p. 184). In virtù di ciò, sulla scia di quanto accaduto all’estero,
stampa, politica e studiosi si interrogano sempre più spesso sulle possibili
soluzioni da adottare per un recupero di efficienza: si è cominciato così
anche in Italia a discutere di Court Management. Il d.lgs. 240/2006, infatti,
proprio al fine di migliorare l’efficienza ha provato a realizzare nel tribunale
una sorta di lean organization fondata sul principio dell’identificazione e
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separazione di ruoli amministrativi (manageriali) e professionali (giurisdizionali). In pratica, viene operata una distinzione tra l’amministrazione
della giurisdizione e l’amministrazione per la giurisdizione. In merito alla
prima, vengono precisate le funzioni del magistrato capo del tribunale a
cui viene riconosciuta la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio, nonché
la competenza ad adottare i provvedimenti necessari per l’organizzazione
dell’attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di
magistratura. In merito alla seconda, viene riconosciuto il ruolo del dirigente
amministrativo, in particolare a questi viene attribuita maggiore autonomia
e responsabilità nella gestione del personale, delle risorse finanziarie e di
quelle strumentali attribuite all’ufficio. Egli è l’unico soggetto competente ad
adottare provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
anche se questa gestione, così come quella delle risorse umane, non è
libera nel fine, il dirigente deve infatti tenere conto degli indirizzi espressi
dall’amministrazione centrale, nonché del programma annuale redatto in
accordo col magistrato capo. Lo stesso è personalmente responsabile delle
spese ordinate e della regolarità dei pagamenti disposti e ha poi l’onere di
trasmettere ogni sei mesi al direttore regionale o interregionale competente
l’elenco delle spese sostenute nel semestre, per il controllo sulla regolare
attuazione dei programmi.
Il rafforzamento del ruolo della dirigenza amministrativa dei tribunali, seppur estremamente rilevante, potrebbe non essere sufficiente per
il raggiungimento degli obiettivi che hanno ispirato la riforma. Nelle
organizzazioni con nucleo operativo professionale, infatti, spesso, a
causa di problemi legati all’impostazione culturale, diviene particolarmente complessa l’introduzione di principi e tecniche manageriali,
nonostante le evidenze empiriche le rendano necessarie. “Le priorità dei
professionisti di solito sono considerate più importanti dei problemi di
carattere finanziario o amministrativo, le organizzazioni professionali
sembrano aver bisogno di metodi e tecniche di gestione innovative: la
ricerca scientifica spreca denaro, il sistema giudiziario è caratterizzato
da una storica carenza di management, [...], ma rispondere a questa
esigenza è più facile a dirsi che a farsi” (Kickert, 2001, pp. 135-150).
Il legislatore italiano, in effetti, ha incontrato varie difficoltà nel creare
due linee gerarchiche separate all’interno dei tribunali e nell’ispirarsi alla
soluzione del Court Management. Si tratta di ostacoli che trovano la loro
origine prevalentemente nel timore dei magistrati di vedere compromessa
la propria indipendenza, che è indipendenza nei confronti delle parti
in conflitto, degli altri organi del settore pubblico, delle influenze e dei
rapporti di potere di qualsiasi tipo, oltre che nei confronti della classe
dirigenziale non togata. Fondandosi, infatti, sul principio dell’indipendenza del potere giudiziario (artt. 104 e 101 della Costituzione) la giustizia
rivendica uno statuto particolare rispetto alle altre p.a. Da ciò sembra
discendere che ogni possibile revisione organizzativa e gestionale dei
tribunali, per mostrarsi efficace, deve necessariamente, agire tenendo
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in debita considerazione, oltre che tutte le peculiarità del Sg, gli effetti
prodotti su tale indipendenza. (17)
5. Conclusioni
Il processo innovativo che ha coinvolto gli istituti del Sg italiano, ispirandosi
ad una valorizzazione dell’aspetto aziendale degli stessi, ad oggi, può
dirsi solo parzialmente avviato. L’azione di riforma ha agito soltanto su
alcune “leve” del processo di “aziendalizzazione” della strutture. Come
delineato sinteticamente nelle pagine precedenti, quelli realizzati devono
essere considerati comunque interventi importanti nella direzione considerata, nonostante sia mancata, finora, l’azione efficace su una delle “leve”
principali del processo suddetto, ossia l’attribuzione di sufficienti ambiti di
autonomia alle istituzioni coinvolte. Il riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico di autonomia patrimoniale, economico-finanziaria, oltre
che gestionale, è da considerarsi, infatti, presupposto indispensabile perché
possano realizzarsi gli auspicati recuperi di efficienza ed economicità e
possa parlarsi di autonomia in senso economico-aziendale. L’assenza di
autonomia ­— in tutte quelle realtà ove i livelli di servizio erogato sono imposti
dall’esterno, come le modalità organizzative e le scelte gestionali — può
far venir meno, a ben vedere, il connotato stesso di azienda (Zangrandi,
2003). Da ciò potrebbe dipendere quella scarsa applicazione della teoria
aziendale all’amministrazione della giustizia, ovvero l’interesse ancora
moderato che la nostra comunità scientifica dedica al tema, cui si faceva
accenno nelle prime pagine del lavoro.
I temi della responsabilizzazione e dell’orientamento all’economicità, che
hanno ispirato e guidato il processo di “modernizzazione”, richiamano immediatamente quello dell’autonomia. Alla richiesta di comportamenti virtuosi
e responsabili da parte delle strutture del Sg si contrappone immediatamente
una connessa esigenza, per le stesse, di autonomia, almeno amministrativa
e gestionale. La mancanza, o comunque un grado insufficiente della stessa,
impedisce le valutazioni di responsabilità. Non si può essere ritenuti responsabili di un insuccesso se nella gestione di un’attività non si ha la possibilità
di modificare il percorso dell’azione così come potrebbero suggerire il
modificarsi delle condizioni esterne e interne (Mele, 1997). Autonomia e
responsabilità rappresentano dunque un binomio inscindibile, nel senso che
non c’è autonomia che conduca all’economicità senza responsabilizzazione,
così come non c’è possibilità di attribuire responsabilità per comportamenti
anti-economici se non si concede un sufficiente margine di autonomia nel
disegno e nella realizzazione dell’azione. A ben vedere però affinché
17 All’estero, in quelle realtà che da tempo hanno sperimentato soluzioni manageriali per la
gestione dei tribunali, il problema viene risolto affermando la necessaria compresenza di
indipendenza e accountability, nell’ottica della salvaguardia dell’interesse collettivo. Cfr.
Bathelder (1998).
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autonomia e responsabilità agevolino gli auspicati recuperi di efficienza,
risulta necessaria un’adeguata attività di controllo per apprezzare l’operato
di ogni centro autonomo di responsabilità, i risultati conseguiti e le risorse
utilizzate. Senza una funzione di controllo, autonomia e responsabilizzazione rimarrebbero probabilmente incapaci di migliorare le performance
nel Sg come in ogni altro comparto pubblico. L’ipotesi di base dunque è
che le istituzioni giudiziarie, al fine di essere indirizzate all’economicità
e alla durabilità, dovrebbero essere gestite in condizioni di autonomia e
responsabilità, impiegando adeguati strumenti manageriali a supporto dei
processi decisionali e di controllo.
Un suggerimento di proseguire in questa direzione sembra venire dalle
esperienze di innovazione in senso manageriale sperimentate in contesti
quale quello statunitense, ove l’attribuzione alle istituzioni giudiziarie di
maggiori margini di discrezionalità, la responsabilizzazione di soggetti
e strutture e l’utilizzo di strumenti di programmazione e controllo di tipo
manageriale sembrano essere all’origine del recupero di maggiori margini
di economicità ed efficienza.
Le considerazioni avanzate e le esperienze analizzate inducono, dunque,
a riflettere in merito al grado di autonomia di cui dispongono le istituzioni
del nostro Sg. Un grado modesto della stessa può fare da ostacolo alla
durabilità, all’economicità e all’equilibrio economico dell’azienda. L’autonomia può intendersi, infatti, come adeguato grado di libertà degli organi
di governo aziendali nell’assunzione di decisioni “economicamente convenienti” e quindi rivolte al conseguimento delle altre condizioni di aziendalità
(Ferraris Franceschi, 2005).
Lo studio condotto ha realizzato un’analisi conoscitiva del Sg italiano,
ponendolo sotto osservazione con ottica aziendale e mettendo in evidenza
best practices eventualmente replicabili. L’analisi si è presentata, oltre che
complessa, quanto mai ampia e variegata, pertanto si rimanda a necessari
approfondimenti successivi. Le prospettive di ricerca che il presente studio
dischiude presentano difatti particolare interesse: il rilievo economicosociale dei servizi giudiziari, da un lato, e le inefficienze di cui il sistema di
erogazione soffre, dall’altro, creano lo spazio per un percorso conoscitivo
degno di approfondimento e studio analogo a quello che è stato condotto
per altri comparti della p.a.
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
Programmazione delle politiche pubbliche e bilancio dello Stato:
esperienze e metodologie di valutazione
Cinzia Raimondi
Dottore di ricerca in Economia e gestione delle aziende pubbliche, presso l’Università Tor Vergata, Roma – Consigliere
del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica
S ommario : 1. Breve introduzione. 2. La programmazione delle politiche pubbliche nazionali e il dialogo
con le istituzioni comunitarie. 3. Gli effetti del processo di integrazione europea sul ciclo evolutivo della
decisione nazionale di bilancio. 4. La definizione delle politiche pubbliche nel bilancio dello Stato: l’individuazione delle missioni e dei programmi. 5. Dalla programmazione alla valutazione delle politiche
pubbliche: l’individuazione degli indicatori di performance e il rafforzamento della capacità di giudizio.
Il processo di integrazione europea ha determinato una serie di effetti diretti sulla programmazione delle
politiche pubbliche nazionali, in particolare su quella di bilancio. In Italia, il “ciclo evolutivo” del bilancio
si è arricchito di nuovi documenti di programmazione direttamente collegati agli orientamenti comunitari in
materia di politiche economiche e occupazionali e di politiche di coesione territoriale. Anche la struttura
del bilancio di previsione ha subito degli adattamenti, visualizzando ora in modo più chiaro le risorse
assegnate per le “grandi priorità”, le missioni dello Stato, le politiche pubbliche. Questo cambiamento
impone una riflessione sulla necessità di adottare nuove metodologie e ulteriori strumenti di analisi per
valutare gli effetti di ogni singola politica nel suo complesso, non solo dei singoli programmi che ne danno
attuazione. Tale riflessione impegna, prima di tutto, il Governo e il Parlamento.
The process of European integration has led to a series of direct effects on the programming national
public policies, in particular on the budget. In Italy, the cycle evolutionary of the budget is enriched
with new programming documents directly related to the Community guidelines in the field of economic and employment policies and policies of territorial cohesion. Also the structure of the budget
has suffered of adjustments, displaying now more clearly the resources allocated for the major
priorities, the missions of the State, public policies. This change requires a reflection on the need to
adopt new methodologies and further analysis tools to assess the effects of each single policy in a
whole, not only of individual programs that they are implementing. This reflection undertakes, first
of all, the Government and Parliament.
Parole chiave: ciclo di bilancio – missioni – rendicontazione – valutazione
Key words: budget cycle – missions – reporting – evaluation
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
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1. Breve introduzione
Il processo di integrazione comunitaria determina effetti diretti sulle politiche
pubbliche nazionali, condizionandone sia la fase di programmazione che
quella di successiva valutazione degli effetti.
In Italia, con particolare riferimento alla decisione nazionale di bilancio,
è possibile registrare due distinti fenomeni.
In primo luogo, il tradizionale “ciclo evolutivo” del bilancio dello Stato si è arricchito di documenti programmatici strettamente correlati agli
orientamenti comunitari in materia di equilibri macroeconomici e Patto di
stabilità e crescita, politica economica e occupazionale, politica di coesione
territoriale.
In secondo luogo, la struttura stessa del bilancio di previsione si sta
progressivamente orientando, grazie ad alcune più recenti riforme, verso
una maggiore rappresentatività delle politiche pubbliche e una più attenta
destinazione “funzionale” della spesa.
Tali cambiamenti determinano una serie di conseguenze sul piano
pratico.
La prima è data dalla necessità di rafforzare il collegamento tra la fase
di programmazione economica e quella di pianificazione strategica dei
Ministeri, attraverso un maggiore raccordo tra stanziamenti di bilancio/
programmi/assetti organizzativi. Tale raccordo presuppone l’esistenza di
efficaci sistemi di budgeting performance oriented capaci di verificare se
e in che modo i responsabili delle strutture amministrative statali realizzino
gli obiettivi prefissati in sede di programmazione.
La seconda conseguenza è rappresentata dalla necessità di compiere
un passo ulteriore, sperimentando tecniche di valutazione non più solo dei
singoli programmi ma delle stesse politiche di cui sono parte integrante. Si
tratta di una valutazione che opera a livello “macro”, si inserisce nel c.d.
policy cycle e presuppone l’esistenza di una relazione di accountability
istituzionale tra Governo e Parlamento. Tale relazione, se correttamente
intesa, ha la capacità di affidare al Parlamento una innovativa ed essenziale
funzione di oversighting.
Obiettivo del presente studio è quello di analizzare le innovazioni introdotte nel “ciclo evolutivo” del bilancio di previsione e successivamente
verificare se sussistano i presupposti per potere avviare una riflessione sulla
implementazione di un modello di valutazione delle politiche pubbliche. A
questo fine, il lavoro si articola in più paragrafi: il § 2 è dedicato ad una
breve analisi di contesto sul ciclo di programmazione delle politiche pubbliche; il § 3 analizza le conseguenze che il processo di integrazione europea
ha determinato sulla decisione nazionale di bilancio ampliando il numero
e la portata dei documenti di programmazione economico-finanziaria; il
§ 4 approfondisce gli aspetti legati alla nuova struttura del bilancio, maggiormente orientata alle linee di policy e sempre più caratterizzata da una
scissione tra il bilancio per la decisione parlamentare e il bilancio per la
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
gestione amministrativa; infine, il § 5 individua alcuni presupposti da cui
partire per sviluppare e implementare un vero e proprio modello di valutazione delle politiche pubbliche.
2. La programmazione delle politiche pubbliche nazionali e il
dialogo con le istituzioni comunitarie
Una politica pubblica può essere definita come “un insieme di decisioni
interrelate, prese da un attore politico o da un gruppo di attori, sulla selezione di obiettivi e di mezzi atti al loro raggiungimento all’interno di una
situazione specifica su cui gli attori hanno, in linea di principio, il potere di
prendere tali decisioni” (Jenkins, 1978).
Le politiche pubbliche sono dunque il risultato delle scelte dei Governi
sia rispetto alle priorità fissate in un generale programma di azione, sia
rispetto agli effetti da esse attesi. Questa attività di policy making diviene
oggetto di specifica e accurata misurazione e valutazione.
Nell’attività di selezione delle priorità di azione rispetto alle politiche
pubbliche, i Governi percorrono un processo decisionale che vede alternarsi una sequenza di fasi alle quali partecipano più attori e che vanno
dalla definizione dell’agenda, alla formulazione della politica, alla scelta
delle strategie, alla attuazione degli obiettivi, alla valutazione degli effetti
prodotti. Tale processo, meglio noto come policy cycle, è tendenzialmente
orientato alla soluzione di problemi (problem solving) che i Governi selezionano all’interno della c.d. agenda setting (Jenkins, 1978; Dye, 1972, p. 2;
Howlett, Ramesh, 2003; Jones, 1984, p. 77; Cobb, Elder, 1972, p. 85;
Lippi, 2008, p. 15). Nel passaggio dall’una all’altra fase del policy cycle,
è decisivo il ruolo dei diversi attori che vi prendono parte, gli interessi da
essi perseguiti e l’impatto delle loro idee sulle azioni.
La selezione degli interventi e la definizione degli obiettivi da parte dei
Governi, coinvolge numerosi attori che, tendenzialmente portatori di interessi
simili o divergenti, interagiscono reciprocamente per il raggiungimento di
risultati ottimali nei diversi ambiti di policy.
In Italia, limitando l’analisi ai soli attori istituzionali che partecipano alla
costruzione delle politiche pubbliche, in una forma di governo parlamentare
come quella delineata dalla nostra Costituzione, i soggetti che tradizionalmente esercitano il potere di direzione politica, sono il Parlamento e il
Governo, collegati tra loro dal rapporto di fiducia (art. 94 Cost.). (1) Dal
momento della votazione della fiducia da parte di ciascuna Camera (art.
94, comma 2 Cost.), infatti, il programma di Governo (2) si trasforma in
indirizzo politico e il Parlamento diventa partecipe del potere di direzione
1 Su questi aspetti di carattere istituzionale si veda, in particolare, Barbera, Fusaro (2002,
pp. 173 ss.) e Martines et al. (2005).
2 Secondo l’art. 3, comma 2, lett. a) della legge 23 agosto 1988, n. 400, le dichiarazioni relative all’indirizzo politico, agli impegni programmatici e alle questioni su cui il Governo chiede la fiducia, sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri.
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politica, manifestando non tanto un “assenso ma un consenso” (Martines
et al., 2005, p. 10).
Tale rapporto si conferma e si consolida anche nelle fasi successive di
concreta attuazione del programma, attraverso l’approvazione di leggi
di indirizzo politico o atti del Governo volti alla implementazione del programma stesso.
In questa attività, il Governo promuove, elabora, mette a punto e, in parte
direttamente realizza le politiche pubbliche e cioè i programmi di azione
che ha selezionato in base alle proprie scelte e per determinate finalità e per
il quale ha ricevuto la fiducia iniziale del Parlamento. Il suo ruolo si esprime attraverso la progettazione delle linee generali, l’individuazione degli
strumenti di intervento, l’individuazione dei soggetti cui affidare l’ulteriore
definizione dei progetti e/o la realizzazione di essi, l’analisi di fattibilità che
misuri il rapporto tra risorse organizzative e risorse finanziarie disponibili,
la predisposizione delle basi giuridiche per l’attuazione del programma
da realizzare, la disponibilità delle risorse, l’assistenza di altri soggetti
pubblici e/o privati per la realizzazione del programma, il controllo della
gestione dei progetti, l’analisi finale dei risultati ottenuti e il riavvio di un
nuovo ciclo progettuale.
Nell’attuale scenario istituzionale, caratterizzato dalla appartenenza
dell’Italia all’Unione europea e dal progressivo riconoscimento di maggiori
spazi di autonomia ai livelli istituzionali sub statali, si amplia il numero dei
soggetti istituzionali che concorrono alla definizione delle politiche pubbliche
nazionali o che comunque ne influenzano la programmazione.
Il tradizionale circuito decisionale del policy maker si “allarga”, creando spazi nuovi di dialogo e confronto tra soggetti appartenenti a livelli
istituzionali diversi: “verso il basso”, con le regioni, “verso l’alto”, con le
istituzioni europee.
Con particolare riferimento agli equilibri macroeconomici, per esempio, il legislatore europeo (e le politiche da esso definite) ha previsto, nel
Trattato di Maastricht e nella disciplina sul Patto di stabilità e crescita così
come riformata nel 2005, vincoli stringenti sui livelli del debito pubblico
e dell’indebitamento netto degli Stati membri, agendo su due livelli: sui
governi nazionali, sui quali ricade l’onere di comunicare alla Commissione
europea l’andamento dei principali saldi di bilancio; ma anche sugli altri
governi territoriali presenti in ciascuno Stato membro, corresponsabili, insieme ai governi centrali, del rispetto dei parametri macroeconomici fissati
dall’Unione europea.
La politica nazionale di bilancio a salvaguardia degli equilibri di finanza
pubblica, così come fissati dall’Unione europea, è espressione della maggiore “interconnessione” tra livelli di governo appartenenti a ordinamenti
diversi e rappresenta un interessante caso di studio.
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3. Gli effetti del processo di integrazione europea sul ciclo
evolutivo della decisione nazionale di bilancio
La decisione di bilancio, così come definita dall’art. 81 e dalla legislazione
ordinaria di attuazione, (3) si è nel tempo arricchita di tutta una serie di atti
legislativi (prima la legge pluriennale di bilancio, poi la legge finanziaria,
e infine, i c.d. collegati) e documenti programmatici attraverso i quali si
sviluppa il c.d. ciclo evolutivo del bilancio, così come illustrato nella tabella
1 (Monorchio, Mottura, 2004, p. 117 e ss.).
Tale ciclo evolutivo prende avvio, nel mese di marzo, con la presentazione in Parlamento da parte del Governo della Relazione sulla situazione
economica del Paese e con la contestuale circolare della Ragioneria generale dello Stato con cui sono individuati, per tutti i Ministeri, i principi
sui quali impostare le previsioni di bilancio. Quindi si sviluppa attraverso
una fase di programmazione di medio termine che culmina, nel mese di
luglio, con la presentazione alle Camere, e la relativa approvazione, del
Documento di programmazione economica e finanziaria; prosegue, nel
mese di settembre, con la fase di adattamento delle grandezze finanziarie
agli obiettivi programmatici secondo quanto stabilito nella Relazione previsionale e programmatica e nei disegni di legge di bilancio e finanziaria;
giunge a compimento con l’autorizzazione alla gestione finanziaria da
parte del Parlamento che approva i disegni di legge entro il 31 dicembre;
prosegue ancora con l’adeguamento alle previsioni iniziali e la presentazione e l’approvazione della legge di assestamento; si conclude con la
valutazione ex post degli obiettivi raggiunti e conseguiti durante la gestione
e l’approvazione della legge sul Rendiconto generale dello Stato. Tra l’una
e l’altra fase del ciclo, tuttavia, proprio in conseguenza del processo di
integrazione comunitaria, si inseriscono documenti che il Governo è tenuto
a presentare al Parlamento prima e alle istituzioni comunitarie poi, al fine
di “render conto” dello stato e dell’andamento di alcune politiche pubbliche
nazionali fortemente condizionate dalle decisioni comunitarie e, al tempo
stesso, correlate alle decisioni di finanza pubblica. Tra queste, in particolare, la politica di bilancio e il rispetto del Patto di stabilità e crescita, la
politica economica e occupazionale e il rilancio della Strategia di Lisbona,
la politica di coesione territoriale e l’attuazione degli Orientamenti strategici
della Comunità per la coesione.
Il fitto intreccio tra politiche pubbliche nazionali e comunitarie trova ulteriore conferma nella iniziativa di riforma dei principali documenti di bilancio
contenuta nel progetto di legge di iniziativa parlamentare, attualmente in
discussione alla Camera dei deputati. (4)
Tale riforma, infatti, oltre ad introdurre meccanismi di monitoraggio
3 Sugli aspetti legati all’art. 81 Cost. e alla sua attuazione si veda Aa.Vv. (1993); Barettoni
Arleri (a cura di) (1989); Onida, (1969); Salvemini (a cura di), (2003); Lupo (2007).
4 A.C. 2555, legge di contabilità e finanza pubblica”, XVI legislatura.
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
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parlamentare della spesa pubblica e a rafforzarne gli strumenti di controllo
e di valutazione, interviene sul ciclo e sui tempi di presentazione dei principali documenti di programmazione economico-finanziaria, rendendoli
maggiormente coerenti con le decisioni comunitarie. A questo fine, oltre
a fissare in un triennio il periodo minimo di programmazione, sostituisce
all’attuale Relazione sulla situazione economica del Paese la Relazione
sull’economia e la finanza pubblica, al Documento di programmazione
economico-finanziaria la Decisione di finanza pubblica e alla legge finanziaria la legge di stabilità, che si limita alla correzione dei conti pubblici.
Accanto alla legge di stabilità, la legge di bilancio diviene lo strumento di
allocazione e gestione delle risorse secondo una rinnovata impostazione
maggiormente orientata alle politiche pubbliche.
Politica di bilancio e Patto di stabilità e crescita
L’art. 3, comma 4-bis della legge n. 468/1978, introdotto dall’art. 2 della
legge 208/1999, prevede che, nel mese di dicembre, il Governo presenti
in Parlamento una nota informativa che illustri le eventuali variazioni nelle
previsioni degli indicatori macroeconomici e dei saldi di finanza pubblica
rispetto a quanto indicato nel Documento di programmazione economico
finanziaria approvato nel mese di luglio. Contestualmente, il Governo,
in base a quanto stabilito dal Regolamento comunitario n. 1466/1997
per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio e del
coordinamento delle politiche economiche, presenta alla Commissione
europea, entro il 1° dicembre, il Programma di stabilità che il Consiglio
economico e finanziario (Ecofin) discute e approva nel mese di febbraio.
Tale Programma, nel rispetto dei limiti contenuti nell’art. 1 del Protocollo
sui disavanzi eccessivi, (5) deve indicare: l’obiettivo del saldo di bilancio
di medio periodo, l’evoluzione dei saldi annuali, le ipotesi sull’andamento
delle principali varabili economiche che influenzano il raggiungimento
dell’obiettivo e il grado di reattività dei saldi di finanza pubblica, l’impatto
dei provvedimenti di finanza pubblica sui saldi di bilancio e sul rapporto
tra debito e prodotto interno lordo.
La presentazione della nota informativa al Parlamento e del Programma
di stabilità alla Commissione europea, si inserisce nel ciclo evolutivo del
bilancio per effetto dell’appartenenza dell’Italia all’Unione monetaria a
partire dal 1999. Essa è temporalmente fissata nel mese di dicembre per
consentire alle istituzioni comunitarie di verificare lo stato della finanza
pubblica degli Stati membri, prima del Consiglio europeo di primavera
che delinea le prospettive finanziarie dell’Unione europea per il medio e
lungo periodo.
Dunque, l’insieme delle regole fiscali che governano la disciplina di
5 In relazione al 3% del rapporto fra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo e in relazione al 60% del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo.
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
bilancio si “allarga”, si estende oltre la Costituzione e la legislazione ordinaria, fino a comprendere la Procedura dei disavanzi eccessivi contenuta
nel Protocollo al Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità e crescita
disciplinato da due distinti regolamenti comunitari e risoluzioni. (6) A questi
ultimi è rinviata la puntuale descrizione dei tempi e delle modalità operative
delle procedure che regolano l’osservanza dei vincoli di bilancio fissati
dall’Unione europea.
Tali vincoli esterni, essenza delle competenze esclusive dell’Unione in
materia di politica monetaria, condizionano e regolano, al tempo stesso,
la politica nazionale di bilancio.
Anche la riforma del Patto di stabilità e crescita approvata dal Consiglio
europeo del 22 - 23 marzo 2005 e disciplinata da due nuovi regolamenti, (7)
pur introducendo degli elementi di maggiore flessibilità per facilitare il rispetto dei parametri di finanza pubblica originariamente fissati da Maastricht,
riafferma la validità dei due valori nominali di riferimento come parametri
e limiti alla decisione nazionale di bilancio. Decisione che, con le ultime
modifiche apportate alla legge n. 468/1978 dalla legge n. 208/1999,
ha scandito le sue fasi secondo termini nuovi e più aderenti alle regole e
alle scadenze stesse imposte dall’Unione europea.
Politica economica e occupazionale e attuazione della Strategia di Lisbona
Entro il 15 ottobre l’Italia, così come gli altri Stati membri appartenenti
all’Unione monetaria, presenta alla Commissione europea e, a partire dal
2006, anche al Parlamento nazionale (Decaro, 2007), un Rapporto che
dia conto dello stato di attuazione della Strategia di Lisbona.
Tale Strategia, adottata per la prima volta dal Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000, e successivamente rilanciata nel 2005, (8) si
propone di creare le condizioni affinché l’economia europea divenga più
competitiva a livello globale, soprattutto grazie al raggiungimento di migliori
livelli di occupazione e innovazione in ciascun Paese membro.
Questi obiettivi sono stati incorporati all’interno di una più ampia e
stringente procedura di programmazione comunitaria contenuta nelle Integrated Broad Economic Policy Guidelines (Integrated BEPGs), di durata
triennale, elaborate dal Consiglio europeo di primavera del 2006, aggiornate di anno in anno e vincolanti per gli Stati membri. Tali vincoli hanno il
loro presupposto nel rispetto dei parametri contenuti nel Patto di stabilità e
6 Reg. Cons. nn. 1466 e 1467 del 1997 e Risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam
del 7 luglio 1997, n. 97/C 236/01.
7 Sulla base delle conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del 22 – 23 marzo 2005,
sono stati emanati i due regolamenti di modifica della procedura di sorveglianza sui disavanzi eccessivi: Reg. Cons. nn. 1055 e 1056 del 2005.
8 Il ciclo del nuovo processo di Lisbona, è descritto nel Rapporto Kok (European Commission,
Facing the Challenge The Lisbon strategy for growth and employement, Report from the High
Level Group chaired by Wim Kok, novembre 2004), fatto proprio dalla Commissione il 3 febbraio 2005 e approvato dal Consiglio europeo di primavera.
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crescita che determina la condizione di appartenenza degli Stati all’Unione
monetaria; ma, al tempo stesso, trovano il loro fondamento giuridico nella
generale azione di coordinamento dell’Unione europea in materia di politica economica e occupazionale così come ribadita dal Trattato di Lisbona
(artt. 5 e 121 Tuef). (9)
Sulla base degli orientamenti comunitari, infatti, gli Stati membri sono
tenuti a presentare, un Piano nazionale di riforma, un Rapporto sullo stato di
attuazione del Piano, una griglia di valutazione degli obiettivi raggiunti sulla
base di adeguati indicatori di misurazione, sottoposti, nel mese di novembre
alla c.d. country examination da parte delle istituzioni comunitarie.
Le valutazioni dell’Unione europea si inseriscono all’interno della più
ampia azione di sorveglianza sulla coerenza delle politiche economiche
nazionali con gli indirizzi di massima fissati dal Consiglio europeo e si
traducono, solo in caso di scostamento, in vere e proprie raccomandazioni
(cfr. tabella 1). (10)
A partire dal 2006, i Piani non hanno più natura esclusivamente programmatica (forward looking) ma espongono anche una valutazione delle riforme
attuate (backward looking) per la realizzazione delle politiche descritte nel
Piano dell’anno precedente.
Nel rispetto di questi adempimenti, l’Italia ha presentato nell’ottobre del
2005, nella fase di transizione tra la vecchia e la nuova Strategia di Lisbona,
il Piano per la crescita e l’occupazione 2005-2008 (Pico), anticipato nelle
sue linee guida nel Dpef 2006-2009. Nel 2006 ha quindi presentato il Primo
rapporto sullo stato di attuazione del Programma nazionale delle riforme,
che, aggiornando il Piano elaborato l’anno precedente, ne ha confermato
gli obiettivi: migliorare il funzionamento del mercato, incoraggiare la ricerca;
accrescere la partecipazione femminile; conciliare la tutela dell’ambiente con
lo sviluppo. Il Rapporto italiano è stato valutato positivamente dalla Commissione europea e, successivamente il Consiglio europeo, nel marzo 2007,
dopo aver riconosciuto all’Italia il raggiungimento di numerosi progressi per
l’attuazione della Strategia, ha esposto le proprie raccomandazioni. (11)
La novità più rilevante dei diversi Rapporti presentati, dunque, risiede
nel tentativo di contribuire alla costruzione, all’interno del ciclo evolutivo
del bilancio, di un approccio integrato del processo di coordinamento della
politica economica e occupazionale, capace, in primo luogo, di “connettere”
e rendere coerenti gli obiettivi posti dalla programmazione comunitaria con
gli obiettivi strategici nazionali e, in secondo luogo, di monitorare e successivamente valutarne gli effetti.
9 Su questi aspetti si veda Manzella (2008), p 273 e ss.
10 Cfr. art. 121 Tuef.
11 Il Rapporto è stato quindi aggiornato e presentato alla Commissione europea nel 2007
(Secondo Rapporto sullo stato di attuazione della Strategia di Lisbona, 23 ottobre 2007) e nel
2008 (Terzo rapporto sullo stato di attuazione della Strategia di Lisbona, 6 novembre 2008)
per le successive valutazioni.
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Camera e Senato
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Luglio (30)
Agosto (31)
Settembre
(30)
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Giugno
(30)
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Maggio
(31)
Giugno
(30)
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Marzo (31)
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Febbraio
(28)
Giugno
(30)
SOGGETTI
TEMPI
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Ddl di bilancio (annuale e
pluriennale) a legislazione
vigente, d.d.l. finanziaria
Relazione trimestrale
di cassa
Votazione di due distinte
Risoluzioni per il Dpef
Progetto di bilancio
di assestamento
Rendiconto generale
dello Stato
Documento di programmazione economico
finanziaria
Prima Relazione sulla
gestione di cassa del settore
pubblico allargato
Relazione sulla situazione economica
del Paese (*)
Relazione sulla gestione di
cassa del settore pubblico
allargato
DOCUMENTI
CONTABILI
Tabella 1 – Le fasi del ciclo di bilancio
Presentazione al Parlamento dei principali documenti di bilancio
Si dà conto della consistenza dei residui
Nelle risoluzioni sono indicati, per ciascun anno
coperto dal Dpef, i saldi di riferimento
Viene presentato al Parlamento e si riferisce
all’esercizio in corso. contiene le previsioni definitive, sia in termini di impegni e di accertamenti
che di cassa. Deve essere approvato con legge
Viene presentato al Parlamento. Si articola in un
Conto del Bilancio e in un Conto del patrimonio
e si riferisce alla gestione dell’anno precedente.
Deve essere approvato con legge
Viene presentato al Parlamento. Individua gli
obiettivi, esposti in valori assoluti e in rapporto
al Pil, per le principali grandezze di finanza
pubblica
Viene presentata dal Ministro delle finanze al
Parlamento
Viene presentata al Parlamento. Illustra l’andamento dell’economia italiana nell’anno precedente e aggiorna sulle previsioni per l’esercizio in
corso
Viene presentata dal Ministro delle finanze al
Parlamento
CONTENUTI/ATTI FORMALI
Segue
Artt. 1-bis, comma 1, lett. b),
2, 4, 11, l. 468/1978
Art. 30, comma 2,
l. 468/1978
Art. 3, l. 468/1978
Art. 118-bis Reg. Camera
Art. 125-bis Reg. Senato
Art. 17, l. 468/1978
Artt. 21 e 23, l. 468/1978
Artt. 1-bis, comma 1 lett. a), 3,
l. 468/1978
Art. 30, comma 2 ,
l. 468/1978
Art. 30, comma 1,
l. 468/1978
Art. 30, comma 1,
l. 468/1978
RIFERIMENTO
NORMATIVO
Saggi
Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
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Governo
Dicembre
(31)
Rapporto annuale sugli
interventi nelle aree
sottoutilizzate
Legge di bilancio annuale e pluriennale
e legge finanziaria
Programma di stabilità
Terza Relazione trimestrale
di cassa
Circolare per la predisposizione del Rendiconto generale dell’anno in corso
Disegni di legge collegati
Rapporto sulle riforme
economiche
Relazione previsionale
e programmatica
DOCUMENTI
CONTABILI
Inviata in Parlamento. Contiene gli strumenti di
sviluppo territoriale alla luce delle tendenze congiunturali e strutturali
Approvazione
Viene presentato all’Unione europea e, se
necessario, viene inviata al Parlamento una Nota
informativa da discutere
Presentazione al Parlamento
Contiene gli adempimenti per la rendicontazione
finale di tutte le entrate e di tutte le spese dell’esercizio in corso
Provvedimenti del Governo su politiche di settore
Stato di attuazione della Strategia di Lisbona. Documento assorbito a partire dal 2005 nel PICO, e
nel 2006 nel PNR (**)
Viene presentata al Parlamento. Espone il quadro
economico e di finanza pubblica coerente con il
d.d.l. finanziaria
CONTENUTI/ATTI FORMALI
Art. 15, comma 5,
l. 468/1978
Art. 81 Cost., art. 1,
l. 468/1978
Reg. Cons. Ue n. 1466/97;
Reg. Cons. Ue n. 1055/2005;
Reg. Cons. Ue n. 1056/2005.
Art. 3, comma 4-bis,
l. 468/1978
Art. 30, comma 2,
l. 468/1978
Art. 23, comma 2,
l. 468/1978
Art. 1-bis, comma 1 , lett. c),
l. 468/1978
Consiglio europeo, Community
Lisbon Programme: technical
implementation Report, 2006,
october 2006
Art. 15, l. 468/1978
RIFERIMENTO
NORMATIVO
Note:
(*) Per prassi, insieme alla relazione il Governo in alcuni casi ha scelto di presentare al Parlamento l’Aggiornamento delle previsioni per l’anno in corso (AGGRPP) e la Relazione trimestrale di cassa.
(**) Il Pico è il Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione. Ha sostituito il Rapporto sulle riforme economiche a partire da 2005. Tale Rapporto era previsto dalle disposizioni comunitarie del 1998. A partire dal 2006, a seguito del rilancio della Strategia di Lisbona, il Pico è stato sostituito dal Piano nazionale di Riforma (Pnr).
Parlamento
Dicembre
(31)
Ragioneria generale dello Stato
Novembre
(15)
Governo
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Novembre
(15)
Dicembre
(1°)
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Ottobre
(15)
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Governo/Ministro
dell’economia e
delle finanze
Settembre
(30)
Novembre
(30)
SOGGETTI
TEMPI
Segue Tabella 1
Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
Saggi
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Saggi
Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
L’influenza della programmazione economica comunitaria sugli equilibri
finanziari nazionali è illustrata nella figura 1.
Figura 1 – Il coordinamento delle politiche economiche
Processo di sorveglianza
multilaterale
Vigilanza sul rispetto del
Patto di stabilità e
crescita
Strategia di Lisbona
Integrated Broad
Economic Policy
Guidelines (BEPGs)
EQUILIBRI ECONOMICI E FINANZIARI NAZIONALI
ciclo del bilancio (gennaio – dicembre)
Programma di stabilità
(febbraio)
Rapporto sulle riforme
economiche (fino al 2004)
Piano per innovazione,
crescita e occupazione (nel 2005)
Piano nazionale di riforma
(dal 2006)
VALUTAZIONI DELLA COMMISSIONE EUROPEA E DEL
CONSIGLIO
Politica di coesione territoriale e attuazione degli Orientamenti strategici
della Comunità per la coesione
L’art. 15, comma 5 della legge 468/1978, come modificato dall’art. 51
comma 1-quater del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, prevede
che, entro il 31 dicembre, il Governo, attraverso il Dipartimento per le
politiche di sviluppo e coesione, presenti al Parlamento, a completamento
della Relazione previsionale e programmatica, e quindi all’interno del
ciclo evolutivo del bilancio, il c.d. Rapporto annuale sugli interventi
realizzati nelle aree sottoutilizzate del Paese, in cui sono documentati
gli strumenti di sviluppo territoriale alla luce delle tendenze economiche
congiunturali e strutturali, le prospettive di breve e medio termine dei
diversi territori del Paese, le risorse finanziarie pubbliche in conto capitale impiegate per lo sviluppo e lo stato di attuazione delle politiche
adottate.
Anche in questo caso, come in quelli precedenti, il Rapporto presentato
annualmente dal Governo si inserisce all’interno di un più ampio disegno
di programmazione che vede coinvolte, in momenti diversi, istituzioni
comunitarie e istituzioni nazionali.
In particolare, il Rapporto deve dare conto, non solo dell’utilizzo
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
Saggi
delle risorse nazionali destinate allo sviluppo territoriale, ma anche di
quelle comunitarie erogate sulla base della programmazione dei fondi
c.d. “strutturali”. Le istituzioni comunitarie, infatti, sulla base delle linee
generali di politica economica, definiscono le linee di programmazione
dei fondi strutturali destinati alle azioni di sviluppo territoriale.
Dopo il primo e il secondo ciclo di programmazione, (12) l’Unione
europea, nel 2006, ha definito, con propri regolamenti, la nuova cornice
normativa di riferimento per la ripartizione, nel periodo 2007-2013, tra i
diversi Paesi membri, delle risorse contenute nei fondi comunitari destinati
a questi interventi (Fondo europeo di sviluppo regionale, FESR, Fondo
sociale europeo, FSE e Fondo di coesione). (13) A corredo di questa nuova
cornice, l’Unione europea ha definito anche i nuovi orientamenti in materia
di c.d. “aiuti di Stato a finalità regionale” di cui gli Stati membri devono
tenere conto in sede di programmazione e in sede di rendicontazione
sullo stato di attuazione delle politiche di sviluppo e coesione. (14)
L’Italia, sulla base della nuova disciplina comunitaria, in coerenza con
gli “Orientamenti strategici della Comunità per la coesione” e nel quadro
dei grandi orientamenti di politica economica (Gope) e della strategia
europea per l’occupazione (Seo), (15) ha elaborato il “Quadro strategico
nazionale 2007-2013” (di seguito QSN), successivamente approvato dalla
Commissione europea. (16)
Il QSN, contiene l’analisi delle priorità strategiche delle politiche nazionali coordinate anche a livello regionale, l’elenco dei programmi operativi
di attuazione a carattere regionale (Por) e nazionale (Pon) con i relativi
piani di finanziamento, le valutazioni ex ante dei programmi operativi,
gli indicatori economici consuntivi regionali che giustificano le scelte di
allocazione delle risorse.
Tale modello di programmazione nazionale dei fondi comunitari 20072013 è impostato secondo una metodologia innovativa che identifica nel
QSN la sede di programmazione unitaria delle risorse nazionali e comunitarie destinate alle azioni di sviluppo territoriale (cfr. figura 1). (17)
12 Rispettivamente 1994-1999 e 2000-2006.
13 I criteri per la ripartizione dei fondi sono definiti nel Regolamento (Ce) n. 1083/2006 del
Consiglio dell’11 luglio 2006 che ha abrogato le norme che regolavano la disciplina della
precedente programmazione 2000-2006 (Regolamento (Ce) n. 1260/1999).
14 La Commissione europea ha approvato, con la decisione 8 novembre del 2007, la
c.d. “Carta degli aiuti 2007-2013”, riferita alle agevolazioni per specifiche porzioni del
territorio nazionale. Per l’Italia è stato approvato il documento “Aiuto di Stato n. 324/2007”
con cui si definiscono le aree in cui si applicano le disposizioni riguardanti il contributo pubblico massimo concedibile per regimi di agevolazione finanziaria.
15 Gli orientamenti strategici comunitari in materia di coesione sono stati approvati con la Decisione del Consiglio Ce 702/2006 del 6 ottobre 2006; i grandi orientamenti di politica economica (Gope) per il periodo 2005-2008, sono contenuti nella raccomandazione del Consiglio Ce 601/2005 del 12 luglio 2005; la Strategia europea per l’occupazione (Seo) è contenuta nella decisione del Consiglio europeo Ce 600/2005 del 12 luglio 2005.
16 La Commissione europea si è espressa preliminarmente il 13 luglio 2007. Il Cipe ha approvato il QSN con la delibera 147 del 2007 a seguito della quale è intervenuta la decisione definitiva della Commissione CCI 2007 IT/ 16/ 1/UNS.
17 Tale modello trova il suo fondamento nella legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007).
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
Secondo questa metodologia unitaria di programmazione, il Comitato di programmazione economico-finanziaria (Cipe), con la delibera n. 166/2007, (18)
ha approvato le assegnazioni delle risorse nazionali stanziate dalla legge
finanziaria del 2007 e, più in generale, le strategie di programmazione che
dovranno adottare sia le amministrazioni centrali che quelle regionali. (19)
Questa modalità di programmazione unitaria e integrata, che rinvia,
nello stesso tempo, a documenti comunitari, nazionali e regionali, richiede
momenti di forte coordinamento con la politica di bilancio, di monitoraggio, di rendicontazione e di valutazione della capacità di realizzazione
degli impegni assunti dalle singole amministrazioni e di verifica dei risultati
conseguiti.
In questa direzione il Rapporto che il Governo presenta a fine anno,
prima dell’avvio della nuova programmazione comunitaria di medio e lungo
periodo, rappresenta un valido esempio di “raccordo”.
4. La definizione delle politiche pubbliche nel bilancio dello
Stato: l’individuazione delle missioni e dei programmi
L’influenza delle decisioni assunte a livello comunitario sul ciclo evolutivo del
bilancio nazionale, si riflettono non solo, come appena dimostrato, sull’ampliamento del numero dei documenti di programmazione economica in esso
contenuti, ma anche sulla struttura stessa del bilancio dello Stato.
Ancora una volta su impulso dell’Unione europea, che per prima ha
definito un quadro unitario di regole contabili finalizzate ad una maggiore
destinazione funzionale della spesa, (20) continuano ad essere segnalate
anche in Italia una serie di criticità legate alla scarsa rappresentatività del
documento di bilancio rispetto alle politiche pubbliche.
La scarsa significatività della discussione e della decisione parlamentare sui singoli stati di previsione della spesa e dell’entrata di cui esso è
composto hanno indotto ad una riflessione, sin dalla VIII legislatura, sul
ruolo del bilancio dello Stato finalizzata ad una sua più forte caratterizzazione come strumento di definizione e attuazione delle politiche pubbliche
(Carabba, 1998; Colombini, 1985; Buscema, 1985).
18 Con la delibera n. 77/2005 il Cipe ha approvato le “Linee guida per l’impostazione del
Quadro strategico nazionale”; con la delibera n. 174/2006 ha approvato “Il Quadro strategico nazionale” e il relativo allegato concernente “La politica regionale nazionale del Fas
nell’ambito della programmazione unitaria della politica regionale per il 2007-2013.
19 Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, la delibera fissa alcuni principi generali della programmazione strategica unitaria richiedendo sia alle amministrazioni centrali che a quelle regionali di predisporre appositi documenti unitari di programmazione per delineare la propria
strategia unitaria di politica regionale, territoriale e settoriale in relazione a tutte le fonti di finanziamento (nazionali e comunitarie). Tali documenti, denominati Documenti unitari di programmazione (Dup) per le amministrazioni regionali e Documenti unitari di strategia specifica (Duss) per le amministrazioni centrali, definiscono ed esplicitano le modalità di conseguimento degli obiettivi generali di politica regionale e delle priorità del QSN.
20 Il c.d. sistema Sec ’95 (Sistema europeo dei conti). Sul punto si veda Corte dei Conti
(2000).
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
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Tale orientamento rappresenta la filosofia di fondo della riforma del
1997 approvata nel corso della XIII legislatura, che, in coerenza con gli
orientamenti comunitari, si è posta diversi obiettivi: la semplificazione della
decisione parlamentare di bilancio aggregando gli oltre 6000 preesistenti
capitoli in unità di voto semplificate e omogenee, (21) denominate unità
previsionali di base; l’individuazione, anche se solo a fini conoscitivi,
delle “funzioni obiettivo” dello Stato, equivalenti alle politiche pubbliche
nazionali; la responsabilizzazione dell’apparato burocratico, collegando
le unità previsionali di base alle strutture amministrative autorizzate alla loro
gestione e denominate centri di responsabilità amministrativa; conseguentemente, la distinzione di un bilancio per la gestione, affidato ai centri di
responsabilità dei diversi ministeri, da un bilancio per la decisione, oggetto
di discussione e approvazione parlamentare attraverso il voto sulle unità
previsionali di base.
Accanto a questi obiettivi, la legge n. 94/1997 ha rafforzato anche
il rapporto tra la programmazione economica sviluppata all’interno
del ciclo evolutivo del bilancio e la sua concreta attuazione operativa
all’interno dell’amministrazione: prima attraverso la definizione di
obiettivi e poi con il successivo raggiungimento di risultati. A questo
fine è stato meglio definito il contenuto delle note preliminari al bilancio
che, allegate a ciascuno stato di previsione della spesa dei Ministeri,
hanno la funzione di illustrare i criteri utilizzati per la formulazione
delle previsioni coerentemente con i parametri già indicati nel Dpef,
nel mese di luglio. (22)
Tuttavia, a distanza di circa dieci anni dalla legge di riforma del
’97, l’esperienza applicativa ha favorito l’avvio di un nuovo e intenso
dibattito sulla necessità di rafforzare la valutazione e l’analisi delle politiche pubbliche, partendo da una riqualificazione della spesa pubblica
e quindi di una diversa utilizzazione del bilancio dello Stato.
Nel corso della XV legislatura, la legge 27 dicembre 2006, n. 296
(legge finanziaria per il 2007) ha avviato un programma straordinario di analisi e valutazione della spesa delle amministrazioni centrali
affidato al Ministro dell’economia, rafforzando, al tempo stesso, le
attività e gli strumenti di analisi e monitoraggio degli andamenti di
finanza pubblica anche a livello parlamentare. (23) I primi risultati di
questo programma sono contenuti nel Libro verde sulla spesa pubblica,
che individua i ministeri “pilota” ( 24) oggetto di revisione delle politi-
21 Per una illustrazione dettagliata degli aspetti della riforma si vedano: Borgonovi, Canaletti (1998); Pacifico (1998); Canaletti (1998); D’Alessio (1998).
22 Art. 2 della legge n. 468/1978.
23 L’art. 1, comma 474 della legge 296/2006 ha istituito la Commissione tecnica per la finanza pubblica, l’art. 1 comma 476 della legge 296/2006 ha istituito il Servizio studi della
Ragioneria generale dello Stato; l’art. 1 comma 481 della legge 297/2006 ha previsto l’istituzione, all’interno delle Commissioni bilancio di Camera e Senato, di un Comitato permanente per il monitoraggio della finanza pubblica.
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Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche
che di spesa. A questa prima istruttoria è seguita una prima ipotesi
di riclassificazione del bilancio dello Stato elaborata dal Governo (25)
e la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri sulle modalità di
presentazione del bilancio e della legge finanziaria. (26) Il 1° ottobre
2007 il bilancio dello Stato è stato presentato in Parlamento secondo una
nuova impostazione che, lasciando totalmente inalterato il quadro normativo vigente, mantenendo l’analisi della spesa a seconda dell’aspetto
funzionale (funzioni obiettivo), di quello contabile (unità previsionali di
base) e di quello organizzativo (centri di responsabilità amministrativa),
porta a pieno compimento gli obiettivi di fondo che avevano ispirato la
riforma del 1997.
Quest’ultima ha stabilito un collegamento più forte tra l’unità di voto
in Parlamento (unità previsionale di base) e la struttura amministrativa
incaricata della gestione delle rispettive risorse (centro di responsabilità
amministrativa), ma la riforma veicolata in occasione della presentazione del bilancio dello Stato per il 2008, compie un passo ulteriore.
La novità è quella di aver costruito degli aggregati contabili capaci
di dare anche informazioni al Parlamento sulle finalità che il Governo
intende perseguire in determinati settori sulla base delle risorse previste
e programmate. Tali aggregati, infatti, che comprendono le diverse
categorie di spesa, sono direttamente collegate ai programmi che con
esse si intendono realizzare. Le tabelle 2, 3 e 4 mettono a confronto la
struttura dello stato di previsione della spesa del Ministero dell’interno
nel bilancio per il 1998 (anno in cui è entrata in vigore la riforma del
1997) con quella per il 2009. Dal confronto appare evidente come nel
primo caso sia possibile individuare con chiarezza le strutture amministrative responsabili ma non le finalità della spesa pubblica. Viceversa,
nel secondo caso, la sequenza Missione, Programma, Macroaggregato,
Centro di responsabilità, fornisce ulteriori informazioni: chi gestisce le
risorse (Centro di responsabilità), con quali risorse (Macroaggregati) e
per fare cosa (Programma) (cfr. tabella 2).
In questo senso viene privilegiato, rispetto al passato, il contenuto funzionale della spesa, rendendo più stringente il legame tra “risorse stanziate e
azioni perseguite” (27) e visualizzando in modo chiaro e leggibile le scelte
pubbliche, sia con riferimento alla quantificazione delle risorse che con
riferimento alla loro destinazione rispetto al programma di governo (cfr.
tabelle 3 e 4).
La nuova articolazione del bilancio di previsione dello Stato per la deci24 I Ministeri “pilota”sono: giustizia, interni, istruzione, infrastrutture e trasporti.
25 Circolare del Presidente del Consiglio dei ministri del giugno 2007.
26 Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 3 luglio 2007.
27 Nota introduttiva alla lettura del Bilancio dello Stato per Missioni e Programmi, Ragioneria Generale dello Stato, Servizio studi Dipartimentale, ottobre 2007, p. 5.
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Tabella 2 – Estratto dal Bilancio di previsione dello Stato per l’anno 1998: stato di previsione del
Ministero dell’Interno
Centri di responsabilità amministrativa
Unità di voto
(UPB)
Spese
1.
1.1.1.0
1.1.2.1
GABINETTO E UFFICI DI DIRETTA COLLABORAZIONE ALL’OPERA DEL MINISTRO
Spese correnti
FUNZIONAMENTO
INTERVENTI
Servizio informazioni e sicurezza democratica
2. AMMINISTRAZIONE GENERALE E AFFARI DEL PERSONALE
2.1 Spese correnti
FUNZIONAMENTO
2.1.1.0
INTERVENTI
Contributi ad enti ed altri organismi
Accordi ed organismi internazionali
Altri interventi enti locali
Progetto finalizzati
2.1.2.1
2.1.2.2
2.1.2.3
2.1.2.4
2.1.3.1
2.2.1.1
TRATTAMENTI DI QUIESCENZA, INTEGRATIVI E SOSTITUIVI
Indennità
2.2 Spese in conto capitale
INVESTIMENTI
Informatica di servizio
1.
AMMINISTRAZIONE CIVILE
2.
PROTEZIONE CIVILE E SERVIZI ANTINCENDI
3.
SERVIZI CIVILI
4.
AFFARI DEI CULTI
5.
PUBBLICA SICUREZZA
sione parlamentare è ancorata all’art. 4, comma 2, lett. a) della legge
94/1997 che, nel ripartire le spese per funzioni obiettivo stabilisce
che le stesse “siano individuate con riguardo all’esigenza di definire
le politiche pubbliche di settore e di misurarne il prodotto delle attività
amministrative, ove possibile anche in termini di servizi resi ai cittadini”.
Tuttavia, tale ripartizione delle spese per funzioni obiettivo, è stata fino
ad ora interpretata come esercizio sperimentale a contenuto meramente
informativo: in allegato alla legge del bilancio annuale di previsione,
infatti, veniva collocata una tabella contenente una ripartizione della
spesa complessiva suddivisa per funzioni obiettivo, basata sui primi
quattro livelli della classificazione funzionale della spesa adottata a
livello europeo. (28) Il quarto livello della classificazione era rappresentato
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Tabella 3 – Estratto dal Bilancio di previsione dello Stato per l’anno 2009: stato di previsione del
Ministero dell’interno
Unità di voto
(UPB)
Missione
Programma
Macroaggregato
Centro di responsabilità amministrativa
2. RELAZIONI FINANZIARIE CON LE AUTONOMIE TERRITORIALI
2.2. Interventi, servizi e supporto alle autonomie territoriali
2.2.1
2.2.2
FUNZIONAMENTO
Dipartimento per gli affari interni e territoriali
INTERVENTI
Dipartimento per gli affari interni e territoriali
2.2.6
INVESTIMENTI
Dipartimento per gli affari interni e territoriali
Dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione
Civile e per le risorse strumentali e finanziarie
Tabella 4 – Rielaborazione dal Bilancio di previsione dello Stato per l’anno 2009: stato di previsione
del Ministero dell’interno, riepilogo missioni (7) e programmi (15)
Missione
Programmi
Amministrazione generale e supporto alla
rappresentanza generale di governo e dello
Stato sul territorio
Rappresentanza generale di Governo e dello Stato sul
territorio
Relazioni finanziarie con le autonomie
territoriali
Interventi, servizi e supporto alle autonomie territoriali
Trasferimenti a carattere generale ad enti locali
Ordine pubblico e sicurezza
Sicurezza democratica
Contrasto al crimine, tutela all’ordine e alla sicurezza pubblica
Servizio permanente dell’Arma dei Carabinieri per la tutela
dell’ordine e della sicurezza pubblica
Pianificazione e coordinamento Forze di Polizia
Soccorso civile
Organizzazione e gestione del sistema nazionale di difesa
civile
Prevenzione del rischio e soccorso pubblico
Immigrazione, accoglienza e garanzia
dei diritti
Garanzia dei diritti e interventi per lo sviluppo della coesione
sociale
Gestione flussi migratori
Rapporti con le confessioni religiose
Servizi istituzionali e generali delle amministrazioni pubbliche
Indirizzo politico
Servizi e affari generali per le amministrazioni di competenza
Fondi da ripartire
Fondi da assegnare
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dalle c.d. missioni istituzionali, tendenziale espressione delle principali
politiche pubbliche del Paese.
Tuttavia, tale analisi risultava poco efficace, sia per la scarsa capacità
di raccordo con le classificazioni contabili utilizzate nel bilancio di previsione oggetto dell’approvazione parlamentare, sia per la mancanza di
imputazione alle missioni istituzionali così identificate delle corrispettive
risorse finanziarie.
La riforma contenuta nel disegno di legge del bilancio annuale di previsione per il 2008 ha perfezionato questa impostazione introducendo, nella
parte relativa alle spese dello Stato, aggregati contabili maggiormente raccordabili con la classificazione europea ed espressione di una più accurata
analisi funzionale della spesa.
Tali aggregati sono rappresentati dalle Missioni e dai Programmi: le
prime, 34 sia nel bilancio di previsione per il 2008 che nel bilancio di
previsione per il 2009, (29) esprimono “le funzioni principali e gli obiettivi
strategici perseguiti con la spesa pubblica”e rappresentano le “grandi finalità” dello Stato. È possibile che alcune missioni istituzionali siano affidate
alla responsabilità di più Ministeri. Per una puntuale individuazione delle
Missioni contenute nel bilancio per il 2008 e per la rispettiva percentuale
di assorbimento della spesa si veda la tabella 5.
I Programmi, 168 nel bilancio di previsione per il 2008 e 163 nel bilancio di previsione per il 2009, nei quali si articolano le Missioni, hanno il
loro fondamento normativo nell’art. 2, comma 2 della legge 468 del 1978
(come modificato dalla legge n. 94 del 1997), sono “aggregati omogenei di
attività svolte all’interno di ogni singolo Ministero, allo scopo di perseguire
obiettivi ben definiti nell’ambito delle finalità istituzionali, riconosciute dal
Dicastero competente” e come tali esclusivi, salvo rare eccezioni, a ciascuna
amministrazione.
Essi rappresentano l’asse centrale della nuova classificazione e indicano
i risultati da perseguire in termini di impatto dell’azione pubblica su
cittadini e territorio. Ciascun programma si sviluppa poi in un insieme
di sottostanti attività (azioni) che ogni amministrazione pone in essere
per il raggiungimento delle proprie finalità. (30)
28 Il sistema di classificazione funzionale della spesa previsto dal Sistema europeo dei conti
Sec ’95 è il sistema Cofog (classification of functions of government). Esso prevede quattro distinte articolazioni della spesa: il primo è rappresentato dalle Divisioni, il secondo dai Gruppi, il terzo dalle Classi e il quarto dalle Missioni.
29 Rispetto al bilancio per il 2008, i Programmi hanno subito delle modificazioni nel numero
e nella denominazione sia per le intervenute modifiche legislative alla struttura organizzativa
del Governo (cfr. decreto legge 16 maggio 2008, n. 85), sia per la più puntuale valutazione
e consapevolezza delle attività svolte dalle singole amministrazioni. In particolare, le modifiche hanno interessato il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Ministero dell’interno, il Ministero dei beni e delle attività culturali, il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
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Tabella 5 – La ripartizione del bilancio dello Stato per Missioni. Stanziamenti per il 2008
Stanziamenti del bilancio di
previsione per il 2008, in
milioni di euro (compresa la
II Nota di variazione)
Stanziamenti in % sul totale del
bilancio di previsione 2008 (compresa la II Nota di variazione)
112,792
23,55
Debito pubblico
78.231
16,33
Politiche previdenziali
98.559
14,31
Istruzione scolastica
41.583
8,68
L’Italia e l’Europa nel mondo
27.205
5,68
Diritti sociali e solidarietà sociale
24.234
5,06
Fondi da ripartire
19.961
4,17
Difesa e sicurezza del territorio
19.008
3,97
Diritto alla mobilità
10.514
2,19
Ordine pubblico e sicurezza
9.321
1,95
Politiche finanziarie e di bilancio
8.920
1,86
Istruzione universitaria
8.760
1,83
Giustizia
7.268
1,52
Sviluppo e riequilibrio territoriale
5.489
1,15
Competitività e sviluppo imprese
4.433
0,93
Ricerca e Innovazione
4.060
0,85
Infrastrutture pubbliche e logistica
3.914
0,82
Soccorso civile
3.755
0,78
Politiche del lavoro
3.624
0,76
Organi costituzionali
3.334
0,70
Servizi generali amministrazioni
2.830
0,59
Sviluppo sostenibile
1.665
0,35
Tutela beni culturali
1.633
0,34
Immigrazione
1.486
0,31
Agricoltura e pesca
1.364
0,28
Comunicazioni
1.354
0,28
Casa e assetto urbanistico
Missioni
Relazioni autonomie locali
1.060
0,22
Giovani e sport
958
0,20
Tutela della salute
881
0,18
Amministrazione generale del territorio
352
0,07
Commercio internazionale
268
0,06
Turismo
113
0,02
Energia e fonti energetiche
59
0,01
Regolazione dei mercati
16
0,00
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Il sistema di classificazione della spesa, pur muovendosi entro la cornice normativa della legge n. 94/1997, aggiunge il Macroaggregato alla
ripartizione per funzioni obiettivo, unità previsionali di base e capitoli. I Macroaggregati corrispondono alle Unità previsionali di base, vale a dire alle
unità di voto parlamentari, ma a differenza di queste ultime, sono corredati
da indicazioni di maggior dettaglio sulla spesa ad essi imputabile.
Gli allegati tecnici degli stati di previsione della spesa di ogni Ministero, infatti, devono indicare i contenuti di ciascuna unità previsionale di
base, esplicitando la missione da gestire, i programmi da sviluppare e le
diverse categorie di spesa da sostenere (Macroaggregati). Inoltre, lo stato
di previsione di ogni Ministero presenta una Scheda di analisi per ciascun
programma che contiene specifiche informazioni contabili relative alla
Missione di riferimento, alla distinzione delle diverse tipologie di spesa e
ai sottostanti capitoli rilevanti per la gestione. (31)
Ogni Macroaggregato, dunque, grazie alle numerose informazioni
contenute negli allegati agli stati di previsione, evidenzia, per ciascun
programma, le diverse tipologie di spesa ad esso attribuite suddividendole
in tre voci: spese predeterminate per legge (c.d. fattori legislativi) e cioè le
spese obbligatorie a carattere rigido previste da disposizioni normative che
quantificano specificamente lo stanziamento da inserire in bilancio; oneri
inderogabili, e cioè le spese obbligatorie previste da disposizioni normative
che non quantificano lo stanziamento da inserire in bilancio; spese discrezionali che rappresentano gli stanziamenti non prefissati dalla legge.
Solo a fini conoscitivi, ma non ai fini della decisione parlamentare,
ai diversi Macroaggregati sono collegati anche i Centri di responsabilità
amministrativa, e cioè le corrispondenti strutture amministrative a cui è affidato l’insieme organico delle risorse necessarie per realizzare i programmi
(art. 1 del d.lgs. 279/1997). Il Macroaggregato, dunque, coincidendo con
le Unità previsionali di base e quindi oggetto di approvazione, è una ripartizione che consente al Parlamento di individuare più agevolmente l’entità
delle spese che il Governo intende sostenere per raggiungere determinati
obiettivi (programmi). Al tempo stesso, restando ancorato anche ai Centri
di responsabilità amministrativa identifica anche i soggetti responsabili
delle rispettive azioni.
La figura 2 illustra i tre livelli di classificazione della spesa (funzionale
e contabile) attualmente esistenti, evidenziando e distinguendo il livello
oggetto di approvazione parlamentare.
Sulla base di questa ripartizione, ciascuno dei 18 stati di previsione della
spesa del bilancio di previsione (32) è preceduto dalla nota preliminare, la
cui funzione di raccordo tra programmazione economica e pianificazione
30 Per ogni Ministero esistono due programmi trasversali in cui sono allocate le spese “indi
rette” non attribuibili ex ante a Programmi specifici e le spese di “indirizzo politico” collegati
entrambi alla corrispondente Missione “Servizi istituzionali e generali”.
31 Cfr. Circolare del Mef del 5 giugno 2007.
32 Sulla base delle nuove articolazioni, il bilancio di previsione sottoposto all’esame e all’ap-
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strategica è stata ulteriormente valorizzata a sviluppata in occasione della
predisposizione del bilancio di previsione per il 2008 e per il 2009. (33)
La nuova ripartizione funzionale della spesa non incide sul sistema di
classificazione delle entrate così come ridefinito a suo tempo dalla legge
n. 94 del 1997 (cfr. figura 2). (34)
5. Dalla programmazione alla valutazione delle politiche
Figura 2 – I livelli di classificazione della spesa
pubbliche: l’individuazione degli indicatori di performance e
il rafforzamento della capacità di giudizio
La struttura del bilancio dello Stato così come illustrata, lascia inalterata la
distinzione tra bilancio per la decisione, collegato alla ripartizione funzionale delle spese per missioni e programmi e alla classificazione contabile
per unità previsionali di base e macroaggregati sulla quale si basa il voto
provazione del Parlamento resta strutturato nel modo che segue: Elenco di tutte le unità previsionali di base del bilancio distinte per i vari Ministeri; Quadro generale riassuntivo del bilancio di competenza; Quadro generale riassuntivo del bilancio di cassa; Quadro generale
riassuntivo del bilancio triennale a legislazione vigente; Quadro generale riassuntivo del bilancio triennale delle aziende autonome; Quadro generale riassuntivo pluriennale programmatico; Allegato tecnico: stati di previsione: 1 per l’entrata e 18 per la spesa di ciascun Ministero (tabelle). Ogni stato di previsione è corredato da numerosi “elenchi”, “riassunti”, “riepiloghi” e “tavole” che hanno l’obiettivo di facilitare e migliorare la lettura dei dati da parte del Parlamento.
33 Sul ruolo e sulla standardizzazione delle note preliminari si veda la circolare della Ragioneria generale dello Stato n. 21/2008.
34 La classificazione dell’entrata, avvicinata anch’essa alla classificazione basata sui criteri
del sistema europeo dei conti, è strutturata su quattro livelli: il primo livello (titoli) rappresentato
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parlamentare, e bilancio per la gestione, articolato in capitoli e affidato
ai responsabili delle strutture amministrative dei Ministeri. Tale distinzione,
caratterizzata da un maggiore orientamento delle previsioni di spesa alle
politiche pubbliche e agli obiettivi da esse perseguiti, conduce, al tempo
stesso, ad un collegamento più forte tra la fase di programmazione economica, avviata con la presentazione del Dpef e sviluppata nel bilancio
di previsione (annuale e pluriennale), nella legge finanziaria e nelle leggi
collegate, e la fase di pianificazione strategica. (35)
Quest’ultima ha inizio dal momento in cui i Ministri emanano la direttiva
generale, strumento di raccordo tra la fase di indirizzo e quella gestionale.
A questo proposito, il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (c.d.
testo unico sul pubblico impiego) definisce il riparto di competenze tra organi di indirizzo politico e organi di gestione amministrativa, attribuendo
ai Ministri la competenza ad individuare, entro dieci giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio, obiettivi, priorità, piani e programmi affidati
alla responsabilità gestionale dei dirigenti. (36) Tali istruzioni, impartite e
concordate con i dirigenti delle burocrazie ministeriali, sono contenute nella
direttiva di inizio anno. La direttiva annuale del Ministro, infatti, secondo
quanto previsto dall’art. 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286
(in materia di riordino e potenziamento dei meccanismi e degli strumenti di
monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività
svolta dalle amministrazioni pubbliche), costituisce il documento base per
la programmazione e la definizione degli obiettivi delle unità dirigenziali
di primo livello, individuando i principali risultati da realizzare. I dirigenti,
a loro volta, attraverso la diretta gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compiono, sulla base dei programmi loro affidati, tutti gli atti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno, con autonomi poteri di spesa,
di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. (37)
Contestualmente all’attribuzione degli obiettivi, dei piani e dei programdalle entrate tributarie, extratributarie, alienazione e ammortamento dei beni, riscossione prestiti e accensione prestiti, il secondo livello (natura) rappresentato dalle entrate correnti e non
ricorrenti, il terzo livello (specie) relativo ai tributi, e il quarto livello (unità di voto) per le attività e i proventi. Solo il quarto livello delle entrate è oggetto di approvazione parlamentare.
35 Per processo di pianificazione strategica si intende la organizzazione, la partecipazio
ne, la creazione di idee capaci di guidare gli interventi di un’azienda (pubblica o privata), la
formazione di coalizioni capaci di implementare le strategie. Il process strategy (Mintzberg,
Ahstrand, Lampel, 1998), il processual model of decision making (Barzelay, 2001) o activity based view of strategizing (Johnson, Melin, Whittington, 2003) sono sorretti da una logica
di fondo che consente all’azienda pubblica di determinare un susseguirsi coordinato di scelte
dettate da valutazioni di carattere generale per il raggiungimento di determinati obiettivi. Su
questa definizione si veda Borgonovi (2002), p. 281 e ss. Più specificamente, sugli strumenti
di programmazione nelle amministrazioni pubbliche si veda Castelnuovo (2002).
36 Artt. 4 e 14 del d.lgs.165/2001.
37 Accanto alle direttive annuali, a partire dal 2001, si è consolidata la prassi secondo la
quale il Presidente del Consiglio dei ministri emana la c.d. “meta direttiva” ai Ministri con la
quale vengono impartire indicazioni circa le modalità di predisposizione delle direttive annuali, e quindi di individuazione degli obiettivi e di misurazione dei risultati sulla base di specifici indicatori. Si veda, da ultimo, la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del
12 marzo 2007.
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mi, il Ministro assegna a ciascun ufficio di livello dirigenziale generale una
“quota parte” del bilancio dell’amministrazione.
L’attribuzione di obiettivi e di risorse alle strutture amministrative consolidano lo stretto e necessario rapporto che intercorre tra la programmazione
economica generale e la pianificazione strategica, contribuendo alla costruzione di un sistema di performance budgeting. (38)
La pianificazione, infatti, non è altro che la traduzione operativa del
programma di governo attraverso le direttive dei diversi Ministri. Essa, infatti,
assume un rilevo strategico in quanto strettamente collegata alle priorità
politiche definite nel programma di Governo opportunamente declinate in
obiettivi macro (strategici) e obiettivi micro (operativi).
Nell’esperienza applicativa, un impulso decisivo verso un maggiore
collegamento tra la fase di programmazione e quella di pianificazione è
dato da due circostanze.
La prima è la istituzione di un Comitato tecnico scientifico presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri (39) a cui è stato affidato il compito
di supportare il Presidente del Consiglio dei ministri nell’attuazione del
programma di governo attraverso la pianificazione strategica dei Ministeri.
A questo fine, il Comitato promuove l’utilizzo di metodologie e strumenti
per la pianificazione strategica delle amministrazioni dello Stato e elabora
metodologie e strumenti per assicurare e migliorare il collegamento tra
obiettivi strategici e allocazione delle risorse. Può anche elaborare proposte
per la progressiva integrazione tra il processo di formazione del bilancio e
il processo di pianificazione strategica delle amministrazioni dello Stato.
La seconda circostanza è l’instaurazione della prassi, ormai consolidata e fondata sul presupposto normativo contenuto nell’art. 8 del d.lgs.
286/1999, di emanazione delle c.d.”meta direttive” da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri contenenti istruzioni sulla predisposizione,
metodologicamente uniforme, delle direttive dei Ministri.
A partire dal 2001, i Rapporti del Comitato e le direttive del Presidente
del Consiglio dei ministri (40) segnalano le criticità del processo di programmazione/pianificazione e individuano possibili soluzioni: alla eccessiva eterogeneità della metodologia di predisposizione delle direttive propongono
un modello uniforme di individuazione, all’interno di una griglia comune, di
missioni, obiettivi e progetti; alla scarsa attività di misurazione dei risultati
suggeriscono una serie di indicatori di performance; alla debole capacità
38 Sul performance budgeting, si veda tra i più recenti: OECD (2008); Rubin (2008); Young
(2003); Robinson (2007); sui principi del PB si veda Gao, United States General Accounting
Office (1997); sulle riforme dei sistemi di budgeting nel settore pubblico si veda in particolare, per l’analisi del caso italiano, Mussari (2005), p. 139 e ss.
39 Dapprima istituito dall’art. 7 del d.lgs. 286/1999 e successivamente riordinato con il
d.P.R. 12 dicembre 2006, n. 315.
40 Le meta direttive emanate sino ad ora sono 5: 12 dicembre 2000, 15 novembre 2001,
8 novembre 2002, 27 dicembre 2004, 12 marzo 2007; i Rapporti elaborati dal Comitato
sono 4 : Rapporto del maggio 2001; Rapporto di gennaio 2003, Rapporto di aprile 2004;
Rapporto di marzo 2006 (fine XV legislatura).
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di selezionare priorità contrappongono un approccio basato su uno più
stretto collegamento con le risorse finanziarie del bilancio di previsione
approvato dal Parlamento.
In particolare, l’ultima direttiva del 12 marzo 2007, coerente con il più
ampio processo di revisione della spesa pubblica avviato all’inizio della
XV legislatura e conclusosi con la predisposizione del bilancio di previsione
dello Stato per missioni e programmi, invita ad un rafforzamento del c.d.
“ciclo integrato di pianificazione strategica e programmazione economico
finanziaria” e suggerisce la scansione del processo in diverse fasi: la fase
di definizione delle priorità politiche da parte dei Ministri (nel mese di
marzo); la fase di elaborazione della prima proposta di obiettivi e della
predisposizione della prima nota preliminare (nel mese di maggio/luglio);
la fase di aggiornamento della proposta di obiettivi strategici e dei relativi
piani di azione (nel mese di settembre); la fase di emanazione della direttiva
annuale da parte del Ministro (entro dieci giorni dalla pubblicazione del
bilancio dello Stato).
In questa catena procedimentale le note preliminari riaffermano, rafforzandolo, il loro ruolo strategico.
In esse devono essere indicati gli obiettivi che le amministrazioni intendono perseguire con riferimento ai livelli di servizi e di interventi, e gli
indicatori di efficienza per valutare i risultati. Le note, dunque, assolvono la
funzione di fornire elementi conoscitivi utili alla comprensione dei criteri di
determinazione sottostanti alle previsioni di spesa inserite nelle proposte di
bilancio. Tali criteri, inoltre, si basano sulla relazione strumentale che unisce
le risorse agli obiettivi e che vede le prime stabilite in funzione dei secondi,
una volta definiti i livelli attesi di efficienza. In sostanza, le note preliminari
hanno il compito di sintetizzare e anticipare i contenuti programmatici dei
successivi atti di indirizzo ministeriali emanati a seguito della approvazione
del bilancio dello Stato entro il 31 dicembre. (41)
La valenza delle note preliminari all’interno del processo di programmazione/pianificazione è stata di recente evidenziata in occasione della
predisposizione del bilancio di previsione dello Stato per il 2009. In questa
occasione, infatti, l’Ispettorato della Ragioneria generale dello Stato ha
elaborato un sistema di acquisizione automatizzata delle note preliminari
secondo lo schema cronologico individuato dalla meta direttiva del 2007
e sulla base di una struttura “tipo” così articolata: quadro di riferimento
complessivo e breve descrizione delle priorità politiche dell’amministrazione;
illustrazione degli stanziamenti complessivamente previsti e distinti per missione, programma e obiettivi; descrizione di eventuali fabbisogni di personale in
relazione ai programmi esposti; scheda per ciascun programma, contenente
indicazioni relative agli obiettivi, ai centri di responsabilità coinvolti e agli
indicatori di performance per la misurazione dei risultati. A questo fine, per
41 Più specificamente sul ruolo delle note preliminari si veda Mussari (2002), p. 72 e ss.
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qualificare meglio il contenuto di tali indicatori e dettare criteri omogenei
per la loro individuazione e applicazione agli obiettivi, sono state seguite
le indicazioni della “meta direttiva”. La tabella 6 illustra la tipologia degli
indicatori utilizzati nella predisposizione delle note preliminari.
Lo stretto collegamento tra le note preliminari, il bilancio di previsione
(programmazione economico-finanziaria) e le direttive (pianificazione strategica), così come ribadito anche in occasione di quest’ultima sessione di
bilancio, rafforzano un ciclo decisionale che ha inizio con la predisposizione
dei principali documenti di bilancio da parte del Governo, si snoda nella
“sessione parlamentare” e si conclude con il monitoraggio sull’attuazione
degli obiettivi definiti nelle direttive e, più in generale, sulla valutazione
delle politiche pubbliche di cui sono espressione.
La valutazione delle politiche pubbliche, infatti, è un’attività di analisi
sistematica condotta con i metodi della ricerca empirica, volta a formulare
giudizi sulla definizione e deliberazione dei programmi, sulla loro attuazione
ed efficacia. (42) Attraverso questa attività diviene possibile confrontare, con
procedure rigorose e codificate, i risultati raggiunti dal Governo rispetto
agli obiettivi da esso predeterminati (Vedung, 1997).
In questo ciclo (policy cycle), che si apre con la programmazione e si
conclude con la verifica dei risultati raggiunti per ciascuna politica pubblica,
il Governo e il Parlamento si confrontano.
Tale confronto, che richiede la disponibilità, l’attendibilità, la comprensibilità, l’accessibilità, la diffusione e la distribuzione delle informazioni,
instaura tra Governo e Parlamento una relazione di accountability istituzionale connotata da un’attività di “resa del conto” cui dovrebbe seguire un
feedback sottoforma di giudizio (Steccolini, 2003).
Su ciò che il Governo intende realizzare, e quindi sull’attuazione
del programma di governo, il Parlamento, infatti, svolge una delicata
funzione di controllo (Lupo, 2007, p. 72).
Si tratta di una funzione di vigilanza o sorveglianza (oversight)
(Lippi, 2007, p. 89) sull’azione dell’esecutivo che necessita di un
supporto tecnico conoscitivo propedeutico alla formulazione di giudizi
empiricamente fondati. In questa direzione, la Corte dei conti, che in
base all’art. 100 Cost. esercita la forma più significativa di “controllo
successivo” sulla gestione del bilancio dello Stato, a partire dagli anni
’70, ha tentato di sperimentare, proprio in occasione della presentazione
al Parlamento della relazione che accompagna il giudizio di parificazione sul Rendiconto generale dello Stato, forme di valutazione delle
politiche per singoli comparti.
E tuttavia, la scarsa attenzione politica e parlamentare verso il Rendiconto
generale dello Stato, non ha consentito ulteriori sviluppi in questa direzione,
42 Sul collegamento tra valutazione delle politiche pubbliche e strategia si vedano Chelimsky
(1989); Lindblom (1980); Wildavsky (1979).
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determinando una occasione mancata. Al fine di rafforzare questa fase
di verifica e di riscontro dei risultati raggiunti, la legge finanziaria per il
2008 (43) ha stabilito che entro il 15 giugno di ogni anno, ogni Ministero
debba trasmettere alle Camere, per l’esame delle competenti Commissioni,
una relazione sullo stato della spesa dei rispettivi ministeri che dia conto
dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione in relazione ai programmi e alle
missioni realizzate. Le relazioni sullo stato della spesa, che contengono gli
esiti delle attività di reporting compiute all’interno delle strutture ministeriali,
divengono oggetto di riflessione ed esame parlamentare per verificare la
coerenza delle attività svolte rispetto al programma di Governo sul quale il
Parlamento ha dato il proprio consenso. Un’analisi complessiva della spesa
delle amministrazioni pubbliche compiuta dalla Ragioneria generale dello
Stato (44) secondo quanto stabilito dalla legge finanziaria per il 2008, (45)
evidenzia ancora molte rigidità nella gestione del bilancio e un consistente
scostamento tra stanziamenti iniziali e impegni. Tuttavia, la stessa analisi
segnala anche una maggiore attenzione al processo di verifica a consuntivo
attraverso la individuazione di obiettivi stabili negli anni e la selezione di indicatori adeguati alla misurazione dei servizi erogati o degli interventi realizzati.
Una maggiore attenzione verso la fase di monitoraggio e di successiva
valutazione delle politiche pubbliche si riflette anche e soprattutto nel momento della elaborazione del Rendiconto generale dello Stato. Anche in questa
occasione, infatti, la stessa legge finanziaria, (46) ha previsto che la Corte dei
conti, nella presentazione della relazione annuale al Parlamento sul Rendiconto
generale dello Stato, esprima valutazioni di sua competenza sullo stato della
spesa e sull’efficienza della pubbliche amministrazioni, tenendo conto della
nuova classificazione del bilancio per missioni e per programmi.
Si tratta dunque di prime sperimentazioni dalle quali occorrerebbe
partire per formulare una strategia complessiva di valutazione delle politiche pubbliche in Parlamento. Analogamente a quanto sta facendo il
Parlamento francese che, alla luce della più recente riforma costituzionale,
ha voluto rafforzare la sua funzione di controllo e valutazione sull’operato
del Governo. (47)
43 Art. 3, comma 68 della legge 24 dicembre 2007, n. 244.
44 Cfr. Ministero dell’economia e della finanze, Rapporto sulla spesa della amministrazioni
centrali dello Stato, 2009, disponibile sul sito www.tesoro.it.
45 Art. 3, comma 67 della legge 24 dicembre 2007, n. 244.
46 Art. 3, commi 70 e 71 della legge 24 dicembre 2007, n. 244.
47 LOI constitutionnelle n. 2008-724 du 23 juillet 2008.
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_____________
Indicatori di risultato intermedio (output)
Consentono di quantificare il volume di
attività svolto dall’amministrazione, anche
se non esprimono i risultati di tale attività.
Non vanno quindi confusi con gli indicatori
di risultato intermedio (output). Non sempre
infatti ad un aumento del volume di attività
corrisponde un aumento di volume di output.
__________________________________
è il volume dei prodotti e dei servizi erogati
dall’amministrazione, non vanno confusi con
gli indicatori di volume di attività.
La misurazione degli output presenta criticità
particolari nella pubblica amministrazione,
essendo costituiti prevalentemente non da
beni ma da servizi, per i quali, a differenza
del settore privato, non si dispone nemmeno
del prezzo di vendita come elemento di
misurazione e valutazione.
Rappresentano le risorse finanziarie, umane
o strumentali di cui l’amministrazione dispone per svolgere i suoi compiti.
Indicatori di input
Indicatori di volume di
attività
Rappresentano i bisogni e le istanze dei portatori di interesse con cui interagisce l’amministrazione, una parte dei quali andranno a
costituire un impegno che l’amministrazione
cercherà di soddisfare. Possono essere
indicatori qualitativi o quantitativi.
Indicatori di bisogno
COSA MISURANO
Rappresentano il contesto di riferimento in
cui si muove l’amministrazione, la misura
dell’ambiente in cui essa va ad agire.
(*)
Indicatori di scenario
TIPI DI INDICATORE
Tabella 6 – Tipologia di indicatori
EFFICACIA/EFFICIENZA
_________________
Efficacia gestionale o sociale
Possono essere utili per misurare l’efficacia gestionale
In combinazione con gli indicatori di output o di outcome
misurano l’efficienza gestionale
In combinazione con gli indicatori di output o di out come
misurano l’efficacia sociale
--
ESEMPI
Segue
Esempi:
• Il numero di pratiche “lavorate”
indica il volume di attività, il
numero di pratiche “licenziate”
è l’output
• Il numero di km percorsi dai
mezzi pubblici è un indicatore
di volume di attività, il tasso di
utilizzo dei mezzi pubblici è un
indicatore di output
Numero di addetti ad una certa data,
numero di uffici, dotazione di autovetture, HW, …
Domanda di sicurezza, di integrazione, di a accoglienza, ….
Incidenza della popolazione immigrata sul totale popolazione, tasso di
disoccupazione, composizione della
popolazione per fascia di età, …
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COSA MISURANO
Esprimono l’impatto che l’azione dell’amministrazione, insieme ad altri enti e a
fattori esterni, produce sulla collettività (o
sulla parte dei portatori di interesse della
collettività – stakeholder – con cui interagisce
l’amministrazione) e sull’ambiente.
Tali indicatori sono i più difficili da calcolare, perché hanno bisogno di un orizzonte
temporale medio-lungo e perché sono caratterizzati da forti interdipendenze con sistemi
esterni: l’azione dell’amministrazione, infatti,
è solo una delle determinanti dell’impatto
complessivo generale (**)
Indicano l’avanzamento della spesa prevista per la realizzazione dell’obiettivo o
dell’intervento (input “finanziari”). Sono un
indicatore di quella che può essere definita
come efficacia di spesa.
Esprimono il risultato intermedio – output –
rapportato alle risorse umane o strumentali –
input – o finanziarie impiegate per raggiungerlo. Sono i classici indicatori di efficienza.
Esprimono il grado di avanzamento fisico
dell’obiettivo o dell’intervento rispetto a
quanto atteso. Possono essere misurati rispetto agli input, agli output o agli outcome.
Sono un indicatore sintetico di efficacia
gestionale.
TIPI DI INDICATORE
Indicatori di risultato finale o
di impatto (outcome)
Indicatori di realizzazione
finanziaria
Indicatori di risultato unitario
Indicatori di realizzazione
fisica
Segue Tabella 6
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Efficacia gestionale
Efficienza gestionale o finanziaria
Efficacia finanziaria
Servono, da soli o in combinazione con gli indicatori di
bisogno, per misurare l’efficacia
sociale
EFFICACIA/EFFICIENZA
Segue
% di avanzamento dell’obiettivo
rispetto ai risultati finali attesi espressi
in termini di mezzi impiegati, beni e
servizi prodotti o risultati attesi
Numero di pratiche per impiegato;
spese di manutenzione degli immobili
per metro quadro
% di avanzamento rispetto alla spesa
prevista
Numero di cittadini raggiunti da
un nuovo servizio; riduzione % dei
disservizi lamentati dalla cittadinanza;
% di riduzione dei reati sul territorio;
risultato di campagne innovative…
ESEMPI
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EFFICACIA/EFFICIENZA
Efficacia gestionale o
Efficacia sociale
Efficacia gestionale
ESEMPI
Grado di soddisfazione dell’utenza
Evasione delle pratiche arretrate
entro l’anno (si-no); apertura di nuovi
sportelli al cittadino (si-no); …
Note:
(*) Circolare del Ministero dell’economia e della finanze, Dipartimento RGS, 28 aprile 2006, n. 18 e Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12
marzo 2007 e allegate Linee Guida.
(**)Per misurare ad es. l’impatto di una campagna di informazione e di formazione per la prevenzione della obesità infantile svolta dal Ministero della salute
occorrerebbe aspettare anni, raccogliere le informazioni e indagare il fenomeno per capire quanta parte del risultato è derivato da altri fattori esterni all’azione dell’amministrazione.
Indicano il raggiungimento di certi risultati
non misurabili in forma quantitativa ma su
cui si può esprimere un generico giudizio
qualitativo. Sono un indicatore estremamente semplificato delle efficacia gestionale o
dell’efficacia sociale.
Indicatori puramente qualitativi (alto/medio/basso)
COSA MISURANO
Indicano se sono stati raggiunti o meno certi
risultati che ci si era premesso di raggiungere, in relazione ai quali non è possibile
effettuare una misurazione quantitativa né
esprimere un giudizio qualitativo. Sono un
indicatore estremamente semplificato di
efficacia gestionale.
Indicatori binari (sì/no)
TIPI DI INDICATORE
Segue Tabella 6
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Esperienze innovative
Il bilancio sociale in sanità
Utilizzo e vantaggi del bilancio sociale in sanità:
analisi di un caso aziendale
Antonio D. Barretta
Professore associato presso il Dipartimento di Studi Aziendali e Sociali dell’Università degli Studi di Siena
Patrizio Monfardini
Professore a contratto presso il dipartimento di Studi Aziendali e Sociali dell’Università degli Studi di Siena
Sommario: 1. Introduzione. 2. I vantaggi della rendicontazione sociale: analisi della dottrina. 3. L’analisi empirica
sull’Asl Alfa. 4. Discussioni e conclusioni.
In Italia, numerose aziende e amministrazioni pubbliche, tra cui quelle sanitarie, fanno ricorso a
nuove forme di rendicontazione dei risultati, tra le quali il bilancio sociale rappresenta senza dubbio
lo strumento più diffuso e studiato. Sebbene non manchino studi sul bilancio sociale redatto dalle
aziende sanitarie pubbliche, l’effettivo ruolo riconosciuto a tale strumento e l’esistenza nella realtà dei
vantaggi che la dottrina gli attribuisce appaiono poco indagati. Mediante un approccio di ricerca
multi-metodo, il presente contributo offre un’analisi approfondita di una significativa esperienza
di rendicontazione sociale di un’azienda sanitaria locale per comprendere il concreto utilizzo del
bilancio sociale da parte dei principali portatori di interessi interni ed esterni e la capacità di questo
di offrire i vantaggi sia di rendicontazione che gestionali attribuitigli dalla dottrina.
In the last few years many public sector organisations in Italy, including health care trusts, have
begun to adopt new forms of reporting their results, among which Social Reports are without doubt
the most widely used and studied. Although several authors have analysed Social Reports produced
by health care organisations, full comprehension of their effective role and capacity to achieve
the advantages attributed to them by the literature is still lacking. Following a multiple methods approach, this article offers an in-depth analysis of an important of Social Report drafted by a local
health care trust, with the aim of clarifying the real motivations for drafting it and testing its capacity
to deliver the advantages attributed to it.
L’articolo è una elaborazione del paper presentato al III Workshop Nazionale di Azienda Pubblica Governare e
programmare: l’azienda pubblica tra innovazione e sviluppo al servizio del cittadino e del Paese, Università di Salerno
- Università degli Studi del Sannio, giugno 2008
Sebbene il presente contributo sia frutto di una ricerca congiunta, sono da attribuire ad Antonio D. Barretta i §§ 1, 4
e la parte della metodologia della ricerca inclusa nel § 3. A Patrizio Monfardini sono riferibili il § 2 e le restanti parti
del § 3
Parole chiave: bilancio sociale – case study – azienda sanitaria locale
Key words: social statement – case study – local health-care trust
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Esperienze innovative
Il bilancio sociale in sanità
1. Introduzione
In Italia, le aziende e le amministrazioni pubbliche fanno sempre più ricorso
a nuove forme di rendicontazione dei risultati aziendali (Guarini, 2002;
Hinna, 2004; Marcuccio, Steccolini, 2005). In particolare, fra le forme
emergenti, il bilancio sociale (BS) sembra essere lo strumento più diffuso
(Farneti, Pozzoli, 2005).
Il BS, analogamente agli altri strumenti di rendicontazione sociale, è solitamente considerato un documento dalle numerose potenzialità di carattere
sia informativo che gestionale. La letteratura si è soffermata sui vantaggi
derivanti dall’adozione di strumenti di rendicontazione sociale (Tanese,
2004; Rogate, Tarquini, 2004; Mazzoleni, 2005). Al BS si attribuisce la
capacità non solo di ridurre il gap comunicativo fra pubblica amministrazione
e collettività, ma anche di rendere conto sulle molteplici dimensioni della
performance maggiormente significative per le organizzazioni operanti
in ambito pubblico, in particolare quella sociale (Bartocci, 2003; Hinna,
2004). Inoltre, in prospettiva manageriale interna il BS può essere impiegato
per esplicitare la strategia aziendale giustificando le decisioni assunte e
rafforzando il senso di appartenenza (Bartocci, 2003; Tanese, 2004).
Sebbene non manchino studi sul BS redatto dalle aziende sanitarie
pubbliche (Vagnoni, 2001; Alesani et al., 2005; Borgonovi, 2005; Alesani
et al., 2006; Luison et al., 2007; Tieghi, Gigli, 2007), tuttavia, l’effettiva
capacità di tale strumento di raggiungere i vantaggi che gli vengono riconosciuti dalla letteratura costituisce una tematica poco indagata. Lo studio
del ruolo assegnato e dell’uso fatto del BS nelle aziende sanitarie risulta
interessante sia per la rilevanza sociale della loro operatività che per le
numerose criticità ascrivibili ai processi di rendicontazione tradizionale
impiegati in tali organizzazioni (riguardo a queste ultime si vedano Anessi
Pessina, 2002 e Ellwood, 2006) che gli strumenti di rendicontazione sociale
dovrebbero consentire di superare.
Il presente studio si basa su un’analisi approfondita di una significativa
esperienza di BS condotta da un’azienda sanitaria locale (Asl) che denomineremo Alfa, per garantirne l’anonimato. Alfa è una delle aziende sanitarie
pubbliche italiane che da più anni redige continuativamente il BS. Oltre
che per la longevità dell’esperienza, il caso in oggetto è stato selezionato
perché il BS dell’Asl Alfa risulta particolarmente curato nei contenuti tanto
che per questo motivo è stato premiato in competizioni di livello nazionale.
Per tali motivi, l’esperienza di rendicontazione sociale scelta rappresenta,
adottando la denominazione di Yin (1994, p. 38), un critical case, ovvero,
in essa ricorrono due delle più importanti circostanze identificate in dottrina affinché il BS possa essere impiegato e produrre effetti significativi: la
longevità e la presenza di contenuti curati. Infatti, secondo Hinna (2004)
un’esperienza di rendicontazione longeva ha superato l’effetto “moda”
e appare, pertanto, più consolidata. Reiterando nel tempo i processi di
rendicontazione si generano risparmi di costi, incremento di esperienza
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Il bilancio sociale in sanità
e miglioramento nella legittimazione (Tanese, 2004). Con riferimento agli
aspetti inerenti al contenuto, un BS curato e leggibile è più probabile che
venga utilizzato (Tanese, 2004; Rogate, Tarquini, 2004).
Lo studio ha fatto ricorso a un approccio di ricerca multi-metodo in quanto
è ricorso sia alla tecnica delle interviste semi-strutturate che a quella dei
focus group di feed-back.
La presente ricerca si è posta l’obiettivo di verificare la reale capacità
di un’esperienza di rendicontazione consolidata e curata di raggiungere le
finalità ad essa attribuite dalla letteratura, ovvero, migliorare l’accountability
nei confronti dei diversi stakeholder e accrescere, all’interno dell’organizzazione, la consapevolezza della mission aziendale e della sua declinazione
in strategie e piani operativi. Tale obiettivo è stato perseguito mediante lo
studio del concreto utilizzo del BS da parte dei portatori di interessi sia
interni che esterni all’azienda considerata.
Nel prosieguo si presenterà un breve excursus dei contributi in tema di
rendicontazione sociale con particolare attenzione ai vantaggi che questi
attribuiscono all’adozione del BS. Nel paragrafo tre si presenterà l’analisi
empirica riguardante il caso dell’azienda Alfa. Infine, il lavoro si chiuderà
con la discussione critica sulle evidenze emerse dal caso di studio.
2. I vantaggi della rendicontazione sociale: analisi della dottrina
Da quasi un trentennio, il tema della rendicontazione sociale delle aziende viene ampiamente dibattuto dalla dottrina, per mezzo di contributi di
carattere teorico-normativo e indagini empiriche (Ingram, 1978; Ullmann,
1985; Tinker et al., 1991; Gray et al., 1995, Mathews, 1997, Parker 2002;
Guthrie, Abeseykera, 2006; Spence, 2007).
La dottrina ha cercato di motivare il diffondersi di queste pratiche, spesso
non imposte da alcun vincolo normativo, facendo riferimento ai vantaggi
cui dovrebbero condurre (O’Dwyer, 2002; Tanese, 2004; Farneti, Guthrie,
2008). Questi ultimi riguardano non soltanto l’ambito della comunicazione
aziendale nei confronti dei diversi portatori di interesse, ma anche il profilo
gestionale interno (Rogate, Tarquini, 2004). Con riferimento al primo, la
rendicontazione sociale costituisce innanzitutto la risposta ad un’esigenza
di accountability che le aziende avvertono nei confronti di tutti i loro portatori di interessi (Gray et al. 1988; Mathews, 1997; Gray et al., 1997;
Burritt, Welsch, 1997a e 1997b; Adams, 2002; Parker, 2002; Deegan,
2002; Guarini, 2002; Farneti, Pozzoli, 2005; Mattei et al., 2007). Tale
necessità di rendere conto consegue da obblighi di natura morale per i
quali la preoccupazione per le conseguenze dei comportamenti aziendali
sull’ambiente e la società in genere devono essere attentamente analizzati
e giustificati (Lehman, 1995 e 2001). Altri studiosi rilevano, inoltre, l’inadeguatezza della tradizionale rendicontazione economico-finanziaria a
rappresentare le performance di natura sociale che necessitano di misure
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Il bilancio sociale in sanità
e strumenti ad hoc (Gray, 1992 e 2005; Burritt, Welsch, 1997a; Guthrie
et al., 2005). Inoltre, le pratiche di rendicontazione sociale consentono di
avere una migliore gestione del rapporto tra l’azienda e i suoi stakeholder
(Guthrie-Parker, 1990; Livesey, Kearins, 2002; Tanese, 2004). In particolare,
il BS costituisce un utile strumento di partecipazione ai processi decisionali
(Bartocci, 2003; Mazzoleni, 2005).
Secondo la prospettiva gestionale interna, la rendicontazione sociale
permette agli stakeholder interni all’azienda di comprendere la mission
aziendale e la sua declinazione in strategie e piani operativi (Giusepponi,
2003; Bartocci, 2003; Hinna, 2004). Ciò contribuisce da un lato ad accrescere la consapevolezza di quali siano gli obiettivi e le finalità dell’azione
amministrativa all’interno dell’azienda pubblica, e dall’altro a sviluppare
un senso di appartenenza all’organizzazione di appartenenza (Tanese,
2004).
I vantaggi della rendicontazione sociale cui si è fatto riferimento acquistano un significato particolare in ambito pubblico. In tale contesto, la
relazione con i portatori di interesse, soprattutto quando rappresentati dalla
collettività amministrata, risente della rilevanza democratica del rapporto
medesimo e la necessità di gestione del rapporto con gli stakeholder si
accentua per il fatto che si tratta di organizzazioni ad elevato impatto
sociale, strutturalmente costruite sul pubblico consenso (Gibson, Guthrie,
1995; Burritt, Welsch, 1997a e 1997b; Frost, Seamer, 2002).
Anche le aziende sanitarie pubbliche negli ultimi anni hanno iniziato a
sperimentare pratiche di rendicontazione extra-contabile. Sulla scorta di tale
diffusione, la dottrina, ritenendo i vantaggi della rendicontazione sociale
in ambito sanitario simili a quelli tipici di altri contesti pubblici, ha trattato
sia dei modelli di BS applicati dalla prassi (Alesani et al., 2005; Alesani et
al., 2006; Lazzini et al., 2007; Gigli, 2007; Luison et al., 2007) che del
contenuto dei documenti di rendicontazione sociale più adatti all’ambito
delle aziende sanitarie pubbliche (Van Peursem et al., 1995; Van Peursem,
1999; Vagnoni, 2001; Borgonovi, 2005; Wynn, Williams, 2005).
Il presente lavoro intende indagare il tema della rendicontazione sociale
nell’ambito delle aziende sanitarie pubbliche da un punto di vista ad oggi
poco considerato dalla dottrina. Da un lato, infatti, si ripromette di comprendere il ruolo assegnato a tali strumenti sia da coloro che li predispongono
che dai destinatari e, dall’altro, si prefigge di approfondire quale sia la
capacità dei documenti di rendicontazione sociale di raggiungere i vantaggi attribuitigli dalla dottrina nei confronti dei destinatari interni ed esterni
all’azienda considerata. Infatti, a fronte delle accennate valenze attribuite
agli strumenti di rendicontazione sociale, mancano studi empirici inerenti al
loro effettivo impiego, nonché, evidenze sugli eventuali benefici che la rendicontazione sociale dovrebbe consentire di ottenere (Guthrie et al., 1995;
Guthrie, Abeysekera, 2006; Spence, 2007). Dai risultati di tale indagine
possono desumersi considerazioni sia di carattere teorico che operativo.
Da un lato, infatti, il presente lavoro fornisce un contributo per chiarire se
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il BS e gli altri strumenti di rendicontazione sociale, oggi assai di moda sia
nel dibattito teorico che nella prassi, possano rappresentare una pratica in
grado di durare nel tempo, perché utile ai destinatari delle informazioni. In
secondo luogo, le eventuali criticità in termini di disallineamento tra le aspettative degli stakeholder interni ed esterni e l’apporto offerto dal documento
redatto che l’analisi mettesse in evidenza, potrebbero costituire spunto per
indicazioni a carattere normativo volte al miglioramento delle pratiche di
redazione e di diffusione dei documenti di rendicontazione sociale.
3. L’analisi empirica sull’Asl Alfa
In questo paragrafo verranno presentati i risultati dell’analisi empirica avente
ad oggetto l’Asl Alfa. Questi verranno preceduti da una breve descrizione
delle caratteristiche generali dell’Asl Alfa, da un’illustrazione della metodologia adottata nella ricerca e da una sintetica panoramica sull’evoluzione
dei contenuti del BS dell’Asl Alfa. Infine, facendo riferimento al materiale
raccolto durante delle interviste semi-strutturate e un focus group, approfondiremo ruolo, finalità, destinatari e uso del BS oggetto di questa analisi.
Le prime tre prospettive accennate consentono di comprendere il livello di
consapevolezza dei diversi portatori di interesse rispetto allo strumento
oggetto di indagine. La capacità di questo di conseguire i vantaggi che gli
vengono attribuiti dipende, all’interno di uno specifico contesto, da un lato
dalla conoscenza che ne hanno i suoi destinatari e dall’altro dalla chiarezza
con cui questo viene costruito rispetto alle sue finalità. Infine, mediante la
quarta prospettiva di indagine si può comprendere se e in che misura il BS
può raggiungere gli scopi per i quali è stato predisposto.
L’Asl Alfa: caratteristiche aziendali e di contesto
L’Asl Alfa, il cui finanziamento regionale di oltre un miliardo di euro rappresenta circa un quarto del fondo sanitario regionale, costituisce l’azienda
sanitaria locale di maggiori dimensioni della regione di appartenenza.
L’azienda impiega quasi 7.000 dipendenti e dispone di oltre 800 medici
di medicina generale e pediatri di libera scelta. La popolazione assistita
è di circa 850.000 cittadini. L’Asl Alfa gestisce 6 presidi ospedalieri che
dispongono complessivamente di circa 1.100 posti-letto. Opera su un territorio vasto su cui insistono oltre trenta comuni. In tutte le zone-distretto in
cui si articola il territorio di appartenenza sono stati costituiti dei consorzi
cui partecipa oltre l’Asl Alfa i comuni delle diverse zone. La finalità di tali
consorzi è la promozione dell’integrazione socio-sanitaria per mezzo della
programmazione congiunta delle attività sociali, sanitarie e socio-sanitarie
da realizzarsi per migliorare le condizioni di salute dei cittadini. L’Asl Alfa
fa parte di un network di altre aziende sanitarie pubbliche la cui costituzione è stata voluta dall’amministrazione regionale di appartenenza. Scopo
del network in oggetto è quello di promuovere iniziative di collaborazione
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interorganizzativa che consentano razionalizzazioni nell’utilizzo delle risorse
e un miglioramento delle performance di efficacia.
L’entità del finanziamento regionale, la numerosità dei soggetti assistiti,
l’ingente numero di dipendenti e soggetti convenzionati, i complessi e numerosi rapporti interorganizzativi siglati in accordi formalizzati con altre
aziende sanitarie pubbliche e con i comuni che insistono nel territorio di
competenza dell’Asl Alfa necessitano di continui e complessi flussi informativi da e verso l’azienda con vari stakeholder. Anche per tali caratteristiche
aziendali e di contesto il caso di studio scelto appare adatto ad approfondire
l’oggetto di studio di questo contributo.
La metodologia della ricerca
L’analisi empirica è stata realizzata mediante interviste non strutturate rivolte
sia a stakeholder interni che esterni dell’Asl Alfa. Nel primo gruppo sono stati
intervisti 14 soggetti fra cui il direttore generale, il direttore amministrativo,
il direttore sanitario, coloro i quali operano nell’unità operativa responsabile della predisposizione del BS e 8 direttori di dipartimento. I soggetti
interpellati sono le persone che hanno fortemente voluto l’introduzione del
BS (nella fattispecie il top management) e alcuni dei responsabili di strutture
organizzative coinvolti nella sua redazione. Fra i portatori di interessi esterni
sono stati intervistati 7 soggetti fra cui 2 esponenti dell’amministrazione
regionale, il presidente di un’associazione di volontariato, il direttore di
un’organizzazione partner dell’Asl Alfa nell’erogazione dei servizi sociosanitari e 3 fornitori. Gli intervistati sono stati identificati richiedendo la
disponibilità per un colloquio a tutti i soggetti esterni cui l’azienda invia il
BS e con i quali ha relazioni frequenti. Per un maggior dettaglio delle figure
intervistate si rimanda all’allegato 1 di questo scritto.
Le interviste sono state realizzate impiegando dei questionari-traccia
riportati nell’allegato 2. Sebbene, i questionari-traccia utilizzati fossero
differenziati per tipologia di soggetto intervistato, ovvero tra stakeholder
interni ed esterni, tuttavia, presentavano una comune strutturazione. Infatti,
le sezioni principali in cui è possibile suddividere i quesiti inerenti al BS attengono alla funzione del documento, alle motivazioni per la sua redazione,
all’identificazione dei principali destinatari e al suo utilizzo.
Le interviste si sono svolte fra il 9 luglio 2007 e il 15 dicembre 2007.
Queste sono state realizzate tutte nella sede di lavoro degli intervistati.
L’intervista è stata gestita in modo tale da garantire la massima libertà di
espressione all’intervistato. Ciò è stato garantito riducendo al massimo le
interruzioni dell’intervistatore ed evitando di ripercorrere rigorosamente l’ordine degli argomenti contenuti nel questionario-traccia laddove l’intervistato
seguiva un suo percorso logico che comunque toccava tutti gli argomenti
da affrontare. Tutte le interviste sono state trascritte e indicizzate, ovvero,
organizzate per tematiche rilevanti. Complessivamente le informazioni
raccolte tramite le interviste (della durata complessiva di 20 ore circa) coAzienda Pubblica 3.2009
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struiscono una base dati di 50.000 parole. Poiché, come noto, il principale
limite dei questionari con domanda aperta è costituito dal fatto che non si
può procedere ad un’immediata analisi quantitativa delle risposte, a causa
della loro disomogeneità, si è proceduto a classificarle entro uno schema
standardizzato. In altre parole, si è costruita la cosiddetta matrice-dati la
quale consente la codificazione delle risposte, ovvero, le classifica in un
numero limitato di categorie (Corbetta, 1999). Il risultato del processo di
codificazione menzionato ha consentito di proporre, per le domande più
rilevanti, delle sintesi delle risposte fornite dagli intervistati (si vedano le
tabelle da 1 a 3).
Il 6 marzo 2008, mediante la tecnica del focus group di feedback (Bloor
et al., 2001) i risultati preliminari dell’indagine sono stati presentati ad un
gruppo costituito da un campione di intervistati al fine di verificare la qualità
dei risultati ottenuti e di ottenere elementi interpretativi aggiuntivi.
Costruzione ed evoluzione del BS nell’Asl Alfa
L’Asl Alfa redige il BS ininterrottamente dal 2003, rappresentando, quindi,
uno tra gli esempi più longevi nel panorama italiano. Il documento ha subito nel corso degli anni un’evoluzione sia con riferimento ai suoi contenuti
che rispetto alla forma e allo stesso processo di redazione. Dalla prima
sperimentazione, infatti, il contenuto è stato progressivamente ampliato e
poi successivamente focalizzato sui diversi portatori di interesse. L’ultima
edizione riferita al 2005 e pubblicata nel 2006 è un documento abbastanza corposo in termini di pagine (più di 160), in cui a tutte le principali
subunità organizzative è stato fornito spazio per descrivere brevemente i
propri risultati e attività. Il BS 2005 è corredato da sezioni che riguardano
l’azienda nella sua interezza, con particolare riferimento al suo capitale
intellettuale, alla performance economica e ai progetti speciali portati avanti
nell’ambito della responsabilità sociale. Il rendiconto delle attività svolte è
organizzato in modo da richiamare le fasi della vita di ogni individuo così
da enfatizzare il ruolo dell’Asl dalla nascita di ogni persona fino alla terza
età. L’ufficio Progetti speciali, inserito nell’area Amministrazione e finanza
è responsabile della raccolta delle informazioni e dell’elaborazione del
documento. La predisposizione del BS avviene per mezzo di una logica
partecipata che coinvolge i vertici delle strutture (denominate Dipartimenti)
nella redazione dei paragrafi riguardanti le attività e i risultati raggiunti da
ognuno di loro. Tale coinvolgimento prevede l’invio a tutte le strutture di una
scheda da compilare al fine di rendere sufficientemente omogenei i contenuti
inerenti alle diverse strutture interne. Inoltre, è previsto il coinvolgimento del
Comitato di partecipazione, espressione delle principali organizzazioni e
associazioni di volontariato e più in generale del terzo settore, a cui viene
presentato il documento prima della sua definitiva approvazione per consentirne modifiche e integrazioni. Il Comitato di partecipazione prende parte ai
processi decisionali aziendali per il miglioramento dei servizi all’utenza e
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svolge un ruolo di tutela degli interessi dei cittadini. Il processo di redazione
risulta pertanto aperto sia alla partecipazione da parte dei responsabili delle
strutture della Asl, ai quali è richiesto lo sforzo di raccolta e predisposizione delle informazioni da rendicontare, sia ai commenti e alle integrazioni
proposte dagli stakeholder esterni riuniti nel Comitato di partecipazione.
La condivisione del documento, facilitata dalle procedure appena descritte
è coerente con quanto suggerito sia dagli standard di rendicontazione che
dalla letteratura (Rogate, Tarquini, 2004).
Il BS è stato redatto avendo come riferimenti metodologici gli standard
italiani del Gruppo di studio per il bilancio sociale e la Direttiva sulla
rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche (Linee guida del
Ministero per la funzione pubblica del 16 marzo 2006).
La principale novità dell’ultima edizione è stata la pubblicazione di due
versioni del BS differenti per ampiezza e forma. Al tradizionale volume
stampato in più di duemila copie e disponibile sul sito web dell’Asl, è stata
associata una brochure (stampata in circa ventimila copie) con l’intento di
diffondere i principali dati del BS. Inoltre, la pubblicazione del BS è stata
resa nota attraverso l’affissione di manifesti informativi in tutta l’area di
competenza dell’Asl Alfa. Quasi un centinaio di copie del volume sono
state inviate a soggetti indicati come “VIP” ma scarsamente collegati all’attività dell’Asl Alfa (ad esempio, presidenti e amministratori delegati delle
principali imprese industriali italiane che non possiedono alcun rapporto
economico con l’azienda). Il BS 2005 è stato premiato come miglior progetto di rendicontazione sociale nell’ambito di un’importante manifestazione
nazionale.
Il BS dell’Asl Alfa
Lo studio del caso dell’Asl Alfa è strutturato in quattro sezioni. La prima sezione ha ad oggetto la visione del BS degli intervistati, la seconda indaga
le motivazioni della redazione del BS, nella terza si analizzano i destinatari
del documento e, infine, nella quarta sezione il focus è posto sull’utilizzo
che gli intervistati dichiarano di fare del BS dell’Asl Alfa.
Il livello di conoscenza del BS
La prima domanda posta agli intervistati ha inteso indagare il grado di
conoscenza dello strumento del BS. Per molti soggetti, sia interni che esterni
all’azienda, l’introduzione del BS nell’Asl Alfa ha rappresentato l’unica
esperienza di contatto con tale strumento.
L’analisi delle risposte fornite evidenzia rilevanti differenze tra i soggetti
intervistati, sintomo di una disomogeneità di preparazione sul tema. Se da
un lato i vertici dell’azienda e la struttura amministrativa interna responsabile della redazione del BS (vertici aziendali e Ufficio progetti speciali)
dimostrano di possederne un’approfondita conoscenza teorica e pratica,
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dall’altro lato gli altri intervistati, sia interni che esterni all’azienda, ne hanno
un’idea vaga e confusa, che li induce, talvolta, a confondere il BS con il
bilancio d’esercizio. Tra coloro che non sono stati in grado di fornire una
definizione chiara e compiuta del BS rientrano anche alcuni responsabili
dei dipartimenti sanitari coinvolti nel processo di redazione del documento
in quanto incaricati di fornire annualmente le informazioni utili a descrivere
l’operatività della subunità organizzativa che dirigono.
La concezione di BS prevalente nel primo gruppo di intervistati (vertici
aziendali e Ufficio progetti speciali) è quella di uno strumento di comunicazione non limitato alla componente economico-finanziaria. La frase che
segue, appartenente ad un componente della direzione aziendale, ben
sintetizza tale visione:
“[il BS è] strumento di conoscenza dell’azienda non tanto per gli aspetti
economico finanziari ma per quelli di gestione interna. [Il BS] pone in rilievo
le esperienze fatte nel corso di quell’anno piuttosto che nell’anno successivo e così via […] Io lo vedo come l’azienda che si apre a farsi conoscere
all’esterno anche per gli aspetti più legati al lavoro, alle metodologie […] alla
soluzione dei problemi, un passo in avanti verso la trasparenza” (DSS).
L’idea di BS prevalente nel secondo gruppo di intervistati è quella di uno
strumento di comunicazione di cui però si forniscono definizioni molto meno
precise quando non addirittura confuse.
“Per me il bilancio sociale è una serie di numeri che magari per me sono
male interpretabili […] Come idea per me il bilancio mette a confronto le
entrate con le uscite” (DD2)
“Credo che sia una sintesi del lavoro svolto” (SE5)
“Io di bilancio conosco quello economico” (DD4)
L’assoluta mancanza di formazione sul tema della rendicontazione sociale
in generale e del BS in particolare, emersa chiaramente in tutte le interviste,
potrebbe spiegare sia l’incertezza nell’offrire chiare definizioni del BS che il
fraintendimento con altri documenti di rendicontazione contabile. Anche tutti
i soggetti esterni intervistati hanno confermato di non aver mai ricevuto in
generale e dall’Asl Alfa in particolare, alcuna formazione sul BS. Pertanto,
il basso livello di consapevolezza dello strumento e delle sue potenzialità
sembra costituire una delle cause per cui il BS in esame non ha avuto la
possibilità di esprimere il suo ruolo.
Le finalità della redazione del BS
Dalle interviste è emerso che l’azienda Alfa redige il BS per ottenere due
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scopi principali, ovvero, rendere conto ad un novero più ampio di portatori
di interessi (accountability) e gestire i rapporti tra l’azienda e i suoi stakeholder prestando maggiore attenzione ai profili di reputazione. Entrambi sono
riferibili alla prospettiva esterna menzionata in precedenza. Non emerge
dalle interviste una specifica attenzione alla capacità informativa interna
né ai possibili benefici di carattere manageriale che la dottrina attribuisce
al BS. Tuttavia, le risposte fornite a questa sezione del questionario hanno
evidenziato una diversità di vedute tra i soggetti che hanno voluto il BS o che
ne sono responsabili della redazione, rispetto ai soggetti esterni all’azienda
e a coloro che, seppure appartenenti all’organizzazione, sono stati coinvolti
solo parzialmente nella predisposizione.
Tabella 1 – Finalità della redazione del BS
Per quali finalità il BS viene redatto?
Vertici aziendali
Direttori
di dipartimento
Ufficio progetti
speciali
Stakeholder
esterni
Totale
FA
FR
FA
FR
FA
FR
FA
FR
FA
FR
Accountability
2
(50%)
2
(28%)
2
(67%)
2
(28%)
8
(38%)
Reputazione
1
(25%)
3
(43%)
0
(0%)
3
(43%)
7
(34%)
Entrambi
1
(25%)
0
(0%)
1
(33%)
1
(15%)
3
(14%)
Non risponde
0
(0%)
2
(28%)
0
(0%)
1
(15%)
3
(14%)
4
(100%)
7
(100%)
3
(100%)
7
(100%)
21
(100%)
Totale
FA: frequenze assolute
FR: frequenze relative
Come mostra la tabella 1, i soggetti che hanno voluto il BS o che sono
responsabili della sua redazione dichiarano che tale documento è stato
redatto per fini di accountability nei confronti soprattutto degli utenti. Ciò
risponde all’esigenza morale di trasparenza verso i destinatari principali
dell’attività di un’azienda sanitaria che opera utilizzando un significativo
ammontare di risorse pubbliche. In particolare, il 50% dei componenti il
vertice della Asl e il 67% degli intervistati dell’Ufficio progetti speciali considera l’accountability il fine principale che motiva la redazione del BS.
I direttori di dipartimento e gli stakeholder esterni appaiono più propensi
a ritenere che il BS dell’azienda costituisca uno strumento di marketing che
può mostrare anche informazioni e dati di ridotta affidabilità ma di sicuro
impatto in termini di reputazione. La tabella 1 evidenzia che per il 43% sia
dei direttori di dipartimento intervistati che per gli stakeholder esterni è la
gestione del profilo reputazionale, ovvero dell’immagine aziendale, il fine
prevalente del BS dell’Asl Alfa. Tale posizione è ben rappresentata dalla
seguente affermazione:
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“La prima ragione per cui si fa il BS è per l’immagine all’esterno” (SE2)
Tutti i soggetti interni dichiarano che il BS è stato redatto per espressa
volontà del Direttore generale e che a tale figura si deve l’introduzione di
tale documento.
“Il direttore generale, fin dall’inizio, è stato un grande sostenitore dell’idea
del bilancio sociale. Perché è partita, come dappertutto, in tutti gli enti,
in tutte le aziende, dal niente. […] Il direttore generale appoggiò subito
questa cosa, quindi il suo sostegno c’è sempre stato, anzi, negli anni è
cresciuto” (SI2)
“L’impulso a questo cambiamento viene dal direttore generale […] Io mi
sono accodato quando sono arrivato” (DA)
La scarsa confidenza con il BS dimostrata dal personale sanitario intervistato
non solo implica una minore percezione di utilità dello strumento ma anche
una serie di critiche allo stesso e al modo in cui è stato predisposto. In tal senso, la seguente affermazione di uno degli intervistati appare significativa:
“Per bilancio sociale si intende quel libro che ci viene consegnato ogni anno
con grandi cerimonie da parte del direttore generale e che noi lasciamo sul
comodino? È quello il bilancio sociale?” (DD6)
Dalle interviste emerge dunque la predominante vocazione esterna dello
strumento. Inoltre, la rendicontazione sociale dell’azienda appare essere
motivata da ragioni di natura morale ma anche dalla necessità di accrescere
la reputazione aziendale.
I destinatari del BS
Una larga maggioranza degli intervistati sia interni che esterni all’Asl Alfa
ritiene che il BS sia in prevalenza rivolto a soggetti esterni all’azienda sanitaria piuttosto che alle strutture organizzative che la compongono.
Tuttavia, come mostra la tabella 2, ci sono alcune differenze di vedute
(cfr. tabella 2).
Il 50% dei componenti il vertice aziendale considera il BS strumento di
comunicazione universale e, pertanto, destinato a tutti gli stakeholder sia
interni che esterni all’azienda.
“È fondamentale che noi, in varie forme, riusciamo a comunicare a tutti
gli stakeholder cosa si fa e, quindi, che si rendiconti come si spendono
i soldi dei contribuenti e ciò non solo agli organi istituzionali, ma un po’
a tutti. Poi, alle singole categorie, e quindi i dipendenti, le associazioni,
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Tabella 2 – Destinatari del BS
Chi sono i destinatari del BS?
Vertici aziendali
Direttori
di dipartimento
Ufficio progetti
speciali
Stakeholder
esterni
Totale
FA
FR
FA
FR
FA
FR
FA
FR
FA
FR
Esterni alla Asl
2
(50%)
5
(70%)
0
(0%)
3
(43%)
10
(48%)
Interni alla Asl
0
(0%)
1
(15%)
0
(0%)
0
(0%)
1
(5%)
Entrambi
2
(50%)
1
(15%)
2
(67%)
2
(28%)
7
(34%)
Non risponde
0
(0%)
0
(0%)
1
(33%)
2
(28%)
3
(14%)
4
(100%)
7
(100%)
3
(100%)
7
(100%)
21
(100%)
Totale
i malati, rappresentati o da se stessi o dalle loro associazioni, i comuni, i
fornitori…” (DG)
Similmente due componenti su tre dell’Ufficio progetti speciali sono della
stessa opinione.
Solo il 28% degli stakeholder esterni considera il BS rivolto sia a soggetti
interni che esterni.
Alcuni soggetti esterni intervistati hanno precisato che il destinatario del
BS è costituito dagli interlocutori appartenenti alle associazioni di rappresentanza dei cittadini che possiedono un adeguato livello di conoscenza delle
attività di un’Asl. Il singolo cittadino viene considerato non interessato né in
grado di apprezzare la ricchezza di informazioni contenute nel BS.
“Non è per il cittadino normale… questo (il BS) è per i gruppi organizzati,
voglio dire è per le associazioni” (DS)
La percezione abbastanza diffusa tra i soggetti esterni intervistati che lo
strumento sia adatto per contenuti e linguaggio più alle organizzazioni e
alle associazioni che ai singoli cittadini appare non allineata all’idea di BS
come strumento di comunicazione universale della Direzione aziendale.
La ragione per cui diversi intervistati non considerano il BS uno strumento di comunicazione valido per un vasto pubblico è connessa con la
dimensione del documento, i contenuti tecnici e il linguaggio specialistico
in esso contenuti.
“Questo è un bilancio sociale molto lungo […] Se vogliamo aprirlo ai cittadini allora deve essere fatto alla stessa stregua dei settimanali, dei giornali
[…] Insomma in modo più divulgativo […] bisogna cercare di confezionare
cose che escano dall’ambiente tecnico” (DD4)
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La critica che emerge nasce, come abbiamo avuto modo di segnalare in precedenza, anche dalla percezione dell’assenza di un destinatario condiviso
per il BS. In questo senso gli intervistati avvertono un certo livello di autoreferenzialità dello strumento che li allontana dall’utilizzo dello stesso.
La scelta dell’Asl Alfa di predisporre anche una versione breve del BS
può essere letta nell’ottica di fornire informazioni differenziate ai vari interlocutori fornendo un dettaglio e un livello di complessità comunicativa più
rispondenti alle competenze e aspettative dei destinatari.
Utilizzo del BS e analisi dei vantaggi della rendicontazione sociale
La maggior parte degli intervistati, sia interni che esterni all’azienda, ha
dichiarato di non utilizzare il BS. Una ristretta minoranza ha sostenuto di
utilizzarlo soltanto in maniera episodica. La tabella 3 mostra le frequenze
delle risposte a tale quesito.
Tabella 3 – Utilizzo del BS
Utilizza il BS?
Vertici aziendali
Direttori
di dipartimento
Ufficio progetti
speciali
Stakeholder
esterni
Totale
FA
FR
FA
FR
FA
FR
FA
FR
FA
FR
Sì
0
(0%)
1
(15%)
0
(0%)
1
(15%)
2
(10%)
No
2
(50%)
5
(70%)
1
(33%)
6
(85%)
14
(67%)
Non risponde
Totale
2
(50%)
1
(15%)
2
(67%)
0
(0%)
5
(24%)
4
(100%)
7
(100%)
3
(100%)
7
(100%)
21
(100%)
Il 67% del totale degli intervistati afferma di non utilizzare il BS, mentre
soltanto il 10% (ovvero 2 soggetti su 21) dichiarano di farne uso nella
propria attività lavorativa.
Come testimonia la frase che segue, che ben rappresenta il pensiero di
numerosi intervistati, i soggetti interni hanno, spesso, dimostrato un atteggiamento di indifferenza verso lo strumento.
“Io l’ho messo lì come quando le banche danno quei bei libri di arte”
(DD2).
Il mancato utilizzo degli stakeholder interni dello strumento è stato motivato
dagli stessi per mezzo del convincimento che il BS sia destinato all’esterno. Allo stesso tempo, altri intervistati interni dichiarano che molte delle
informazioni che questo contiene sono ottenibili, qualora di interesse, in
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modo ancora più tempestivo, attraverso il sistema di controllo di gestione
dell’azienda. La fase seguente del direttore sanitario illustra chiaramente il
rapporto esistente tra il sistema di controllo di gestione e il BS:
“I dati che io metto nel bilancio sociale sono i dati che io ho nel monitoraggio mensile, per cui non ho bisogno del bilancio sociale […] Mensilmente
con i capi dipartimento mi ritrovo, si riguarda l’attività, si riguardano i costi
quindi io ho già l’andamento” (DS)
Anche la maggior parte degli stakeholder esterni hanno dichiarato di non
usarlo per acquisire informazioni riguardanti l’azienda preferendo ricorrere
invece ai canali diretti rappresentati dal personale dell’Asl.
“Non lo utilizzo, per i miei rapporti con l’Asl faccio riferimento a conoscenze
interne che ho” (SE6)
Il mancato o molto limitato utilizzo del BS ne inibisce le potenzialità con
riferimento ai vantaggi espressi in precedenza, dal momento che se il
documento non viene letto difficilmente può soddisfare il fabbisogno di
informazioni interno ed esterno. Similmente, appare dalle interviste che il
sistema di programmazione e controllo interno sia sufficientemente in grado
di fornire informazioni agli operatori.
Traspare infine qualche riserva sull’affidabilità delle informazioni contenute nel BS.
“Sono venuti fuori lì nel bilancio sociale certi dati che noi a volte avevamo
difficoltà a trovare, si vede che all’interno dell’azienda il sistema li ha costruiti per farli vedere” (SE7)
“Ci sono delle differenze tra la realtà tecnica descritta dal BS e quella
reale” (SE5)
4. Discussione e conclusioni
Dalla precedente analisi empirica possono trarsi alcune considerazioni
sui vantaggi identificati dalla letteratura in merito alla redazione del BS.
In particolare, è utile chiedersi perché un’esperienza di rendicontazione
sociale longeva e che ottiene riconoscimenti prestigiosi da parte di esperti
del settore produca un documento poco letto e quasi inutilizzato.
Innanzitutto, l’analisi del caso ha evidenziato un forte livello di autoreferenzialità del BS predisposto dall’Asl Alfa, che ne impedisce o quanto
meno inibisce le potenzialità informative per i portatori di interesse interni
ed esterni, oltre che le possibilità di impiego come strumento manageriale.
Diversi fattori, emersi dalle interviste e confermati nel focus group di feedback
confermano quanto affermato.
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Tutti gli interlocutori interni hanno precisato che il BS è stato redatto
e pubblicato principalmente per volontà del direttore generale. Tale forte
sponsorship ha generato sia effetti positivi che negativi. Infatti, da un lato
la volontà e l’interesse del vertice sono assolutamente necessari per la
realizzazione di uno strumento come il BS la cui redazione è volontaria e
costosa (Hinna, 2004; Rogate, Tarquini, 2004). Dall’altro lato, la spinta
alla redazione da parte del vertice sembra essere stata avvertita da alcuni
come un’imposizione che ha ostacolato un’adeguata condivisione interna. La
condivisione costituisce una caratteristica di estrema importanza soprattutto
in contesti, come quelli delle aziende sanitarie, in cui i professionisti godono
di un’ampia autonomia (Abernethy, Stoelwinder, 1995). Nel caso indagato,
emerge che la mancanza di condivisione ha avuto un duplice effetto sugli
stakeholder interni. Mentre la componente amministrativa, probabilmente
più consapevole delle finalità e delle potenzialità dello strumento, ne ha
supportato la redazione, la componente medica ha, invece, dimostrato
indifferenza per il progetto. Inoltre, la costante attenzione al tema della
rendicontazione sociale proveniente dal vertice aziendale ha comportato
un grande interesse ai profili formali, estetici e di visibilità riguardanti il
BS. Infatti, il documento possiede una veste grafica estremamente curata in
cui abbondano fotografie e immagini. Inoltre, numerose copie sono inviate
a diverse personalità e ad attori istituzionali che non possiedono alcun
rapporto con l’Asl Alfa. Si può osservare che tali caratteristiche inerenti
alla cura degli aspetti formali non necessariamente migliorano l’efficacia
del BS come strumento di accountability e di gestione dei rapporti con gli
stakeholder in prospettiva sia interna che esterna.
Il linguaggio impiegato e la tipologia di informazioni raccolte nel BS
possono giocare un ruolo chiave affinché la rendicontazione sociale risulti
efficace (Neu et al., 1998; Gray, 2005). Ad ogni tipologia di destinatario
dovrebbe corrispondere una selezione di informazioni e, soprattutto, un
registro linguistico differenziato. Dalle interviste è emersa una non chiara
individuazione dei destinatari e conseguentemente si è generata insoddisfazione per il linguaggio adottato. Benché il BS dell’Asl Alfa comprenda
un novero abbastanza ampio di informazioni di natura qualitativa molte
di queste possiedono natura tecnica anche di notevole complessità. In
particolare, in ambito sanitario l’oggetto della rendicontazione, nonostante
ogni possibile sforzo di semplificazione linguistica, implica l’impiego di una
terminologia medica non sempre comprensibile ai non addetti ai lavori.
Pertanto, la soluzione di predisporre una versione più sintetica del BS da
distribuire in maniera capillare appare condivisibile e possibilmente da
sfruttare maggiormente.
Merita un sintetico commento anche l’assoluta mancanza di formazione
sulla rendicontazione sociale sia all’interno che all’esterno dell’azienda.
La carenza di formazione ha effetti negativi sui soggetti interni che, non
comprendendo le finalità dello sforzo loro richiesto, tendono ad avvertire
il BS come l’ennesimo adempimento burocratico. La dottrina sul tema della
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rendicontazione sociale è concorde nel considerare la partecipazione dei
diversi portatori di interesse fondamentale per ottenere una rendicontazione
sociale di qualità (O’Dwyer et al., 2005; Gray, 2005; Rogate, Tarquini,
2004). La formazione diviene indispensabile prerequisito al coinvolgimento consapevole dei soggetti invitati a partecipare alla redazione del
documento. La formazione è utile anche nei confronti degli stakeholder
esterni, soprattutto quando si tratti di associazioni rappresentanti interessi
di soggetti più deboli. Poiché tali soggetti prendono parte al processo di
rendicontazione sociale, necessitano di una formazione, anche minima,
non solo in quanto potenziali utilizzatori del BS ma come attori della sua
redazione. Gli effetti dell’assenza di formazione appaiono evidenti: gli
stakeholder esterni possiedono una percezione del BS non coerente con le
finalità per le quali la direzione aziendale ne ha previsto la redazione. Da
ciò consegue il mancato utilizzo dello strumento. Anche il personale medico
coinvolto nella redazione non conoscendo le finalità e le potenzialità del
BS non lo utilizza. A ciò si può aggiungere che nel caso indagato, molte
informazioni sono disponibili per il personale interno interessato, grazie alla
presenza di un sistema di controllo di gestione efficace, in grado cioè di
produrre i dati desiderati in modo tempestivo. Il BS, in questo senso, rischia
di rappresentare soltanto una fonte che duplica le medesime informazioni
ma con minore tempestività.
In prospettiva esterna, poiché il BS è strumento di grande flessibilità sia
rispetto alla forma utilizzabile che al contenuto non vincolato da alcuna
norma, questo può essere adattato alle necessità informative degli stakeholder designati in modo da svolgere efficacemente il ruolo di strumento di
accountability e di gestione della reputazione aziendale (Neu et al., 1998;
Oliver, 1991). Tuttavia, affinché tali funzioni si realizzino concretamente
occorre che sussistano delle condizioni riferibili più che al documento in sé
al processo attraverso cui si giunge alla sua redazione (Hinna, 2004). Ciò
significa, in altri termini, che l’effettivo utilizzo del BS da parte degli stakeholder dipende non soltanto dalle caratteristiche strutturali del documento,
ovvero dall’adeguatezza della forma e del contenuto rispetto ai destinatari
designati, ma anche dal processo di redazione e quindi dal coinvolgimento
dei portatori di interesse e dalla loro formazione sul tema nonché dalle modalità di distribuzione del documento (Owen et al., 2001; Hinna, 2001).
Quando nel processo di rendicontazione sociale si evidenziano carenze
negli elementi appena citati, sopraggiunge il rischio di predisporre un documento che diviene più una sorta di esercizio stilistico per i soli esperti di
rendicontazione sociale che uno strumento di comunicazione che si rivolge
ad un numero ampio di portatori di interessi. Ciò è emerso, nel caso indagato, non soltanto dalla disillusione che traspare in alcune interviste circa
l’utilità e l’affidabilità delle informazioni contenute nel BS, ma anche dallo
scarso utilizzo di tale documento.
Benché non generalizzabili, le evidenze emerse dal caso studiato aprono
nuove prospettive per ulteriori approfondimenti di ricerca. In una fase in
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cui un numero crescente di aziende, pubbliche e private, predispongono il
BS per i propri stakeholder, potrebbe essere utile riflettere sull’opportunità
di sviluppare un approccio di tipo demand driven reporting, cioè una rendicontazione guidata, nelle sue forme e nei suoi contenuti dalle richieste
proveniente dai diversi portatori di interesse (O’Dwyer et al., 2005; Owen
et al., 2001), che potrebbe affiancarsi o addirittura sostituirsi al più tradizionale approccio di supply driven reporting. Se si applicasse quest’ultima
metodologia sarebbero le aziende a decidere quali informazioni presentare
e a quali destinatari.
Per quanto fin qui evidenziato si ritiene che gli studi sulla modellizzazione degli strumenti di rendicontazione sociale così come i processi
di coinvolgimento degli stakeholder (Owen et al., 2001; Alesani et al.,
2005; Alesani et al., 2006) debbano acquisire nuovo interesse.
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SE5
SE6
SE7
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Presidente dell’associazione di volontariato Delta
Manager dell’azienda fornitrice Sigma
Direttore dell’organizzazione Gamma partner nell’erogazione dei servizi socio-sanitari
Totale
SE4
SE3
Manager dell’azienda fornitrice Delta
Stakeholder Esterni
SE2
Responsabile Area Comunicazione – Direzione politiche
della salute dell’amministrazione regionale
Manager dell’azienda fornitrice Omega
SE1
SI2
Funzionario Ufficio progetti speciali
Responsabile Area Finanziamenti – Direzione politiche della
salute dell’amministrazione regionale
SI1
Responsabile della formazione
SI3
DD7
Responsabile Dipartimento Urgenza
Funzionario Ufficio progetti speciali
DD6
Ufficio Progetti Speciali
DD5
DD4
Responsabile Dipartimento Diagnostica per immagini
Responsabile Dipartimento Chirurgia
DD3
Responsabile Dipartimento del Farmaco
Responsabile Dipartimento della Prevenzione
DD2
Responsabile Dipartimento Materno-infantile
Direttori di Dipartimento
DD1
Responsabile Dipartimento Servizi finanziari
DS
DSS
Direttore servizi sociali
Direttore sanitario
Vertici aziendali
DA
Sigla
DG
Gruppo
Direttore amministrativo
intervistato
Direttore generale
Soggetto
Appendice 1 – I soggetti intervistati
9 luglio 2007
intervista
15 dicembre 2007
6 novembre 2007
6 novembre 2007
30 ottobre 2007
30 ottobre 2007
16 ottobre 2007
2 ottobre 2007
30 maggio 2007
30 maggio 2007
18 luglio 2007
18 luglio 2007
18 luglio 2007
18 luglio 2007
13 settembre 2007
13 settembre 2007
13 settembre 2007
30 maggio 2007
10 ottobre 2007
1 ottobre 2007
11 aprile 2007
Data
1,120 minuti
60 minuti
28 minuti
45 minuti
25 minuti
40 minuti
55 minuti
40 minuti
75 minuti
70 minuti
60 minuti
40 minuti
65 minuti
65 minuti
45 minuti
70 minuti
65 minuti
60 minuti
40 minuti
59 minuti
65 minuti
48 minuti
Durata
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Il bilancio sociale in sanità
Appendice 2 – Il questionario traccia impiegato nelle interviste
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Cosa è per lei il bilancio sociale?
Per quali finalità ritiene che l’Asl Alfa rediga il BS?
Chi sono i destinatari del BS dell’Asl Alfa?
Ricopre un ruolo nella redazione del bilancio sociale dell’Asl Alfa? Quale?
Ha mai ricevuto formazione sul tema del bilancio sociale?
Ha letto il bilancio sociale dell’Asl Alfa? Se sì, quali parti ha letto in particolare? Perché?
Se ha letto il bilancio sociale, ha osservato delle differenze tra i contenuti nelle varie edizioni?
Nelle varie edizioni del bilancio sociale dell’Asl Alfa, che giudizio esprime alla modifica dei contenuti?
8. Ritiene che il bilancio sociale presenti dei contenuti che necessitano di ulteriore approfondimento?
Ritiene che il bilancio sociale presenti attualmente carenze? Se sì, quali?
9. Utilizza le informazioni proposte dal bilancio sociale nelle relazioni con l’Asl Alfa? Come?
Quali infor mazioni in particolare? Se sì, quali informazioni presentate dal documento sono maggiormente
rilevanti per tali rapporti? (domanda rivolta ai soli stakeholder esterni)
10. Ritiene che la redazione del bilancio sociale abbia avuto degli effetti su tali rapporti? Se sì, quali?
(domanda rivolta ai soli stakeholder esterni)
11. Utilizza le informazioni proposte dal bilancio sociale per lo svolgimento del suo lavoro? Se sì, come?
Se si, quali informazioni in particolare? (domanda rivolta ai soli stakeholder interni)
12. Utilizza il bilancio sociale nei rapporti con gli interlocutori interni/esterni? Se sì, quali informazioni
presenti nel documento sono maggiormente rilevanti per tali rapporti? (domanda rivolta ai soli
stakeholder interni)
13. Ritiene che la redazione del bilancio sociale abbia avuto un effetto su tali rapporti? Se sì, quali?
(domanda rivolta ai soli stakeholder interni)
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Esperienze innovative
Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
Verso un approccio evolutivo allo sviluppo delle competenze nei processi
di formazione. Un caso di studio
Vincenzo F. Cavaliere
Professore associato di Organizzazione Aziendale presso il Dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università degli
Studi di Firenze
Dario Rosini
Docente a contratto di Organizzazione delle Aziende Pubbliche presso il Dipartimento di Scienze Aziendali
dell’Università degli Studi di Firenze
Daria Sarti
Dottore di ricerca in Economia e Gestione dei Sistemi Locali, ricercatrice di Organizzazione Aziendale, Dipartimento
di Scienze Aziendali dell’Università degli Studi di Firenze
Antonio Sofi
Dottore di ricerca in Sociologia della comunicazione, Dipartimento di Scienza della Politica e Sociologia
dell’Università degli Studi di Firenze
Sommario: 1. Introduzione. 2. Aspetti teorico-concettuali di riferimento: conoscenza, apprendimento e formazione.
3. Sviluppo organizzativo e cambiamento culturale. 4. Le competenze come riferimento delle politiche di gestione e
sviluppo delle risorse umane. 5. Un’analisi politico-istituzionale dell’organizzazione oggetto d’indagine. 6. L’analisi
empirica e la matrice di sviluppo delle competenze. 7. Conclusioni.
L’articolo pone l’attenzione sui modelli di competenza quale strumento innovativo nell’ambito delle
politiche di gestione del personale pubblico e sviluppa il tema con riferimento al personale di
supporto agli organi politici del Consiglio regionale della Toscana. A fronte di ruoli non precisamente delineati, sistemi di reclutamento di tipo fiduciario e strutture spesso numericamente piccole,
il dipendente delle strutture di supporto agli organi politici necessita di competenze complesse,
che interessano più di un’area professionale. Tramite un approccio di tipo induttivo si è pertanto
elaborato uno strumento idoneo per progettare interventi formativi ad hoc basati sui gap di competenze individuali.
This article focuses on competency models as a tool for innovation in the field of public personnel
management policy and develops the topic with respect to support staff of the political bodies of
the Tuscan Regional Council. Facing roles that are not clearly defined, recruitment systems based
on trust and organisational units that are often numerically small, support staff of political bodies
require complex competences involving multiple professional fields. By means of an inductive approach, a suitable instrument has been proposed for training interventions based on gap analysis
of individual competencies.
Gli autori ringraziano gli anonimi referee per i suggerimenti e le indicazioni proposte
Parole chiave: gestione risorse umane – competenze – formazione
Key words: human resources management – competencies – training
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
1. Introduzione
Nella pratica concreta delle pubbliche amministrazioni italiane si rileva
un crescente interesse verso processi di riorganizzazione orientati al miglioramento delle funzioni pubbliche e alla qualità del servizio attraverso
la definizione di interventi operativi volti alla condivisione di conoscenze,
allo sviluppo delle professionalità e alla diffusione di pratiche “di valore”
per il sistema e le risorse umane. Le richieste degli utenti e della collettività
impongono alle organizzazioni, e agli attori organizzativi in particolare,
comportamenti sempre meno prescrittivi e standardizzati che richiedono
soluzioni innovative coerenti con il disegno di un sistema flessibile di ruoli
organizzativi e con logiche di analisi dei bisogni di sviluppo professionale
e di apprendimento orientate al presidio dell’intero patrimonio di competenze dell’individuo. Dal punto di vista del funzionamento organizzativo la
costruzione di una cultura innovativa in merito alla gestione e sviluppo della
risorsa umana appare una “questione” urgente e non più eludibile e rimane
una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per consentire alle
organizzazioni pubbliche di presidiare efficacemente la loro performance
e di sviluppare nelle risorse umane comportamenti coerenti con i contesti
di riferimento.
Muovendo da queste considerazioni il presente lavoro propone una
riflessione concettuale e metodologica conseguente ad una sperimentazione
avviata all’interno del Consiglio regionale della Toscana (CRT) avente per
oggetto l’adozione di una logica innovativa di gestione dinamica del sistema
delle competenze che consideri anche la dimensione del ruolo organizzativo.
L’obiettivo dell’analisi è stato di tipo sperimentale-applicativo. In particolare
adottando la metodologia della ricerca-intervento si è evidenziato come,
in contesti pervasi da cambiamento e complessità, i ruoli organizzativi e
soprattutto i processi di sviluppo e formazione possono essere definiti in
modo efficace attraverso l’utilizzo di sistemi di competenza dinamici di tipo
induttivo piuttosto che attraverso gli approcci “tradizionali”. Questi ultimi si
caratterizzano per l’adozione di una logica efficientista al “problema” di
gestione delle risorse umane (Gru) qualificandosi in particolare da un lato
per la loro staticità, nel senso di non includere meccanismi di evoluzione del
modello al mutare delle condizioni organizzative e ambientali, e dall’altro
per essere meno rispondenti a un approccio strategico alla Gru sia in termini
di integrazione orizzontale dei sistemi operativi sia in termini di integrazione
verticale con la strategia. L’esperienza riportata nell’articolo vuole rappresentare anche una riflessione metodologica sugli approcci all’analisi dei
bisogni di apprendimento. La ricerca è stata impostata in maniera tale da
individuare ed esplicitare sia i profili di ruolo che, per ciascuno degli stessi,
i tipi di gap di competenza rilevabili ai fini dello sviluppo individuale e le
relative strategie di apprendimento. In quest’ottica si presenta anche uno
strumento di analisi dei bisogni di formazione (la matrice di sviluppo delle
competenze) che vuole rispondere alle esigenze sopra evidenziate in una
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logica olistica. L’analisi ha inoltre condotto ad evidenziare alcune riflessioni
di natura conoscitiva circa la rilevanza che riveste l’adozione di metodologie
partecipative di tipo induttivo sui processi di cambiamento culturale.
L’oggetto di indagine della ricerca è costituito dal personale di supporto
agli organi politici del Consiglio regionale della Toscana (CRT) che sono
figure critiche per il funzionamento dello stesso con funzioni di affiancamento
agli organi politici per le attività di tipo tecnico-amministrativo e di relazione
con l’interno e l’esterno della struttura.
L’articolo si sviluppa partendo dagli aspetti teorico-concettuali alla base
della ricerca che fanno riferimento agli approcci che analizzano la relazione conoscenza organizzativa-performance. Nel terzo paragrafo viene poi
affrontato il tema dello sviluppo organizzativo come cambiamento culturale
e in quello successivo si giustifica, dal punto di vista concettuale, la scelta
dello “strumento” delle competenze in coerenza con gli obiettivi dell’analisi.
Prima di affrontare l’analisi empirica, presentata nel sesto paragrafo, si
delinea brevemente anche il contesto politico-istituzionale di riferimento e
il profilo oggetto dell’indagine.
Nelle conclusioni si è cercato di evidenziare la “portata innovativa”
dell’analisi svolta e si propongono alcune riflessioni utili ad orientare le organizzazioni verso approcci dinamici e sistemici ai modelli di competenza
oltre a richiamare l’attenzione dei ricercatori, ma anche degli operatori
aziendali, su alcune questioni aperte relativamente alle logiche di implementazione dei modelli di competenza.
2. Aspetti teorico-concettuali di riferimento: conoscenza,
apprendimento e formazione
Negli ultimi anni la speculazione teorica nell’ambito dello sviluppo organizzativo ha mostrato una crescente attenzione verso la variabile cognitiva.
L’indirizzo di riflessione si è arricchito in virtù di una mutata consapevolezza
delle variabili di natura intangibile che, nel contesto dell’economia attuale,
vengono considerate determinanti al fine del perseguimento di una azione
organizzativa efficace.
La prospettiva di riferimento qui accreditata è quella che sostiene il
particolare valore assunto dalla conoscenza organizzativa che diviene la
prima e più importante determinante della performance dei sistemi aziendali (Spender, 1996; Grant, 1996; Davenport, Prousak, 1998). Secondo
la visione accolta, dunque, la generazione di valore a livello organizzativo
e la sua sostenibilità — nel tempo e nello spazio — risultano altamente
correlate a pratiche di governo formalizzato della conoscenza dirette alla
sua produzione, conservazione e al suo sviluppo. Diviene perciò centrale
parlare di apprendimento organizzativo definito come quel processo
dinamico di rinnovamento attraverso cui le organizzazioni sviluppano la
propria base cognitiva a supporto della loro azione e rendono altresì possibile la definizione e il presidio delle proprie competenze distintive. Nella
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prospettiva comportamentista una organizzazione impara “se, attraverso la
rielaborazione di informazioni, il set dei suoi potenziali comportamenti viene
modificato…” (Huber, 1991, p. 89). Afferma, poi, lo stesso autore che: “una
organizzazione impara se una delle sue unità acquisisce conoscenze che
essa riconosce essere potenzialmente utili per l’organizzazione” (p. 89).
Si evidenzia, in questo processo, il ruolo sostanziale giocato dagli individui e dalle loro mappe mentali. È attraverso queste che – sulla base del
contesto e del ruolo organizzativo interpretato (Boyatzis, 1982) – i soggetti
intuiscono le informazioni e interpretano i loro compiti e le loro azioni
(Bontis et al., 2002; Crossan et al., 1999). L’individuo, dunque, si colloca
al centro del ciclo dell’apprendimento organizzativo, svolgendo un ruolo
di facilitatore rispetto al recepimento di nuove conoscenze e al contempo
rivestendo una posizione centrale nei processi di risoluzione di problemi, di
innovazione e dunque in buona sostanza interpretando un ruolo di “rottura
delle routine consolidate” in una ottica di “disapprendimento” (Leonard,
Barton, 1992).
Sulla base delle considerazioni fin qui addotte, rappresenta una evidenza
inconfutabile il fatto che le organizzazioni apprendano a partire da e tramite
gli individui che le compongono. L’individuo costituisce il locus primario della
creatività, del cambiamento e del miglioramento e quindi, più in generale,
dell’apprendimento organizzativo. Pertanto, la considerazione del soggetto
quale fulcro del ciclo dell’apprendimento e al contempo perno dell’azione
organizzativa (March, Olsen, 1975), richiama la necessità, da parte delle
Direzioni aziendali, di presidiare attraverso opportune pratiche formali di
gestione il “sistema organizzato di risorse individuali” (Cavaliere, 2002).
Quanto detto, sembra essere tanto più vero per organizzazioni, quale
quella analizzata, che presentano un carattere prevalentemente people
intensive e in cui risulta necessaria una sempre maggiore attenzione alla
dimensione micro-organizzativa. Ciò si sostanzia in interventi di “disegno”
organizzativo volti a favorire l’efficienza, attraverso la riduzione dei costi
di coordinamento, e lo sviluppo del capitale umano, attraverso soluzioni di
gestione delle persone coerenti con il concetto di organizzazione che apprende. Matura, pertanto, l’attenzione ai processi formativi in quanto strumenti
deputati alla crescita del bagaglio cognitivo individuale e mediatori primari
nel governo delle conoscenze organizzative (Lado, Willson, 1994).
È nota l’evidenza che l’accumulo pregresso di conoscenze facilita
nuovi processi di apprendimento, in quanto le “conoscenze accumulate
incrementano sia la capacità di apprendere nuove conoscenze […] che la
capacità di richiamarle alla memoria e usarle” (Cohen, Levinthal, 1990,
p. 129). Contestualmente, bassi livelli di formazione possono condurre ad
una riduzione dei livelli di conoscenza dei lavoratori e questo, nell’ambito
del ciclo iterativo dell’apprendimento organizzativo, può portare ad una
progressiva inibizione dello stesso.
Ciò è ancor più vero per contesti caratterizzati dalla presenza di ruoli
ad alta professionalità, in cui lo strumento progettuale atto a garantire un
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efficace coordinamento, e una più generale efficienza organizzativa, è
proprio rappresentato dalla definizione di appositi programmi orientati allo
sviluppo di conoscenze, competenze e comportamenti (Mintzberg, 1996).
Gli interventi di formazione, costruiti ad hoc, rappresentano, dunque, strumenti che operano come fonti di stimolo e di guida per i processi di sviluppo
organizzativo in quanto in grado di dare origine alle condizioni e alle
occasioni atte a facilitare l’innesto di circoli virtuosi di apprendimento.
3. Sviluppo organizzativo e cambiamento culturale
Nei processi di sviluppo organizzativo finalizzati alla creazione di valore
emergono due aspetti particolarmente rilevanti.
Il primo richiama il concetto di “efficacia sociale” (Rebora, 1987) definita
in relazione alle finalità proprie delle organizzazioni pubbliche, finalità
connesse in genere al benessere e allo sviluppo economico e sociale di
una comunità.
Il secondo, strettamente collegato al primo, richiede di concentrare le attenzioni non solo sulla ottimizzazione nell’allocazione di risorse utilizzate nei
processi di trasformazione degli input in output quanto sulla seconda funzione
di produzione propria delle organizzazioni pubbliche, quella attraverso cui
gli output generati si rivelano effettivamente in grado di produrre valore. In
un sistema economico e istituzionale, caratterizzato da risorse illimitate e
valutazioni di indifferenza sui possibili risultati dell’azione organizzativa, il
problema della progettazione organizzativa e della scelta dei sistemi di Gru
probabilmente non assumerebbe valenza strategica (Grandori, 1995).
In realtà la scarsità di risorse rende critico non solo il problema della loro
allocazione e combinazione ai fini della generazione di valore ma, considerato il carattere people intensive, evidenzia come il presidio dell’economicità
sia strettamente dipendente dal contributo del fattore umano che diviene il
vero fattore strategico. In altre parole l’efficacia e l’efficienza dell’azione
politica e amministrativa è influenzata dai “comportamenti produttivi” dei
soggetti (singoli o gruppi) che, a vario titolo, operano all’interno dell’amministrazione. Ciò porta a sottolineare l’importanza della gestione delle
competenze e della performance delle persone in un’ottica di sviluppo e
richiede un cambiamento culturale che consideri la performance di sistema
funzione anche della capacità dell’individuo di autoregolarsi.
In questa prospettiva il tradizionale concetto di controllo, spesso a torto
considerato come il principale garante dell’efficacia e dell’efficienza organizzativa, perde gran parte del suo fascino. Anche i recenti orientamenti
dottrinali che auspicano l’introduzione di meccanismi economico-aziendali,
come ad esempio quelli tipici del controllo di gestione, considerati fattori
di stimolo al cambiamento e garanti dell’efficacia e dell’efficienza organizzativa sembrano paradossalmente avere ottenuto l’effetto di amplificare le
distorsioni tipiche dell’approccio gerarchico-burocratico generando demotivazione, inerzia all’azione e inadeguatezza dei risultati ottenuti.
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Il passaggio chiave della trasformazione culturale è da rinvenire nello
sviluppo di approcci all’organizzazione che recuperano la dimensione
soggettiva pur all’interno dei vincoli oggettivi che il quadro normativo e
ambientale presenta (figura 1). È l’analisi degli elementi causali della performance che acquista significato e interesse per la ricerca scientifica e per
la pratica. L’efficacia organizzativa può essere interpretata come il frutto di
un processo dinamico di interpretazione del ruolo da parte dei lavoratori
che genera comportamenti efficaci all’interno di un determinato contesto.
Figura 1 – Performance e sviluppo organizzativo
SISTEMA DINAMICO
DI RISORSE
INDIVIDUALI
RIDEFINIZIONE
FORMAZIONE
ASPETTATIVE DI
RUOLO
SVILUPPO
ORGANIZZATIVO
GAP DI
COMPETENZA
LEGENDA
Origine della
performance
Feedback di
sviluppo
EFFICACIA
ORGANIZZATIVA
sollecitazioni
valore
ambiente esterno
Il concetto di ruolo organizzativo, che la letteratura propone, è molto utile
in quanto aiuta a mettere in relazione e ad integrare il comportamento
individuale con gli aspetti organizzativi perché considera che i lavoratori
hanno la “libertà di agire” e, allo stesso tempo, sono socialmente vincolati
(Gross et al., 1964). Il sistema dinamico di risorse individuali (attitudini,
motivazioni, conoscenze, competenze, ecc.) influenza le modalità con le
quali il ruolo è “interpretato” (Mintzberg, 1973). Gli attori organizzativi,
quindi possono, e di fatto lo fanno, interpretare gli stessi ruoli in maniera
differente.
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4. Le competenze come riferimento delle politiche di gestione
e sviluppo delle risorse umane
Sebbene recentemente, quello della gestione delle risorse umane, sia stato
un ambito attraversato da intense riforme, dobbiamo osservare ancora una
scarsa sensibilità verso la valorizzazione delle competenze e dei processi
di apprendimento. Decenni di cultura tipicamente amministrativa continuano a rappresentare spesso un vincolo per i processi di cambiamento e di
ammodernamento “imposti” dalle normative e richiesti soprattutto dalle
evoluzioni dei contesti economici.
è facile osservare che le organizzazioni pubbliche avranno sempre un
“problema” di gestione della “produttività” della risorsa umana che rappresenta la principale fonte di costo oltre che la principale componente della
qualità e della quantità delle prestazioni fornite. Si pongono, quindi, forti
e rinnovate esigenze di mettere a punto modelli interpretativi e strumenti
applicativi che siano in grado di innescare e supportare i processi di modernizzazione amministrativa, di sviluppo e riqualificazione professionale
(Cavaliere, Rosini, 2002).
Riteniamo che i modelli di competenza consentano di rispondere a molte delle problematiche legate alle risorse umane in quanto permettono di
impostare in maniera integrata, dinamica e flessibile i sistemi di gestione e
sviluppo delle persone definendo un unico anche se non rigido framework
in grado di fare evolvere il focus di riferimento dai compiti-attività ai comportamenti. Le finalità dei sistemi di Gru basati sulle competenze sono collegate
prevalentemente alla esigenza delle direzioni di gestire al meglio il rapporto
individuo-organizzazione ridefinitosi anche sulla base dei cambiamenti
avvenuti nel mercato del lavoro.
In generale, nel pubblico impiego è possibile sostenere che il “contratto”
tra dipendente e organizzazione si esprimeva, e forse ancora si esprime, in
un rapporto di scambio certo, definito e regolamentato sia nei compiti che
nella contropartita economico-sociale. Oggi, invece, la “sicurezza” di un
lavoro qualificante richiama la così detta employability (Kanter, 1989). La
consapevolezza che il lavoro attuale consentirà alla persona di svilupparsi
e di aumentare le proprie opportunità professionali future sembra essere la
strada organizzativamente e individualmente più efficace. Da quanto detto
consegue che gli individui dovrebbero costantemente tenere aggiornate le
proprie capacità e conoscenze e imparare ad imparare, e che l’organizzazione dovrebbe stimolare e supportare i processi di sviluppo e di apprendimento. Si rafforza quindi l’idea della necessità di un approccio nella
gestione strategica delle risorse umane che riesca a coniugare i bisogni di
apprendimento e le aspettative dell’individuo con quelli dell’organizzazione.
Tale approccio a nostro avviso trova nei modelli di competenza un naturale
punto di riferimento.
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La competenza individuale
Le abilità, così come le conoscenze, le motivazioni, rappresentano alcune
delle determinanti del comportamento individuale orientato alla soluzione
di situazioni problematiche. È importante distinguere questi elementi dai
compiti e dalle funzioni. Le prime sono aspetti della persona che consentono
di dimostrare la propria competenza, gli altri, invece, sono riferiti al lavoro
e definiscono aspetti in cui il titolare del ruolo deve risultare competente.
Negli ultimi anni il concetto di competenza individuale è stato sicuramente uno degli argomenti più dibattuti dagli studiosi di management e dagli
operatori economici sia pubblici che privati. Partendo dai lavori seminali
di matrice psicologica di McClelland (1973) e Boyatzis (1982), successivamente approfonditi e operativizzati anche dagli Spencer (1993), si sono
succeduti una varietà di approcci, modelli e ricerche empiriche che hanno
definito e adottato significati diversi di competenza.
Le competenze esistono in quanto vi è un comportamento competente
contestualizzato nel ruolo che produce risultati efficaci. La competenza è
quindi definita come un insieme di fattori personali (attitudini, abilità, conoscenze, ecc.) che attivati da specifiche situazioni producono comportamenti
efficaci (Boyatzis, 1982; Spencer, 1993).
In questo lavoro la competenza individuale viene considerata nella sua
relazione con la prestazione in un determinato contesto sociale e lavorativo.
Essa quindi, risulta molto utile come strumento interpretativo di quella parte
della performance che viene definita di contesto (Rebora, 1999). Ciò, a
nostro avviso, appare di particolare interesse ai fini della nostra analisi, in
quanto anche per il personale di supporto agli organi del CRT, vale la considerazione che la performance di contesto è più rilevante rispetto a quella
di compito, sia per la natura del lavoro e sia perché le unità organizzative
sono esposte a processi continui di cambiamento, molto più intensi rispetto ad altre unità organizzative delle pubblica amministrazione (Rebora,
1999). A ciò si aggiunga il fatto che le unità oggetto della nostra analisi,
operano in strutture che presentano ambiguità e sovrapposizioni di ruolo,
permeabilità nei confini sia micro che macro organizzativi, forte contenuto
relazionale della prestazione.
5. Un’analisi politico-istituzionale dell’organizzazione oggetto
d’indagine
Al fine di comprendere le problematiche e le particolarità del caso che presenteremo nel prossimo paragrafo è utile delineare brevemente un quadro
del contesto di riferimento.
Quando parliamo di strutture di supporto agli organi politici del CRT
intendiamo fare riferimento agli uffici di segreteria di cui dispongono il Presidente e gli altri componenti dell’ufficio di presidenza, nonché alle strutture
speciali di segreteria di cui sono dotati i gruppi consiliari che vengono a
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costituirsi ad ogni inizio legislatura. Al momento dell’indagine presso il CRT
erano attivi 9 gruppi consiliari espressione delle forze politiche elette. (1)
È utile distinguere, all’interno delle strutture speciali di supporto, tra
le strutture speciali di supporto agli organi di direzione politica del CRT
(segreterie dell’ufficio di presidenza) e le strutture speciali di segreteria dei
gruppi consiliari. Ogni gruppo consiliare ha un numero di dipendenti della
struttura di supporto proporzionale al numero dei consiglieri che aderiscono
al gruppo. Complessivamente, al momento della ricerca, la dimensione della
struttura era di 76 dipendenti.
I dipendenti svolgono funzioni di affiancamento agli organi di direzione
politica e ai gruppi consiliari per le attività di segreteria, di organizzazione,
di comunicazione, di assistenza giuridico-amministrativa, per le attività di
relazioni interne ed esterne alla struttura regionale, caratterizzandosi come
vera e propria cinghia di trasmissione tra livello politico e struttura operativa
e burocratica.
Le strutture di supporto, previste nello Statuto vigente, sono organi indispensabili per la vita politica del CRT. Essi hanno un’importanza strategica
e un impatto diretto anche sulla vita organizzativa e sugli uffici dell’intera
struttura consiliare. Il personale che lavora in queste strutture presenta alcune
specificità interessanti ai fini della nostra analisi. Tali specificità influiscono
sui contenuti del ruolo e sulle competenze osservate.
Il primo dato da segnalare è il sistema di reclutamento che è di tipo
personale. Il rapporto di lavoro si instaura in base ad una relazione fiduciaria, a chiamata diretta, con l’amministratore regionale. Il dipendente delle
strutture speciali di supporto può essere reclutato da un ruolo regionale, da
altri enti della p.a. o anche dal settore privato. Il tipo di contratto è spesso
a tempo determinato, può durare per l’intera legislatura ed è rinnovabile. A
parte i dipendenti provenienti dal ruolo regionale, la maggioranza è scelta
tra soggetti estranei alla p.a., spesso dal settore privato.
Le strutture speciali di supporto sono spesso numericamente piccole.
Questo genera ruoli despecializzati. Il dipendente (tranne nei casi di strutture
più grandi) presenta competenze trasversali e complesse, che interessano
sempre più di un’area professionale. Alcuni dei dipendenti di queste strutture, soprattutto in quelle numericamente più consistenti, possono assolvere
il ruolo di appoggio e consulenza ad un singolo consigliere, altri, invece,
sono adibiti ad attività di segreteria, di ricerca e redazione di documenti,
altri ancora ad attività di comunicazione e organizzazione della struttura di
appartenenza. In tal modo si evidenziano situazioni di consulenza ad personam e di supporto all’attività del gruppo o della segreteria. Una specificità
della figura in questione è quindi quella di ritrovarsi in una condizione di
ambivalenza che spesso può essere presente anche nella storia personale
1 L’indagine è stata sviluppata nel corso del 2004 e si è conclusa nel 2005. Recentemente,
nel 2009, il gruppo di ricerca ha effettuato un follow-up del progetto con la Formazione attraverso interviste dirette per valutarne l’impatto organizzativo e lo “stato di avanzamento”
del progetto.
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di un singolo dipendente, prima assegnato ad un singolo consigliere e
poi a funzioni organizzative, e viceversa. Inoltre i due ruoli sono a volte
coesistenti e contemporanei.
Un’ulteriore particolarità è rintracciabile proprio nella natura del contesto
lavorativo il quale ha comunque, anche nei casi di profili e funzioni più
professionali, una valenza e una sostanza politica. Lavorare all’interno delle
strutture di supporto, nella maggioranza dei casi, comporta anche un’adesione politico-ideologica al gruppo di riferimento. La valenza e il portato politico
dell’attività dei dipendenti delle strutture di supporto ha come conseguenza
quella di condurre a non poche ambiguità nella definizione del loro profilo
professionale, che rimane, in molti casi, a metà tra un’attività meramente
politica e una professionale. Un profilo che si delinea, inoltre, come bloccato
a metà tra il “volontariato” politico e l’esercizio di una professione, e che
rende particolarmente difficile fissare punti fermi nella definizione dei ruoli
e delle loro funzioni. Queste particolarità aprono il campo alla necessità di
studiarne le competenze possedute e quelle necessarie, sia dal punto di vista
dei dipendenti, sia da quello dei loro “datori di lavoro”: i consiglieri.
Cogliendo spunto da questa affermazione vale la pena sottolineare, in
una logica di analisi dei processi organizzativi, come i consiglieri oltre al
ruolo di “datore di lavoro” ricoprano anche quello di clienti interni esclusivi
(o quasi) per i lavoratori oggetto di indagine. Da questo punto di vista,
che sembra decisamente il più importante, il valore da loro creato va a
beneficio indirettamente della cittadinanza attraverso il lavoro e la figura
dei gruppi, dei consiglieri di riferimento e, in ultima analisi, del Consiglio
tutto. Tuttavia essi nella loro attività di supporto si trovano spesso, in virtù
del loro ruolo di gestori del social network del singolo consigliere o del
gruppo di riferimento, anche a dover soddisfare in maniera diretta esigenze
informative e di sostegno che provengono dal territorio; svolgono quindi
anche un’attività diretta di servizio a favore della cittadinanza che si esplica soprattutto nel dare ascolto ai problemi della popolazione e nel porli
all’attenzione del consigliere e/o del gruppo di appartenenza nei tempi e
nei modi più opportuni.
Delineate le specificità che legano questi “soggetti” all’organizzazione in
questione, sembra abbastanza condivisibile l’idea di investire sullo sviluppo
delle competenze di queste risorse perché da una parte tali investimenti
assicurano il presidio dell’efficacia e dell’efficienza organizzativa, dall’altra
essi dovrebbero consentire al sistema di formalizzare conoscenze e pratiche a livello di organizzazione, che potrebbero rappresentare dei punti di
riferimento significativi per l’interpretazione più efficace dei ruoli.
6. L’analisi empirica e la matrice di sviluppo delle competenze
L’analisi empirica parte dalla constatazione che il comportamento di ruolo
delle singole risorse umane determina il successo o l’insuccesso dell’azione
organizzativa. A tal fine, riveste importanza critica il sistema dinamico di
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risorse individuali posseduto e potenziale (conoscenze, abilità, attitudini,
motivazioni, esperienze, ecc.) e in particolare la competenza. Nell’ottica
dello sviluppo organizzativo le competenze individuali possono essere
potenziate mediante adeguati interventi formativi che pongono il problema
dell’individuazione di una metodologia utile a definirne contenuti mirati sia
rispetto ai profili di ruolo sia rispetto alla tipologia dei gap di competenza
oggetto di interventi.
La definizione di un modello di competenze per la figura del personale
di supporto al CRT, nasce dalla volontà dell’ufficio formazione di investire
su figure professionali non direttamente dipendenti dalla struttura della
Regione con l’obiettivo da un lato di definire un percorso di sviluppo per
garantire un servizio qualitativamente migliore e dall’altro di supportare
processi di employability.
La realtà ha presentato al gruppo di ricerca una serie di difficoltà oggettive ai fini della realizzazione del percorso formativo competency-based
che possono essere sintetizzate nelle seguenti:
•l’assenza di un sistema formalizzato di ruoli e mansioni;
•le peculiarità della figura non solo sotto il punto di vista dell’inquadramento
ma anche in termini di contratto psicologico;
•lo scetticismo del sistema rispetto a qualsiasi tentativo di formalizzazione
in quanto ciò poteva rappresentare il presupposto di un processo che
limitava l’autonomia decisionale;
•l’assenza di dipendenza gerarchica delle strutture di supporto al CRT
rispetto all’ufficio formazione che, in questo caso, si proponeva come
promotore dei processi di sviluppo.
Un’ulteriore difficoltà è stata rinvenuta nell’atteggiamento di diffidenza del
personale verso gli interventi formativi. Ciò è conseguente alla mancanza
di una tipizzazione dei precedenti processi di formazione che avevano
seguito la logica top down individuando contenuti e modalità formative a
volte disancorate dalle necessità reali. In tale contesto si poneva il problema
di individuare uno strumento concettuale che fosse in grado di definire i
profili professionali e i fabbisogni formativi in modo mirato e appropriato
rispetto allo specifico contesto. La scelta di adottare un approccio competency modelling di tipo induttivo (personalizzato) è sembrata, a nostro avviso,
quella più coerente in quanto in grado da un lato di mitigare le resistenze
culturali e dall’altro di integrare le aspettative organizzative e individuali.
La scelta dello strumento del competency modeling ha permesso di realizzare una “competence description” per il ruolo sottoposto ad analisi e al
contempo di determinare i gap formativi a partire dai quali si sono proposti
successivamente i moduli formativi.
Una preventiva analisi condotta dal team di ricerca ha evidenziato la
presenza di quattro diversi ruoli: gestionale, specialistico, di supporto e di
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comunicazione. Tale prima evidenza è emersa, sulla base di cinque interviste individuali realizzate con i capi gruppo e venti interviste realizzate
direttamente con i titolari di ruolo, di cui sette condotte con la tecnica del
focus group e tredici con la tecnica dell’incidente critico (Flanagan, 1954).
La definizione del modello ha quindi seguito un approccio di tipo induttivo:
a partire dai comportamenti posti in essere si sono evidenziati gli attributi
comportamentali che sono stati raggruppati in competenze. Tali competenze
sono andate a definire un primo dizionario specifico rispetto alla realtà di
riferimento composto da 28 competenze.
Si è quindi provveduto alla somministrazione di un questionario strutturato
in cui si richiedeva ai dipendenti di indicare per ciascuno degli indicatori
comportamentali, in una scala di preferenza pentenaria a valori crescenti
per intensità, il grado di possesso personale e l’importanza attribuita ai fini
dell’efficacia di ruolo. Il questionario è stato inviato ai settantasei titolari e il
tasso di risposta è stato del 60% circa (n = 45). Sulla base di una ulteriore
rielaborazione che aggregava indicatori significativamente correlati si è costruito il dizionario definitivo composto da venti competenze (tabella 1).
Tabella 1 – Il dizionario definitivo delle competenze
A) Tensione al risultato
B) Spirito d’iniziativa
COMPETENZE DI REALIZZAZIONE
C) Ricerca e selezione delle informazioni
utili
D) Gestione del tempo e delle attività
E) Sensibilità interpersonale
COMPETENZE DI ASSISTENZA
E SERVIZIO
F) Orientamento al “cliente”
G) Logica di processo
H) Autorevolezza e influenza
I) Consapevolezza dell’organizzazione
COMPETENZE DI RELAZIONE
L) Lavoro di gruppo e cooperazione
M) Capacità di mediare
COMPETENZE DI COMUNICAZIONE
N) Expertise di comunicazione mediatica
O) Pensiero analitico
COMPETENZE COGNITIVE
P) Pensiero concettuale
Q) Expertise politico-istituzionale e social
network
EXPERTISE TECNICA
R) Expertise informatica
S) Expertise giuridico-amministrativa
T) Flessibilità
COMPETENZE DI EFFICACIA PERSONALE
U) Etica
V) Fiducia in sé
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
Profilo soggettivo e oggettivo del ruolo
Prima di analizzare gli aspetti legati alle competenze è utile delineare il
profilo dei rispondenti. Essi hanno una età media di circa 38 anni con un
grado di scolarità abbastanza elevato (il 36% ha una laurea, il 48% il diploma di scuola superiore, il 7% è anche iscritto ad albi professionali). Il 53%
dei dipendenti è di sesso femminile. Ciò fa pensare che in questa struttura
ci sia una reale pari opportunità di accesso. Riguardo ai ruoli ricoperti la
composizione è quella evidenziata nella tabella 2.
Tabella 2 – I ruoli individuati
Operatori
Ruolo
%
Responsabili segreteria gruppo consiliare
Responsabili segreteria ufficio di presidenza
RUOLO GESTIONALE
22%
Addetto segreteria gruppo consiliare
Addetto segreteria ufficio di presidenza
Altro
RUOLO DI SUPPORTO
56%
Addetto stampa
Addetto comunicazione
RUOLO DI COMUNICAZIONE
11%
Addetto settore giuridico legislativo
Addetto ai servizi amministrativi
RUOLO SPECIALISTICO
11%
dei rispondenti
L’anzianità media in ruolo è di circa 5 anni e circa il 60% degli intervistati ha
un’anzianità non superiore alla durata delle legislatura in corso. Il rapporto
di impiego è per il 60% a tempo pieno e indeterminato e per il 40% è a
tempo determinato di cui il 20% full-time e l’altro 20% part-time. Gran parte
degli intervistati ritengono che sia necessario almeno un anno di esperienza
per comprendere a pieno le dinamiche del proprio lavoro. In materia di
esperienze lavorative precedenti, appaiono interessanti tanto le esperienze
lavorative esterne alla p.a. vantate dal 76% degli intervistati quanto il fatto
che il 38% di loro ha ricoperto in passato cariche politiche e/o sindacali.
Relativamente ampio risulta il grado di autonomia decisionale considerato
che il 70% degli intervistati ritiene di dare un significativo contributo alla
definizione delle strategie organizzative e il 25% afferma addirittura di avere
ampi margini di libertà e autonomia rispetto alle linee guida delineate dal
consigliere di riferimento. All’interno di questo contesto occorre sottolineare
però che solo il 22% degli intervistati di fronte a situazioni critiche agisce in
autonomia (senza aspettare indicazioni dal consigliere o dal responsabile
di segreteria).
Gli intervistati sembrano poi confermarsi come veri e propri “gestori
del social network” del consigliere o del gruppo di riferimento. In effetti
una percentuale significativa che va dal 48% al 76% ha contatti almeno
settimanali con i cittadini, i consiglieri di altri gruppi e segreterie, gli organi
di stampa, le segreterie dei partiti di riferimento e gli organi politici locali.
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
Risultano invece molto basse le frequenze di contatto con le associazioni
di categoria.
Infine, vale la pena accennare quanto emerso dal punto di vista dell’analisi motivazionale. Il primo aspetto che sembra influenzare positivamente la
quantità e qualità dell’energia messa in campo nello svolgimento del proprio
lavoro è la corrispondenza percepita tra le proprie risorse individuali e il
lavoro svolto: emerge infatti che ben il 74% degli intervistati si sentono
complessivamente adeguati al lavoro che svolgono. Un altro elemento
estremamente interessante riguarda il fatto che la motivazione d’ingresso
prevalente è la passione per la politica (per quasi il 60% degli intervistati).
In ultima analisi si nota che solo un terzo dei dipendenti ritiene che le proprie
potenzialità siano valorizzate in maniera adeguata e, dal punto di vista
della “scelta di partecipare” (Bergami, 2002), la motivazione prevalente
fa riferimento alle opportunità di sviluppo, di carriera e di acquisizione di
maggiore responsabilità e autonomia.
Analisi delle competenze e fabbisogni formativi: la matrice di sviluppo delle
competenze
Il questionario sulle competenze ha consentito di raccogliere dati relativi
alla percezione che i singoli titolari di ruolo hanno circa il livello di possesso e di importanza delle venti competenze del modello. La profondità
del possesso e l’importanza sono state valutate su una scala pentenaria a
valori crescenti.
Un dato di rilievo che è emerso fa riferimento al livello di differenziazione
dei modelli per i ruoli analizzati. Tali differenziazioni riguardano sia i contenuti che l’intensità con cui si manifesta la competenza (cfr. tabella 3).
Per questioni di sinteticità non entriamo nel merito dei singoli modelli. Rileviamo solo che tre competenze sono “trasversali”: “Sensibilità interpersonale”,
“Orientamento al cliente” ed “Etica”.
L’adozione di un approccio induttivo consente di individuare e definire i contenuti della competenza ad hoc rispetto al ruolo e al contesto. Il
contributo delle politiche di sviluppo delle risorse umane alla generazione
di valore dipenderà quindi dalla capacità di considerare e gestire tali
differenziazioni.
La definizione dei piani di sviluppo ha considerato due dimensioni: i
gap formativi (differenza relativa tra livello di possesso e di importanza) e
l’importanza riconosciuta alle singole competenze. Tali dimensioni sono state
rappresentate in una matrice che abbiamo definito matrice di sviluppo delle
competenze. È sulla base di tale rappresentazione che ci siamo proposti di
definire, a partire dal portafoglio di competenze emerse, gli interventi di
sviluppo. La matrice presenta nei quadranti a sinistra le competenze che in
termini di valore di intensità sono risultate inferiori alla media e nei quadranti
a destra le competenze “chiave”.
Nello specifico il quadrante 1 rappresenta quelle competenze che
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
Tabella 3 – Modelli di competenza emersi – dimensione “possesso” (valori percepiti superiori alla
media)
Ruolo di
comunicazione
Ruolo
di gestione
Ruolo
di supporto


Ruolo
specialistico
Competenze
Risultato

Spirito di Iniziativa

Ricerca e selezione di Informazioni


Gestione del tempo



Sensibilità interpersonale




Orientamento al cliente




Logica di processo


Autorevolezza e influenza
Consapevolezza dell’organizzazione

Lavoro di gruppo


Capacità di mediare
Expertise di comunicazione mediatica




Pensiero analitico


Pensiero concettuale
Expertise politico-istituzionale e social net.

Expertise informatica

Expertise giuridico amministrativa


Flessibilità

Fiducia in sé

Etica







potrebbero essere assimilate a delle risorse preziose ma che necessitano
di essere raffinate (le definiamo convenzionalmente “pepite”). Il quadrante
2 mostra le competenze assimilabili a risorse preziose e già raffinate (le
definiamo “gioielli”). Nel quadrante 3 si collocano le competenze che pur
avendo bassa importanza risultano sufficientemente sviluppate (le definiamo
“gingilli”). Infine, il quadrante 4 mostra le competenze che sono risultate di
scarso “valore” che definiamo “pietre”. La figura 2 rappresenta un’applicazione della matrice di sviluppo al modello generale.
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Gap formativo
Figura 2 – Matrice di sviluppo delle competenze (analisi cross-roles)
Importanza
Legenda: cfr. tabella 1
Al di là delle considerazioni di merito che l’analisi dei singoli quadranti
può suscitare, in questa sede si vuole proporre una riflessione di carattere
concettuale e metodologico. In generale, gli interventi formativi tendono a
focalizzarsi su quelle competenze che presentano gap negativi tra livello di
possesso e livello richiesto dal ruolo (importanza nel nostro caso), tralasciando di fatto un insieme di “risorse” che incidono comunque sulla prestazione
individuale e di sistema. In tal senso si segue una logica tipica della one best
way che, a nostro avviso, non solo genera soluzioni inefficaci ma anche
incoerenti con i contesti moderni.
Di contro, partendo proprio dalla matrice delle competenze, è possibile
adottare una prospettiva olistica e strategica che consente di definire, a nostro avviso, un approccio innovativo al problema dello sviluppo individuale
e organizzativo competency-based. L’assunto fondamentale dell’approccio
qui proposto, considera la performance funzione di tutte le competenze
agite, comprese quelle che hanno bassa importanza (“pietre” e “gingilli”).
In un’ottica di sviluppo organizzativo le politiche di gestione delle risorse
umane dovrebbero considerare tutti i comportamenti organizzativi (di successo e non) e individuare le azioni appropriate (compresi anche i processi
di disapprendimento) per migliorare la performance di sistema in funzione
anche del ciclo di vita delle competenze rispetto alle dinamiche di contesto
ambientale. Elevati livelli di performance, infatti, si raggiungono applicando
specifiche azioni di successo ma anche riducendo e riorientando quelle
inefficaci e inefficienti (Cavaliere, Sarti, 2005).
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I tradizionali approcci alle competenze sembrano, invece, sottovalutare
questo problema in quanto tendono a focalizzarsi quasi esclusivamente sulle
competenze di successo.
Il framework concettuale proposto trova nella matrice di sviluppo delle
competenze il suo strumento applicativo. Per ognuna delle aree di competenza individuate è possibile immaginare politiche di gestione delle risorse
umane guidate da logiche decisionali e obiettivi differenti.
Il primo quadrante evidenzia la situazione che classicamente le organizzazioni tendono a definire nella progettazione degli interventi formativi.
Da un lato vengono definite le priorità per gli obiettivi di ruolo e dall’altro
le priorità in termini di scostamenti tra situazione reale e desiderata. La
logica adottata è quella di sviluppo in un’ottica tradizionale. Gli interventi
di sviluppo dovranno avere come obiettivo quello di migliorare il livello di
competenza del personale per “avvicinarlo” il più possibile alla situazione
desiderata nella convinzione che il miglioramento della prestazione sia
funzione delle competenze obiettivo.
Il secondo quadrante presenta una situazione che teoricamente non dovrebbe richiedere interventi di sviluppo. Tali competenze, invece, necessitano
di essere presidiate e monitorate al fine di mantenerne il livello di competitività ed evitare processi di “annacquamento” del capitale intellettuale. La
logica da adottare è quindi quella del presidio. Gli interventi di sviluppo
dovranno tendere da un lato a rafforzare tali competenze e dall’altro a
monitorarle per comprendere quando la modifica delle condizioni di contesto richiederanno il cambiamento dei comportamenti al fine di favorire la
flessibilità organizzativa e soluzioni più efficaci.
Il terzo quadrante richiede al soggetto decisore creatività e innovazione
nel processo decisionale relativo allo sviluppo delle competenze. Se da un
lato infatti le competenze sono sufficientemente sviluppate e agite dagli
attori organizzativi, dall’altro esse emergono come scarsamente rilevanti.
Se la direzione adottasse un approccio fortemente razionale al problema
quest’area, come anche la quarta (scarsa importanza ed elevato gap) non
dovrebbe essere oggetto di attenzione. Almeno due elementi ci inducono a
pensare che tale approccio potrebbe essere messo in discussione.
Il primo fa riferimento al fatto che la performance si ottiene anche attraverso interventi volti a riorientare i comportamenti inefficaci. In questo senso
i processi di sviluppo potrebbero avere come strategia quella di generare
disapprendimento (terzo quadrante). Il secondo degli elementi, comprende
anche le riflessioni relative al quarto quadrante, considera la possibilità che
la prospettiva del titolare di ruolo sia limitata e non interpreti lo sviluppo
delle competenze in una visione prospettica e di sistema (Cavaliere, Sarti,
2005). Da qui la necessità di adottare la “logica del dubbio” che richiede
valutazioni a forte connotazione soggettiva di tipo scettico, valutazioni in
cui l’intuito e la capacità previsionale della dirigenza si affiancano a quelle
dei titolari di ruolo. In particolare il quarto quadrante (scarsa importanza
ed elevato gap) richiederebbe l’adozione di una strategia di verifica delle
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criticità ed eventuale indottrinamento (Mintzberg, 1996). L’applicazione
della matrice di sviluppo delle competenze ai singoli ruoli genera “configurazioni di sviluppo” differenziate (tabella 4).
L’adozione di una logica olistica suggerisce di adottare interventi di
sviluppo modulari e multimetodo che rendano possibili percorsi di fatto
personalizzati. Si tratta in sostanza di disegnare contenuti che prevedano
diversi livelli o scale di intensità per ogni singola competenza e differenti
metodologie in funzione della natura delle competenze e degli obiettivi di
apprendimento. Ciò richiede un cambiamento culturale significativo negli
approcci alla formazione (cfr. tabella 4).
Nel CRT l’applicazione del sistema delle competenze non è ad oggi ancora
realizzata, se non in misura parziale; questo per ragioni riconducibili alla
criticità del periodo temporale nel quale si è conclusa la ricerca-intervento
(il termine della scorsa legislatura) e soprattutto per nuove, diverse e urgenti esigenze maturate che hanno portato l’Ufficio Formazione a dover
“distogliere” l’attenzione dal progetto in oggetto, per concentrarsi, invece,
su interventi mirati allo sviluppo di altri profili professionali: in particolare
di front-line e dirigenziali.
Dal 2005, il personale di supporto ai consiglieri è stato coinvolto in iniziative formative, da un lato concentrate prevalentemente sull’approfondimento
e aggiornamento di competenze di carattere tecnico in particolar modo
sulla sicurezza e gestione dei dati: si tratta di competenze tecniche di soglia
considerate necessarie e indispensabili allo svolgimento del ruolo; dall’altro
lato è stata promossa una iniziativa coerente con le indicazioni emerse dal
progetto intervento attraverso un percorso di “introduzione all’ambiente” dei
neo-assunti e adottata con il fine specifico di favorire la conoscenza delle
fonti informative disponibili e sviluppare capacità individuali per la loro
sistematizzazione. Rispetto agli altri interventi formativi l’iniziativa ha avuto
grande riscontro in termini di soddisfazione dei partecipanti e di risultati ai
fini del miglioramento del lavoro del titolare di ruolo.
Sulla base di alcune recenti disposizioni del legislatore regionale, (2) si
può ipotizzare che la valorizzazione del personale assegnato alle strutture
di supporto del CRT possa essere attuata in un prossimo futuro, in particolare dalla prossima legislatura, ripartendo anche dal modello di riferimento
emerso nella prima fase della ricerca e sulla base di opportune verifiche
di coerenza.
In definitiva, il modello individuato, a cavallo fra la dimensione di ruolo e
quella di competenze, si presenta a quattro anni di distanza ancora valido,
mostrando una elevata coerenza rispetto alla odierna realtà organizzativa.
Possiamo affermare dunque che la modalità di analisi adottata ha prodotto
2 La legge regionale 4/2008 attribuisce una maggiore autonomia legislativa al Consiglio regionale. Il relativo regolamento interno di organizzazione del CRT dà rilievo, prima mai dato,
ai temi della formazione continua anche a favore del personale delle strutture di supporto agli
organi politici e istituzionali del Consiglio.
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Ruolo Specialistico
Ruolo Gestione
Ruolo Comunicazione
Strategia Correlata
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Risultato
Spirito d’iniziativa
Expertise giuridico-amministrativa
Risultato
Spirito di iniziativa
Capacità di mediare
Pensiero concettuale
Pensiero analitico
Expertise politico-istituzionale
Expertise informatica
Sviluppo
Pepite
Ricerca e selezione delle
informazioni utili
Sensibilità interpersonale
Consapevolezza dell’organizzazione
Expertise di comunicazione
mediatica
Pensiero analitico
Expertise informatica
Etica
Fiducia in sé
Gestione del tempo
Sensibilità interpersonale
Orientamento al cliente
Consapevolezza dell’organizzazione
Pensiero analitico
Flessibilità
Etica
Risultato
Spirito d’iniziativa
Ricerca e selezione informazioni utili
Gestione del tempo e delle
attività
Orientamento al cliente
Expertise di comunicazione
mediatica
Flessibilità
Presidio
Gioielli
Tabella 4 – Configurazioni di sviluppo: ruoli, competenze e strategie gestionali
Orientamento al cliente
Expertise politico-istituzionale
Ricerca e selezione delle
informazioni
Expertise giuridico-amministrativa
Sensibilità interpersonale
Etica
Fiducia in sé
Disapprendimento
Gingilli
Gestione del tempo
Logica di processo
Autorevolezza
Lavoro di gruppo
Capacità di mediare
Pensiero concettuale
Flessibilità
Segue
Logica di processo
Autorevolezza
Lavoro di gruppo
Expertise di comunicazione
mediatica
Expertise politico istituzionale
Expertise informatica
Fiducia in sé
Logica di processo
Autorevolezza
Consapevolezza dell’organizzazione
Lavoro di gruppo
Capacità di mediare
Pensiero concettuale
Expertise giuridico-amministrativa
Verifica della criticità e indottrinamento
Pietre
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Ruolo Supporto
Segue Tabella 4
Ricerca e selezione delle
informazioni utili
Expertise giuridico-amministrativa
Pepite
Risultato
Gestione del tempo
Sensibilità interpersonale
Orientamento al cliente
Consapevolezza dell’organizzazione
Capacità di mediare
Expertise informatica
Flessibilità
Etica
Gioielli
Spirito di iniziativa
Logica di processo
Lavoro di gruppo
Gingilli
Autorevolezza e influenza
Expertise di comunicazione
mediatica
Pensiero analitico
Pensiero concettuale
Expertise politico-istituzionale
Fiducia in sé
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un risultato che, a livello di framework di riferimento, è riuscito a travalicare
uno dei limiti sostanziali dei modelli di competenze: ovvero la staticità e il
rischio di rapida obsolescenza.
7. Conclusioni
L’analisi illustrata in questo scritto ha lo scopo di proporre una riflessione
metodologica e concettuale attorno ad uno dei temi “nuovi” posti all’attenzione della gestione delle risorse umane nella pubblica amministrazione:
le competenze. Partendo da un’esperienza empirica di applicazione della
metodologia delle competenze di tipo induttivo all’analisi e descrizione
del ruolo e alla analisi dei bisogni formativi, l’articolo arriva a proporre un
approccio che cerca di superare alcuni dei limiti strutturali di queste pratiche
innovative che se adottate con una logica efficientista e fortemente razionale
corrono il rischio di generare rigidità organizzativa. Il contributo propone
un framework metodologico che vede i modelli di competenza in un’ottica
evolutiva fondata su una logica olistica, dinamica e induttiva.
Alla base della proposta c’è una sostanziale presa d’atto del superamento della tradizionale “oggettivazione” burocratica del lavoratore nella
posizione ricoperta e nella qualifica funzionale rivestita. Anche nel settore
pubblico c’è sempre maggiore consapevolezza del fatto che, oltre alla posizione ricoperta, si debba tener conto della persona relativamente a quello
che sa fare, alle informazioni e alle relazioni che è in grado di apportare
all’organizzazione, alle sue competenze e alla capacità di apprendere. La
questione non è di poco conto se si pensa che a seconda dell’impostazione
prevalente bisogna definire in maniera completamente diversa le scelte di
programmazione del personale: selezione, formazione, valutazione, carriera
e retribuzione, ecc. (Costa, 1997).
A noi sembra che si possano proporre alcuni elementi di riflessione
utili ad orientare le organizzazioni pubbliche verso l’adozione di sistemi
di competenza e allo stesso tempo richiamare alcune questioni aperte che
non possono essere tralasciate. È utile partire dall’esperienza presentata
in questo lavoro tenendo in considerazione una duplice prospettiva di
osservazione.
Da un lato, si considera l’efficacia dell’intervento in termini di contributo
che esso ha “prodotto” rispetto allo sviluppo culturale dell’organizzazione
con particolare riferimento alla Funzione del personale; in secondo luogo,
viene valutata, al di là di una effettiva implementazione non ancora integralmente realizzata a causa di “ritardi fisiologici”, la validità attuale del
modello realizzato.
Dal punto di vista del contributo all’arricchimento culturale, sulla base
delle testimonianze raccolte dai responsabili dell’Ufficio formazione,
l’esperienza del progetto-intervento, cui gli stessi avevano partecipato
in qualità di membri del gruppo di ricerca, ha fornito loro l’occasione di
acquisire una crescente consapevolezza sullo strumento delle competenze
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
quale metodo induttivo idoneo ad impostare politiche orientate a “mettere
al centro le persone” coinvolgendole e rendendole attori attivi e partecipi
della progettazione del loro processo di crescita.
Lo sviluppo in termini di know-how, in relazione alla costruzione dei
modelli di competenze, ha altresì fornito ai responsabili della Formazione
spunti di riflessione proficui al fine di progettare e impostare in autonomia
progetti destinati allo sviluppo di competenze organizzative per altre figure
professionali.
Tali considerazioni devono poi essere viste alla luce della elevata mutevolezza e incertezza che caratterizza il contesto. La strutturazione degli
organi di supporto ­— ovvero il disegno della singola unità organizzativa
di riferimento (gruppo politico) — risulta, infatti, influenzata dalla elevata
variabilità delle compagini politiche e dalla personalità dei diversi leader
(capo gruppo). In altre parole ci troviamo in un contesto organizzativo
in cui, fra le variabili di progettazione organizzativa che maggiormente
influenzano il disegno della struttura, la figura del leader risulta determinante. Al contempo, contingenze esterne all’organizzazione, ma interne
al mondo politico, producono numerosi e frequenti mutamenti in termini di
composizione e ridisegno dell’unità organizzativa (gruppo politico) a causa
del frequente mutare dei raggruppamenti. (3)
La convinzione maturata è che il “sistema delle competenze”, presentato
nel presente lavoro e governato da una logica che mette al centro il sistema
dei ruoli e il loro contenuto in un’ottica dinamica, rappresenti un framework
di riferimento utile nel tempo alla Direzione del personale di una pubblica
amministrazione. che se legata ad uno strumento “statico” corre il rischio
di generare un investimento a rapida obsolescenza. Dal punto di vista dei
processi di innovazione nella pubblica amministrazione, le competenze
possono condurre a percorsi evolutivi dei sistemi di Gru purché si adottino logiche differenti dai modelli tradizionali recuperando la dimensione
sistemica e soggettiva della gestione delle risorse umane e valorizzando
il contributo dell’individuo nei processi di generazione del valore con una
logica dell’orientamento al “cliente” interno.
Un ulteriore aspetto da mettere in evidenza è la logica “ad hoc” e
induttiva che dovrebbe guidare l’applicazione di tali approcci ai fini di
una migliore integrazione con il contesto sociale e tecnologico. Rispetto
a quelli “deduttivi” e “generici” i modelli di competenza di tipo induttivo
e taylor-made (“ad hoc”) presentano il vantaggio di cogliere le specificità
del contesto, di coinvolgere attivamente gli attori organizzativi, di rilevare i
valori e la cultura propria dell’organizzazione e di utilizzare un linguaggio
condiviso. In questo senso quindi, tendono ad essere percepiti come meno
estranei al sistema (o imposti dalla direzione). Per altri versi richiedono
una cultura disponibile al cambiamento e aperta ai processi di sperimen3 Un esempio è stato, recentemente, la creazione del maxigruppo composto da esponenti della Margherita e dei DS che si è accorpato in un unico gruppo politico.
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
tazione oltre che un investimento maggiore in termini di tempi e di risorse.
Nel caso che qui viene proposto l’approccio utilizzato ha prodotto una
crescita culturale dell’organizzazione, favorendo un processo di apprendimento organizzativo che ha portato l’organizzazione a modificare i propri
comportamenti verso una maggior consapevolezza della “partecipazione
delle persone” al loro sviluppo; dall’altro ha fornito un sistema di gestione
delle competenze, e non un mero “modello di competenze”, che ad oggi,
a quattro anni di distanza, si dimostra ancora un valido supporto da cui
partire per impostare un processo formativo.
In generale, l’adozione di questi modelli pone anche, a nostro avviso,
almeno due questioni aperte legate alla loro reale natura di innovazione
e alla loro pretesa di essere strumento che consente il superamento degli
approcci organizzativi tradizionali alla Gru. Sotto questo punto di vista
riteniamo che il problema sia relativo non già allo strumento in sé, quanto
alla logica con cui possono essere progettati e implementati tali sistemi.
Limitando le nostre osservazioni all’indagine proposta appare chiaro che se
la logica di progettazione degli interventi di sviluppo è di tipo tradizionale
anche i modelli di competenza rappresentano un’innovazione mascherata
(Masino, 2005), un elemento di continuità piuttosto che un’innovazione vera
e propria. Continuando su questo piano appare difficile allora considerarli
come modelli post-tayloristici, anzi il rischio è che essi rappresentino strumenti di omologazione dei comportamenti individuali verso presunte best
practice dell’agire individuale. A noi pare che questi rischi siano reali e che
possano generare problemi per i livelli di efficienza ed efficacia delle nostre
pubbliche amministrazioni. Occorre dunque affrontare l’implementazione
di queste pratiche “innovative” con cautela e disincanto, non facendosi
prendere da mode momentanee o ancora peggio dal desiderio di imitare
pratiche “esterne” senza valutarne l’effettiva coerenza e applicabilità rispetto
al contesto.
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Il modello delle competenze: un approccio evolutivo
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Esperienze innovative
Lo spoil system nella governance locale
L’esercizio dello spoil system nella governance dell’ente locale:
alcuni casi a confronto
Alessandro Sancino
Dottorando di ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia - Dipartimento di Economia Aziendale
Sommario: 1. Introduzione. 2. La relazione tra politica e management nella governance delle amministrazioni pubbliche:
analisi della letteratura. 3. Metodologia della ricerca. 4. L’esercizio dello spoil system nella governance dell’ente locale:
ambiti e modalità di applicazione. 5. Considerazioni conclusive. 6. Appendice.
La governance dell’ente locale è stata profondamente modificata da diverse riforme, tra le quali
alcune hanno previsto l’introduzione di logiche di spoil system. In questa prospettiva, il presente
lavoro si propone di contribuire al fabbisogno di evidenze empiriche, indagando il livello e le modalità di applicazione dello spoil system negli enti locali. Dallo studio dei casi presentati emerge una
crescente applicazione dello spoil system all’esterno dell’ente locale e uno scarso utilizzo all’interno
come sistema per modificare gli equilibri organizzativi in ottica premiante e responsabilizzante. In
conclusione, vengono discusse alcune implicazioni e accennate alcune possibili traiettorie evolutive
delle modalità di applicazione dello spoil system negli enti locali.
Italian local governments have been recently affected by different kinds of reforms; in particular,
there is a growing need for understanding the effects of the introduction of the spoil system. In this
perspective, with a multiple case study approach, the paper aims at analyzing the application of
the spoil system in Italian local governments. Empirical evidences show a frequent application of
the spoil system outside local governments as opposed to a low use of the spoil system inside local
governments as an organizational tool to promote higher accountability and managers’ responsiveness. Finally, some implications and some further perspectives on the spoil system evolution in
Italian local governments are discussed.
L’articolo è una elaborazione del paper presentato al III Workshop Nazionale di Azienda Pubblica Governare
e programmare: l’azienda pubblica tra innovazione e sviluppo al servizio del cittadino e del Paese, Università di
Salerno - Università degli Studi del Sannio, giugno 2008
L’autore desidera ringraziare i partecipanti alla sessione parallela e i referee per i preziosi suggerimenti forniti
Parole chiave: spoil system – enti locali – politica e management
Key words: spoil system – local governments – politics and administration
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1. Introduzione
Il presente lavoro si propone di studiare l’applicazione dello spoil system
negli enti locali. A questo riguardo, si precisa che l’accezione qui intesa di
spoil system prende a riferimento non solo ciò che concerne le modalità di
attribuzione degli “incarichi dirigenziali”, ma in generale la “nomina” da
parte della componente politica (sindaco, giunta, consiglio) di persone sia
all’interno dell’ente locale, sia nelle aziende partecipate dallo stesso.
La rilevanza di tale tema trae origine, tra le altre cose, dal fatto che alcuni
fenomeni — come ad esempio l’introduzione da un lato di logiche manageriali e dall’altro lato di norme che hanno esteso gli spazi di autonomia circa
la nomina fiduciaria di alcuni soggetti (ad es. Anselmi, 1997; Borgonovi,
2004a), l’evoluzione dell’ente locale verso una configurazione organizzativa
a rete (ad es. Longo, 2005; Meneguzzo, Cepiku, 2008), l’affermarsi di un
numero crescente di partnership pubblico-privato (Zuffada, 2000; 2006),
l’allargamento del portafoglio di funzioni e servizi dell’ente locale (Valotti,
2000), il processo di “municipal corporatization” in atto in molti enti locali
(Grossi, Reichard, 2008), — hanno favorito e ampliato notevolmente le modalità e i luoghi dell’esercizio del potere di nomina di alcune figure chiave
(Payne, Skelcher, 1997; Van Thiel, 2008; Vibert, 2007), facendo dunque
divenire questo aspetto uno tra i più decisivi nell’esercizio della funzione
di governo aziendale dell’ente locale capogruppo.
Dal punto di vista concettuale, l’introduzione del potere di nomina o di attribuzione degli incarichi dirigenziali da parte della componente politica si colloca nel più
ampio percorso, iniziato negli enti locali con la l. 142/1990, (1) che ha portato
a ridefinire il rapporto tra politica e management nelle amministrazioni
pubbliche, assegnando alla prima un compito di indirizzo e controllo e al
management la piena responsabilità e autonomia nella gestione (2) (Longo, 1994). A questo proposito, la letteratura ha prodotto alcune riflessioni
teoriche proponendo alcune chiavi interpretative per spiegare le modalità
applicative dello spoil system (ad es. Amado, 2001; Carboni, 2008;
Civicum, 2005; Del Vecchio, 2001; D’Alessio, 2007; Endrici, 2001; Van
Thiel, 2008), sebbene con riferimento agli enti locali non siano disponibili
delle analisi empiriche che analizzino con una prospettiva olistica tutte le
figure organizzative per cui è stato applicato lo spoil system all’interno di
un ente locale.
1 La legge 142/1990, all’art. 51, comma 2, per la prima volta sanciva esplicitamente negli
enti locali la distinzione tra politica e gestione precisando che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge o lo statuto non riservino espressamente agli organi di governo dell’ente”. Successivamente, tale principio è stato esteso dal d.lgs. 29/1993 a tutte le pubbliche amministrazioni.
2 Sull’evoluzione intervenuta negli anni novanta nel rapporto tra politica e management negli
enti locali così si esprime Longo (1994: p. 112): “Per province e comuni il livello istituzionale
politico registra la chiara delimitazione dei propri compiti e una traslazione del baricentro di
potere verso il sindaco e la Giunta, ottenendo però il potere di nominare dirigenti di fiducia:
vi è quindi una contrazione del ruolo diretto del livello istituzionale e una estensione del suo
ruolo indiretto di indirizzo e controllo attraverso la scelta del management”.
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In quest’ottica, con un approccio di tipo deduttivo-induttivo (Ferraris
Franceschi, 1978, p. 221; Masini, 1979, pp. X-XII; Zappa, 1956, p. 76)
e attraverso un metodo di ricerca basato sullo studio multiplo di caso (Yin,
1994), l’obiettivo del presente lavoro è quello di presentare dei dati al fine
di contribuire a soddisfare il crescente fabbisogno di evidenze empiriche e di
contribuire ad una prima possibile sistematizzazione teorica delle modalità
di applicazione dello spoil system negli enti locali, posizionando i diversi
casi analizzati in una matrice elaborata a partire da alcune dimensioni
rilevanti enucleate sulla base di un quadro teorico di riferimento (Amado,
2001; Borgonovi, 2002; Borgonovi, 2004b, pp. 236-239; Heinelt, Hlepas,
2006; Jacobsen, 2006; Longo, 1994; Mouritzen, Svara, 2002; Panozzo,
2006; Rebora, 1983; Sapelli, 2005; Svara, 2001, p. 179; Tichelar, Watts,
2000).
Nello specifico, si procede attraverso il seguente percorso logico: nel
secondo paragrafo viene analizzata – con particolare riferimento al livello
locale – la letteratura sulla relazione tra politica e management nella governance delle amministrazioni pubbliche; nel terzo paragrafo viene illustrata
la metodologia della ricerca qui presentata; nel quarto paragrafo vengono
riportati, discussi e sistematizzati i principali risultati della ricerca, mentre
nel quinto e ultimo paragrafo vengono formulate alcune considerazioni
conclusive.
2. La relazione tra politica e management nella governance
delle amministrazioni pubbliche: analisi della letteratura
Il management pubblico non può essere adeguatamente compreso
senza far riferimento alle relazioni cruciali che esistono tra management e politica (Pollitt, Bouckaert, 2002, p. 183).
La relazione tra politica e management nella governance delle
amministrazioni pubbliche è indubbiamente – fin dagli scritti di
Wilson (1887) e Weber (1947) – uno tra i più importanti e dibattuti
temi analizzati dalla letteratura, sia di “public administration”, sia di
altre discipline (3) (ad es. Alesina, Tabellini, 2008; Howlett, Ramesh,
2003, pp. 23-52).
A questo riguardo, al fine di sistematizzare logicamente la review
della letteratura effettuata, si possono distinguere almeno tre grandi ambiti di discussione su cui si sono concentrati gli studiosi (cfr.
tabella 1).
3 Si precisa che la review della letteratura è stata qui limitata solo ai contributi riconducibili al
filone degli studi di public administration e/o public management e che tutti i lavori citati nella
tabella 1 sono poi puntualmente richiamati uno ad uno nel seguito della trattazione.
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Tabella 1 – I filoni individuati nella review della letteratura
1) “analisi ontologica” attraverso differenti modalità
interpretative (deduttive e/o induttive), di quella che è
(approccio positivista) e/o dovrebbe essere (approccio normativo) “la combinazione ottimale tra politica e
management all’interno della governance democratica
delle amministrazioni pubbliche”
(ad es. Aberbach et al., 1981; Aberbach et al.,
1988; Del Vecchio, 2001; Dunn, Legge Jr., 2002;
Jacobsen, 2006; Hansen, Ejersbo, 2002; Montjoy,
Watson, 1995; Nalbandian, 2006; Overeem, 2005;
Peters, 1987; Svara, 1998;1999a;1999b; 2006;
Wheeland, 2000; Yang, Holzer, 2005)
2) “analisi indiretta” della relazione tra politica e
management attraverso lo studio delle implicazioni che
alcune riforme (istituzionali e gestionali) hanno avuto
sull’evoluzione del ruolo della componente politica e
manageriale nella governance delle amministrazioni
pubbliche
(ad es. Anselmi, 1997; 2005; Borgonovi, 2004a; Caperchione, Pezzani, 2000; Cristofoli, Valotti, 2007;
Cristofoli et al. 2007; Grossi, 2005; Grossi, Reichard,
2008; Hinna, 2009; Liguori et al., 2009; Mussari,
1996; Payne, Skelcher, 1997; Rebora, 1999; Schedler, 2003; Schedler, Finger, 2008; Valotti, 2000)
3) “analisi puntuale” della relazione tra politica e
management attraverso lo studio specifico di alcuni
aspetti (ad es. le differenti politiche del personale adottate in alcuni Stati) tramite cui essa stessa è stata operativamente interpretata e declinata
(ad es. Borgonovi, 2004b; Carboni, 2008; Cotta et
al., 2004; Del Vecchio, 2001; Hutchroft, 2001; Ongaro, 2002; Rebora, Ruffini, 2001; Zuffada, 1999;
Vandelli, 2000)
Con riferimento al primo ambito, (4) si possono individuare – pur con
sfumature differenti – due idealtipi principali (Svara, 1999a; Wheeland,
2000) tramite cui è stata spiegata e discussa la relazione tra politica e
management nelle amministrazioni pubbliche: orthodox dichotomy model
e complementarity model.
In estrema sintesi, punto cardine del primo modello (orthodox dichotomy)
sarebbe la dicotomia tra politica e management, secondo la quale spetterebbe rigidamente alla componente politica la definizione degli obiettivi
aziendali e delle politiche pubbliche, mentre al management la neutrale,
ma efficiente ed efficace messa in atto di tutte le azioni volte all’implementazione delle policies e al raggiungimento degli obiettivi aziendali (Svara,
1998, p. 52): in sostanza, questo modello si fonda su una concezione di
isolamento del management da tutte quelle attività che non sono meramente
amministrative (mission formulation & policy decisions), e viceversa della
componente politica da quelle che non sarebbero tipicamente politiche (administration & management). In quest’ottica, Overeem (2005) ha sostenuto
l’urgenza della necessità di riscoprire l’importanza di questo modello, in
quanto l’unico in grado di riaffermare chiaramente il valore della neutralità
del management dalle interferenze politiche.
Alcuni studiosi hanno tuttavia espresso delle riserve sulla visione ortodossa della dicotomia tra politica e management, sostenendone una
4 Per meglio inquadrare l’orizzonte in cui si inserisce la letteratura, è utile precisare che gran
parte dei contributi citati in questo primo filone fanno principalmente riferimento al contesto
istituzionale locale degli Stati Uniti: a questo proposito, viene presentata nell’appendice una
breve descrizione sulle principali forme di governo locale presenti negli Stati Uniti (MayorCouncil e Council-Manager).
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versione intermedia, secondo cui, pur persistendo una totale autonomia del
management nell’implementazione dei servizi e delle politiche pubbliche,
sarebbe concesso e anzi necessario che il management compartecipi nel
processo di scelta politica sulle diverse opzioni di policy (Montjoy, Watson,
1995, p. 237).
La prospettiva dicotomica è stata inoltre – sia sulla base di evidenze
empiriche (ad es. Aberbach et al.,1981; Dunn, Legge Jr., 2002; Hansen,
Ejersbo, 2002; Jacobsen, 2006; Svara, 1999b; 2006), sia dal punto di vista
teorico-deduttivo (ad es. Nalbandian, 2006; Svara,1998) — profondamente
rivisitata e reinterpretata a favore della definizione di un secondo modello
(complementarity model) in cui il rapporto tra politica e management viene
invece concepito e descritto attraverso i caratteri dell’interdipendenza e della
complementarietà (Svara, 1999a, p. 676), tali per cui, sia il processo di policy making, sia l’azione manageriale, vedrebbero in realtà degli ampi spazi
di intersezione e di influenza reciproca tra politica e management, essendo
la concettualizzazione stessa della distinzione tra politica e management
piuttosto da imperniarsi sulla diversità delle forme di legittimazione dei due
ambiti (Del Vecchio, 2001, p. 151). Questa impostazione fornirebbe quindi
una più larga e complessa analisi del ruolo del management, teorizzando,
soprattutto a livello locale, (5) l’esigenza di una vera e propria partnership
tra componente politica e management per rispondere efficacemente ai
bisogni della comunità amministrata (Nalbandian, 2006). Particolarmente
interessanti sono inoltre i cinque idealtipi elaborati da Peters (1987) per
descrivere lungo un continuum le diverse possibili configurazioni della relazione tra politici e dirigenza: a) subordinazione gerarchica della dirigenza
alla politica; b) consociazione, intesa come separazione dei ruoli, ma forte
coesione, obiettivi e logiche d’azione comuni; c) consociazione funzionale,
intesa come collaborazione limitata a settori specifici; d) competizione, dove
i dirigenti e i politici competono e sono avversari per le diverse competenze
che hanno; e) governo dei burocrati, dove i dirigenti dominano il processo
decisionale e i politici tendono a svolgere una funzione solo di ratifica. In
ogni caso, come evidenziato da Yang e Holzer (2005) con riferimento al
suo impatto sull’etica amministrativa, ciò che sembra certo è che di fatto
la relazione tra politica e management si evolve dinamicamente e viene in
parte rimodellata da situazioni nuove (sia istituzionali, sia ambientali) che
si verificano nel corso del tempo.
Il lavoro di Yang e Holzer ci consente dunque di introdurre il secondo
filone di letteratura prima evidenziato, che ha prevalentemente descritto con
una prospettiva indiretta, proprio come alcune riforme abbiano in parte (ri)
modificato il ruolo della politica e del management nelle amministrazioni
pubbliche. In particolare, si fa riferimento a contributi che hanno descritto
a) come alcune riforme ispirate al New Public Management abbiano avuto
5 “The study of, city management is the study of how politics and administration intersect”
(Nalbandian, 2006, p. 1049).
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delle implicazioni sul comportamento della componente politica nella governance delle amministrazioni pubbliche (ad es. Caperchione, Pezzani,
2000; Cristofoli et al., 2008; Hinna, 2009; Liguori et al., 2009; Schedler,
2003) e contribuito a favorire la trasformazione — sebbene ancora in una
fase di transizione (Cristofoli et al., 2007) – dei burocrati in manager, dando
a questi ultimi piena autonomia nella gestione e nel perseguimento degli
obiettivi aziendali, chiarendo definitivamente il ruolo unico di indirizzo e
controllo strategico della componente politica (ad es. Mussari, 1996); b)
come alcuni recenti interventi istituzionali – ad esempio nel contesto italiano
– abbiano riorientato la relazione tra politica e management, prevedendo
ad esempio la possibilità per la componente politica di intervenire sull’organizzazione nominando fiduciariamente alcune figure manageriali (ad
es. Anselmi, 1997; Borgonovi, 2004a; Rebora, 1999; Valotti, 2000); c)
come i fenomeni di “municipal corporatization” (Grossi, Reichard, 2008)
e l’evoluzione verso una forma ad holding (Anselmi, 2005; Grossi, 2005)
stiano aprendo all’interno del gruppo pubblico locale un nuovo spazio in
cui si esplicita con particolare intensità – e forse con un relativo minore
grado di accountability (Payne, Skelcher, 1997) – la relazione tra politica
e management (ad es. Cristofoli, Valotti, 2007; Schedler, Finger, 2008).
Da ultimo, nel terzo filone precedentemente richiamato, si possono
invece individuare alcuni contributi che hanno analizzato taluni aspetti in
cui la dissimile concezione nell’interpretazione del rapporto tra politica e
management ha portato ad una diversa cultura amministrativa e allo sviluppo
di differenti modelli istituzionali e organizzativi (Hutchroft, 2001, p. 39):
si fa ad esempio riferimento al cosiddetto modello francese e al modello
americano (Cotta et al., 2004, p. 414), i quali vengono sovente indicati
come rispettive pietre angolari dei meccanismi di selezione della dirigenza
pubblica, attraverso da un lato il metodo del merit system (modello francese)
e dall’altro lato attraverso il sistema dello spoil system (modello statunitense). A questo proposito, proprio nel contesto italiano, il dibattito (6) tra gli
operatori e gli accademici sull’evoluzione delle politiche del personale nelle
amministrazioni pubbliche (Rebora, Ruffini, 2001), sull’utilizzo dello spoil
system come strumento di “public corporate governance” per favorire una
maggiore integrazione organizzativa tra politica e management (Zuffada,
1999; Carboni, 2008) e sulla preferibilità del merit system o dello spoil
system (Borgonovi, 2004b, pp. 236-239; Del Vecchio, 2001) è stato particolarmente ricco di contributi. In ogni caso, anche ai fini di meglio inquadrare
lo sfondo entro cui si collocano le considerazioni esposte nei paragrafi
6 Si fa ad esempio riferimento ad una serie di articoli presenti su www.lavoce.info e www.
astridonline.it tra i quali si evidenziano: (la voce.info) F. Bassanini, “Il dibattito sullo spoils system. Una risposta a la voce.info”, 12 novembre 2002; S. Cassese, “Come funziona lo spoils
system all’italiana”, 12 novembre 2002; P. Cerbo, “Ragioni e problemi dello spoils system”,
12 novembre 2002; D. Checchi, P. Garibaldi, “Lo spoils system italiano è efficiente?”, 12 novembre 2002; M. Clarich, “Spoil system solo per pochi”, 27 febbraio 2006; C. D’Orta, “Uno
stop allo spoils system”, 21 maggio 2007; (astridonline) F. Merloni, “Verso una maggiore delimitazione dello spoil system?”.
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successivi, è bene precisare come si possa complessivamente individuare
una sorta di via italiana allo spoil system (Vandelli, 2000, p. 1211), che
affonda peraltro le sue radici in una cultura amministrativa altrettanto peculiare, caratterizzata da “una originale miscellanea di logiche manageriali
e di logiche della tradizionale cultura legalista di tipo Rechtsstaat propria
della tradizione napoleonica” (Ongaro, 2002, p. 77).
3. Metodologia della ricerca
Come sopra precisato, la presente ricerca si pone l’obiettivo di indagare
con un approccio deduttivo-induttivo (7) (Ferraris Franceschi, 1978, p. 221;
Masini, 1979, pp. X-XII; Zappa, 1956, p. 76) le modalità di esercizio dello
spoil system nella governance dell’ ente locale. In particolare, la domanda
di ricerca che viene esplorata è la seguente: “qual è il livello e la modalità
di applicazione dello spoil system negli enti locali?”.
Per rispondere alla domanda di ricerca, similmente ad altri studi che
hanno investigato l’applicazione dello spoil system (Amado, 2001), si è
scelto di adottare una strategia di ricerca basata sullo studio multiplo di
caso. La decisione di condurre uno studio multiplo di caso trova origine
dalla valutazione congiunta tra oggetto di studio (spoil system), tipologia di
domanda di ricerca e punti di forza di questo metodo di ricerca: in tal senso,
proprio le caratteristiche di preferibilità della strategia di ricerca tramite lo
studio di casi — la quale può ritenersi maggiormente opportuna quando le
domande di ricerca sono di tipo how and why, quando il ricercatore ha poco
controllo sugli eventi, quando si stanno indagando nuove aree di ricerca
(Eisenhardt, 1989, p. 532), quando il focus è su fenomeni contemporanei
inseriti in contesti di vita reale e quando i confini tra fenomeno studiato e
contesto non sono chiaramente evidenti (Yin, 1999, p. 1) – sono sembrate
particolarmente coerenti con la natura del fenomeno qui studiato.
La scelta dei casi da studiare è avvenuta attraverso due passaggi
consequenziali (Patton, 2002). In primo luogo, la popolazione è stata
ristretta sulla base di tre criteri di inclusione: a) l’appartenenza a comuni
di dimensione omogenea tra quelli ricompresi generalmente nella classe
dei comuni di media dimensione, b) l’appartenenza ad aree geografiche
differenti (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole) e c) la presenza di
7 “La dottrina nostra, se vorrà cogliere nella realtà delle aziende tutto quanto è sistematico,
coerente, duraturo, tutto quanto non è isolato, contingente, fugace, potrà con efficacia animare gli orientamenti della pratica e illuminarne gli indirizzi. E potrà dalla pratica trarre gli
elementi di un’assidua revisione, gli stimoli a nuove sistemazioni, che non più si attardino su
posizioni da troppo tempo superate dalla vita che urge con le sue incalzanti necessità, con
le sue mete sempre rinnovate” (Zappa, 1956, p. 76); “L’economia aziendale è strettamente legata ad andamenti concreti, a fenomeni o manifestazioni reali che costituiscono l’oggetto intorno al quale deve lavorare per realizzare il suo duplice compito conoscitivo e normativo.
D’altra parte il suo ruolo essenziale consiste in un continuo processo di astrazione dalla realtà alla teoria” (Ferraris Franceschi, 1978, p. 22); “La bontà delle teorie deve essere verificata
alla luce della “realtà degli accadimenti”, contemperando i presupposti teorici con la ricerca
sul campo” (Masini, 1979, pp. X – XII).
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sindaci eletti da almeno un anno. In seconda istanza, coerentemente con
i criteri appena esposti e sulla base della disponibilità a partecipare alla
ricerca, i casi sono stati individuati con un approccio di replicazione logica
(Yin, 1999, p. 51) nei comuni di Foligno, Vigevano, Faenza e Chieti, le cui
principali caratteristiche sono riassunte nella tabella 2.
Tabella 2 – Casi analizzati
Comune di
Foligno (PG)
Popolazione
Comune di
Comune di
Vigevano (PV) Faenza (RA)
Comune di
Chieti (CH)
54.557
abitanti
59.802
abitanti
55.258
abitanti
55.613
abitanti
Area
geografica
Centro
Nord-Ovest
Nord-Est
Sud
Coalizione
politica
Centro-sx
Centro-dx
Centro-sx
Centro-sx
Volume delle
entrate
(preventivo
2007)
€ 91.1 mln
€ 75.3 mln
€ 97.7 mln
€ 100.6 mln
Numero
dirigenti (escluso SG e/o DG)
11
8
10
8
Numero
dipendenti
(di cui a t. det.)
421 (45)
489 (22)
398 (13)
399 (31)
Consorzi
4
4
2
2
Aziende
Speciali
0
1
0
1
Istituzioni
0
1
0
1
Società di
capitali
9
5
18
5
Agenzie
0
0
2
1
Fondazioni
1
2
5
0
I quattro casi analizzati sono stati scelti in aree geografiche differenti nel
tentativo di valutare l’esistenza in contesti diversi di eventuali similitudini o
differenze nel livello e nelle modalità di applicazione dello spoil system;
similmente, la dimensione omogenea è stata individuata come criterio per
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cercare di indagare quanto enti locali di dimensione simile (8) giungano
potenzialmente a livelli di applicazione dello spoil system differenti; infine, il
criterio di privilegiare sindaci eletti da almeno un anno è stato scelto per evitare
di analizzare casi in cui sindaci appena eletti non avessero eventualmente potuto
ancora esercitare a pieno le prerogative organizzative in tema di spoil system.
I dati sono stati raccolti e aggiornati — durante i primi dieci mesi dell’anno 2008 – attraverso differenti tecniche di raccolta: a) “analisi desk” dei
principali documenti organizzativi e contabili degli enti locali analizzati e
dei soggetti partecipati dagli stessi; b) interviste dirette della durata media
di circa un’ora, effettuate con due questionari differenziati di tipo semistrutturato rivolti per ogni ente locale analizzato al sindaco e al presidente del
consiglio comunale; c) interviste con un questionario semi strutturato (alcune
telefoniche e altre dirette) effettuate a seconda della struttura organizzativa
dei casi analizzati con manager appartenenti al settore/servizio direzione
generale e/o “gestione società partecipate”. (9)
Utilizzando la tassonomia di Yin (1999, p. 4) la ricerca qui presentata
si può definire sia di natura descrittiva che esplorativa: la natura descrittiva
fa riferimento alla mappatura della tipologia di figure verso cui è stato applicato lo spoil system, mentre la natura esplorativa riguarda lo studio del
processo decisionale tramite cui è stato esercitato lo spoil system.
Naturalmente, lo studio multiplo di caso presenta dei limiti: pertanto, si
precisa che i risultati di questa ricerca si caratterizzano non per la loro generalizzabilità all’universo degli enti locali, in quanto si propongono piuttosto
di fornire delle evidenze empiriche volte a confermare, espandere e/o (ri)
formulare le proposizioni teoriche da cui si è partiti (Yin, 1999, p. 10). (10)
4. L’esercizio dello spoil system nella governance dell’ente
locale: ambiti e modalità di applicazione
Il livello di applicazione dello spoil system
Come anticipato precedentemente, l’applicazione dello spoil system
negli enti locali riguarda ambiti e figure diverse: nella tabella 3 sono
8 Si è deciso di privilegiare enti di dimensione simile perché per ruoli organizzativi (ex art.
1,10 Tuel) sono previste delle soglie massime per l’esercizio delle prerogative di spoil system,
che variano in proporzione a parametri (la dotazione organica) i quali dipendono anche dalla dimensione dell’ente.
9 Si è deciso di intervistare anche il presidente del Consiglio comunale ed i manager appartenenti al settore/servizio direzione generale e/o “gestione società partecipate” principalmente per due ragioni: nel primo caso per verificare il livello di vincolarietà degli indirizzi e
dei criteri per la nomina e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni definiti dal Consiglio comunale (ex art. 42, comma m), Tuel), mentre nel secondo caso per cercare di indagare più specificatamente come vengono di fatto mantenute le
relazioni di accountability e di indirizzo e controllo strategico tra ente locale e rappresentanti dello stesso nelle aziende partecipate.
10 “Case studies, like experiments, are generalizable to theoretical propositions and not to
populations or universes. In this sense, the case study, like the experiment, does not represent
a sample, and the investigator’s goal is to expand and generalize theories (analytic generalization) and not to enumerate frequencies (statistical generalization)” (Yin, 1999, p. 10).
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stati pertanto ricostruiti una serie di soggetti la cui nomina o introduzione
è derivata dalle scelte organizzative compiute dagli organi di governo
dell’ente locale. (11)
Tabella 3 – Gli ambiti di applicazione dello spoil system
Comune di
Foligno
Comune di
Vigevano
Comune di
Faenza
Comune di
Chieti
Direttore generale
1
0
0
1
Difensore civico
1
1
0
1
Numero dirigenti esterni assunti con contratto a tempo determinato ex art. 110 Tuel
0
3
1
2
Numero contratti di alta specializzazione ex
art. 110 Tuel
0
2
1
0
1(*)
1
1
6
Collaboratori esterni con contratto a tempo
determinato ex art. 90 Tuel
Nucleo di Valutazione (membri esterni)
Membri consiglio di amministrazione
nominati in rappresentanza dell’ente nelle
aziende partecipate di primo livello
Numero incarichi dirigenziali cambiati
durante il mandato
2
2
2
2
12
29
8
13
1
1
3
3
Note:
(*) Nel Comune di Foligno ogni gruppo consiliare ha una autonoma potenzialità di spesa per personale esterno di tipo
co.co.co.: complessivamente, la sommatoria dei monti orari assegnati a ciascun gruppo consiliare corrispondono ad una
spesa riconducibile a quella di un collaboratore a tempo pieno con contratto a tempo determinato ex art. 90 del Tuel.
Per ciò che concerne l’introduzione della figura del direttore generale, (12)
solo i Comuni di Foligno e di Chieti hanno fatto ricorso a questa figura; negli
altri due casi dove non è prevista la presenza del direttore generale, non è
11 Per individuare il livello di applicazione dello spoil system, sono stati ricostruiti in ogni
caso analizzato tutte le figure organizzative dell’ente locale la cui nomina o introduzione – sia
dopo procedure di selezione ad evidenza pubblica che attraverso una nomina di tipo fiduciario e/o discrezionale – è avvenuta per scelta da parte degli organi di governo dell’ente locale (sindaco, Giunta, Consiglio). Si precisa che non sono stati considerati nell’analisi il segretario generale ed i revisori in quanto figure obbligatorie e rispondenti a requisiti formali (ad es.
iscrizione all’albo), sebbene questi siano comunque introdotti dalla componente politica (nomina del sindaco nel primo caso, elezione da parte del Consiglio comunale nel secondo caso).
Per ciò che concerne “l’esterno dell’ente locale” è stato invece ricostruito il numero di consiglieri di amministrazione effettivamente nominati dal sindaco – direttamente o indirettamente
tramite l’assemblea dei soci – nelle aziende partecipate di primo livello. Anche qui si precisa
che, essendo il presente lavoro rivolto precipuamente allo studio dell’esercizio dello spoil system nella governance dell’ente locale, l’analisi delle nomine effettuate del sindaco “all’esterno
dell’ente locale” è stata limitata ai soli consiglieri di amministrazione. Non sono state pertanto prese in considerazione le eventuale ulteriori nomine da parte del sindaco degli organi di
controllo delle aziende partecipate di primo livello (ad es. Collegio dei revisori o membri del
Collegio sindacale), dipendendo quest’ultimo aspetto dalle diverse possibili forme giuridiche
delle stesse: ad esempio nel caso della s.r.l. il codice civile non dispone l’obbligatorietà della
presenza di un organo interno di controllo (art. 2477), mentre lo è per la s.p.a.
12 In Italia i comuni che possono nominare formalmente il direttore generale sono quelli con
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comunque stata assegnata in aggiunta al segretario generale la funzione
di direzione generale. In tre casi su quattro è previsto un difensore civico
specifico per il comune che lo ha istituito; il Comune di Faenza (13) si avvale
invece degli uffici del difensore civico della Provincia di Ravenna.
Sono stati inoltre presi in considerazione il numero di dirigenti esterni e
di “alte specializzazioni” introdotti nell’ente ai sensi delle facoltà previste
dall’art. 110 del Testo unico degli enti locali (14) (d’ora in poi Tuel), nonché il
numero di collaboratori esterni assunti con contratto a tempo determinato a
supporto agli organi di direzione politica ai sensi dell’art. 90 del Tuel (15): si
può notare come i comuni che hanno fatto un maggiore utilizzo delle due
fattispecie previste sono quelli di Vigevano (ex art. 110) e Chieti (ex art. 90);
il Comune di Foligno non ha invece usufruito delle facoltà previste dall’art.
110 del Tuel. Con riferimento ai dipendenti di supporto agli organi di direzione politica (ex art. 90) è utile riportare come – secondo i dati relativi
al censimento del 2007 sul personale di tutti gli enti locali italiani – questi
siano aumentati del 65% dal 2004 al 2007.
In tutti i comuni è stato attivato un nucleo di valutazione composto da tre
membri, e in ogni caso la composizione è fatta da due membri esterni più
il segretario (o direttore); in nessuno dei casi analizzati il nucleo di valutazione opera in forma associata in più comuni, situazione che si verifica nel
17% dei 5143 enti locali che hanno dichiarato di aver attivato tale organo
(Fonte: “Censimento 2007 del personale degli enti locali”).
I numeri più consistenti riguardano comunque la nomina di rappresentanti dell’ente nei consigli di amministrazione delle aziende partecipate:
in tal senso, si precisa che è stato conteggiato il numero di consiglieri di
amministrazione designati, già considerando le misure previste dalla legge
finanziaria 2007. (16) Anche qui è utile inquadrare i risultati riportati in un
contesto complessivo che vede la crescita del 5.9% del numero di società
più di 15.000 abitanti, mentre i comuni più piccoli, per poterlo nominare, devono consorziarsi al fine di raggiungere tale soglia. Secondo i dati di una ricerca di Forum Pa (2007) i comuni che hanno introdotto la figura del “direttore generale puro” a fianco di quella del segretario generale sono 143 (20,3%); altri 262 (37,2%) comuni hanno esplicitamente conferito la
funzione di direttore generale al segretario generale; i restanti 299 (42,4%) municipi aventi
più di 15.000 abitanti non hanno modificato la propria struttura di vertice, prevedendo invece solo il segretario generale.
13 A questo proposito si precisa che, – sebbene concretamente i cittadini di Faenza possano rivolgersi comunque ad un Difensore civico –, ai fini della misurazione del livello di applicazione dello spoil system è stato considerato un valore pari a zero.
14 “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di
qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato”; “I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia in carica” (art. 110, Tuel: commi 1 e 3).
15 “Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della Giunta o degli
assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari,
da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato” (art. 90, Tuel, comma 1).
16 I commi dal 725 al 730 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007 hanno infatti introdotto
un limite al numero dei componenti dei consigli di amministrazione delle società partecipate da Comuni e Province: in particolare, è stato stabilito che il consiglio di amministrazione
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partecipate dagli enti locali nel periodo 2003-2005, per un totale di circa
22.809 consiglieri d’amministrazione impiegati, dei quali il 31.5% svolge
tale ruolo in due o più società (Unioncamere, 2008).
Un altro dato interessante riguarda il numero di incarichi dirigenziali
cambiati durante il mandato amministrativo del sindaco: a questo proposito,
si specifica che in tutti i casi sono stati cambiati gli incarichi dirigenziali
solo a fronte della vacanza dell’incarico a causa del pensionamento della
persona che lo ricopriva precedentemente; solo nel caso del comune di
Chieti, peraltro l’unico in cui si è verificato un cambio di coalizione politica
nella guida dell’ente, dei tre incarichi dirigenziali cambiati uno è stato tolto
e riassegnato ad un altro soggetto.
Emerge dunque come l’intento del legislatore di incentivare e responsabilizzare la componente politica ad un uso premiante e dinamico dell’attribuzione degli incarichi dirigenziali sia in realtà stata interpretato in modo
statico, sebbene sia da considerare che in due casi (Vigevano e Faenza)
su quattro il sindaco sia al secondo mandato e come in un caso (Foligno)
provenga da una coalizione politica dello stesso orientamento di quello
precedente.
Tabella 4 – Il livello di applicazione dello spoil system
Numero totale di figure introdotte
dalla componente politica
INDICE DI COMPOSIZIONE DELLO SPOIL
SYSTEM:
Figure operanti all’interno dell’ente locale/Figure
operanti all’esterno dell’ente locale
Comune di
Foligno
Comune di
Vigevano
Comune di
Faenza
Comune di
Chieti
17
38
13
25
0,4
(5/12)
0,3
(9/29)
0,6
(5/8)
0,9
(12/13)
Nella tabella 4 viene invece riassunto il numero complessivo di persone
per le quali è stato applicato lo spoil system; inoltre, al fine di porre
in evidenza quante di queste abbiano riguardato l’interno dell’ente
locale e quante l’esterno, è stato calcolato un indice, denominato indice di composizione dello spoil system, il cui valore è stato ottenuto
dalla divisione tra persone che operano “all’interno” dell’ente locale e
persone che operano “all’esterno”: come si evince dalla tabella, in tutti
i casi risulta un’applicazione maggiore dello spoil system all’esterno
dell’ente locale.
delle società partecipate totalmente da enti locali (anche in via indiretta) può essere costituito
al massimo da tre o cinque componenti, a seconda dell’ammontare di capitale sociale. Nelle società miste invece è stato fissato un limite al numero dei componenti del consiglio di amministrazione designati dai soci pubblici locali, che non può essere superiore a cinque (Montemurro, 2007, pp. 59-60).
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Si consideri che l’applicazione dello spoil system all’esterno dell’ente
locale assumerebbe valori ancora più grandi se si considerasse anche
le figure nominate negli organi di controllo delle aziende partecipate di
primo livello, così come l’ulteriore allungamento della catena di nomine
fiduciarie nei soggetti partecipati dalle stesse aziende partecipate di
primo livello.
Le modalità di applicazione dello spoil system
L’analisi della modalità di applicazione dello spoil system negli enti locali
ha invece preso in considerazione il processo decisionale tramite cui la
componente politica ha esercitato lo spoil system: in particolare, tale analisi
ha riguardato solo quelle nomine, o effettuate senza procedure selettive ad
evidenza pubblica, o di soggetti cui non erano esplicitamente richiesti, né
dalla legge, né dai regolamenti degli enti locali, dei misurabili prerequisiti
di tipo professionale; lo studio della modalità di applicazione dello spoil
system è stato dunque focalizzato solo su quelle nomine di tipo esclusivamente discrezionale e fiduciario in cui il potere decisionale della componente
politica è massimo. (17)
In particolare vengono analizzati i fattori ritenuti più importanti nella
scelta delle persone da nominare, il grado di apertura e competitività del
processo di selezione delle persone da nominare, il grado di prescrittività
degli indirizzi e dei criteri definiti dal Consiglio comunale per la nomina
e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende e
istituzioni, nonché il grado di influenza che esercitano i vari attori sul potere
di nomina del sindaco.
Per quanto riguarda i requisiti individuati come i più importanti per la
scelta delle persone da nominare, in tutti i casi è emersa una sostanziale
omogeneità nel privilegiare le competenze professionali rispetto al rapporto
di fiduciarietà e alla condivisione della linea politica, sebbene sia stato osservato nelle interviste effettuate una sorta di comportamento reattivo (Bailey,
1995) da parte dei sindaci intervistati volto a privilegiare la risposta ritenuta
probabilmente più accettabile da parte del ricercatore. Infatti, altre interviste
con altri soggetti hanno invece evidenziato un trend opposto, il quale può
ben essere rappresentato dalle parole di un dirigente intervistato:
“è ovvio che i sindaci tendano a dichiarare che nominano solo persone
particolarmente competenti, tuttavia, in verità, la cosa più importante non è
17 Nello specifico, lo studio delle modalità di applicazione ha quindi riguardato le modalità di nomina del direttore generale (qualora presente), dei membri del Nucleo di valutazione
(solo nel caso in cui nel regolamento di funzionamento del N.d.V. non fosse previsto per la
nomina il possesso di misurabili prerequisiti di tipo professionale) e dei consiglieri di amministrazione nominati dal sindaco nelle aziende partecipate di primo livello.
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sempre la qualità del curriculum, ma essere sponsorizzati da qualche gruppo
politico o personalità politica influente” (Intervista n. 7).
Per analizzare il grado di apertura e competitività del processo di selezione delle persone da nominare è stato preso in considerazione l’eventuale
utilizzo di azioni ad evidenza pubblica (pubblicazione su giornali e sito
internet, consultazione con associazioni e altri stakeholder locali, eventuale
presenza di una commissione nomine ecc.) per pubblicizzare la possibilità
di candidarsi per posizioni per cui è possibile utilizzare lo spoil system.
A questo riguardo, sebbene in alcuni casi esista già una certa forma di
pubblicizzazione delle candidature, in ognuna delle interviste effettuate è
emerso un medio-basso grado di apertura e competitività, da controbilanciare però con la comune espressa intenzione di “aumentare, attraverso
diversi canali, la reale trasparenza e conoscenza sulle nomine da effettuare
dei rappresentanti dell’ente locale nelle aziende partecipate” (Intervista n.
11). Approfondendo l’analisi è interessante segnalare come a fronte di un
livello tendenzialmente simile di apertura e competitività del processo di
selezione delle persone da nominare, le interviste abbiano tuttavia fatto
emergere differenti modalità di interpretazione del concetto stesso di apertura
e competitività del processo di selezione, come ad abbozzare una sorta di
effetto geografico dipendente dalle differenti culture organizzative e sociali
esistenti. Infatti, a Foligno (centro) e a Chieti (sud) si è registrato un più ridotto
interesse per l’apertura e la competitività del processo di selezione, quasi
ad evidenziare una cultura sociale maggiormente predisposta ad accettare
una prassi partitocratica, temperata però da un livello di attenzione pubblica
e di controllo sociale su chi poi viene effettivamente nominato decisamente
più alta che negli altri casi:
“certo, possiamo dire che il processo di nomina dovrebbe essere aperto a
tutti, ma in realtà decidono i partiti, anche se, ormai c’è una sorta di curiosità sociale e di attenzione incrociata di tutte le forze politiche, che a fronte
di un processo nebuloso, si arriva comunque ad un esito del processo di
selezione spesso soddisfacente, in quanto si può dire che vengano in ogni
caso scelte persone di qualità” (Intervista n. 13)
A Vigevano è invece emersa un’interpretazione che potremmo definire efficientista e decisionista di quello che dovrebbe essere il grado di apertura e
competitività del processo di selezione: “ai vincitori vanno le spoglie, così
dice lo spoil system. Quindi, chi governa deve poter decidere autonomamente
come meglio crede. Quello che conta è che poi i risultati arrivino” (Intervista
n. 1). A Faenza, sembra invece emergere un’interpretazione di un processo
di selezione che dovrebbe idealmente tendere alla democraticità:
“stiamo provando a rendere il processo di nomina più aperto. È spesso
vero che nominiamo persone dal curriculum impeccabile; il punto è che,
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altrettanto spesso, può capitare di ricevere candidature da persone con dei
curriculum parimenti interessanti, ma che non vengono scelte perché non
hanno connessioni con chi poi ha effettivo potere decisionale. Dovremmo
trovare un modo per tutelare anche loro.” (Intervista n. 9)
Dal punto di vista della formalizzazione del processo decisionale, l’analisi
della delibera di indirizzo del Consiglio comunale mostra, anche qui in
ogni Comune, un’elevata genericità e un basso grado di prescrittività nella
definizione dei criteri per la nomina (box 1).
Box 1 – Analisi della tipologia di criteri definiti dalle delibere di indirizzo dei Consigli comunali
Foligno:
“Criterio della comprovata competenza: documentati doti di capacità tecnica-amministrativa, di coordinamento
e di promozione delle attività, valutabili attraverso curriculum vitae”;
“Criterio della professionalità: soggetto capace di determinare, sulla base delle indicazioni del Comune, obiettivi e funzioni generali di impresa”;
”Sganciamento da logiche di appartenenza affinché la propria azione sia ispirata a criteri di oggettività
e di trasparenza finalizzate al bene comune e non ad interessi personali, professionali o di gruppo;
“Assenza di vincoli associativi che possano condizionare l’espressione delle specifiche funzioni assegnate”.
Vigevano:
“Possedere comprovata onorabilità ed essere persona nota per comportamenti eticamente corretti e tali da
corrispondere alle caratteristiche di servizio per l’interesse pubblico”;
“Possedere una formazione professionale adeguata all’incarico e comprovata esperienza specifica acquisita,
presentando dettagliato curriculum”;
“Ove prevista rappresentanza per i gruppi di minoranza, il sindaco nomina scegliendo tra una rosa di nominativi indicati dai gruppi stessi nel numero massimo di tre”.
Faenza:
“I rappresentanti del Comune debbono essere scelti fra persone dotate di riconosciuta competenza, professionalità, rappresentatività delle diverse realtà economiche, tecnico-scientifiche, sociali e culturali, di indiscussa
probità. La professionalità e la competenza sono comprovate da relativo curriculum”;
“Dovrà essere assicurata, di norma, la presenza di entrambi i sessi e sarà promossa ed assicurata adeguata
di rappresenti femminili presso enti, aziende ed istituzioni”.
Chieti:
“Il possesso di particolare competenza tecnica o amministrativa per studi compiuti e almeno del titolo di studio
di scuola media superiore, oppure aver avuto funzioni presso aziende pubbliche o private almeno a livello
impiegatizio, oppure aver ricoperto uffici pubblici per almeno un triennio”.
A questo riguardo, le interviste effettuate con i presidenti dei Consigli comunali hanno confermato che la delibera non sembra svolgere una reale funzione
di strumento di indirizzo, essendo piuttosto per lo più interpretata da parte
del Consiglio comunale come un mero adempimento da assolvere.
In generale, come confermato dalla letteratura (ad es. Denters, 2006),
la relazione tra Consiglio e Giunta affiora come uno degli aspetti più problematici nella governance dell’ente locale: dalle interviste scaturisce infatti
inequivocabilmente il sostanziale spiazzamento del ruolo del Consiglio, il
quale, oltre ad esercitare “un debole e spesso solo formale indirizzo per la
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nomina dei rappresentanti dell’ente locale” (Intervista n. 5), pare ancora
maggiormente faticare nel mantenere una relazione di accountability dal
punto di vista della valutazione dell’operato delle persone nominate, nonché
dal punto di vista della conoscenza dei risultati gestionali e del grado di
tutela dell’interesse pubblico nelle modalità di erogazione dei servizi da
parte dei soggetti partecipati.
L’analisi degli attori che maggiormente influiscono nelle decisioni inerenti
le varie nomine mostra invece una maggiore dispersione nei casi analizzati.
In un caso (Vigevano) il processo di nomina pare caratterizzarsi da tutti
gli intervistati “per un’indubbia forte centralità del ruolo del sindaco” (Intervista n. 6), mentre a Chieti e Faenza emerge un significativo ruolo degli
equilibri politici (di Giunta o di Consiglio) che vedono nel primo caso “una
sorta di lotta tra intenzioni del sindaco e bilanciamento con le volontà di
tutte le forze politiche” (intervista n. 14) e nel secondo caso “una grande
considerazione degli equilibri consiliari” (intervista n. 8). A Foligno sembra
invece emergere una situazione molto più destrutturata dove nessun attore
pare dominante e dove a seconda delle figure per cui viene applicato lo
spoil system diversi attori possono giocare un ruolo decisivo nell’influire
sulla decisione finale del sindaco.
Discussione
Dopo aver evidenziato alcune risultanze emerse, coerentemente con un
approccio deduttivo-induttivo (Ferraris Franceschi, 1978, p. 221; Masini,
1979, pp. X-XII; Zappa, 1956, p. 76) e al fine di sistematizzare teoricamente le dimensioni indagate negli studi di caso (Eisenhardt, 1989), viene
ora presentata una matrice che propone differenti potenziali modelli di
applicazione dello spoil system negli enti locali. Inoltre, la matrice illustra il
posizionamento dei case study rispetto alle dimensioni ricostruite attraverso
l’analisi della letteratura (Amado, 2001; Borgonovi, 2002; Borgonovi,
2004b, pp. 236-239; Heinelt, Hlepas, 2006; Jacobsen, 2006; Longo,
1994; Mouritzen, Svara, 2002; Panozzo, 2006; Rebora, 1983; Sapelli,
2005; Svara, 2001, p. 179; Tichelar, Watts, 2000).
Innanzitutto, è bene precisare che la decisione di spiegare lo studio
delle modalità di applicazione dello spoil system attraverso una matrice
qualitativa trae riferimento dai lavori di Borgonovi (2004b, pp. 236-239),
Elcock (2008) e Heinelt, Hlepas (2006), i quali hanno similmente spiegato
attraverso l’uso di matrici qualitative alcuni aspetti della relazione tra politica
e management nelle amministrazioni pubbliche.
La matrice 1 illustra il posizionamento di sei modelli di spoil system
rispetto a due dimensioni:
• il grado di formalità, apertura e competitività del processo di selezione;
• il livello di concentrazione della struttura del potere locale per la scelta
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delle persone da nominare: quest’ultima dimensione è stata rielaborata
a partire da Longo (1994, p. 95). (18)
I sei modelli proposti possono intendersi come diverse tipologie di comportamento politico, che può essere definito come “l’insieme degli atteggiamenti,
dello stile di gestione del potere, del modo di rapportarsi con le altre componenti dell’amministrazione e con quelle della società esterna, che sono
propri della leadership politica dell’istituto pubblico locale, in particolare
di coloro che detengono la responsabilità ultima dell’amministrazione e del
suo governo” (Rebora, 1983, p. 199).
Un basso grado di formalità, apertura e competitività del processo di
selezione e un basso livello di concentrazione della struttura del potere locale
identificano il modello – la cui definizione prende spunto da un lavoro di
Jacobsen (2006, p. 305) – del “contingency spoil system”: il basso livello
di concentrazione della struttura del potere e l‘elevata chiusura e informalità del processo decisionale (Tichelar, Watts, 2000) fanno emergere una
metodologia di scelta delle persone da nominare in cui nessun attore è
dominante e in cui, a seconda del contesto e della tipologia di nomina da
esercitare, differenti attori (ad es. direttore generale, assessore al bilancio,
presidente del consiglio d’amministrazione uscente) possono avere la meglio
nell’influenza sulla decisione finale.
Un basso grado di formalità, apertura e competitività del processo di
selezione con il crescere della concentrazione della struttura del potere locale
origina invece i modelli dello spoil system dei partiti municipali (Sapelli,
2005, p. 16; Heinelt, Hlepas, 2006, p. 25) e del sindaco forte (Mouritzen,
Svara, 2002, p. 58): a fronte di un contingency spoil system in cui il potere
è diffuso o destrutturato nei network informali dell’organizzazione (De Toni
et al., 2007), qui la concentrazione del potere politico cresce fino a strutturarsi nei rapporti di forza dei partiti politici locali (spoil system dei partiti
municipali), oppure fino a culminare al livello massimo di concentrazione
nello spoil system del sindaco forte.
Nel quadrante in alto a destra della matrice, un elevato grado di concentrazione della struttura del potere locale e un elevato grado di formalità,
apertura e competitività del processo di selezione originano il modello dello
“spoil system come luogo dei tecnici d’area” (Longo, 1994, p. 103): la
formalità e l’apertura del processo decisionale acuiscono l’elevato grado di
concentrazione del potere politico, generando una sorta di controllo incrociato sulle nomine da effettuare, con l’effetto di produrre una competizione
verso l’alto che indurrebbe sì la nomina di professionisti, ma comunque
vicini al potere politico concentrato.
18 Longo (1994, p. 95) definisce come “struttura del potere nelle pubbliche amministrazioni
locali la composizione, i meccanismi di selezione, la distribuzione delle responsabilità e delle autonomie della classe politica e della dirigenza”; nello specifico qui si considera il livello
di concentrazione della struttura di potere.
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Sempre nella parte alta della matrice, al decrescere del livello di concentrazione del potere politico si trova il comportamento politico che definisce
il modello dello spoil system del legislatore: tale modello identificherebbe
la situazione che ha probabilmente ispirato alcuni interventi del legislatore
(ad es. l. 127/1997), secondo cui la scelta delle persone da nominare è,
in un’ottica di crescente responsabilizzazione, sì delegata alla componente
politica, ma comunque all’interno di meccanismi aperti e formalizzati di
controllo democratico. Quest’ultimo modello evoca peraltro in parte la
tipologia con cui Svara (2001, p. 179) ha descritto la situazione di “una
illuminata complementarietà” nella relazione tra politica e management,
la quale sarebbe caratterizzata da un alto grado di controllo della componente politica accompagnato ad un alto grado di indipendenza delle
persone nominate, in un contesto in cui il rispetto delle diverse razionalità,
sfere d’azione e competenze garantirebbe una profonda legittimazione
reciproca. Quanto descritto dall’autore si troverebbe idealmente a metà
via tra il modello dello spoil system del legislatore e il modello dello spoil
system accountable e competitivo, con un basso livello di concentrazione
della struttura del potere locale e un alto grado di formalità, apertura e
competitività del processo di selezione. Il modello dello spoil system accountable e competitivo trae spunto da Amado (2001), Borgonovi (2002,
p. 369) e da Panozzo (2007): in particolare, quest’ultimo autore ipotizza
come possibile traiettoria evolutiva nel rapporto tra politica e management
nell’ente locale quella di “democratizzare” alcune funzioni civiche, come
ad esempio quella del direttore generale. In tal senso, nella matrice si
parla di spoil system accountable e competitivo come potenziale modello
di applicazione dello spoil system che scaturirebbe in un contesto ad alta
formalità, apertura e competizione del processo di selezione e a basso
livello di concentrazione della struttura del potere locale.
Naturalmente, i modelli di applicazione individuati sono soltanto teorici;
in quest’ottica, sulla base delle risultanze e coerentemente con un approccio
interpretativo (Yanow, Schwartz-Shea, 2006) (19), i casi analizzati sono
stati poi posizionati nella matrice 1.
In particolare il Comune di Vigevano si caratterizza per la presenza principale
dei tratti del modello del sindaco forte; il Comune di Chieti si colloca sostanzialmente a metà tra il modello dello spoil system dei partiti municipali e del sindaco
forte; il Comune di Faenza si colloca anche lui tra il modello dei partiti municipali
e il del modello del sindaco forte sebbene con una maggiore accentuazione verso
il primo; il Comune di Foligno è l’unico che presenta dei tratti tipici del modello
“contingency” e si colloca tra questo modello e il modello dei partiti municipali,
seppure comunque leggermente più orientato verso quest’ultimo.
19 Si precisa che la definizione e la collocazione dei casi analizzati nella matrice non prevede alcun giudizio sulla preferibilità dell’uno o dell’altro comportamento politico, in quanto
nel presente lavoro si vuole semplicemente, con un orientamento esclusivamente di tipo positivo, tentativamente rappresentare le modalità di applicazione dello spoil system, senza fornire quindi alcun tipo di valutazione di carattere normativo.
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Lo spoil system nella governance locale
Matrice 1 – I modelli di applicazione dello spoil system
Alto
Spoil system
accountable
e competitivo
Spoil system
del legislatore
GRADO DI
FORMALITà,
APERTURA E
COMPETITIVITA’
DEL
PROCESSO DI
SELEZIONE
Spoil system
come luogo dei
tecnici d’area
Faenza
Chieti
Foligno
Contingency
spoil system
Vigevano
Spoil system
dei partiti
municipali
Lo spoil system
del sindaco forte
Basso
Basso
Alto
LIVELLO DI CONCENTRAZIONE DELLA STRUTTURA
DEL POTERE LOCALE
La collocazione verticale dipende invece dal grado di formalità,
apertura e competitività del processo di selezione: sebbene a diverse
altezze, si noti come nessun caso si collochi nella parte alta della matrice,
confermando dunque come relativamente a questa dimensione d’analisi
le modalità di applicazione dello spoil system nei casi analizzati siano
lontane da quelle teoricamente previste/auspicate dal legislatore.
5. Considerazioni conclusive
Lo studio ha analizzato l’applicazione dello spoil system confrontando i
casi di quattro enti locali di dimensioni omogenee. In particolare, è emerso
come ogni ente locale abbia interpretato lo spoil system attraverso livelli e
modalità di applicazione differenti; tuttavia, vi sono anche degli aspetti che
accomunano i casi analizzati, tra cui si possono individuare:
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• la crescente rilevanza dell’applicazione dello spoil system all’esterno
dell’ente locale, testimoniata in tutti i casi dalla presenza di un indice
di misurazione del rapporto tra figure introdotte all’interno dell’ente
locale e figure introdotte all’esterno dell’ente locale con valore inferiore
all’unità;
• la spiccata politicizzazione del processo decisionale, in particolare per
la nomina di alcune figure come i consiglieri di amministrazione delle
aziende partecipate, rinvenibile nei casi analizzati dal consistente grado
di concentrazione della struttura del potere locale (Longo, 1994, p. 95)
e dal basso livello di formalità, apertura e competitività del processo di
selezione delle persone da nominare;
• lo scarso utilizzo dello spoil system come sistema per modificare all’interno
dell’ente locale gli equilibri organizzativi in ottica premiante e responsabilizzante, evidenziato dall’uso sostanzialmente statico dell’istituto degli
incarichi dirigenziali.
Dallo studio effettuato è inoltre emerso in ogni caso analizzato una interpretazione frammentata dello spoil system e una difficoltà nel ricostruire tutte
le figure per cui è stato utilizzato tale strumento, ponendo in luce come non
sembri essere ancora stata pienamente interiorizzata né la logica sottesa,
né i tempi del ciclo amministrativo entro cui dovrebbe segnatamente trovare
particolare utilizzo lo spoil system (ad es. all’inizio del mandato amministrativo). Un ulteriore aspetto particolarmente interessante rinvenuto nella
ricerca è l’esistenza di una sorta di differente interpretazione su come debba
essere esercitato lo spoil system a seconda della collocazione geografica dei
casi analizzati, sebbene tale risultanza necessiti evidentemente di ulteriori
approfondimenti e ricerche.
Coerentemente con le caratteristiche della strategia di ricerca tramite case
study, tali risultanze ci consentono quindi di confermare, espandere e/o (ri)
formulare le proposizioni teoriche da cui si è partiti (Yin, 1999, p. 10).
A questo proposito si possono svolgere almeno due ordini di considerazioni. In primo luogo, è indubbio come la crescente diffusione di soluzioni
gestionali esterne all’ente locale ne stia profondamente modificando la
governance (Grossi, 2005). In questa prospettiva, la rilevanza delle funzioni svolte nelle aziende parte del gruppo municipale (20) fa affiorare la
crescente esigenza di ripensare questo nuovo spazio strategico – spesso
in penombra (Seidman, 1999) – che si è creato nella relazione tra politica
e management: se da un lato si pone con forza la questione di favorire
complessivamente un maggior livello di accountability sulle nomine da
effettuare (Civicum, 2005), e più in generale di un maggiore livello di
accountability democratica (Payne, Skelcher, 1997; Behn, 1998), di man20 A tal proposito Del Vecchio (2001, p. 27) sottolinea come “l’inserimento dell’azienda composta pubblica in tali aggregati interaziendali pone non facili problemi di tipo interpretativo,
con riguardo, ad esempio, alle complesse relazioni tra finalità e soggetti istituzionali dell’aggregato e finalità e soggetti istituzionali della azienda”.
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dato fiduciario (ad es. Steccolini, 2004, p. 60) e/o di risultato del gruppo
pubblico (ad es. Guarini, 2003, p. 99), dall’altro lato si impone la necessità
di riverificare e forse superare definitivamente la visione della scelta degli
amministratori da parte dei responsabili politici “come uno dei modi per
ricondurre al circuito della responsabilità politica aree dell’amministrazione
che vengono organizzate in modo separato” (Endrici, 2001, p. 149). In tal
senso, anche in ottica prospettica, la forte rilevanza che assume e assumerà
il ruolo di consigliere di amministrazione delle società partecipate – dalla cui
gestione probabilmente passerà sempre maggiormente l’erogazione di servizi
pubblici – sembra sempre più richiedere la necessità di riaffermare anche la
natura manageriale e l’implicazione aziendale di questo ruolo (Cristofoli,
Valotti, 2008). A questo riguardo, pure ai fini dell’avvio di un reale mercato
del management pubblico, diventerà cruciale considerare l’opportunità di
promuovere interventi mirati, volti a favorire l’applicazione dello spoil system
verso i modelli prima presentati come “spoil system del legislatore” e “spoil
system accountable e competitivo”. (21) Infatti, il processo di nomina sembra
sempre più necessitare di un ripensamento e di una ridefinizione (cfr. Civicum,
2005; Gilardoni, 2006) e dovrebbe prevedere modalità, forme e momenti di
confronto con soggetti diversi da quelli che hanno il potere di nomina e che
sono portatori degli interessi della collettività (Borgonovi 2002, p. 369; Oecd,
2005); similmente, allargare l’ampiezza della potenziale base di selezione da
cui attingere le eventuali persone da nominare diventa un aspetto fondamentale
che impatta finanche su questioni democratiche, etiche, nonché di efficienza di
un sistema locale nell’attrarre e reclutare al servizio della collettività i migliori
talenti di cui dispone.
La seconda considerazione concerne il ruolo della cultura aziendale: in
quest’ottica, come è emerso dai casi, le opportunità insite nell’applicazione
dello spoil system potranno essere valorizzate solo se questo verrà realmente
concepito e interpretato come uno strumento per attuare concretamente i principi aziendali dell’autonomia e della responsabilizzazione del management.
Infatti, come tutti gli strumenti organizzativi, la loro efficacia dipende non tanto
dallo strumento in sé, quanto piuttosto dai comportamenti delle persone che
poi effettivamente utilizzano tali strumenti, i quali sono a loro volta influenzati
dal sistema dei valori della cultura organizzativa (Borgonovi, 2004, p. 15);
in questo senso, è indubbio che ciò che rende accettabile la discrezionalità
politica nella scelta delle persone chiamate a ricoprire alcuni ruoli di responsabilità è l’effettivo utilizzo di meccanismi di valutazione e controllo che possano
assicurare la responsabilizzazione manageriale (Del Vecchio, 2001, p. 163).
A tal fine, sembra cruciale un forte investimento per la formazione negli enti
locali di una cultura di tipo aziendale. Inoltre, appare necessario riprogettare
le modalità di relazione tra politica e management (Borgonovi, 2002, p. 367)
alla luce di una razionalità non solo istituzionale-giuridica, ma anche azien21 Interessante a questo proposito pare essere l’iniziativa posta in essere nel 2009 da ANDIGEL (Associazione Nazionale dei direttori Generali degli enti locali) circa il processo di accreditamento dei direttori generali, fondato sulla verifica da parte di un ente terzo dell’adeguatezza delle competenze maturate da coloro che vogliano ambire ad essere nominati direttori generali dai sindaci interessati ad attivare questo ruolo.
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dale (Del Vecchio, 2001, p. 141). In tal senso future ricerche – specialmente
di tipo comparativo – saranno indispensabili per aumentare la base empirica
disponibile e studiare fenomeni ad oggi poco esplorati, quali la relazione tra
tipologia di cultura amministrativa e organizzativa e modalità di applicazione
dello spoil system.
6. Appendice
Box 2 – Le forme di governo locale negli Stati Uniti: un breve inquadramento
Negli Stati Uniti le forme di governo locale più diffuse sono quella del Council-Manager e del
Mayor-Council. In particolare il 49% delle municipalità adotta la forma del Council-Manager,
il 43,5% delle municipalità si fonda sul modello del Mayor-Council, mentre le restanti municipalità hanno adottato il modello Commission o quello del Town Meeting.
La forma del Mayor-Council è quella più antica e più vicina al modello di governo federale. Secondo questo
modello il Sindaco e il Consiglio vengono eletti dai cittadini: il primo è a capo del governo della città e i
suoi compiti variano da quelli cerimoniali a quelli di gestione complessiva della municipalità, includendo
la nomina e licenziamento dei “department heads” e la predisposizione del budget; il Consiglio annovera
invece tra le sue principali funzioni l’approvazione del budget e delle ordinanze, l’imposizione dei tributi ecc.
La forma del Council-Manager si caratterizza invece proprio per la presenza di un city manager nominato dal
Consiglio. Tale forma, affermatasi dai primi anni del ventesimo secolo, è in crescente diffusione, in particolar
modo nelle città di maggiori dimensioni: nel 2008 il 62% delle città con più di 50.000 abitanti era amministrata
da un city manager. La prima grande città che adottò tale forma di governo fu Staunton (Virginia) nel 1908. Il
modello del Council-Manager è inoltre presente in molte nazioni di cultura anglosassone (Australia, Canada,
UK e Irlanda) e non (Olanda, Cile, Honduras, Brasile). I compiti del city manager sono molto vasti e riguardano l’elaborazione del budget, la nomina dei dirigenti, la gestione del personale, l’ampio supporto fornito al
Consiglio nella definizione della strategia, degli obiettivi e delle policy funzionali al loro raggiungimento ecc.
Il Consiglio si occupa dell’approvazione del budget, determina il livello delle tasse e si concentra principalmente sulla visione politica e sulla strategia; nomina il city manager a maggioranza
e sempre a maggioranza, pur nel rispetto dello statuto e dei regolamenti, può risolvere in qualunque momento il rapporto di lavoro con il city manager qualora non sia soddisfatto del suo operato.
(Per un approfondimento vedi “The Municipal Year Book 2008”, ICMA, International City/County Management Association, Washington, D.C.).
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2009, pp. 293-307.
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Fonti di approfondimento
In libreria
In libreria
Fabio Amatucci, Fabrizio
Pezzani, Veronica vecchi
(a cura di)
Le scelte di
finanziamento
degli enti locali
Milano: Egea, 2009
pp. XX-406, € 32,00
Indice del volume: Presentazione, di Loreto del Cimmuto.
Prefazione, di Fabrizio Pezzani. Premessa, di Norberto
Cursi. 1. Gli effetti dell’applicazione del Patto di stabilità
interno sulle scelte di indebitamento e di investimento degli
enti locali di M. Liguori, A.F. Pattaro e M. Sicilia. 1.1. L’evoluzione normativa del Patto di Stabilità Interno. 1.2. La ricerca quantitativa: note metodologiche, variabili analizzate
e chiavi di lettura per l’interpretazione dei dati. 1.3. L’analisi dei dati di bilancio dei relativi ai Comuni italiani del
campione: ricadute ed effetti del Patto di Stabilità Interno.
1.4. Interpretazione degli effetti del Patto di Stabilità Interno
sulle politiche di indebitamento ed investimento e sulla gestione degli enti locali coinvolti. 2. Le differenti impostazioni
del Patto di stabilità interno e i riflessi sulla gestione degli
enti locali di F. Amatucci. 2.1. Le dinamiche competitive e
le nuove strategie delle amministrazioni pubbliche. 2.2. Il
Patto di Stabilità Interno e i riflessi sulla gestione degli enti
locali. Le regole fino al 2008. 2.3. Le modifiche derivanti
dal D.L. 112/08 e s.m.i. e il nuovo sistema di vincoli per
gli enti locali. 2.4. Analisi delle principali criticità e delle
possibili strategie per gli enti locali nella gestione del patrimonio immobiliare. 3. Un confronto internazionale: come
altri Paesi europei hanno declinato il Patto di stabilità interno di A.F. Pattaro, E. Caperchione e A. Sancino. 3.1. I Patti
Interni di Stabilità in Europa. 3.2. I Patti Interni di Stabilità:
analisi di alcuni casi. 4. La nozione di investimento ed indebitamento nelle disposizioni normative riguardanti gli enti
locali di E. D’Aristotile. 4.1. Il concetto di investimento nelle
disposizioni normative. 4.2. La nozione attuale di investimento nella normativa vigente. 4.3. La nozione di indebitamento nelle disposizioni normative. 4.4. Conclusioni. 5.
Le fonti proprie per il finanziamento degli investimenti di E.
D’Aristotile. 5.1. Introduzione. 5.2. La nozione attuale di
investimento nella normativa vigente. 5.3. Le fonti proprie
di finanziamento: autofinanziamento e sue configurazioni.
5.4. Entrate correnti. 5.5. Entrate proprie in conto capitale.
6. Le emissioni obbligazionarie singole e in pool di T. Fiorita e V. Vecchi. 6.1. Introduzione. 6.2. Le emissioni in pool.
6.3. Analisi del mercato delle emissioni obbligazionarie locali in Italia. 7. Il project finance per il finanziamento degli
investimenti pubblici di V. Vecchi. 7.1. Introduzione. 7.2.
Il mercato italiano. 7.3. Caratteristiche tecniche dello strumento. 7.4. Il project finance per gli investimenti pubblici.
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Fonti di approfondimento
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7.5. Una classificazione delle operazioni di project finance
e le forme di supporto pubblico. 7.6. La gestione dei rischi.
7.7. Le criticità. La pubblica amministrazione come Project
Manager. 7.8. Indicazioni per gli operatori privati. 8. Le
fasi procedurali del project finance nell’attuale contesto normativo (alla luce del decreto legislativo 11 settembre 2008,
n.152). Quali spazi per gli istituti di credito? di F. Amatucci. 8.1. Modelli giuridici applicati al project finance. 8.2.
Le fasi procedurali nell’attuale contesto normativo. 8.3.
Project finance, attraverso la figura del Promotore. 8.4.
Project finance, attraverso la procedura tradizionale (senza
promotore). 8.5. Caratteristiche dell’operazione di project
finance e problemi aperti. 8.6. Emissione obbligazionaria.
8.7. Il ruolo degli istituti di credito nel nuovo quadro normativo. 9. Le principali criticità derivanti dall’applicazione
del project finance in Italia di F. Amatucci. 9.1. Difficoltà
di applicazione del project finance. 9.2. Il project finance
nei settori indagati: aspetti di criticità e possibili soluzione.
9.3. Il modello di analisi e le principali criticità emerse.
10. Prospettive di applicazione del project finance in Italia.
di V. Vecchi. 10.1. Quali azioni per il project finance in
Italia. 11. Il leasing immobiliare per la realizzazione di
investimenti pubblici di F. Amatucci. 11.1. Premessa. 11.2.
I soggetti coinvolti. 11.3. Le tipologie di leasing. 11.4. Il leasing immobiliare in costruendo: principali caratteristiche.
11.5. Il leasing immobiliare in costruendo. Il quadro giuridico di riferimento. La procedura di gara. 11.6. La contabilizzazione del leasing nel bilancio pubblico: approcci
a confronto. 11.7. Il trattamento ai fini dell’imposta sul valore aggiunto del leasing pubblico. 11.8. Il mercato del
leasing immobiliare in costruendo in Italia. 12. La realizzazione di investimenti pubblici: Leasing o project finance? di
F. Amatucci e V. Vecchi. 12.1. Un modello di confronto tra
i due strumenti. 12.2. La valutazione comparata dei vantaggi e delle criticità. 12.3. Conclusioni. 13. La valorizzazione del patrimonio come leva di finanziamento degli
investimenti di F. Amatucci. 13.1. Il contesto di riferimento
13.2. L’identificazione, l’incentivazione e la selezione del
patrimonio: la due diligence immobiliare. 13.3. I criteri di
valutazione del patrimonio immobiliare. 13.4. Gli strumenti
di valorizzazione previsti all’interno del quadro normativo
italiano. L’articolo 58 del d.l. 112/08. 13.5. La selezione delle politiche di intervento: la Matrice delle strategie
del patrimonio immobiliare. 13.6. Le strategie di valorizzazione patrimoniale. 13.7. Prospettive di valorizzazione
del patrimonio. 14. I finanziamenti comunitari di V. Vecchi.
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14.1. I fondi strutturali e i fondi settoriali. 14.2. L’approccio
strategico ai finanziamenti comunitari. 14.3. Le condizioni
di accesso ai finanziamenti comunitari da parte delle pubbliche amministrazioni. 14.4. I risultati di una indagine su
un campione di uffici Europa di Province e Comuni. 15. Un
modello di riferimento per la revisione del Patto di stabilità
interno di E. Guarini. 15.1. Il Patto di stabilità interno come
sistema operativo di programmazione e controllo. 15.2.
Le linee di cambiamento. 16. Un patto per la sostenibilità
della finanza locale di F. Amatucci e V. Vecchi. 16.1. Le
sei regole del Patto. 16.2. I “pallottolieri” delle scelte finanziarie dell’ente locale. 16.3. La “cassetta” degli attrezzi.
Federico Buttera,
Bruno Dente
(a cura di)
Change
management
nelle pubbliche
amministrazioni:
una proposta
Milano: Francoangeli,
2009
pp. 352, € 39,00
ISBN 13:
9788856811810
Indice del volume: Svolgimento e organizzazione del progetto. Prefazione, Renato Brunetta. Capitolo 1. Conclusioni
e raccomandazioni. Sommario delle proposte, di Federico Butera, Bruno Dente. 1.1. La stagione delle riforme trascorse: un bilancio. 1.2. Un programma di cambiamento
delle amministrazioni dello Stato: perché e come. 1.3. Il
programma nazionale e i progetti di cambiamento nelle
amministrazioni dello Stato. 1.4. Il modello istituzionale:
verso le Agenzie Esecutive. 1.5. La struttura di governo del
programma. Capitolo 2. I programmi di diffusione e promozione dell’innovazione sostenuti dal Dipartimento della
Funzione Pubblica Giancarlo Vecchi. 2.1. Gli interventi del
Dipartimento della Funzione Pubblica per la promozione
della modernizzazione amministrativa e la diffusione delle innovazioni nel settore pubblico. 2.2. L’evoluzione dei
programmi sviluppati dall’UIPA; Cantieri. 2.3. Per un’amministrazione di qualità. 2.4. Altre iniziative di rilievo promosse dal DFP: il progetto Governance. 2.5. Conclusioni.
Capitolo 3. Le esperienze internazionali. 3.1. L’esperienza
del Regno Unito: il progetto Next Steps, di Michela Arnaboldi. 3.2. Il programma Usa per il Reinventing Government, di Gloria Sciarpa. 3.4. I progetti di riforma dello
Stato in Francia, di Nadia Piraino. Capitolo 4. Casi di
cambiamento organizzativo. 4.1. Cambiamento organizzativo e cambiamento istituzionale nell’amministrazione
finanziaria: Dagli Uffici unici delle Entrate all’Agenzia
delle Entrate, di Federico Butera, Maurizio Carbognin.
4.2. L’innovazione amministrativa per il policy change. Il
caso del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, di Erica Melloni, Gabriele Pasqui. Capitolo 5. La rea-
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Fonti di approfondimento
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lizzazione delle politiche trasversali. 5.1. La parabola dei
controlli interni nelle amministrazioni dello Stato, di Bruno
Dente, Nadia Piraino,; Giorgio De Michelis. 5.2. L’informatica, di Maurizio Carbognin. 5.3. Politiche del personale, contrattazione collettiva e innovazione amministrativa.
Bibliografia. Gli autori. La collana. La Fondazione Irso.
Paul DiMaggio,
Organizzare la
cultura
Novità Imprenditoria,
istituzioni e beni
culturali
Bologna: il Mulino,
2009
pp. 280, € 26,00
Daniela Pillitu
La partecipazione
civica alla
creazione del
valore pubblico
Milano: Francoangeli,
2009
pp. 184, € 23,00
ISBN 13:
9788856813326
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Indice del volume: Presentazione. Introduzione. 1. Struttura
di mercato, processo creativo e “popular culture”. 2. L’imprenditorialità culturale. nella Boston di fine Ottocento (1):
la creazione di una base organizzativa per l’alta cultura
in America. 3. L’imprenditorialità culturale. nella Boston di
fine Ottocento (2): le classificazioni e il “framing” dell’arte
americana. 4. Confini culturali e cambiamento sociale: il
modello dell’alta cultura nel teatro, nell’opera e nella danza. 5. Struttura sociale, istituzioni e beni culturali. 6. La
classificazione dei generi artistici. Riferimenti bibliografici.
Indice del volume: Premessa. Capitolo 1. Il framework
teorico di riferimento. 1.1. Il New Public Management.
1.2. L’economia aziendale. 1.3. Le teorie sui rapporti e
scambi organizzativi ed interorganizzativi. Capitolo 2. Il
controllo manageriale come strumento di governance dei
processi di creazione di valore pubblico. 2.1. Il concetto
di valore in economia aziendale. 2.2. Il valore pubblico.
2.3. Il processo di creazione del valore pubblico. 2.4. La
governance nel settore pubblico. 2.5. Il controllo manageriale inter-organizzativo come strumento di governance
pubblica. 2.6. L’e-governance. 2.7. La participation balanced scorecard. Capitolo 3. I processi decisionali politici
inclusivi. 3.1. I processi decisionali politici. 3.2. La partecipazione civica alla formulazione delle politiche. 3.3. I livelli
ed i metodi di partecipazione. 3.4. Il controllo manageriale
dei processi decisionali inclusivi. 3.5. L’e-democracy. Capitolo 4. La coproduzione dei servizi pubblici. 4.1. Il concetto
di coproduzione. 4.2. Le tipologie di coproduzione. 4.3. Il
cittadino coproduttore. 4.4. Il controllo manageriale della
coproduzione. 4.5. La coproduzione nei servizi comunali. Capitolo 5. La valutazione partecipativa ed i processi
di feedback. 5.1. Alcune considerazioni sulla valutazio-
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Fonti di approfondimento
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ne. 5.2. La misurazione del valore pubblico. 5.3. Nuove
forme di valutazione e controllo sociale. 5.4. Il controllo
manageriale della valutazione partecipativa. 5.5. Il feedback correttivo: il Citizen Relationship Management (CRM).
5.6. Le strategie e gli incentivi alla partecipazione civica.
5.7. Considerazione conclusive. Bibliografia. Sitologia.
Gianfranco Sabattini
Welfare state.
Nascita, evoluzione
e crisi
Le prospettive di
riforma
Milano: Francoangeli,
2009
pp. 224, € 39,00
ISBN 13:
9788856812886
Indice del volume: Prefazione, di Gianfranco Sabattini.
Capitolo 1. Introduzione. 1.1. L’evoluzione del concetto
di povertà. 1.2. La crisi dei sistemi di sicurezza sociale
e l’allargamento del numero dei poveri. 1.3. Flessibilità
del mercato del lavoro e sicurezza sociale. 1.4. I costi
sociali della flessibilità del mercato del lavoro. 1.5. Bassa
produttività della forza lavoro e libertà di licenziamento. 1.6. Il dibattito in Italia sulla libertà di licenziamento.
1.7. L’idea di reddito di cittadinanza. 1.8. Reddito di cittadinanza e conflitto sociale. 1.9. La determinazione del
livello del reddito di cittadinanza. 1.10. Le garanzie reali
e istituzionali del rispetto della dignità dell’uomo. Capitolo 2. Welfare state: nascita e sua evoluzione. 2.1. Il ruolo
e la funzione del settore pubblico nella teoria economica.
2.2. Le diverse caratterizzazioni del ruolo e della funzione
del settore pubblico protettivo. 2.3. L’affievolimento della
protezione sociale delle famiglie e il problema delle distribuzioni intragenerazionale (e intergenerazionale) del
prodotto sociale. 2.4. La costituzione e l’evoluzione dei
modelli di welfare state e la loro logica di funzionamento.
2.5. Le forme di copertura dei rischi sociali, le procedure
di finanziamento e i metodi di gestione delle risorse accantonate. 2.6. Il vincolo dell’equilibrio attuariale. 2.7. Gli
automatismi di ridistribuzione del prodotto sociale con
popolazione e durata della vita media variabili. 2.8. L’allargamento dei modelli di welfare state. 2.9. L’impatto
negativo della globalizzazione sul funzionamento dei modelli di welfare state. 2.10. La processualizzazione della
politica pubblica e la dinamica organizzativa dei modelli
di welfare state. Capitolo 3. Il sistema di welfare state italiano. 3.1. Struttura della spesa per la protezione sociale
in Italia. 3.2. Aspetti storici, economici e istituzionali del
welfare state italiano. 3.3. Procedure per il calcolo della
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Fonti di approfondimento
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pensione. 3.4. Le forme di previdenza complementare.
Capitolo 4. Teoria della cittadinanza e prospettive di riforma del welfare state. 4.1. Il welfare state e la performance
del sistema economico. 4.2. L’evoluzione della posizione
del consumo e della natura della disoccupazione nella
teoria economica. 4.3. Le prospettive di riforma dei modelli organizzativi standard dei sistemi di welfare state.
4.4. L’obiettivo di un politica pubblica innovativa e il ruolo strumentale del concetto di cittadinanza. 4.5. Il reddito
di cittadinanza e il ricupero della funzione del consumo.
4.6. La non univoca giustificazione del reddito di cittadinanza. 4.7. Osservazioni conclusive. Capitolo 5. La natura del reddito di cittadinanza. 5.1. Teoria economica e
istituzionalismo. 5.2. Reddito di cittadinanza e sussidio
di disoccupazione. 5.3. L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza e la welfare society. 5.4. Reddito di
cittadinanza e soddisfazione differenziata degli stati di
bisogno. 5.5. Le implicazioni del consumo autoregolato
del reddito di cittadinanza. 5.6. Le altre proposte di istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza riconducibili
al modello di J.M. Meade. 5.7. Le altre proposte di istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza riconducibili
al modello di D. Purdy. 5.7. Il superamento dell’etica del
lavoro. Capitolo 6. Le implicazioni organizzative dell’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza. 6.1. L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza e la ristrutturazione dei modelli organizzativi standard del welfare
stare. 6.2. La correlazione tra il reddito di cittadinanza e
la possibilità di scelta tra le opportunità lavorative alternative esistenti. 6.3. La debolezza delle critiche all’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza. 6.4. Il problema
della determinazione del livello del reddito di cittadinanza in funzione di età e salute. 6.5. L’istituzionalizzazione
del reddito di cittadinanza e l’allargamento della solidarietà sociale. 6.7. L’istituzionalizzazione del reddito di
cittadinanza e la riorganizzazione delle istituzioni capitalistiche. 6.8. L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza e il ruolo delle istituzioni rappresentative della forza lavoro. 6.9. L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza e la protezione della “vecchiaia”. Bibliografia.
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Fonti di approfondimento
Giovanni Valotti
Fannulloni si
diventa
Una cura per
una burocrazia malata
Milano: Ed. Università
Bocconi, Collana
Itinerari, 2009
pp. 160, € 15,00
EAN 9788883501494
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Indice del volume: Prefazione e ringraziamenti. 1. Campioni e fannulloni, ma il problema sta nel mezzo. Preludio.
Fannulloni si diventa. Ma il problema sta nel mezzo. Non
tutto il mondo è paese, ma bisogna conoscere il mondo.
2. Il triangolo delle Bermuda del dipendente pubblico. La
grande beffa. Il triangolo delle Bermuda. Anche responsabili si diventa. 3. Da burocrati a manager: una riforma a
metà. Metamorfosi di una classe dirigente. Ripartire dalle
fondamenta. Servi dello Stato, della politica o dei cittadini?
La fatica di gestire i collaboratori. 4. PA pride: un grande
progetto per una burocrazia malata. Un grande progetto,
che faccia sognare. Non accontentarsi dei medi. Riscoprire
il gusto del lavoro e allevare i talenti. Premiare, premiare, premiare: solo chi se lo merita. L’ importanza di farsi
giudicare. 5. La cura c’è, se il malato vuole curarsi. Amministrazioni con la pressione bassa: sui risultati. Agire sui
parametri vitali: ma quando un ente è in buona salute? I
«principi attivi» della modernizzazione: misurazione, trasparenza e meritocrazia. La cura (1): fare poche cose, con
le persone giuste, esposte alla concorrenza, vera o simulata che sia La cura (2): rivoluzionare i modelli organizzativi e gli organici. La cura (3): trasformare i burocrati
in manager. La cura (4): svecchiare il linguaggio e comunicare... all’ interno. La cura (5): il pubblico a braccetto
con il privato. La cura (6): più politica e meno politicizzazione. 6. E la prognosi? Resta riservata. All’orizzonte, una
nuova riforma. E se le riforme hanno dei limiti speriamo
nel management... quello buono. La prognosi? Resta riservat. Appendice. Uno sguardo sul mondo, di Nicola Bellè.
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Note per gli autori
Azienda Pubblica: note per gli autori
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referaggio e la pubblicazione
La pubblicazione di contributi su Azienda Pubblica avviene sulla base della seguente procedura:
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con lo scopo della rivista e i requisiti richiesti, li invia, assieme alla scheda di referaggio (vedi
allegato), in forma anonima a due dei referee ufficiali della Rivista e contestualmente richiede
l’impegno da parte degli Autori stessi a non proporre il contributo per altre pubblicazioni per
la durata di tutto il processo di valutazione.
3) Le osservazioni dei referee vengono inviate in forma anonima agli Autori con la richiesta
delle revisioni indicate.
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sottoposta agli stessi referee iniziali per un giudizio definitivo (o eventuale richiesta di ulteriore
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di appartenenza, 4) l’indicazione dell’autore che curerà la corrispondenza e il suo indirizzo
completo, 5) eventuali ringraziamenti.
La seconda pagina: deve contenere 1) il titolo, 2) l’abstract in italiano, in inglese e francese
(massimo 10 righe), 3) le parole chiave in italiano, inglese e francese (fino ad un massimo di
tre) e 4) il Sommario.
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Note per gli autori
Nella terza pagina: dopo la ripetizione del titolo, dovrebbe iniziare l’articolo.
La struttura del testo si articola in: Titolo del testo, Titoli numerati di Paragrafi (es. 1. Introduzione).
Non è prevista un’articolazione in sottoparagrafi (es. 1.1, 1.2, ecc.).
Sono invece ammessi “sottotitoli” in corsivo non numerati.
Si richiede il sommario iniziale.
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I contributi che si discostano in maniera significativa da questi standard non saranno ammessi
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La citazione nel testo prevede la seguente forma: (Rossi, 1997: pp. 345-347).
Per contributi con più di due autori, si usi la forma (Rossi et al. 1997: pp. 345-347).
Per citazioni multiple dello stesso autore e nello stesso anno, far seguire a, b, c, ecc. all’anno.
Nei riferimenti bibliografici, in coerenza con il sistema autore-data, i riferimenti devono essere
riportati a fine testo nella seguente forma:
Monografie
Brunetti G. (1979), Il controllo di gestione in condizioni ambientali perturbate, Milano: Franco Angeli.
Pubblicazioni con più autori
Bruns W.J., Kaplan R.S. (a cura di) (1987), Accounting and Management: Field Study Perspectives, Boston,
MA: Harvard Business School Press.
Saggi in pubblicazioni
Kaplan R.S. (1985), “Accounting lag: the obsolescence of cost accounting systems”, in K. Clark, C. Lorenze
(a cura di), Technology and Productivity: the Uneasy Alliance, Boston, MA: Harvard Business School Press,
pp. 195-226.
Articoli in riviste
Meneguzzo M., Della Piana B. (2002) “Knowledge management e p.a. Conciliare l’inconcilibaile?”, Azienda
pubblica, 4-5, pp. 489-512.
Rapporti/Atti
OECD (1999), Principle of corporate Governance, Paris: OECD.
Non pubblicati
Zito A. (1994), “Epistemic communities in European policy-making”, Ph.D. dissertation, Department of
Political Science, University of Pittsburgh.
Stile e forma: si richiede uno stile lineare e scorrevole e il testo inviato deve essere già stato
sottoposto al controllo ortografico.
È raccomandato l’utilizzo della forma impersonale.
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