www.classiciitaliani.it GIUSEPPE FERRARO L`amore leopardiano

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GIUSEPPE FERRARO
L’amore leopardiano
Edizione di riferimento
Giacomo Leopardi, 1798-1998, Viaggio nella memoria, a cura di Fabiana Cacciapuoti, Electa,
Milano 1999, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana ed il Patrocinio del
Miniustero dei Beni Culturali e Ambientali; catalogo del Centro di Studi Leopardiani (Recanati) in
collaborazione con Casa Leopardi
L’amore leopardiano è il primo
amore: l’amore giovane.
L’intimità rubata. Immaginata.
Fatta d’attesa e ricordo. «Una
grandissima pazienza
impazienza». Un sogno senza
sonno, un sogno insonne, il
pensiero che più domina ...
poi viene la ricordanza. Essa è più del ricordo, perché è una condizione. Non un atto, ma uno
stato. Tutto è “sembiante” intorno. Intoccabile. L’amore leopardiano non conosce e non è
conosciuto, sa e resiste al suo sapere. È come ciò che è andato via. Non è perduto o lasciato. È
nello stato di cosa che è stata. Un’immagine d’immagine che non trova l’originale. Una
duplicazione che non è una copia, perché l’originale è l’immagine stessa della duplicazione.
L’amore leopardiano è il desiderio infinito. S’incarica dell’illusione, ne è l’incavo. È uno stato di
resistenza dell’impossibile contro il «certo e vano», che la ragione desume dall’indifferenza della
natura per l’uomo. E tuttavia quest’amore è anche lo stato in cui s’annida e germina più
intensamente la Natura nella sua contrarietà, pronta a corrodere e far perdere tutto quanto non è
mai stato dato. È così la delusione: solo l’amore può provarla. E dopo, quando l’illusione se ne è
andata, resta il ricordo di ciò che non si è avuto. La delusione e poi il rimpianto sembrano prendere
stanza nell’animo come di fronte ad un giocattolo rotto. Eppure non è così. Non c’è né delusione
né rimpianto, per quanto se ne tocchino le pareti. E questo sarà un tratto decisivo per
comprendere la portata e la funzione dell’illusione leopardiana, che la Natura suggerisce all’uomo
e l’uomo ripete alla Natura. L’illusione è dell’amore il frutto più dolce e più amaro in tutte le sue
espressioni dell’amor proprio, dell’amore patrio e dell’amore per chi ci fa amare. L’illusione è come
la forma transitiva della ricordanza. Il rimpianto certo è il contrario della ricordanza, quanto la
delusione lo è dell’illusione. E illusione e ricordanza, delusione e rimpianto sono come due coppie
che si escludono, due tonalità affettive del tempo che viene e del tempo già venuto, ma portano un
segno differente, Leopardi non cade nella delusione e nemmeno nel rimpianto, resta
nell’oscillazione dell’illusione e della ricordanza: l’una è lo stato dell’attesa come del sogno ad
occhi aperti, l’altro è lo stato di chi resta svanito davanti allo svanire d’ogni cosa. Entrambe sono
uno stato del tempo presente. L’umore leopardiano non è sconfitto, è il pensiero dominante, una
passione che allo svanire della sua illusione si muta nell’amore cosmico della compassione.
Non è la caducità che tormenta quest’amore, ma l’impossibile, per cui ogni essere nasce come
incrinato, «essendo come non doveva essere». Ed in questa incrinatura l’amore leopardiano
oscilla e domina.
Come sospeso
La tradizione letteraria, che va da Dante a Petrarca e giunge fin al romanticismo, è ripresa e
sconvolta. Sarà per i versi d’amore che Leopardi più attingerà da Petrarca, ma distaccandosene,
perché ne muta del tutto la prospettiva e l’impiego. È da queste distanze che potremmo nominare il
senso più riposto di quel che possiamo chiamare, come un modo d’amare, l’“amore leopardiano”.
Ciò che lo distingue è la diversa funzione dell’immagine che vi si accompagna e il particolare uso
dei nomi e quindi la differente portata letteraria.
Se lo si confronta con l’amore di Dante e Petrarca, che rientrano nella dinamica dell’amore
platonico, si affaccia subito la considerazione che l’amore leopardiano è senza compenso, non
concilia e non solleva, non forma più di quanto non resista: è un amore senza al di là. La funzione
ideale è a suo sfavore, pronta a nutrire, invece del mondo divino, quella paradossale materialità
dello spirituale che fa resistenza alla “solidità del nulla”.
Non c’è un al di là. Nell’amore leopardiano cambia la funzione immaginativa e l’uso del nome
proprio, diverso sarà il suo punto di applicazione e di riserva. Non c’è simbolismo, non c’è
allegoria, I volti amati e nominati non s’incaricano di alcuna luminiscenza d’eternità, non
promettono ripari ultraterreni, nemmeno promettono la gloria che viene dall’esercizio del
sentimento nel suono di rime sparse. È un amore che non educa al sovrasensibile, ma è piuttosto
un vizio, in cui si cade, o in cui ci nasconde come in una postazione per resistere all’esistere, per
non cadere, per sospendere tutto quanto è vano L’amore leopardiano non è sacrificale, è naturale,
viene, persiste, insiste, resiste.
Il nome
Beatrice indica colei che rende beato, chi conduce ad un sentire senza più tempo, “trasumanato”. Il
nome Laura riporta al senso di un umanesimo che inclina il piano dell’allegoria sul versante
terreno, è un esercizio di parola: è il lauro del poeta e Laura, che avvolge la figura della gloria di
un’eternità temporale.
L’amore leopardiano è l’amore sospeso. Non conosce eternità temporali o sovratemporali, resta
sul piano d’immanenza della ricordanza. Quindi non vi è alcun trascendimento, è interiore, La
ricordanza è come un al di là di qua. L’immagine, il volto ed il fantasma dell’amata restano come
può solo restare ciò e chi, non essendoci più, non c’è mai stato La ricordanza è questo stato. Non
supplice, non sacrificale. Non è il ricordo per cui, sopraggiungendo l’immagine, con essa si apre il
transito verso un altrove. La ricordanza era già prima, perché già prima l’immagine è la
duplicazione del presente come di ciò che non c’è. Come vedere le cose che essendo state non
sono, o che manchino di quel che sono. È dunque quel che c’è che ci manca. E della ricordanza è
questo il tono essenziale. La perdita dell’amata, la morte della fanciulla, non è perciò sacrificale,
non è la via d’accesso all’invisibile.
È ciò che c’è che manca. Ed è questo mancare e farsi vano, l’invisibile che ogni cosa e ognuno
lasciano vedere sul proprio volto e nel nome proprio. Non sarà allora Beatrice e nemmeno Laura,
perché l’invisibile non è oltre, ma qui. Si chiamerà Silvia e Nerina, perché l’invisibile si tiene nel
nulla essenziale di quel che c’è. Il nome proprio di Silvia e di Nerina non è allegorico, sono
piuttosto nomi comuni ed è questa la loro allegoria, nomi di fanciulle come di una qualsiasi
giovane. Ed è questo comune nel proprio il rivolgimento essenziale che espone l’amore
leopardiano in un sentimento che resta e si dispiega fino all’amore cosmico umano. Ed è
importante che l’amore per la sua donna sia, nel modo, lo stesso amore per la giovane perduta e
l’amore che muove verso la comunanza degli uomini, lo stesso amore, l’amore giovane.
Nessuna simbologia religiosa e umanistica o anche idealistico-romantica, nessun simbolismo
politico. Sono nomi propri comuni, talora tratti da un giornale di cronaca, talora letti su di un
bassorilievo sepolcrale, Silvia, Nerina e poi Aspasia, per dire che quell’amore fu un raggiro
retorico, e Saffo per rovesciare un mito troppo addomesticato, e leggere un contrasto dove si
esaltava un’armonia. Non deve sorprendere l’uso di questi nomi messi insieme. Nomi comuni e
nomi letterari, di quel tempo dell’infanzia della poesia che ancora non si è arreso alla storia, nomi
della Grecia classica. Eppure su questi due versanti di nomi trova sponda l’amore leopardiano. Ciò
che è popolare e ciò che è letterario, verrebbe quasi a dire di una tradizione orale e una scritta, per
alimentare l’una dall’altra, per una prora, che non sia astrazione, di un amore sospeso ed esteso
all’umano nella sua progressiva resistenza al danno della Natura.
Silvia e Nerina sono nomi “inventati”, meglio e dire, trovati. Una vicinanza della letteratura al senso
popolare che rivela l’oscillazione più propria del canto di Leopardi, un’oscillazione che è la ricerca
di un impiego e un impegno della letteratura. Tutti i suoi risvolti politici e ideali stanno connessi qui,
mancare questo rapporto sarà mancare il senso più riposto dell’amore, dell’illusione e della
ricordanza. Mancheremo propriamente il senso del canto come risonanza ed aria di un tempo
sfiorato dal rimpianto, sottratto alla delusione, rimesso all’illusione della solidarietà di un amore
cosmico: sarà così il nome “comune” della ginestra, sarà quel resistere e flettersi del suo essere
lenis, lenta. L’amore leopardiano è lento come la ginestra,
Silvia e Nerina non esistono. Sono nomi inventati, e tutto il canto che si leva per loro si svolge in
questo rimando essenziale tra l’inesistenza e l’invenzione dell’esistenza. La letteratura conosce
questo legame e lo pratica. Silvia e Nerina sono nomi “inesistenti” – letterari – di chi, “prima del
tempo”, ha interrotto la sua vita. Prima che nomi di donne amate e immaginati, sono i nomi della
morte giovane. E se l’amore leopardiano è l’amore giovane, lo è ancor di più per questa morte che
lo preserva, che lo fende e lo rifugia, lo incontamina. L’amore leopardiano non sopravvive a chi
ama.
Bellissima fanciulla e dono
perché la morte viene, non la si sceglie, seppure la si procura o si precorre. Viene, per quante
volte la si possa anticipare. Silvia e Nerina muoiono giovani. «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e
morte ingenerò la sorte, / Cose quaggiù sì / belle altre il mondo non ha, non han le stelle. / Nasce
dall’uno il bene, / nasce il piacer maggiore / che per lo mar dell’essere si trova: / l’altra ogni dolore,
/ ogni gran male annulla, / Bellissima fanciulla, / dolce a veder, non quale / la si dipinge la codarda
gente...».
C’è tutto in questi versi. C’è quella sospensione e quella resistenza, quel coraggio d’amare e il suo
naturale affiorare, c’è Bruto, Leopardi, c’è questo legame d’amore e morte, che ancora ci riporta a
Dante e a Petrarca fino al romanticismo, per dire non di una vita nova, perché altra, ma “nova”
perché giovane, «cara compagna dell’età mia nova»
La morte giovane
La prossimità è a Rilke. Basterebbe riandare in quelle «chiese di Napoli e di Roma» della prima
Elegia duinese o sostare davanti alla «lapide in Santa Maria Formosa» e leggere quelle iscrizioni
di morti giovani e ripetere: «Che cosa vogliono da me? mesto devo io assolvere l’apparir /
dell’ingiusto, che talvolta un poco / ostacola il movimento puro del loro spirito». E poi ritrovare i
versi che Leopardi riportò da Roma Sopra un bassorilievo antico sepolcrale dove una giovane
morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi o Sopra il ritratto di una bella
donna scolpito nel monumento sepolcrale del medesimo. La vicinanza si ferma là davanti: i
pensieri di Rilke e Leopardi prendono un altro verso, ma il punto d’osservazione è lo stesso:
l’amore e la morte giovane stanno insieme come qualcosa d’incompiuto e interrotto. La perfezione
del canto sa di questa interruzione e ne è la prova.
L’amore non può finire, l’amore non può esaurirsi o morire consunto, per questo la morte giovane
lo preserva, lo lascia nel suo slancio, come l’arco teso secondo l’immagine di Rilke, o come è la
ragazza nel fiore dei suoi anni rappresentata nello Zibaldone, come allegra e malinconica,
capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù,
quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla
concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, dei
patimenti: quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza
innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così
ineffabile...». È l’esperienza stessa del divino, ma come di qua, com’è nel volto di una giovane «nel
fior degli anni estinta quand’è il viver più dolce, e pria che il core certo si renda com’è tutta indarno
l’umana speme».
Rilke ha tradotto L’infinito di Leopardi, ma è su questo punto che la poetica dell’uno si separa da
quella dell’altro. Un tratto quasi impercettibile, che si racchiude in quella traduzione dove i
“sovrumani silenzi” leopardiani diventano per Rilke menschliches Schweigen, un “umano silenzio”.
Ed è un diverso senso dell’umano che li separa, perché, se con Rilke la morte non è l’interruzione
della vita, ma è di essa la parte che non si vede, come egli scriveva a Witold von Hulewicz, per
Leopardi quell’entusiasmo dell’invisibile non c’è, ovvero prende un’altra via, non quella della
continuità della vita, seppure concepita da Rilke fuori dall’immagine di un al di là cristiano. La
morte è, nei versi di Leopardi, quasi un rifugio dove la vita si cela e rifiuta, nel momento in cui è più
splendida, di rassegnare la forza del suo splendore alla vana consunzione della natura. La
fanciulla ritratta sul bassorilievo non si rattrista del suo congedo, non perché è vita ancora la morte:
la sua vita finisce dove non avrebbe dovuto mai finire, ma resta intatta per questo. L’al di là che
può raggiungere è la bellezza e la giovinezza che ha vissuto.
Ed è questo il verso più difficile dell’amore leopardiano. Insieme tornano il Diario del primo amore e
Le Ricordanze. La passione e il tempo si contendono la sua immagine. Il loro rapporto è già
all’opera nelle annotazioni del Diario, quasi espressione di una fisica dell’esperienza d’amore, una
sorta di osservazione naturalistica. Il giovane Leopardi segue i tratti della contesa del tempo e
della passione, che ha, nel sogno e nell’insonnia dell’immagine della persona amata, il piano d’un
avvicendamento per cui il tempo alla fine prende «vantaggio sulla mia passione e «la ricordanza
ch’è il fondamento della mia malinconia» fa trascorrere il primo amore verso il ricordo di ciò che
non è stato.
Il ricordo impossibile
«Silvia rimembri ancor quel tempo...»: ma come può mai ricordare Silvia? O cosa è mai per lei, che
non c’è più, il ricordo? Lo stesso accade con Nerina, quando nelle Ricordanze si è già svolto il rito
della duplicazione e sovrapposizione del tempo trascorso e del tempo che trascorre. Quasi un
voltarsi indietro o un raggirarsi della ricordanza, un passaggio che interrompe il canto o lo rinvia,
quando Leopardi chiede là di Nerina «e di te forse / non odo questi luoghi parlar? caduta forse / dal
mio pensier sei tu?...» Infine nel canto Il sogno,l’amata ricorda al poeta, che non lo ricordava, che
non lei c’è più, che non è più in vita. Dunque si può non ricordare ricordando? O, se Silvia può
ricordare, quando non è più in vita, la ricordanza stessa è di là del suo ricordo, separata. Dunque
la ricordanza è quello stato per cui si può dire di un al di là di qua. L’amore leopardiano è capace di
questo passo al di qua. E l’amore che duplica le cose in quell’immagine che attraversa il tempo e
lo vince di passione, mostrando l’invisibile come ritorno. L’amore leopardiano è l’amore capace del
ritorno. Un riandare, come del fantasma, in cui trapassa ogni immagine e che mostra l’invisibile
delle cose che le parole cercano di afferrare, come avviene con le erworbene Worte rilkiane, quelle
“parole estratte” e che estraggono l’invisibile delle cose, ma qui quelle parole sono nomi comuni di
persone e di cose. La loro proprietà è che passano, ed è questo che rende quei nomi comuni. Ma
si tratta di un passaggio che dice dell’invisibile, ed è un passaggio di qua, non oltre, un passare
che ritorna, un ripassare.
La ricordanza assomiglia alla morte o la rivela come rifugio più prossimo al suo esercizio di tenere
in serbo l’amore. Se della ricordanza è il verso «io non credea / tornar... e ragionar con voi dalle
finestre» o quello star «tacito, seduto in verde zolla / ... mirando ed ascoltando / ... pensieri
immensi ... dolci sogni ... quel lontano mar, quei monti azzurri», anche la morte può esser questo
stato, può dire di una ricordanza pura. Perché la lontananza e l’azzurro è già della ricordanza, non
del mare e dei monti. C’è come un rovesciamento, per cui è la ricordanza a dar conto, verso e
colore alle cose, non a restituirlo. Di Nerina resta la finestra ancora. Resta il «mio pensier», «sola
di te la ricordanza / trovo». La morte è come la ricordanza sola, la ricordanza pura, senza più le
cose, nemmeno più un ricordo, ma uno stato, un ritorno lasciato puro, della stessa purezza che
Leopardi attribuisce al sentimento della noia, ma senza quel nulla che la culla. La ricordanza è
pura del nulla medesimo, perché per essa le cose non sono vane, perché il ritorno che procura è al
limite dell’esistente, al confine stesso dell’esistenza, dove c’è una finestra e una siepe da dove
appare quel che non si vede e le cose sono come dovrebbero essere, dentro, raccolte come
rifugiate. La ricordanza è ancora «la casa passatoia», un luogo di sosta. La morte sarà questa
ricordanza pura? Certo è ciò che più le assomiglia, ancor più se si segue quello scambio che
Leopardi procura ogni volta al ritorno del pensiero di Nerina e di Silvia, come per mettersi al posto
loro e «mirare» tutt’intorno. Anticipando la morte o educandola ad essere rifugio dell’amore
giovane, educandola ad essere ricordo puro senza più cose, senza più la vanità del passare. La
morte sarà allora come un passato che è tale perché continua a passare come l’ultima volta e lo si
raccoglie così, semplicemente, nei nomi propri comuni di Silvia e di Nerina.
morire per
illudersi per
sempre
amare
La proprietà del ritornare è delle illusioni, esse sono ritornanti, riaffiorano anche dopo le più cocenti
smentite e per quanto siano illanguidite, tuttavia restano ancora nel mondo e compongono la
massima parte della nostra vita». La ricordanza non è più di uno stato e di un esercizio di confine,
tra la vita com’è e come non è. Un esercizio letterario in funzione attiva. Sono straordinarie le
pagine di quegli esercizi, d’una attualità incontestabile. Sono le pagine d’annotazioni, quelle che si
sviluppano quasi per associazione, con una punteggiatura minima, perché non si separino: «Canto
dopo le feste, Agnelli sul cielo della stanza. Suono delle navi. Gentiloni (otium est pater ec.).
Spezioli (chierico), dettomi da mio padre ch’io doveva essere un Dottore. Paure disciplinazione
notturna dei missionari. Compassione per tutti quelli ch’io vedeva non avrebbero avuto fama.
Pianto e malinconia per essere uomo, tenuto e proposto da mia madre per matto, compassione
destata in Pietruccio sulle mie ginocchia, desiderio concepito studiando la geografia di viaggiare.
Sogni amorosi ed efficacia singolare de’ sogni teneri notata, amore per la balia, per la Millesi, per
Ercole. Scena dopo il pranzo affacciandomi alla finestra...».
È come se le cose scorressero davanti al nostro sguardo senza di noi e si cercasse un rapporto
impossibile tra le cose e le annotazioni, perché si trattengano con noi. Un impossibile starsi
accanto, sospeso ad una barra, perché non scivolino via o colte di qua dalla siepe, dalla finestra
come da questa linea dello scritto, e noi tra loro cose tra cose, ma diversamente come
nell’inesistenza. Non sarà più il nulla, o sarà come il nulla svuotato della sua nullità,
C’è sempre una finestra, un balcone, una siepe, cosí come il bassorilievo e il ritratto, che
rappresentano, prima di un’immagine, il confine per cui ciò che vedo mi fa vedere l’invisibile. E
l’invisibile è quanto c’è di più comune: il passare. L’amore leopardiano è l’amore che ritorna,
perché è l’amore che resiste al suo inganno e alla sua perdita: l’amore leopardiano è l’amore che
passa. Non è come quel che resta, ma come quel che insiste ed immane come Il pensiero
dominante.
C’è un’immagine che raccoglie tutto questo pensiero e ne svela il gioco del visibile e dell’invisibile.
È la bellezza, Leopardi dirà prima di Rilke del bello «spaventevole», perché solo ciò che è bello
passa e resta, si trattiene in una duplicazione che ne restituisce i contorni, come nel ritorno di un
fantasma, perché la bellezza è l’immagine e il suo fantasma, la bellezza è la fonte del desiderio ed
è terribile per questo. Essa ispira amore «lungo... o nascondendo il viso», perché ciò che è bello è
come lontano e nell’approssimarsi si nasconde, perché la bellezza si scopre ed è d’essa il
passaggio dal visibile all’invisibile nel visibile. L’amore leopardiano è l’amore che duplica ciò che
c’è, facendolo più ricco di se medesimo, colmandosi.
E la bellezza è la donna leopardiana; la bellezza è anche il mondo leopardiano, la sua illusione e la
sua ricordanza, come ciò che essendo stato una volta in un primitivo naturale sfuggito alla Natura,
è ancora adesso come la letteratura e il suo compito. La bellezza sola sarà dunque il tramite della
sede in cui si espande l’amore, da quello personale, all’amor proprio, all’amore per la donna,
all’amore che si fa compassione o amor patrio, raccogliendosi in una teoria dell’amore, per cui
l’amore per l’amata e l’amore “politico” per la comunità degli uomini, sono lo stesso amore, perché
solo ciò ch’è bello è ideale e comune.
Leopardi e l'amore
"Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili; ma ho bisogno di amore".
Giacomo Leopardi scopre il sentimento amoroso nel 1817 all'età di 19 anni. A scatenare in lui la prima
passione è la cugina Geltrude che per la prima volta lo allontana dallo studio e dai suoi amatissimi libri; è
sconcertato per quello che prova, si apre davanti a lui un mondo nuovo e sconosciuto che gli ispira così le
prime poesie d'amore e la stesura del Diario del primo amore in cui riferisce tutti gli avvenimenti di quel
periodo.
Negli anni successivi Leopardi crea nel proprio immaginario una figura di Donna-idea che trova
espressione nella poesia Alla sua donna dove idealizza la femminilità, perdendo così la speranza di
trovare qualcuno che incarni realmente tutti i suoi desideri. Passeranno altri dieci anni, ed è nell'estate
del 1834 che il poeta incontra una persona che secondo lui assomiglia alla donna ideale di questa poesia:
la signorina Fanny Tongioni Tozzetti, amica comune di Ranieri e Leopardi. Attraverso questo nuovo amore
prende forma nel poeta l'idea del Pensiero dominante.
Nell'amore leopardiano il sentimento diventa la cosa più importante e tutto il resto impallidisce e
scompare: è una passione che allo svanire dell'illusione diventa l'amore cosmico della compassione. Negli
inni amorosi Leopardi esprime tutti i tempi della sinfonia d'amore: invocazione, estasi, delusione,
preghiera accorata, inno di gloria, rinuncia rassegnata. L'amore leopardiano è desiderio infinito, è la
condizione in cui più si annida la Natura nella sua contradditorietà, pronta a corrodere e a far perdere
tutto quanto, in realtà, non è mai stato dato.
Per Leopardi l'illusione è dell'amore il frutto più dolce e più amaro in tutte le sue espressioni, dall'amor
proprio all'amor patrio all'amore per chi si fa amare. Leopardi non cade nella delusione e nemmeno nel
rimpianto, resta nell'oscillazione dell'illusione e della ricordanza: l'una è lo stato dell'attesa come nel
sogno a occhi aperti, l'altra è la condizione di chi resta svanito davanti allo svanire di ogni cosa.
Se lo si confronta con il sentimento amoroso di Dante o di Petrarca, al quale si ispira e che rientra nella
sfera dell'amore platonico, si capisce che per lui l'amore è senza compenso, non si concilia e non solleva,
non forma più di quanto non resiste, è un amore senza al di là.
L'amore leopardiano non è sacrificale, è naturale, viene, persiste, insiste, resiste; è amore sospeso, non
conosce l'eternità temporale o sovratemporale.
"È dunque quel che c'è che ci manca?".
Il poeta dedica le sue poesie a donne esistenti, a donne immaginarie, a donne idealizzate; ne utilizza
l'immagine per creare un mosaico di volti e situazioni in cui esprime il tutto e il nulla, la solidità del nulla:
Beatrice, Laura, Silvia, Nerina e poi Aspasia e Saffo sono un mezzo per dare voce alla dimensione
amorosa.
L'amore leopardiano è lento come La ginestra e sopravvive a chi ama; l'amore non può finire, non può
esaurirsi o morire consunto.
La morte è nei versi di Leopardi quasi un rifugio in cui la vita si cela e si rifiuta, nel momento in cui è più
splendida, di rassegnar la forza del suo splendore alla vana consunzione della natura.
"Morire per illudersi, per sempre amare".
La morte allora sarà come un passato che è tale perché continua a passare come l'ultima volta.
Leopardi dice che la vita è lo scorrere delle cose davanti a noi e si fa di tutto per fermare il tempo, per
catturare ciò che è davanti allo sguardo, imprimendolo così nella memoria attraverso un foglio bianco e
una penna; c'è sempre una finestra, un balcone, una siepe, l'orizzonte marino, così come il basso rilievo e
un ritratto, che rappresentano prima di un immagine il confine per cui ciò che si vede ci fa vedere
l'invisibile: quindi il passare e il riapparire.
L'amore leopardiano è l'amore che ritrova, perché è l'amore che resiste al suo inganno e alla perdita: il
pensiero dominante, come una torre in un campo solitario.
"E fieramente mi si stringe il cuore a pensare che tutto il mondo passa e quasi orma non lascia".
Verso il 1834, quando Leopardi è già gravemente malato e definitivamente ospite dell'amico Ranieri, si
delinea in lui una visione rassegnata; dopo l'ennesima delusione dovuta al rifiuto da parte di Fanny
capisce che mai incontrerà la donna idealizzata e immaginata che vive solo nei sogni. Nelle sue opere
finali come Tramonto alla luna e La ginestra il poeta si rivolge alla Natura per cercare conforto e per
entrare a far parte del mondo come unità di tutte le cose; dopo aver scritto queste ultime due poesie
muore nel febbraio 1837.
"Leopardi è il primo amore: l'amore giovane, l'intimità rubata, immaginata, fatta d'attesa e ricordo; "una
grandissima pazienza impazienza", un sogno senza sonno; un sogno insonne, il pensiero che più domina"
(Giuseppe Ferraro, vedi nota bibliografica)
Francesca Giusti
Nota bibliografica:
Diario del primo amore, G. Leopardi, ed. Sansoni, 1988.
Canti, G. Leopardi, ed. Oscar Studio Mondadori, 1978.
Zibaldone, G. Leopardi, ed. Newton Compton, 1997.
Giacomo Leopardi, viaggio nella memoria, F. Cacciapuoti, ed. Electa, 1999.
L'amore leopardiano, G. Ferraro, ed. Biblioteca Classici Italiani, 2001.