dispense l11 2013 14

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LETTERATURE E CULTURE DELL’ETÀ CLASSICA
Anno accademico 2013-14 – II semestre
ALLE ORIGINI DELLA LETTERATURA FANTASTICA: PETRONIO, APULEIO,
LUCIANO DI SAMOSATA
Che cos’è la letteratura fantastica?
Nella bibliografia sul genere fantastico ha goduto di grande fortuna la monografia di
TZVETAN TODOROV, studioso bulgaro trapiantato in Francia, pubblicata nel 1970 con il
titolo Introduction à la littérature fantastique (traduz. it. La letteratura fantastica, Milano,
Garzanti, collana Gli elefanti, 2000).
Prima di esporre la sua definizione del genere fantastico, Todorov riporta alcune definizioni
precedenti, che non contraddicono, anzi non sono molto dissimili dalla sua (op. cit., p. 29):
 secondo P.G. CASTEX, Le conte fantastique en France (Paris 1951), «il fantastico si
caratterizza per un’intrusione brutale del mistero nella sfera della vita reale»
 per LOUIS VAX, L’art et la littérature fantastique (Paris 1960), «il racconto fantastico
è solito presentarci uomini come noi, che abitano nel mondo reale dove noi siamo,
posti all’improvviso in presenza dell’inesplicabile»
 ROGER CAILLOIS, Au cœur du fantastique (Paris 1965) afferma: «tutto il fantastico è
rottura dell’ordine riconosciuto, invasione dell’inammissibile in seno all’inalterabile
legalità quotidiana».
Todorov cerca di approfondire tali definizioni: letteratura fantastica è quella che ha per
oggetto un evento apparentemente sovrannaturale1, di fronte al quale il lettore prova
un’esitazione, dubbioso se credervi o meno. Spesso, oltre al lettore, anche un personaggio
del racconto prova, per un periodo di tempo più o meno lungo la medesima esitazione. «Il
concetto di fantastico si definisce dunque in relazione ai concetti di reale e di immaginario».
Todorov cita, per illustrare meglio la sua definizione, quanto afferma lo scrittore inglese
MONTAGUE RHODES JAMES, specializzato in racconti di fantasmi: nel racconto fantastico «è
necessario avere una via d’uscita per una spiegazione naturale, ma dovrei aggiungere: che
questa porta sia abbastanza stretta perché non ci se ne possa servire»2.
Come esempi di racconti fantastici cui si attaglia la sua definizione, Todorov indica Il
manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (1805), dove la spiegazione razionale
fornita alla fine degli eventi incredibili occorsi al protagonista risulta più inverosimile degli
eventi stessi, e La camera ardente (The burning Court, 1937) di J. Carr, nel cui finale Marie
rivela al lettore di essere veramente l’avvelenatrice ‘non morta’, di essere riuscita a
ingannare tutti con la spiegazione razionale degli eventi misteriosi fornita dal detective, suo
amico e complice.
1
TODOROV, op. cit., p. 28. «In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza
diavoli, né silfidi né vampiri, si verifica un avvenimento che [...] non si può spiegare con le leggi
del mondo che ci è familiare».
2
TODOROV, op. cit., p. 29.
2
Todorov attribuisce grande importanza, nella sua definizione del racconto fantastico, a
quella che egli definisce la funzione lettore: se il lettore non prova, al pari del personaggio,
l’esitazione di fronte all’evento strano, il racconto non si può definire fantastico. A
esemplificare ciò, Todorov cita ancora Il manoscritto trovato a Saragozza, il cui
protagonista esita a riconoscere il carattere soprannaturale degli eventi che vive, o che
sogna: «ma se il lettore conoscesse la verità, se sapesse in qual senso si deve decidere, la
situazione sarebbe del tutto diversa»3. Il fantastico implica dunque un’integrazione del
lettore (non di un lettore particolare, ma della “funzione lettore”, implicita nel testo) nel
mondo dei personaggi.
Sulla base della definizione di Todorov, non rientrano nel genere fantastico né la poesia né
la narrazione allegorica (tale è, ad esempio, la favola), a proposito delle quali non vi è nel
lettore alcuna esitazione di fronte alle immagini fantasiose impiegate dall’autore.
Senza addentrarci nella minuziosa disamina del genere fantaastico, che occupa i successivi
capitoli del libro, terremo però presente la definizione di racconto fantastico sopra illustrata,
per metterla a confronto, dopo averli letti, con i racconti di Petronio e di Apuleio, e valutare
se e in che misura la definizione di genere fantastico elaborata da Todorov si possa applicare
anche ai due autori latini.
Petronio. La novella del licantropo
Si tratta della più antica attestazione conservata, nella letteratura occidentale, del tema della
licantropia. È tuttavia fuor di dubbio che si tratta di un motivo folklorico, la cui diffusione
ab antiquo è attestata da Plinio il Vecchio, il quale nella Naturalis Historia (VIII 80)
afferma: «Che gli uomini si trasformino in lupi, e poi rientrino di nuovo in sé, è da
considerare una bugia senz’altro, a meno di prendere per buone tutte le favole dei secoli
passati».
Alla licantropia e in particolare alla credenza che l’uomo-lupo non potesse riacquistare la
forma umana se non avesse potuto ritrovare i suoi abiti, deposti prima della metamorfosi,
allude la favola dell’oste e del ladro di Esopo (nr. 196 dell’edizione Halm). Alla favola si
allude anche la frase tamquam copo compilatus («come l’oste derubato») della novella di
Petronio. Riportiamo qui di seguito la favola di Esopo, nel testo della redazione latina (nr.
907 dell’edizione di Laura Gibbs), con la mia traduzione:
Fur et Caupo. Fur quidam in diversoria taberna moratus est. Videns cauponem nova
pulchraque veste indutum, solum ante ianuam diversorii sedentem, ad eum accessit.
Fur coepit primum hiare, postea in lupi morem fremere. Quapropter caupo, “Quid
hoc” inquit “rei est?”. Cui fur: “Tibi mox indicabo, sed primum, ut meas vestes serves
peto, eas enim hic relinquam. Nescio undenam mihi huiusmodi hiatus oriatur, sed si
tertia vice hiaverim, repente lupus fio hominesque devoro”. Vix ea fatus erat cum
iterum os aperire ac fremere coepit. His caupo auditis, furem pertimuit, surgensque
fugam arripere volebat. Sed fur tunica eum detinens, os aperire coepit, ac tertium
hiare. Tum caupo timens ne ab eo devoraretur, relicta penula, in abditissimum
diversorii locum fugit. At, penula eius rapta, fur discessit.
3
TODOROV, op. cit., p. 34.
3
Fur et Caupo. Un ladro prese alloggio in una locanda. Vedendo l’oste che indossava
una veste nuova e bella e stava seduto davanti alla porta della locanda, gli si avvicinò.
Il ladro cominciò prima ad aprire la bocca, poi a fremere a guisa di lupo. Per la qual
cosa, l’oste disse: “Che significa questo?”. E il ladro gli rispose: “Te lo dirò subito, ma
prima ti chiedo di custodire i miei abiti, infatti te li lascerò qui. Non so da dove mi
venga questo aprire la bocca, ma una volta che io abbia aperto la bocca per la terza
volta, di colpo mi trasformo in lupo e divoro gli uomini”. Aveva appena pronunciato
queste parole, che cominciò ad aprire la bocca per la seconda volta e a fremere. Sentite
queste parole, l’oste ebbe paura del ladro, e alzandosi in piedi voleva darsi alla fuga.
Ma il ladro, tenendolo per la tunica, cominciò ad aprire la bocca e a spalancarla per la
terza volta. Allora l’oste temendo di essere divorato dall’altro, abbandonata la tunica
fuggì nella parte più nascosta della locanda. Mentre il ladro, rubata la tunica, se ne
andò.
Virgilio, nelle Bucoliche (VIII, 95-99) ci presenta, attraverso le parole del pastore Damone,
Moeris, uno stregone capace di trasformarsi, quando lo desideri, in lupo:
Has erbas atque haec Ponto mihi lecta venena
ipse dedit Moeris: nascuntur plurima Ponto.
His ego saepe lupum fieri et se condere silvis
Moerim...
«Queste erbe e questi veleni raccolti nel Ponto
me li ha dati Moeris in persona: molti ne
nascono nel Ponto. Io spesso ho visto Moeris
trasformarsi in lupo e nascondersi nei
boschi...».
In questo caso, poiché Moeris viene presentato come un esperto di arti magiche, capace
anche di evocare gli spiriti dei morti e di compiere altri prodigi, la licantropia non pare
essere una trasformazione involontaria, provocata dall’influsso della luna, bensi è prodotta
dall’uso delle erbe magiche (così anche nelle Metamorfosi di Apuleio le trasformazioni
della maga Birrena e dello stesso Lucio in diversi animali saranno provocate da specifici
unguenti magici).
La medicina antica peraltro annoverava la licantropia tra le malattie della psiche, quale
variante della “melancolia” (provocata dalla “bile nera”), col nome di “morbo lupino” o
“canino”: così Ippocrate e Galeno, il quale nell’Ars medica descrive il comportamento di
coloro che erano affetti da tale patologia e che ne erano indotti a uscire di notte nel mese di
febbraio. Essi «imitano in tutto i lupi o i cani, e fino al sorgere del giorno di preferenza
scoprono le tombe [...] Si possono riconoscere da questi sintomi: pallore, aspetto malaticcio,
occhi secchi, che non lacrimano. Hanno occhi incavati e la lingua arida, non emettono saliva
per nulla. Sono anche assetati e hanno le tibie piagate in modo inguaribile, a causa delle
continue cadute e dei morsi dei cani, nei cui branchi si introducono». Galeno prescrive come
cura di questo morbo salassi energici, una dieta ricca di cibi molto succosi, bagni in acqua
dolce, somministrazione di siero di latte e di varie sostanze purgative.
4
La novella petroniana delle striges
Anche in questa novella, come in quella del licantropo, è evidente la rielaborazione di un
tema folklorico preesistente. Le striges del racconto petroniano appaiono essere versipelles
mulieres: cioè donne “capaci di mutare pelle”, di trasformarsi in diversi animali, e
contemporaneamente invisibili. Vengono percepite prima attraverso sensazione uditive, il
loro verso di caccia e il gemito di una di loro, trapassata dall’arma del Cappadoce, poi
attraverso le conseguenze del loro temibile contatto con l’incauto che le aveva affrontate, il
livore del suo corpo colpito dalla mala manus.
Il verso delle striges in Petronio
Nel manoscritto Traguriensis si legge strigae coeperunt: «le streghe cominciarono». In
molte edizioni la frase è integrata con stridere, emendamento di Ernout. Le streghe
avrebbero dunque fatto sentire il loro verso caratteristico (proprio nel verbo strido si
individua l’etimologia del sostantivo strix / striga). Ma subito dopo, nella novella di
Petronio, il clamore delle streghe all’esterno della casa viene descritto non come uno stridio,
bensì come il rumore che si sente quando un cane insegue una lepre. Converrà dunque
conservare la lezione del manoscritto.
Nel suono descritto da Petronio il filologo e antropologo Maurizio Bettini ha voluto
riconoscere il verso (“vagito”) della lepre inseguita dai cani, ma altri studiosi hanno pensato
piuttosto al latrato dei cani da caccia4. Le streghe invisibili avrebbero dunque preso la forma
di cani?
Comunque sia, non vi sono dubbi sugli effetti sul malcapitato Cappadoce del tocco malefico
delle versipelles, il colorito livido della pelle, sintomo del contatto con le streghe anche
nella principale fonte latina sulle striges anteriore a Petronio, ossia Ovidio, Fasti VI 131168, dove l’infante Proca, assalito dalle streghe sotto forma di uccelli rapaci, presenta un
colorito malsano, simile a quello delle foglie, quando, all’inizio dell’autunno, cominciano a
scolorire.
Dice Ovidio che le striges sono uccelli notturni, della stirpe delle mitiche Arpie, simili a
gufi o barbagianni, dal grande capo, dagli occhi immobili, becco rapace, penne bianche,
zampe artigliate. Esse volano di notte, in cerca di neonati incustoditi: se ne trovano uno, lo
estraggono dalla culla e ne straziano il corpicino divorando i visceri del lattante e bevendone
il sangue. È incerto – continua Ovidio – se le streghe nascano uccelli oppure se siano donne
trasformate in rapaci mediante incantesimi. Un giorno esse assalirono Proca, futuro re di
Alba, lasciato incustodito nella culla. La nutrice, accorsa al pianto del neonato, lo trovò con
le guance solcate da profondi graffi e con la pelle livida. Fu consultata la dea Crane, la quale
celebrò un rito per proteggere la soglia della camera del neonato, e sacrificò un porcellino,
offrendone le viscere alle striges, in cambio dell’incolumità del piccolo Proca, che
riacquistò così la salute.
Secondo altre fonti antiche, le streghe, sotto forma di pipistrelli, si accostavano ai neonati
incustoditi e li allattavano, somministrando loro un umore venefico.
Quando non riuscivano ad assalire neonati e bambini, le streghe dovevano accontentarsi di
divorare i visceri dei cadaveri: perciò le veglie funebri attraevano le versipelles mulieres,
come appare dal racconto di Trimalchione e dalla novella apuleiana di Telifrone.
Cfr. a questo proposito L. CHERUBINI, ‘Scilicet illum tetigerat mala manus’. Inganni e disinganni
delle streghe in Petr. 63, «I Quaderni del Ramo d’Oro on-line», 2009, pp. 144 n. 4 e 145.
4
5
Per un approfondimento del tema delle streghe in Petronio e in Apuleio si rinvia al saggio di
Laura Cherubini, ‘Scilicet illum tetigerat mala manus’. Inganni e disinganni delle streghe in
Petr. 63, disponibile sulla pagina web del Corso, nella sezione “File da scaricare”.
Considerazioni narratologiche sulle due novelle fantastiche nella Cena Trimalchionis
Si notano numerose analogie tra le due novelle narrate da Nicerote e da Trimalchione, il che
sottolinea l’artificiosità dell’intermezzo fantastico, verosimilmente preordinato dal ‘regista’
della cena-spettacolo:
- il fatto fantastico è innescato da un lutto, da un contesto funereo, nella prima novella la
morte del compagno dell’amica di Nicerote, nel secondo caso la veglia funebre per lo
schiavetto favorito del padrone di Trimalchione: ciò corrisponde all’ossessivo riferimento,
nella Cena, a morti e funerali;
- nello stesso tempo, vi è in entrambi i casi un’allusività erotica, riferita, nella prima novella,
alla procace Melissa, nella seconda alla seduttività del defunto puer, favorito del padrone;
- un tizio grande e grosso della familia del narratore diventa protagonista dell’evento
fantastico, nel primo caso il miles che Nicerote incautamente sceglie come compagno di
viaggio si rivela licantropo, nel secondo caso il Cappadoce, con la sua coraggiosa ma
imprudente sortita contro le streghe, permette alle versipelles mulieres di entrare in casa e
straziare il cadavere;
- vi è un’analogia tra l’azione di Nicerote che con la spada forsennatamente tira fendenti alla
cieca nel buio e l’assalto del Cappadoce, sempre con la spada, contro le streghe invisibili;
- i due forzuti compagni dei narratori non parlano per tutta la storia, e alla fine sono mostrati
inerti e malconci su un letto, il licantropo ferito alla gola, il Cappadoce colpito dalla mala
manus, con tutto il corpo dolorante e illividito, come se fosse stato sferzato;
- sia il licantropo sia una delle streghe vengono feriti, ma ciò non impedisce loro di colpire
le vittime, le pecore nel primo caso, il cadavere nel secondo.
Plinio il Giovane e i phantasmata
Il II secolo d.C. fu un’epoca segnata da una profonda irrequietudine spirituale, che non
trovava risposte né nella religione di stato né nella filosofia razionalistica. Molti individui si
rivolgevano allora alle religioni orientali, al misticismo del culto di Iside o di Mitra (che
reclutavano molti seguaci, ad esempio, tra i soldati). Anche il cristianesimo trovava un
numero sempre crescente di seguaci. «Ma se è vero che la cultura cristiana privilegia aspetti
e problemi della sfera psichica, reinterpretandoli secondo l’ottica del proprio messaggio di
redenzione, non è men vero che anche la cultura pagana ha dovuto fare i conti con la sfera
delle paure e delle angosce individuali e collettive, con la ricerca di una religiosità personale
che poca soddisfazione può trovare nelle istituzioni ufficiali, col mondo degli affetti e delle
speranze dei singoli o di gruppi sociali che non si accontentano della rassicurante
6
rappresentazione di un universo razionale e immutabile5». Un esempio di questa diffusa
inquietudine spirituale è offerto da una lettera di Plinio il Giovane, uno degli intellettuali più
autorevoli del II secolo, che si rivolge a Licinio Sura per avere conferma scientifica alla sua
fede nell’esistenza dei phantasmata, nella duplice forma di fantasmi veri e propri e di
visioni, apparizioni profetiche. In attesa di ricevere dall’amico rassicurazioni in merito,
Plinio racconta i tre episodi sui quali egli base la propria convinzione dell’esistenza del
sovrannaturale.
Si riportano qui l’inizio della lettera (Plin. Epist. VII 27) e la seconda delle tre storie
‘sovrannaturali’, quella che più si avvicina alla tipologia del racconto fantastico, che qui ci
interessa. La traduzione è di Luigi Rusca6.
«Caro Sura,
il tempo libero dà a me la possibilità di apprendere, a te quella di insegnare. Perciò io vorrei
sapere se gli spettri esistano e tu ritenga abbiano una propria fattezza e una potenza divina,
oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza solo dalla nostra paura.
Per parte mia che esistano mi induce a crederlo soprattutto il fatto che mi fu detto essere
capitato a Curzio Rufo. [...]
Ma non è forse più terribile e non meno sorprendente quest’altro fatto che ti esporrò come mi
fu riferito? V’era ad Atene una casa ampia e comoda, ma malfamata e maledetta. Nel mezzo
del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e, se ascoltavi più attentamente, uno
strepito di catene, da lontano prima, poi più da presso; indi appariva uno spettro, un vecchio
estenuato dalla magrezza e dallo squallore, con una lunga barba, i capelli irti; recava i ceppi ai
piedi e le catene alle mani e le scuoteva. Perciò gli abitanti della casa trascorrevano vegliando
per la paura delle notti sinistre e spaventose; quelle veglie finivano per produrre una malattia
e, con il crescere del male, la morte. Giacché anche di giorno, pur essendo il fantasma
scomparso, rimaneva negli occhi il ricordo di quell’apparizione, sì che il timore durava più a
lungo di ciò che l’aveva cagionato. Perciò la casa fu disertata, condannata all’abbandono e
lasciata tutta in balia di quel mostro; v’era però appeso un cartello, per il caso che qualcuno,
ignorando così gran guaio, volesse acquistarla o affittarla.
Capitò ad Atene il filosofo Atenodoro, lesse il cartello, seppe il prezzo, e messo in sospetto
dalla modicità, si informò, venne a conoscenza di tutto e nonostante ciò, anzi a cagione di ciò,
prese in affitto la casa. Quando cominciò ad annottare, ordinò che gli preparassero un letto
nella parte anteriore dell’edificio, chiese delle tavolette, uno stilo, un lume; mandò tutti i suoi
nelle stanze interne ed egli invece si assorbì – la mente, gli occhi, la mano – nello scrivere,
onde evitare che la mente rimasta inoperosa desse corpo alle storie di spettri che aveva sentito
e a vani timori. Dapprima, come ovunque, il silenzio della notte, poi cominciò un agitarsi di
ferri, un muover di catene: quello non alza gli occhi, non ripone lo stilo, ma rafforza il proprio
coraggio e lo mette a guardia delle orecchie, cresce lo strepito, continua ad avvicinarsi, e già
sembra di udirlo sulla soglia, già oltre la soglia. Si volta, vede e riconosce la figura di cui gli
avevano parlato. Stava ritta, e faceva segno con il dito, come a invitare qualcuno; ma il
filosofo le fa cenno con la mano, come per dirle di attendere un poco, e si rimette alle
tavolette e allo stilo. Essa agitava le catene sopra il capo di lui che scriveva; si volta di nuovo,
vede che gli fa cenno come prima, senza esitare, prende il lume e la segue. Essa avanzava con
lento passo, quasi la gravassero le catene; dopo essere svoltata nel cortile della casa,
improvvisamente svanisce, abbandonando chi la segue. Una volta rimasto solo, Atenodoro
contrassegna il posto con delle erbe e delle foglie spiccate. Il giorno dopo va dai magistrati, e
5
G.F. GIANOTTI-A. PENNACINI, Società e comunicazione letteraria di Roma antica, vol. III, Torino
19862, p. 142.
6
PLINIO IL GIOVANE, Lettere ai familiari, Introduzione e commento di Luciano Lenaz, Milano,
Rizzoli, 1994, pp. 589 ss.
7
chiede loro che ordinino di far scavare in quel posto. Vi trovano, frammiste e avvolte dalle
catene, delle ossa, che il cadavere putrefatto dall’azione del tempo e del terreno aveva lasciate
scarnificate e scavate dalle catene; raccolte, vengono sepolte a spese della città. La casa non
fu più visitata dai Mani, sepolti secondo i riti.
Certo io credo a chi mi afferma tali cose...».
Apuleio, la magia e il fantastico
Nel clima di inquietudine spirituale che abbiamo sopra descritto si colloca la figura ddi
Apuleio, filosofo e conferenziere itinerante, «che nella sua copiosa produzione dimostra
viva attenzione per la sfera mistico-magica, facendo emergere aspetti e tradizioni
solitamente relegati ai margini della cultura ufficiale e cercando di inserirli entro una
concezione filosofica capace di rendere conto dei complessi rapporti che legano l’uomo al
mondo naturale e al mondo divino»7. Questa filosofia è quella di Platone, nella fase definita
dagli studiosi “platonismo medio”.
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Sulla vita e le opere di Apuleio si raccomanda l’attento studio del manuale di Conte, pp.
182-198.
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LE NOVELLE FANTASTICHE NELLE METAMORFOSI DI APULEIO
Le novelle che si leggono nei primi tre libri delle Metamorfosi hanno carattere fantastico.
Si tratta della novella di Aristomene e Socrate (I 6-19), della storia di Telìfrone (II 21-30),
cui si aggiunge il racconto del coinvolgimento del narratore Lucio, come una sorta di capro
espiatorio, nella festa del dio Risus a Ipata (II 31-32 - III 1-19). Quest’ultima vicenda fa
parte della trama stessa del romanzo, ma è legata alla prime due novelle dalla presenza di un
motivo fantastico, gli otri animati dalla magia di Pànfile: ancora una volta, incontriamo il
tema della metamorfosi che domina la narrazione apuleiana.
Le prime due novelle fantastiche hanno, tra l’altro, la funzione di anticipare la disavventura
imminente di Lucio, ossia la sua trasformazione in asino, causata dalla sua morbosa
curiosità per la magia. Soprattutto il personaggio di Telìfrone mostra molte somiglianze con
quello di Lucio e ne prefigura la sorte: diretto ai giochi Olimpici, egli si è invece trattenuto i
Tessaglia per la curiosità di conoscere i costumi della regione
Anche la beffa del processo cui Lucio viene sottoposto in teatro, sotto gli occhi di tutta la
cittadinanza, prefigura l’umiliazione di Lucio-asino nell’arena, nel decimo libro delle
Metamorfosi. Come Lucio, anche i protagonisti delle altre novelle subiscono delle
disavventure per colpa della loro curiosità o di altri vizi. E se Lucio, al pari di Psiche,
riuscirà dopo una serie di prove dolorose, a riscattarsi, altri personaggi subiscono prove
altrettanto o più dure senza però conseguire il riscatto: dopo le sue orribili vicissitudini,
Aristomene rinuncia a ritornare alla sua patria e alla sua famiglia, come Telifrone, che per
7
G.F. GIANOTTI-A. PENNACINI, op. cit., p. 143.
8
colpa delle streghe perde inoltre il naso e le orecchie, Socrate perde addirittura la vita.
«Dietro le diverse conclusioni di queste vicende fa capolino la concezione, largamente
diffusa nei movimenti religiosi dell’epoca e non estranea neppure a certe sette cristiane, che
la salvezza si attua soltanto per gli eletti, per chi è raggiunto dalla rivelazione divina e vede i
casi capricciosi e instabili della fortuna comporsi finalmente in un disegno provvidenziale,
sotto la guida delle potenze intermedie che regolano l’universo e che permettono l’ascesa
dal caos irrazionale del mondo materiale alla beatitudine delle sfere divine»8.
******
LA STORIA VERA DI LUCIANO DI SAMOSATA
Per la biografia di Luciano di Samósata e per la rassegna e le considerazioni critiche sulle
oltre 80 opere a lui attribuite, si rinvia all’Introduzione dell’edizione della Storia vera a cura
di Quintino Cataudella.
Nel prologo della Storia vera Luciano sottolinea trattarsi di un’opera mirata al piacevole
intrattenimento di lettori abituati a libri più impegnativi. Non mancano tuttavia, fin
dall’inizio, riferimenti polemici ad opere storiografiche anche molto rinomate, come quella
di Erodoto, che spacciano per vere informazioni fantasiose: almeno il racconto di viaggi
presentato da Luciano ha l’onestà di dichiarare da tutto principio che niente di quanto sarà
raccontato è vero.
Per quanto riguarda la definizione del genere letterario in cui si inserisce la Storia vera, per
il fatto di proporre eventi di pura invenzione, l’opera, più che avvicinarsi al romanzo
ellenistico, secondo la mentalità degli antichi si pone nel solco della tradizione della
commedia antica, quella rappresentata da Aristofane, Eupoli e Cratino: infatti questa fase
della commedia greca si basa sulla messa in scena di situazioni e personaggi inverosimili.
Non a caso dunque Luciano fa riferimento appunto ad Aristofane, alludendo alla città di
Nubicuculia, la città delle nubi e degli uccelli inventata dal poeta comico negli Uccelli, la
propria invenzione, in Storia vera I 28, della città di Nefelococcugia: «e io mi ricordai di
Aristofane, il poeta, uomo sapiente e veritiero, dei cui scritti si diffidava senza ragione»9.
C’è però una differenza sostanziale tra le invenzioni dell’antica commedia e quelle di
Luciano: mentre la prima usava la creazione fantastica a scopo satirico (per mettere in
evidenza le incongruenze della vita cittadina ateniese o, più in generale, della società
umana), invece il secondo si propone principalmente di divertire il suo pubblico.
Del tutto scherzosa e infondata, infine, è la promessa del narratore, alla fine dell’opera, di
narrare in futuro le sue avventure sulla terra. Anche se alcuni studiosi hanno preso sul serio
tale affermazione, discutendo seriamente su questi fantomatici, e perduti, ulteriori libri della
Storia vera.
8
9
G.F. GIANOTTI-A. PENNACINI, op. cit., p. 151.
Cfr. le pp. 85 s. dell’edizione Bur, e la nota 85.