La tassazione del commercio elettronico nei Paesi Ocse: i criteri e

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La tassazione del commercio elettronico nei Paesi Ocse: i criteri e
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Mauro Marè, Stefania Sperotto
La tassazione del commercio elettronico
nei Paesi Ocse:
i criteri e gli effetti sui sistemi fiscali
Negli ultimi anni si è assistito a un processo di crescente globalizzazione dei mercati che ha determinato importanti benefici sotto il profilo della crescita
Premessa
economica ma, al tempo stesso, anche diversi costi.
La progressiva integrazione dei mercati ha fatto
emergere un preciso vincolo – secondo alcuni una
vera e propria minaccia – alla capacità degli Stati nazionali – in particolare quelli dell’Unione Europea –
di percepire gettito dalle imposte che gravano su alcune basi imponibili particolarmente mobili e una riduzione dei gradi di libertà
degli Stati nel tassare le basi imponibili nazionali e nel costruire sistemi fiscali indipendenti. Negli ultimi anni i singoli Paesi, la Commissione Europea e l’Ocse
hanno perciò avviato uno sforzo di riflessione per rendere i sistemi tributari meno distorsivi e più consoni alla nuova realtà economica, che ha visto associarsi alla completa libertà dei capitali e all’accrescersi dei movimenti delle imprese e dei
consumatori sul piano internazionale la diffusione del commercio elettronico.
L’accresciuta interdipendenza delle economie, la libera circolazione di molte basi imponibili tradizionali, un tempo sostanzialmente nazionali, costringono gli
Stati nazionali ad individuare a livello internazionale una soluzione cooperativa,
a mettere in pratica modalità di tassazione coordinate e condivise sul piano applicativo. Altrimenti, l’effetto collaterale sarà la produzione di rilevanti spillover,
che potranno produrre rilevati distorsioni nei sistemi tributari e nel funzionamento delle rispettive economie.
Nel secondo paragrafo sono illustrate le implicazioni che lo sviluppo della new
economy e del commercio elettronico, con la conseguente crescita delle attività
economiche intraprese per il tramite di Internet, sta facendo emergere per i sistemi tributari nazionali e in particolare per quelli dell’Unione Europea. Si distingue
la differenza tra commercio elettronico “diretto” e “indiretto” e le differenti implicazioni che essi hanno per la stabilità e lo sviluppo dei sistemi tributari. Nel terzo paragrafo sono discusse le posizioni dei principali organismi ufficiali (Ocse,
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Imf): sono richiamati i principi di neutralità, efficienza ed equità più volte riaffermati in sede internazionale in materia di tassazione del commercio elettronico.
Nel quarto paragrafo è illustrata la situazione esistente negli Usa, dove la moratoria sulla tassazione del commercio elettronico, introdotta nel 1998, è stata estesa nel novembre del 2001 fino alla fine del 2003 e le implicazioni di questa situazione per il gettito delle imposte sulle vendite monofase e per la politica di tassazione dei diversi Stati e sui rapporti commerciali con l’Unione Europea. Nel
quinto paragrafo vengono discusse le modalità di tassazione del commercio elettronico nell’Unione Europea. Si affronta, in particolare, la questione delle implicazioni della tassazione del commercio elettronico per le imposte indirette e in
particolare per l’Iva europea. Sono discusse le implicazioni dell’adozione definitiva della recente Direttiva del maggio 2002. Nel sesto paragrafo sono brevemente discusse le possibili opzioni in sede comunitaria e illustrate alcune brevi osservazioni conclusive.
Lo sviluppo impetuoso del commercio elettronico è
stato senza dubbio uno dei fenomeni più rilevanti
della new economy degli ultimi anni. Questo svilupLa tassazione
po ha avuto effetti positivi e consistenti sulla crescidel commercio
ta economica, in particolare negli Usa. Al tempo steselettronico
so, esso ha avuto ed avrà in futuro rilevanti implicazioni sui sistemi fiscali, sulla loro sostenibilità, equità e capacità di produrre gettito. Come è stato osservato recentemente da Sheppard (1998) “the issue of
taxes and electronic commerce is the hottest topic in multistate taxation”. Una domanda interessante al riguardo è quella di chiedersi quanto dello sviluppo delle
vendite commerciali sia da attribuire all’esenzione sostanziale dall’imposizione
con cui ha operato finora il B2B (business-to-business) e il B2C (business-to-consumer) negli Usa. Ma vi sono altre domande forse più rilevanti: il commercio elettronico renderà sempre più difficile la tassazione delle diverse basi imponibili?
Quali saranno quelle che diverranno sempre meno tassabili? E quali saranno gli
effetti sulla tassazione delle altre basi imponibili? Quali effetti tutto ciò avrà sull’efficienza e sulla neutralità dei sistemi tributari? Il commercio tra stati ne sarà
influenzato in modo rilevante?
Lo spostamento delle attività tradizionali in transazioni e vendite realizzate per
il tramite di Internet potrà avere effetti rilevanti, in primo luogo, sul gettito derivante dalle imposte sulle vendite e dalle accise; in secondo luogo, esso influenzerà
anche la tassazione delle persone fisiche e delle imprese, per quanto concerne le imposte sui redditi; quindi, di riflesso ne potranno essere influenzati anche i livelli di
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spesa e la composizione di quest’ultima, con una possibile modifica del profilo redistributivo dell’azione dei governi.
Sono state avanzate diverse proposte in sede accademica1 e da parte delle organizzazioni internazionali2 per cercare di risolvere il problema della tassazione del
commercio elettronico. Tuttavia, la possibilità di raggiungere un accordo su questa
materia è fortemente limitata dalla diversità di impostazione e di approccio al problema che esiste tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e dalle difficoltà pratiche nel
definire e realizzare concretamente un’effettiva tassazione di questa forma di commercio.
Secondo l’Ocse il commercio elettronico comprende “tutte quelle categorie di
transazioni commerciali che coinvolgono sia organizzazioni sia individui, basate sul
trattamento e sulla trasmissione di informazioni digitalizzate e che includono testo,
suono, immagini”3. La Commissione Europea invece ha definito il commercio elettronico come “l’attività di contrattazione elettronica di beni e servizi, la distribuzione di contenuti digitali in rete, il trasferimento elettronico di fondi, azioni e polizze elettroniche, le aste commerciali in rete, i servizi post-vendita, gli appalti pubblici, le attività di vendita diretta al consumatore”4.
È innanzitutto importante distinguere tra le due forme di commercio elettronico
perché le regole di applicazione dell’imposta nei due casi divergono. Il commercio
elettronico “indiretto” si ha quando l’atto di vendita avviene on line ma la “consegna fisica del bene tra le parti segue i canali normali”: ovvero essa viene realizzata
per posta, per il tramite di un corriere privato, ecc. In questo caso il bene conserva
una sua “materialità” e “fisicità”, la transazione lascia più di una traccia che permette, almeno sul piano potenziale, di poter ricostruire l’entità della transazione e i
soggetti coinvolti.
Il commercio elettronico “diretto” invece si ha quando la transazione relativa al
pagamento viene effettuata ancora on line, ma “anche la consegna del bene avviene attraverso Internet”5. E questo il caso della compravendita di file musicali, tipo
MP3, oppure di e-books, di libri e documenti in formato elettronico, dell’acquisto
1 Si veda, ad esempio, tra i lavori più recenti, Hellerstein (1997), McLure (1997), Fox-Murray (1997),Goolsbee (1998), Goolsbee-Zittrain (1999), Soete (1999), Maguire (2000), Varian (2000), Goolsbee (2001), McLure
(2001), Yang Lester (2001), Nellen (2001), Cbo (2001), McLure (2002).
2 Si veda la bibliografia più avanti nel testo.
3 Ocse, Electronic commerce: the challenges to tax authorities and taxpayers, Turku, November 1997.
4 Commissione Europea, COM (97) 157.
5 Si noti che a rilevare non sono le modalità di pagamento – che naturalmente nel caso del commercio elettronico saranno prevalentemente on-line ma possono essere anche di tipo tradizionale, come il bonifico bancario, il
pagamento postale, ecc. – ma quelle di consegna del bene.
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di software e programmi che possono viaggiare ed essere consegnati all’acquirente
direttamente on line. In questo caso, la transazione non lascia traccia, eccetto forse
solo nei movimenti bancari – bonifico, pagamento tramite carta di credito, ecc. – ed
è molto difficile, se non impossibile, ricostruire l’entità della transazione e i soggetti
coinvolti.
Un’ulteriore utile distinzione è quella basata sulle relazioni che il commercio
elettronico può determinare tra consumatori, imprese e governo; una matrice (si veda tav. 1) descrive tutte le relazioni che la rete può implicare tra questi tre soggetti.
I casi più interessanti, sia per lo sviluppo del commercio elettronico, sia per le questioni di tassazione, sono naturalmente quelli del B2B e del B2C.
Secondo le previsioni effettuate dai principali istituti di ricerca, vi sarà una crescita molto forte per i primi due tipi di commercio elettronico. Il numero di utilizzatori di Internet, attualmente ampiamente superiore ai 200 milioni, si prevede che
possa superare i 500 milioni nei prossimi due anni. Il numero di host in grado di collegarsi a Internet nel mondo è passato da 4,5 milioni nel 1994 ad oltre 77 nel 20006.
Secondo la Forrester Research (2000), la key-board generation spingerà il volume
degli affari su Internet dai 5 miliardi di dollari del 1995 a più di 300 entro al fine
del 20017. Ora, queste previsioni portano a pensare che se lo sviluppo del commercio elettronico confermerà le previsioni, esso sarà fonte di importanti benefici per
le economie occidentali ma anche di problemi seri per i governi dell’Unione Europea e per la gestione dei sistemi tributari di questi Paesi.
La diffusione di Internet ha reso possibile la realizzazione di scambi commerciali sul piano nazionale e internazionale in tempo reale e in forma pressoché anonima; ciò ha reso molto complicata, se non del tutto impossibile, l’applicazione delle norme fiscali usate di solito nelle transazioni effettuate nei mercati tradizionali
anche al caso dell’e-commerce. Finora non si è riusciti a codificare una specifica ed
omogenea disciplina fiscale per le transazioni on line, e ciò comporta il rischio che
si producano concrete e rilevanti possibilità di evasione e di elusione fiscale, e con
esse perdite di gettito consistenti per le amministrazioni tributarie.
I principali ostacoli che si incontrano nell’estendere la normativa vigente al
commercio elettronico sono8:
a) la difficoltà di identificare il luogo effettivo di attività degli operatori coinvolti
nelle operazioni. La “delocalizzazione” non consente di individuare sempre e in
6 Un host è una macchina (Pc, server, ecc.) collegata alla rete e contraddistinta da un indirizzo di rete assegnato
univocamente.
7 Forrester Research (2000).
8 Si veda la discussione in Santoro (1999a, 1999b, 1999c, 2000).
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b)
c)
d)
e)
f)
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modo certo la sede delle attività commerciali e il luogo in cui avviene l’atto di
consumo finale9;
la difficoltà di identificare il titolare di un sito web e quindi gli operatori economici;
la dematerializzazione di molti beni per la loro trasformazione in informazioni
digitali;
la disintermediazione finanziaria, che permette un rapporto diretto tra utente e
fornitore. Ciò fa venire meno per l’amministrazione finanziaria i c.d. punti fiscali (taxation points) che hanno un ruolo cruciale nella riscossione delle imposte;
le difficoltà e spesso l’impossibilità di osservare l’obbligo fiscale di registrazione sui libri e scritture contabili;
la diffusione dei pagamenti elettronici, che permette lo spostamento di fondi e
l’effettuazione di investimenti finanziari on line, garantendo un elevato anonimato10.
L’Ocse, l’Unione Europea e la Wto hanno sempre manifestato una posizione comune affermando che il
commercio elettronico dovrebbe essere libero di proLa posizione delle
sperare e di svilupparsi, senza essere ostacolato da fororganizzazioni
me distorsive o inopportune di tassazione. Una posiinternazionali
zione comune è stata anche espressa contro le proposte di recente formulate per introdurre forme specifiche di tassazione delle transazioni sulla rete – bit tax –
e dei beni ad essa collegati (tassazione dei modem,
delle linee telefoniche dedicate ai server, ecc.).
Tuttavia, anche se sul piano dei principi questa posizione è condivisa dai governi occidentali, a preoccupare è la possibilità che lo sviluppo del commercio elettronico possa arrecare danni gravissimi ai sistemi fiscali e quindi ai bilanci statali; perciò, è stata avviata una riflessione per monitorare le conseguenze dello sviluppo del
commercio elettronico sulle principali forme di imposizione e per appurare se non
sia opportuna una qualche forma di adattamento delle forme tradizionali di tassazione alle nuove attività commerciali realizzate su Internet.
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9 Non è possibile, inoltre, risalire alla residenza fiscale degli operatori in base alla registrazione dei siti web,
potendo avvenire quest’ultima in un luogo completamente diverso da quello in cui è svolta l’attività economica. Di
solito, le aziende di piccole dimensioni non hanno un server personale, né l’uso di una connessione riservata con
un provider; esse di solito ricorrono all’hosting, ovvero all’affitto di uno spazio sul disco di un server, nel quale sono presenti altri operatori.
10 Recentemente l’Economist ha rappresentato questa situazione parlando di un vanishing taxpayer.
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I lavori svolti dall’Ocse costituiscono un importante punto di riferimento nella
definizione di principi internazionalmente validi da un punto di vista economico e
condivisi dalle diverse autorità fiscali nazionali cui improntare la disciplina fiscale
del commercio elettronico. Tali lavori hanno portato a tre importanti conferenze internazionali:
– la Conferenza di Turku (novembre 1997), dedicata a smantellare le barriere del
commercio elettronico globale;
– la Conferenza di Ottawa (ottobre 1998), su “Un mondo senza frontiere: realizzare le potenzialità del Commercio Elettronico”;
– la Conferenza di Parigi (ottobre 1999).
Nell’incontro di Turku, il Fiscal Affairs Committee (Fac)11, prendendo in considerazione la natura globale di Internet, le enormi opportunità offerte dalla rete e la
velocità dei cambiamenti tecnologici, ha invitato i governi dei diversi Stati ad agire
con cautela e soprattutto ad individuare principi di tassazione internazionalmente accettati12 che siano in grado di garantire la “neutralità fiscale” del commercio elettronico. La conclusione più importante a cui si è giunti nel corso di tale incontro è la
decisione di adattare gli strumenti tributari esistenti al nuovo contesto del commercio elettronico anziché introdurre nuove forme d’imposizione, almeno fino a quando
la struttura degli scambi sulla rete non avrà assunto connotati più definiti.
Nel corso della successiva conferenza di Ottawa, i rappresentanti dei diversi Stati e delle varie organizzazioni internazionali, tanto del mondo imprenditoriale quanto dei consumatori, dopo aver descritto il commercio elettronico come uno dei più
importanti eventi economici del XXI secolo, in grado di migliorare notevolmente la
qualità della vita individuale, di accrescere il benessere economico e di stimolare
l’occupazione, hanno attribuito alle autorità fiscali un ruolo chiave nell’assicurare
che queste potenzialità siano realizzate; a tal fine si è ribadita la necessità di un approccio coordinato a livello internazionale e di una collaborazione tra governi e settore privato per creare un ambiente stabile e trasparente.
I rappresentanti dei Paesi membri hanno manifestato un ampio consenso sulle linee guida elaborate dall’Ocse ed espresse nel Rapporto Electronic Commerce: Taxation Framework Conditions, approvato dal Comitato degli Affari Fiscali il 30 giugno del 1998.
Il Fac ha individuato innanzitutto i principi generali di tassazione che dovrebbero essere applicati al commercio elettronico:
11
Il Fac è formato dai rappresentanti delle Amministrazioni fiscali dei diversi Stati membri dell’Ocse.
“Lets learn more about how the net functions and lets discuss the issues in such international fora as the
Oecd before taking any actions”; questa frase riassume in modo chiaro la posizione del Cfa in materia di commercio elettronico.
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– neutralità: il sistema fiscale deve garantire una tassazione omogenea tra le diverse forme di commercio elettronico e tra queste e le forme tradizionali di commercio allo scopo di applicare ai contribuenti che operano in condizioni similari i medesimi livelli d’imposizione; in tal modo le scelte economiche sarebbero
motivate da calcoli di convenienza economica piuttosto che da considerazioni fiscali;
– efficienza: i costi di adempimento tributario e quelli amministrativi devono essere ridotti al minimo; inoltre, le nuove tecnologie devono essere sfruttate per
rendere più efficaci i controlli;
– certezza e semplicità: le regole dovranno essere chiare e di facile comprensione,
dovranno consentire ai contribuenti di anticipare le conseguenze che potrebbero
derivare dalle operazioni poste in essere (con riferimento al dove, come e quando pagare le imposte);
– efficacia ed eguaglianza: il rischio di evasioni e le possibilità di frode devono
essere minimizzati; bisogna, inoltre, garantire un adeguato riparto delle basi imponibili tra Paesi;
– flessibilità: i sistemi fiscali dovranno essere in grado di adattarsi in modo dinamico alle nuove forme di scambio seguendone l’evoluzione tecnologica e commerciale.
Nell’ambito specifico delle imposte sui consumi, il Rapporto sopra citato ribadisce le conclusioni della Commissione Europea contenute nella COM(98)374, ovvero a) il no a nuove imposte, e quindi l’applicazione della normativa attuale; b) l’equiparazione delle cessioni virtuali alle prestazioni di servizi. Dal Rapporto non
emerge la volontà di precludere qualsiasi forma di cambiamento delle strutture legislative e amministrative esistenti ma piuttosto la necessità di procedere a un loro
adattamento, tenendo conto delle peculiarità del commercio elettronico e, soprattutto, senza determinare nei confronti di quest’ultimo una forma di tassazione discriminatoria. Più in generale, si evidenzia l’opportunità di un’intensa collaborazione tra le amministrazioni finanziarie allo scopo di rivedere la normativa in tema di
imposta sul valore aggiunto, per consentire che tutte le cessioni telematiche siano
tassate nel luogo in cui avviene l’atto di consumo finale.
Tale aspetto è stato ripreso e approfondito nel corso della Conferenza di Parigi.
In questa occasione si è nuovamente evidenziata l’importanza di un intervento globale nel campo della tassazione del commercio elettronico per consentire che Internet sia una tax neutral zone anziché una tax free zone e che “the cyberspace should
not become the tax haven of the new millennium”13. I governi hanno un comune interesse, come anche le imprese e i consumatori affinché le regole pensate per il
13
Ocse (1999).
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commercio elettronico siano chiare, prevedibili e coerenti e soprattutto che siano il
più possibile simili per ciò che concerne l’ambito di applicazione e gli effetti economici a quelle pensate per il commercio tradizionale.
A seguito della conclusione della Conferenza di Ottawa il Working Party No. 9
(Consumption Taxes) ha definito un programma di lavoro sugli aspetti della fiscalità indiretta concernenti il commercio elettronico. Esso ha da un lato demandato l’analisi delle problematiche concernenti il commercio elettronico a un sottogruppo
appositamente creato (sub-group on electronic commerce); dall’altro, si è avvalso
dell’importante contributo di due Technical Advisory Groups (Tags), il Consumption Tax Tag14 (Ct Tag) e il Technology Tag. Il sub-group sul commercio elettronico, le cui considerazioni sono descritte in un rapporto presentato al Fac nel febbraio
del 2001, si è occupato in modo approfondito di tre fondamentali aspetti:
a) la concreta applicazione del principio di tassazione nel luogo di consumo;
b) la disamina delle differenti strutture tecnico-amministrative disponibili per garantire efficienti meccanismi di prelievo del gettito;
c) la necessità di un approccio coordinato a livello internazionale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si ritiene che solo un’applicazione generalizzata del “principio di destinazione” possa garantire la desiderata neutralità dell’imposta sui consumi tra le diverse forme di commercio e possa generare certezza nell’applicazione dell’imposta, impedendo fenomeni di double taxation o di unintentional non-taxation”15. La novità principale riguarda l’estensione dell’applicazione
di questo principio nei confronti degli scambi che hanno per oggetto servizi e beni
intangibili (cosiddetto commercio elettronico diretto), per i quali la conferenza di
Ottawa aveva previsto l’equiparazione a prestazioni di servizi e, quindi, la tassazione nel Paese di residenza del prestatore. Tale conclusione solleva però importanti
quanto complessi interrogativi, ai quali, in parte, si è cercato di fornire una risposta
con la predisposizione di apposite Guidelines per l’implementazione del principio
di tassazione nel luogo di consumo16. Mentre per i beni consegnati materialmente è
solitamente possibile definire il luogo di residenza dell’acquirente individuando il
luogo in cui vengono consegnati i beni, questo non è possibile per i beni o servizi17
14 Il Ct Tag è composto da rappresentanti dei governi delle nazioni partecipanti e non all’Ocse e da rappresentanti di alcune importanti imprese. La componente business assume un ruolo fondamentale nell’individuare le
priorità e, contemporaneamente, le principali preoccupazioni del settore privato.
15 Working Party no. 9 (2001).
16 Si tratta delle Guidelines on the definition of the place of consumption for consumption taxation of crossborder services and intangibile property.
17 Si considerano naturalmente quelli che il WP9 definisce intangible services (quali i servizi di telecomunicazione, bancari, finanziari, ecc.), distinti dai tangible services (trasporto, costruzioni, ristoranti, ecc.) per i quali è
molto più semplice identificare il luogo in cui sono prestati e consumati.
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trasmessi in forma digitale, per i quali non esiste o non è facilmente individuabile
un luogo fisico di consegna. Naturalmente, la natura globale di Internet, cui si aggiunge l’elevata mobilità della popolazione, rende impossibile applicare un modello puro di tassazione nel luogo di consumo e a tal fine si evidenzia la necessità di
individuare concetti meno rigorosi ma più pratici sotto il profilo operativo.
Per le transazioni B2B il WP9 ha proposto la tassazione nella giurisdizione in cui
l’impresa acquirente ha localizzato la sua business presence (vale a dire dove risiede la sede centrale, una delle filiali, o dove si hanno uffici registrati); il Ct Tag si è
mostrato concorde con tale pratica sottolineando l’importanza del contratto nella definizione del luogo d’imposizione. Molto più complessa è la situazione per le transazioni di tipo B2C dove il luogo d’imposizione viene identificato con il luogo di residenza abituale del consumatore. Le difficoltà naturalmente riguardano l’applicazione pratica del principio, ossia l’identificazione di tale luogo; in molti casi, infatti,
gli unici strumenti di cui si dispone sono le informazioni fornite dagli acquirenti nel
corso della transazione senza che siano disponibili, da parte delle autorità fiscali o
delle stesse imprese, mezzi per verificare la veridicità delle stesse. A ciò si aggiunge
che in molti casi al cliente non viene richiesto di fornire informazioni di natura personale, che potrebbero essere irrilevanti ai fini dello scambio; per di più una maggiore richiesta di informazioni potrebbe toccare il problema, per il quale si evidenzia
una certa sensibilità da parte del consumatore, della tutela della privacy e potrebbe
conseguentemente disincentivare l’acquisto on line.
Il Technology Tag ha evidenziato che allo stato attuale, la tecnologia non è in
grado di fornire soluzioni soddisfacenti ai problemi evidenziati; strumenti quali certificati digitali o smart card e, più in generale, gli strumenti forniti dall’innovazione saranno disponibili solo nel medio-lungo termine18. Il Working Party non ritiene
però preoccupante l’indisponibilità di strumenti ottimali nel breve periodo, date le
ridotte dimensioni del settore B2B sul totale dell’e-commerce e ritiene che in tale
contesto la risposta delle autorità fiscali debba essere proporzionata alla dimensione del problema.
Strettamente collegata è la questione della predisposizione di adeguati meccanismi di amministrazione e raccolta delle imposte sui consumi. Il WP9 ha focalizzato la propria attenzione su alcuni meccanismi di raccolta tipo self-assesment o reverse charge, registrazione per imprese non residenti, tassazione alla fonte con relativi trasferimenti, raccolta mediante trusted third party e ha tentato di fornirne
un’analisi in termini di fattibilità ed efficacia e di illustrare le implicazioni per le
amministrazioni fiscali e i contribuenti. Per le transazioni di tipo B2B, sia il WP9
18 Va di per sé che anche questi strumenti, come è noto, sono largamente imperfetti e si prestano ad operazioni di frode e di falsificazione, come mostrato recentemente, e che quindi possono essere utilizzati strategicamente
dai consumatori e dalle imprese per nascondere la vera residenza fiscale o altri dati richiesti dai governi nazionali.
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che il Ct Tag, ritengono che l’opzione preferibile sia la prima, ossia un meccanismo
del tipo self-assesment/reverse charge in base al quale l’impresa acquirente dovrebbe calcolare l’imposta dovuta su ciascun acquisto e versarla all’autorità fiscale
nazionale; questo strumento consentirebbe di proteggere il gettito fiscale e la competitività dei produttori nazionali dalle possibili conseguenze negative derivanti dall’acquisto di beni digitali da fornitori al di fuori dell’Ue. Naturalmente l’applicazione di questo modello alle transazioni B2C risulterebbe del tutto inefficace: non
avendo diritto ad alcuna forma di detrazione dell’imposta assolta il consumatore finale non avrebbe alcuna convenienza a dichiarare l’acquisto effettuato. Almeno fin
quando non saranno disponibili strumenti tecnologicamente evoluti il WP9, in linea
con la posizione espressa dalla Commissione Europea nella Comunicazione del giugno 2000, ha proposto un sistema semplificato di registrazione per le imprese non
residenti; la previsione di soglie minime di esenzione dovrebbe consentire di ridurre al minimo i costi di compliance per le imprese di piccole e medie dimensioni.
L’Ocse auspica in conclusione una soluzione cooperativa. Infatti, la vocazione
transfrontaliera dell’e-commerce e il suo carattere immateriale rendono indispensabile che la relativa disciplina fiscale sia il frutto di un accordo internazionalmente
condiviso; solo un approccio coordinato a tali problematiche potrà consentire di superare gli ostacoli di ordine tecnico e operativo che potrebbero tradursi in nuove opportunità di evasione ed elusione delle imposte.
Il confronto tra l’Europa e gli Stati Uniti sulla necessità di regolamentazione dei principali aspetti del commercio elettronico, soprattutto in tema di tassazione
La tassazione
indiretta, oltre a riflettere la notevole portata degli indel commercio elettronico
teressi in gioco evidenzia le profonde differenze nelle
negli Usa
strutture impositive e, più in generale, nell’impostazione della politica fiscale nelle due aree. Mentre l’Europa nutre una forte preoccupazione nei confronti di
un aumento dei consumi elettronici non accompagnato da adeguate entrate fiscali e ha compiuto una chiara scelta nei confronti della tassazione del commercio elettronico, gli Stati Uniti considerano, almeno finora, la
perdita di gettito derivante dall’esenzione delle operazioni on line un elemento non
molto rilevante e nel complesso sopportabile dal bilancio degli stati.
Nel primo Rapporto predisposto dal Dipartimento del Tesoro americano, Selected Tax Policy Implications of Global Electronic Commerce (novembre 1996), si sono sottolineati i rischi di conflitti tra le diverse amministrazioni fiscali in presenza
di transazioni transfrontaliere realizzate con le nuove tecnologie e si individua nella “neutralità fiscale”, ossia nell’eliminazione di ogni forma di trattamento discri-
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minatorio a svantaggio degli operatori di e-commerce, il requisito fondamentale per
garantire lo sviluppo del commercio elettronico in tutte le sue potenzialità.
Nel 1997 il Governo statunitense attraverso un secondo documento, Framework
for Global Electronic Commerce, considerando la possibilità di creare attraverso Internet un mercato nuovo, privo di confini geografici e politici, ha proposto di applicare al commercio elettronico esclusivamente la legislazione fiscale tradizionale
e di rendere le transazioni effettuate interamente in rete, che rispondono a certi requisiti, una zona sostanzialmente tax-free.
L’intervento più significativo si è avuto però con l’emanazione da parte del Congresso americano dell’Internet Tax Freedom Act (Ifta)19, approvato il 21 ottobre
1998. Allo scopo di evitare che un intervento affrettato e non coordinato da parte
degli Stati e delle amministrazioni locali per tassare e regolamentare Internet “potesse strangolare questa industria ancora in fasce” si è disposta una moratoria fiscale di tre anni, in base alla quale nessuna imposta può essere introdotta fino al 21 ottobre 2001 su Internet e sulle transazioni on line. Nelle intenzioni del Congresso
questo arco temporale avrebbe dovuto consentire agli esperti di studiare a fondo le
problematiche inerenti alla tassazione dell’e-commerce allo scopo di formulare
un’idonea disciplina; a tal fine è stata istituita un’apposita commissione, l’Advisory
Commission on Electronic Commerce (Acec), con il compito di formulare raccomandazioni (da approvarsi con una maggioranza dei due terzi dei membri) e consegnare un rapporto al Congresso entro 18 mesi. I 19 membri della Commissione,
costituita da delegati degli Stati, del governo federale e da rappresentanti dell’industria elettronica hanno discusso in varie occasioni dell’argomento, ma non sono stati in grado di raggiungere la necessaria maggioranza qualificata sulle questioni più
rilevanti. Da un lato, i rappresentanti degli Stati, temendo un‘eccessiva contrazione
dei propri gettiti, hanno fatto pressioni per ottenere il diritto di tassare le vendite in
rete; dall’altro, i rappresentanti dei settori commerciali e del governo federale volevano limitare significativamente il diritto degli enti locali di imporre tasse sulla rete20.
La tassazione dei consumi negli Usa, com’è noto, viene realizzata mediante
un’imposta monofase al dettaglio, la Retail Sales Tax, gestita in modo completamente autonomo dagli Stati. La base imponibile di tale imposta è costituita essen-
19
U.S. House of Representatives (1997).
Tra le raccomandazioni proposte dall’Acec quella più radicale suggerisce una ristrutturazione totale delle
imposte sulle vendite con l’introduzione di una politica fiscale unitaria e con l’adozione di un codice tributario
uniforme; una proposta collegata alla precedente invita invece il Congresso a chiarire la nozione di nesso applicabile al commercio on line. Altre iniziative mostrano invece una presa di posizione più business-oriented auspicando un prolungamento della moratoria e una completa eliminazione di ogni forma di tassazione riguardante Internet (eliminazione delle tasse di accesso oltre che dei dazi e degli oneri fiscali sulle transazioni elettroniche internazionali).
20
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zialmente dalle cessioni di beni materiali realizzate nei confronti di consumatori finali all’interno degli Stati, con esclusione pressoché totale di beni immateriali e servizi; le vendite remote, effettuate cioè da operatori non residenti, sono invece colpite dalla Use Tax, identica alla Sales Tax nelle aliquote e nella base imponibile.
Attraverso la Use Tax, pertanto, i venditori non residenti hanno l’onere di riscuotere l’imposta per conto dell’amministrazione finanziaria dello Stato di residenza del consumatore finale; l’ipotesi più rilevante di applicazione di tale imposta
è costituita dalle vendite per corrispondenza realizzate da società di mail order. La
tassazione di queste vendite ha sollevato negli Stati Uniti un acceso dibattito ed è
stata oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali, i quali hanno subordinato il
diritto degli Stati americani di tassare gli acquisti interstatali effettuati nel proprio
territorio all’esistenza di un nexus, ossia di una presenza fisica della società di mail
order nello Stato d’imposizione.
Alla luce di queste considerazioni emerge chiaramente che la disciplina Usa consente la tassazione di un numero piuttosto limitato di transazioni elettroniche. Avendo per oggetto le due citate imposte fondamentalmente beni materiali, le operazioni di commercio elettronico on line sono automaticamente esentate; ma anche nel
caso di cessioni off-line, assimilabili sotto molti aspetti a vendite per corrispondenza, si è in grado di colpire quasi esclusivamente le operazioni realizzate in ambito
locale, per la difficoltà, e spesso l’impossibilità, di adattare il concetto di “nesso”
alla realtà del commercio elettronico. Di fatto, quindi, la maggior parte delle transazioni elettroniche si sottrae tanto alla Sales Tax che alla Use Tax.
Negli Usa, l’Internet Tax Freedom Act approvato dal Congresso nel 1998 ha di
fatto creato, attraverso la moratoria delle imposte sulle vendite on line, l’esenzione
delle transazioni basate sull’e-commerce tra i diversi Stati; essa è stata estesa alla
fine dello scorso anno fino alla fine del 2003 e vi sono già forti pressioni affinché
essa sia ulteriormente estesa al 2006. Un bene venduto tramite un brick and mortar
store sopporta la sales tax; se invece è ceduto attraverso Internet ad un individuo o
a un’impresa residente in un altro Stato, la sua vendita è esente da imposizione, eccetto il caso in cui il venditore abbia una presenza fisica, un nexus nel territorio dello Stato in questione (è, ad esempio, il caso di Wal-Mart presente in quasi tutti gli
stati americani).
Ricapitolando, la legge americana in materia di sales tax assimila i beni venduti per il tramite di Internet alle vendite mediante catalogo, cioè per corrispondenza.
Ogni società che non abbia una presenza fisica in uno Stato – un nexus – è di fatto
esentata dalla riscossione della sales tax sulle vendite a un consumatore residente in
quello Stato come anche della use tax.
A titolo di esempio, se un consumatore residente nello stato di New York compra un bene (un libro, un c.d) da Amazon.com (da un’impresa situata in un altro Stato, in questo caso nello stato di Washington), lo Stato di New York non può obbli-
LA TASSAZIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO NEI PAESI OCSE
183
gare l’impresa che ha venduto (Amazon.com) a riscuotere l’imposta sulle vendite
se questa non ha un nexus nello stato di New York. Il consumatore in teoria sarebbe obbligato a versare nelle casse dello stato di New York la use tax, ma a questo
fine lo Stato può solo contare sulla buona fede e sul self-reporting del consumatore. Di fatto, l’applicazione dell’imposta non avrà luogo, eccetto che in alcuni casi
particolari come quello delle autovetture che devono essere registrate nello Stato di
residenza del consumatore.
La problematica della tassazione dei beni oggetto di commercio elettronico indiretto acquista ben maggiore rilevanza quando i beni oggetto di commercio e di
scambio sono gravati da imposte specifiche come, ad esempio, nel caso delle bevande alcoliche. Infatti, come di recente è emerso con forza da alcune analisi effettuate in alcuni Stati americani, in questo caso le implicazioni di gettito sembrano essere molto più rilevanti e le possibili distorsioni commerciali tra Stati e industriali
molto più estese e preoccupanti. In alcuni Stati è stato documentato, ad esempio,
che negli ultimi 3 anni le vendite di tabacco effettuate on line sono state in grado di
compromettere oltre al gettito delle imposte sulle vendite anche quello delle accise,
con evidenti effetti sulle finanze degli Stati e sulla neutralità dei loro sistemi tributari.
L’Unione Europea ha preso negli ultimi anni diverse
volte posizione con comunicazioni ufficiali. In alcuni
diversi documenti (COM, 1997; COM, 1998; COM,
La tassazione
2000) negli anni recenti essa ha ribadito, in conformidel commercio elettronico
tà alla posizione Ocse, che lo sviluppo di Internet non
nell’Unione Europea
dovrebbe implicare l’introduzione di nuove imposte.
Nei documenti v’è innanzitutto la preoccupazione di
non ostacolare lo sviluppo del commercio elettronico,
che potrebbe arrecare all’Europa importanti benefici
sul piano dell’integrazione comunitaria e della crescita economica. Consapevole di
trovarsi di fronte a un fenomeno nuovo e in piena espansione, la Commissione si è
interrogata in merito alle possibili conseguenze del commercio elettronico sui sistemi fiscali degli Stati membri e ha concentrato l’attenzione, oltre che sulla tassazione diretta, soprattutto sulle questioni concernenti l’imposizione indiretta, con
particolare riferimento all’imposta sul valore aggiunto (Iva).
L’Ue ha ribadito che le norme di regolamentazione del commercio elettronico
dovranno essere funzionali al conseguimento di due obiettivi essenziali: a) da una
parte quello di creare fiducia nelle transazioni, rendendo certe e sicure le operazioni che avvengono per via telematica. Tanto i consumatori quanto le imprese dovranno poter disporre di sistemi con i quali mettersi al riparo da inadempimenti con-
5
184
MAURO MARÈ, STEFANIA SPEROTTO
trattuali o comportamenti sleali; appaiono perciò opportuni dei meccanismi che garantiscano un’adeguata sicurezza in merito all’identità degli operatori economici,
all’integrità delle informazioni fornite, all‘affidabilità dei pagamenti e più in generale a tutti gli aspetti connessi all‘esecuzione dei contratti a distanza; b) inoltre, queste norme dovranno rispettare i principi del mercato unico, impedendo cioè che gli
Stati rispondano in modo differenziato alle sfide poste dal commercio elettronico e
quindi producano delle distorsioni al funzionamento del mercato unico. Sul piano
più strettamente tributario, si è affermato nei vari documenti l’importanza che i sistemi fiscali siano improntati al principio della certezza – con oneri fiscali chiari,
trasparenti, prevedibili – e a quello della neutralità, evitando l’introduzione di discriminazioni di trattamento rispetto alle forme di commercio tradizionali. La posizione della Commissione a tal riguardo è molto netta: essa afferma che il commercio elettronico è “a pieno titolo soggetto all’Iva”.
In questi primi documenti, dopo avere affermato in modo chiaro di essere contraria all’introduzione di nuove imposte, l’Ue ha ribadito che l’Iva si applica a tutte le cessioni di beni e prestazioni di servizi destinate al consumo all’interno della
Comunità, “indipendentemente dai mezzi di comunicazione o dalle forme di commercio utilizzate per effettuare tali operazioni”21 e che il trattamento delle transazioni on line deve essere quello di una prestazione di servizi. Tutti i casi di commercio elettronico diretto, che abbiano per oggetto un bene virtuale o un servizio in
senso stretto, devono essere considerati fiscalmente alla stregua di servizi22; ciò
comporta come regola generale la tassazione di siffatte operazioni nel Paese di residenza del prestatore, oltre alla non assoggettabilità delle stesse alle imposte doganali. Questa normativa ha generato una situazione per cui, di fatto, la maggior parte dei servizi prestati a committenti europei da operatori extraeuropei non assoggettati a imposta non viene tassata; contemporaneamente, le stesse prestazioni fornite da operatori europei sono soggette ad imposta, a prescindere dalla residenza dei
destinatari.
Può essere utile richiamare brevemente i criteri stabiliti in sede comunitaria per
la determinazione della territorialità delle operazioni imponibili; il punto di riferimento a livello normativo è rappresentato dalla VI Direttiva comunitaria (388/77),
tenuto conto delle modifiche introdotte dalle Direttive 680/91 e 77/92 in occasione
dell’introduzione del regime transitorio. In base a questa disciplina è possibile distinguere tra:
21
COM (98) 374.
La Commissione stabilisce, infatti, che “un’operazione il cui risultato è che un prodotto viene messo a disposizione del destinatario in forma digitale per il tramite di una rete elettronica va trattata, ai fini Iva, come una
prestazione di servizi” COM (98).
22
LA TASSAZIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO NEI PAESI OCSE
185
1) cessioni intracomunitarie di beni, ossia realizzate tra soggetti residenti all’interno dell’Unione Europea. In questo caso è necessario introdurre un‘ulteriore distinzione:
1.1) se il cessionario è soggetto passivo d’imposta la cessione si considera effettuata nello Stato dell’acquirente (art. 8 e 28ter);
1.2) se invece l’acquirente è persona fisica, ma non soggetto passivo d’imposta,
vengono applicate le disposizioni relative alle cessioni a distanza, in base a
catalogo, per corrispondenza e simili. In questo caso diventa rilevante il fatturato conseguito dal venditore nel corso dell’anno civile nel Paese di destinazione. L’art. 28ter individua un massimale pari al controvalore in valuta nazionale di 100.000 Euro (che gli Stati hanno la facoltà di ridurre a
35.000 Euro nell’ipotesi in cui temano che il limite più elevato possa provocare distorsioni alla concorrenza), superato il quale la transazione diventa imponibile nel Paese di destinazione, con il conseguente vincolo della
nomina di un rappresentante fiscale in tale Paese. Nell’ipotesi in cui il massimale non sia superato, o che comunque il cedente non abbia optato per la
registrazione, l’Iva è dovuta nel Paese di origine;
2) prestazioni di servizi. In questo caso l’art 9 prevede, come regola generale, la
tassazione dell’operazione nel Paese di residenza del prestatore (ossia nel luogo
in cui questi abbia fissato la sede della propria attività economica o un centro di
attività stabile23). Il punto 2 lettera e) del medesimo articolo tuttavia prevede eccezioni per alcune categorie di operazioni, quali: le concessioni di diritti d’autore, brevetti e licenze, i servizi bancari, finanziari e assicurativi, i servizi di telecomunicazione, ecc...; quando tali prestazioni sono rese a destinatari stabiliti
fuori della Comunità o a soggetti passivi residenti nell’Unione ma in un Paese
diverso da quello del prestatore, si considerano imponibili nel Paese del committente;
3) importazioni e esportazioni di beni. In questi casi si applica a tutti gli effetti il
principio di destinazione. Di conseguenza le esportazioni sono zero-rated, mentre l’Iva sulle importazioni viene versata da parte del primo importatore.
Perciò in Europa, qualsiasi cosa venduta per il tramite di Internet, compresi i libri, la musica, i software, ecc., è stata fino a qualche mese fa considerata come un
servizio. In base alla Direttiva Iva, i servizi devono essere tassati nel Paese dove risiede il venditore e non in quello dove risiede il consumatore. Quindi, qualsiasi vendita tra residenti in Europa è soggetta, almeno sul piano legale, all’Iva.
Questa soluzione ha creato due ordini di problemi: in primo luogo, essa ha, in un
certo senso, snaturato la natura stessa dell’Iva, che è e resta un’imposta sui consu-
23
Tale concetto in realtà non è mai stato precisato in sede europea.
186
MAURO MARÈ, STEFANIA SPEROTTO
mi delle famiglie, in base alla quale ad essere tassato deve essere il consumatore finale che ne sopporta l’onere. Inoltre, il gettito dell’imposizione dovrebbe affluire
nelle casse dello Stato nel quale risiede il consumatore – dove per l’appunto si verifica l’atto di consumo finale – e non in quelle del Paese dove risiede il venditore.
La tassazione delle vendite on-line realizzata secondo il luogo di residenza dell’operatore, si avvicina al principio di origine e si allontana da quello di destinazione,
di fatto assomiglia a una forma di imposizione sulla produzione, non sui consumi.
In secondo luogo, questa situazione ha creato una delicata asimmetria tra vendite all’interno di un Paese, vendite intracomunitarie e vendite a Paesi non Ue. A titolo di esempio, se un individuo compra un libro da Amazon.fr paga l’Iva; se invece compra il libro da Amazon.com, basata nello Stato di Washington negli Stati
Uniti, questa vendita è esente da imposizione. Ciò pone l’Europa in una situazione
chiaramente di svantaggio nei confronti, non solo dei paradisi fiscali, ma anche dei
nostri partner commerciali d’oltreoceano. L’attuale disciplina fiscale recente ha determinato una situazione per cui, di fatto, la maggior parte delle prestazioni fornite
da prestatori extraeuropei a committenti non soggetti passivi d’imposta non è soggetta a tassazione, una soluzione suggerita dalle difficoltà pratiche connesse alla
rintracciabilità di tali operazioni oltre che dalla scarsa rilevanza assunta dalle stesse in un primo momento. Questa situazione è per certi versi monitorabile se la vendita riguarda beni fisici (commercio elettronico indiretto), che inevitabilmente lasciano qualche traccia (ad esempio nei movimenti postali e dei corrieri) e sui quali
quindi potrebbero essere escogitate misure ad hoc; essa diventa molto difficile da
gestire se l’acquisto concerne invece prodotti digitali, come e-books, software, file
MP3, ecc., dove non v’è di fatto consegna fisica.
Nel giugno 2001, la Commissione Europea ha avanzato una proposta di Direttiva per cercare di ovviare a queste asimmetrie. Essa prevedeva che le imprese Usa
(con un fatturato superiore ai 100.000 Euro) per operare in Europa debbano registrarsi almeno in uno Stato membro e pagare in questo stato l’imposta sulle vendite. La proposta ha suscitato vivaci reazioni negli Usa, in particolare da parte del Department of Commerce che ha sostenuto come essa sia distorsiva per il commercio
internazionale e lesiva degli interessi americani. Essa sembra presentare difficoltà
di applicazione ed evidenti costi di compliance per le imprese. La critica principale riguarda il fatto che le misure proposte costringerebbero le aziende straniere a diventare esattrici di imposte per i Paesi dell’Unione; l’amministrazione Clinton, attraverso l’allora vice-ministro del Tesoro, Stuart E. Eizenstat, manifestò, inoltre,
“serie riserve” nei confronti delle modalità di attuazione delle misure proposte, accusate di provocare oneri eccessivi soprattutto per le aziende di piccole dimensioni.
Oltre alle reazioni americane, vi sono le difficoltà di applicazione europee. Infatti, è evidente che le imprese Usa non sarebbero neutrali nella scelta del Paese europeo nel quale effettuare la registrazione e potrebbero essere guidate dal livello
LA TASSAZIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO NEI PAESI OCSE
187
delle aliquote e dai diversi sistemi tributari nazionali, che potrebbe scatenare forme
di tax competition tra i diversi Governi. Inoltre, l’imposta sui consumi verrebbe ad
essere versata nel Paese di residenza scelto dall’impresa Usa che non è evidentemente, nella maggior parte dei casi, quello in cui si verifica l’atto di consumo finale. Lo spostamento di attività tradizionali di vendita in cessioni per il tramite di Internet potrà avere effetti rilevanti sul gettito derivante dalle imposte sulle vendite;
quindi anche la tassazione delle altre basi imponibili ne potrà essere in una certa misura influenzata.
Il mantenimento dell’attuale disciplina si tradurrebbe in un duplice svantaggio
competitivo24 nei confronti degli operatori europei: questi, infatti, sono tenuti ad applicare l’Iva oltre che alle proprie prestazioni destinate al consumo all’interno della Comunità, anche sui servizi prestati ai Paesi esterni all’Ue; contemporaneamente, le medesime prestazioni fornite da Paesi esteri e dirette all’interno dell’Unione
non sarebbero soggette all’imposta.
I consumatori pertanto, potrebbero essere indotti a convogliare i loro acquisti
verso Paesi a bassa fiscalità, o addirittura verso prestatori d’oltreoceano e ciò potrebbe accentuare la concorrenza fiscale tra i diversi governi e produrre per alcuni
Paesi inevitabili contrazioni di gettito. Tuttavia, in un mondo che non vive solo di
Cd, di libri e di software, i costi di trasporto resteranno ancora per molto tempo un
fattore decisivo nel decidere i flussi commerciali e quindi l’assenza di tassazione sarà mitigata dai costi di trasporto e in un certo senso mitigherà il vantaggio competitivo degli acquisti oltreoceano.
Uno sviluppo ulteriore e decisivo dell’intera vicenda si è avuto il 12 febbraio
2002 quando il Consiglio Europeo ha adottato, sulle linee della proposta fatta nel
giugno scorso, una Direttiva sulla tassazione del commercio elettronico (sui prodotti “offerti elettronicamente” – anche se essa dovrà essere approvata dal Parlamento europeo) che cambia radicalmente la disciplina in essere. Come si è già esposto in precedenza, la vendita di beni digitali ed elettronici – in questo assimilati alla vendita di servizi – è tassata attualmente nel Paese di residenza del venditore (con
le aliquote del Paese in cui risiede l’impresa) senza tenere in considerazione dove
effettivamente risiede il compratore. Quindi, anche sulle vendite nei confronti di
consumatori al di fuori dell’Ue le imprese erano tenute ad applicare l’aliquota Iva
vigente sui servizi. Tuttavia, i venditori non Ue, in particolare quelli statunitensi,
che godono di una moratoria sulla tassazione del commercio elettronico, possono
vendere beni digitali ai consumatori europei senza caricare nessuna imposta, senza
applicare la Retail Sales Tax – l’imposta monofase sui consumi – né la stessa Iva.
24
Cassano (1999).
188
MAURO MARÈ, STEFANIA SPEROTTO
La direttiva si prefigge giustamente di rimuovere questo svantaggio competitivo
delle imprese europee rispetto a quelle non europee modificando sostanzialmente
non tanto il commercio tra imprese o soggetti passivi di imposta, ma quello tra imprese e consumatori finali. Essa prevede, in primo luogo, che l’imposta sui consumi di beni digitali venga applicata all’interno dell’Unione Europea nel luogo in cui
effettivamente avviene il consumo – secondo l’aliquota del Paese in cui risiede il
consumatore – ma riscossa dall’impresa venditrice nel Paese dove quest’ultima risiede. Questo significa che in futuro una vendita di un’impresa europea a un consumatore americano non sarà più soggetta ad Iva, ripristinando una simmetria tra
Europa e Usa in relazione alla tassazione del consumo di prodotti elettronici. In secondo luogo, essa prevede che qualsiasi operatore non comunitario – ad esempio,
statunitense – per vendere beni digitali a consumatori europei debba registrarsi in
uno dei Paesi dell’Unione e riscuotere l’Iva sulle vendite di prodotti digitali secondo l’aliquota del Paese del consumatore del bene. Tuttavia la riscossione verrà effettuata dall’impresa che effettua l’operazione di vendita e il gettito sarà girato al
Paese di residenza dell’impresa. Solo in un secondo momento si prevede la restituzione del gettito da parte del Paese dove risiede l’impresa a quello dove risiede il
consumatore e dove in effetti avviene l’atto di consumo.
L’operatore non-Ue dovrà identificarsi ai fini Iva in uno Stato membro che sarà
automaticamente quello nel quale realizza la prima operazione B2C tassabile. Esso
dovrà comunicare allo Stato di identificazione il proprio codice di registrazione nello Stato di residenza con cui si potrà dare luogo all’apertura di una posizione Iva.
Le prestazioni che l’operatore realizza verso consumatori di altri Stati Ue dovranno
essere documentate da fatture con l’addebito al cliente dell’Iva dello Stato di consumo. Infine, punto molto rilevante per gli effetti economici che può avere, l’aliquota applicata sarà sempre quella ordinaria vigente nel Paese di residenza del consumatore. Così, a titolo di esempio, un’impresa statunitense che decida di aprire una
posizione Iva in Olanda e che si trovi a vendere a consumatori svedesi e italiani dovrà sempre applicare sulle vendite un’Iva rispettivamente del 25 e del 20 per cento.
Trimestralmente l’operatore effettuerà il versamento dell’imposta e una dichiarazione allo Stato di identificazione, nella quale le operazioni verranno distinte per
ogni Stato membro, per ammontare e per imposta applicata. Lo Stato di identificazione provvederà poi a restituire ad ogni singolo Stato l’ammontare dell’imposta
spettante e i dati della dichiarazioni.
Per quanto riguarda infine le vendite B2B, niente cambia di fatto rispetto alle regole precedenti: un’impresa non Ue dovrà vendere ad un’altra impresa Ue solo con
l’emissione di una fattura, senza applicare nessuna imposta, in accordo con il principio di destinazione. Se il bene oggetto scambio è tassato nell’Ue, allora l’impresa
comunitaria che lo importa dovrà effettuate l’autotassazione e la dichiarazione alle
autorità fiscali.
LA TASSAZIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO NEI PAESI OCSE
189
Infine, il 7 maggio nella riunione del Consiglio Ecofin, i ministri economici e finanziari hanno definitivamente approvato la Direttiva (2002/38/Ce) che modifica la
tassazione in materia d’Iva su certi servizi forniti per il tramite elettronico – prodotti
digitali. Essa dovrà entrare in vigore nelle rispettive leggi nazionali entro il 1° luglio del 2003.
La proposta anche se condivisibile nello spirito di eliminare la posizione di
svantaggio competitivo delle imprese europee, appare compitata, macchinosa e di
difficile applicazione; essa ha comunque sollevato ulteriori e vibranti proteste da
parte dei rappresentati del Ministero del Commercio statunitense e della nuova amministrazione Bush che hanno sottolineato il carattere protezionistico della misura
e paventato il rischio di ritorsioni e guerre commerciali. Le ultime dichiarazioni
provenienti dall’amministrazione americana fanno emergere l’intenzione di portare l’intera questione in seno all’Organizzazione del Commercio Mondiale con evidenti ripercussioni sugli altri accordi e negoziati in corso – in particolare quello
sull’acciaio. Oltre a ciò, la nuovo direttiva accresce inevitabilmente il numero e il
tipo di formalità che si richiedono agli operatori, con la richiesta di registrazione e
la distinzione per i 15 Paesi delle diverse operazioni effettuate e delle imposte prelevate.
Essa accresce anche gli oneri amministrativi dei 15 Paesi Ue: infatti la direttiva
riapre tutti i problemi del regime definitivo Iva e in particolare quello della stima
della base imponibile dei consumi necessari per far funzionare il meccanismo di
clearing ed effettuare la redistribuzione del gettito tra Paese che lo ha riscosso e
quello a cui va attribuito, quello cioè in cui effettivamente avviene l’atto di consumo. Last but not least, va segnalato come essa non permetta di eliminare la possibilità di frodi, di evasioni e di aggiramenti degli obblighi tributari. Un contribuente-consumatore Ue potrebbe facilmente mascherarsi dietro un sito web di un altro
Paese – ad esempio statunitense – e tramite questo effettuare un acquisto di beni digitali in completa esenzione di imposta. D’altro canto la struttura stessa della rete e
la possibilità di anonimato che essa permette, rende questo problema difficilmente
superabile.
190
MAURO MARÈ, STEFANIA SPEROTTO
L’Unione Europea si trova in una chiara posizione di
svantaggio nei confronti degli Stati Uniti. Ogni transazione legata al commercio elettronico in Europa è di
Quid agendum?
fatto tassata, mentre larga parte delle transazioni on liLe opzioni dell’Ue
ne che hanno luogo negli Usa e dagli Usa verso l’Europa riescono ad aggirare le sales e le use taxes. Questa asimmetria dà al mercato e alle relazioni commerciali tra i due continenti un carattere di instabilità, è
fonte di conflitti e di polemiche che richiedono un approccio il più possibile cooperativo da entrambe le parti.
Gli Stati Uniti sfruttano la loro posizione economica, di leader del mercato: il
loro desiderio di proteggere l’infant industry del commercio elettronico ha rilevanti spillover negativi sul continente europeo; di fatto è fonte di sviamenti commerciali tra le due aree e può provocare misure di ritorsione di natura protezionistica da parte dell’Europa. L’atteggiamento di beggar-thy-neighbor degli Usa finirà per suscitare nei settori più colpiti in Europa e nei Paesi meno inclini al libero
scambio la volontà di introdurre misure di ritorsione, rigurgiti protezionisti se non
vere e proprie forme di dazi. L’adozione della direttiva in materia di commercio
elettronico in sede comunitaria negli ultimi mesi ha avuto lo scopo proprio di mitigare questa asimmetria e di ripristinare condizioni di equilibrio. Ma la sua applicazione già adesso, ad un anno dalla sua messa in atto concreta appare problematico e alquanto difficile.
D’altro canto, l’Europa, perdurando la posizione americana di esenzione del
commercio elettronico da ogni forma di imposizione, può fare ben poco. Essa può
tentare misure di second best, come quelle previste nella recente Direttiva che prevedono l’obbligo di registrazione delle imprese americane almeno in uno Stato
membro. Queste misure oltre a non essere accettate dagli Usa presentano come si è
visto diverse imperfezioni e complicazioni amministrative. Inoltre esse lasciano del
tutto irrisolto il problema della compliance e soprattutto del monitoraggio delle imprese non europee sul rispetto della normativa prevista nella direttiva; essa appare
di difficile realizzazione, a meno che non si prevedano forme di ritorsioni commerciali e un lungo e molto complicato contenzioso internazionale che appare molto costoso e di difficile composizione.
O ancora, l’Europa può “fare il tifo” per gli Stati americani, nella speranza che
lo sviluppo del commercio elettronico determini, a breve termine, perdite di gettito così rilevanti da suscitare una reazione che ponga fine all’esenzione delle transazioni on line; oppure, infine, può partecipare anch’essa al tax competition game e
decidere di esentare, seguendo l’esempio americano, le forme di vendite commerciali realizzate per il tramite di Internet. Da una parte, quest’ultima soluzione riporterebbe l’Europa su di un piano di parità con gli Usa, ma avrebbe ovvie e rile-
6
LA TASSAZIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO NEI PAESI OCSE
191
vanti conseguenze sul gettito tributario degli Stati europei e forse anche sui livelli
di spesa del Vecchio Continente. In definitiva, non pare esservi alternativa allo
sforzo diplomatico, al negoziato e alla ricerca di un compromesso che sarà lungo
e faticoso.
Tav. 1 - La matrice del commercio elettronico
G
B
C
G
G2G
G2B
G2C
B
B2G
B2B
B2C
C
C2B
C2B
C2G
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