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FORMAZIONE E LAVORO
periodico dell’Enaip (Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale)
Redazione:Via Giuseppe Marcora 18 – 00153 Roma – tel. 06/5840680
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Editore: Aesse Comunicazione – Via Giuseppe Marcora 18 – 00153 Roma
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Direttore responsabile: Lanfranco Norcini Pala
Direttore editoriale: Maurizio Drezzadore ([email protected])
Redazione: Battista Castagna ([email protected]), Fabio Cucculelli ([email protected])
Editing e segreteria di redazione: Alessandra Cametti ([email protected])
Supplemento al n. 3/2008 di Acli Oggi – Registrazione tribunale di Roma n. 9408/63 del 26/9/1963
Progetto grafico e impaginazione: Aesse Comunicazione
Stampa: Ugo Quintily S.p.A. – Roma
Una copia euro 7,00 – Abbonamento annuo (3 numeri) euro 15,00
pagamento tramite bollettino postale sul conto 43846005
pagamento tramite bonifico sul ccp avente codice IBAN IT 98 N 07601 03200 000043846005
intestato a Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale – Via Giuseppe Marcora, 18/20 –
00153 Roma (specificare la causale del versamento:“abbonamento FL”)
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Indice
Editoriale
Con i giovani per contrastare il declino
5
Maurizio Drezzadore
1. PARTE •
Obiettivo
Il mestiere dell’Enaip nei mutamenti della formazione
13
Vincenzo Maria Menna
Spe Salvi: riaccendere la voglia di futuro
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Elio Paolo Dalla Zuanna
Spe Salvi: libertà, ragione, speranza
25
Francesco Mattei
Allargare lo spazio della razionalità
35
Domenico Sigalini
Essere cristiani nel tempo del ricominciamento
41
Marco Guzzi
Bulimia della formazione, anoressia dell’educazione
49
Francesco Mattei
L’esperienza dei percorsi triennali in Puglia
63
Irene Bertucci, Leonardo Verdi Vighetti
Storia e analisi dell’accreditamento in Italia
75
Massimo De Minicis
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2. PARTE •
Focus
Il fare dell’uomo nell’ottica del pensiero biblico
99
Massimo Grilli
Promuovere, tutelare e rappresentare il lavoro
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Camillo Monti
Tra fordismo e nuovi lavori
115
Agostino Megale
Rappresentare il lavoro frammentato
121
Giuseppe Acocella
Giovani al lavoro: primi approcci e alcuni effetti
131
Andrea Casavecchia
(Cercare di) lavorare a 45 anni
139
Alessandro Serini
Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro
149
Simona Bartolini, Cristina Morga, Federica Volpi
3. PARTE •
Zoom
Promuovere la solidarietà fra le generazioni
161
Luca Jahier
Verso principi comuni di flessicurezza
181
Commissione delle Comunità Europee
4
indice
editoriale
Con i giovani
per contrastare il declino
di Maurizio Drezzadore
Il nostro punto di vista sono i giovani, verso di loro vogliamo sia più attenta la società civile, più interessata la politica, più impegnato lo stato
sociale.
Così scrivevamo nel primo numero di questa nuova stagione editoriale
di Formazione & Lavoro, indicando il faro che illumina il nostro cammino
culturale.
Se si farà spazio a questo nuovo punto di vista dal quale ricominciare a guardare alla vita nazionale, l’Italia inizierà la risalita dal declino entro cui si è
avviluppata ormai da molti anni. Infatti non siamo più in grado di guardare
al futuro perché non pensiamo ai giovani e perché ci siamo immiseriti nel
dilagare degli egoismi collettivi. Amiamo quei pochi figli che abbiamo, li proteggiamo e li aiutiamo, ma solo in famiglia e in privato, mentre l’insieme delle politiche vanno in direzione opposta.
Ci sembra questo il punto di vista più giusto per avviarci verso il 23° Congresso nazionale delle Acli. Migrare dal Novecento è prima di tutto lasciarci
alle spalle i vecchi corporativismi, le incrostazioni e le chiusure che perpetuano una società troppo chiusa, scarsamente dinamica e con modestissima mobilità sociale, tutta protesa a difendere vecchi privilegi, modelli stantii, regole ingessate, guidata da una politica che ha assunto a proprio orizzonte l’immediato e che fa il massimo sforzo nel procrastinare la soluzione dei tanti problemi della propria agenda governativa.
Col risultato di scaricare sulle giovani generazioni le contraddizioni e gli
sprechi che oggi non si vogliono eliminare. Chiusure ed incrostazioni che
hanno generato una bassa crescita economica, un tessuto produttivo for–– Maurizio Drezzadore Direttore Formazione e Lavoro
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temente esposto alla concorrenza internazionale ed una esasperante lentezza nel procedere verso riforme strutturali. Bisogna metter mano a tutto ciò nella convinzione che le ragioni del nostro declino, prima ancora che
essere di natura economica sono di natura culturale e sociale: si è inceppato lo scambio virtuoso tra le generazioni adulte e i giovani.
Oggi in Italia dalla politica alle professioni, alle imprese di famiglia, alle rappresentanze sociali si privilegia la continuità rispetto al cambiamento, la cooptazione rispetto alla selezione, la successione rispetto al ricambio. Questi meccanismi “a chiamata” hanno istituito vere e proprie caste inamovibili che rappresentano un tappo allo sviluppo della mobilità sociale.
E invece avremmo bisogno di aprirci a nuovi orizzonti, saper guardare al
futuro, privilegiare il cammino delle giovani generazioni, essere attenti al
bene comune. Perché ciò che abbiamo non è nostro, è ciò che ci hanno
dato in prestito i nostri padri e che dovremo a nostra volta restituire ai
figli, ed è bene che cominciamo al più presto per renderli protagonisti del
cambiamento.
Nonostante in questi ultimi anni numerose novità e cambiamenti abbiano
innovato le politiche sociali in molti paesi europei, in Italia siamo ancora
prigionieri di una visione risarcitoria. È proprio dentro a questo meccanismo risarcitorio che continueremo ad avere sempre politiche disattente ai
giovani e ai bambini e protese ad anziani e adulti. Sono infatti queste fasce
di popolazione che, avendo già vissuto una buona parte della propria vita,
possono aver accumulato disagi e processi di marginalità sociale tipici delle complesse dinamiche del mercato e conseguentemente vantare pretese
che lo Stato compensi questa loro condizione precaria.
Dentro questi confini culturali si è costruito nel Novecento lo stato sociale fordista che ha definito i propri obiettivi nel riequilibrio economico tra
le classi, che ha stabilito che la misura di ogni intervento fosse il lavoro con
i suoi ritmi, le sue tutele e le sue forme risarcitorie. Da qui deriva conseguentemente la centralità pressoché esclusiva che il maschio, capofamiglia,
lavoratore dipendente dalla grande azienda mantiene nel welfare italiano.
Non sorprende che questo approccio culturale abbia finito per ignorare la
famiglia, la maternità, la tutela della donna al di fuori del rapporto di lavoro e, più di ogni altra cosa, abbia abbandonato i giovani.
Ma anche solo a voler continuare a guardare, ancora con l’ottica dello Stato sociale fordista, esclusivamente attento alle dinamiche del mercato del
lavoro, ci si rende conto che non è più possibile nella società e nell’economia della conoscenza, nell’era dei lavori, continuare ad intendere il welfare
come 30 anni fa.
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Infatti oggi l’inadeguatezza di questo modello non si limita al fatto di non
saper stare al passo con i mutamenti del lavoro e dell’economia, che lui
stesso ha eretto come unici punti di riferimento del proprio operare.
Ma ha prodotto la propria crisi in conseguenza del limite intrinseco del
suo agire.
È proprio dentro a questo modello di politiche di welfare e dentro all’inesauribile spinta alla spesa pubblica che abbiamo lasciato ad ogni bambino
che nasce un enorme debito da risanare. E visto che di bambini ne stanno
nascendo sempre meno, quei pochi che ci sono vedranno accrescere sulle
loro spalle questo pesante fardello.
Anche solo a guardare al welfare con occhio risarcitorio - e quindi in perfetta linea con la tradizione del nostro stato sociale - almeno per i prossimi 10 anni dovremo capovolgere i destinatari degli interventi e sostituire
il lavoratore adulto con i giovani e i bambini per rimediare al pesantissimo
debito che lasciamo sulle loro spalle.
La società italiana, non solo la politica, ha prodotto un enorme cumulo di
debito pubblico. Un debito che è stato contratto non certo per investimenti in infrastrutture, non per lasciare in eredità un adeguato sistema di istruzione e formazione, né per aver speso molto in ricerca e tecnologie, al contrario si è sperperato su pensioni baby, sul pubblico impiego e si sono pagate enormi cifre per interessi sul medesimo debito.
In particolare, la spesa pensionistica italiana era pari al 2% del Pil a metà
degli anni Cinquanta, è diventata del 9% alla fine degli anni Settanta, per raggiungere il picco del 15% negli anni più recenti. Siamo il paese che più spende per gli anziani in quota parte del proprio reddito nazionale, incuranti del
fatto che continuare a spendere significa aggravare il debito che lasciamo
sulle spalle dei nostri figli.
L’allungamento della vita è stato una delle conquiste più significative della
scienza di questi ultimi quarant’anni, portandoci a vivere 10 anni in più. Nel
contempo invece di allungare anche la vita lavorativa noi l’abbiamo accorciata. Negli anni Sessanta si andava in pensione a 63 anni, oggi a 58. Questo
irragionevole regime pensionistico viene pagato da chi oggi entra nel mercato del lavoro e il maggiore onere del sistema pensionistico italiano è oggi il massimo responsabile del venir meno di ogni serio patto intergenerazionale. Il rischio è che i giovani d’oggi abbiano dopo 40 anni di lavoro e
dopo aver concorso al pagamento delle pensioni dei nonni e dei padri un
reddito pensionistico poco sopra il livello di sussistenza. Bisogna pertanto
ridurre per i prossimi trenta, quarant’anni la spesa pensionistica che sta sulle spalle dei nostri figli. Ciò significa che poiché si vive più a lungo si dovrà
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anche lavorare più a lungo e chi si ritira prima dalla vita attiva non dovrà
avere le stesse condizioni di chi si ritira dopo.
L’amore dei genitori italiani per i propri figli non ha impedito la più massiccia redistribuzione di risorse in senso inverso che si conosca tra i paesi dell’occidente. Abbiamo lasciato una valanga di debiti ed un paese privo di investimenti. Su ogni giovane italiano pesano oggi 80 mila euro di debito pubblico e più di 250 mila di debito previdenziale.
Si capisce perché molti ormai considerino non più accettabile che di fronte a tanti guai che stiamo lasciando in eredità ai nostri giovani si continui a
tenere immobilizzato oltre il 65% di spesa sociale sulla previdenza e si ritenga di tutelare sacrosanti diritti quando si discute se andare in pensione
a 58, 59 o 60 anni. Nel resto d’Europa invece si va in pensione a 65 anni ormai da parecchio tempo e nei paesi più virtuosi la spesa previdenziale non
supera il 40% della spesa sociale. In questi stessi paesi in formazione e servizi per l’infanzia si spende più di quanto si spende per gli anziani.
La famiglia e la formazione sono due ambiti esemplari di come vada profondamente cambiata la logica politica della spesa pubblica.
Aver ignorato la famiglia come il vero e primario attore verso il quale riferire le politiche sociali sta portando ad effetti devastanti. Da un lato ha aggravato la grave crisi demografica che persiste e in Italia non vede segni di
inversione; dall’altro ha concorso alla perdita di senso della famiglia nel contesto civile e nella cultura nazionale, tanto da divenire uno dei tanti possibili stili di vita, una variabile della convivenza tra persone. Il risultato è che
per un terzo delle famiglie italiane avere il terzo figlio significa entrare in
condizione di povertà, senza contare quelle che già si impoveriscono con
il secondo figlio.
La famiglia riesce sempre meno ad attutire l’impatto di queste distorsioni,
anche se in passato ha operato come un vero e proprio ammortizzatore
sociale. Oggi è sempre più piccola, porta il peso di tante separazioni che la
rendono economicamente meno capace di fronteggiare le difficoltà economiche dei propri figli.
Ma in famiglia come si ripartiscono le risorse e ci si da una mano per superare i problemi di natura economica, così si trasmettono anche i patrimoni e le povertà. L’1% dei figli fortunati oggi riceve in eredità dai propri
genitori oltre il 30% di tutta la ricchezza nazionale.
La vera questione è saper mettere in campo nuovi strumenti attraverso i
quali la società promuove quei talenti che rischiano di non potersi manifestare perché non dispongono dentro al circuito familiare né di risorse, né
di opportunità.
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I giovani d’oggi sono scarsamente coscienti del divario che caratterizzerà
la loro esistenza rispetto a quella dei propri genitori. Avranno un livello di
istruzione superiore ai loro padri, ma il valore dei titoli di studio è oggi decisamente più basso di una volta, ma avranno anche un lavoro molto più instabile e con una retribuzione inferiore. Avranno pensioni molto più ridotte, dovendo a propria volta pagare con la loro contribuzione la generosità
delle pensioni di padri e nonni.
“Prima le donne e i bambini” è rimasto uno slogan della politica circoscritto in una brevissima stagione del dibattito di due anni fa. Invece in Svezia,
Inghilterra e Irlanda, solo per citare alcuni tra i principali paesi europei, nell’ultimo decennio effettivamente si è orientato il welfare verso le donne e
i bambini. Anche Estonia e Slovenia stanno imboccando quella strada. L’Italia, invece, segna il passo.
Tutte le considerazioni fatte fino ad ora ci portano ad affrontare alla radice le distorsioni del welfare del XX secolo, con la consapevolezza che rimettere mano allo Stato sociale significa anche cambiare radicalmente le
logiche che regolano la rappresentanza democratica e la rappresentanza
politica. Alcuni anni fa le Acli lanciarono una provocazione: facciamo votare i genitori in rappresentanza dei bambini e dei minori. Al di là della
molto tiepida accoglienza che questa nostra proposta ottenne, essa rappresentava una sfida vera. Finché attraverso il voto gruppi di pressione e
di interesse condizionano le scelte politiche e finché la politica si fa paladina di interessi corporativi e di potere, ogni radicale mutamento delle regole dello stato sociale sarà del tutto impossibile. L’insieme di questi attori collettivi portatori di interessi particolaristici cercherà di sovrastare
in nome di propri benefici ogni impegno verso il bene comune, che finirà
con l’essere pura retorica.
Dentro a questo scenario di corporativismo diffuso diventano del tutto irrilevanti gli scambi intergenerazionali, viene ridotta l’importanza di ogni comunità e di tutte quelle formazioni sociali che non si erigono a difesa di interessi particolaristici. In definitiva la politica, incapace di farsi interprete di
un progetto di lungo periodo, finisce con lo svilire anziché esaltare la dimensione sociale e solidale di ogni persona, di ogni comunità e di ogni organizzazione sociale. Deprezza il capitale sociale invece di farne il fondamento per il futuro.
Tanta crisi attuale della politica e delle istituzioni in Italia sta proprio nel
fatto di aver reso irrilevanti queste priorità, confinandole in un angolo e negando ad esse ogni rilevanza sociale. In questo contesto, conseguentemente risulta sempre più difficile affermare la logica del dono e della cura, che
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invece è costitutiva del bene comune e della ricerca di un benessere propriamente umano e di tutti.
Se vogliamo dare impulso ad una nuova stagione della politica dobbiamo
guardare verso nuove direzioni, capire fino in fondo i bisogni reali della gente, anche quelli immateriali, perché il benessere non può essere concepito
come unicamente materiale, utilitaristico e individuale. Il vero benessere
sta nella relazione e non nel possesso di beni e ricchezze.
Spendendo in pensioni non si spende in formazione, spendendo per risarcimento non si spende per l’investimento. Lo dimostra il protocollo sul welfare del luglio 2007 che ignora la formazione, quando nel resto d’Europa si
discute della formazione come il welfare del futuro.
Il ruolo fondamentale dell’apprendimento, della formazione e dell’aggiornamento delle competenze dall’infanzia fino all’età matura non trova adeguati investimenti e, come ci ricordano gli impegni politici che i paesi Ue si
sono dati al Consiglio europeo di Lisbona, ci troviamo agli ultimi posti della graduatoria, superati dalla stessa Romania, quanto a dispersione scolastica giovanile, conseguimento di diploma secondario superiore e formazione in età adulta.
Finché si continuerà a privilegiare lo stato sociale del risarcimento continuerà a mancare l’attenzione ad un moderno welfare orientato all’equità
e all’uguaglianza di opportunità, che per sua definizione dovrebbe cominciare ad intervenire già nei primissimi anni di vita dei bambini.
Nei paesi dove si studia di più e meglio il reddito pro capite è superiore rispetto a quelli dove si studia meno, mentre oggi in Italia solo il 33% della
popolazione ha una istruzione secondaria superiore.
Quando la scuola funziona male smette di essere un canale di promozione sociale e così i figli dei ricchi diventano ricchi, i poveri rimangono poveri, perché la regola è che i figli trovano un lavoro corrispondente a quello
dei genitori. Se avessimo una popolazione attiva più istruita probabilmente avremmo anche più imprese che operano in settori produttivi a tecnologia più avanzata e più propensione alla ricerca.
Ma in Italia la struttura delle retribuzioni premia assai poco l’impegno profuso per istruirsi. Infatti il differenziale di reddito tra un laureato e un diplomato è mediamente solo del 6,5% e abbiamo un più alto tasso di disoccupazione tra chi ha una laurea rispetto a chi ha i livelli inferiori di istruzione. Ma succede anche che 7 laureati su 10 dichiarano che le competenze
acquisite a scuola e all’università non sono utili nel lavoro.
E così registriamo impotenti alla migrazione di ricercatori che lascia l’Italia
diretta negli Stati Uniti e nei maggiori paesi europei, dove vengono molto
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più ricompensate competenze, titoli e merito; mentre nelle università italiane il 30% dei docenti ha più di 65 anni e solo 9 ordinari su oltre 18 mila hanno meno di 35 anni.
Un altro ostacolo, in questo infinito slalom che è la condizione giovanile, è
legato al lavoro. È vero che i giovani d’oggi entrano nel mercato del lavoro
con meno difficoltà rispetto a dieci anni fa, perché è diminuita la disoccupazione giovanile, ma è anche molto più difficile che nel passato mantenere il proprio posto di lavoro. C’è meno disoccupazione nella ricerca del primo impiego, ma ce n’è di più tra chi perde il lavoro. Non solo è discontinua e incerta la traiettoria lavorativa dei giovani, ma è anche meno redditizia. È infatti aumentata la distanza di retribuzione tra i giovani e i sessantenni. Negli ultimi 10 anni i giovani in ingresso nel mercato del lavoro hanno visto ridursi la propria retribuzione oltre l’11% rispetto a dieci anni fa.
Inoltre i giovani con contratto temporaneo hanno il rischio di perdere il
lavoro cinque volte più alto della popolazione adulta con contratto a tempo indeterminato. È questo il dualismo del nostro mercato del lavoro: moltissimi giovani entrano con contratti provvisori e fanno difficoltà a trasformare in stabilità questa loro provvisorietà.
Conseguentemente l’incidenza della povertà in Italia si è molto abbassata
nella fascia d’età oltre i 65 anni ed è cresciuta nelle fasce d’età giovane. Oggi il rischio di povertà è quattro volte superiore nelle giovani famiglie dove maggiormente si trovano lavoratori temporanei.
La vera protezione contro il rischio di licenziamento nell’era della globalizzazione è data principalmente dalle competenze acquisite e quindi dalle
condizioni favorevoli di accesso alla formazione. Mentre gli investimenti in
formazione sia pubblici che delle imprese sono oggi insufficienti e significativamente più bassi se riferiti ai lavoratori temporanei.
Per tutte queste ragioni c’è una legittima attesa che la politica riesca a promuovere e valorizzare la formazione, in particolare verso gli adulti. C’è un
disegno di legge che il governo ha recentemente predisposto sull’apprendimento permanente e c’è una proposta presentata dal senatore Luigi Bobba. Si tratta di introdurre strade nuove che affianchino gli strumenti già attivi nell’ambito della formazione continua e degli adulti. Le Acli, non da oggi, propongono che lo Stato incoraggi i cittadini alla frequenza di attività
formative attraverso la deducibilità fiscale delle spese sostenute. Nelle due
passate legislature non si è saputo dar vita a questo nuovo provvedimento. Si riuscirà a farlo nella prossima?
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obiettivo
Il mestiere dell’Enaip
nei mutamenti
della formazione
di Vincenzo Maria Menna
Nel gennaio 2007 il Consiglio Nazionale delle Acli ha deciso di convocare
gli Stati Generali della formazione professionale aclista aprendo così un percorso di riflessione preparatorio che si è concluso a Padova il 28-29 novembre scorso nell’ambito della VI Assemblea dei servizi e delle imprese
delle Acli.
L’obbiettivo dichiarato era quello di avviare una nuova stagione di riflessione all’interno dell’Enaip e del sistema delle Acli e di confronto sociale esterno con le realtà impegnate nel mondo della formazione e con i decisori
istituzionali. Siamo infatti consapevoli che la formazione professionale sia
un valore, un diritto fondamentale e irrinunciabile della persona sancito anche dalla nostra Costituzione oltre che un’occasione straordinaria di crescita per ogni cittadino.
La formazione professionale ha contribuito in questi anni a sanare situazioni di disagio, ad arginare il fenomeno dell’abbandono scolastico, a restituire fiducia a coloro che avevano perso qualsiasi speranza di entrare nel mondo del lavoro.
Gli Stati Generali della formazione aclista hanno rappresentano quindi in
primo luogo un richiamo alla mission originaria, alla nostra storia di ente
di formazione professionale che in questi anni si è fatto vicino a chi usciva
dai circuiti scolastici e lavorativi.
Ci eravamo posti alcuni obiettivi generali: quello di rafforzare la presenza
del sistema formativo territoriale; di potenziare la rete formativa nelle proprie sedi estere per corrispondere in modo più puntuale alle esigenze dei
nostri connazionali; di sviluppare un confronto con le forze politiche e so–– Vincenzo Maria Menna Presidente Enaip
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ciali; di mettere in campo iniziative progettuali per concorrere alla realizzazione dei diritti formativi dei cittadini. A distanza di un anno possiamo
dire di essere sulla strada giusta anche se il confronto con le forze politiche, ben avviato e che avrebbe potuto portare alla convocazione della Conferenza nazionale della formazione professionale, ha subito una battuta d’arresto a causa della crisi del governo Prodi.
Dagli Stati Generali è maturata la proposta di costituire tre gruppi di lavoro – il primo relativo alle politiche della formazione professionale, il secondo al progetto educativo e culturale dell’Enaip, il terzo al modello organizzativo – con il compito di individuare alcune linee guida da portare all’attenzione delle forze politiche e sociali. Si tratta di un’idea che non va abbandonata ma sviluppata per essere ancora una volta interlocutori autorevoli del prossimo governo che guiderà il Paese.
Crediamo infatti che la formazione professionale sia un importante volano
per lo sviluppo dell’Italia e per la sua coesione. La formazione rappresenta
il vero ammortizzatore sociale del futuro e un cardine delle politiche attive di welfare. Senza formazione non potrà ridursi l’instabilità e la precarietà nei rapporti di lavoro, perché ogni aggiornamento e cambiamento nei
processi lavorativi rischia di tradursi in un dramma sociale. Senza formazione sarà più difficile creare competizione tra imprese e migliorare la qualità dei prodotti e la competitività complessiva del Paese.
Le Acli e l’Enaip credono che oggi la formazione professionale debba avere un progetto educativo e culturale, una identità ben definita con cui contribuire al pieno sviluppo delle persone, delle comunità e dei territori. Proprio tramite un impegno educativo quotidiano la formazione professionale aclista intende partecipare alla edificazione di una società equa, garante
dei diritti di tutti, orientata alla ricerca di una rinnovata etica del lavoro, al
raggiungimento e al miglioramento delle competenze professionali, all’esercizio delle virtù sociali della partecipazione, della solidarietà e dell’accoglienza nella prospettiva della costruzione di un ethos civile condiviso.
In questo senso l’Enaip si sente in piena sintonia con gli Orientamenti Congressuali che concepiscono le Acli come «comunità educante di adulti in
cammino, che invita a condividere un percorso, a “stare” nella città degli
uomini in maniera responsabile, partecipe, vitalizzante, ma anche critica1».
L’Enaip non si sente geloso del suo patrimonio ma vuole condividerlo con
tutta l’associazione per dare il proprio contributo al potenziamento della
sua proposta formativa perché possa essere meglio contestualizzata e incisiva. Intendiamo in questo modo stare dentro ad un’idea di «formazione
di sistema, che veda le persone protagoniste nella costruzione di processi
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obiettivo
obiettivo
di apprendimento ancorati ad orientamenti culturali consistenti e a una spiritualità profonda; una formazione che tenga insieme dimensioni cognitive
ed emotive, ideali e professionali, organizzative e sociali2».
Alcune linee di impegno per il futuro
Le profonde trasformazioni che coinvolgono il mondo del lavoro chiedono al sistema della formazione professionale una capacità continua di cambiamento e adattamento e ci spingono a ridisegnare il ruolo, i compiti e
l’azione formativa dell’Enaip nel suo complesso. Far fronte a questi mutamenti, per una realtà complessa e articolata qual’è Enaip, significa prima individuare alcune strategie generali. In questi anni la formazione ha modificato sostanzialmente i propri scenari e richiede oggi un forte lavoro di innovazione per renderci capaci di mantenere il primato storico che forse
ancora deteniamo. In questa ottica ogni riflessione che voglia guardare al
futuro non può prescindere dal promuovere i punti di eccellenza del nostro servizio, valorizzando l’intera rete e accrescendo le sinergie.
Fatta questa premessa credo sia utile mettere in evidenza alcune linee di
impegno emerse nell’ambito della riflessione portata avanti durante gli
Stati Generali della formazione aclista su cui l’Enaip intende puntare nel
futuro.
a) Il contrasto alla dispersione scolastica
Come noto, la definizione legislativa che ha dato vita all’obbligo di istruzione ha compresso la formazione professionale chiamandola a concorrere
all’assolvimento dell’obbligo di istruzione fino al sedicesimo anno di età in
quanto titolare di percorsi di contrasto alla dispersione scolastica.Vi è quindi l’esigenza di posizionare la presenza di Enaip nell’ambito della formazione iniziale nell’area del contrasto alla dispersione. All’interno dei progetti
attivabili per contrastare la dispersione, non possono mancare attività finalizzate alla prevenzione di questo fenomeno; è infatti ormai assodato, dopo molti anni di iniziative e di progetti attuati nei territori spesso con esiti deludenti, che la dispersione va prevenuta prima ancora di essere combattuta. L’azione di contrasto ad essa sarà efficace solo se il sistema formativo saprà mettere in campo un’offerta formativa diversificata capace di incontrare i diversi stili cognitivi dei ragazzi d’oggi senza dimenticare che la
dispersione è prima di tutto figlia dell’eccesso di standardizzazione dei percorsi ed in particolare di quelli scolastici.
Siamo quindi chiamati a mettere in campo come Enaip le più varie tipologie formative: alcune delle quali condotte in autonomia nella formazione
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professionale altre da sviluppare in integrazione con la scuola secondaria
superiore. In particolare crediamo che l’esperienza innovativa dei poli formativi, stabilmente costituiti tra scuola, formazione e reti di imprese rappresenti un ambito adeguato a corrispondere ai fabbisogni formativi dei
giovani.
b) La formazione tecnica superiore
È giunto il momento di dar vita ad un segmento di formazione superiore
non accademica che consenta, in modo stabile e con qualificato indirizzo
tecnologico, di recuperare il gap esistente oggi tra l’Italia e gli altri Paesi europei. Questo segmento formativo corrisponde fortemente all’esigenza posta dall’evoluzione del mercato del lavoro, dal crescente bisogno di tecnici, quadri e specializzati nel sistema manifatturiero e nei servizi dell’economia italiana. Ci si attende che la riorganizzazione del sistema di istruzione
riesca a dare finalmente risposte adeguate ai bisogni delle imprese e del
mercato.
L’Enaip ritiene pertanto che, pur nella disorganicità e frammentarietà delle politiche di questi anni, sia possibile dar vita a nuove filiere formative che
possano superare quella separatezza che si è storicamente consolidata tra
scuola e formazione professionale.
c) Il diritto all’apprendimento permanente
In Italia mancano vere e proprie strategie sull’apprendimento permanente.
In considerazione degli insufficienti livelli di istruzione acquisiti in gioventù,
delle patologie dell’insuccesso e della dispersione scolastica diventa sempre più urgente dotare il nostro Paese di un sistema di formazione permanente capace di fornire quelle competenze e conoscenze necessarie per
permanere nel mercato del lavoro. I giovani che non hanno solide competenze di base e che nell’esperienza scolastica hanno maturato frustrazioni,
da adulti difficilmente riescono ad accedere alla formazione per il lavoro
come opportunità di crescita culturale e rischiano, in alcuni casi, di essere
espulsi dal mercato del lavoro (si pensi al tema degli over 50).
Nell’ottica di riposizionare il sistema Italia nel contesto della società e dell’economia della conoscenza, la qualità delle risorse umane è un fattore imprescindibile. Questo obiettivo non è raggiungibile solo con interventi formativi standardizzati o dentro il sistema scolastico ma introducendo una
attenzione specifica alla formazione continua.
Il permanere di un elevato differenziale tra l’Italia e il resto d’Europa in tema di lifelong learning si spiega prevalentemente con l’assenza di adeguate
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obiettivo
obiettivo
politiche di educazione degli adulti. Non disponiamo infatti di una normativa nazionale che sancisca il diritto degli adulti alla formazione come valore insieme sociale e individuale, e che lo sostenga con finanziamenti dedicati e dispositivi adeguati.
È urgente in sintesi attivare politiche pubbliche che investano sulla formazione continua, promossa da imprese e sindacati, come volano di occupabilità per i lavoratori e come possibilità di intercettare quelle tipologie di
lavoratori oggi escluse da qualsiasi percorso formativo.
Si tratta quindi di andare verso nuove strade che portino al riconoscimento dei diritti individuali di formazione, come le Acli hanno indicato alcuni
anni fa. Solo affidando direttamente al cittadino l’opportunità di migliorare
la propria posizione professionale frequentando idonei percorsi formativi,
si potrà mettere in moto un nuovo e virtuoso circuito di accesso a più elevate competenze e rendere meno rigido il mercato del lavoro.
note
1 Acli, Orientanti congressuali. Migrare dal Novecento, abitare il presente, servire il futuro,Aesse, Roma, 2007, p 59.
2 Ivi, p 59.
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obiettivo
Spe Salvi: riaccendere
la voglia di futuro
di Elio Paolo Dalla Zuanna
Un tema attualissimo, quello della speranza. Dire speranza vuol dire guardare al futuro. È ormai da decenni, con una particolare intensità dall’ultimo
dopoguerra, che essa figura all’ordine del giorno dei lavori e delle preoccupazioni della comunità cristiana.
Perciò parlarne, come di un segno dei tempi in senso proprio, non è affatto una forzatura. In anni piuttosto recenti vi era stato il fascino del futuro,
negli anni Sessanta era il mito del progresso, in seguito vi è subentrata la
paura nel futuro con i tragici anni Settanta segnati dal clima di terrore e dal
piombo, poi la dimenticanza del futuro, che coincide con l’epoca della postmodernità, in cui vale soltanto il “cogli l’attimo fuggente, perché del domani non vi è alcuna certezza”.
Oggi, anche solo considerando il nostro paese, si respira un clima di melanconica negazione del futuro e del rassegnato ripiegamento sul presente, chiuso in se stesso, senza più legami né con il passato né con il futuro.
Siamo proprio di fronte a un ridimensionamento della speranza, che non
ci aiuta ad allargare lo sguardo da nessuna parte.
«È offuscato, se non addirittura scomparso nella nostra cultura – affermavano
in nostri vescovi nel piano pastorale decennale – l’orizzonte escatologico, l’idea
che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza di vita che va al di là di essa.Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiastici, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle ultime realtà e della vita eterna» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2).
Di recente Umberto Galimberti ha qualificato la storia di oggi come il tempo del nichilismo, considerato da Nietzsche «il più inquietante fra tutti gli
–– Elio Paolo Dalla Zuanna Accompagnatore spirituale Acli
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ospiti». Si tratta di «un ospite inquietante – afferma il filosofo lombardo –,
il nichilismo si aggira tra loro (riferendosi ai giovani di oggi), penetra nei loro sentimenti e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il
mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del
consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno
in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa».
Siamo in piena stagione del pensiero debole, definibile come corto e a tempo; un suo esponente, Gianni Vattimo, afferma che la cultura non credente «si
presenta oggi non solo come incredula ma anche come priva di speranza».
Il futuro della speranza
A ben guardare, il futuro, noi lo amiamo in quanto è lontano, ci piace quel
futuro che tra fantascienza e utopia ci permette di riversarvi i nostri sogni,
ma nella misura in cui ci rendiamo conto che il nostro vivere quotidiano lo
costruisce, lo modifica, esso ci diventa pesante perché ci impone cambiamenti, misure di prudenza se lo si vuole rendere viabile, possibile. Basti vedere le risorse energetiche, i cambiamenti climatici, in fondo perché preoccuparsi, nessuno di noi ci sarà quando sarà bruciato l’ultimo petrolio. Se
il futuro non è il luogo nel cammino verso il quale ci sostiene la speranza,
ma bussa alla porta richiedendo la nostra risposta responsabile, allora affermiamo l’inutilità di occuparci di lui come forma di vincere il senso di oppressione e disperazione che può provocare in noi e preferiamo vivere da
irresponsabili.
Ma i cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo ci dicono che il futuro è
già presente, per chi ancora non volesse prenderne atto. Essere persone senza passato né futuro, senza paletti né etici né filosofici a cui ancorarci, ci fa
fluttuare in un eterno presente, in balia dell’onda del momento sia essa economica, politica o culturale, pur che ci faccia credere che ci è “utile” adesso.
Dunque siamo una società inchiodata sul presente, senza slanci e senza tensioni, chiusa nel suo breve orizzonte e rinunciataria alla trascendenza, perfino nella sua dimensione storica. In questa situazione trova terreno fecondo anche il neo-paganesimo, il quale pretende di bandire ogni richiamo alla speranza definitiva, in un rifiuto quasi sprezzante dell’offerta di salvezza,
che la Chiesa continua a trasmettere in nome e su mandato del proprio
fondatore. Ovviamente, in tale temperie culturale e spirituale, il materialismo trova sempre nuove forme per perpetuare nelle nostre società occidentali la sua presenza.
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È in questa situazione, di paralisi e per certi aspetti di decadenza, che giunge salutare la lettera enciclica di Benedetto XVI Spe Salvi. Essa mette in rilievo come il pensiero moderno sia stato per grande parte rinunciatario riguardo alla salvezza annunciata dal cristianesimo. Infatti l’umanesimo ateo
è nato da questa negazione e non si capisce – vedi le critiche con le quali
essa è stata accolta – quella stampa che si lamenta perché qualcuno prenda carta e penna e ci ricordi un’origine della speranza, argomentata e liberamente scelta fin da principio.
È sotto gli occhi di tutti il fallimento di cui parla il papa, infatti egli cita alcuni esponenti di tale pensiero, vedi gli esponenti della cosiddetta scuola di
Francoforte, come Adorno, o il più cupo Horkheimer, dove si sostiene che
«l’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero, visto in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di
renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di
trionfale sventura».
Di fronte a questo argomentare, sentiamo di ribadire che la radice della
speranza si trova nel cristianesimo. Nelle deboli e fragili mani dei cristiani
della prima ora viene consegnato da subito e per sempre il ministero della speranza, come possiamo vedere nei primi scritti del nuovo testamento.
Ma la critica al pensiero laico – che il papa rivolge – è accompagnata pure
da una critica altrettanto severa al comportamento della Chiesa e dei cristiani del nostro tempo. Afferma l’enciclica: «Dobbiamo anche constatare
che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza» (n. 25).
Due sono gli errori da cui stare in guardia secondo il papa: là dove si parla di un «puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua
miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata». Due
errori, dunque, strettamente legati fra loro: la privatizzazione della speranza e il suo disinteresse per la vita del mondo, la società e la storia. Mentre l’universalità e la storicità sono le nuove dimensioni della speranza.Vi
è qui tutta la lezione del Concilio, sebbene nell’enciclica non vi sia un accenno ad esso.
Sperare per tutti
Tutta l’umanità è chiamata alla preparazione dei cieli nuovi e della terra
nuova, in cui abiterà per sempre la giustizia.Tutta l’umanità – come vuole il
Concilio – di cui la comunità cristiana è la parte cosciente e forza trainante. Lo specifico cristiano riguarda propriamente l’aspetto definitivo della
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speranza, che peraltro si riverbera nell’attività umana nel corso della
storia. Alla quale si può guardare anche con occhi di simpatia, come del resto fa il Concilio nell’ultimo suo documento. Difficile poi negare un certo
progresso nel cammino percorso nella lunga storia dell’umanità.
È vero anche che il cammino dell’uomo nel tempo rimane sotto l’egida dello Spirito Santo, il continuatore dell’opera di Cristo, colui che guida il cammino dell’umanità e del cosmo verso il suo destino finale. E di questa presenza attiva il cristiano non si deve mai dimenticare.
A ben guardare tutta la teologia moderna, sulla base di una migliore lettura della rivelazione divina e di una nuova sensibilità dell’uomo di oggi (le
due cose possono benissimo essere considerate come parallele), ha creato le premesse di un passaggio dalla pastorale della paura alla pastorale della misericordia.
In tale prospettiva l’enciclica affronta i temi, un tempo definiti come “ i novissimi”, ovvero sono le realtà ultime: morte, paradiso, inferno. Il “ritorno”
del Signore è stato riguardato nell’antichità con occhi e sentimenti di attesa e di fiducia: un’attesa simile a quella della sentinella che aspetta ansiosamente l’arrivo dell’aurora. Basti ricordare come le chiese “orientate” verso oriente esprimevano plasticamente questa idea. Nel mare della storia,
la navicella della Chiesa va incontro al Signore che, si pensa, tornerà dall’oriente. E del resto, il libro della rivelazione, l’Apocalisse, termina proprio
con una invocazione fiduciosa in questo senso: Maranatha.
Testimone è chi saprà sperare
«La fede nel giudizio finale – scrive il papa – è innanzitutto e soprattutto
speranza». Certo, rimane anche la dimensione della giustizia, «perché il persecutore non potrà sedersi insieme al perseguitato e l’oppressore insieme
all’oppresso» ma la giustizia e la grazia andranno di pari passo.
Riguardo alla morte – ricorda il papa – essa rende definitive le scelte dell’uomo, e rimane anche la prospettiva terribile della dannazione.
Fedele alla tradizione della Chiesa, il papa non risponde su questo grande
interrogativo, comunque, egli afferma, che questo non sarà il caso normale. Ma, ci domandiamo noi: se nel momento della morte, nell’incontro definitivo col Dio della salvezza, in un attimo di assoluta serenità e pienezza
di coscienza, come forse mai c’è stata durante la vita, ci fosse la possibilità
di un’ultima scelta illuminata e sorretta dalla misericordia salvante di Dio?
È vero che «non possiamo meritare il cielo con le nostre opere. Esso è
sempre di più di quello che meritiamo, così come l’essere amati non è mai
una cosa meritata, ma sempre un dono».
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Un’enciclica, è il documento più tipico del magistero autentico, di per sé
non infallibile, ora essa attende il contributo di tutti i destinatari per passare dal livello di messaggio informativo a quello di linguaggio performativo, in maniera tale che tutti si ricordino come «il Vangelo non è soltanto
una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita».
È ancora Pietro, che si rivolge di nuovo alla sua Chiesa per chiedere a
tutti di essere sempre pronti a rendere ragione della speranza che geme nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (1 Pt 3,15). Compare qui «come l’elemento distintivo dei cristiani il
fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che
l’attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto.
Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente» (n. 2).
In tale prospettiva il papa è concorde nel dire che «l’attuale crisi della fede [...] è soprattutto una crisi della speranza cristiana», nonostante le sue
debolezze, la Chiesa è la comunità, il campo di coloro che sperano. La sua
missione, che non viene mai meno e che si rinnova in forme diverse in tutte le stagioni e le vicende della storia, è quella di annunciare, di essere l’icona della speranza.
Una icona che per prima si è realizzata in Maria che, mentre attraversava
«in fretta i monti della Giudea per raggiungere la (sua) parente Elisabetta,
(diventò) l’immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia» (n. 50).
Emerge qui, in filigrana, il monito che il Concilio Vaticano II ci ha tramandato per il tempo della transizione che sembra trascinarsi all’infinito: «Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani
di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (n. 31).
La testimonianza cristiana è contrassegnata dalla speranza di Pasqua, dal
giudizio sul peccato del mondo che non ha accolto il Salvatore e dalla riconciliazione con cui il mondo viene redento e trasfigurato.
Il luogo di questa riconciliazione è l’uomo nuovo, restituito alla buona relazione con il Signore e reso capace di plasmare la vita, di condurre un’esperienza quotidiana di relazione in famiglia, con gli amici, al lavoro, nella società. In questi scenari si attua l’esercizio del cristianesimo radicato nella speranza della risurrezione.
«La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza
vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (Spe Salvi, 2).
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obiettivo
Spe Salvi: libertà,
ragione, speranza
di Francesco Mattei
Ammoniva nei primi anni Settanta il grande filosofo marxista Ernst Bloch,
ormai avanti negli anni e nella sapiente lucidità dei grandi vecchi: attenzione a non sottovalutare il tema e il problema del male! E il monito era rivolto alla cultura cattolica appena uscita dal Concilio Vaticano II. In quella
Stimmung di rinnovata ermeneutica e di nuova fioritura dell’esegesi biblica,
Bloch vedeva un grande pericolo: la tentazione di metaforizzare il male, di
espellerlo dalla vicenda umana per via emozionale o critico-esegetica. E a
sostegno di quella euforia interpretativa, sarebbe facile richiamare i molti
esegeti tedeschi e olandesi – ricordo per tutti H. Haag – che si sono affannati a restituire il tema fondamentale della Genesi, creazione e peccato originale, ad una lettura meno agostiniana e più improntata ad una speranza
grande sulle umane possibilità di “fare il bene”. Il Contra Pelagium agostiniano appariva ormai come il ricordo di una Chiesa arroccata nel perimetro
dell’ortodossia, intenta a difendere il deposito della fede, ma anche a tenere briglie corte sulla ricerca teologica, la grande speranza e i tumultuosi fermenti che stavano attraversando la società in veloce mutamento.
Perché tanta cautela da parte di Bloch? Perché non favorire ed assecondare quel clima di speranza nelle grandi possibilità dell’uomo, e delle generazioni allora emergenti, di far partecipare alla costruzione del mondo gli uomini di “volontà buona”? Una “volontà buona” che appariva allora particolarmente contagiosa ed in grande espansione. I limiti sembravano tutti superabili: la società sembrava diretta da una “mano invisibile” (per l’occasione propizia e benigna), la ricostruzione del dopoguerra poteva esibire i primi grandi risultati positivi ormai a disposizione di larghe fasce delle popo–– Francesco Mattei Università degli Studi Roma Tre
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lazioni, la cultura sembrava promettere una capacità di modificazione del
reale poche volte conosciuta nella sua storia. In questo clima di diffuso e
ragionevole ottimismo, il vecchio Bloch ammoniva a non dimenticare il problema del male. Ed era lo stesso Bloch che aveva a lungo lavorato sul tema
del futuro e sulla struttura utopica della coscienza umana, dando alle stampe il monumentale Il principio speranza (1954-1959).
Siamo oggi ad una nuova tematizzazione della speranza, ma essa viene proposta da uno dei giovani consultori teologici che presero allora parte alla
grande avventura conciliare. Dopo la sua prima enciclica, Deus caritas est, Benedetto XVI firma la seconda enciclica: Spe salvi. Si tratta di una enciclica dal
forte spessore teologico e dalla robusta struttura culturale. In essa traspare il lungo lavoro esegetico del prof. Ratzinger e, insieme, la sua interlocuzione dialettica con la cultura contemporanea. E ciò spiega, in parte, la varietà delle reazioni e la serietà delle discussioni che ne sono seguite.
Chi conserva la nostalgia della grande speranza e delle grandi promesse
della razionalità (illuministica o marxista), ha scorto nelle parole dell’enciclica ratzingheriana un riposizionamento della Chiesa su sponde conservatrici, regressive, anti-illuministiche. Chi guarda alla Chiesa come a viandante per le strade della storia, e che è chiamata a comunicare la Parola che ad
essa è stata annunciata, vede in quelle stesse pagine uno sforzo significativo di parlare all’uomo di oggi, un modo di intendere il tempo e di restituirlo a quell’eschaton a cui ogni essere è destinato. Si tratta di restituire la storia al tempo della fede. Ma, anche, di restituire la fede-speranza, come la
chiama Ratzinger, ai giorni della vita quotidiana.
Dopo la carità, dunque, la speranza. Benedetto XVI, carico di lunghi studi
teologici e filosofici, sembra intenzionato ad illuminare le virtù teologali; a
lasciare, nella sua eredità di pontefice, una lezione essenziale sulle tre grandi virtù.
Lo stile è il solito: colto, essenziale, colloquiale, esplicativo, pastorale. Ma il
piano di proposta è alto. Ed intreccia le sue argomentazioni con le fonti a
cui sempre si abbevera la Chiesa quando si fa maestra: il vecchio e il nuovo testamento, la patristica orientale e occidentale, le grandi personalità
dello spirito, le vite di coloro che hanno ascoltato1 la Parola… E qui, in particolare, una serrata dialettica con la cultura accademica, e dunque, con alcune grandi figure filosofiche che hanno lasciato il segno nelle svolte culturali dell’Occidente2. La posta in gioco sembra essere rappresentata dalla
reinterpretazione della modernità, perché in gioco è la vita dell’uomo moderno. Ha dunque colto nel segno chi ha scorto nelle pagine dell’enciclica
una critica radicale alla modernità, ma in quella modernità Benedetto XVI
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ricomprende anche la modernità cristiana, anch’essa bisognosa di ripensare, al pari della cultura laica, le sue forme storiche e gli offuscamenti da lei
operati attorno alla Parola.
Apre dunque la sua lettera, Ratzinger, con le parole di Paolo ai Romani: Spe
Salvi facti sumus (Rm 8,24). E Paolo ritornerà spessissimo nelle citazioni, come tornerà Agostino, grande commentatore di Paolo e grande pensatore
dell’umana finitezza e della indispensabilità della grazia. Ho sopra ricordato Agostino per il suo Contra Pelagium, ed ho ricordato Bloch per la sua riflessione sul male. Non è qui citato Lutero – se non en passant, per la sua
scarsa simpatia verso la Lettera agli Ebrei –, ma non sarà difficile scorgere
come è proprio attorno ai nodi teorici delle dispute cinquecentesche che
si sofferma la lettera ratzingheriana: la salvezza dalla grazia, mediante la fede-speranza, la vincibilità del male, la decisione dell’uomo per la libertà e la
ragione (non irrimediabilmente mutilate alla radice dal peccato), la centralità dell’amore.
Richiamavo sopra il tentativo, che si opera nell’enciclica, di restituire la storia alla fede e di reimpiantare la fede-speranza nella storia. In mezzo c’è il tema della finitezza e del male, tema squisitamente agostiniano, ma anche tema
vivissimo nell’esperienza storica del Novecento e nella riflessione teologica
e filosofica del secolo appena trascorso. Dice Benedetto XVI nella parte finale dell’enciclica, laddove parla dei “luoghi di apprendimento e di esercizio
della speranza”: «[…] dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma
eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza (c.m.)
e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa
(c.m.) che – lo vediamo – è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia
(c.m.) facendosi uomo e soffre in essa» (§ 36). È la kenosi, lo svuotamento,
l’abbassamento. Ma è anche la rivelazione del Dio che si fa uomo in Gesù
Cristo e costituisce, perciò stesso, la garanzia della fede-speranza3.
Il passaggio è fondamentale. Benedetto XVI parla ai cristiani, e parla con il
linguaggio della grammatica cristiana. Anche se la parola, compresa la parola religiosa, non conosce confini ed è sottoposta all’interpretazione di
tutti coloro che l’ascoltano. Dice dunque Ratzinger: al centro della vita cristiana sta il Dio che si è fatto uomo e che si è rivelato in Gesù Cristo. Che
ha vissuto, sofferto ed è resuscitato. È il cuore del depositum fidei, giacché,
come diceva Paolo, vana sarebbe altrimenti la nostra fede. Perciò subito dopo aggiunge Ratzinger: la nostra speranza deve essere “affidabile” (§§ 1, 2).
E l’affidabilità è in Gesù Cristo.
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È l’introduzione alla vita cristiana. Cristo è garante del futuro. E se «il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente» (§ 2).
Perciò il cristianesimo non è soltanto una “buona notizia”, una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti: il messaggio cristiano, dice
Ratzinger, è «performativo4». Dove sembra di risentire, nelle parole del pontefice, gli echi della forte distinzione kierkegaardiana tra comunicazione di
sapere e comunicazione di potere. Nella prima forma si comunicano contenuti, concetti, saperi; nella seconda si muovono valori, atteggiamenti, modificazioni di comportamento, opere concrete. Dal linguaggio dei sistemi e
dalla filosofia analitica Ratzinger assume il termine “performativo” e così lo
connota: «[…] il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si
possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita
(c.m.). La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (§ 2). E alla “vita nuova” deve corrispondere, come dice Paolo nella Lettera agli Ebrei (Eb
11,13-16), «una società nuova, verso la quale (i cristiani) si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata» (§ 3).
L’anticipazione, la prolessi del futuro, è un tema fondamentale. Il tempo cristiano e il tempo greco, come ci hanno insegnato i filosofi della storia e icasticamente Nietzsche, sono irrimediabilmente differenti. L’uno vive nella
speranza-certezza del futuro e dell’eschaton, l’altro è destinato all’eterno
ritorno. Perciò dice il pontefice: «La consapevolezza che esiste Colui che
anche nella morte mi accompagna […] – era questa la nuova “speranza”
che sorgeva sopra la vita dei credenti» (§ 6).
E qui spunta il Ratzinger professore e teologo cattolico che, attraverso
un’analisi interessante della pagina della Scrittura5, progressivamente si
avvicina al significato che intende attribuire alla costellazione semantica
del concetto “speranza”. Speranza è legato a “sostanza”, perciò egli contestualizza i topoi in cui ricorre il termine e che in nota abbiamo ricordato. E si sofferma, anche, su Eb 10,34, analizzando i termini hyparchonton e
hyparxin, spostando il significato di hyparchonta (beni, sostanze materiali)
da beni-sostanze a “sostanza che permane” (§ 8) fondata sulla fede. E la
fede dà già ora qualcosa della realtà attesa: «Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non-ancora”. […] il
presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (§ 7). È il movimento del tempo e dell’eternità, della storia e della fede, della Gerusalemme
celeste e della terrena Babilonia, attorno a cui molto ha riflettuto Agostino del suo De civitate. E non è strano che una parte della storiografia fran-
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cese, segnatamente Michelet, abbia visto nel marxismo umanistico un agostinismo secolarizzato.
Il problema è allora quello della garanzia. Chi garantisce il futuro? Chi garantisce dalla morte? Che senso ha, per il cristiano, la “vita eterna”? Se «la
fede è sostanza della speranza» (§ 10), è la fede in Gesù Cristo che salva
dalla temporalità. Ma non è questo l’orizzonte in cui si muove l’essere trascendentale, e cioè l’essere razionale finito di kantiana ascendenza. E da qui
la difficoltà del dialogo e la costruzione condivisa del senso del tempo e della storia con i non credenti. Una difficoltà di certo non artificiosa. Ma qui
Ratzinger sta parlando alla comunità ecclesiale. Perciò può dire che l’eternità non è un «continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa
come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e
noi abbracciamo la totalità». Sarebbe «il momento – prosegue – dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il
dopo – non esiste più» (§ 12). L’espressione è bella, e forse mutuata da quel
Platone che vedeva il punto sommo dell’ascesa verso le idee nel perdersi
nel grande oceano della bellezza. Questo perdersi nell’amore è l’esito scontato di un pontefice che, come sopra richiamato, ha aperto la sua missione pastorale con il ricordo giovanneo (1 Gv 4,16) del Deus caritas est.
Ciò detto, subito Benedetto XVI si premura, ricordando il grande teologo
H. de Lubac, di allontanare l’ideale cristiano della salvezza da un pericolo
che molto lo ha deturpato e sfigurato: la salvezza non si opera rifugiandosi nel puro individualismo, nell’abbandono privatistico del mondo (il contemptus mundi) e nella speranza di una salvezza solo individuale. Nella teologia dei Padri, «la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria» (§ 12). E lo stesso Paolo (Eb 11,10.16; 12,22; 13,14) «parla di una
“città” e quindi di una salvezza comunitaria» (§ 14). Perciò il peccato è visto dai Padri «come distruzione dell’unità del genere umano, come frazionamento e divisione» (Ibidem). E la redenzione, conseguentemente, «come
il ristabilimento dell’unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un’unione che si delinea nella comunità mondiale dei credenti» (Ibidem). La salvezza «è legata all’essere nell’unione esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”. […] perché solo
nell’apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla
fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio» (§ 14).
E con ciò, mi sembra, Ratzinger sgombra il campo, d’un sol colpo, da tutti i
fraintendimenti della modernità cristiana. L’individualismo borghese (cristiano) non può avere un imprimatur assolutorio tanto eccellente, perché
la “vita beata”, dice il pontefice, «ha a che fare anche con la edificazione del
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mondo (c.m.)» (§ 15). Che cosa è accaduto allora? Perché il cristianesimo
si è a tal punto intimizzato da pensare alla “salvezza dell’anima” come ad
una «fuga davanti alla responsabilità per l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?» (§ 16).
La modernità, dice Benedetto XVI, ha reinterpretato il rapporto esperimento e metodo, scienza e prassi. E Bacone ha aperto, con il suo Novum
Organum, la strada ad una conoscenza della natura, iuxta propria principia,
che ha preteso di restaurare un paradiso perduto definitivamente abbandonato con il peccato originale. La conoscenza è diventata potere: potere
dell’uomo sulla natura. E non sono mancate, sul tema, variazioni e “applicazioni” teologiche. La fede si è spostata su dimensioni private e ultraterrene: diventando, con ciò stesso, «in qualche modo irrilevante per il mondo»
(§ 17). L’edificazione del mondo che, con Agostino, Benedetto e i Padri, rappresentava un momento costitutivo della fede-speranza, era definitivamente messa in sordina e confinata nel puro spazio della intimità del singolo.
La nuova conoscenza si trasformava in «fede nel progresso», in una ideologia capace di costituire il nuovo motore della storia. Era così nata la nuova denominazione della speranza: per Benedetto XVI, non più cristiana.
È così che Ratzinger, dopo aver stigmatizzato la versione intimistica e individualistica della modernità cristiana, e dopo averne sottolineato l’allontanamento dalla dottrina dei Padri, apre un fronte critico con la modernità
laica. La fede nel progresso, assolutizzata fino al punto di sostituirsi ad ogni
altro sistema simbolico di senso e di significato, ha finito per diventare il
centro stesso dell’uomo. Mediante libertà e ragione si realizzerà ormai inesorabilmente il futuro regnum hominis. La fede cristiana è divenuta fede nella ragione. E la speranza cristiana è diventata speranza nelle promesse della ragione.
Come si vede, ci troviamo di fronte ad una antropologia capovolta. Ed è
duro l’attacco che Ratzinger porta alle conseguenze del metodo baconiano. Dallo spazio della conoscenza scientifica, egli trapassa in uno spazio di
meta-significazione che ha allarmato seriamente una parte consistente della cultura laica. Mai forse Bacone ha goduto, in ambito religioso-teologico,
di tanta fama. Il problema è vedere se egli veramente stia, come padre nobile, all’origine di tutto ciò che è seguito. Ma questa è l’interpretazione che
ne fa Benedetto XVI.
Il resto appare più scontato. La libertà come promessa e pienezza di un regnum hominis ormai alle viste; la ragione come strumento del bene e per il
bene; libertà e ragione radicalmente buone e garanti di «una nuova comu-
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nità umana perfetta» (§ 18). E, non detta, la definitiva liberazione dai vincoli della fede e dalle interpretazioni della Chiesa (cfr ibidem). Si poteva così
dare spazio ad una nuova fase della storia: si apriva il tempo delle grandi
promesse e delle grandi rivoluzioni, le cui due realizzazioni concrete saranno costituite dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione marxista. È arrivato dunque il tempo della fede razionale, e Ratzinger non delude il lettore, dando a Kant il posto che merita: tanto nella ricezione positiva che egli
fa della promessa rivoluzionaria, quanto nel possibile momento regressivo,
quando potrebbe disvelarsi, sotto l’aspetto morale, «la fine (perversa) di
tutte le cose».
Più insistenza però dedica a Marx e alla grande speranza marxista. Ormai
«il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di
tutte le cose» (§ 20). Una rivoluzione che ha affascinato e tuttora affascina
molti uomini, ma che ha dentro di sé una tale “compiutezza” di mutamento
da avvicinarsi ad una palingenesi strutturale (come non vedere, infatti, nell’espressione “cambiamento di tutte le cose”, un rimando all’Ego omnia facio
nova dell’Apocalisse giovannea?). Perciò l’agostinismo sopra ricordato è lungi dall’apparire categoria peregrina, anche se quell’agostinismo è detto “secolarizzato”, e la secolarizzazione si mostrerebbe, appunto, nella riduzione
della storia e dell’uomo al materialismo6. Ma meraviglia, parimenti, il riferimento più volte ricorrente ad un “mondo definitivamente buono”, un mondo in cui si mostra sovrana (e insidiosa) l’assenza del male.
Le conseguenze non si faranno attendere. L’agognata Nuova Gerusalemme
mostrerà presto i segni evidenti della vecchia Babilonia. Il regnum hominis
non potrà, con un improvviso rovesciamento rivoluzionario, trasformarsi
nel kantiano regnum Dei: giacché Marx «ha dimenticato che l’uomo rimane
sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e la sua libertà. Ha dimenticato che
la libertà rimane sempre libertà, anche per il male (c.m.)» (§ 21). E sotto
questo segno dell’ambiguità, della possibilità della decisione per il bene o
per il male, vive anche la grande utopia del progresso. Che può determinarsi per il bene, ma anche per il male, come Adorno aveva ben evidenziato e come qui Ratzinger non manca di ricordare («Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia
diventato, di fatto, un progresso terribile nel male7»).
A questa illusione del progresso, a questa instauratio magna non si è sottratta la comunità cristiana. Perciò occorre che «nell’autocritica dell’età
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moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che
deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle
proprie radici» (§ 22). Ed è inutile richiamare, qui, i continui rimandi al Testamento e ai Padri: sono il monito di un depositum sempre vivo, e non,
come qualcuno ha autorevolmente sottolineato, un processo di demetafisicizzazione della Parola cristiana da parte di Ratzinger, troppo attento alla filosofia tedesca e ai suoi influssi sulla teologia tedesca del XX secolo.
D’altronde, egli insiste molto sul ruolo della ragione e della libertà. Una
ragione e una libertà, però, che devono essere integrate «mediante l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così (la ragione) diventa una ragione veramente umana»
(§ 23). Ed è una tesi nota, quella qui espressa, una tesi che aveva già suscitato polemiche e che ha provocato, in questa circostanza, rinnovato distacco critico dalle posizioni ratzingheriane. Era la tesi, d’altronde, già presente nella Fides et ratio del suo predecessore, e che certamente aveva visto il contributo non marginale del Prefetto Ratzinger. Ripete qui Benedetto XVI: «[…] un “regno di Dio” realizzato senza Dio – un regno quindi dell’uomo solo – si risolve inevitabilmente nella “fine perversa” di tutte le cose descritta da Kant. […] ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione» (Ibidem). Giacché, ricorda il pontefice, non è sufficiente che il Dio sia da noi pensato, è
necessario, perché la ragione sia illuminata, che Egli ci sia venuto incontro
e ci abbia parlato (cfr ibidem).
È qui, naturalmente, che si opera il distacco dalla cultura moderna. La ragione moderna non contempla l’ipotesi Dio, né tanto meno un Dio che si
è fatto carne, è morto, è risorto, ed ha parlato all’uomo. La ragione moderna si autocomprende come assoluta: un’ipotesi, questa, di cui Ratzinger, mostrando le nefaste conseguenze della moderna hybris, cerca di mostrare la
finitezza e la fallacia8. E lo stesso procedimento applica al concetto di libertà. Le strutture, anche le migliori, non garantiscono la libertà dell’uomo: esse hanno bisogno di «una libera adesione all’ordinamento comunitario», e
le buone convinzioni si riconquistano sempre e di nuovo «comunitariamente» (cfr § 24).
E con ciò Ratzinger riprende un tema già accennato: un procedimento costruttivo, questo, che caratterizza tutta l’enciclica. Il cristianesimo moderno, egli dice, di fronte ai progressi della scienza e della ragione, si è concentrato esclusivamente sull’individuo e sulla sua salvezza, restringendo così
l’orizzonte della sua speranza. Ma «non è la scienza che redime l’uomo.
L’uomo viene redento mediante l’amore» (cfr § 26). È questo il cuore, cre-
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obiettivo
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obiettivo
do, delle pagine ratzingheriane. È la rammemorazione dell’evento centrale
del cristianesimo: il Dio-Amore si è fatto uomo e si è rivelato in Gesù Cristo. Il resto segue, e non può reinventarsi come messaggio salvifico ignorando questo evento centrale. La salvezza è nella “relazione” con il Deus
Caritas: questa la “vita vera”.
Siamo di nuovo all’individualismo della salvezza? Alla speranza solo “per
me”? Lo slittamento intimistico non può oggi ripetersi, dice Ratzinger, giacché la salvezza è “per tutti” (1 Tim 2,6) e «l’amore di Dio si rivela nella responsabilità per l’altro» (§ 28). In ciò Agostino gli è maestro, come maestro
è stato per generazioni di credenti. Dio è il garante della grande speranza,
di una speranza che interpella tutti, perché per tutti si è rivelato nella figura di Cristo. Allora, «la nostra speranza è sempre essenzialmente anche
speranza per gli altri» (§ 48).
Sono questi i passaggi teorici di maggior rilievo, mi sembra, della lettera ratzingheriana. Segue poi un’ultima parte più pastorale (§§ 32-50), in cui Benedetto XVI esplora i luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza: la preghiera, l’agire e il soffrire, il Giudizio9. Non mi dilungherò su questi topoi, ma essi danno conto delle sfaccettature linguistiche su cui si muove la lezione del pontefice-professore, sempre attento a dire con parole
semplici i dati essenziali del “buon annuncio”. E la cosa è molto palese nella Spe salvi: accanto al confronto dialettico serrato con la cultura alta della
borghesia colta, si trovano molte espressioni piane e pagine di pura pastoralità. Il che nulla toglie, credo, alla sfida culturale che Benedetto XVI ha lanciato alla modernità con questa lettera enciclica: la seconda, ma forse non
ultima, di un pontificato che ha come caratteristica non secondaria una radicale parresia, un parlar franco che intende ripensare criticamente la cultura dell’uomo moderno e che all’uomo moderno intende riproporre l’essenziale di una parola millenaria. Se ciò debba essere ascritto al conservatorismo teologico-politico non so dire, ma appare in tutta evidenza come
i frutti avvelenati – la kantiana “fine perversa di tutte cose” – del progressismo siano sempre più sotto gli occhi di tutti. O, almeno, di coloro che
hanno dismesso per tempo gli occhiali deformanti delle ideologie (non raramente totalizzanti e totalitarie), e si siano disposti a denominare le cose
con il nome che le connota. Ed è stato questo lo sforzo di Ratzinger: restituire alla speranza le connotazioni della speranza cristiana.
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note
1 Si veda la citazione di Giuseppina Bakhita, canonizzata da Giovanni Paolo II, fatta schiava nel Darfur e finita
in Italia, dove fondò la congregazione delle suore Canossiane; il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin; il cardinale Nguyen Van Thuan: tutti testimoni di una speranza-fede che ha cambiato le loro vite.
2 Vedi Agostino,Tommaso d’Aquino, Bacone, Kant, Marx,Adorno, Horkheimer, de Lubac…
3 Così Benedetto XVI: «“Speranza”, di fatto, è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi
passi le parole “fede” e “speranza” sembrano interscambiabili» (Spe salvi, § 2). E ancora: «Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere pronti a dare risposte circa il logos – il senso e la ragione –
della loro speranza (cfr 3,15),“speranza” è l’equivalente di “fede”» (Spe salvi, § 2).
4 §§ 2, 10.
5 Interessanti i §§ 7-9, dove è più visibile la mano del pontefice-professore. L’analisi di Eb 11,1 mostra l’uso
che egli fa della filologia e dell’ermeneutica per un guadagno concettuale che egli ritiene fondamentale, giacché tende a dimostrare che, nell’espressione di Paolo (La fede è hypostasis delle cose che si sperano; prova
delle cose che non si vedono – Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium), i termini hypostasis (sostanza) e argumentum (prova) nulla hanno a che vedere con il “senso soggettivo” che attribuisce loro Lutero e che la stessa traduzione ecumenica cattolica ha fatto proprio. Substantia e
argumentum hanno valore oggettivo, dal momento che hypostasis e elenchos dicono “sostanza” e “prova”, e
non soggettiva convinzione, come d’altronde riconosce oggi, sottolinea Ratzinger, la stessa teologia protestante riformata (cfr la cit. di Köster § 7).
Altrettanto felice, mi sembra, l’analisi di un altro passo della Lettera agli Ebrei, dove i lemmi hypomone (Eb
10,36) e hypostole (Eb 10,39) sono utilizzati dal pontefice per connotare, nel solco della tradizione vetero e
neotestamentaria, due atteggiamenti opposti: l’uno da incoraggiare, l’altro da condannare. Hypomone dice la
pazienza dell’attesa, la fiducia verso il Dio dell’alleanza, la “speranza vissuta”, la “certezza della speranza”. Hypostole connota invece la timidezza verso il mondo, la paura di dire la fiducia verso Dio, l’incapacità di esprimersi con parresia. Ma ciò porta, dice Paolo e ripete Ratzinger, alla “perdizione” (Eb 10,39).
6 Marx «credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il
materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli» (§ 21).
7 § 21.
8 «Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli
ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene» (cfr § 24). Perciò
strutture a tal punto buone da determinare la libertà dell’uomo, non sarebbero tali perché negatrici dell’umana libera determinazione.
9 Qualcuno ha rilevato, nelle posizioni di Ratzinger sul Giudizio, un eccessivo tributo alle tesi di von Balthasar, che vuole un inferno vuoto. A me sembra che le indicazioni di Benedetto XVI siano molto più sfumate e
teologicamente ricche. I termini su cui si muove sono quelli di diritto, giustizia, grazia, riparazione, responsabilità, verità, amore. Quando introduce la parola “inferno” così si esprime: «In simili individui – (“le persone
in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore”) – non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si
indica con la parola inferno» (§ 45). Per il resto è in linea con la tradizione: «Il Giudizio di Dio è speranza sia
perché è giustizia, sia perché è grazia» (§ 47).
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obiettivo
obiettivo
Allargare lo spazio
della razionalità
di Domenico Sigalini
Oggi nella maggioranza delle scuole statali capita in termini meno eclatanti quello che a La Sapienza è stato impedito di fare al papa. Alcuni insegnanti altamente ideologizzati, che a buon diritto possono essere atei rispettabili, non permettono ai ragazzi di dare risposta alle loro domande religiose, le confinano nel ridicolo e le avversano in tutti i modi, magari partendo
da una battaglia contro la struttura ecclesiale. Invece di essere propugnatori di criteri severi di ricerca, di libertà e di rispetto, sono insegnanti espliciti di ateismo. Non credono come educatori che alla domanda religiosa
occorre dare risposte, fornire criteri per una ricerca razionale, altrimenti
ne va di mezzo la stessa felicità dei giovani. Un uomo se non si pone le domande profonde della vita: chi sono? Dove vado? Da dove vengo? Perché la
morte, il dolore, l’ingiustizia? Chi ha fatto questo mondo? Non potrà mai dare
sviluppo alla sua piena umanità, non potrà mai collocarsi in maniera giusta
nel mondo. Mi aiuto a illustrare questa tesi con una storiella.
La fede: un baobab da cui guardare alla vita
Un giorno tre formiche inebriate di felicità partono per un grande giro del
mondo. Sono attrezzate di cellulari e ogni tanto si mandano sms, si informano delle meraviglie che scoprono e danno le coordinate della loro posizione. «Io - dice la prima - mi trovo su un albero che ondeggia al vento e
l’aria mi accarezza come una lieve brezza mattutina». «Io - dice l’altra - sto
arrampicandomi su un’alta torre di cui non vedo la cima. È un free climbing
decisamente emozionante». «Io - comunica la terza - sto viaggiando per un
deserto immenso, tra colline di sabbia che si incrociano e si dipartono in
–– Domenico Sigalini Assistente Ecclesiastico Generale dell’Azione Cattolica Italiana
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continuazione». Un passerotto, amico delle formiche, ormai inserito quotidianamente nella loro sms list è sopra un albero e segue la conversazione. Le lascia comunicare un po’ poi inserisce un sms con priorità assoluta.
«Quanto siete ingenue! Non sapete collocarvi al posto giusto. Siete tutte
e tre su di un elefante, una sulla proboscide, che scambia per ramo di albero, l’altra su di una zampa, che scambia per una parete di sesto grado, e la
terza sul dorso e non in un deserto di sabbia!».
Alle formiche mancava un punto di vista, un baobab, un trascendente e non
riuscivano a capirsi.
Tutto sarebbe incomprensibile se non ci fosse un grande baobab, un grande albero da cui poter guardare la vita per capirne la trama. L’albero è il
trascendente, qualcosa che si pone al di sopra delle nostre quattro cose e
che ci permette di dar loro il giusto peso e colore, di avere un riferimento, di cogliere l’insieme, la meta, il senso del cammino. Il nostro modello
educativo si porta dentro il suo baobab, altrimenti non saprebbe capire il
mistero della vita.
È una esigenza che il papa varie volte ha proposto nei suoi molteplici discorsi e ultimamente anche nel discorso che aveva preparato per l’università La
Sapienza e che ora sta diventando solco in cui si inscrivono varie progettualità. La fede ha buon diritto di stare a confronto con ogni ricerca scientifica,
non teme la scienza e quindi non deve essere emarginata dal mondo intellettuale e da nessuna cultura. La dimensione religiosa dell’uomo ha pari dignità come ogni altra dimensione. Il positivismo è duro a morire sia nelle
scuole, sia nei mass media, sia nella coscienza degli uomini di cultura e la
Chiesa non può adattarsi a nessun talebanesimo, a nessun fondamentalismo,
falsa certezza immotivata. La ragione in questi ultimi secoli si è quasi autolimitata, ha deciso di attestarsi soltanto su ciò che è percepibile, esclude dall’orizzonte ogni discorso su Dio, sul futuro dell’uomo, sulla fede, si è limitata a sequenze logiche di carattere scientifico tecnico. Ma noi sappiamo che
il logos di Dio si è fatto carne, Lui, il Creatore ha inscritto nel mondo la sua
potenza “razionale”, e la ragione dell’uomo che nasce da lui non può misconoscerlo e chiudersi le strade per raggiungere il fondamento del suo essere. Sembra un discorso da specialisti, ma deve stare al fondo di una corretta educazione che vuol aiutare l’uomo a vivere con dignità la sua dimensione religiosa nel mondo di oggi, negli snodi fondamentali della concezione di
uomo, di bene comune, di vita, di persona che stanno alla base di tante discussioni e lacerazioni del tessuto culturale della quotidianità. Si auspica, allora, una conversione intellettuale, che è propria di chi sa ragionare con la
propria testa, cogliendo la ragionevolezza della fede.
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obiettivo
La dimensione religiosa è dimensione costitutiva dell’uomo
obiettivo
Douglas Coupland, un noto romanziere canadese, capace di interpretare la
ricerca delle giovani generazioni di oggi, ha scritto alcuni anni fa un libro dal
titolo molto provocatorio La vita dopo Dio. In questo romanzo immagina di
collocarsi dalla parte della prima generazione cresciuta senza religione, e
si domanda di fronte a implacabili domande su Dio: «Da quali brecce possono mai filtrare simili pulsioni in un mondo senza religione? È una cosa cui
penso ogni giorno. Certe volte mi sembra l’unica cosa al mondo per cui
valga la pena di pensare1». E più avanti dice: «Ora il mio grande segreto è
questo: ... il mio segreto è che ho bisogno di Dio, che sono stufo marcio e
non ce la faccio più ad andare avanti da solo: ho bisogno di Dio, per aiutarmi a donare, perché sembro diventato incapace di generosità; per aiutarmi
a essere gentile, perché sembro ormai incapace di gentilezza; per aiutarmi
ad amare, perché sembro aver oltrepassato lo stadio in cui si è capaci di
amare2 […]».
Sono convinto che se la comunità umana, non solo o soprattutto cristiana, non dà occasioni di trovare risposte a queste domande profonde, dovrà intervenire in termini penali sulle devianze che si producono nella ricerca di fondamentalismi, di satanismi, di esasperazioni antisociali.
Va inventato un welfare state dell’educazione, che guarda globalmente alla
persona. L’obiettivo di una comunità che crede nel futuro deve sbilanciarsi verso le giovani generazioni e offrire con la loro creatività e corresponsabilità comunità solidali di valori, aspirazioni, sogni, progetti di vita, ispirazioni a dimensioni religiose.
Né talebani, né invertebrati, né cultori di magia,
perché la fede è un atto intellettualmente onesto
e umanamente sensato
Il mondo della fede è ancora visto da certo positivismo ideologico come
l’inizio della deriva dell’uso dell’intelligenza e forse alcune espressioni religiose molto enfatizzate ne possono dare l’idea. Infatti siamo di fronte
anche a duri fondamentalismi, che in verità sono sempre fatti esplodere
artatamente da interessi politici e militari. La fede ha uno spazio necessario nella intelligenza delle persone, non manda all’ammasso la capacità
critica, non sospende l’uso di ogni sforzo umano di comprensione, di sistematizzazione, di razionalità e nello stesso tempo aiuta l’uomo a trovare il senso della vita, non lo lascia solo nella ricerca dei significati fondamentali della esistenza.
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C’è una laicità della fede che è preziosissima e c’è una spiritualità della ragione che è altrettanto decisiva nell’aiutare l’uomo ad essere se stesso. Il
problema più grande oggi però non è tanto la fatica razionale dell’accogliere il mistero, ma è la troppa facilità nell’affidarsi al mondo della magia. Non
c’è un eccesso di uso della ragione, ma un difetto di criticità che va sempre attivata. Qui si colloca il lavoro indispensabile dell’insegnante. La magia
non la sconfiggi con l’ideologia. I ragazzi ti possono anche dar ragione, possono mettere anche il silenziatore alle loro domande per farti piacere, per
convenienza, per moda, ma poi resteranno sempre soli in balia dei maghi
di turno. La scuola invece deve far crescere questo criterio di ricerca, di
onestà intellettuale. Il mio professore di Logica matematica all’università
statale di Milano, dopo aver spiegato teoremi di alta razionalità come quello di Gödel e della macchina della verità di Turing, imparentati con la filosofia e le domande dell’esistenza, si rivolgeva sincero a noi due preti che
stavamo in aula dicendo: «io arrivo fin qui, adesso se volete potete continuare voi, ma io mi fermo qui. La ragione non può spiegare tutto e cercare oltre non è irrazionale o disumano».
L’educazione alla fede non funziona
da imbonitore pedagogico
In un mondo religioso esageratamente di maniera o identificato con una
ideologia, fosse anche quella del galateo, oggi l’educazione alla fede ha bisogno di essere presentata come un bagno di radicalità. La religione non
serve né come crocerossina della storia, né come ultima spiaggia per offrire alla morale laica una sorta di riferimento etico. È nell’ordine dei rapporti liberi con una persona. Il Signore, in cui i cristiani credono non è un fondatore defunto, ma il Risorto vivente. È sempre una esperienza sconvolgente, non la puoi collocare a servizio di nessun regime o dentro ideologie
compatte e definite una volta per sempre. La fede è sempre un oltre rispetto a tutti gli equilibri che si possono anche ottenere nella vita sociale, politica, culturale, religiosa. È interessante al riguardo riprendere la famosa lettera a Pipetta di don Lorenzo Milani come simbolo di questa libertà della
fede da qualsiasi eventuale appropriazione anche pedagogica. «Ora che il
ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione […] Ma il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco […] ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io
non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a
pregare per te davanti al mio Signore Crocifisso. Quando tu non avrai più
fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò3».
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obiettivo
È indispensabile che si confronti con una comunità,
cioè in un tessuto di relazioni “territoriale”
obiettivo
Nello stesso tempo è importante che nel mondo giovanile si presenti l’esperienza religiosa non come una astrazione privatistica, o una dimensione
chiusa nella propria coscienza, ma anche come forza capace di cambiare la
vita sociale. L’esperienza aggregativa è parte integrante della esperienza religiosa, ma ancora più interessante è che tale relazione sia sempre legata a
un territorio, ai suoi usi e costumi, alle sue espressioni artistiche. Per territorio non si intende solo l’insieme degli spazi geografici, ma il ricco mondo di relazioni che vi si sviluppa, le reti di interazione tra le persone e le
istituzioni, i nuovi comportamenti della gente, dei ragazzi, dei giovani, degli
adulti, gli spostamenti di persone e cose, i tessuti comunicativi, le sfide economiche che caratterizzano uno spazio geografico, umano e spirituale. Non
si tratta solo di spazi geografici, ma di modi di vita, di mentalità. I giovani
devono essere aiutati a vedere come nel territorio il fatto religioso sia promotore di vita comune, di relazioni positive, di cultura del rispetto e della
solidarietà. Nelle scuole professionali è importante soprattutto aiutare la
razionalità piuttosto concreta a confrontarsi con le istituzioni e a interagire con esse. L’esperienza di fede cambia il vissuto delle periferie, offre speranze a chi si sente di nessuno. È un’ulteriore prova che la domanda religiosa corrisposta diventa motore di vita.
note
1 D. Coupland, La vita dopo Dio,Tropea, 2000, pag. 196.
2 Ibidem, pag. 254.
3 Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, Milano, 1970, pag. 5.
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Essere cristiani nel tempo
del ricominciamento
di Marco Guzzi
Interpretare i segni dei tempi per ripensare
la formazione dell’uomo
Nell’intervento pubblicato nello scorso numero della Rivista abbiamo incominciato ad interpretare il nostro tempo come una singolarissima fase della
storia del pianeta, in cui la modalità bellica di costruire l’identità (sessuale,
politica, religiosa e culturale) umana, contrapponendosi appunto polemicamente all’altro da sé, si sta manifestando ad ogni livello come insostenibile.
Questo processo costituisce una vera e propria svolta antropologica, in quanto finora tutte le civiltà e le religioni umane si sono definite e rafforzate nella loro identità proprio combattendo, perseguitando, ed escludendo le altre.
Tutti viviamo perciò in una sorta di fase purificativa in cui, sia pure con una
certa lentezza e tra molteplici resistenze, le forme belliche di tutte le nostre identificazioni sono messe in giudizio, condannate ed abbandonate. Anche le traenze evolutive della modernità hanno spinto in questa direzione,
educandoci alla tolleranza reciproca, e ai valori irrinunciabili della libertà di
coscienza e dell’uguaglianza universale tra tutte le persone umane.
La Chiesa cattolica a sua volta sta vivendo, almeno a partire dal Concilio
Vaticano II e grazie alle fondamentali richieste di perdono operate da Giovanni Paolo II, la propria stagione purificativa, abbandonando ogni carattere bellico e violento della propria predicazione, e assorbendo i valori positivi della modernità, riconoscendoli anzi come sgorganti dalla propria stessa sorgente evangelica.
In questo nuovo intervento vorrei approfondire proprio questo aspetto:
come possiamo vivere noi cristiani la nostra fede in questo tempo di stra–– Marco Guzzi Poeta e saggista
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ordinarie trasformazioni? Come vengono a trasformarsi le forme storiche
della nostra fede? Quali sono le direttrici principali di questa trasformazione? E cioè che cosa sta morendo e che cosa sta nascendo entro il cristianesimo storico espresso nella nostra Chiesa?
A me sembra che se non ci poniamo preventivamente questo tipo di domande, ben difficilmente potremo poi delineare a qualsiasi livello itinerari formativi adeguati al momento storico presente. Ecco perché ho desiderato premettere ad altri articoli più specificatamente dedicati alla formazione queste
riflessioni generali sulla natura del tempo che stiamo attraversando.
Seguiremo dunque una scaletta molto sintetica, in base allo stile della semplicità di secondo grado, che tenta di riassumere appunto semplice-mente concetti e ragionamenti complessi:
–– Prima osserveremo alcuni effetti che la liquidazione delle configurazioni egoico-belliche delle identità storico-religiose sta avendo sul cristianesimo storico.
–– Poi vedremo in che senso l’identità cristiana sia di per sé post-bellica e
aperta alla trasformazione mediante la relazione.
–– Individueremo in seguito le due grandi tentazioni che dobbiamo affrontare in questa fase di svolta, e cioè la regressione fondamentalistica e la
deriva nichilistica.
–– E infine disegneremo qualche lineamento di quella fedeltà creativa nei
confronti della tradizione che oggi ci è massimamente richiesta per vivere i processi trans-formativi in modo attivo e positivo.
Dalle verità oggettive all’esperienza della fede
Desidero subito ribadire che secondo me questa grande crisi trasformativa, cui è sottoposta anche la nostra fede nelle sue configurazioni storiche,
è una crisi di crescita, una crisi salvifica, anzi una vera e propria grazia. Concordo perciò pienamente con l’allora cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger quando all’inizio degli anni Ottanta scriveva: «Ho l’impressione che forse la nostra epoca è dopo l’antichità una delle prime in cui il cristianesimo
suona come una novità. […] In questa nuova era il cristianesimo appare finalmente nella sua giovinezza che torna a manifestarsi».
E passiamo al primo punto della nostra riflessione, agli effetti cioè della liquidazione delle figure belliche di identità sul cristianesimo cattolico.
Dal Concilio Vaticano II fino alla storica richiesta di perdono della prima domenica di Quaresima del 2000 ci stiamo rendendo conto di quanto violenta
possa diventare la pretesa di possedere una verità oggettiva chiusa in se stessa e
data una volta per sempre, e stiamo privilegiando la prospettiva di un cammi-
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no comune di tutti gli uomini verso una verità che comunque ci sorpassa
sempre e procede innanzi a noi. Quando Giovanni Paolo II, nell’enciclica Novo millennio ineunte, sostiene che «gli stessi discepoli di Cristo» possono essere aiutati «a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono
portatori» (n. 56), se si dispongono ad ascoltare le altre culture e le altre
religioni, ci rendiamo conto del balzo in avanti verso questa concezione dinamica, processuale, e relazionale della verità che egli fa fare alla Chiesa.
In realtà il concetto di una qualunque verità del tutto oggettiva, e cioè indipendente dal soggetto che la conosce e dalla sua intrinseca storicità, è
stato superato perfino in ambito scientifico lungo il XX secolo. Siamo sempre più consapevoli che ogni atto conoscitivo coinvolge ed è determinato
completamente dal soggetto conoscente, che vede e conosce solo ciò che è
in grado di vedere e di conoscere, e mai qualcosa di assoluto fuori di sé. E questo vale tanto più per la nostra comprensione della Rivelazione. Forse per
questo nella Scrittura si parla del Dio di Abramo, del Dio di Giacobbe, del
Dio di Mosè, e del Dio di Gesù, i quali sono profondamente diversi tra di
loro, pur essendo certamente lo Stesso, proprio in quanto determinati da
ciò che Abramo o Mosè o Gesù erano in grado di conoscere del suo immenso mistero. E non dimentichiamo poi che ad una verità “oggettiva” statica corrisponde sempre un soggetto conoscente altrettanto statico, chiuso in se stesso, e quindi tendenzialmente bellico. Per cui è inevitabile che allo smantellamento della configurazione bellica dell’identità umana corrisponda
la crisi e la liquidazione di tutte le concezioni troppo oggettivistiche della verità.
La crisi della conoscenza “oggettiva” inoltre fa entrare in crisi tutte quelle forme della fede in cui l’esperienza personale del soggetto, il suo coinvolgimento nell’atto viene quasi eclissato da una presunta oggettività della cosa fatta.
Se ci guardiamo bene attorno, nelle nostre parrocchie, vediamo, ad esempio, che è profondamente in crisi la teologia metafisica tradizionale, che voleva dirci appunto come è Dio oggettiva-mente, in sé, ridotto cioè ad un Ente come gli altri, anche se magari Supremo. Mentre prevalgono le teologie
narrative, più spirituali, più poetiche, più legate a come io posso raccontare la mia esperienza di Dio, e quindi in definitiva più bibliche, in quanto la
Bibbia ci racconta preminentemente storie molto umane, attraverso le quali Dio manifesta processualmente e in relazioni personali concrete il suo mistero
di salvezza.
Da ciò deriva poi la liquidazione della catechesi intesa come indottrinamento concettuale, e cioè appunto come trasmissione di nozioni oggettive e astratte sull’essenza di Dio. Ma anche le forme rituali estrinseche, al-
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le quali le persone sono chiamate ad “assistere” come spettatori passivi
di eventi “oggettivi”, dotati di efficacia in sé e per sé, stanno perdendo ogni
attrazione, svincolandosi dalla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Ed infine la sacralizzazione del potere ecclesiastico, inteso anch’esso come potestà oggettiva, come fonte irrelata di norme, alle quali ognuno deve obbedire, fuori da ogni relazione personale, perde di giorno in giorno la propria forza, a favore di una autorità che nasca proprio e soltanto dalla e nella relazione, di una autorità cioè che si fondi sull’accrescimento, l’illuminazione, e la guarigione reali delle persone sottopostele. Come era l’autorità di Gesù.Tutti questi dati mi sembra che illuminino in modo determinante anche le forme dei nuovi cammini formativi che dovremo ideare e animare ad ogni livello.
Ogni persona cerca oggi un’esperienza molto più personale della propria
fede, un’esperienza che ci trasformi e ci guarisca per davvero.Torna in un
certo senso, tra le ceneri di una religiosità oggettivata nei riti, antropologico-culturale, e abitudinaria, una fame di Vangelo vero, di liberazione autentica, vogliamo vedere con i nostri occhi i ciechi che tornano a vedere e gli
storpi che tornano a saltare di gioia. Aneliamo inoltre un po’ tutti a nuove
forme di relazione umana, ad una fede che rivoluzioni fino in fondo gli schemi del potere e dell’asservimento propri di questo mondo. Da questo anelito, tra l’altro, sono nati anche i vari movimenti ecclesiali e carismatici degli ultimi quaranta anni.
L’identità cristiana come trans-formazione nella relazione
In questo vortice culturale profondissimo il cristiano è chiamato a riscoprire la natura della propria più autentica identità. E qui tocchiamo il secondo e
il terzo punto della nostra scaletta.
Oggi si torna a parlare con forza dell’esigenza di riaffermare l’identità cristiana nel marasma della babele linguistica in cui siamo immersi. Benissimo,
ma di quale identità cristiana parliamo? Di quella in base alla quale abbiamo commesso tutti i peccati di cui ci stiamo finalmente pentendo? Dovremmo cioè riaffermare un’identità cristiana bellica, polemica, che ci separi e ci contrapponga di nuovo in modo violento all’eretico o al non credente di turno? Oppure dobbiamo riscoprire l’identità cristiana proprio come
dinamica aperta, esodo costante e a volte doloroso da sé e dalle proprie
presunte certezze, rivelazione in atto e mai possesso autocompaciuto?
Benedetto XVI ha sottolineato con parole fresche e poetiche la natura transformativa dell’identità cristiana nel suo discorso di Verona: «La sua resurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amo-
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re che scioglie le catene del peccato e della morte. […] È stata cambiata
così la mia identità essenziale e io continuo, tramite il Battesimo, ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel
quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza».
La mia identità cristiana è dunque un processo di trans-loco permanente in
un’altra dimensione dell’essere rispetto a quella spazio-temporale propria
della mia soggettività naturale. Per cui io sono tanto più cristiano quanto
più vivo questo transito continuo, questa continua trans-formazione in Cristo, e cioè nella mia vera identità. L’identità cristiana è migrazione, nomadismo, mai stanzialità o staticità mentali, è cioè continua meta-noia, mutazione della mente. Ed in questo è molto prossima ad alcuni caratteri dell’identità post-moderna nella sua liquidità, flessibilità, precarietà metamorfica. L’identità cristiana però può dare un orientamento a questo nomadismo, accogliendone a sua volta tutti gli aspetti evolutivi.
Oggi, anche in ambito cattolico, c’è chi vorrebbe riproporre un’identità cristiana di tipo premoderno, precritico, pretrasformativo, e quindi un’identità
cristiana profondamente anti-cristica. Questa tentazione fondamentalistica,
rinforzata dalle nostre paure e dalle nostre pigrizie rispetto alle asperità del
mutamento, va accolta e superata come una parte presente in ognuno di
noi. Senza cioè surriscaldare un altro spirito polemico, magari in nome di un
cristianesimo post-bellico. Proviamo invece a comprendere che le tensioni
fondamentalistiche, e dall’altra parte quelle nichilistiche, sono componenti
dialettiche presenti, in proporzioni diverse, in ogni credente. Proviamo a convivere con queste tensioni, a farle dialogare tra di loro, invece di contrapporle polemica-mente. Proviamo ad ascoltare le buone ragioni che sia il fondamentalista che il nichilista presente in noi può avanzare. Anche il fondamentalista infatti possiede le proprie ragioni, quando teme ad esempio di
perdere le ricchezze di una tradizione millenaria, così come il nichilista, che
rischia di identificare il processo di liberazione con la perdita di ogni identità storica, ha però ragione, quando vuole preservare l’elemento critico, la
critica di ogni imposizione autoritaria della verità.
La nuova umanità cresce in noi proprio attraverso il dialogo fraterno tra
queste componenti che imparino a non separarsi bellicamente, ma piuttosto a riconoscersi come forze provenienti dalla stessa sorgente, dallo stesso anelito ad una verità che ci supera e ci chiama a sé.
La vera identità cristiana dunque, al di là delle tentazioni fondamentalistica e nichilistica, è quella di un uomo che resta fedele al processo trasfor-
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mativo attraverso il quale viene trans-figurato nell’Uomo-Dio (2Cor 3,17),
fedele perciò alla tradizione nella sua vitalità attuale, fedele ad una tradizione che è di per sé dinamismo e trasformazione. E qui tocchiamo l’ultimo punto della nostra scaletta. Questa concezione dell’identità umana e della verità che le dà sostanza è molto moderna, in quanto identità e verità si danno in un processo che è storia e storia di relazioni personali: tra me e Dio, e
tra me e le mie sorelle e i miei fratelli. La verità in altri termini, non sta in
nessun luogo là fuori di me, raggiungibile oggettiva-mente; ma si incarna
nella nostra umanità, e quindi si gioca completamente nella nostra storia
e nelle relazioni in cui ogni storia si dipana, e proprio così, lungo questa
storia, mi si rivela anche la mia vera identità, il mio essere di Cristo, e quindi vera-mente cristiano.
Verso una formazione dell’umanità nascente
Oggi stiamo comprendendo, per vie diverse e talvolta apparentemente antitetiche, da credenti o da non credenti, il mistero della natura umana ad
un nuovo livello di radicalità, stiamo intuendo che siamo un processo di rivelazione in atto, il quale è consegnato alla nostra libertà. In questa nuova consapevolezza di chi è l’uomo, che va a coincidere per molti versi, come abbiamo visto, con la stessa esperienza cristiana dell’identità umana, siamo
tutti chiamati a rivedere e a rinnovare le nostre storie: biografiche, familiari, religiose, ecclesiali, nazionali, come associazioni o stati, gruppi politici o
culturali. Ci troviamo tutti cioè su un grandioso spartiacque che è anche
un setaccio della storia e, se vogliamo, una sorta di Giudizio Universale1.
Siamo infatti chiamati a chiederci con molta umiltà: che cosa è ancora egoico e bellico, che cosa resiste al mutamento evolutivo in atto nel mio modo di essere cristiano o non credente, italiano, lumbard, o europeo? Nel mio
essere di destra o di sinistra? Nel mio modo di lavorare o di organizzare
la mia associazione? Dove e perché continuo a contrappormi, ad odiare, a
separarmi? E noi cristiani dovremmo guidare questo straordinario processo in nome di una Umanità Radicale, che per noi è il Cristo Gesù, ma che
potremmo declinare anche in modo del tutto laico e razionale, in quanto questa umanità postbellica, che si rafforza aprendosi alla relazione, sembra essere l’unico passaggio evolutivo ancora possibile su questa terra.
Ma questo lavoro di setaccio, che ognuno di noi è chiamato a fare, non ci
viene per niente naturale. Esso richiede viceversa un lavoro costante su vari livelli integrati. E qui arriviamo alla centralità formativa in questi tempi.
Solo un lavoro formativo, o meglio trans-formativo permanente, infatti, che
integri una nuova consapevolezza storico-culturale, i processi concreti del-
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la liberazione psicologica personale, e pratiche spirituali efficaci, ci può rendere capaci di discernere nel magma contemporaneo ciò che appartiene
ad un passato ormai morto da ciò che è germoglio del Nascente.
Una grande stagione di ricerca e di sperimentazione si apre dinanzi a noi.
Un tempo grandioso in cui ricominciare.
note
1 Su questo discrimine epocale mi permetto di rinviare al volume collettivo, che ho curato per le Ed. Paoline
nel 2006, Lo Spartiacque – Ciò che nasce e ciò che muore a Occidente, con saggi di A. Cencini, M. Ceruti, G.
Fornari,A. Gentili, L. Maggi, R. Mancini, G. Martirani, C. Molari, P. Ricca, M. Rupnik,A. N.Terrin.
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Bulimia della formazione,
anoressia dell’educazione
di Francesco Mattei
Scriveva Hegel che, quando la sostanza è scissa, sorge il bisogno della filosofia. Quando la storia e la vita sono in situazione di scissione e di lacerazione, il pensiero “pensa” la frattura e ricompone, nel pensiero, ciò che nella realtà è in situazione di contraddizione e di antitesi. È il destino, in Hegel, come tutti sanno, che incombe sul filosofo e sullo “storico pensante”,
figura intellettuale in cui pochi storici accetterebbero oggi di riconoscersi.
Lo storico contemporaneo che ricostruisce e compone – tramite rigorosa documentazione –, un fatto, un evento, un personaggio, un partito, un periodo storico… non aspira a “pensare” in accezione hegeliana l’oggetto del
suo studio. Andrebbe fuori tema. Eserciterebbe un altro mestiere. Giocherebbe un gioco con regole inappropriate. Non sarebbe figura intellettuale
seria e credibile.
Il fatto e l’interpretazione del fatto vivono infatti di relazioni complesse. Il
passaggio dal fatto al concetto non è mai semplice traduzione speculare.
Sarebbe bello, semplice, comodo. Purtroppo, particolare non trascurabile,
sarebbe anche non vero, cioè falso. Il passaggio stretto e necessario dalla
cosa al concetto è invero presidiato da trame complesse, trame che si chiamano volta a volta – a seconda del contesto in cui si tenta quella traduzione –, religione, poesia, scienza, letteratura, filosofia, arte… Le molte lingue,
insomma, in cui è scritta la parola verità.
È l’inizio, questo, dell’avventura del pensiero occidentale, un inizio che debutta con il tentativo, da parte della parola, di dire la cosa, del logos di esprimere l’essere (einai). E quanto questa semplice relazione essere-parola abbia interrogato e inquietato l’uomo che pensa, non vale nemmeno la pena
–– Francesco Mattei Università degli Studi Roma Tre
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sottolineare. Quella interrogazione la chiamiamo filo-sofia; la storia di quella millenaria interrogazione prende il nome di storia della filo-sofia. Ma già
filosofia dice amore, passione, ricerca della sophia. Qualcosa che non si dà
in maniera evidente, ostensiva, assoluta. Perciò dice anche mancanza, movimento, approssimazione, disvelamento, uscita dall’ombra, chiarore.Tutti
termini che alimentano una convinzione: quel legame essere-parola, einailogos, è maledettamente complesso. E la verità, quando attingibile, necessita di molto lavoro, di molto scavo, di molta quotidiana fatica del pensiero.
Quella relazione la chiamiamo dunque verità. Ma verità è detta dall’uomo
greco alètheia e orthòtes. E i due termini non hanno esattamente lo stesso
significato. Alètheia, fortemente connotata da quell’alfa privativa che la introduce, significa uscire dal nascondimento, far indietreggiare l’ombra, esporsi alla luce. E il soggetto di questa esposizione o auto-esposizione è l’essere: quell’einai che ha come “destino” il rivelarsi, e dunque l’essere conosciuto e interpretato.Tale luce è detta verità, e il concetto-logos traduce quella esposizione. Perciò dirà Heidegger che l’uomo abita il linguaggio. Conosce cioè l’essere che si è svelato o rivelato nella parola. Orthòtes significa
invece corrispondenza, la latina adaequatio di Tommaso o di parte dell’empirismo inglese. La verità è la corrispondenza della cosa al concetto, della
realtà all’intelletto. Una corrispondenza impossibile nell’accezione della verità come alètheia, e che giustamente Heidegger denuncia come tradimento, travisamento, tramonto dell’essere (e l’Occidente è la terra del tramonto, perché già da Aristotele in poi l’essere ha finito con l’essere identificato
con l’ente e gli enti).
Perché questa premessa (troppo seria) a proposito del tema su cui volevo
brevemente soffermarmi? Per svariati motivi. Intanto, il legame cosa-parola ha conosciuto stagioni molto discontinue, fino ad avventurarsi in divorzi insanabili. La parola ha conquistato una autonomia tale da ignorare completamente la cosa: diventando così, la parola, la cosa stessa. La parola ha
finito per parlare solo di sé. Si è finiti in un mondo di parole: ciò che Heidegger ha tradotto dicendo che l’uomo è finito nel mondo della inautenticità, nel mondo della chiacchiera, nell’impersonale “si”. Ma la cosa, quella
che traduce l’essere, la realtà, che fine ha fatto in questa prospettiva? Per
chi ha frequentazioni filosofiche, sarebbe facile dire che siamo nell’impossibilità della metafisica, nel tramonto della conoscibilità della realtà. Situazione felice, questa, per quanti si muovono festosi e festanti nel mondo del
pragmatismo autentico: per chi giudica, alla stregua dei primi neopositivisti
del Novecento, i problemi metafisici, etici o religiosi cattiva poesia. (Per gli
ultimi eredi del marxismo: la prassi è diventata cieca e sorda? Per gli ultimi
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fisicalisti: le teorie descrivono e spiegano il mondo o descrivono e spiegano soltanto se stesse? Per gli ultimi personalisti: la parola è parola di uomo
o essa parla solo di sé e da sé si origina?).
Si potrebbe continuare all’infinito, ma il problema è troppo serio e importante per lasciarlo agli chansonniers delle diverse scuole. Sembra insomma
di poter dire che questo problema del rapporto parola-realtà va assolutamente messo in questione, riportato in prima pagina, perché l’enfasi della
parola e sulla parola ha finito per logorare la parola stessa. La bulimia della parola ha prodotto la sua insignificanza. La sua profondissima crisi non si
risolverà che con la riconquista del suo rapporto con la realtà. La parola,
altrimenti, sarà condannata all’insignificanza.
In questa prospettiva, allora, quale sarà il significato di verità? Che cosa sarà vero e che cosa sarà falso?
Tornerò sull’argomento, ma il problema mi sembra di evidente rilievo. Se
si esce dalla relazione parola-cosa, logos-einai, la parola rischia di non trovare più la realtà, rischia di muoversi in un mondo di sole parole. E non è,
questo, uno scenario oggi tanto peregrino e immaginario. La bulimia della
parola sta de-realizzando il rapporto con il mondo. L’esperienza si sta svuotando del suo profondo significato. Essa perde l’esperire e la parola che lo
connota diventa insignificante.
Torno allora all’osservazione iniziale. Se il bisogno della filosofia nasce in
tempi di scissione, se lo storico pensante “pensa” una frattura storico-sociale e tenta di ricomporla nella comprensione storica, quale sarà la condizione storica in cui sorge il bisogno dell’educazione? E la riflessione critico-concettuale su di essa? La domanda non mi sembra peregrina, e connota gran parte del lessico pedagogico oggi tanto diffuso. Sarebbe facile osservare, ironizzando sull’impostazione hegeliana, che potrebbe capitare alla formazione-educazione quello che accade alla comunicazione. In tempi
di rara incomunicabilità fra gli individui, si assiste al proliferare impazzito
dell’enfasi della comunicazione e della scienza della comunicazione, fino a
veder proliferare i corsi universitari di Scienze della comunicazione. Accade lo stesso anche per la formazione-educazione e per i relativi corsi di
laurea?
È su questo che vorrei soffermarmi. Perché se la domanda è lecita e pertinente, essa comporta che si rifletta anche sul destino della verità in educazione. Si pone cioè il problema del rapporto tra la parola (educativa) e la
realtà (educativa). Non dimenticando, ma come potrebbe accadere, che
quando tra la parola e la realtà si consuma una scissione profonda e reale,
si aprono i vasti prati dell’ideologia, e la parola si muove in un mondo di
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fantasmi de-realizzati lontani dalle cose e dagli uomini. Un destino non nuovo per la parola educativa, date le innumerevoli occasioni in cui essa si è
prestata a fare da strumento giustificativo della realtà storico-sociale. La
parola è diventata allora, in quelle circostanze, esortazione, adattamento,
giustificazione, parenesi… travisamento ideologico del reale. E la verità è diventata consapevole apparenza, vaga e opinabile doxa, giustificazione di ciò
che si dà, hegelianamente e gentilianamente, come immediato. Lo è diventata in passato, ma ancor oggi è condannata a diventarlo. Un destino apparente, dunque. Uno sbocco inefficace e depotenziato della parola. Il logos
abbandona l’einai e da esso è abbandonato. Una situazione di radicale sfibramento e consumazione del logos in tutte le sue dimensioni.
Siamo a questo punto? Siamo alla scissione tra parola educativa e realtà
educativa? Siamo al punto in cui l’enfasi sulla formazione nasconde una realtà della formazione “povera e nuda”, ma prolifica e infestante? La dinamica della formazione è un tessuto costitutivo degli individui (e connettivo
della società) o assume la voracità di una proliferazione impazzita delle cellule individuali e sociali? La domanda non mi sembra impertinente e fuori
luogo. Anzi, la sensazione si dimostra pertinente e piuttosto diffusa. E non
esplicito queste interrogazioni partendo da fortunati casi editoriali. Giesecke o Postman1 hanno conosciuto successi editoriali fiutando l’aria, cogliendo disagi diffusi, ragionando su derive concettuali e paradigmi educativi mutanti. Il problema è rappresentato dallo sbocco di queste derive: dalle parole ultime a cui approdano queste infinite convulsioni; dalla superficialità
disarmante in cui si accomodano gli innovatori sempre esultanti, sempre
riformanti, sempre (all’alba e al tramonto) vincenti.
Ma cominciamo dal lessico, perché gli antipodi che abbiamo colto tra bulimia e anoressia, formazione ed educazione a questo rimandano.Tutta la riflessione pedagogica ha sempre giocato le tre carte lessicali: istruzione, educazione, formazione2. Sono termini a volte coincidenti a volte distinti (e distanti), a seconda dei tempi mutanti e dei relativi paradigmi storico-culturali. La letteratura è sterminata, in proposito, e perciò non vi faccio riferimento. Ma alcune connotazioni le devo tracciare.
Il concetto di istruzione è legato alle conoscenze e ai saperi: dai livelli di alfabetizzazione primaria fino alle elaborazioni concettuali più complesse e
raffinate. E su questo aspetto poche sono le baruffe concettuali e le polemiche aperte. Se non quella, certo non irrilevante dal punto di vista teorico, sulla reale dimensione filosofico-politica del concetto di istruzione. Non
è un caso, infatti, che ogni tanto la facciata di viale Trastevere sia sottoposta a stress da cambio di titolazione e ne conservi traccia sotto le lettere
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cubitali. Il vecchio ministero, già dell’Educazione Nazionale durante il ventennio, è diventato nel dopoguerra della Pubblica Istruzione. L’ultimo governo lo ha trasformato semplicemente in ministero dell’Istruzione, decurtandolo (per alcuni defraudandolo) della funzione di “pubblico”. Il presente gli
ha restituito la vecchia denominazione di Pubblica Istruzione. I mutamenti
lessicali, dunque, non sono del tutto neutrali. La Francia conserva senza
scandalo il suo ministero dell’Education Nationale e non è afflitta da mutazioni genetico-lessicali. E il perché appare ovvio: lo spirito francese, nonostante un’antica tradizione ottocentesca di istruzione pubblica, gratuita e
obbligatoria, non teme di attribuire all’istruzione un carattere di educazione. Anzi, ne sollecita e incoraggia l’attuazione, essendo, il sistema di istruzione, parte considerevole della costituzione dello spirito del popolo francese. L’Italia guarda invece all’istruzione come ad un diritto fondamentale
sancito dalla carta fondamentale, ma ne teme le pieghe ideologico-educative. Perciò è sempre attenta a delimitarne i confini.
Le esitazioni e le oscillazioni non sono peregrine. Le vicende dei due grandi partiti popolari del secondo Novecento italiano, l’essersi lo Stato unitario formato contro la volontà del Vaticano, hanno lasciato sul terreno politico (educativo) matrici ideologiche dure e fortemente caratterizzate.
Quella marxista ha fatto dell’egemonia in senso gramsciano una filosofia di
vita politica e metapolitica; quella liberale ha coltivato un senso della statualità radicalmente e rigidamente laica, temendo le intrusioni della Chiesa cattolica e allontanandosi così dalla liberalità di altri liberalismi; quella
cattolica ha giocato sull’istruzione una partita dura e sempre aperta, non
raramente forzando i confini del diritto-dovere all’istruzione e muovendosi sul terreno dell’educazione. Come dimostrano, d’altronde, le travagliate
vicende dell’insegnamento della religione (cattolica) nelle scuole e i continui richiami ai vincoli concordatari.
Come si vede, la neutralissima istruzione è sottoposta continuamente a
stress semantici. Anziché limitarsi semplicemente a connotare le lettere e
i numeri del sapere, essa è percepita come terreno di scontro3, come il campo aperto in cui subdolamente si combatte la battaglia degli spiriti per la
conquista delle anime. E appare allora lontana e sbiadita la figura di quel Socrate che vede nella conoscenza la strada della coscienza e dell’essere. Il
suo intellettualismo (etico) è soltanto un ricordo scolastico, non una pagina fondamentale della cultura occidentale. Ad esso si rifanno, in questo gioco politico, quegli attori che, avendo perso la partita politico-ideologica,
cercano di limitare l’avversario e sostengono, con qualche ragione, che il
sapere è quanto basta per conoscere e decidere. Il resto spetta alla liber-
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tà dell’individuo e alla sua libera determinazione. Che è, come si vede, una
lezione alta ed assai poco appresa. Perché, altrimenti, tanto dibattere sull’educazione e sulla formazione?
Veniamo allora agli altri due termini – formazione e educazione –, perché
di essi vogliamo evidenziare il forte squilibrio attuale. Formazione è parola augusta e carica di storia. La classicità greca parlava di paideia, quella romana di institutio, quella tedesca di Bildung. Una sequenza lessicale da far
rabbrividire. E tale da indurre a pronunciare sempre la parola formazione
con grande rispetto, perché carica di una genealogia storico-semantica davvero densa. Paideia è l’atto di accompagnare il bambino, dal cui etimo essa
trae origine, alla costituzione di una adultità etico-conoscitiva autonoma. E
quel tragitto ha termine quando il soggetto ha conosciuto ed appreso il bello e il buono. Il paradigma della calocagathìa, paradigma alto e austero che
implica una visione-partecipazione del bello e del buono, non è per il greco questione di scuola o di solo intelletto. L’ascesa a queste idee, così come Platone ce l’ha descritta nel libro VII della Repubblica o nel Fedro e nel
Simposio, è un continuo volgersi con tutta l’anima (syn òle te psychè) verso il
bene, un continuo trasformarsi-identificarsi in una visione faccia-a-faccia,
come dirà Paolo, con esso. C’è dunque in quel paradigma una pienezza umana da realizzare, un compito da portare a termine, una costruzione di sé
non delegabile. E questo sfondo etico sempre rimarrà nel pensiero greco.
Anche quando, più tardi, i legami con la polis si saranno fatti più labili e lo
stoico cercherà nella coltivazione di sé la ragione (morale) per vivere (o
per morire). Epitteto ne è esempio alto e conseguente.
Una pari densità semantica permane nell’institutio romana e nella Bildung tedesca. Per il primo termine basta rileggere poche pagine della Institutio oratoria4 di Quintiliano. Il vir boni dicendi peritus non ha l’accezione verbosa e
formalistica che la successiva retorica decaduta e decadente gli ha poi portato in dote. Il vir traduce e porta su di sé il senso e la necessità dell’humanitas, e quello spessore umanistico ha fatto per molti secoli, di quell’opera,
il “romanzo di formazione” di intere generazioni. Lo stesso spessore semantico è presente nella Bildung della tradizione tedesca. Bildung dice infatti costruire, dare forma, innalzare.Traduce un senso di pienezza umana da
realizzare, una interezza potenziale da portare a compimento, perché Bild
è imago – l’anima come imago Dei –, ed è stata depositata nella tradizione
tedesca dalla vena mistica neoplatonica di Meister Eckhart5. Il romanticismo riprenderà il termine e così pure il neoclassicismo tedesco. Ma compito della Bildung sarà sempre quello di ricostruire un intero, una pienezza
da porre in atto, anche se la frammentazione e la particolarità sempre in-
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sidieranno quel tutto. La Provincia pedagogica goethiana ben traduce quell’ideale di umana pienezza, ma documenta anche, con rara lucidità, l’affacciarsi, nello Zeitgeist, di un orizzonte in cui l’uomo “strumentale” sta avviandosi verso una deriva di frammentazione6.
Alcuni studiosi scorgono già nelle critiche kantiane il primo segno della scissione del soggetto nella modernità. E da qui la sua tragicità, come finemente interpreta Goldman. L’uomo che conosce e l’uomo che vuole – la ragion
pura e la ragion pratica – demarcano già una frattura che troverà nell’alienazione, prima hegeliana e poi marxiana, una ferita non rimarginabile. Nonostante tutti i tentativi, naturalmente, e da parte di Hegel e da parte di
Marx, di riportare ad identità e unità dialettica uno spirito soggettivo sempre in movimento e mai ritrovantesi. Fallirà, storicamente, la ri-composizione hegeliana nel sapere o nello spirito assoluto, e non miglior sorte toccherà all’immane sforzo marxiano della trasformazione del mondo e dell’individuo come genere o classe. Il positivismo oggettiverà e serializzerà il soggetto e da allora in poi sarà sempre vano il tentativo di trovare fondamento al soggetto. Altro sarà il luogo in cui cercare consistenza al soggetto. Ma
è, questo, un altro capitolo, e sarà scritto nelle vicende filosofico-politiche
del travagliatissimo Novecento. Il che fa pensare che la secolarizzazione
teologica che ha attraversato il secolo, trovi un corrispettivo nella secolarizzazione filosofica, là dove l’assenza del fondamento teologico, di un Dio
assente e silente, sembra trovare un analogo nell’assenza di una radice metafisico-sostanziale per il soggetto.
Se questo tragitto culturale ha una qualche corrispondenza con la realtà, è
facile immaginare quali e quanti problemi si pongano per i termini di cui ci
stiamo occupando. Che cosa diventerà la Bildung? Che cosa vorrà dire paideia? A che cosa si educherà o ci si educherà? La perdita dello sfondo metterà molte parole in libertà e queste infesteranno irrimediabilmente il lessico pedagogico. L’istruzione rappresenterà un indolore rifugio, un luogo in
cui depositare frammenti di un discorso paideutico forte ma ormai impossibile da pronunciare a cielo aperto. Sarà, l’istruzione, l’anfratto in cui le molte varianti dell’ideologia troveranno sicuro riparo. E se è così, ma forse è
così, la storia pedagogica del Novecento finirà con il rappresentare una storia dell’ideologia pedagogica. Di certo, molte pagine (cattoliche o marxiste)
non si sono, in realtà, troppo allontanate da questo scenario.
Così facendo, l’istruzione viene di fatto ad assimilarsi al concetto di educazione, sia che questa derivi il suo significato dalla radice latina dell’e-ducere, del trarre fuori da, richiamando la pagina e la figura socratico-platonica
del Teeteto, sia che essa tragga il suo significato dal latino edere, che dice
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mangiare, consumare, nutrire (e dunque far crescere, allevare) e che trova
il suo corrispettivo nel greco troféo (nutro, allevo, educo). È questo il binomio che attraversa il Novecento. Istruzione e educazione saranno i termini, a volte coincidenti a volte conflittuali, con cui si scriverà nel secolo la
storia e la pratica della formazione. Sul termine formazione (o paideia o Bildung) calerà invece, per lo più, un velo di cosciente o inconsapevole rimozione. Ma la difficoltà, forse, sta proprio nel fatto che un orizzonte forte o
rotondo, come si dice delle filosofie che si sentono (o si sono sentite) legittimate a descrivere i grandi significati individuali o collettivi, non si può
più dare, e la (ri)costituzione dell’intero del soggetto appare opera vana e
impossibile. Il fondamento ha perso il suo centro, la sua radice metafisica,
e persa la Bild si è persa anche la Bildung.
Ricordava Manno, citando Gadamer, che la Bild (immagine) eckhartiana ha
avuto la prevalenza, nella storia, sulla “forma” (si immagina aristotelica). E
dunque, la Bildung sulla formazione. Essa appariva più ambigua, e perciò meno determinata e più ricca per quel grande lavoro che era rappresentato
dallo sforzo di ricostituire, nell’individuo, l’immagine di Dio (e più tardi i
suoi analoghi filosofici).
Sfumata la dissolvenza su Dio, scritta la grande pagina sulla secolarizzazione, la formazione (Bildung o paideia) ha conosciuto stagioni dure da attraversare. E ha ceduto il passo alla sinonimia di educazione e istruzione, inabissandosi in un fragoroso silenzio. Quella formazione non ha potuto camminare indenne per le strade del nichilismo7. L’orizzonte si è fatto più incerto. La forma da dare, e soprattutto da darsi, se si vuole intendere l’autoformazione del soggetto e celebrarne l’insopprimibile libertà, è apparsa difficile da declinare. Il nietzschiano Dio morto ha aperto la strada al weberiano politeismo dei valori, giacché la morte di Dio ha anche ridisegnato il
profilo del soggetto e le dinamiche della sua identità e della sua formazione (costituzione-costruzione).
Che cos’è rimasto sul terreno di gioco? Come muoversi tra tante macerie? Oppure, per chi in quell’orizzonte caduto ha scorto un cielo finalmente ripulito da molti falsi idoli, che cosa rimane sui sentieri dell’uomo dopo
l’abbandono degli dei andati? Non so se sia questo il vero proscenio in cui
si determina la fatica dell’uomo nell’opera di costruzione di sé. Ma come
negare che questo quadro è parte significativa dell’odierna commedia umana? La postmodernità ha preso atto di un mondo che si è rotto, di una società che ha allentato i vincoli umano-sociali, di una soggettività che si è indebolita, di un circolo sistemico in cui la soggettività è stata ridotta a parte funzionale (e intercambiabile) di un tutto che la sovrasta. E se così è, qua-
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le può essere lo spazio – in questa radura arsa di una società in cui ciò che
conta si chiama efficacia e efficienza8 – dell’educazione e della formazione?
Basterà tutto ciò a restaurare un’antica nobiltà della formazione? Quale sarà il nuovo ruolo dell’educazione?
Domande banali e più volte poste. Ma se ripensiamo alle battute iniziali da
cui queste veloci considerazioni hanno preso le mosse, resta il dubbio: l’hegeliana scissione della sostanza storico-sociale conosce oggi una nuova
versione nella forma della società liquida9, o postmoderna10, o postideologica?11 E questa frammentazione storico-sociale che è sotto gli occhi tutti,
di quale educazione o formazione ha bisogno? Quale educatore o formatore invoca? Chi o che cosa è stato chiamato a interpretarla, ripensarla o
ricomporla? Perché tanto proliferare di “formazione”? Dai libri bianchi comunitari ai corsi di formazione organizzati da università ed enti locali, agenzie (ahinoi!) pubbliche e private, sindacati e chiese, partiti e libere associazioni, è tutto uno scintillio di formatori intenti a formare: formatori che si
autoformano, formatori che progettano corsi, formatori che formano formatori, formatori che formano bambini, giovani, adulti, anziani… È il tripudio della formazione. E ci si dovrebbe trovare – se le “buone pratiche” (uscite dal lessico religioso-devozionale ed entrate oggi prepotentemente nel
lessico social-aziendal-formativo) mantenessero le loro promesse –, nel bel
mezzo di una società ben formata.
Ma ahimé!, qualche perplessità è lecito nutrirla. Questa bulimia della formazione rischia di perdere il cuore della formazione, quella Bild o forma o
paideia o institutio che hanno rappresentato i paradigmi dell’educazione.
Un’educazione sempre più negletta, asfittica, afona, denutrita, anoressica. Se
educazione diceva il latino edere o il greco troféo, oggi su quale verbo va essa coniugata? Qual è il suo nutrimento? Perché appare tanto de-nutrita?
Perché le scienze dell’educazione sono oggi le scienze dell’educazione e
della formazione? È un’endiadi pleonastica? Si tratta di un rafforzativo o di
una distinzione di campo semantico? Quale il senso dei due termini?
In questa situazione, chi non ha problemi giuridici è l’istruzione. E pour cause. Almeno fino a quando essa riesce a stare nel suo, a non invadere i territori che si disputano l’educazione e la formazione. E nei suoi spazi, come sappiamo, molto c’è da lavorare, visti i risultati non proprio lusinghieri dei livelli internazionali delle conoscenze dei giovani scolarizzati italiani. La grande enfasi della formazione, invece, ha necessità urgente di definire i suoi spazi semantici e di mantenere le promesse che annuncia. Ha
bisogno di credibilità, di quella credibilità che segue soltanto alla fattualità, alle attese realizzate. Perché le delusioni della concretezza, l’hegeliana
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Wirklichkeit, non faranno che gettare discredito su tutto il sistema della
formazione-educazione.
Che cosa compete invece all’educazione? Perché la sua diffusa afasia? Perché ha essa bisogno oggi, sempre più spesso, di farsi accompagnare dalle
credenziali, in verità deboli, della formazione? Perché una società rinuncia
al dovere-diritto di educare?
Mi sembra una domanda legittima, anche se dei “distinguo” sono certamente plausibili, viste le indefinizioni dei rapporti istruzione-educazione-formazione. Per tornare ai verbi cui sopra accennavo, sarebbe forse giunto il momento di portare in superficie la grammatica essenziale del processo educativo: chi educa, perché educa, a che cosa educa. E ancora: chi è educato,
perché è educato, a che cosa è educato. Perché il gioco educativo è un gioco di relazione, un gioco di relazione simmetrica o asimmetrica. È un gioco di società, un gioco in cui si struttura la relazione io-società-stato in tutte le sue possibili varianti. E l’enfasi sull’uno o sull’altro degli attori in gioco marca significativamente l’orizzonte educativo e le sue sintoniche o distoniche declinazioni.
I molti dolori dell’attuale fase educativa sono legati alle dinamiche interne
dei tre protagonisti: l’io è perplesso, attonito, stordito, in cerca d’autore; la
società è in continuo travaglio, lacerata, mutante e in cerca di equilibrio; lo
Stato ha necessità di darsi un profilo accettabile e di legittimarsi di fronte
ad una società in continua trasformazione sussultoria.
Se questo è il quadro verosimile, c’è posto per l’educazione? Quale il suo
ruolo? Come recuperare una dignità al soggetto-in-educazione? Perché di
questo si tratta, di riscoprire un valore all’individuo. Di restituirgli la consapevolezza della sua umanità, la sua dignità, la cura della sua libertà e responsabilità. Senza cadere, e il pericolo è sempre in agguato, nella insensatezza della facile esortazione o nell’indistinzione mercatoria del dover essere (a buon mercato). Ciò detto, appaiono certamente vere e dure da rimuovere le molte analisi sullo stato attuale della problematicità del soggetto, analisi che le scienze sociali, psicologiche, pedagogiche, filosofiche dettano con serietà e frequenza. E che forniscono su di esso squarci di fondata preoccupazione. Pur tuttavia, resta il problema: è possibile educare? e
come? e a che cosa?
Non vorrò qui risolvere il problema. Per ora voglio soltanto porlo e reclamarne la legittimità. E ricordare e rendere omaggio a quanti, tra i pedagogisti (spesso trascurati), sono andati al cuore del problema e hanno messo
al centro della loro riflessione l’interrogativo sull’uomo, sulla libertà da costruire, sui valori da illuminare e da far valere. Una pedagogia obsoleta, que-
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sta, per i cultori-scienziati à la page. Una pedagogia troppo legata all’antica
tradizione della filosofia morale, per chi conosce le vicende dell’accademia
al passato prossimo. Una pedagogia che tutto sommato non mi dispiace,
devo dire. Perché in quella tradizione, le domande sull’uomo e sul suo costituirsi uomo (e come) rappresentavano il cuore della riflessione teorica.
Una riflessione che oggi manca, e mi manca. Perché, dopo tutto, la filosofia
morale poneva lo sguardo interrogativo sull’uomo che agisce e sui valori
che determinano la sua azione.Vale altrettanto dopo le innumerevoli analisi psico-socio-pedagogiche? L’uomo “educato” non è quello che dà determinazione alla sua libertà? Quello che decide e si decide per qualcosa a cui
si dà valore o ha in sé valore? La scomparsa dell’educazione morale, sopraffatta dalle mille educazioni oggi di moda, è forse il sintomo di un soggetto
adiaforo e indecidente. Il millepiedi perplesso è forse metafora adeguata
dello stato dell’educazione: educazione afona e perplessa che non sa più
aiutare a cercare la strada. Ma senza Maestri che indicano la via non si dà
educazione, e la scuola di oggi sta forse perdendo la sua ragione sociale.
Qui chiudo, ricordando un amico con cui ho mosso i primi passi in accademia e che molto ha riflettuto, con serietà e ironia, sulla natura dell’educazione: «Per me educazione non è soltanto trasmissione di cultura. È anche questo. Ma è anche formazione della personalità». (...) E consente con
Gentile quando questi afferma che «se l’educazione è l’arte di insegnare
qualcosa a qualcuno, non esiste migliore educatore di un ladro che insegna
al proprio figlio la nobilissima arte del rubare.Volendo intendere, naturalmente, che l’educazione non è soltanto acquisizione di determinati elementi, ma è anche maturazione dell’individuo. È anche, in definitiva, accostamento dell’individuo a valori12».
Sono le ultime lezioni di Broccoli, prematuramente scomparso nell’ormai
lontano 1987, e di cui ho curato l’ultimo corso accademico. In quegli stessi anni, aggiungo, appariva un volumetto di Edda Ducci, L’uomo umano13, al
cui centro la pedagogista casentinese poneva la riflessione sull’uomo. Un
modo di intendere la pedagogia, per il pedagogista marxista e per la pedagogista cattolica, che si configurava come riflessione sulla paideia. Una tradizione alta, pur nella varietà delle posizioni, maxima cura servanda. Naturalmente, per chi vuole ed è all’altezza del compito.
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note
1 E. Giesecke, La fine dell’educazione, a cura di F. Mattei,Anicia, Roma 1990. N. Postman, La fine dell’educazione. Ridefinire il valore della scuola,Armando, Roma 1997.Voglio anche ricordare, in proposito, il compianto
collega prof. Riccardo Massa, che all’argomento ha dedicato attenzione e finezza di elaborazione concettuale: R. Massa (a cura di), La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano 1988.
2 Cfr. J. Gatty, Finalità dell’educazione. Educazione alla libertà, a cura di F. Mattei,Anicia, Roma 1994.
3 Sul rapporto conflittuale educazione-istruzione Massa si è più volte soffermato, sottolineando i limiti dell’istruzionismo e i pericoli dell’integralismo pedagogico. Così Massa: «[...] a chi difende il primato dell’istruzione abbiamo prospettato il rischio di un certo semplicismo teorico e di una certa inadeguatezza operativa del
solo istruire, dentro e fuori la scuola, al di là di una sin troppo ovvia polemica anti-valoriale e anti-integralista.
Il sospetto cioè che l’attuale identificazione della pedagogia laica e di sinistra con il primato dell’istruzione sia
prevalentemente surrettizia, che derivi piuttosto da un pregiudizio epistemologico ideologicamente recitato»
(La fine della pedagogia…, cit., pp. 9-10). Lo stesso tema ha spesso ripreso in Educare o istruire? La fine della
pedagogia…, Unicopli, Milano 1987 e Cambiare la scuola. Educare o istruire, Laterza, Roma-Bari 1997.
4 Ho commentato, tempo addietro, passi di quell’opera, il libro VIII, per gli allievi della Scuola dottorale internazionale diretta dal prof. Benedetto Vertecchi presso l’Università Roma Tre. Conservo vivo il ricordo del particolare fascino che quelle pagine hanno mantenuto nel tempo. Cfr. http://lps2.uniroma3.it, 2004, XIX ciclo di
dottorato.
5 Mario Manno ricostruisce con non distratta acribia filologica la storia del termine nel rendere omaggio ad
un maestro purtroppo quasi dimenticato, quel Galvano della Volpe che, studioso marxista, legge con passione il grande mistico tedesco e la grande innervatura del neoplatonismo. Egli cita il Gadamer di Verità e metodo e l’antica tradizione mistica, «per la quale l’uomo porta nella propria anima l’immagine (Bild) di Dio, secondo la quale è creato e deve svilupparla [onde la Bildung] in sé»; «[...] la vittoria del termine Bildung – prosegue – su quello di “forma” non è casuale: in Bildung, infatti, c’è Bild. Il concetto di forma non è così ricco da
comprendere la misteriosa ambiguità di Bild (immagine), che include in sé i concetti di riproduzione (Nachbild)
e di modello (Vorbild)» (M. Manno, Ricordando Alcibiade,Anicia, Roma 2005, p. 111). Mi scuso per la ripresa
della citazione, ma la puntualità della focalizzazione mi sembra davvero pertinente. Per una ricostruzione del
termine rinvio a M. Gennari, Storia della Bildung, La Scuola, Brescia 1995.
6 Cfr., in proposito, quanto scrive Giulio Sforza in Variazioni sul Tema,Anicia, Roma 2007, ove, riportando un
suo studio di anni precedenti, Dell’educazione estetica o dell’educazione, ben sottolinea lo spleen del Teilmensch dell’ultimo Goethe, in molto simile all’homme fractionnaire rousseauiano. Egli mutua, al di là dell’interpretazione che ne dà Antimo Negri, questa curvatura ermeneutica dalla lettura che della Provincia goethiana offre T. Mann in Goethe esponente dell’età borghese: «[...] Già vi troviamo – scrive Mann – l’insufficienza dell’individuo oggi prevalente: solo tutti gli uomini insieme portano a compiutezza l’umano, il singolo diventa funzione, si afferma il concetto della comunità [...]», cit. in G. Sforza,Variazioni sul Tema, cit., p. 103, n. 7. Il
Ganzmensch goethiano sembra dunque definitivamente tramontato.
7 Cfr. A. Erbetta, Pedagogia e nichilismo,Tirrenia Stampatori,Torino 2007.
8 A questo paradigma ossessivo transitato, come altri termini, dal lessico del mondo della produzione e dei
sistemi funzionali al mondo della scuola e della formazione, ho dedicato attenzione non distratta nel saggio
Sapere pedagogico e legittimazione educativa,Anicia, Roma 20032, pp. 64 e ss. Un trasferimento lessicale che
ha visto i lemmi bancari invadere corposamente il lessico pedagogico (budget, debiti, crediti, Pof…). Una migrazione che non ritengo neutra, e che è segno, credo, delle difficoltà profonde in cui si muovono i protagonisti del mondo dell’educazione.
Allo svuotamento del soggetto, in questa prospettiva, ho già fatto riferimento altrove. La formula magica
dell’«efficacia e efficienza», tanto cara ai chierici del ritualismo pedagogico-didattico, è figlia della perdita di
profondità del soggetto, come ricorda Jameson, a cui non rimane, come resto, dopo aver perso il presente,
che lo spazio della superficie. Scrivevo in Sapere pedagogico e legittimazione educativa: «Ed è lo stesso spazio attorno a cui si è strutturato il soggetto (post)moderno che, perso il suo sostrato fondante – quell’interiorità che attingeva ad una delle molte ermeneutiche della metafisica –, ha lasciato che di sé venisse a svelamento soltanto ciò che si-fa-manifesto, che l’apparenza fosse l’intero e l’essenziale cui riferirsi. Il che, poi, si
identifica in definitiva con il dominio della techne; con il soggetto “funzione” del sistema; con l’esaltazione dell’efficacia e dell’efficienza (come recitano anche i manuali à la page del buon dirigente scolastico); con la salmodia del “risultato oggettivo”; con l’ottimizzazione delle prestazioni del soggetto; con la commensurabilità
e determinabilità del tutto» (p. 59). Con una conseguenza, scrive Lyotard: «La nostra vita è così votata all’ac-
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crescimento della potenza. La sua legittimazione in materia di giustizia sociale e di verità scientifica consisterebbe nella ottimizzazione delle prestazioni del sistema, nell’efficacia»; perciò «l’applicazione di questo criterio a tutti i nostri giochi non è disgiunto da certi effetti terroristici, velati o espliciti: siate operativi, cioè commensurabili, o sparite (c.m.)» (Ibidem). Se della soggettività rimane soltanto la spazialità, perché non misurarla? E ciò che nel soggetto non è misurabile ed è ineffabile?
9 L’aggettivazione è naturalmente dovuta a Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2002. Per quanto concerne il tema specifico dell’educazione, rinvio ad A. Porcheddu, Zygmunt Bauman. Intervista sull’educazione,
Anicia, Roma 2005.
10 La fortuna vistosa che ha arriso al volumetto di J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano
1987, non è casuale. Lo scomparso filosofo francese ha colto un clima diffuso e sicuramente caratteristico dei
tempi. Perciò mi sono lungamente soffermato su di esso nel citato studio F. Mattei, Sapere pedagogico…, cit.
11 All’origine della letteratura sul tramonto delle ideologie, in ambito filosofico-politico, sta il bel saggio di L.
Colletti, Il tramonto dell’ideologia, Laterza, Bari-Roma 1980, e Id., Intervista politico-filosofica, Laterza, BariRoma 1975. Da allora, sui tramonti politico-ideologici non è più tramontato il sole, fino all’enfasi e all’orgia
compiaciuta dei “post”. Interessante, in materia, M.Veneziani, L’Antinovecento, Leonardo, Milano 1996.
12 A. Broccoli, L’educazione tra le immagini del moderno, a cura di F. Mattei,Anicia, Roma 1989, p. 152 (sono
le lezioni dell’A.A. 84/85).
13 E. Ducci, L’uomo umano, La Scuola, Brescia 1979. Il tema dell’umanazione è al centro della riflessione di
Edda Ducci: cfr., in proposito, F. Mattei, Un paradigma educativo: parola di uomo, in “Formazione e Lavoro”,
3/2007, pp. 71-80.
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L’esperienza dei percorsi
triennali in Puglia
di Irene Bertucci e Leonardo Verdi Vighetti
La sperimentazione in Puglia: storia di nove progetti
Nel 2007 si è conclusa in Puglia una sperimentazione triennale del diritto/dovere formativo gestita da Enaip ed Enaip Puglia1. La sperimentazione ha riguardato nove centri di formazione professionale e nove istituti scolastici
(confronta Tabella 1) che nel corso del triennio hanno lavorato congiuntamente con l’obiettivo di garantire agli allievi e alle allieve l’acquisizione di
una qualifica professionale e lo sviluppo delle competenze di base secondo gli standard minimi stabiliti a livello nazionale2. L’attenzione alla crescita
degli adolescenti, che si è tradotto nell’ascolto delle loro tensioni, desideri, emozioni e nell’accompagnamento ai loro bisogni di apprendimento è
stato l’altro importante obiettivo sul quale si è sviluppata l’intera iniziativa.
I nove progetti che ne sono scaturiti, quindi, sono il risultato dell’integrazione di diverse competenze: tutor d’aula, docenti della scuola, formatori,
famiglie, aziende, équipe socio-psico-pedagogiche, esperti di didattica e di
valutazione. La sinergia di tali forze non poteva che portare alla decisione,
per alcuni aspetti obbligata, di flessibilizzare l’iter progettuale, nella consapevolezza che se l’ingegnerizzazione risulta utile nelle azioni di governo, coordinamento e controllo dei processi formativi, rivela tuttavia i suoi limiti
nel momento in cui bisogna rispondere a diverse esigenze di apprendimento, cioè quando diventa necessario personalizzare e individualizzare la didattica. Quindi, a partire da una progettazione predefinita e circoscritta, le
équipe hanno lavorato a modellare l’articolazione dei contenuti sulla base
delle caratteristiche degli adolescenti presenti in aula, dei livelli di entrata,
della figura professionale, degli obiettivi realisticamente raggiungibili e de–– Irene Bertucci e Leonardo Verdi Vighetti Enaip nazionale
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gli standard formativi che hanno sempre rappresentato il riferimento necessario di ogni azione didattica.
Tabella 2
I nove progetti di sperimentazione triennale
Centro di Formazione
Professionale
Progetti
San Severo (Foggia)
a titolarità Martina Franca (TA)
Enaip
Lecce
nazionale Brindisi
Monopoli (Bari)
Istituto di Istruzione
partner del progetto
Op. Grafico Pubblicitario
Ist. Mag. Pestalozzi
Addetto alle vendite
Ist. Ipsia A. Motolese
Op. contabile informatizzato Istituto G. Deledda
Op. contabile Informatizzato Istituto G. Marconi
Fotografo
Istituto d’arte L. Russo
Progetti
a titolarità
Enaip
Puglia
Montatore Rvm
Saldatore
Addetto Cad/Cam
Op. per i servizi informatici
Andria (Foggia)
Taranto
Tricase (Lecce)
Brindisi
Figura professionale in uscita
Ist. Ind. O. Iannuzzi
Ist. Ind. A. Righi
Istituto A. Meucci
Istituto Professionale
Comm. C. De Marco
La realizzazione di una serie di attività organizzate a livello centrale ha consentito di promuovere e migliorare l’integrazione e il dialogo tra i soggetti e supportare il lavoro svolto in aula3.
I numerosi seminari di formazione dei formatori svolti nel triennio e gli incontri di consulenza sul territorio, per esempio, hanno permesso di rafforzare le competenze degli operatori nella progettazione e gestione della didattica e nella relazione con gli adolescenti puntando soprattutto sulla circolazione delle buone pratiche. La realizzazione di un pacchetto di risorse
didattiche on line ha permesso di ampliare l’offerta formativa destinata agli
allievi/e e di mantenere aggiornate le competenze dei formatori. Con il modello di valutazione della qualità erogata e percepita, le équipe hanno avuto a
disposizione metodi e strumenti per monitorare e migliorare le loro azioni formative4. Infine, ma non per ultimo, le prove oggettive di apprendimento
hanno consentito di valutare i rendimenti e metterli a confronto nel corso degli anni5.
Ma chi sono gli adolescenti che hanno partecipato alla sperimentazione?
E quale successo hanno conseguito al termine dei corsi? I dati ottenuti
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obiettivo
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dalla valutazione di progetto e degli apprendimenti hanno rivelato tante
informazioni quante le tessere di un mosaico, consentendoci di ricomporre il disegno di questa iniziativa e di raccontare, qui, la storia dei ragazzi e
delle ragazze che hanno partecipato attivamente ai tre anni di formazione in Puglia6.
L’adolescente protagonista dei progetti:
racconto di un profilo in evoluzione
Il nostro racconto parte dall’analisi della famiglia degli adolescenti7, che sembra avere un livello di scolarità medio basso (la maggior parte dei genitori ha
conseguito la licenza media e solo il 10% ha un titolo superiore) e non dimostra particolari interessi per la lettura (in casa si possiede meno di 25 libri e
ci si esprime in dialetto ed in italiano). I genitori sono molto impegnati nell’attività lavorativa e la maggior parte dei padri lavora in fabbrica come operaio (solo il 10% è impiegato). Un dato piuttosto significativo è che gli adolescenti sembrano ignorare il tipo di lavoro svolto dalla madre, espressione forse di una diffusa cultura che sottovaluta il lavoro femminile, oppure
sintomo di un disagio personale del ragazzo/a che induce a celare questa
informazione.
Per quanto riguarda il profilo degli adolescenti, nonostante una cultura familiare basata su modelli sociali omogenei, i comportamenti dei singoli sembrano diversificati: una buona parte di loro non pratica sport (appena il 38%
lo pratica) mentre usa il computer con frequenza (appena il 20% non lo usa
mai). Problematico il rapporto con la lettura: ai quotidiani (letti dal 36%) si
preferiscono riviste e fumetti (30%) e decisamente esiguo il numero di quelli che leggono libri di narrativa (30%), scienze (32%) o storia (28%). Ma il risultato più importante è che la stragrande maggioranza dei ragazzi e ragazze svolge un qualche lavoro pur portando avanti un percorso formativo impegnativo come questo (solo il 28% non lavora): un dato troppo spesso sottovalutato nelle indagini nazionali che pongono a confronto i rendimenti della popolazione scolastica con quella della formazione professionale.
Quindi, come è stata vissuta l’esperienza formativa nei nove progetti? I dati ottenuti mettono in luce che sulle spalle di questi adolescenti pesa un’esperienza di forte marginalità formativa: soltanto il 20% ha iniziato regolarmente la formazione professionale a 14 anni; più del 65% ha iniziato a 15 o 16 anni, più del 50% è stato bocciato a scuola almeno una volta. Ma nonostante gli
insuccessi scolastici, quasi il 40% aspira a conseguire un titolo di studio superiore. Con la lingua italiana si ha un rapporto problematico: la maggioranza ritiene di non apprenderla facilmente, considerandola poco imporEnaip Formazione & Lavoro 1/2008
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tante per lavorare o continuare gli studi. Invece con la matematica c’è un
legame di amore e odio: la maggioranza non si ritiene capace anche se ritiene di apprenderla facilmente, vorrebbe utilizzarla sul lavoro e ne riconosce l’importanza per proseguire gli studi. Infine la maggioranza non ama il
diritto sebbene ritenga importante conoscerlo.
Il rendimento in aula e il successo formativo:
l’esito delle prove di valutazione
Per quanto riguarda il rendimento, dai risultati emerge che, nella sperimentazione, è stato conseguito un successo complessivo sull’apprendimento delle competenze di base8. I rendimenti medi sono nettamente superiori al 50%
(confronta Tabella 2) considerando che le prove sono state più difficili rispetto a quelle dell’anno precedente sebbene permangono difficoltà sulle
aree scientifica, socio-economica e lingua straniera.Tuttavia, gli apprendimenti degli standard minimi, che potevano evocare trascorsi scolastici negativi,
hanno superato positivamente la prova, probabilmente anche grazie agli stessi docenti delle scuole partner che hanno saputo mettere in discussione i
loro metodi didattici per affrontare questa sfida, dimostrando di aver capitalizzato lo scambio di esperienze con gli operatori della formazione professionale avvenuto anche nei seminari di formazione formatori.
Tabella 2
Area di apprendimento delle prove
Scientifica
Storico-socio-economica
Linguistica (italiano)
Linguistica (inglese)
Tecnologica
Percentuale media di risposte esatte ottenute
(Valore medio)
58,7
61,8
70,8
64,8
70,6
Ma la valutazione sugli esiti della sperimentazione ci ha consentito, soprattutto, di smentire alcuni stereotipi.
Il primo di questi è emerso mettendo a confronto i rendimenti ottenuti nei
nove progetti con quelli conseguiti dagli studenti degli istituti professionali di stato nell’indagine Programme for International Student Assessment (Pisa)
promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
(Ocse) nel 2000.
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La nostra comparazione9 ha messo in luce che in alcuni quesiti afferenti all’area linguistica, gli allievi dei progetti hanno riportato risultati superiori a
quelli degli istituti professionali, con differenze comprese in un intervallo
che varia dagli 8,5 punti percentuali ai 49,2. Se questi dati fossero confermati da indagini condotte su campioni comparabili, se ne potrebbe concludere che l’azione didattica svolta nell’area linguistica all’interno della sperimentazione pugliese ha ottenuto un’efficacia superiore a quella dell’azione didattica svolta nella stessa area negli istituti professionali. Un’affermazione – lo ribadiamo – non del tutto provata che tuttavia lancia uno stimolo interessante, in controtendenza rispetto a tanti stereotipi che pesano
sulla formazione professionale sia culturalmente che politicamente.
Un altro stereotipo che questa sperimentazione triennale è riuscita a smentire, è la supposta correlazione negativa tra le bocciature scolastiche subite e il
rendimento nei diversi apprendimenti. Nei due grafici seguenti si può leggere
la distribuzione dei rendimenti medi degli adolescenti dei nove progetti (rispettivamente nell’area scientifica e nell’area storico-socio-economica) in relazione al numero di bocciature e distinti tra coloro che non hanno mai ripetuto
anni scolastici, coloro che hanno ripetuto una volta, e coloro che hanno ripetuto due volte. Come si può notare, coloro che non hanno vissuto delle ripetenze raggiungono livelli più bassi di apprendimento di coloro che hanno alle
spalle una o più ripetenze. È interessante provare a cercarne qualche ragione.
–– Una prima ipotesi, che considera positivamente la bocciatura nonostante sia un’esperienza a rischio di marginalizzazione sociale, induce a pensare che gli allievi e le allieve durante l’anno scolastico siano potuti “crescere” e abbiano saputo capitalizzare questa esperienza frustrante, superando una probabile crisi esistenziale.
–– Secondo una seconda ipotesi, questi adolescenti, che nella loro storia
hanno sofferto esperienze opposte a quella che stanno vivendo in questo momento, abbiano ricevuto una particolare attenzione da parte dei
docenti della scuola; in pratica, mentre nel passato sono stati trascurati e non compresi nella loro condizione di disagio personale e sociale,
nel presente sono stati valorizzati, ascoltati e possono restituire metabolizzato ciò che ricevono.
–– Secondo una terza ipotesi le strategie di apprendimento adottate dai docenti sono risultate adeguate alle esigenze di ragazzi e ragazze che vogliono essere attivi e protagonisti nella formazione. Infatti le scelte didattiche effettuate sono orientate alla cooperazione, alla valorizzazione
delle iniziative e delle responsabilità del singolo e del gruppo.
Proprio su quest’ultimo punto vale la pena di soffermarsi.
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Grafico 1
Rendimenti nell’area scientifica rispetto al numero di bocciature
Grafico 2
Rendimenti nell’area storico-socio-economica rispetto al numero
di bocciature
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La somministrazione di uno degli strumenti adottati nel modello di valutazione messo in atto per la sperimentazione, cioè il “Questionario sulle strategie di apprendimento” elaborato da Michele Pellerey e validato anche sulla popolazione nazionale della formazione professionale10, ha fornito alcuni risultati interessanti.
Grafico 3
Risultati ottenuti sulle strategie di apprendimento
Nel grafico le linee più scure rappresentano i valori conseguiti dagli allievi e dalle allieve della Puglia in relazione alle diverse scale del questionario, mentre le linee più chiare indicano i valori standard riferiti alla popolazione della formazione professionale dei giovani. Come si vede, i valori conseguiti dai ragazzi e dalle ragazze pugliesi si situano di
poco al di sotto degli standard nazionali rivelando un leggero malessere vissuto da loro che probabilmente per storia personale, esperienze
scolastiche o condizioni di vita non sono favoriti, ma anzi sono ostacolati nel frequentare percorsi di apprendimento. Tuttavia emergono anche alcune differenze:
–– sul primo fattore cognitivo che riguarda “processi e strategie elaborative
per comprendere e ricordare” che rivela la capacità di appropriarsi delle
cose nuove e di assimilarle, metabolizzarle nella propria cultura, il campione pugliese presenta valori superiori alla media nazionale;
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–– sul fattore affettivo che riguarda “l’ansia di base”, cioè l’eventuale difficoltà a controllare le reazioni affettive ed emotive, il campione pugliese
presenta valori inferiori a quello nazionale rivelando una maggiore capacità di far fronte, ad esempio, a situazioni in cui il gruppo classe vive
un clima non sereno ma teso;
–– sul fattore emotivo riguardante “la percezione della propria competenza”,
ossia il senso di responsabilità, la stima di se stessi e la capacità di svolgere adeguatamente compiti formativi e lavorativi, il campione pugliese
registra valori più alti della media nazionale;
–– sul fattore emotivo che fa riferimento ad “interferenze emotive occasionali ovvero incapacità di controllarle” il campione pugliese registra valori
inferiori allo standard nazionale confermando una sostanziale capacità
di contenere l’ansia di base e far fronte a contenere le reazioni emotive che possono interferire nel lavoro formativo.
Alla luce dei risultati fin qui ottenuti, possiamo compiere alcune riflessioni
finali.
Il timone ed il collante per affrontare la sfida
in corso d’opera
Questa sperimentazione è stata una vera sfida per tutti.
Si è dovuto andare contro corrente, andare in senso opposto alla deriva
che caratterizza da anni il sistema formativo italiano: la separazione tra formazione professionale e scuola, tra istruzione ed educazione. Derive che
hanno sempre creato dei danni nel lavoro di formazione, specialmente rivolto ad adolescenti. Lavorando sul campo, tenere assieme ciò che tradizionalmente è separato vuol dire agire su piani diversi per costruire “ponti” di comunicazione e di interscambio: agire sul piano didattico con l’interdisciplinarità promossa tra docenti della scuola ed attraverso metodologie di apprendimento ispirate al fare; su quello pedagogico con figure di
docenti e formatori capaci di svolgere il ruolo di guide morali; su quello organizzativo con la cooperazione tra le diverse figure professionali coinvolte nella formazione a livello di Centro di Servizi; su quello di sistema con
la cooperazione tra gli attori della formazione e dell’istruzione.
Più in particolare, si è cercato di curare e valorizzare ambiti di apprendimento diversi: la formazione tecnico-professionale, attraverso l’apprendimento di competenze diversificate in relazione alle figure professionali; l’istruzione, con l’acquisizione delle competenze di base; l’educazione, con la sensibilizzazione sia alle competenze etiche - intese come capacità di compiere scelte di vita, ispirate ai valori della collaborazione, del rispetto recipro-
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co, dell’autonomia, della responsabilità - sia alle competenze affettive ed
emotive finalizzate a gestire le relazioni nel mondo lavorativo e sociale.
La sfida è anche consistita nell’andare “contro corrente” nei confronti degli allievi e delle allieve. Si è partiti dal presupposto che ciascuno di loro pur avendo alle spalle insuccessi scolastici, svantaggi di marginalizzazione
sociale, appartenenza a famiglie disagiate - fosse portatore di un patrimonio di esperienze di vita e di formazione che doveva essere scoperto, diventare per loro stessi, per i docenti e per i formatori oggetto di consapevolezza ed essere valorizzato nei percorsi di apprendimento. L’imperativo
è stato: dare visibilità a ciò che è nascosto nella storia dei ragazzi e delle ragazze, che soffrono per non essere abbastanza visibili ed importanti per la società
degli adulti; mostrare anziché nascondere; valorizzare il sapere ed il saper fare
che viene impiegato quotidianamente nella vita; accrescere il patrimonio di conoscenze e di capacità anziché aggiungere nuovi saperi come se fossero protesi applicate ad una mente vuota.
Si è voluto mettere in pratica l’affermazione di Plutarco, secondo il quale
«la mente non è un vaso da riempire ma legna da ardere», nella convinzione che il fuoco dell’apprendimento può essere acceso con la scintilla della
curiosità, dell’interesse, della voglia di affrontare e risolvere i problemi che
hanno un senso per la vita e per il lavoro. E per reggere la sfida - che ha richiesto il coraggio di trovare nuove strade di apprendimento e di insegnamento - si è voluto promuovere la circolazione delle buone pratiche di apprendimento e la riflessione sulle esperienze di successo e di fallimento. E
ciò ha richiesto vincere alcune resistenze, anche comprensibili da parte dei
docenti e dei formatori: la paura di commettere degli errori e di essere redarguito dall’istituzione, la gelosia rispetto alla propria esperienza ed ai propri strumenti didattici sovente costruiti con l’impegno di semi-volontariato, la colpa e la vergogna di perdere la faccia e la propria immagine di “insegnante-che-sa”. Si è cercato, con la disponibilità di tutti, di superare gli
steccati della rivalità e della competizione tra i docenti e tra gli operatori,
creando un clima di collaborazione, di non penalizzazione - ed anzi di comprensione - dell’errore e del suo valore.
Non si può affermare che la sfida sia stata vinta, che tutti gli ostacoli siano
stati superati, sarebbe falso e non rispetterebbe i tempi di elaborazione di
ciascun protagonista. Si può dire, però, che si sono raggiunti tanti traguardi intermedi e si sono messe le radici per migliorare i successi, e ciò grazie al timone ed al collante che sono stati adottati.
La proposta formativa ha rappresentato il quadro di riferimento e l’orizzonte di senso verso cui tendere attraverso le scelte pedagogiche: è stata il col-
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lante che ha stabilito nessi e collegamenti tra le attività, tra i protagonisti,
tra i sistemi presenti nel territorio e si è tradotta in forme culturali e in modalità di comportamento, più in particolare in una cultura pedagogica con
dimensione etica, in una cultura organizzativa, in una cultura di sistema.
–– La cultura pedagogica. L’apprendimento non è una finalità ma un’attività,
è un fare, un agire che si mette in moto se c’è una grande meta da raggiungere, nella quale sia evidente la congiunzione tra il professionale ed
il sociale; se si tratta di attraversare, indagare e scoprire territori culturali nuovi, poco conosciuti; se la formazione diventa la costruzione di
un qualcosa che ha senso per sé e per gli altri, un prodotto da mostrare, da utilizzare. Apprendere è acquisire tutto ciò che è necessario per
costruire questo prodotto che ha senso, che ha valore, non di mercato
ma professionale, sociale, relazionale, affettivo. Allora l’apprendere non
è solo un prendere, ma un dare, un esprimere attraverso tutte le risorse della mente/corpo: la gestualità, la cognizione, l’affettività, l’eticità. La
formazione acquista il significato di esperienza correttiva rispetto ad un
passato nel quale l’apprendere è stato spesso un consumare, un memorizzare, un acquisire qualcosa che era confezionato da altri. In questa
esperienza i ragazzi e le ragazze crescono perché ritrovano la responsabilità, il rispetto delle differenze individuali e di genere, la cooperazione, il senso del fare cose utili. Sperimentano valori, vivono anche una dimensione etica.
–– La cultura organizzativa. Se apprendere non è tanto accumulare ma accrescere ed interconnettere conoscenze, intuizioni, immagini, valutazioni, ecc. – ad immagine di quello che succede nel cervello – , allora l’organizzazione dei processi, delle funzioni e delle responsabilità deve rispecchiare l’immagine olografica del cervello, simile ad una rete piuttosto che ad un meccanismo, alla trama di un tessuto, ordito dai formatori, dai docenti, dai coordinatori, dai Tutor e dagli esperti territoriali. Allora l’organizzazione dei ruoli diventa una risorsa dell’apprendere, perché contribuisce a far dialogare le persone, a costruire una progettazione condivisa, ad adottare gli stessi metodi di apprendimento. L’organizzazione è essa stessa apprendimento.
–– La cultura di sistema, per creare un sorta di “sistema dentro i sistemi”
che sono stati coinvolti nella sperimentazione: istruzione, formazione
professionale, azienda, esperti territoriali, famiglia. Ogni sistema ha modelli di comportamento diversi, regole e valori di riferimento, in parte
simili ma in parte differenti, contrastanti e persino in conflitto tra loro.
Per poter realizzare una sperimentazione condivisa, occorre che gli at-
72
obiettivo
obiettivo
tori mettano al di sopra di specifici interessi il servizio formativo da realizzare e l’orientamento ai destinatari finali. Occorre che adottino principi pedagogici e tecniche didattiche condivise, che costruiscano una
piattaforma di scelte operative tra loro congruenti. E questo è stato reso possibile, almeno in parte, dal mettere i protagonisti attorno a dei
tavoli di lavoro ponendo a confronto il modo di operare di ciascuno, le
concezioni dell’apprendere, le difficoltà di relazione e di operatività che
ciascuno ha incontrato all’interno del proprio sistema.
note
1 Il presente articolo illustra, in modo sintetico, i risultati ottenuti nel corso delle sperimentazioni triennale che
hanno preso avvio nel 2004 e si sono conclusi nel 2007 per una durata complessiva di 3600 ore. I progetti si sono svolti in ottemperanza della Legge 53 del 28 marzo 2003 sulla riforma del sistema dell’istruzione e della formazione rivolgendosi quindi ai giovani dai 14 ai 18 anni coinvolti nell’esercizio del diritto/dovere.
2 La Conferenza Stato-Regioni del 15 gennaio 2004 stabilisce che le competenze di base afferiscono alle seguenti aree: area dei linguaggi (comprensiva della lingua straniera), area storico-socio-economica, area scientifica; area
tecnologica (limitatamente al primo standard formativo e solo per il terzo anno della sperimentazione).
3 Tali attività sono state realizzate da Enaip per tutti i nove progetti e messe a disposizione in modo trasversale
alle équipe presenti sul territorio; le risorse che hanno promosso e curato tali iniziative sono: Irene Bertucci (responsabile didattico delle sperimentazioni), Leonardo Verdi Vighetti (esperto in formazione e valutazione), Franca Rizzuni (responsabile area valutazione Enaip) e Andrea Giacomantonio (esperto di valutazione degli apprendimenti).
4 A partire da una scelta metodologica mirata che deriva dal know-how consolidato di Enaip, sia il modello di valutazione per la qualità delle azioni formative sia il modello di valutazione degli apprendimenti sono stati messi a
punto nel corso del triennio attraverso numerosi incontri e attività con i gruppi di progetto, coinvolgendo attivamente i tutor, i coordinatori, i docenti e i formatori. Il modello di valutazione della qualità erogata e percepita si
compone di diversi strumenti che possiamo identificare in tre grandi gruppi: 1) le specifiche di qualità erogata e
percepita, relative al processo di progettazione, al processo di erogazione dell’attività formativa e al processo di
stage, 2) i questionari di soddisfazione, 3) un supporto informatico (data-base) per la raccolta e l’analisi dei dati.
5 Le prove oggettive hanno riguardato le quattro aree previste dalla Conferenza Stato-Regioni e pertanto, non
hanno avuto un carattere disciplinare, ossia non hanno riguardato l’italiano, la matematica, ecc., ma si sono qualificate per essere pluri/interdisciplinari. L’elaborazione delle prove è avvenuta tenendo conto oltre che degli standard, anche degli obiettivi del secondo anno e gli obiettivi del terzo anno stabiliti nei progetti di sperimentazione;
degli obiettivi delle progettazioni di dettaglio per Ufc dei singoli corsi e della forma che ha concretamente assunto al proposta didattica in ogni aula. Le prove sono state messe a punto con i gruppi di progetto, attraverso numerosi incontri che hanno coinvolto attivamente i docenti, i formatori, i tutor e i coordinatori, per rispondere ad
una precisa scelta metodologica di Enaip.
6 Nell’ambito di questo articolo è stato possibile commentare solo sinteticamente i risultati ottenuti dalla valutazione A conclusione dell’iniziativa, infatti, è stato prodotto un Report nel quale sono ampiamente commentati i
dati ottenuti.
7 I risultati descritti in questo paragrafo si riferiscono ai dati ottenuti dallo strumento denominato Questionario
allievo che, insieme ad altri strumenti, è stato prodotto appositamente per la sperimentazione triennale con lo
scopo di fotografare il campione oggetto della sperimentazione.
8 È opportuno ricordare che i dati descritti in questo paragrafo sono il risultato di prove “oggettive” elaborate assieme ai formatori ed ai docenti delle scuole e che fanno parte di un pacchetto di servizi che l’Enaip Nazionale ha
offerto alle sedi locali ove si è svolta la sperimentazione. Ricordiamo inoltre che le competenze citate sono collegate con gli standard minimi determinati dalla Conferenza Stato Regioni del 15 gennaio 2004.
9 La comparazione è avvenuta nel seguente modo: all’interno delle prove “oggettive”, create per la sperimentazione, sono stati inseriti nove quesiti di ancoraggio, ovvero nove item adoperati nella rilevazione del Pisa. Per attribui-
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
73
re il corretto valore alla comparazione, è necessario tener presente che alcuni elementi differenziano le due
rilevazioni: 1) il Pisa si rivolge a studenti del sistema dell’istruzione che hanno compiuto 15 anni; al termine dei
corsi, gli utenti dei progetti hanno circa 18 anni; 2) il numero di quesiti sui quali avviene la comparazione è esiguo; 3) le procedure di controllo della somministrazione adottate nel Pisa sono più rigorose di quelle utilizzate per la valutazione degli apprendimenti degli iscritti ai nove progetti. Queste differenze non permettono alcun tipo di generalizzazione, ma consentono di formulare delle ipotesi che possono essere sostenute con molta prudenza; in termini deweyani, sarebbe più corretto parlare di “suggestioni” che di ipotesi.
10 Michele Pellerey, Questionario sulle strategie di apprendimento (Qsa), Edizioni Libreria Ateneo Salesiano,
Roma, 1996. Il Questionario sulle strategie di apprendimento è uno strumento che tende a rilevare non tanto le competenze funzionali ai compiti lavorativi, ma le competenze a valenza cognitiva ed affettiva messe in
atto nelle situazioni di apprendimento formale ed informale, riguardanti la capacità di autoregolazione dei propri comportamenti, la collaborazione, le modalità di concentrazione nei momenti di apprendimento, ecc., ma
anche aspetti emotivi come la volizione, l’esposizione all’ansia, la percezione della propria competenza, ecc..
Si tratta, in verità, di metacompetenze, ossia di capacità ad alta valenza riflessiva, che sono utilizzabili anche in
situazioni lavorative in cui occorra apprendere nuovi comportamenti, avendo la consapevolezza delle proprie
modalità di acquisizione.
74
obiettivo
obiettivo
Storia e analisi
dell’accreditamento
in Italia
di Massimo De Minicis
L’inizio del fenomeno
Il miglioramento della qualità dei sistemi di erogazione dei servizi (di istruzione, di formazione, di orientamento, di incontro tra domanda e offerta di
lavoro) rappresenta, nell’ambito della sfida complessiva posta dalla strategia
di Lisbona e dal programma di lavoro Istruzione & Formazione 2010, uno degli obiettivi più rilevanti, che ciascun paese si impegna a perseguire sulla base delle rispettive specificità, inquadrandolo nell’ambito degli obiettivi di
coesione ed equità sociale che l’Unione europea si è data.
Il concetto di qualità nella formazione richiede particolare attenzione, date le specificità del servizio formativo, che, proprio in quanto servizio, si
configura come attività immateriale, a forte contenuto relazionale, inserita
in un complesso sistema di aspettative che spesso affondano le proprie radici nel tessuto territoriale di appartenenza con una valenza di carattere
pubblico1.
In tale ambito è stato per la prima volta trasferito il consolidato sistema di
teorie, metodi e strumenti di applicazione della qualità, mutuato dal mondo della produzione e definibile come metodologia finalizzata ad assicurare al cliente - cittadino la soddisfazione di fabbisogni impliciti ed espliciti.
Oggi l’assicurazione della qualità da strumento volontario messo in atto
dagli enti di formazione è divenuta di fatto dispositivo cogente regolamentato e controllato dalla pubblica amministrazione. È questo l’ambito di applicazione dei criteri di qualità, relativa alla creazione di un sistema di accreditamento delle sedi formative, in attuazione degli impegni assunti dallo Stato italiano con la Commissione europea.
–– Massimo De Minicis Esperto presso la struttura per l’accreditamento dell’Isfol
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
75
Almeno nell’ambito delle politiche del lavoro e della formazione professionale, il tema dell’accreditamento delle strutture che intendono ottenere finanziamenti con risorse pubbliche, è stato introdotto nel quadro normativo italiano con la legge n. 196 del 1997 “Norme in materia di promozione
dell’occupazione”. L’articolo 17 di tale legge, nel quadro della valorizzazione della formazione professionale quale strumento per migliorare la qualità dell’offerta di lavoro, introduceva il principio secondo cui gli enti che operano nella formazione professionale utilizzando fondi pubblici (comunitari,
nazionali, regionali) dovevano possedere requisiti predeterminati con l’obiettivo di garantire agli utenti adeguate ed efficaci opportunità formative.
Nel 2000 il Ministero del Lavoro ha quindi nominato una Commissione (costituita da alcune Regioni oltre che dal Ministero stesso) che, con il supporto dell’Isfol e di Tecnostruttura, ha prodotto un impianto regolamentare e un modello operativo approvati con Decreto del Ministero del Lavoro nel maggio del 2001 (Dm 166/2001).
Tale Decreto ha definito nella parte regolamentare gli ambiti dell’accreditamento, l’oggetto, i soggetti responsabili e i soggetti destinatari di tali procedure di verifica, le filiere formative su cui richiedere l’accreditamento, il
rapporto tra accreditamento e certificazione di qualità Iso, le procedure
per ottenere l’accreditamento, la sua durata e validità; nel dispositivo operativo sono stati individuati i requisiti di natura quantitativa e qualitativa
che le agenzie formative operanti con fondi pubblici dovevano possedere
e dimostrare in merito alle risorse strutturali, gestionali amministrative ed
umane, ai livelli di efficacia ed efficienza degli interventi, alla capacità di stabilire reti con il sistema sociale e produttivo locale.
La rilevazione effettuata dall’Isfol nel febbraio 2007 indica la presenza di un
quadro composito disegnato dal processo di accreditamento: le sedi accreditate sul territorio nazionale di differente natura giuridica risultano pari a
8.454 su un totale di 14.000 sedi richiedenti.
Già nel 2003, nella parte finale della fase sperimentale di attuazione dei dispositivi, nelle aree tradizionalmente dinamiche ricompresse nell’Obiettivo 3 della precedente programmazione circa il 50% delle sedi operative risultava accreditata, e una quota maggiore possedeva la certificazione Iso.
Nelle regioni meridionali la situazione appariva visibilmente più arretrata,
con tassi di diffusione dell’accreditamento (e della certificazione) notevolmente inferiori. Il 30% delle sedi possedeva l’accreditamento e circa il 32%
la certificazione Iso.
La corrispondenza dei due fenomeni qualitativi (Accreditamento e Certificazione Iso), ha successivamente perso di intensità, soprattutto nelle re-
76
obiettivo
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
obiettivo
gioni meridionali. Quando, infatti, la certificazione Iso ha perso il suo ruolo di elemento cogente per l’accreditamento o in grado di soddisfarne alcuni requisiti, il divario tra sedi accreditate e certificate si è notevolmente
ingrandito arrivando nel 2006 al 94,7% delle sedi accreditate contro il 56,7
di quelle certificate.Tale fenomeno, testimonia spesso da parte degli organismi un approccio burocratico o pragmatico verso processi di innalzamento della qualità, fortemente considerati solo se ricompresi all’interno di dispositivi aventi cogenza normativa.
Alla luce di questi dati c’è da chiedersi quanto l’introduzione dell’accreditamento possa aver storicamente coinciso con una significativa ridefinizione del panorama dei soggetti erogatori soprattutto in termini di crescita
qualitativa del sistema2.
Ora, se è necessario mantenere un certo scetticismo circa la capacità effettiva dei cosiddetti fenomeni “pragmatisti” di valutazione della qualità (che
determinano la necessità di conformarsi a requisiti di carattere qualitativo
e quantitativo3) di promuovere, anche nel campo dei servizi di pubblica utilità alla persona4, il miglioramento auspicato negli standard di processo/prodotto – soprattutto se si pensa all’attuazione “monca” del dispositivo5 –,
una valutazione generale di questi processi dovrebbe tener conto degli effetti di crescita virtuosa, quanto meno in termini culturali e di sensibilizzazione verso il tema della qualità. Si passa, infatti, da meno della metà di enti accreditati e certificati nel 2002 (ad un anno dal varo del Dm 166/01), ad
una disponibilità tendenzialmente generalizzata ai giorni nostri, quando cioè
il requisito è divenuto ovunque una “condicio sine qua non per operare nel
mercato della formazione a finanziamento pubblico”. I dati disponibili, in
definitiva, sembrano confermare che attualmente tutti i soggetti erogatori
di servizi formativi finanziati con risorse pubbliche dispongano del requisito dell’accreditamento, ed una quota largamente maggioritaria della certificazione Iso.
È, infatti, nella stessa natura di tale fenomeno – che sostanzialmente pone
soglie di accesso al sistema – determinare un processo selettivo in relazione alla capacità di soddisfare requisiti e standard previsti. Ma se qui sta la
particolarità e anche forse la paradossalità del processo –, l’impatto dell’accreditamento sui soggetti attuatori sembra aver determinato non tanto e
non solo processi di selezione in termini di esclusione, quanto piuttosto
fenomeni di ingresso di “nuovi soggetti attuatori” con attività prevalenti in
altri settori del sistema dell’educazione o del welfare.
In particolare, mediamente nelle regioni settentrionali la presenza di nuovi soggetti risulta intorno al 37% con una contrazione degli organismi sto-
77
rici intorno al 20% rispetto all’inizio della programmazione, nelle regioni
meridionali il dato dei nuovi ingressi sale a circa il 50% del panorama complessivo dell’offerta, con un decremento di circa l’8% di un consolidato che
già presentava dati quantitativamente meno pesanti.
Anche i dati riportati nella Tabella 1 evidenziano come tale processo di inclusione di nuovi soggetti, che l’accreditamento non ha limitato ma ha forse accelerato. si sia sviluppato soprattutto nelle regioni Obiettivo 1 (il dato della Sicilia in questo caso appare estremamente significativo).
L’analisi di alcuni dati in riferimento al forte differenziale nelle richieste di
accreditamento evidenzia una generale incapacità del sistema di produrre
selezione perché non in grado in tempi certi e prestabiliti, soprattutto relativi all’emanazione dei bandi e all’inizio delle attività, di concludere i processi di verifica e valutazione previsti dal dispositivo, per cui si è registrato
un ingresso nel sistema della Formazione professionale di un elevato numero di soggetti con un accreditamento non riconosciuto e non formalmente rilasciato. In tali casi il dato delle sedi accreditande si avvicina più di
quello delle sedi accreditate al numero di soggetti che accedono ai bandi
e/o ai finanziamenti.Tale situazione si è verificata in molte regioni Obiettivo 1 e in alcune realtà Obiettivo 3 (Tabella 1 e 2).
78
obiettivo
Tabella 1
Regioni
Basilicata
Calabria
Campania
Molise
Puglia1
Sardegna
Sicilia2
Totale Ob.1
N. sedi
Processo di verifica
Tipologia
dei soggetti che hanno
Documentale
Audit in loco
attuatori presentato
domanda Esaminate Positive Esaminate Positive
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
8
152
160
164
885
1.049
286
807
1.093
9
45
54
233
394
627
32
925
957
725
2.500
3.225
1.457
5.708
7.165
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
8
152
160
164
885
1.049
286
807
1.093
9
45
54
233
394
627
0
725
2.500
3.225
1.425
4.783
6.208
8
118
126
154
501
655
78
317
395
4
28
32
146
235
381
32
925
957
561
2.020
2.581
983
4.144
5.127
8
129
137
154
501
655
obiettivo
Totale soggetti attuatori e sedi accreditate nelle Regioni dell’Ob. 1
(dati al 30 Aprile 2005)
Sedi
accreditate
272
4
28
32
2
30
32
32
925
957
8
118
126
100
304
404
6
216
222
4
28
32
1
16
17
32
280
312
8
118
126
100
304
404
6
216
222
4
28
32
146
235
381
32
280
312
0
200
1.613
2.085
0
151
962
1.113
2.581
296
1.181
4.058
79
Tabella 2
Totale soggetti attuatori e sedi accreditate nelle Regioni e Province Autonome dell’Ob. 3 (dati al 30 Aprile 2005)
Regioni
Abruzzo
Emilia R.
Friuli V.G.
Lazio
Liguria
Lombardia
Marche
P.a Bolzano
P.a Trento
Piemonte
80
N. sedi
Processo di verifica
Tipologia
dei soggetti che hanno
Documentale
Audit in loco
attuatori presentato
domanda Esaminate Positive Esaminate Positive
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Privati
Totale
26
152
219
26
193
219
12
160
172
181
6
87
93
262
821
1.083
47
130
177
497
213
1.788
140
2.500
353
49
109
158
54
114
168
241
627
868
0
6
87
93
0
41
111
152
0
3
54
57
193
593
786
38
78
116
212
0
140
2.500
352
49
109
158
54
114
168
185
0
136
2.020
321
49
109
158
45
99
144
0
0
0
Sedi
accreditate
0
0
12
160
172
0
3
54
57
0
3
53
56
152
3
53
56
0
41
104
145
0
38
78
116
13
0
5
13
0
5
786
38
78
116
435
185
1.597
136
18
49
109
158
5
25
30
18
43
78
121
5
25
30
233
571
804
321
43
78
121
45
99
144
233
571
804
obiettivo
Regioni
N. sedi
Processo di verifica
Tipologia
dei soggetti che hanno
Documentale
Audit in loco
attuatori presentato
domanda Esaminate Positive Esaminate Positive
672
787
1.459
69
290
359
8
22
30
215
498
713
2.286
5.182
7.649
672
787
1.459
0
8
22
30
205
466
671
1.201
2.101
3.302
504
699
1.203
67
271
338
8
21
29
131
326
457
1.186
2.595
3.781
496
680
1.176
67
269
336
7
15
22
131
326
457
804
1.595
2.399
466
614
1.080
63
230
293
6
12
18
123
306
429
985
1.980
2.965
466
614
1.080
63
230
293
8
21
29
123
306
429
1.605
3.499
6.100
obiettivo
Pubblici
Privati
Totale
Pubblici
Umbria
Privati
Totale
Pubblici
Valle d’Aosta Privati
Totale
Pubblici
Veneto
Privati
Totale
Pubblici
Totale Ob. 3 Privati
Totale
Toscana
Sedi
accreditate
Alla luce di questi dati è d’obbligo evidentemente chiedersi se l’accreditamento sia stato effettivamente in grado di realizzare una regolazione del
sistema in termini qualitativi andando al di là di mero fenomeno burocratico di controllo di aspetti amministrativi e logistici.
L’implementazione dei dispositivi, permettendo di monitorare per la prima
volta in molte realtà territoriali la consistenza dell’offerta formativa, probabilmente non è riuscita a produrre nient’altro che l’immagine di un processo già in atto: l’accesso spesso non regolato e non qualificato di altre
soggettività, non appartenenti al nucleo storico e consolidato di organismi
ed enti, al mercato della formazione professionale finanziata.
C’è anche da dire che tale fenomeno rientra in una tendenza all’integrazione
della formazione, dell’istruzione e del Welfare che è stata incoraggiata e auspicata da varie posizioni culturali e politiche nel dibattito degli ultimi anni.
Ma tale tumultuosa moltiplicazione dei soggetti attuatori, non accompagnata da reali e completi processi di verifica qualitativa in termini di mancato
controllo dei requisiti relativi sia alle risorse umane sia all’efficacia degli interventi, ha determinato le condizioni per una sempre maggiore despecializzazione, in termini di qualità del servizio e di efficacia formativa, degli organismi formativi, che considerano spesso le risorse destinate alla formazione professionale in modo meramente strumentale.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
81
D’altro canto, come appare evidente dai dati quantitativi i sistemi regionali maggiormente strutturati da un punto di vista qualitativo – che pure, in
alcuni casi, hanno incluso nei dispositivi di accreditamento requisiti funzionali all’apertura del mercato della formazione territoriale, come l’accreditamento dell’Organismo, o l’accreditamento post-bando – hanno saputo
garantire un forte equilibrio tra il consolidato, i soggetti formativi storici e
i nuovi organismi provenienti da altri settori o di nuova costituzione, preservando l’identità e consentendo l’inclusione di nuovi soggetti realmente
qualificati nel campo dei servizi formativi.
La completa verifica e l’attivazione di processi di mantenimento dei requisiti hanno garantito, quindi, un ingresso e un dimensionamento controllato
del mercato dell’offerta equilibrato.
Viceversa, i sistemi regionali in cui l’attenzione si è incentrata essenzialmente sugli aspetti logistici, amministrativi, burocratici, e che hanno accumulato forti ritardi nel completamento delle operazioni di verifica e nel
controllo in loco dei requisiti previsti hanno invece visto un enorme incremento di organismi accreditandi, con una riduzione del peso dei sodalizi storici.
Si è verificato paradossalmente un fenomeno per cui sistemi che presentavano una domanda istituzionale maggiormente orientata a tutelare gli Enti storici dell’offerta mediante un accreditamento che considerava come
oggetto la sede operativa, che garantiva l’accesso soltanto ad organismi non
profit, che doveva obbligatoriamente realizzarsi in una fase pre-bando limitando accesso e presenza di soggettività che non operavano in maniera
continuativa, con una forte attenzione per requisiti di carattere logisticostrutturale, hanno in realtà determinato una contrazione maggiore del consolidato. Sistemi, invece, più aperti da un punto di vista contenutistico, ma
maggiormente orientati a valutare i risultati relativi agli outcome dei singoli utenti (competenze, lavoro, soddisfazione, ecc.), risultati relativi al rispetto di impegni assunti dall’organismo nei confronti dell’istituzione riguardo
a tempi, costi e modalità di svolgimento dell’attività, hanno garantito una
crescita certamente più equilibrata tra consolidato e nuove soggettività formative.
È facile verificare come tale distinzione riprende in generale la differenziazione rilevabile a livello socio-economico fra regioni centro-settentrionali
e meridionali del paese6.
Queste ultime, com’è noto, sono Regioni tradizionalmente deboli, che
in genere sembrano confermare scarsa efficienza (in fase di avvio e di
gestione del percorso) cui probabilmente si associa una ridotta conte-
82
obiettivo
obiettivo
stualizzazione contenutistica del Dm. Si viene a confermare così una
tendenza generale in cui anche l’accreditamento non può che essere
frutto ed espressione specifica della storia e delle condizioni in cui si è
sviluppato nel tempo il sistema della formazione professionale nei diversi territori. Ciò è dato dalla combinazione fra la qualità della governance istituzionale dei servizi e dei suoi attori, della domanda sociale
ed economico-produttiva. Al di là di singole questioni di dettaglio, mi
pare che i risultati evidenziati durante gli anni della programmazione
trascorsa si confermino piuttosto fedelmente in questo schema esplicativo. Forte selezione e una applicazione in maniera fortemente contestualizzata di tutti i criteri previsti dal sistema con particolare attenzione al completamento degli audit in loco di verifica dei requisiti si sono avuti in quelle realtà caratterizzate da una governance efficiente, da
un’offerta radicata (gli enti storici), da un tradizionale dinamismo socioeconomico; situazioni di difficile e non completa applicazione dei processi di valutazione previsti dai dispositivi ha caratterizzato aree territoriali del mezzogiorno della governance debole e dell’economia dipendente, e territori del centro Italia in una difficile fase di transizione economica-sociale.
Il nuovo assetto sistemico: dallo stato standardizzatore
al sistema policentrico
È importate precisare che il processo di sperimentazione e messa a regime dei sistemi di accreditamento è avvenuto all’interno di un quadro istituzionale del settore Istruzione-Formazione che si è andato a trasformare
radicalmente. Infatti nel corso della Programmazione dei Fondi comunitari 2000-2006 il quadro normativo italiano ha visto l’attuazione della riforma del titolo V della Costituzione a dicembre del 2001.
Secondo tale processo di riforma l’istruzione e la formazione sono state
affidate alla competenza esclusiva delle Regioni, introducendo una distinzione tra “istruzione” collocata a legislazione concorrente tra Stato e Regioni e “istruzione e formazione professionale” di competenza esclusiva regionale. Alla funzione nazionale spettano due funzioni fondamentali: la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni connesse con l’esercizio dei
diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (tra i quali figurano quello
alla formazione e all’orientamento professionali) e l’esercizio del potere
sostitutivo, in capo allo Stato, legato al principio di sussidiarietà verticale,
nel caso in cui il godimento dei diritti fondamentali non fosse garantito dalle articolazioni periferiche della Repubblica.
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In tale quadro l’accreditamento ha assunto implicitamente un ruolo sistemico essenziale.
La non immediata consapevolezza, però, degli attori Istituzionali e sociali
della trasformazione dello scenario su cui si è trovato ad operare tale dispositivo, ha determinato molte delle criticità che tale fenomeno ha manifestato durante la programmazione trascorsa in riferimento agli obiettivi
comunitari e che ancora oggi ne frenano una sua ridefinizione in termini di
contenuti e procedure.
L’ingegnerizzazione e l’attuazione di 21 dispositivi di accreditamento locali cambia la prospettiva gerarchica e la distinzione tradizionale dei concetti di government e governance. L’accreditamento con le sue modalità attuative durante la programmazione comunitaria “2000-2006” segna un «distacco dalla presunzione che un gerarchico formalmente autoritativo “government” debba essere sempre il più importante attore dei processi regolativi, rimandando all’analisi empirica la dimostrazione della superiore o inferiore potenza del governo entro netwworks7».
Il processo di accreditamento, con la sua controversa attuazione, è un fenomeno paradigmatico della orizzontalità piuttosto che della verticalità delle relazioni tra i diversi attori politici e sociali che insieme vanno a definire la governance del sistema educativo-formativo, con una mutevole combinazione di diversi principi regolativi.
A complicare ancora più il quadro sistemico c’è da considerare come tale
fenomeno è stato ideato in una fase in cui la funzione dell’amministrazione centrale appariva come standardizzatrice, o regolativa. In tale quadro sistemico il ruolo forte dello Stato centrale si spostava dal terreno operativo-gestionale a quello criteriale, sostituendo il cosiddetto controllo diretto con la cosiddetta “direzione a distanza”.
Empiricamente nel 2001 il noto Dm 166, definiva, infatti, un insieme di standard minimi con cui venivano valutate le capacità qualitative delle sedi operative accreditande nei diversi territori regionali. Le Regioni e Province autonome potevano soltanto innalzare gli standard nazionali previsti.
Il decreto veniva definito in un quadro istituzionale del settore IstruzioneFormazione precedente alla riforma del titolo V, in una situazione di competenza concorrenziale tra Stato e regioni delle politiche di istruzione e
formazione.
La sperimentazione e la relativa attuazione di tale fenomeno avveniva invece con il Titolo V riformato.
Un modello di governance che, a differenza del precedente, privilegia e richiede come indispensabile il coordinamento, la cooperazione e l’integra-
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obiettivo
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obiettivo
zione tra i diversi attori che governano la domanda e l’offerta del sistema
in tutte le fasi di azione del processo.
La posta in gioco in questo cambiamento non è definibile soltanto come
una redistribuzione delle competenze (o di potere) tra “centro” e “periferia”, o vertice e base: questa rappresentazione unilineare o unidimensionale non tiene conto né della molteplicità delle materie che regolano il sistema e che influiscono sul suo funzionamento interagendo le une sulle altre,
né della molteplicità e della eterogeneità dei soggetti e degli organismi che,
a vari livelli, partecipano al funzionamento quotidiano del sistema formativo, molteplicità che peraltro tende ad aumentare fino a raggiungere un vero e proprio affollamento mano a mano che viene realizzata una politica di
decentramento dei processi decisionali - gestionali - valutativi.
L’accreditamento ha, quindi, attraversato trasversalmente i due scenari sistemici di assetto, e questo percorso ha determinato una certa contraddizione, tra quanto era stato programmato e previsto e quanto si è invece
andando ad affermare dopo l’attuazione della riforma costituzionale8.
Pur, infatti, ribadendo con l’accordo Stato-Regioni del 2002 un riferimento
funzionale e non più normativo agli standard del Dm 166, in realtà si è creata una fase di totale mancanza di chiarezza sulla nuova funzione regolatrice del livello centrale.
Considerando poi che il Dm andava a definire anche gli oggetti, le macrotipologie e le procedure dell’accreditamento, la sua perdita di cogenza normativa ha dato spazio a diverse e molteplici differenziazioni territoriali di
questi aspetti, soprattutto tra i dispositivi di accreditamento delle regioni
con una maggiore consistenza qualitativa del sistema di formazione-professionale.
Questo dato ha determinato una evidente frammentazione dei dispostivi
di accreditamento e più in generale del sistema complessivo di offerta di
formazione professionale. Con delle disparità sempre più evidenti, nonostante le azioni regionali e nazionali di supporto implementate dalla programmazione, tra le Regioni del centro-nord e le Regioni del sud Italia.
Se da un lato l’attuazione dell’accreditamento si è svolta in maniera frammentata anche per le particolari modifiche Istituzionali intercorse, è innegabile
che una non chiara e completa definizione politica del nuovo quadro Istituzionale abbia facilitato lo sviluppo di numerose criticità relative all’efficacia
della sua azione per la crescita qualitativa del sistema formativo nazionale.
L’accreditamento, in tal modo, si è spesso presentato come un processo di
verifica logistico - amministrativo, lontano dalla funzione di reale strumento per la qualità del sistema formativo a finanziamento pubblico, correndo
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così un rischio: quello di riproporsi come definitore di criteri e di requisiti di natura meramente formale e burocratica che determinano il moltiplicarsi di procedure di standardizzazione e di valutazione, fino a veder riaffiorare, tra le pieghe dei processi di accreditamento, il vecchio modello burocratico-amministrativo, eventualmente in una versione aggiornata e modernizzata con una luccicante patina managerialista.
Rischio peraltro evidenziato da un filone di studi sempre più cospicuo ed
autorevole, che tende a mettere in guardia dal prefigurare necessariamente automatismi progressivi sulla qualità in ragione della “mera” acquisizione di requisiti di riconoscimento formale (accreditamento o certificazione9).Tali studi, al contrario, non escludono neppure l’eventualità paradossale che siffatti strumenti possano essere talvolta responsabili di peculiari
effetti indesiderati sulla qualità del servizio10.
L’articolazione, poi, nel periodo programmatorio trascorso, sia per indicazioni comunitarie che per riforme nazionali, delle funzioni attribuite alla formazione professionale, (strumento di politica economica, di promozione di
cittadinanza, di lotta all’emarginazione sociale, di crescita dei livelli di partecipazione, di strumento per la realizzazione di politiche attive del lavoro), non solo ha determinato notevoli difficoltà nella ridefinizione degli
obiettivi dell’accreditamento, ma in un sistema di workfare frammentato come quello italiano ha ostacolato per diverso tempo la realizzazione di standard minimi condivisi tra i diversi attori istituzionali e sociali interessati.
L’accreditamento di II generazione: uno strumento
di qualità e garanzia nel sistema policentrico
Già negli ultimi anni della programmazione trascorsa i vari livelli Istituzionali e sociali hanno iniziato una seria riflessione tecnica-politica sui limiti e
le criticità evidenziate del fenomeno accreditamento.
Sviluppando una riflessione empiricamente fondata su profili e impatto dei
dispositivi indispensabile per elevarne efficienza ed efficacia in un prossimo
ciclo attuativo, nonché per controllarne possibili effetti indesiderati, identificando con precisione alcuni nodi critici, che dovrebbero ispirare l’agenda programmatoria a venire.
L’approccio burocratico, la verifica essenzialmente di requisiti di carattere
logistico ed amministrativo, la mancanza di una seria valutazione delle risultati didattici e occupazionali degli interventi, hanno determinato spesso
l’impossibilità per i processi di accreditamento di trasformarsi da semplici
strumenti di accesso amministrativo ai bandi, ad un fenomeno di carattere
nazionale capace di spingere il sistema dell’offerta di formazione verso la
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obiettivo
obiettivo
crescita qualitativa e la garanzia dell’effettivo godimento da parte di ogni
cittadino dei suoi diritti formativi.
Ciò si è concretizzato in una sostanziale rimozione dei contenuti, anche di
natura culturale, del Dm 166, che intendeva identificare prevalentemente
in una concezione processuale la qualità dei servizi formativi, di fatto trascurata a vantaggio di dimensioni strettamente strutturali.
Anche l’individuazione delle filiere formative rispetto alle quali verificare la
qualità dei servizi si è rilevata poco articolata rispetto all’evoluzione dell’attività educativa-formativa che la formazione professionale alla luce delle trasformazioni sociali, normative, ed economiche di questi anni è chiamata a svolgere. Queste consistono solitamente in un’interpretazione troppo statica e formale della qualità nel campo dei servizi alle persone, che
tende a non considerare adeguatamente la valenza del fattore umano per
ciò che concerne soprattutto i valori e la struttura “concreta” del processo decisionale, nonché il ruolo attivo e cruciale del cittadino-fruitore11.
È possibile rappresentare lo spettro di attività su cui misurare la qualità di
un soggetto attuatore soltanto mediante le macrotipologie dell’obbligo, della formazione superiore, della formazione continua, quando la necessità di
implementare sistemi di lifelong learning impongono una enorme articolazione e differenziazione dell’offerta formativa partendo dalle caratteristiche sociali, professionali, culturali, civiche del cittadino in formazione?
È possibile considerare ancora l’accreditamento come un adempimento
per l’accesso ai bandi, quando le indicazioni comunitarie ci invitano a considerarlo sempre più un fenomeno di garanzia qualitativa prima dell’inizio
delle attività, in modo da non ledere la libertà di concorrenza tra soggetti
presenti stabilmente o meno nei diversi territori regionali?
È possibile considerare ancora prioritaria la discussione sull’oggetto dell’accreditamento quando i dati descrivono un universo dei soggetti accreditandi
in cui più dell’80% degli Organismi accreditati risulta monosede? (Tabella 3).
Tabella 3
Organismi accreditati per numero di sedi operative e area Obiettivo
Organismi monosede
Organismi con 2 sedi
Organismi con più di 2 sedi
Totale generale
Ob. 3 (v.a.)
3.814
258
206
4.278
Ob. 1 (v.a.)
1.734
179
145
2.058
Totale (v.a.)
5.548
437
351
6.336
Totale (%)
87.6
6.9
5.5
100
Fonte Isfol su fonte regionale e Pa
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Appare necessario imprimere una svolta e procedere ad una rivoluzione
culturale sul carattere e la funzione dell’accreditamento.
Più in generale appare indispensabile ripensarlo in una più ampia discussione sul ruolo e sulla funzione nel nostro paese della Formazione professionale.
La concezione e l’attuazione di modelli di accreditamento nazionali e regionali non può prescindere da una riflessione più generale sulla natura della formazione professionale, sulla sua funzione nel più ampio spettro delle
politiche del workfare.
Solo in tal senso l’accreditamento può contribuire a determinare il concreto esercizio dei diritti all’educazione e alla formazione di qualità per tutti i
cittadini del nostro Paese, sia che usufruiscono di servizi formativi in Emilia Romagna sia che li utilizzino in Calabria.
Tale processo dovrebbe inserirsi all’interno di una nuova strategia politica
Istituzionale per la realizzazione di un sistema nazionale efficace di apprendimento lungo tutto l’arco della vita dell’individuo che tenga conto di due
elementi fondamentali:
1. il nuovo scenario istituzionale e politico-gestionale dell’Istruzione-Formazione, che si è determinato per il combinato disposto costituito dalla riconferma – dopo il referendum del giugno 2006 sul progetto di riforma varato nella scorsa legislatura – dell’impianto costituzionale disegnato nel 2001 dal titolo V riformato (Legge costituzionale 3/01);
2. l’avvio del nuovo periodo programmatorio (2007-2013) delle politiche
di coesione dell’Unione Europea.
L’apprendimento lungo tutto l’arco della vita poggia su una logica istituzionale multilivello, coinvolge più soggetti istituzionali e diversi soggetti formativi organizzatori ed erogatori di servizi di apprendimento (università e
scuole con la realizzazione dei centri di apprendimento permanente, agenzie formative, società di consulenza, imprese ecc.). In questa situazione, assume rilievo la capacità dei diversi attori socio-istituzionali non solo di interagire, ma anche di creare una vera e propria rete comune per definire
principi, criteri e standard del sistema.
È evidente che per attuare un’azione a rete per l’implementazione di tale
sistema multipolare acquisiscono centralità la definizione e la condivisione
dei momenti di costruzione degli snodi di sistema: tra cui è essenziale la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dell’offerta per l’accreditamento delle strutture.
I livelli richiesti di interazione e di condivisione tra i diversi soggetti socioistituzionali interessati sono consistenti sia per rispondere alle indicazioni
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obiettivo
obiettivo
di contesto normativo e costituzionale sia perché lo stesso concetto di lifelong learning impone una rivoluzione culturale anche nella definizione e
nella interpretazione dei percorsi di apprendimento individuale. Quest’ultimo, infatti, non è più limitato ad una o più fasi sequenziali della vita delle
persone, non è più finalizzato soltanto all’acquisizione di competenze per
una specifica attività professionale, ma risponde, in una logica continuativa,
alle esigenze di ciascun cittadino nel suo rapporto con la società globalizzata lungo tutto l’arco della sua esistenza. In tale prospettiva, le fasi formative non terminano a seguito dell’inizio della fase lavorativa, ma accompagnano in maniera diversa l’utente, a seconda delle proprie caratteristiche,
nella sua crescita umana e professionale.
Ciò implica non più e non solo una formazione sequenziale e gerachizzata, con fasi predefinite a cui corrispondono soggetti erogatori specifici che
si rapportano ad un unico livello istituzionale, ma la composizione di un sistema integrato di servizi. La realizzazione di questo sistema, chiama nuovamente in causa efficienti e moderni sistemi di accreditamento, che insieme agli altri snodi di sistema (la definizione di un sistema nazionale di osservazione permanente dei fabbisogni professionali e formativi; la definizione di un sistema nazionale di certificazione delle competenze e, dunque, di
riferimenti minimi, comuni e cogenti in tema di standard professionali, standard di riconoscimento e certificazione e standard formativi) in un sistema multiattore e multilivello, sul piano sociale e istituzionale, possono garantire il rispetto di livelli minimi essenziali per tutti i cittadini nei diversi
contesti territoriali, linguaggio e performance comuni tra i diversi soggetti
erogatori ed una reale integrazione e condivisione nella definizione della
mission e dei principi guida da implementare tra i diversi attori coinvolti
(Regioni e Province autonome, Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, Ministero dell’università e della ricerca, Ministero della Pubblica Istruzione, …).
Le potenzialità di azione dell’accreditamento nella ridefinizione delle politiche educative e formative nel nostro paese appaiono, dunque, enormi, a
patto che si riesca a realizzare quel salto culturale precedentemente evidenziato.
Il superamento del Dm 166 e il difficile cammino
del nuovo accreditamento nazionale
Allo stato attuale vi è un processo in corso di definizione di un nuovo sistema di accreditamento nazionale, che tra numerose difficoltà tecnico-politiche tenta di rispondere alle numerose esigenze e criticità precedenteEnaip Formazione & Lavoro 1/2008
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mente descritte. Il tentativo è quello di ridefinire un sistema di standard
minimi per la definizione a livello regionale di dispositivi di accreditamento di II generazione.
Un Gruppo tecnico interregionale, supportato scientificamente dall’Isfol,
ha quindi predisposto una proposta tecnica per una revisione dell’intero
impianto di accreditamento.
Il percorso a livello procedurale si è pienamente adattato al nuovo contesto istituzionale.
Ogni singolo standard è stato definito sotto la regia tecnica dell’Isfol, in collaborazione con tutte le Regioni e Province autonome. Il gruppo tecnico si
è trasformato in un vero e proprio laboratorio per l’ingegnerizzazione del
nuovo modello operativo nazionale.
La proposta definisce così nuovi requisiti minimi di carattere nazionale come struttura base di un modello di accreditamento che garantisca:
–– il completamento del fenomeno mediante la realizzazione di nuovi dispositivi con un set di linee di indirizzo/requisiti minimi maggiormente
orientati allo sviluppo della qualità degli interventi formativi, alla loro efficacia occupazionale nella logica del lifelong learning;
–– criteri e standard minimi nazionali che assicurando la qualità dei servizi formativi determinino quei livelli minimi essenziali delle prestazioni a
garanzia dell’utenza che il nuovo quadro istituzionale richiede;
–– il superamento della tendenza dei sistemi della scorsa programmazione ad orientarsi soprattutto su dimensioni qualitative relative ad aspetti di natura logistico/strutturale ed economico/amministrativa, piuttosto che su elementi riguardanti la qualità delle performance e dei risultati e quindi determinanti la centralità del capitale umano operante all’interno delle strutture formative.
Si è in tal modo cercato di dare attuazione anche ai nuovi obiettivi del Quadro Strategico Nazionale (Qsn) per la politica regionale di sviluppo 20072013, all’interno del quale si afferma che «l’accreditamento delle strutture
formative deve evolvere in direzione di una maggiore attenzione ad indicatori sulla qualità del servizio fornito con un modello rispondente a standard
minimi comuni a livello nazionale e che eviti la frammentazione dell’offerta
in sistemi solo regionali e assicuri un’effettiva apertura del mercato12».
Le linee strategiche evidenziate sono state tradotte nel nuovo modello nazionale di accreditamento approvato per ora soltanto da un livello istituzionale, la IX commissione della Conferenza delle regioni e Province autonome. Quattro sono i principi guida che costituiscono quegli orientamenti generali volti a far convergere i singoli dispositivi regionali verso una stra-
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obiettivo
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obiettivo
tegia nazionale di innalzamento della qualità e di definizione di un moderno sistema di apprendimento permanente.
L’individuazione come principio guida del concetto del lifelong learning, predisponendo sistemi di accreditamento quanto più possibile rispondenti all’attuale articolazione dei sistemi formativi che non solo si avvalgono della
partecipazione di nuovi soggetti in una logica di lifewide learning (es. imprese, università, scuole, associazioni) ma anche di percorsi nuovi o rinnovati,
utili al soddisfacimento di specifiche esigenze del mercato del lavoro (es.
apprendistato ai sensi del D.lgs. 276/03, formazione per la prevenzione e la
sicurezza sui luoghi di lavoro, educazione degli adulti), riporta al centro dell’offerta formativa il cittadino, fruitore di servizi formativi e orientativi lungo tutto l’arco della sua esistenza, superando la logica di interventi formativi gerarchizzati, sequenziali e standardizzati, orientati soltanto alla tradizionale distinzione duale tra interventi per l’emergenza educativa e quelli
per l’inserimento al lavoro.
Ciò implica non più e non solo una formazione piramidale, con fasi predefinite a cui corrispondono soggetti erogatori specifici che si rapportano ad un unico livello istituzionale, ma la composizione di un sistema integrato di servizi.
Proprio per garantire tale integrazione il nuovo sistema definisce principi
guida relativi alla centralità della fase di mantenimento dei requisiti, all’efficacia e alla sinergia dei controlli, alla interazione dell’accreditamento delle
strutture formative con gli altri strumenti di verifica qualitativa (es., l’accreditamento dei servizi per l’impiego), caratterizzando così il nuovo accreditamento come un processo non limitato nel tempo, che non esaurisce la
sua funzione nella fase di verifica in ingresso delle capacità e dell’affidabilità del soggetto attuatore, ma che riguarda tutte le fasi dell’agire dell’organismo, intercettando, quindi, l’attività di più uffici dell’amministrazione regionale/provinciale concorrenti alla gestione e al controllo di tale servizio13.
Tale approccio comporta un progressivo superamento del controllo relativo ad adempimenti formali e rilancia il ruolo della pubblica amministrazione quale garante dei livelli delle prestazioni da assicurare ai cittadini che
fruiscono dei servizi erogati da soggetti accreditati in una logica di integrazione dei servizi.
Il concetto del lifelong learning, con cui vengono racchiuse e superate le vecchie macrotipologie formative, dà coerenza e organicità alla pluralità di offerta formativa, la cui crescita qualitativa è garantita da una parte rafforzando l’efficacia dell’azione istituzionale a livello locale, più vicina a quel cittadino/utente oggetto dell’azione di tutela e protagonista del sistema di for-
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mazione permanente, dall’altra individuando i fattori di presidio e salvaguardia del quadro nazionale di sistema.
Tale principio, ponendo al centro del sistema di offerta formativa l’individuo nelle sue diverse fasi di crescita umana, formativa e lavorativa, supera
il vecchio approccio del Dm 166/2001 che individuava a livello di sistema
(strutture) l’offerta formativa accreditabile. In tal modo viene introdotta
una metodologia di individuazione delle categorie formative accreditabili
più ampia, capace di intercettare in maniera più specifica le esigenze di apprendimento dell’individuo. È evidente che l’individuazione della categoria
formativa cui ascrivere l’organismo accreditato si basa sulle esigenze formative diversificate della persona e può avvenire soltanto a livello locale e
in momenti successivi all’accreditamento.
La dimensione locale, se assunta operativamente per l’individuazione di particolari e diversificate caratteristiche qualitative di attività formative, contrasta la frammentazione e l’astrattezza dei progetti e delle filiere formative definite nelle loro caratteristiche solo in chiave sistemica, e si configura
come luogo di riunificazione e ricomposizione dei processi formativi. Il sistema educativo e formativo è spesso caratterizzato dalla separazione: separazione dal lavoro, dalla vita, dall’ambiente; separazione delle attività formative da quelle culturali, e di entrambe dal territorio.
Il livello locale della territorialità non può non essere preso a riferimento
come luogo di specificazione e di individuazione di particolari standard e
requisiti dell’azione educativa e formativa.
È evidente che i problemi a cui una formazione pubblica di qualità deve rispondere sono quelli che si pongono nel territorio in cui la persona vive,
è il territorio che, come “luogo della vita produttiva e residenziale”, diventa l’oggetto se non il contenuto della formazione.
Massima articolazione di filiere e possibilità formative per garantire a tutti
le stesse opportunità (quali che siano le attività lavorative, i livelli di Istruzione, il sesso, la nazionalità) può portare ad avvicinarsi a quello che è uno
dei principali obiettivi della formazione professionale nelle sue diverse forme: garantire l’eguaglianza delle opportunità.
Tale innovazione prefigura un sistema pienamente inserito nell’assetto istituzionale dell’Istruzione e della formazione delineato dalla riforma del titolo V, definendo a livello sistemico centrale principi e standard qualitativi
di base, condivisi e reciprocamente riconosciuti da tutte le regioni e Province autonome, (modello di accreditamento base), evitando la diversificazione dei sistemi di accreditamento e la conseguente frammentazione e
dell’offerta.
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obiettivo
obiettivo
Operativamente tale impostazione si traduce in un sistema di accreditamento “di base” che garantisce la possibilità di accreditarsi solo ad organismi che operano in qualità indipendentemente dalle macrotipologie formative in cui agiscono. I requisiti specifici per filiera e soprattutto quelli che
garantiscono la capacità di un ente di soddisfare le specifiche e diverse esigenze dell’utenza locale vengono rimandati ad un momento diverso dall’accreditamento, per esempio nei bandi.
Questa scelta prende in considerazione anche i risultati del monitoraggio
quantitativo svolto in questi sei anni dall’Isfol, dove si evidenzia come la diversificazione delle filiere formative a livello sistemico (centrale) non sia
stata in grado di differenziare l’offerta in riferimento alle ampie e diversificate esigenze dell’utente. Sostanzialmente gli enti accreditati in formazione superiore sono gli stessi accreditati per la continua, due macrotipologie
che non hanno garantito nessun tipo di differenziazione e specializzazione
dell’offerta e dei percorsi formativi (Grafico 1).
Grafico 1
Sedi accreditate con disaggregazione per area obiettivo, ambito e macrotipologia14
Fonte: Elaborazione Isfol su fonte regionale e Pa
Nella proposta di nuovo accreditamento viene garantito anche il superamento di criticità dei dispositivi regionali emerse nella scorsa programmazione,
relative alla libera circolazione dei servizi e alla libertà di stabilimento delle
imprese, e all’utilizzo efficace ed efficiente delle risorse pubbliche destinate
alla formazione professionale e alla qualità degli interventi erogati.
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La nuova proposta di modello di accreditamento nazionale, revisione degli
standard minimi e dell’impianto culturale e procedurale previsto nel Dm
166 del 2001, individua di fatto l’accreditamento come un possibile snodo
di sistema essenziale per la realizzazione anche nel nostro paese di un moderno sistema di Welfare to Work, che realizzi forme efficaci di apprendimento lungo tutto l’arco della vita degli individui, garantendone livelli minimi essenziali per tutti i cittadini nei diversi contesti territoriali.
È opportuno evidenziare però, come già in questa prima fase l’approvazione del nuovo accreditamento ha evidenziato delle difficoltà.
La necessità nel nuovo quadro istituzionale di procedere alla definizione di
standard nazionali con l’unanimità di consenso tecnico-politico di tutte le
regioni e province autonome non ha consentito di specificare adeguatamente i nuovi requisiti minimi derivanti dai principi guida evidenziati. Essi
spesso si sono tradotti in linee di indirizzo comunque vincolanti, ma la necessità di arrivare ad una condivisione della nuova proposta in un accordo
Stato-Regioni mediante un tavolo nazionale con il coinvolgimento dei livelli centrali e delle parti sociali di livello nazionale presenta alcune naturali
difficoltà. Anche perché il nuovo assetto di governance del sistema produce un ordine di definizione dei nuovi standard nazionali capovolto, prima il
livello locale con l’indispensabile supporto di una assistenza tecnica nazionale, poi il livello nazionale sia istituzionale che sociale (c’è da chiedersi se
tale situazione è da considerare elemento negativo o di crescita positiva
del sistema).
La necessità di definire da parte del Ministero della Pubblica Istruzione forme di accreditamento per i soggetti che insieme alle scuole intendono operare nel nuovo obbligo d’istruzione complica ulteriormente la definizione
di nuovi requisiti minimi per l’obbligo formativo a livello locale o nazionale, problematica che si inserisce in un più ampio, storico, complesso e non
normalizzato rapporto tra scuola e formazione professionale, relativamente al pezzo di vera e propria funzione educativa di carattere quasi emergenziale che la formazione professionale ha svolto in regime di sussidarietà orizzontale rispetto a vere e proprie carenze dell’iniziativa pubblica, e
che non è stato mai integrato in un assetto stabile e definito con il sistema della scuola.
La speranza è che in tempi brevi i vari attori istituzionali e sociali riescano
a superare tali difficoltà per approvare anche in chiave nazionale un nuovo
sistema di standard minimi nazionali di cui il sistema della formazione ha
estrema necessità.
Più in generale sia il nuovo accreditamento sia, necessariamente, tutto il si-
94
obiettivo
obiettivo
stema della formazione professionale, per svolgere pienamente la sua funzione in termini innovativi ha bisogno che il livello politico realizzi e concretizzi consapevolmente certezze e disposizioni attuative del nuovo assetto culturale e legislativo dell’educazione, dell’istruzione e della formazione nel nostro paese.
Una nuova legge nazionale per l’apprendimento permanente e la definizione dei livelli minimi delle prestazioni, prevista anche nelle attività dei Pon
del Ministero del Lavoro, risultano indispensabili e non più rinviabili per dare funzione ed efficacia agli snodi di sistema e, più in generale, per dare ai
sistemi regionali di formazione professionale una unitarietà sistemica nazionale in grado di realizzare gli interessi e le funzioni che il Paese oggi più
che mai loro richiede: “Modernizzazione senza escludere”.
note
1 Gori E.,Vittadini G., La valutazione dell’efficacia ed efficienza dei servizi alla persona. Impostazione e metodi, Milano,
Etas, 1999.
2 Relativamente a questo aspetto va sottolineato anche che, comunque, i modelli regionali di accreditamento non
si pongono (nella generalità dei casi) la finalità di regolare l’insieme del sistema pubblico della formazione (finanziato e riconosciuto), ma prevedono deroghe relative a specifiche filiere di offerta (ad es. i voucher oppure la formazione esterna nell’apprendistato o, ancora, la formazione riconosciuta e non finanziata), spesso oggetto di regolamentazione a parte. Convivono quindi nei sistemi regionali più forme di riconoscimento della qualità dell’offerta formativa, basate su criteri non completamente uniformi di valutazione. Gli effetti potenziali di tale segmentazione investono le tre dimensioni rilevanti del sistema formativo: le policy pubbliche, il sistema dell’offerta, la domanda di formazione. In particolare:
• nell’ambito delle politiche pubbliche della formazione si pone il problema di garantire standard di qualità uniformi e quindi la neutralità degli strumenti disponibili per il conseguimento degli obiettivi attesi, riducendo le discrezionalità di comportamento da parte dell’offerta formativa e ottimizzando quindi le opportunità di scelta da parte dell’utenza;
• per l’offerta, la coesistenza di più forme di riconoscimento può alterare il sistema di convenienze e indurre scelte di posizionamento sul mercato fondate non tanto sulla mission e sugli ambiti di specializzazione, quanto sulle
diverse opportunità determinate dalle differenze nelle regole di accesso;
• per la domanda di formazione la segmentazione dell’offerta formativa non deve tradursi in una differenziazione
dei livelli di apprendimento acquisiti, soprattutto in un’ottica di lifelong learning dalla quale discende la sostanziale “indifferenza” dei canali e delle filiere di acquisizione delle competenze.
3 Accreditamento e certificazione rappresentano, infatti, nel dibattito italiano sui temi formativi due approcci entrambi di natura pragmatica verso il concetto della qualità. Entrambi i sistemi tendono infatti a valutare lo scarto
di soggetti operanti in riferimento a standard e regole di natura strutturale e funzionale, caratterizzanti un determinato settore. I due sistemi tendono a rilevare il divario esistente tra requisiti minimi pre-definiti e situazione organizzativa reale per innalzare la qualità complessiva del sistema verso valori soglia minimi. La differenza maggiore sta nell’approccio volontaristico della certificazione, che è comunque realizzata mediante una interazione tra
due soggetti privati, e quello obbligatorio dell’accreditamento che vede tra l’altro l’intervento di un attore pubbli-
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co. Per un quadro d’insieme sintetico ed efficace, si rimanda soprattutto a: N. Stame,“Tre approcci principali
alla valutazione: distinguere e combinare”, in: M. Palumbo, Il processo di valutazione, Milano,Angeli, 2001, pp. 21
e segg.
4 Fra gli altri, si rimanda a: Franca Olivetti Manoukian, Produrre servizi, Bologna, Il Mulino, 1998;Aa.Vv., Valutazione e qualità nei servizi, Milano, Unicopli, 2000; Spunti, n. 7, ottobre 2003.
5 Più avanti nell’articolo si chiarirà in maniera dettagliata il percorso che ha portato alla mancata definizione
del criterio C relativo all’attuazione di un processo di certificazione delle competenze.
6 Ciò, per inciso, rafforza chiavi di lettura delle dinamiche del nostro paese che tendono ad identificare nessi logici e conseguenti chiavi esplicative a fenomeni apparentemente diversi ma coevi. Ne è un esempio recente e degno di interesse l’ultimo lavoro di Roberto Cartocci sul cosiddetto “capitale sociale” (Mappe del
tesoro, Il Mulino, 2007), che ad avviso di chi scrive può contribuire a costruire un quadro esplicativo plausibile anche dei divari territoriali riscontrabili nel settore specifico della formazione professionale.
7 Raab in The Governance of Schooling. Comparatives Studies of devolved Management, London, Routledge - Falmer.
8 Un chiaro esempio di tale difficoltà è rappresentato dallo specifico tema del criterio C del Dm 166 relativo alle competenze professionali.
Nell’Agosto 2002 viene siglato in Conferenza Stato Regioni un accordo fortemente caratterizzato dalla volontà di autoregolazione dei sistemi regionali in materia di formazione. Infatti, pur riconoscendo la necessità
di mantenere a livello funzionale a riferimento il Dm 166, in quanto sancisce principi afferenti ai livelli essenziali delle prestazioni di competenza dello Stato (ai sensi dell’art.117 della Costituzione), e di portare a compimento una certificazione delle competenze degli operatori come recita l’art.1° del Dm 166, l’Accordo afferma che per effetto del mutato quadro istituzionale e dall’approvazione del Dm 174/2001 relativo alla certificazione delle competenze di tutti i lavoratori, basato su standard minimi nazionali, occorre reinterpretare
in senso estensivo gli impegni del Dm 166 rimandandone la definitiva e stringente attuazione solo dopo il termine di lavoro avviato sui numerosi tavoli nazionali e locali dedicati al tema della certificazione delle competenze. La motivazione di tale “velata opposizione” al dettato normativo poggia su ragioni tanto sottili quanto
pragmatiche, dimostrando come in assenza di indicazioni definitive in materia di certificazione delle competenze, e di disposizioni attuative di applicazione dei livelli minimi costituzionalmente previsti, l’attuazione di
un sistema di verifica e controllo della certificazione delle competenze condizionasse in senso negativo l’attuazione complessiva dell’accreditamento.
Al fine di poter rispettare gli impegni assunti con la commissione europea l’accordo propone di operare una
distinzione tra due livelli fortemente connessi di definizione degli standard di competenze degli operatori della Fp:
1. Standard minimi di competenza degli operatori della Fp in quanto lavoratori;
2. Standard minimi di competenza necessari alla struttura che si deve accreditare a garanzia del presidio delle funzioni indicate nel Dm.
In altre parole si è scelta una soluzione di mediazione, constatata l’impossibilità di giungere in breve tempo
anche solo ad una definizione pragmatica o negozialmente condivisa del concetto di competenza, e tanto meno ad un accordo in merito alle modalità di riconoscimento e certificazione, difficoltà dovuta anche alla complessità del fenomeno che potrebbe interessare oltre 80.000 operatori.
Si è arrivati quindi, ad una sospensione dell’allegato del Dm relativo al controllo delle competenze con la certificazione.
Tale processo non governato a livello centrale, ha provocato in molti dispositivi una generale sanatoria in cui
il controllo delle credenziali non è stato realizzato, o è stato verificato soltanto formalmente con l’invio di
credenziali di carattere curricolare.
9 In particolare, la critica principale riguarda la capacità dei cosiddetti approcci “pragmatisti alla qualità” di impattare effettivamente sulla notevole complessità dei “concreti” processi organizzativi che si sviluppano nei
servizi alle persone, in particolare per ciò che concerne l’esigenza del “fattore umano” di sviluppare (e condividere) apprendimenti continui fondati sull’esperienza, e attraverso di essi di “costruire” soluzioni continue
e sostanziali (non statiche o formali) di sviluppo della qualità. Per una sintesi, si veda Stame (2001, cit.). Per
una presentazione più sistematica del punto di vista degli autori (Patton, Guba e Lincoln, Stake, Hirschman,
ecc.) che fanno propria una visione di tipo “costruttivista” o dialogico della valutazione (e miglioramento) della qualità, si rimanda soprattutto al ricco volume collettaneo curato recentemente dalla Stame: Classici della
valutazione, Milano,Angeli, 2007.
10 Cfr. ibidem. Si parla, da questo punto di vista, di rischi di vario genere, quali ad esempio: la possibilità che
le organizzazioni di servizio possano col tempo attenuare le spinte endogene al miglioramento continuo e
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obiettivo
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obiettivo
adagiarsi su strategie difensive; il rischio che tali procedure possano indurre nel management una considerazione insufficiente della centralità strategica del fattore umano; una progressiva centratura degli aspetti connessi agli standard di processo/prodotto (merit) a discapito del valore effettivo per l’utilizzatore (worth).
11 È questa la tesi sostenuta – fra gli altri – da alcuni noti studiosi italiani di servizi alle persone, quali: Orsenigo, Olivetti Manoukian, Kaneklin. Per un inquadramento del tema cruciale del “processo decisionale” si veda: M. Palumbo, 2001, cit. in part. Capp. 3 e 4. Per un riscontro ad ampio spettro afferente ai temi della formazione, si vedano, tra gli altri: M. Bruscaglioni, La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Milano,Angeli,
1997; D. Lipari, Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Milano, Guerini, 2002.
12 Ministero dello Sviluppo Economico, Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione:“Quadro Strategico
Nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013”, pag. 34, Dicembre 2006.
13 Il raccordo tra le procedure di accreditamento e le fasi tipiche del “ciclo produttivo” dell’attività formativa (programmazione, selezione, gestione) costituisce un tema meritevole di una specifica riflessione.
Anche se il monitoraggio dei sistemi di accreditamento non si è spinto fino all’analisi dell’integrazione dei sistemi stessi con la funzione programmatoria e gestionale delle attività, la separazione formale delle responsabilità che emerge in diversi casi appare come un elemento di potenziale criticità se, già in sede di definizione dei modelli, non si è proceduto ad individuare i necessari raccordi. In particolare, sembrano evidenti gli impatti che i sistemi di accreditamento hanno sull’insieme delle procedure di programmazione e sulle norme di
gestione che regolano le attività formative, dalla definizione degli avvisi pubblici fino alla rendicontazione degli interventi finanziati.
Nel merito si possono segnalare le seguenti aree di potenziale impatto:
- a livello di programmazione attuativa, gli avvisi pubblici rappresentano il primo momento di raccordo tra
l’accreditamento e la realizzazione degli interventi formativi. Questi – oltre che includere gli aspetti che gli
stessi regolamenti regionali demandano a tale livello della programmazione (ad es. l’esplicitazione del ricorso a sedi occasionali, o di requisiti aggiuntivi per specifici target di utenza) – dovranno contenere un quadro
chiaro delle relazioni esistenti tra gli ambiti e macrotipologie di accreditamento, da un lato, e le linee di intervento della programmazione formativa, dall’altro. Il mancato (o parziale) raccordo in sede normativa tra
le attività oggetto di accreditamento e il contenuto di quelle su cui è chiamato a progettare il sistema regionale dell’offerta formativa, potrebbe infatti generare incertezza interpretativa delle norme, discrezionalità
nella loro applicazione, e conseguenti discrasie nei requisiti richiesti agli enti di formazione, soprattutto tra
diverse realtà provinciali. Una completa definizione ex ante del quadro delle regole e del loro campo specifico di applicazione, aumentando il grado di trasparenza dei sistemi regionali, si presenta dunque come elemento cruciale delle relazioni tra amministrazioni pubbliche e sistema dell’offerta in fase di programmazione attuativa dei finanziamenti. Inoltre il flusso documentario che sostiene la presentazione dei progetti dovrà essere coordinato con quello previsto nella domanda di accreditamento e nelle procedure di mantenimento dei requisiti;
- nella fase di valutazione dei progetti il servizio incaricato dovrebbe avvalersi anche delle informazioni disponibili presso i responsabili dell’accreditamento (relativamente ai criteri attinenti alle caratteristiche dei soggetti), nell’ottica complessiva di non duplicare le richieste ai soggetti proponenti. Rispetto a questa fase un
approfondimento opportuno potrebbe riguardare lo sviluppo dei requisiti dell’accreditamento verso un sistema di rating degli organismi, per rendere pienamente coerente la struttura della valutazione dei progetti con il sistema dei requisiti di accesso alle attività;
- nella fase di gestione il raccordo tra i responsabili dell’accreditamento e altri servizi dell’amministrazione
regionale può essere individuato sia in termini di flusso informativo con i sistemi di monitoraggio, sia sotto
il profilo di una semplificazione e ottimizzazione delle funzioni di controllo in itinere e finale delle attività finanziate. Più in generale si tratta di valutare i possibili effetti che l’adozione di un sistema di accreditamento può determinare sulle norme di gestione che regolano l’attività formativa o quella finanziata dal Fse, anche in termini di voci e parametri massimi di spesa, che dovrebbero essere coerenti con il contenuto e la
finalità dei requisiti – soprattutto di quelli afferenti alle risorse umane e professionali – richiesti agli organismi formativi ai fini del rilascio dell’accreditamento.
14 Ciascuna sede può accreditarsi su più ambiti e macrotipologie.
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Il fare dell’uomo
nell’ottica
del pensiero biblico1
di Massimo Grilli
focus
Affrontando il tema del lavoro nel contesto del pensiero biblico, si rende necessaria una premessa. Come in altri campi, l’insegnamento della
Bibbia sul lavoro è condizionato sia dalle strutture sociali e dalla mentalità del tempo sia dalla frammentarietà e dalla asistematicità dei dati. La
Scrittura offre tuttavia dei criteri fondativi, che attendono comunque un
ripensamento e una realizzazione storica. Questo ripensamento e questa realizzazione storica non sono esclusivamente, o precipuamente, compito del biblista o del teologo, ma del pastoralista, del catecheta, dell’operatore in campo sociale; in ultima analisi, della comunità credente. Per
quanto mi riguarda dunque, non affronterò il tema in maniera esaustiva
e approfondita, ma cercherò di fornire alcuni dati biblici che possano servire come orientamento per la vostra considerazione.
Il fare è degno dell’uomo perché è degno di Dio
Incominciamo dal principio, da quel bereshit con cui inizia il libro della Genesi e tutta la Bibbia. Non si tratta solo né principalmente dell’inizio temporale. Bereshit è infatti “il prototipo” che modella la vicenda umana: il
modello esemplare. Nel racconto della creazione, infatti, troviamo le coordinate fondamentali del rapporto dell’uomo con Dio, con se stesso,
con l’altro uomo/donna e con la natura. Per noi, figli dell’evoluzione e
tesi ad un continuo progresso, l’antico deve far posto al nuovo e andiamo passo dopo passo - almeno così si crede - verso il meglio. Per gli antichi di solito era al vecchio che si dava la chance della maggiore originalità e solidità: il paradiso e il modello dell’agire umano sono in principio.
–– Massimo Grilli Direttore Dipartimento di Teologia biblica della Pontificia Università Gregoriana
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Bene, in questo bereshit si trova un primo orientamento sul senso dell’uomo e del lavoro umano: la sua dignità. È interessante che, anche a livello linguistico, l’opera delle mani dell’uomo viene connotata con lo
stesso lessico dell’opera di Dio. Il verbo ‘asah /fare designa l’opera di Dio
e l’opera dell’uomo. Il lavoro dell’uomo si modella sul “fare creativo di
Dio” e l’immagine di Dio che definisce l’uomo nel primo capitolo della
Genesi si riferisce primariamente a questo aspetto della sapienza creatrice. Come Dio, l’uomo è chiamato con il suo lavoro a mettere ordine
nel caos cosmico e storico, a produrre luce, vita, dignità e libertà.
In questo senso va compreso quel verso famoso e contestato che concerne la benedizione di Dio agli uomini: «Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela, e abbiate dominio sui pesci del mare, sui
volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla
terra» (Gen 1,28). Sulla base di questo versetto si rimprovera alla religione e alla cultura ebraico-cristiana di aver permesso lo sfruttamento
senza limiti della natura e del mondo. Che il messaggio sia stato talvolta frainteso è possibile, anzi, è probabile. Ma il senso del testo non è quello supposto. Il verbo ebraico, tradotto con soggiogare significa prendere
possesso (cf. 2 Sam 8,11 ecc.) e, anche se per lo più si riferisce al padrone che prende possesso degli schiavi, dai testi biblici è molto evidente
che il potere dell’uomo, compreso quello sugli schiavi, non è illimitato.
In nessun testo della Scrittura è dato all’uomo un potere assoluto. Anche il secondo verbo avere dominio descrive spesso nella Bibbia il potere dei re (1 Re 5,4; Is 14,6; ecc.), ma anche questo potere è circoscritto,
come dimostra il rimprovero presente in Ez 34,4 che accusa i re di Israele di aver esercitato un potere assoluto e violento. Il potere nella Bibbia
significa responsabilità e il re ha dominio in quanto è il pastore che guida, accompagna e sorregge nell’ora della prova. Infatti, il potere che l’uomo riceve da Dio è una benedizione; e non può una benedizione diventare sfruttamento e maledizione per l’universo. Se lo diventa, significa
che quel potere è stato frainteso.
Già da questi brevi cenni, si può comprendere come nella Bibbia il lavoro dell’uomo è contrassegnato da un’ambivalenza originaria: porta in sé
i germi della benedizione e della schiavitù: può liberare dal caos e dal disordine, ma può anche soggiogare e rattristare. Di fatto il lavoro è una
benedizione, ma dopo e a causa del peccato, rivela tutta la sua forza distruttiva: «con dolore ti procurerai il cibo per tutti i giorni della tua vita [...] con il sudore della tua fronte mangerai il pane finché tornerai alla terra» (Gen 3,17-19).
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focus
La domanda che scaturisce da questa visione è conseguente: come promuovere, tutelare e rappresentare un lavoro che sia per tutti benedizione e non maledizione? I punti seguenti cercheranno di chiarire questa
dimensione.
Il fare dell’uomo deve tener conto delle relazioni umane
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II “fare” è degno dell’uomo se esso tiene conto della molteplicità delle
relazioni, e anzitutto del “fare” di Dio. In Gn 2,15 questo aspetto appare con chiarezza.Vi si dice: «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel
giardino dell’eden perché “lo coltivasse e lo custodisse”» (Gn 2,15). L’autore utilizza due verbi ebraici che sono ambigui, come i due verbi che
abbiamo appena esaminato (prendere possesso e dominare). ’Abad (servire) potrebbe connotare il lavoro dello schiavo, ma anche il servizio che si
deve a Dio. In Es 9,13 infatti si dice che il faraone deve lasciare liberi gli
Israeliti, perché essi hanno un compito supremo: quello di servire Dio.
L’altro verbo shamar (custodire, osservare) è utilizzato in Dt 6,2 per l’osservanza dei comandamenti.
Il lavoro, dunque, non è asservimento e/o alienazione. Il settimo giorno
di cui parla Gn 2,2-3 va compreso in questa luce: «[…] allora Dio, nel
giorno settimo, volle compiuta l’opera che aveva fatto e si astenne da
ogni opera che aveva fatto. Quindi Dio benedisse il giorno settimo e lo
consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro servile che operando aveva creato». Il settimo giorno è il giorno del riposo perché è il
giorno del compimento. Cosa questo significhi lo esprime con chiarezza
una delle dieci parole date da Dio a Mosè sul monte Sinai: «ricordati che
sei stato schiavo nel paese d’Egitto ma che il Signore tuo Dio ti ha fatto
uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio
ti ordina di osservare il giorno di sabato» (Dt 5,15). L’astensione dal lavoro nel giorno di sabato significa, dunque, prima di tutto riconoscere la
liberazione venuta da Dio. Jhwh chiede a Israele di «non fare opere» nel
settimo giorno perché la salvezza è prima di tutto un dono, «opera da
Dio». La Bibbia connette il sostantivo shabbat/sabato e il verbo shabat/cessare, interrompere. Questo non fare dell’uomo è celebrazione del fare di
Dio. La santificazione del Sabato ricorda all’uomo che non sono le sue
mani che hanno procacciato la liberazione. Il Sabato è necessario per fare memoria del dono di Dio, per celebrare il memoriale della salvezza
che viene da Lui.
Ma esiste una connotazione ulteriore sulla santificazione del sabato, che
include le altre relazioni: «non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né
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tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te» (Dt 5,14).
“Santificare il sabato”, dunque, non significa solo riconoscere di essere
stati liberati da Dio, ma anche fare dono agli altri di ciò che costituisce
la pienezza dell’uomo liberato. Il figlio o la figlia, lo schiavo e la schiava,
l’immigrato, gli animali che lavorano, sono soggetti ad altri: sono sudditi.
Il Sabato significa responsabilità, riconoscimento e costruzione della fondamentale libertà e uguaglianza di tutti gli esseri davanti a Dio. Il Sabato
è esteso anche all’immigrato (ger) e perfino agli animali, segno delle coordinate universali della salvezza, del rispetto profondo che l’uomo deve avere per le creature e il cosmo. Il ritmo del tempo diviso tra giorni
lavorativi e riposo, che già regola la vita dell’uomo nel quadro della settimana, diventa legge anche per la terra e per i poveri che vi abitano.
L’importanza di questa legge sullo Shabbat nella tradizione d’Israele è tale che equivale a tutti i comandamenti della Torah, come sottolinea Rabbi Eleazar bar Avina, il quale commentando Neh 9,14 («hai fatto loro conoscere il tuo santo sabato [...]») sentenzia: «il Sabato equivale a tutti i
comandamenti della Torah». La ragione è facilmente immaginabile, se si
pensa alla molteplicità degli aspetti liberanti che l’osservanza del Sabato
racchiude in rapporto a tutti gli esseri che sono sulla terra.
Il fare dell’uomo come “responsabilità”
e non come “dominio”
Da questo “principio” costitutivo deriva l’obbligo della responsabilità. In
Lv 25,23 Dio interpella gli Israeliti in questo modo: «la terra è mia e voi
tutti siete forestieri e affittuari». Il costruttore delle città dell’uomo non
ne è padrone. Gli israeliti, possessori della terra, vengono definiti gerîm
wetôsabîm: forestieri e affittuari. Questi due termini ricorrono diverse volte in coppia, connotando quasi sempre degli stranieri, probabilmente immigrati, che lavorano a servizio dei cittadini residenti, senza essere possidenti. Residenti, ma non possidenti. Gli Israeliti, dunque, pur possedendo la terra, vengono definiti gerîm wetôsabîm. Il Signore è il vero proprietario e gli Israeliti sono solo suoi affittuari. Ultimamente non hanno diritto alla terra perché il vero possidente è Dio; o meglio, il loro diritto
dipende da Dio. Le relazioni da stabilire con la terra e con coloro che vi
abitano hanno la loro motivazione profonda in un assioma basilare: il paese è di Dio e gli Israeliti sono immigrati e stranieri di passaggio. Non si
tratta dunque tanto di essere ben disposti verso gli schiavi e i poveri, ma
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di fare memoria della propria condizione di stranieri nella terra d’Egitto e dell’atto di liberazione da parte di Dio. Le derivazioni di questo principio basilare sono diverse.
La terra è un dono di Dio, e dunque “buona”, e tutti devono godere della sua bontà, della pienezza di vita che vi alberga.
L’esistenza dei poveri e dei senza-lavoro costituisce uno scandalo, perché smentisce la promessa divina della bontà della terra. In Israele non
possono darsi dei poveri, come prescrive il Deuteronomio: «non vi dovrà essere alcun bisognoso in mezzo a voi» (Dt 15,4). E dunque, la confisca di prepotenza da parte dei ricchi o dei potenti di turno (cfr. l’episodio della vigna di Nabot in 1 Re 21) e l’alienazione definitiva dalla proprietà a motivo di debiti contratti, sono contro il diritto di Dio che è il
vero proprietario. Il monopolio è uno dei mali maggiori denunciati dai
profeti (Is 5,8-10).
La solidarietà rappresenta un segno della fede nella Promessa. Ci sono
delle categorie di persone particolarmente esposte a una condizione
precaria, che vanno dunque particolarmente salvaguardate. La Bibbia ne
menziona particolarmente tre: le vedove, gli orfani e i forestieri. Queste
categorie sono a rischio, perché una donna che perde il marito non ha
più il suo “difensore”, che provvede nutrimento e protezione (Es 21,10);
l’orfano non ha garanzie giuridiche (Es 22,11; Dt 24,17-21) e i forestieri (siano essi gli antichi cananei espropriati o immigrati in cerca di migliori condizioni di vita) non godono dello statuto dei cittadini2.
Il fare come responsabilità della terra e non come dominio di essa risalta maggiormente nelle legislazioni sull’anno sabbatico e sull’anno giubilare.
L’anno sabbatico - il settimo dopo sei anni di semina e raccolto - deve
essere un anno in cui la terra riposa: non deve dunque essere coltivata,
ma lasciata incolta. Non si comprende bene se tutta la terra debba riposare oppure soltanto la mietitura e la vendemmia, né appare chiaro se
l’interdizione sia assoluta. In ogni caso, l’intenzione è chiara: la terra partecipa del ritmo che scandisce la vita dell’uomo, che si alterna tra il lavoro di sei giorni e il riposo del settimo. Al pari dell’uomo, la terra non
deve essere asservita ai ritmi di produzione.
L’anno giubilare è il cinquantesimo anno, che segue sette anni sabbatici.
I due concetti fondamentali che sono a fondamento dell’istituzione dell’anno giubilare, e delle norme che lo regolano, sono libertà e ritorno:
«Santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete la libertà nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10). Il primo principio
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regolatore dell’anno giubilare è dunque “la libertà”, esperienza fondamentale dell’esodo (se ne parla esplicitamente in Lv 25,55). La libertà
deve essere un retaggio di tutti gli Israeliti, anche di quelli oppressi dal
peso dei debiti contratti e dalla schiavitù che questi debiti potevano comportare. Il secondo principio regolatore, in qualche modo conseguenza
del primo, è “il ritorno” che implica riappropriazione delle proprietà
eventualmente ipotecate dal creditore per un debito di servitù3. Il concetto di libertà, dunque, richiede l’emancipazione degli schiavi e il ritorno delle terre ai proprietari originali.
In questo quadro, si comprende anche la denuncia dei profeti, e soprattutto
di Amos nei confronti dei proprietari terrieri e dei gestori di ricchezza. A differenza degli altri profeti, che accusano Israele di trasgredire i comandamenti fondamentali della Legge,Amos sembra interessato a un solo peccato nelle sue svariate modulazioni: l’ingiustizia verso i poveri, che si traduce in oppressione, perversione della giustizia, violenza e depravazione religiosa. In Israele si calpesta il diritto e la giustizia: questo è il punto.
Una frase tanto sintetica quanto efficace si trova in Am 3,10: «non sono
capaci di agire con rettitudine». Mentre negli altri oracoli che precedono 2,6-16, le diverse nazioni vengono attaccate per l’odio e la crudeltà
che riversano sugli altri popoli, Israele viene accusato per l’oppressione
e lo sfruttamento entro i propri confini. La violenza abita dentro casa
perché il popolo di Dio è stato incapace di realizzare nel proprio seno
delle strutture di giustizia, che corrispondono alla sua vocazione. Israele ha visto la sua ricchezza accrescersi, il suo oro moltiplicarsi e nell’abbondanza ha dimenticato Dio e calpestato i poveri.Tornano alla mente
le parole del Deuteronomio: «[...] quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio […]» (Di 8,12-14).
Amos però non si sofferma alla denuncia degli effetti, ma lascia intravedere anche le cause di questa situazione, le strutture di peccato: la rincorsa sfrenata alla ricchezza (3,12b.l5; 5,11a; 6,8-11; ecc.), la cultura del
narcisismo che ricerca solo la propria soddisfazione (4,1; 6,4-6), l’indifferenza per chi non ha voce (2,7-8; ecc.), l’acquisizione di una tranquilla
coscienza religiosa, che non conosce dubbi (3,2). Un midrash sull’episodio della torre di Babele (Gen 11,1-9) esprime in maniera sublime il paradosso di una società ingiusta e le terribili conseguenze che ne derivano, raccontando che la torre aveva sette gradinate a oriente e sette a
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occidente. Da una parte gli uomini salivano per portare i mattoni e dall’altra scendevano per andarli a caricare. Ora, se cadeva un uomo dalle
impalcature e moriva nessuno se ne dava pensiero, ma se cadeva un mattone e si rompeva, allora si facevano lamenti e si alzavano grida: «chi comprerà ancora il mattone? Quanto costerà?». Jhwh vide che gli uomini non
piangevano per i loro compagni morti, ma si preoccupavano molto dei
mattoni; allora scese e li disperse sulla faccia della terra.
Il fare dell’uomo a misura del dono
e non della prestazione
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Passando al Nuovo Testamento, assistiamo a una comprensione del fare
dell’uomo che riflette le dinamiche fondamentali del Primo Testamento,
portandole in qualche modo a compimento.
Gesù insegna che il credente non può amare Dio a discapito dell’uomo.
Al momento dell’ascensione al cielo, due uomini in bianche vesti apostrofano i discepoli: «uomini di Galilea perché state a guardare il cielo?»
(At 1,11). Anche nel racconto della tomba vuota, Luca ricorda il rimprovero dei due uomini in bianche vesti alle donne accorse alla tomba: «perché cercate il vivente tra i morti?» (Lc 24,4). Il rimprovero ha la funzione di distogliere i discepoli da una comprensione distorta dell’ascensione di Cristo e di richiamarli al compito che sta loro dinnanzi. Il tempo
del già e non ancora è il tempo dell’annuncio del Regno e delle decisioni, della fatica quotidiana e del servizio. Gli uomini della risurrezione non
amano il cielo a scapito della terra, perché le attese del Regno definitivo coincidono con le speranze quotidiane dell’uomo, e i gemiti dello Spirito si manifestano nei gemiti dell’uomo che ha fame e sete, è nudo, straniero, carcerato… (Mt 25,31-46). Pensare alle cose di lassù non significa essere sognatori, ma viandanti e pellegrini, che amano la terra che li
porta, senza dimenticare la mèta. La storia sacra è la storia dell’uomo,
con le sue aspirazioni alla vita e alla dignità e la Pasqua è il seme messianico gettato tra le radici delle attese umane.
Questa comprensione dell’uomo e dell’impegno umano va vissuta però
alla presenza di Dio. Ritorna il motivo conduttore del Primo Testamento: il dono e la gratuità come misura del fare. La concezione paolina sulla giustificazione mediante la fede e non mediante opere è a fondamento di questa concezione. Paolo afferma che si è giustificati davanti a Dio
a motivo dell’amore gratuito di Dio e non delle opere. La comprensione di sé, è, oggi come non mai, legata alla prestazione e alla riuscita. L’uomo contemporaneo deve ormai continuamente giustificarsi, non più da-
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vanti al tribunale di Dio, ma davanti al tribunale della società, del posto
di lavoro dove opera, dell’ambiente circostante. E ci si può giustificare
solo mediante il rendimento. Questa è oggi la vera maledizione della legge: si è qualcuno solo in virtù delle proprie prestazioni personali; ci si
può affermare solo documentando la propria efficienza. L’autoaffermazione e l’autogiustificazione dell’uomo è oggi una dottrina condivisa in
ogni ambiente che conti: nello stato come nella chiesa. Dire che determinante è la grazia, significa ritornare a un concetto di gratuità e di dono che rischia di scomparire dalla nostra vita moderna. Ovviamente non
si tratta di polemizzare indistintamente con le opere di bene, con l’avanzamento professionale, il merito, ecc. Il messaggio ebraico-cristiano non
offre giustificazioni per l’inoperosità e, del resto, la civiltà occidentale lo
dimostra in maniera abbastanza evidente. E tuttavia, c’è un tarlo in tutto questo: l’obbligo conscio e/o inconscio che ha l’uomo moderno di dover sempre e comunque esibire i propri titoli di merito (le opere, appunto) offre l’illusione di un’autonomia totale, sciolta da ogni rapporto di
dipendenza, con una vita tesa solo al sacrificio - costituito ovviamente
da nuove prestazioni - verso quello che si ritiene il proprio dio. La giustificazione solo per grazia, sia nella componente ebraica sia nella visione
paolina del Vangelo di Cristo, presenta provocatoriamente un altro modello: l’uomo viene ad essere giustificato non già in base al suo ruolo e
alle sue prestazioni, ma in base al suo esistere, alla sua umanità. In questo modo, egli sa che la sua vita ha, comunque, un senso. Dire questo significa che, agli effetti della valutazione dell’uomo, non sono rilevanti solo le sue prestazioni positive, ma anche quelle che l’uomo compie come
“pubblicano”, per rimanere nel contesto evangelico. Significa dare senso
anche al limite. L’uomo non ama il limite, perché esso non può essere
sottomesso alla logica del calcolo e dell’utilità. Dire che conta la grazia
significa, invece, dare risalto a qualcosa che vale non solo nei momenti
fortunati, ma anche in quelli fallimentari. La giustificazione solo per grazia
dà all’uomo il dono e non la prestazione come misura della vita, perché
solo da qui può germogliare la speranza.
Il fare dell’uomo connotato dalla speranza
Parlo di speranza e non di ottimismo, perché il primo atteggiamento è
una virtù teologale, mentre l’ottimismo è solo una dote naturale. Essere connotati dalla speranza significa costruire il mondo con un atteggiamento di sempre rinnovata fiducia, come scrive Giacomo: «Siate dunque
pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Ecco che l’agricoltore aspet-
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ta il frutto prezioso della terra, attendendo con pazienza che essa riceva le prime e le ultime piogge. Siate longanimi anche voi, consolidate il
vostro cuore, poiché la venuta del Signore incalza» (Gc 5,7-8). Il passo
della lettera di Giacomo, con l’immagine del contadino, permette di guardare avanti, verso la mèta, senza paura e affanni. L’agricoltore, infatti, è
un uomo che sa aspettare; soprattutto in Israele, dove la competizione
contro il deserto che avanza e carpisce la speranza, è una lotta quotidiana. Il contadino lotta con il deserto, giorno dopo giorno, anche quando
l’attesa è segnata dalla sfiducia e dall’impotenza, perché solo così la vita
resiste. Il contadino aspetta e rispetta i tempi della terra: le stagioni della semina, dei frutti e della raccolta... nella consapevolezza che la vita germoglia nel buio della terra, là dove affondano le radici e dove occhio
umano non può penetrare. Giacomo esorta i cristiani ad avere lo stesso sguardo penetrante. La decadenza di oggi tende a portare l’uomo e
la donna a non misurarsi più con la fatica e la passione del costruire: ci
si abbandona al fruibile immediato, al “tutto e subito”, al calcolo e all’interesse, alla consumazione immediata, senza attesa. “Non ho tempo” è
un leitmotiv del nostro quotidiano discorrere ed è l’indizio di un malessere profondo: quello di un uomo segnato dall’accelerazione, dalla frammentazione. L’uomo di oggi somiglia all’uomo proskairos, all’uomo di un
momento, incapace di durata, di perseveranza; incapace di costruire una
storia e di esserle fedele. La perseveranza, la dedizione, il rimanere... sono le vie della pace. A chi è continuamente tentato di lasciare o di sorpassare, di andarsene o di accelerare, l’immagine dell’agricoltore ricorda che la vita ha i suoi ritmi, le sue stagioni, che l’uomo è chiamato a rispettare. L’alleanza con Dio e l’alleanza con l’uomo è il canto dell’impossibile che diventa attuabile: non nel portento e nel prodigio, ma nel vivere quotidiano, intriso di sudore e lavoro. La benedizione nel lavoro sarà attuata quando l’uomo vivrà nella consapevolezza che si opera per
edificare case e piantare alberi, nella gratuità e nella speranza, come esprime meravigliosamente un poeta di spicco della cultura turca nell’Inno alla vita:
«La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’aldilà.
Non avrai altro da far e che vivere.
La vita non è uno scherzo.
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Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio,
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia4».
note
1 Intervento tenuto in occasione del Seminario organizzato dalla Funzione Vita Cristiana e Studi e Ricerche
delle Acli sul tema: Le “cose nuove” nel mondo del lavoro: per una riflessione teologica e spirituale nelle Acli (Roma
7 novembre 2007).
2 Bisogna anche dire che la legislazione dell’At sullo straniero non trova riscontri nelle culture circostanti. In
Mesopotamia vengono considerati poveri l’orfano e la vedova, ma non lo straniero.
3 Sono proprio queste due componenti del giubileo - libertà e restaurazione - che entreranno nell’uso metaforico ed escatologico che si svilupperà nel profetiamo e più tardi nel Nuovo Testamento.
4 N. Hikmet, Poesie d’amore, Milano 19933, pp. 179-180.
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focus
Promuovere, tutelare
e rappresentare il lavoro1
Il ruolo delle Acli
di Camillo Monti
Le ragioni e il senso del convegno nazionale
focus
Vorrei portare l’attenzione sul titolo che abbiamo dato al nostro Convegno nazionale1:“Promuovere, tutelare, accompagnare, rappresentare il Lavoro.
La ricerca, le posposte, le iniziative delle Acli”. È definito da un oggetto, il lavoro e da quattro azioni: promuovere, tutelare, accompagnare, rappresentare. C’è
poi un sottotitolo che indica nelle Acli il soggetto di queste azioni. Insieme,
titolo e sottotitolo, indicano il senso che vogliamo dare ai lavori di questa
iniziativa.
Ritorniamo a parlare in modo ordinato del lavoro; per noi è un oggetto costitutivo, una ragione che fa parte di quelle che stanno alla base delle nostra missione fondamentale; il nostro primo Statuto (1945) infatti scrive:
«Le Acli sono nate raggruppando coloro che intendono operare,“nell’applicazione della dottrina del Cristianesimo secondo l’insegnamento della
Chiesa, perché sia assicurato secondo giustizia il riconoscimento dei diritti e
la soddisfazione delle esigenze materiali e spirituali dei lavoratori”».
Sappiamo che il lavoro è da promuovere sia perché ci sono nel mondo e anche nel nostro Paese vaste zone in cui il lavoro manca e questa è l’emergenza più sentita dai cittadini sia perché, anche dove c’è, non sempre il lavoro è “degno” (secondo la dizione un po’ sintetica dell’Organizzazione
Mondiale del Lavoro). Per queste ragioni, pensiamo che il lavoro vada tutelato; oggi più che mai poi il lavoro ha bisogno di essere accompagnato, perché persone e comunità locali hanno bisogno di essere sostenute e non lasciate sole in un percorso di cambiamento faticoso.
Resta infine l’ultimo termine del nostro titolo, rappresentare il lavoro, più
–– Camillo Monti Responsabile Dipartimento Lavoro della Presidenza nazionale Acli
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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specificamente il lavoro frammentato. Questo vogliamo sia il cuore della
nostra riflessione perché riteniamo sia proprio questa una chiave per capire la complessità della situazione in cui ci troviamo, soprattutto in Italia,
e la difficoltà di individuare concrete vie d’uscita per governare politicamente la grande trasformazione sociale di questi anni.
Il lavoro nelle scelte politiche recenti
Lo scenario politico nazionale all’interno del quale si è inserita la nostra riflessione è caratterizzato dal passaggio, avvenuto nella primavera del 2006,
dal Governo della coalizione di Centro Destra a quello dell’Unione.
L’insieme delle misure del Governo Berlusconi, al di là dell’approvazione della legge 30 (la cosiddetta “Legge Biagi”), ha avuto l’effetto paradossale di far
crescere la precarietà del lavoro da una parte e il lavoro nero dall’altra. Nel
2006, il quadro politico e sociale è cambiato. Le elezioni, superata sia pure
di misura la precedente maggioranza di centro-destra, hanno dato vita a una
nuova maggioranza e a un nuovo Governo, verso i quali erano alte le aspettative di una più attenta presa in carico dei problemi sociali e del lavoro, pur
nella consapevolezza di una situazione di bilancio particolarmente critica.
Le linee del Governo Prodi sui temi del lavoro e di molte altre politiche
sociali connesse sono quelle che hanno portato al “Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili”, sottoscritto
con le Parti Sociali il 23 luglio scorso.
Vi si è arrivati attraverso un percorso lungo e complesso anche per l’articolazione delle materie trattate: previdenza, ammortizzatori sociali, mercato del lavoro, competitività, giovani, donne. Occorre però riconoscere e apprezzare il fatto che il metodo della concertazione, per quanto faticoso, è
stato in grado di produrre risultati rilevanti e condivisi, risultati che hanno
qualche possibilità di produrre effetti concreti proprio perché nati da un
confronto lungo e dettagliato.
Un altro elemento positivo va riscontrato nella consultazione dei lavoratori a cui i risultati dell’accordo sono stati sottoposti (risultandone approvati a larghissima maggioranza). A questo passaggio va riconosciuto un forte valore democratico, perché ha dato voce ai lavoratori e ha rafforzato la
legittimità delle loro rappresentanze.
Occorre ancora riconoscere, nel merito delle scelte operate, che i Sindacati Confederali hanno saputo trovare la via – anche se talvolta davvero
molto timida (per esempio nel modo con cui si accenna al problema degli
immigrati e del loro trattamento pensionistico) – per aprire percorsi nuovi di tutela sociale, di fronte ai cambiamenti del lavoro.
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focus
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
focus
Non si può non indicare anche, infine, quello che appare un limite significativo di questo accordo. Gli interessi maggiormente tutelati sono naturalmente quelli più consolidati, meglio rappresentati: i lavoratori dipendenti
delle imprese medio-grandi, quelli del pubblico impiego, i pensionati. Altri
interessi come quelli dei giovani, delle donne - a cui pure sono dedicati paragrafi appositi del testo dell’accordo - degli immigrati e di coloro che hanno bisogno di una organizzazione del lavoro flessibile per essere meglio in
grado di rispondere a situazioni variegate, fanno una prima ma fugace apparizione nell’agenda contrattuale decisamente acerba rispetto alla maturità dei problemi.
Il testo del protocollo d’intesa è stato poi tradotto dal Governo in un
Disegno di legge (12 ottobre 2007), presentato alla Camera come collegato alla Finanziaria 2008 che, per quanto concerne il lavoro e la previdenza sociale e lo sviluppo del Paese, contiene alcuni elementi rilevanti,
anche se certo non in grado di far fronte all’ampiezza dei bisogni: vengono assegnati ottocento milioni di euro al fondo per l’occupazione, oltre
un miliardo per l’attuazione del protocollo sul welfare, cinquanta milioni
per la salute e la sicurezza, venti milioni dedicati esclusivamente alla formazione.
La Finanziaria 2008 poi investe risorse ingenti per sostenere la buona occupazione e per accompagnare lo sviluppo economico. Predispone interventi mirati, come quello a favore dell’occupazione giovanile al Sud Italia: ai
datori di lavoro che nel 2008 impiegheranno a tempo indeterminato giovani in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, sarà concesso, per il triennio 2008 - 2010, un credito d’imposta pari a
333 euro al mese per ciascun lavoratore e 416 euro per ciascuna lavoratrice.Vengono introdotte norme per la stabilizzazione dei lavoratori precari nella Pubblica Amministrazione: si prevede l’assunzione a tempo indeterminato dei precari con tre anni di anzianità e che sono entrati nella Pubblica Amministrazione tramite concorso.
Venendo al tema dello sviluppo, la Finanziaria riduce le tasse per le imprese e semplifica le normative in materia fiscale, cercando di allineare
l’Italia ai principali competitori mondiali in materia di tassazione delle
attività produttive; le piccole imprese godranno di ulteriori vantaggi e
ripartirà il credito d’imposta per le aziende che investono nel Sud Italia; le risorse che non sono state utilizzate nel 2007 saranno destinate
a interventi strutturali di politica economica; viene infine istituito un
fondo per la diffusione della cultura della responsabilità sociale d’impresa.
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Rappresentare il lavoro frammentato
Mi sembra utile ora tornare al giudizio formulato poco sopra sulla concertazione che ha dato vita all’Accordo del 23 luglio tra il Governo e le Parti
Sociali, sul suo valore (sia di merito e sia in termini di processo democratico) e sui suoi limiti. Il principale dei quali, ho detto, risiede nel perimetro
degli interessi rappresentati e tutelati, rispetto a quelli che restano ai margini di tale perimetro di riconoscimento, di rappresentanza e di tutela.
Il caso più evidente mi sembra si evidenzi nella qualità degli interventi concordati riguardo ai cosiddetti ammortizzatori sociali e soprattutto in quelli che non vi compaiono. Gia nel testo della Finanziaria 2007, mentre si introducevano alcuni limitati provvedimenti migliorativi degli istituti vigenti,
si rinviava a una “organica riforma degli ammortizzatori sociali”, quella serie di provvedimenti e prestazioni, di carattere economico e previdenziale, che devono venire incontro alle situazioni di crisi occupazionale, alle
espulsioni dal mercato del lavoro ma anche al lavoro “povero”, intermittente o precario. La Finanziaria 2007 una misura generale di questo tipo la rinviava al futuro, pur facendola intravedere sullo sfondo e confermandone la
necessità. La ragione di tale rinvio è evidentemente nell’onere finanziario
che vi è connesso, onere che dovrebbe essere a carico della fiscalità generale (a differenza delle misure di tutela degli occupati, che derivano almeno in una certa misura dalla contribuzione delle parti sociali).
Nonostante complessità e costo, noi pensiamo che essa, oltre a razionalizzare i molti interventi esistenti, debba estendere alla totalità dei lavoratori il
sostegno al reddito nei periodi di intermittenza lavorativa e assicurare anche per questi periodi una contribuzione pensionistica adeguata. Questo
intervento, benché ampiamente condiviso nella sua necessità e urgenza (addirittura già formulato come proposta di legge dal primo governo Prodi,
come esito delle analisi della Commissione Onofri – 1998), non ha finora
visto la luce; una sua messa in campo – con modalità e in misura adeguate
– avrebbe un indubitabile effetto pratico per molti giovani e molte famiglie,
oltre che una chiara rilevanza politica (per esempio, probabilmente, quello
di contribuire a ridurre il numero dei “bamboccioni”, che invece ora hanno almeno qualche giustificazione nella provvisorietà della loro prospettiva lavorativa e personale).
Al contrario, un intervento di questo genere non è previsto nel Protocollo di luglio e neppure nella Finanziaria 2008, benché invece risorse rilevanti vengano destinate alla “redistribuzione sociale”.
Non sembra dunque infondato sostenere che gli interessi dei giovani (e
meno giovani) coinvolti nella spirale del lavoro intermittente o precario
112
focus
focus
hanno trovato un ascolto minore rispetto a quelli delle persone implicate
nello “scalone” del ministro Maroni.
E quello che diciamo dei giovani precari mi sembra possa essere detto per
una serie di altri gruppi sociali, che emergono come frammenti dalla grande
trasformazione della produzione fordista: i lavoratori delle piccole e piccolissime imprese, le donne (e gli uomini) che compiono grandi sforzi per conciliare esigenze personali e sociali con una organizzazione del lavoro rigida e
apparentemente immodificabile, i lavoratori adulti-anziani, gli immigrati.
Le grandi Organizzazioni dei lavoratori, pur seriamente impegnate su ciascuno di questi temi, fanno fatica a farsi carico in pieno di questi fenomeni,
sia perché la loro forza è data dalle categorie tutelate del lavoro e dai pensionati, sia perché lo strumento ordinario dell’azione sindacale è quello del
contratto, strumento che ha funzionato egregiamente all’interno di certe
regole e condizioni dell’organizzazione del lavoro ma che mostra evidenti
segni di difficoltà; risulta pertanto urgente l’esigenza di rivedere le modalità
della contrattazione, in modo da poter meglio tutelare i lavoratori (per esempio per quanto riguarda il salario) e in modo che si possa tenere maggiormente conto delle differenze importanti che si registrano sia dal punto di
vista dei contesti territoriali sia da quelle delle forme del lavoro.
Anche la politica è chiamata in causa, perché ad essa è chiesto di accompagnare le trasformazioni profonde del tessuto economico e sociale, garantendone la coesione e assicurando, per quello che ci riguarda e ci interessa, giustizia ed uguaglianza pur nelle tensioni della competizione globale.
Un ruolo importante può essere giocato anche dalle Organizzazioni di Terzo Settore e da tutte le Agenzie che hanno capacità e responsabilità di natura culturale, educativa, sociale.
Anche alla nostra Associazione si presenta dunque la possibilità di operare
una scelta concreta: quella di impegnarsi a far nascere luoghi e forme associative capaci di costruire legami ricchi e duraturi in un percorso di crescita personale e di consapevolezza sociale. Si tratta di una possibilità impegnativa e affascinante, di una sfida che, se vorremo e sapremo raccoglierla, ci
consentirà davvero – per questo aspetto – di “migrare dal Novecento”.
Conclusione
Le Acli hanno aperto da poco il percorso verso il 23° Congresso nazionale, che avrà appunto per titolo:“Migrare dal Novecento, abitare il presente, servire il futuro – le Acli nel XXI secolo”. La relazione che presenta il
congresso e i suoi obiettivi ha precisato, fin dal titolo, che le Acli intendono avventurarsi su strade nuove: «usiamo il verbo migrare perché come miEnaip Formazione & Lavoro 1/2008
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granti sentiamo il desiderio di partire alla ricerca di una terra più ospitale,
carichi di speranza ma ugualmente incerti sulla meta, sull’approdo finale e
disponibili a cambiare, anche in profondità, se necessario. Il nostro vuole
essere un esodo, non una fuga né tanto meno un sottrarci alle responsabilità per l’oggi e il domani».
I lavori del convegno di oggi hanno il compito di aiutarci a fare in modo che
il nostro impegno futuro continui ad essere, come nel 1945, quello di contribuire a che «sia assicurato secondo giustizia il riconoscimento dei diritti e la soddisfazione delle esigenze materiali e spirituali dei lavoratori», sapendo – come sappiamo – che i lavoratori e le lavoratrici del XXI secolo
hanno ancora “diritti” ed “esigenze” che devono esser promossi, tutelati e
rappresentati, probabilmente in forme nuove, proprio perché non sono solo quelli del 1945.
note
1 Intervento tenuto in occasione del Convegno nazionale delle Acli “Promuovere, tutelare, accompagnare,
rappresentare il lavoro” (Roma, 15 novembre 2007), di cui a breve usciranno gli Atti.
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focus
Tra fordismo
e nuovi lavori1
di Agostino Megale
focus
Vorrei sottolineare, in premessa, che i temi del lavoro non trovano sempre
una così attenta e larga riflessione come sarebbe necessario. Al contrario,
il fatto che, oggi, questa sede rappresenti un importante presidio in relazione a tali temi può indicarci come sia ancora possibile ricercare la profondità delle radici laburiste nel mondo del sociale e della politica. Questo
potrà consentire probabilmente anche alle forze politico-istituzionali, in trasformazione e riorganizzazione, di mantenere quel loro ancoraggio sociale che li caratterizza per obiettivi di equità, solidarietà e giustizia sociale.
La relazione iniziale2 ha posto una serie di questioni, alcune delle quali di
apprezzamento e di valorizzazione del lavoro, della concertazione, delle
scelte compiute e dei risultati conseguiti dall’azione sindacale. Altre riflessioni, invece, di natura più critica, pur rientrando nell’analisi della fase di
concertazione, sono state mosse nei confronti del sindacato: un’eccessiva
tutela degli anziani (“garantiti”), il rischio di corporativismi e la mancanza
o l’inefficacia della lotta per la tutela dei giovani e dei “non garantiti”. Il sindacato assumerebbe, dunque, un atteggiamento con il quale riesce a rappresentare correttamente le aree forti del Paese e del lavoro – le grandi
fabbriche e le medie realtà – ma non avrebbe altrettanta incisività nel costruire il futuro per le nuove generazioni o per le parti più deboli dell’Italia, tra cui Mezzogiorno e migranti. È giusto riflettere sui rischi corporativi
ma trovo fuori luogo critiche ingenerose nei confronti del sindacato confederale italiano.
Credo, allora, che sia opportuno – e non per dovere d’ufficio, ma per convinzione – rendere evidente e valorizzare il risultato prodotto dalla con–– Agostino Megale Presidente Ires
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certazione, durata nel caso del Protocollo sul welfare otto-nove mesi. Da
un lato, bisogna evidenziare come nel precedente periodo di governo del
centro-sinistra (1996-2001), non si rilevarono situazioni di tensioni interne alla maggioranza così evidenti come quelle attuali. Dall’altro, è indubbio
che se non ci fosse stata la tenacia e il paziente lavoro del governo come
dei sindacati in forma unitaria, soprattutto nell’impostazione della trattativa, oggi non avremmo avuto né il Protocollo sul Welfare, né tanto meno
una partecipazione così ampia da contrastare proprio quel “grillismo” parlante dei mesi scorsi, quel cattivo vento che ha soffiato nel fuoco dell’antipolitica in cui molti italiani, troppi, bruciavano le loro speranze e le loro
convinzioni.
Grazie anche a questo esito straordinario, il “grillismo” è stato accantonato: primo, per effetto degli oltre 5 milioni di lavoratori che all’80-82% hanno approvato l’Accordo il 23 luglio 2007, con un consenso mai realizzato
nella storia dei sindacati e in nessun paese al Mondo anche perché non esiste da nessun’altra parte un sindacato che concerta accordi di interesse
generale chiamando i lavoratori, iscritti e non iscritti, a decidere; secondo,
per effetto della partecipazione nelle elezioni primarie del Partito Democratico. Due elementi di straordinaria portata innovativa nella cultura della partecipazione e nella democrazia italiana, che contrastano il germe del
qualunquismo populista non solo a destra ma anche a sinistra. Un germe
che si riproduce e si moltiplica, che può essere sconfitto solo con la partecipazione democratica.
Dovremmo utilizzare sempre di più, i pensieri e le percezioni delle persone, anche attraverso un attento monitoraggio, affinché le decisioni della politica, dei soggetti sociali siano accompagnate dal sostegno della popolazione. Anche se a volte le mediazioni risultano necessarie, in una maggioranza di governo così labile, le decisioni dovrebbero essere assunte attraverso una buona rappresentanza e una giusta rappresentatività delle idee, delle istanze che arrivano dal basso e non certo dall’alto. Le azioni e le posizioni del sindacato e dei partiti non possono non essere attente ai bisogni
e alle esigenze effettive della popolazione.
Vi sono alcuni elementi del Protocollo siglato nel luglio scorso su cui
riflettere ancora: pur con alcuni limiti, questo è stato il primo accordo
che ha interessato 7 milioni di anziani e 3 milioni di giovani, in condizione di incertezza e di insicurezza. Se guardiamo la storia alle nostre
spalle, un altro accordo di natura così redistributiva non c’è mai stato:
si tratta infatti di un accordo che fa bandiera della solidarietà intergenerazionale.
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Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
focus
Eppure, tra i lavoratori si è registrato anche un elemento di fibrillazione, o
per meglio dire di malessere, successivamente all’accordo, già manifestatosi nelle assemblee come in molte altre sedi. Un problema a cui questo protocollo non risponde è la questione salariale. A differenza di altre spinte
corporative – come lo sciopero di tassisti e avvocati contro le liberalizzazioni, dei Cobas nelle loro richieste che prescindono dalla realtà – la questione salariale ci porta ad aprire una sorta di vertenza con imprese e governo per risolvere un problema che come Ires-Cgil indichiamo dal 2002.
Le nostre analisi – presentate assieme a Guglielmo Epifani – hanno sempre
rimarcato la necessità di redistribuire al lavoro una quota più rilevante della ricchezza generata proprio grazie alla produttività del lavoro. Il problema “strutturale” da affrontare riguarda, infatti, la cultura dell’imprenditorialità che, nel nostro Paese, orienta prevalentemente le strategie produttive
sulla riduzione dei costi e non sulla via alta alla competitività.
Tornando al Protocollo sul Welfare bisogna osservare come si sia operata
una prima sistematizzazione degli ammortizzatori sociali, anche se siamo
ancora in attesa che si creino le condizioni per una vera riforma dello Stato sociale. Nonostante l’analisi ci porti tutti a concludere che il nuovo paradigma economico-sociale richiede una diversa composizione dell’occupazione, la precarietà così come la questione salariale non sono questioni
di cui si deve occupare solo la cosiddetta sinistra radicale. Attiene proprio
all’azione dei riformisti, sia nelle forze politiche che in quelle sociali, la risoluzione di un problema che risiede nell’interpretazione stessa del concetto di buona occupazione, di valorizzazione delle risorse e di conquista
di nuovi diritti e tutele. È vero che, secondo le nostre ricerche (Ires 2006),
i 2000 giovani intervistati sono disponibili ad un lavoro flessibile, ma è vero anche che le loro richieste sono orientate al superamento dell’insicurezza e alla conquista di diritti e tutele così come li hanno i loro colleghi
con altri lavori. Ci si rifà un po’ all’idea di “flessibilità sostenibile”, di modello sostenibile di lavoro. E siccome non è pensabile che il mondo torni indietro agli anni Settanta, non è nemmeno immaginabile che il futuro preveda solo lavori a tempo pieno e indeterminato. Quindi, pur con le giuste
azioni che bisognerà impostare affinché il lavoro stabile abbia la predominanza nel mercato del lavoro, occorre essere capaci di correggere quelle
storture nelle tipologie contrattuali che contraddistinguono il lavoro parasubordinato, per togliere tutti gli elementi di precarietà e di precarizzazione. Per realizzare questo obiettivo è necessario costruire le condizioni perché i lavori flessibili costino qualcosa in più del lavoro stabile – attraverso
un percorso pluriennale già iniziato con l’avviso comune sui call-center, con
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la Finanziaria 2007 e 2008 (che recepisce il Protocollo) – introducendo una
serie di altri strumenti di sostegno: economico, sociale, fiscale e persino,
contrattuale. Questa è la buona occupazione di cui ha bisogno il Paese.
Per fare tutto questo ci vuole un progetto di legislatura. Se la maggioranza
non sta in piedi non riusciremo ad innestare dopo il Protocollo sul Welfare – malgrado il patto generazionale che porta con sé, come ricorda lo stesso Walter Veltroni –, un circuito virtuoso e diventerà difficile, se non impossibile, portare avanti questo progetto. Sicuramente bisogna smetterla
con gli slogan delle abrogazioni ed intervenire per le correzioni giuste e le
tutele necessarie. Ciò vuol dire risorse, stabilità economico-finanziaria del
Paese, un programma di entrate e di uscite da investire negli anni.
In parallelo, per riportare il sistema-Paese ai giusti livelli di crescita e di competitività che hanno caratterizzato l’Italia come uno dei principali paesi industrializzati europei, si deve tornare a lavorare sul sistema di relazioni industriali. La riforma delle relazioni industriali ha per oggetto il Contratto
nazionale e la crescita e la redistribuzione della produttività, attraverso il
secondo livello contrattuale. Fin dal 2001, in tempi non sospetti, da sindacalista della Cgil riformista mi opponevo alla tesi di una Cgil di opposizione sociale. Eravamo in pochissimi, a sostenere che uno dei nodi principali
da sciogliere per risolvere i problemi legati alle condizioni dei lavoratori –
come del sistema produttivo italiano – fosse l’aggiustamento e la manutenzione del modello di relazioni industriali offerto dal Protocollo del ‘93. Come ci ha ricordato Gino Giugni, quella è una sorta di carta costituzionale
delle relazioni industriali. Si è discusso per tredici anni su questioni quali il
peso del Contratto nazionale, se servisse o meno una maggiore contrattazione di secondo livello, ecc. Gli ultimi dati della Banca d’Italia dicono che,
fatto 100 il salario nazionale, l’86% deriva dal contratto nazionale e il 14%
da contrattazione di secondo livello. Appare, dunque, evidente che il peso
del salario di produttività è basso, troppo basso, insomma, quasi residuale.
Tra l’altro, ad uno sguardo approfondito, risulta che negli ultimi quindici anni su 17 punti di produttività, alle imprese ne è andato circa l’80% e al lavoro solamente il 20%. Gli economisti affermano, a ragione, come sia inevitabile che con questa dinamica si riduca la quota distributiva al lavoro e
cresca la quota distributiva del profitto. È evidente, peraltro, anche che la
produttività non può che essere ridistribuita anzitutto laddove si genera,
cioè in azienda prima ancora che in altri luoghi, pur avendo come sindacato italiano questa specificità territoriale dei piccoli e dei distretti.
Rilanciare la contrattazione di secondo livello deve essere il nostro obiettivo per restituire ai lavoratori quello che gli spetta, facendo di più e me-
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glio il nostro mestiere di sindacalisti. Allo stesso modo, penso, però, che
dovremmo mantenere invariato il ruolo attuale del Contratto nazionale,
nella sua funzione di difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni sulla base dell’inflazione effettiva. Nei primi anni del governo Berlusconi l’inflazione programmata risultava la metà di quella reale, al contrario di quanto il
governo Prodi ha indicato nell’ultimo Dpef, in cui si è utilizzato l’indicatore dei consumi per stabilire l’inflazione attesa. I Contratti nazionali, allora,
vanno rinnovati non oltre i ventiquattro mesi, ma entro la scadenza naturale, avviando le trattative quattro-sei mesi prima del termine, contro la
pessima abitudine (con governi di centro-destra e di centro-sinistra) di
esporre al rischio di scioperi, conflitti e blocchi per ventiquattro mesi.
Ma se è questa la strada corretta, il problema allora non si riduce ad alleggerire o appesantire il ruolo del Ccnl, bensì di fare in modo che la contrattazione di secondo livello, che finora ha pesato poco, cresca quantitativamente e qualitativamente. Il Protocollo del luglio scorso dà una importate spinta in questo senso, incentivando gli accordi di produttività attraverso la decontribuzione del premio di risultato, del lavoro straordinario
e la detassazione (con modalità ancora da definire). In ogni caso, l’abbattimento dei contributi sullo straordinario non è la migliore conquista di
quel Protocollo.
Come sindacalista, la maggiorazione dello straordinario, la porterei dal 30%
al 35% nei prossimi contratti, a fronte di imprese che sprecano il fiato nel
dire che bisogna toccare i salari, quando si sono limitate a prendere lo sgravio contributivo, senza (re)investire. Il protocollo ci consente di rendere
pensionabile tutto il premio di produttività, mediamente millecinquecento
euro nelle imprese dove si contratta, ossia quaranta-cinquanta euro di rendita pensionistica in più. Fino ad oggi la produttività non era incentivata,
perché nell’azienda con cui si faceva un accordo sul premio di risultato si
perdeva sulla pensione (mediamente tra il 10 ed il 20%).
Se questo protocollo ci consente di utilizzare più strumenti per contrattare, allora siamo in dovere di allargare la contrattazione: il sindacato deve
estenderla ai lavoratori dipendenti tradizionali, a quelli delle piccole imprese e ai lavoratori flessibili. In particolare, i collaboratori – spesso considerati autonomi o parasubordinati a seconda della convenienza dell’impresa
–, attualmente senza Contratto nazionale, senza diritti e tutele di base, hanno bisogno di un sostegno maggiore delle parti sociali o, in assenza, di una
legge che faccia riferimento a minimi salariali. Non trovo nulla di sconvolgente nel pensare che come abbiamo fatto una terza parte dei contratti
per i quadri, faremo un giorno una quarta parte dei contratti per i collabo-
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ratori, pensando di regolare, non solo a carico dello Stato ma anche con
elementi di “welfare contrattuale”, questioni come la malattia, la previdenza, la maternità e la paternità.
Risulta sempre più evidente la necessità di innovare e rinnovare anche alcune strategie del sindacato; le proposte non ci mancano. Forse non sono
ancora condivise da tutti, ma ritengo che si stia aprendo una fase nuova,
delineata dall’autonomia e dell’unità dei sindacati italiani. Non si comprende, in effetti, perché il sindacato italiano – che dal ’95 aveva lanciato l’idea
della costituente per l’unità – si sia poi ripiegato su sé stesso. Penso che
non c’è nessun bisogno di imitare i processi politici tuttavia questi ci dicono che si può rinnovare, che si può cambiare evitando che ognuno difenda la sua posizione. La mia tesi è che sia possibile rilanciare un nuovo patto federativo per l’unità dei sindacati d’Italia ed immaginare nuove regole
democratiche. Lo scenario politico italiano, almeno per i prossimi dieci anni – superata positivamente l’idea di un collateralismo tra forze politiche e
sindacati – non può che configurare un’idea di nuova autonomia e di unità, purché questa sia sostanziale e non virtuale, e che vi sia pari dignità tra
il soggetto sociale e il soggetto politico. Forse dovremo realizzare un modello di convenzione “all’americana”, in cui ragionare sui contenuti di programma con le forze politiche con cui ci raccordiamo, assieme ad un nuovo concetto di rappresentanza sociale anche nei luoghi deputati. Le cose
devono cambiare anche da questo punto di vista e penso che noi agiremo
conseguentemente perché questo avvenga.
note
1 Intervento tenuto in occasione del Convegno nazionale delle Acli “Promuovere, tutelare, accompagnare,
rappresentare il lavoro” (Roma, 15 novembre 2007), di cui a breve usciranno gli Atti.
2 Vedi articolo di Camillo Monti nel presente numero, dal titolo Promuovere, tutelare e rappresentare il lavoro.
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Rappresentare il lavoro
frammentato1
di Giuseppe Acocella
focus
Porre attenzione alla rappresentanza del lavoro che definiamo frammentato (risultandone così frammentata la stessa rappresentanza) significa rammentare che oggi siamo in presenza di orientamenti etico-politici reazionari che arrivano a negare alla radice la rappresentanza del lavoro, sperando anzi che i soggetti che la promuovono (i sindacati) siano interessati da
un processo di autodistruzione. Si insiste molto, in queste argomentazioni
spesso speciose, sulla necessità di distinguere tra la rappresentanza dei lavoratori “garantiti” (che segnerebbe l’isterilimento e l’invecchiamento del
sindacato) e la rappresentanza di coloro che lavoratori (garantiti) ancora
non lo sono, cercando di costringere anche gli uomini e le donne del lavoro a dividersi secondo questa distinzione, disperdendo così energie e risorse in discussioni sterili, alla ricerca della soluzione di falsi problemi.
È dunque in atto un attacco molto diretto, in coerenza con questi orientamenti, persino all’articolo 1 della Costituzione. Chi frequenta i dibattiti dei
costituzionalisti sa che sempre più di frequente viene messo in discussione addirittura il principio fondamentale della nostra comunità, cioè appunto la dichiarazione costituzionale dove si afferma che «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro», la democrazia, insomma, come la intesero i Padri Costituenti, nella sua essenza fondativa.
Alla luce di queste considerazioni, c’è di che essere preoccupati per la sorte cui andrebbe incontro la stessa ragione che ha dato vita all’esperienza
sindacale e a quella di organizzazioni come le Acli, nate per dare un’anima
al movimento sindacale e oggi chiamate a farsi carico delle esigenze dei lavoratori, quindi esercitando una rappresentanza oggi messa duramente
–– Giuseppe Acocella Vicepresidente del Cnel
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sotto attacco. Non esiste caso al mondo di società in cui, privo della sua
rappresentanza, il lavoro venga tutelato. Nelle dittature non c’è mai sindacato, nelle situazioni di estrema disgregazione non c’è rappresentanza del
lavoro.
Registro, dunque, con piacere come l’orientamento diventato oggi maggioritario nell’intero sindacato sia, da un lato, di riconoscere – in pieno e senza soggezione verso partiti politici “affini” per cultura – al sindacato il proprio ruolo di soggetto che formula autonomamente proposte in virtù della legittima funzione di rappresentanza del lavoro, e dall’altro, di riconoscere al Parlamento il potere, non subalterno certo alle proposte dei sindacati, di legiferare in materia, tenendo però nel debito conto le proposte sindacali, rappresentative di una significativa area sociale.
Il clima di delegittimazione della rappresentanza del lavoro, che si sente minaccioso aleggiare, tuttavia, lo si può riconoscere anche perché accompagnato da “regalie”, somme di denaro elargite ai lavoratori quasi sempre durante le trattative contrattuali, le quali, con grande eco non disinteressata
amplificata dalla stampa, provengono da imprese come la Fiat, la Riello, la
Tod’s. Si tratta di proposte che agiscono come cloroformio per le rivendicazioni dei lavoratori. L’idea sottintesa è evidente: i lavoratori non hanno
bisogno delle rappresentanze sindacali; ci penseranno le aziende a dare loro quello di cui hanno bisogno (e, soprattutto, quando le aziende lo decideranno e considereranno utile).
Ad ulteriore riprova di tale clima e della campagna in atto, in un suo articolo un giornalista acuto come Antonio Galdo, Direttore de “L’Indipendente”, commentando un’inchiesta sui modi con cui le rappresentanze del lavoro si finanziano, prima ammette che, quando si mobilitano, i sindacati dimostrano di avere una forza e un consenso integri, poi però sostiene che
ci riescono solo perché gli introiti del tesseramento ammontano a più di 1
miliardo di euro, cifra alla quale bisogna aggiungere i ricavi di Patronati e
Caf, i quali ultimi godrebbero di una sorta di monopolio nella gestione semi-burocratica della denuncia dei redditi. Si tratta di affermazioni non provate per quanto riguarda supposti monopoli, ma che provano molto perché documentano l’adesione e la fiducia dei lavoratori verso questi servizi
sindacali, tanto più preziosi quando ci si trova in una società segnata dal lavoro frammentato.
A proposito del lavoro frammentato e della sua rappresentanza, molta attenzione è stata opportunamente riservata ai dati recentemente forniti dall’Istat e dall’Inps. Molti hanno sottolineato il fatto che il precariato rappresenterebbe una percentuale di circa l’11,8% su tutti gli occupati in Italia, e
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che quindi si attesta su una percentuale più bassa della media europea, anche se per la componente femminile tale percentuale è più alta. Spesso più
ancora che il fenomeno in sé, il dato serve per polemizzare contro o a favore della legge Biagi.Tali annotazioni, invece, dovrebbero essere sempre
accompagnate da considerazioni conseguenti, perché sarebbe necessario
sottolineare che, accanto al numero di coloro che rientrano nelle tipologie previste dalla legge che prevede forme regolamentate di lavoro flessibile, andrebbero tenuti presenti tutti coloro che della legge Biagi non riescono a usufruire, privati dunque anche delle più elementari tutele. Mi riferisco ai circa 3 milioni e mezzo di lavoratori tenuti in nero in Italia, cioè
a coloro che non godono di nessuna forma di tutela del lavoro flessibile,
vittime, loro sì, di una condizione di precariato inaccettabile. In questo senso la legge 30, con tutti i suoi limiti, ha tentato di dare regole a situazioni
prive di ogni regola.
Il mondo sindacale sta inoltre insistendo che anche i lavoratori cosiddetti
garantiti soffrono di salari e pensioni bassissime. L’uso della parola “garantiti” appare dunque impropria, perché vorrebbe far credere che la ricchezza di questo paese sia nelle mani dei lavoratori che hanno un lavoro stabile e che sono sicuri e appagati perché “godono” di un salario e avranno poi
una pensione sicura, per quanto si ammetta che, magari, è modesta.
In realtà assistiamo – talvolta rassegnati, talvolta complici – ad una forte
ondata di liberismo, che rappresenta uno dei più grandi inganni che possa
essere perpetrato ai danni delle donne e degli uomini del lavoro. Invece la
rappresentanza del lavoro è ancor in grado di manifestare, sviluppare e anzi accentuare l’attenzione verso i principi della socialità. Il fenomeno dei lavoratori “over 50” espulsi dal mercato del lavoro, e che quasi nella generalità fanno fatica a rientrarvi, mostra, da un lato, quanto sia poco garantita la
classe lavoratrice e, dall’altro, l’importanza di tener viva e incisiva la rappresentanza del lavoro. Se è stato possibile attenuare l’incidenza di questo fenomeno, per esempio attraverso forme di pre-pensionamento, bisogna ringraziare la contrattazione collettiva, perseguita dalle rappresentanze sindacali, e ora bisognosa di ulteriori competenze (penso alla discussione sulla
necessità di rafforzare il “secondo livello”).
Va però anche tenuto presente un cambiamento oggi in atto, che ha carattere antropologico e culturale prima che economico: a cinquanta anni si è
già troppo vecchi per restare nel ciclo lavorativo, ma troppo giovani per
prendere la pensione, e, d’altra parte, dal momento che la condizione giovanile si è estesa ben oltre i trent’anni (se si guarda la legislazione che consente di considerare giovane anche chi abbia trentaquattro-trentacinque
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anni), si potrebbe concludere che la fascia del lavoro attivo si sia ridotta a
pochissimi anni, una quindicina tra i trentacinque e i cinquanta anni.
Vorrei ricordare che anche quando si parla delle donne, degli immigrati e
dei giovani, si sta descrivendo un mondo complesso, ma che comunque è
il mondo del lavoro, nel quale – con un sforzo culturale e organizzativo che
non ha eguali in altri settori – la rappresentanza del lavoro si è enormemente arricchita e dilatata fino a comprendere i nuovi soggetti di cui si parlava, e c’è una parte dei lavoratori che non credo si possano definire garantiti, ma che pure entrano del sistema della difesa sindacale per la conquista
di tutele efficaci. C’è poi una parte di lavoratori che riesce appena a sopravvivere, una parte che ha conservato l’occupazione proprio grazie all’impegno sindacale, ed infine un’altra entrata da poco nel mondo del lavoro. Un
mondo variegato la cui rappresentanza è impegno difficile.
Non bisogna dimenticare d’altronde che l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro è un cosa recente. Se si prendono in mano i risultati che emergono dal Rapporto sul mercato del lavoro, presentato dal Cnel nel 2006, si
osserva infatti come l’incremento di occupazione registratosi in Italia va ricondotto precipuamente alla presenza femminile, dei giovani, all’emersione, che in qualche misura anche la legge Biagi ha consentito, di alcune forme di lavoro flessibile, e agli immigrati. Appare dunque scontato che la rappresentanza del lavoro sia andata estendendosi – con rinnovati caratteri –
a questi nuovi lavoratori. Se l’ultimo secolo ha visto – grazie all’azione del
sindacato – la possibilità per i lavoratori di vedersi riconosciute forme sempre più complete di garanzia, che li ha fatti uscire dalle condizioni di schiavitù nelle quali erano, forme nuove di garanzia vanno ulteriormente estese ad aree di lavoro, che oggi si presentano più difficili da rappresentare.
Il Rapporto Cnel sul mercato del lavoro, presentato nel 2005, tuttavia, mette in luce un altro fenomeno, che a mio avviso rende ancora più complesso il problema della rappresentanza del lavoro: il cosiddetto effetto scoraggiamento fa sì che una porzione del lavoro non si proponga affatto sul mercato del lavoro. Si tratta di un fenomeno che sta colpendo, in modo vistoso soprattutto negli ultimi due anni, i soggetti e le aree economicamente
più deboli del Paese, vale a dire le donne e il sud. I dati ci dicono inoltre
che all’arrivo del primo figlio si manifesta nelle lavoratrici una accentuata
rinuncia a restare nel mercato del lavoro; se il fenomeno dell’abbandono
del lavoro raggiunge percentuali più alte al nord rispetto al Mezzogiorno
(nonostante la migliore qualità dei servizi di sostegno nelle aree settentrionali), ciò è dovuto non solo al maggior bisogno di reddito da parte delle
donne meridionali, ma al fatto che nelle regioni meridionali la struttura fa-
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miliare riesce ancora a sostenere – ma sempre più a fatica – le necessità
che conseguono allo status familiare della donna che lavora.
La famiglia quindi – è confermato – ha un ruolo importante per il mercato del lavoro, nel senso che direttamente incide, nel bene o nel male, sulla
concreta possibilità di far entrare nuovi soggetti nel mercato. Se esaminiamo quella sorta di deriva liberista cui ho fatto riferimento in precedenza,
ci accorgiamo chiaramente che viene ribaltata la visione sulla quale é fondata la Dottrina Sociale della Chiesa, allorché afferma che deve sempre prevalere il valore della persona umana e del suo lavoro sull’urgenza produttiva e sulle necessità imposte dall’esigenza del profitto. Questa priorità oggi viene messa in discussione.
Negli ultimi anni si é tornato a discutere della Dottrina Sociale della Chiesa, spesso più negli ambienti laici che nelle comunità ecclesiali. A seguito
del disorientamento e della dispersione sociale manifestatisi dopo la crisi
delle grandi culture unificanti, negli anni Novanta dello scorso secolo, nel
mondo dell’università sono cresciute enormemente curiosità e attenzione
per il confronto tra lavoro e profitto.
Occorre però introdurre un ulteriore elemento di riflessione: è scontato
che il credente, se coerente con la fede cristiana, riaffermi la superiorità
della persona che lavora rispetto alle tentazioni della cupidigia, che sottomette la persona umana all’umiliazione e allo sfruttamento. Ma ora siamo
di fronte a un grande cambiamento epocale, che investe l’etica stessa,“rompendo” la identificazione morale tra persona e lavoro da un lato, e tra cupidigia e profitto dall’altro, ed invece instaurando un confronto che spesso
si trasforma in conflitto tra lavoro e persona (e tra profitto lecito e cupidigia). Sono insomma in gioco il senso e il significato che assume il lavoro
inerente la persona e di contro la funzione dell’occupazione come mera occasione di procacciamento del reddito (anche non necessario) più importante della persona stessa.
Chi ha seguito le più recenti discussioni sull’etica del lavoro sa che, a seconda del significato che viene attribuito al lavoro (se è per la realizzazione della persona o invece solo per i consumi che il reddito da lavoro consente), si verifica una forte differenza negli atteggiamenti di chi chiede rappresentanza nel lavoro. I lavoratori non sono più quelli dell’immediato dopoguerra, quando si consolidavano le grandi confederazioni sindacali attuali e il lavoro non fosse forse meno frammentato di quanto è oggi, anche se
con diverse caratteristiche: basti pensare a fenomeni come quello del bracciantato meridionale, caratterizzato da una forte dispersione territoriale,
specie nel Mezzogiorno, anche se unificato da una grande identità sociale.
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Infatti quella era un’area sociale che cercava la sua rappresentanza perché
non era separata e dispersa dall’individualismo e dalla subordinazione del
lavoro al consumo. C’è una bella espressione meridionale che può dare il
senso del significato del lavoro e dei fini etici che ad esso si attribuivano:
«debbo campare la mia famiglia».
Oggi invece noi assistiamo ad un rovesciamento etico, per cui il lavoratore, anche quello precario e sfruttato, non si sente solidale verso gli altri che
sono nella sua condizione, ma si sente isolato, e di conseguenza non cerca
neppure la rappresentanza del lavoro. Quando discutiamo del fatto che il
sindacato non riesce più a rappresentare tutti i lavoratori dobbiamo chiederci se quelli ai quali pensiamo nel fare queste proiezioni intendono farsi
rappresentare o se la tara dell’individualismo non abbia influenzato anche
le differenti condizioni di lavoro, diverse semmai solo per collocazione casuale. Quando parliamo dei giovani spesso lo facciamo avendo presenti le
difficoltà che incontrano, senza chiederci quali sono le loro motivazioni,
quali obiettivi e ideali prendano in considerazione.
Pensate quanto e come è cambiato il rapporto tra tempo del lavoro e
tempo personale. Oggi il lavoro non è più quell’elemento ordinatore delle esistenze che è stato fino alla mia generazione, per il quale l’imperativo era:“scegli il tuo lavoro cercandone il significato che avrà per gli altri”.
Il tempo personale sta invece diventando una dimensione primaria e alternativa alla dimensione sociale, finendo per prevalere un’accezione consumistica del lavorare di meno e guadagnare di più (impiegando meno
tempo da dedicare agli svaghi). Stanno cambiando quindi in modo rilevante i rapporti etici tra tempo di lavoro, tempo personale e finalità del lavoro stesso.
Secondo alcuni le maggiori difficoltà che si incontrano nella rappresentanza del lavoro derivano dal fatto che una rappresentanza simile si inquadra
solo in una società definibile (come è stata definita) a canne d’organo, cioè
organizzata verticalmente, per grandi categorie economico-sociali. Non
condivido questa tesi. Credo invece che anche la società di ieri presentasse i problemi di dispersione ai quali assistiamo – con connotati assai più visibili e pubblicizzati – anche oggi. Era infatti la rappresentanza del lavoro
che dava unità, non viceversa; il sindacato non si è trovato di fronte una società a canne d’organo già coesa di suo, dove inserirsi comodamente e svilupparsi. Al contrario il sindacato, le Acli, il grande associazionismo, hanno
trovato una società divisa e dispersa e le hanno dato (come ancora le danno) l’unità che nasce dal riconoscersi tra eguali legati allo stesso destino di
lotta e di ricerca della dignità.
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Il problema vero è invece costituito dalla domanda se noi siamo in grado
di trovare le motivazioni che allora erano forti, e spesso di natura religiosa. L’essere cristiani, il sentire di dover essere giudicati da Qualcuno, che ci
sarà chiesto di ogni talento sprecato, hanno spinto intere generazioni a mettersi a disposizione della giustizia sociale e a favorire l’unità, l’aggregazione
in nome della comune identità e della coincidenza dei bisogni.
La caduta della motivazione religiosa, il fenomeno della secolarizzazione (come talvolta indulgiamo sommariamente a chiamarla), non sono certo rimasti privi di effetti. La motivazione a stare insieme non ha nulla di naturale,
è conquista faticosa che deve avere forti ragioni per poter creare coesione e solidarietà. La solidarietà non nasce naturalmente, perché il peccato
originale esclude questa possibilità: si diventa solidali in ragione di una motivazione che invade il cuore e la mente, e vince sull’egoismo. La motivazione religiosa, rielaborata necessariamente alla luce della modernità – perché la divisione ideologica, e quindi anche l’appartenenza al proprio campo, era molto più forte in passato – può diventare ora più che mai un elemento decisivo a tal fine. Il constatare che la società in cui viviamo è sempre meno coesa, è ingiustamente asimmetrica, non comporta infatti la liquidazione di ogni legame sociale e della stessa solidarietà, vanificando ogni
principio sociale e civile di unificazione delle comunità.
La visione ottimistica giacobino-marxiana della natura umana, secondo cui
gli uomini, originariamente tutti disponibili e gentili l’uno verso l’altro, vengono poi resi cattivi dalla società (per cui basterà abolire lo Stato e si avrà
una società autogovernata), è stata smentita nel corso della storia in numerose occasioni. Non ci possiamo permettere di dimenticare in nessun
momento che la coesione e la solidarietà sono dure conquiste, obiettivi da
raggiungere, e non presupposti (ideologici) su cui fondare la nostra vita o
di cui lamentarci se non li troviamo immediatamente disponibili. Dobbiamo allora essere capaci di riproporre nuovi elementi di unificazione, certo
comprendendo ora bene le caratteristiche dei nuovi soggetti. Si pensi appunto al problema degli immigrati, spesso impiegati in lavori di tipo manuale, che costituiscono un inconsapevole alibi per pagare meno questo tipo
di lavoro, dal momento che, ipocritamente, sappiamo che qualcuno per pochi soldi il lavoro manuale è disposto a farlo.
Ancora una volta il salario, la rivendicazione della rappresentanza sul lavoro diventa la chiave di volta della solidarietà, senza cadere nel tranello di
contrapporre vecchie e nuove rappresentanze. I lavoratori dipendenti, che
cioè dipendono dal lavoro che fanno, sono sempre gli stessi, quale che sia il
colore della pelle. Può cambiare il colore della pelle, la faccia, persino la con-
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dizione scolastica, ma poi alla fine, quelli che non possono contrattare da
sé, individualmente (perché sono troppo deboli per farlo, anche se talvolta cedono al ricatto di chi, interessatamente, dichiara la fine del sindacato)
il proprio lavoro, saranno sempre ricattabili e si somigliano tutti.
In questa prospettiva c’è bisogno di più rappresentanza del lavoro, non di
meno, come blatera qualcuno non disinteressatamente. Io credo sia necessaria una riforma della contrattazione, cosicché è necessario cominciare a
discutere la produttività in sede periferica, e non solo in sede aziendale,
perché esiste una contrattazione territoriale – nell’ambito della contrattazione di secondo livello – che può chiamare in causa l’intervento di chi ha
responsabilità pubbliche: si pensi ad esempio agli asili nido, alla conciliazione tra tempo di vita e di lavoro per le donne, ai trasporti per coloro che
abitano in località disagiate. Occorre insomma aprire una nuova stagione
sindacale che sia in grado di spostare parte del profitto dalle imprese, restituendolo ai lavoratori.
Anche nell’ambiente dell’associazionismo cattolico serpeggia, purtroppo,
un certo ammirato elogio della asimmetria (così moderna, così attraente…). Non si tiene conto che se si sposa questa logica da una parte saranno collocati i forti e dall’altra i deboli. Nella società asimmetrica, che
non cerca di immettere elementi forti di uguaglianza (sarebbe ritenuta una
forzatura della modernità), normalmente vincono i forti. Se, come si sostiene, la pluralità di approcci culturali (esaltata fino a non saper più distinguere tra l’errore e l’orrore) nell’età della secolarizzazione si dimostra – come si dimostra – ostativa delle identità religiose (ritenute dogmatiche e
addirittura contrarie alla democrazia, vedasi le strane teorie del prof. Zagrelbevski), al contrario occorre proclamare ad alta voce (e non nel deserto delle chiuse comunità oranti) che proprio la pluralità degli approcci dell’età della secolarizzazione ci induce a riconoscere nell’identità religiosa un raro elemento di unificazione che dà fondamento alla solidarietà
associativa. Cosicché proprio il complesso di valori che ha origine dall’ispirazione religiosa oggi può fornire quella possibilità di coesione che siamo
andati perdendo.
In tal senso le Acli, il cui dna è profondamente intriso di questi valori, sono
chiamate ad un’opera di traduzione e laicizzazione delle motivazioni religiose, attraverso le esperienze concrete dei suoi soci, finalizzate a ricompattare in termini solidali la nostra comunità. La laicità non è il rifiuto dell’identità religiosa ma è la purificazione della ragione, che è possibile solo
a chi non abbia miti e illusioni, a chi sa che l’Assoluto, con la “A” maiuscola, è totalmente altro dalle miserie che illudono, che Esso non si fa conqui-
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stare dagli assoluti con la “a” minuscola: la razza, la classe, il profitto cui
spesso la ragione non guidata cede senza ritegno.
In conclusione intendo affermare che l’idea e il proposito di “rappresentare il lavoro frammentato” costituisce oggi la continuazione di un grande
ideale e di un grande progetto, in forme nuove e diverse, che non necessitano, per essere attuate, che si rinunci (come l’anticlericalismo dice sbraitando) alla propria identità. Credo che le Acli non debbano e non possano
rinunciare alla grande motivazione etica che le originò e che ancora le caratterizza, riducendo semmai la propria missione a quella di un’agenzia di
servizi (benché vada riconosciuto ai servizi il valore nobile e alto, proprio
di attività finalizzate alla costruzione di una rete associativa e solidale). Credo, invece, che questa realtà possa esprimere il meglio di sé nell’offrire il
proprio contributo all’azione di ricostruzione della coesione sociale e dei
vincoli solidaristici della nostra comunità. Auguri.
focus
note
1 Intervento tenuto in occasione del Convegno nazionale delle Acli “Promuovere, tutelare, accompagnare,
rappresentare il lavoro” (Roma, 15 novembre 2007), di cui a breve usciranno gli Atti.
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Giovani al lavoro: primi
approcci e alcuni effetti
di Andrea Casavecchia
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L’epoca del lavoro flessibile, che pian piano si sta sovrapponendo al sistema di lavoro taylor-fordista, il principe del mondo della produzione novecentesco1, coinvolge nelle sue novità sia positive che negative soprattutto
i giovani. Proprio loro si misurano, infatti, con un nuovo paradigma organizzativo in un mercato competitivo nella società delle reti2 senza potersi basare sul background esperienziale dei loro genitori, che si sono avvicinati al
lavoro in un contesto estremamente differente, né tanto meno su un bagaglio proprio di professionalità e knowhow che si acquisisce con il tempo.
Seguire le loro azioni e le loro strategie per orientarsi nel contesto mutato può significare gettare lo sguardo oltre la situazione di oggi per indirizzarsi verso possibili scenari futuri, perché la nuova generazione diventa
esploratrice in una terra impervia e poco conosciuta.
L’osservazione dei percorsi di inserimento lavorativo fornisce alcune indicazioni sulle novità circa le dimensioni della mutata relazione tra lavoro e
identità sociale.
Nel dibattito sul significato del lavoro molti autori scrivono infatti che esso ha perso la sua centralità nella società mentre nell’era fordista il lavoro
era inteso come istituzione del riconoscimento sociale3, oggi sembra rinchiudersi in un processo individualizzato teso a rapporti quasi face to face
tra datore di lavoro e dipendente sicuramente più personalizzanti, ma altrettanto meno socializzanti. Si rileva in una ricerca sui nuovi ceti popolari
che la persona «definisce la condizione lavorativa come un’esperienza sempre più “singolare” e non come parte di un processo collettivo4». Ne deriva una vulnerabilità maggiore come scrive Vando Borghi: «si allenta (fino ad
–– Andrea Casavecchia Ufficio Studi Acli
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annullarsi del tutto) l’iscrizione dell’individuo, tramite il lavoro a collettivi
dotati di uno statuto sociale che trascende i limiti del contratto individuale, si intensifica l’esternalizzazione dei costi sociali associati alla (ri)-produzione di quelle stesse competenze e capacità e si moltiplicano le condizioni di rischio che le reti sociali devono assorbire in proprio5».
Date le premesse alcuni parlano di “invisibilità dei lavoratori”, altri arrivano ad individuare la riduzione di una gran parte di loro ad una sorta di “stato servile6”, altri ancora parlano di una trasformazione antropologica, di
corrosione del carattere7. Senz’altro si deve rilevare un’attuale scarsa, se
non nulla, capacità di incidere sulla società della cultura lavoristica a favore
di quella consumistica, gli stessi status symbol si costruiscono con logiche
altre da quelle legate alle proprie professionalità8.Tra un giovane lavoratore ed uno studente non si notano nemmeno differenze nei luoghi del tempo libero, come non sembra riscontrarsi eterogeneità nelle aspirazioni o
dalle preferenze di consumo che dipendono soprattutto dalle possibilità
del portafoglio. In tale contesto ci si chiede quale identità sociale può conferire il lavoro. Questo infatti, rimane determinante per autodefinirsi9, tuttora, possiede potenzialmente un tratto identitario peculiare per le persone dato che «è nel lavorare quotidiano che l’identità dei singoli si estrinseca e che a volte si rivela10». Il lavoro aiuta la costruzione dell’identità o la
degenera11?
Risulta, allora, interessante comprendere quale importanza viene attribuita dai giovani al valore del lavoro a partire da alcuni dati circa la loro esperienza di inserimento lavorativo.
L’inserimento lavorativo dei giovani
Soprattutto il periodo di ingresso lavorativo, dopo le riforme del lavoro apportate dal pacchetto Treu e dalla Legge Biagi, è diventato estremamente
fluido, favorendo sicuramente l’entrata nel mercato e un primo accesso all’esperienza lavorativa e, in parallelo, introducendo una maggiore instabilità. Alla moltiplicazione delle figure contrattuali, derivanti dalle nuove misure legislative, si possono aggiungere altre due radicali trasformazioni.
La prima è la riorganizzazione produttiva, caratterizzata da una costante riallocazione di mezzi, persone e risorse. Simbolicamente si può rappresentare dalla costituzione dell’impresa virtuale12. Dalla ristrutturazione deriva
l’esplosione del lavoro, che oltrepassa l’azienda allargandosi «a cascata dalle medie nelle piccole imprese e dalle piccole imprese nelle filiere sempre
più intricate, sempre più lunghe e ramificate della geografia imprevedibile
e reticolare della subfornitura13». Nelle stesse fabbriche finiscono per lavo-
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rare persone appartenenti a ditte e imprese differenti14. La seconda trasformazione alla quale assistiamo è la pluralizzazione dei contenuti del lavoro.
Infatti, in quella che è stata chiamata la società della conoscenza, non scompaiono affatto le figure unskills. Si può osservare ad esempio la proliferazione dei call center o i lavori dentro McDonald’s. A queste figure se ne aggiungono e sovrappongono altre come i programmatori informatici “i nuovi metalmeccanici”, fino ad arrivare ai knowledge workers, figure che hanno
visione dei risultati e responsabilità sul prodotto.
In tale contesto i confini tra lavoro e non lavoro diventano estremamente
labili, tanto che nell’economia sommersa si aggira un gruppo di lavoratori,
che si ipotizza, possa arrivare a toccare tra il 10 ed il 15% dei dipendenti
nell’economia “visibile15”.
Moltiplicazione delle figure professionali, ristrutturazioni aziendali e pluralizzazione dei contenuti sono tre aspetti da non trascurare, quando si considerano i percorsi di inserimento lavorativo dei giovani.
Tuttavia dalla descrizione di “Rapporto Giovani”, la Sesta indagine dello Iard
sulla condizione giovanile in Italia16, emerge che le nuove generazioni si confrontano con il sistema lavorativo in modo realistico. In particolare rispetto all’inserimento lavorativo i giovani non risultano per niente spaventati
dalla “frammentazione attuale del mercato lavorativo”. Infatti se è vero che
i percorsi di ricerca sono più variegati e meno prescritti, si nota che sono
anche meno chiari e più incerti. Ci dicono gli autori della ricerca che quando affrontano i percorsi di ingresso questi giovani non se ne stanno con le
mani in mano, ma si scuotono e scommettono su loro stessi. Ci spiega il
sociologo Carlo Buzzi: «oggi i giovani sembrano impegnarsi personalmente in misura maggiore rispetto a qualche anno addietro nel processo di individuazione e selezione dei canali di accesso».
Allo stesso tempo, però le giovani generazioni rimangono fortemente legate a esperienze di lavoro temporaneo. È stato osservato ad esempio che «i
giovani assorbono quasi interamente la flessibilità del mercato del lavoro,
soprattutto quelli fino a 24 anni. Il contratto a tempo indeterminato è la modalità tra l’80% e il 90% per gli adulti, ma solo per il 36% dei giovani a 24 anni e per il 68% dei giovani fino a 34 anni. Di converso, oltre ai contratti a
causa mista (apprendistato, formazione lavoro) esplicitamente rivolti ai giovani, i contratti a tempo determinato (stagionale, interinale) riguardano per
due terzi giovani; mentre le altre tipologie di lavoro autonomo si ripartiscono in modo uguale tra le generazioni17». D’altronde scrive Accornero in San
Precario lavora per noi: «le probabilità dei venticinquenni di avere un impiego
permanente sono la metà di quelle che hanno avuto i cinquantacinquenni18».
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Il carattere fluido dell’esperienza lavorativa può cadere in una indeterminatezza nella costruzione identitaria, perché diventa difficile sentirsi completamente autonomi come diventa arduo cercare di prevedere il proprio
futuro. La condizione di flessibilità, se può aprire a ventagli di scelta ampi,
può allo stesso tempo diventare facilmente precarietà «alimentando un malessere sociale che influenza e condiziona i comportamenti individuali e collettivi […] Basta che nei giovani induca diffidenza verso l’ignoto e circospezione verso il futuro, frustrando gli stimoli a intraprendere, ad affermarsi, a
creare19».
I giovani, inoltre, vivono la loro ricerca lavorativa nel periodo di passaggio
da un sistema di “collocamento”, gestito dalla struttura pubblica in modo
centralizzato, ad un sistema misto pubblico-privato. In questo quadro di riferimento si inseriscono strumenti di ricerca tradizionali e innovativi. I giovani manifestano strategie di azione ampie e complesse: non optano per
un’unica via, ma sperimentano più percorsi, adottano modalità di ricerca
tra le più variegate sfruttando tanto le conoscenze personali e familiari
quanto le domande dirette alle aziende. Molti giovani sottolineano l’importanza delle esperienze acquisite, così, come molti studenti iniziano a lavorare spesso senza contratto o con contratti “di copertura”. Li accettano
perché considerano quel lavoro solo un’esperienza specifica e determinata, una parentesi all’interno del loro percorso di formazione complessiva20,
altre volte, purtroppo, perché non sanno a chi altro rivolgersi.
I primi approcci al lavoro: alcuni nodi critici
A partire dalle prime esperienze lavorative si possono individuare tre dimensioni nelle quali entra nel vivo la relazione tra lavoro e identità: la prima riguarda le possibilità di previsione delle prospettive di vita; la seconda
i legami e le relazioni nei luoghi di lavoro, la terza le interpretazione del significato del lavoro. Esaminando tali nodi critici si possono, però, intercettare anche delle potenzialità da valorizzare.
a) La prevedibilità di un futuro di vita
Uno dei primi elementi che mutano rispetto alle cambiate condizioni riguarda la prevedibilità dei tempi. La flessibilità del lavoro porta ad una maggiore percezione del rischio e ad una minore capacità di programmare quel
che avverrà. Scrive Dahrendorf: «il lavoro perde anche la sua capacità di
strutturare la vita individuale. Non è più realistico partire dal presupposto
che la preparazione al lavoro, il suo esercizio, le vacanze per riprendere a
lavorare e il pensionamento come meritato premio per una vita di lavoro,
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b) Le relazioni lavorative
Il processo di individualizzazione del lavoro e l’impresa virtuale, mettendo
in contatto persone che eseguono compiti e mansioni differenti e che spesso hanno ruoli, contratti, capi e datori di lavoro differenti, portano fisiologicamente ad una frammentazione dei legami all’interno dei luoghi di lavoro. A farne le spese sono in primo luogo i rapporti intergenerazionali. Si
spezza infatti la trasmissione del saper fare, ma anche del saper vivere in
azienda, tra anziani e nuovi, che a causa dei frequenti cambiamenti di impiego sono meno interessati ad imparare un “mestiere” che potrebbe essere interrotto poco dopo. In secondo luogo si riscontra una scarsa relazione tra i giovani ed il sindacato. Anche quando si prendono a riferimento i soli occupati il tasso di sindacalizzazione è del 32,2% tra i giovani fino
ai 24 anni contro percentuali che oscillano tra il 66% ed il 71% nelle fasce
che vanno dai 35 ai 64 anni24. Si nota qui una spaccatura generazionale che
il sindacato non sembra riuscire a sanare. I giovani lo accusano di dare loro scarsa attenzione specialmente rispetto alla precarietà e invece di sostenere strenuamente i lavoratori in situazioni stabili e sicure.
Sembra stia cambiando tra i giovani l’idea di socializzazione, che non è legata troppo alle relazioni con i “colleghi” o allo “spirito di squadra”, quanEnaip Formazione & Lavoro 1/2008
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siano elementi costruttivi della nostra vita21». Introducendo la variabile “flessibilità” i tempi diventano porosi e poco scanditi. Si è tentati, di conseguenza ad adeguarsi ad una logica del “carpe diem”. La vita lavorativa può diventare un mix di pause e nuovi inizi, momenti di occupazione ed altri di formazione e ricerca. Nei giovani, evidenzia l’ultimo rapporto Iard, la percezione di un’indeterminatezza nella vita lavorativa «si ripercuote a livello
economico, tramutandosi così in una sorta di condizione di precarietà esistenziale che segna pressoché ogni scelta o prospettiva della crescita di un
giovane22». Allo stesso tempo, però, i contorni indefiniti di un lavoro aprono alla possibilità di cambiare che diventava meno appetibile ai classici dipendenti a tempo indeterminato.Tuttavia l’inserimento lavorativo in un regime fluido, se facilita coloro i quali hanno obiettivi professionali chiari, rende vischioso il futuro di quelli che non hanno grandi aspirazioni. Il rischio
maggiore per loro è di rimanere chiusi in un circolo vizioso di lavoretti continui senza prospettive di crescita. In questo caso diventano essenziali dei
“fuochi di riferimento”. Oltre al carpe diem c’è una tendenza a ricalibrare
gli obiettivi lavorativi a favore di altri ambiti di vita (famiglia, comunità locale, volontariato), ricercando una migliore conciliazione dei tempi oppure,
purtroppo, spostandosi nella popolazione inattiva23.
135
to ad altre dimensioni. Dai dati tratti da Rapporto Giovani si evidenzia che
per i giovani siano interessanti soprattutto lavori che permettano maggiori possibilità espressive e maggiore relazionalità. Le loro preferenze sono
rivolte al lavoro come strumento per la comunicazione. Forse la condizione di minore stabilità porta ad attribuire maggiore importanza al contenuto del proprio lavoro rispetto all’ambiente di lavoro.
c) Un’interpretazione dei significati del lavoro25
Ritrovandosi in un contesto indefinito i giovani rispetto ai loro genitori
si pongono con più facilità e frequenza davanti alla scelta del proprio lavoro, opzione più aperta rispetto alle precedenti generazioni. Seguendo
le loro decisioni se ne può ricavare un’interpretazione del significato del
lavoro.
Nei giovani sembrano convivere due differenti nature relative al valore-lavoro: una acquista significato dalle potenzialità, derivanti dalla condizione
lavorativa, di arricchire dimensioni della vita esterne all’ambito professionale; l’altra si fonda, invece, sulle possibilità di accrescere le dimensioni di
vita interne al proprio lavoro. Ognuna di queste nature deriva da una tendenza particolare. Secondo la prima i giovani valutano la loro occupazione
soprattutto attraverso criteri hard, attinenti alle caratteristiche del lavoro
come gli orari quotidiani o le possibilità di guadagno immediato. L’orientamento prevalente preferisce il valore esterno della propria condizione lavorativa: un maggior reddito per il consumo o per l’indipendenza dai genitori; una maggiore disponibilità di tempo per la cura delle relazioni o di alcune attività (lo sport, la musica). Il lavoro, considerato un’azione orientata rispetto ai mezzi di weberiana memoria, ha valore, perché permette di
accedere a occasioni esterne ad esso.
Nella seconda tendenza riguardo al lavoro riscuotono maggior successo i
criteri soft, attinenti ai contenuti del lavoro, come la crescita professionale
o il prodotto-utilità del proprio lavoro. I giovani adottano scelte per l’azione che privilegiano il valore interno del lavoro: la possibilità di acquisire una
maggiore esperienza e formazione per migliorare il proprio curriculum all’interno dell’attività svolta o per sostenere la ricerca di lavoro, a cui si aspira; la possibilità di percepire l’efficacia del proprio operato rispetto alla società o alle persone.
Alcune possibili proposte
Da questa breve descrizione delle tre dimensioni della relazione tra lavoro ed identità sociale. Si può evidenziare che quest’ultima continua ad es-
136
focus
focus
sere influenzata dal lavoro in modo molto forte.Tra le giovani generazioni
come prima un lavoro stabile e rigido, molto spesso omogeneo promuoveva identità sociali di “massa” oggi un lavoro eterogeneo, variabile e flessibile favorisce identità più individualizzate.
Si aprono, così, vie nuove per far crescere un rapporto tra periodo lavorativo e costruzione dell’identità perché le prospettive di futuro, la conciliazione dei tempi di vita e i legami relazionali possano avviare circuiti virtuosi, possano favorire una coesione sociale che forse oggi parte dall’esterno
del mondo della produzione e non dal suo interno.
Si propongono alcune linee di intervento tese a promuovere future pratiche di lavoro in sintonia con la dignità dell’uomo.
Favorire i diritti formativi. Oggi nella società della conoscenza che richiede
un costante aggiornamento personale i giovani ci chiedono di interrogarci
su un tema basilare: come favorire una formazione continua, che rinnova i
saperi non solo quando si è fermi ai box, ma che trova spazi e riconoscimenti anche quando si è in un periodo lavorativo e soprattutto quando si
hanno contratti atipici. Inoltre nei tempi formativi è possibile instaurare legami che sembrano meno praticabili nei contesti aziendali.
Sostenere un percorso. In questa prospettiva è possibile attivare un tutoraggio di orientamento e accompagnamento per l’inserimento lavorativo: frequentemente i giovani non riescono ad elaborare un’idea chiara della strategia
da assumere. Un “tutoraggio” avrebbe invece la funzione di introdurre il
giovane in una rete di relazioni interna al mercato del lavoro, e contemporaneamente valutare le abilità e le capacità della persona magari aiutandola a calibrare il tiro della sua ricerca.
Gestire i tempi di vita. In primo luogo si tratta di ripensare e riprogrammare i tempi delle festività e del riposo che vengono spesso messi a repentaglio da una programmazione del lavoro globale, fino ad arrivare ad una diversa scansione dei tempi di lavoro rispetto ai periodi di vita: formazione
di famiglia, nascita di un figlio26, avvicinamento all’età pensionabile27.
note
1 Accornero,A., Era il secolo del lavoro, il Mulino, Bologna, 1997.
2 Castells, M., The rice of the Network society, trad. it. La nascita della società in rete, in The information age: Economy, society and culture,Vol. I, Ube, Milano, 2003.
3 Un processo che si riferisce al rapporto tra individuo ed il suo lavoro. «È nel momento in cui questo rapporto da aspetto immerso nel (e difficilmente distinguibile dal) resto delle attività sociali, assume importanza
centrale nella definizione dell’individuo stesso delle sue relazioni con gli altri, che si produce uno scarto es-
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
137
senziale, determinante dell’immagine che l’individuo moderno ha di se stesso e della sua posizione nel mondo» (Borghi,V., Esclusione sociale, lavoro ed istituzioni: una introduzione, in Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro,
Franco Angeli, Milano, 2002, p. 13).
4 Magatti, M., De Benedittis, M., I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia, Feltrinelli, Milano,
2006, p. 71.
5 Borghi,V., op. cit. 2002.
6 Si veda in particolare Gorz,A., Le metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri,Torino 1992 e Gallino L., Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Bari, 2007.
7 Sennet, R., L´uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, 2003.
8 Cfr. Articolo di Michel Maffesoli, Creazione e consumo, in Sociologia del lavoro, n 99, 2005, nel quale si sintetizzano le adesioni multiple a “piccole grandi figure” che diventano totem delle tribù e che vanno a prendere il posto delle grandi narrazioni novecentesche.
9 Touraine A., Stiamo entrando in una civiltà del lavoro, in Sociologia del lavoro, n. 80, Franco Angeli, Milano, 2000,
pp. 31-56.
10 Accornero,A., Il mondo della produzione, Il Mulino, Bologna, 1994.
11 Donati, P., Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri,Torino, 2001.
12 Accornero la descrive come un’impresa «che può operare su più continenti avvalendosi di un esiguo nucleo stabile di lavoratori intorno a cui ruotano collaboratori e aziende satelliti gestiti da reti telematiche» (Accornero,A., op. cit. 1997, p. 107).
13 Revelli, M., La grande trasformazione, in Libertà, sviluppo, lavoro, G. Mari (a cura di), Mondadori, Milano 2004,
p. 35.
14 Gallino, L., Se tre milioni vi sebran pochi, Einaudi,Torino, 1998.
15 Dato riportato in Acconero,A., San Precario lavora per noi, Rizzoli, Milano, 2006.
16 Buzzi, C., Cavalli,A., de Lillo,A., Rapporto Giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in
Italia, Il Mulino, Bologna, 2007, in particolare la Parte Prima Capitoli III e IV.
17 Carrieri, M., Damiano, C., Ugolini, B., Il lavoro che cambia. La più vasta ricerca sui lavoratori italiani, Ediesse,
Roma, 2005, p. 150.
18 Accornero, op. cit. 2006, p. 25.
19 Accornero, op. cit. 2006, p. 27.
20 Casavecchia,A., Giovani identità e lavoro, Effatà,Torino, 2007.
21 Dahrendorf, R., Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 52.
22 Iard, op. cit., 2007.
23 I dati Censis mostrano che nell’ampio universo di donne che alimentano la platea dell’inattività, le giovani
ne costituiscono ormai una componente maggioritaria: su 100 donne che scelgono di non lavorare, infatti, il
37,1% ha meno di 35 anni, il 31,6% un’età compresa tra i 35 e 34 anni, e il 29,3% più di 55 anni (Censis, 41°
Rapporto sulla situazione sociale del paese 2007, Franco Angeli, Milano, 2007).
24 I dati sono tratti da Carrieri, M., Damiano, C., Ugolini, B., Il lavoro che cambia. La più vasta ricerca sui lavoratori italiani, Ediesse, Roma, 2005, p. 97.
25 Si riportano qui le conclusioni di un’analisi condotta a Civitavecchia. In particolare si veda Casavecchia,A.,
Giovani identità e lavoro, Effatà,Torino, 2007.
26 Se si vuole un’effettiva presenza delle donne nel mondo del lavoro sarà indispensabile pensare le politiche
familiari a partire dalla ripartizione dei carichi tra i generi. Si potrebbe favorire seriamente anche il telelavoro (“miscelato” magari con tempo in azienda).
27 Si pensi alle ipotesi che vedono l’introduzione di part time concordati al posto del pensionamento.
138
focus
(Cercare di)
lavorare a 45 anni
di Alessandro Serini
Fenomeni nuovi, terminologie nuove: i lavoratori “maturi”
focus
Da tempo il mondo del lavoro ha avviato un processo di cambiamento su
larga scala che, ovviamente, arriva a coinvolgere anche gli stessi lavoratori.
Mondializzazione dei mercati, delocalizzazione della produzione, finanziarizzazione dell’economia sono tendenze strutturali che modificano tanto
il modo di produzione quanto i percorsi professionali degli individui: turn
over esasperato, rapida obsolescenza delle competenze, competitività generalizzata sono realtà che i lavoratori debbono imparare al più presto a
gestire. In questo scenario in rapida evoluzione, le imprese si trovano sempre più spesso nella condizione di dover continuamente rincorrere l’assetto aziendale adeguato agli andamenti dei mercati. Una difficile alchimia gestionale che a colpi di ristrutturazioni interne ricerca la “pietra filosofale”
della competitività sempre e comunque. In aggiunta, negli ultimi anni la parola “flessibilità”, da vocabolo aziendale, è divenuta parola d’uso comune
presso la gran parte del pubblico, generando un dibattito che appassiona
politici, analisti e commentatori; tuttavia, la discussione sulla via italiana alla flessibilità spesso, concentrandosi sulle difficoltà dei “giovani”, tralascia di
rimarcare come i nuovi assetti produttivi investano anche i segmenti anagrafici superiori. Il lavoro cambia e il mutamento coinvolge anche soggetti
in piena maturità professionale: lavoratori che hanno iniziato la propria carriera nell’epoca delle tutele e dei diritti e che si trovano oggi di fronte ad
un mondo del lavoro dalle oscillazioni imprevedibili. Mentre il sistema previdenziale italiano innalza la soglia di pensionamento a 58 anni, sempre più
individui si ritrovano a dover fare i conti con una prospettiva inedita, quel–– Alessandro Serini Ricercatore Iref
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
139
la di riconsiderare la propria posizione lavorativa una volta passati i quarant’anni. Significativo, in tal senso, è l’andamento del tasso di occupazione
per classi di età (Tabella 1).
Tabella 1
Tasso d’occupazione in Italia nel 2005, per macroaree e classi d’età, %
Italia
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
Isole
15-24
anni
25,7
33,8
36,0
25,5
17,6
17,8
25-34
anni
69,4
82,0
82,7
72,7
51,4
52,3
35-44
anni
76,3
84,5
85,5
80,6
61,8
62,1
45-54
anni
70,6
76,6
77,3
74,8
60,4
58,8
55-64
anni
31,4
28,7
29,9
35,1
32,3
32,6
Fonte: Eurostat (Lfs – Labour Force Survey)
Al di là delle differenze territoriali, che ben si conoscono, si nota come l’andamento del tasso di occupazione nazionale è crescente fino alla classe di
età 35-44 anni, dove tocca la punta del 76,3%; dopodiché scende al 70%
nella classe successiva, per crollare al 31,4% nella fascia d’età che va dai 55
ai 64 anni. Un andamento simile caratterizza i tassi delle diverse ripartizioni territoriali. In sostanza, avere 45 anni costituisce uno spartiacque, un prima e un dopo che connota il mercato del lavoro come realtà non unitaria
ma duale, con dinamiche specifiche per i due “lati” della piramide: ascendente per i giovani e gli adulti attivi ultratrentenni; discendente per coloro
che hanno superato i quaranta - quarantacinque anni. Nell’Italia definita del
“declino” potrebbe rivelarsi come l’ennesima notizia sconfortante che caratterizza l’attuale panorama italiano; nondimeno, l’andamento duale rappresenta una tendenza che accomuna anche gli altri paesi europei, sebbene con una dinamica più attenuata e con una maggiore tenuta del mercato dei “senior” (Tabella 2).
140
focus
Tabella 2
Tasso d’occupazione di alcune nazioni europee, per classi di età, % (2005)
Danimarca
G.Bretagna
Francia
Olanda
Germania
Europa a 15
Irlanda
Belgio
Italia
Grecia
Spagna
15-24
anni
62,3
54,0
29,6
65,2
42,0
39,7
48,7
27,5
25,7
25,0
25-34
anni
81,8
80,2
76,6
85,3
72,9
76,2
81,5
80,1
69,4
74,1
35-44
anni
86,6
81,9
80,8
83,6
80,3
80,0
77,5
81,5
76,3
77,8
45-54
anni
84,9
81,3
80,0
80,0
77,7
76,7
73,6
73,3
70,6
69,8
55-64
anni
59,5
56,9
37,8
46,1
45,4
44,1
51,6
31,8
31,4
41,6
38,3
76,8
75,9
69,4
43,1
La tabella è stata ordinata per tasso di occupazione nazionale dai 45 ai 54
anni, in senso decrescente. Come si può vedere, la Danimarca ha il maggior
tasso di lavoratori ultraquarantacinquenni nell’Europa a quindici (84,9%),
mentre la Spagna ha il tasso minore (69,4%). L’Italia è terz’ultima, poco distante dal paese iberico (70,6%). Ad uno sguardo d’insieme, si noterà la somiglianza dei diversi andamenti con la caratteristica figura a piramide del
mercato italiano.Tuttavia, il tasso degli ultraquarantenni decresce in modo
attenuato in paesi quale la Danimarca, la Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda. In sostanza, la fuoriuscita di lavoratori senior dai rispettivi mercati del
lavoro è meno “violenta” che in Italia.
Ora, quali sono le ragioni di queste differenze? Perché il calo occupazionale in Italia, con l’avanzare dell’anzianità lavorativa, è più rapido che negli altri paesi? Inoltre, quella dei lavoratori senior in Italia è sempre stata una
tendenza anomala? La risposta è no, non è sempre stato così. In realtà, il
mutamento della composizione interna delle forze lavoro in Italia è un’onda lunga, che parte dagli inizi degli anni Novanta e prosegue negli anni successivi, come si evince dal grafico seguente.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
focus
Fonte: Eurostat (Lfs – Labour Force Survey)
141
Grafico 1
Tasso di occupazione degli over 55, femminile e totale in Italia, 1995-2006, %
Fonte: Eurostat (Lfs – Labour Force Survey)
Ad uno sguardo d’insieme, si nota come il tasso di occupazione generale è
andato crescendo dal 1995 ad oggi – cosiccome il tasso di occupazione
femminile. Al di là delle valutazioni di merito, la riforma del mercato del lavoro ha indubbiamente aumentato il numero di occupati. In controtendenza, invece, si muove il tasso degli over55, che è andato decrescendo fino al
2001 (dal 44,6% al 40,4%, un calo di quattro punti percentuali) per poi ritornare negli anni ai livelli del 1996. Se di anomalia si tratta – quella dei lavoratori senior – lo è stata a partire dagli anni Novanta. Data l’età delle
persone prese in considerazione in tabella, certamente un ruolo importante nel calo è da attribuire alle diverse riforme delle pensioni che si sono
attuate da metà degli anni Novanta in poi. Chi ha potuto usufruire di “finestre” o di “scivoli” per fuoriuscire dal mercato del lavoro, ne ha usufruito.
Inevitabilmente, ciò ha condizionato il tasso di occupazione di questa particolare fascia di lavoratori.Tuttavia, la riforma delle pensioni non è l’unica
causa a spiegare il mutamento in atto, almeno in Italia. Se chiediamo agli imprenditori italiani, oggi, quanti lavoratori oltre i 44 anni sono disposti ad as-
142
focus
sumere, essi vi risponderanno 1,8 ogni 100 assunzioni. Sì, quasi due ogni
100 assunzioni (Tabella 3).
Tabella 3
Assunzioni previste dalle imprese per il 2007 per classe di età, settore di attività, ripartizione territoriale e classe dimensionale, valore assoluto e %
Assunzioni
previste 2007
(v.a.)
Totale
35-44
Oltre
anni 44 anni
Non
rilevante
25-29
anni
30-34
anni
839.460
11,9
25,8
14,1
7,4
1,8
38,9
329.140
206.210
122.930
510.320
13,4
13,3
13,5
11,0
23,1
26,3
17,8
27,5
16,2 9,1
16,4 8,3
15,7 10,4
12,8 6,3
2,3
2,1
2,7
1,5
35,9
33,6
39,9
40,8
236.260
205.090
173.530
224.580
11,9
11,4
12,4
12,2
27,2
24,7
25,8
25,3
14,0
14,3
13,6
14,5
7,3
7,1
8,4
6,9
1,6
1,5
2,0
2,3
37,9
41,1
37,8
38,8
353.230
168.040
127.690
45.580
144.920
18,3
9,3
3,7
6,8
8,4
23,3
21,5
24,1
32,6
36,1
14,1
17,3
17,1
12,7
8,3
8,6
9,6
7,5
5,8
2,2
2,4
2,8
1,3
0,6
0,3
33,2
39,4
46,4
41,5
44,7
focus
Settore produttivo
Industria
Industria in senso stretto
Costruzioni
Servizi
Ripartizione territoriale
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud e Isole
Classe dimensionale
1-9 dipendenti
10-49 dipendenti
50-249 dipendenti
250-499 dipendenti
500 dipendenti e oltre
Classi di età (valori %)
Fino a
24 anni
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2007
Si tratta di una percentuale esigua. È pur vero che siamo in presenza di dichiarazioni di assunzione, non di assunzioni vere e proprie.Tuttavia, non c’è
ragione di credere che un’azienda modifichi radicalmente le proprie intenzioni sulle politiche del personale al punto tale da ribaltare totalmente queste indicazioni. Gli ultraquarantenni non sembrano essere molto appetibili, almeno in Italia. In sostanza, finché rimangono dentro il mercato del laEnaip Formazione & Lavoro 1/2008
143
voro non hanno nulla da temere: semplicemente, cambiano lavoro. Se però, per qualsiasi ragione, dovessero fuoriuscire dal perimetro lavorativo ed
entrare in una condizione di disoccupazione, per alcuni di essi si prospetterebbe lo spettro della disoccupazione cronica.
Scarsamente appetibili
Dunque, c’è da chiedersi da che cosa derivi questa scarsa attrattiva degli
ultraquarantacinquenni. A ben vedere, essa si colloca nel contesto della seconda ristrutturazione del settore industriale italiano, che fa seguito a quella degli anni Ottanta, con il conseguente carico di tagli al personale e di ingresso dei lavoratori nel mondo della disoccupazione. I continui ribaltamenti d’organigramma interessavano (e, per certi aspetti, interessano) spesso i
lavoratori più maturi, che si ritrovano in tal modo esclusi dai piani aziendali. Secondo molti osservatori, le cause di questo fenomeno sono riconducibili a fattori di natura diversa, di carattere tecnico-organizzativo e culturale insieme.
Innanzitutto, sul fronte tecnico, negli ultimi quindici anni si è assistito al progressivo ingresso della tecnologia digitale nelle aziende. Ciò ha comportato il crescente innalzamento del livello di meccanizzazione dell’informazione (e quindi del controllo) nei processi di produzione, con la conseguente
svalutazione strategica dei livelli aziendali addetti alla supervisione e al controllo. Orbene, i ruoli e le mansioni che sono stati svuotati di contenuto e
in parte assorbiti dai ruoli dirigenziali da un lato e operativi dall’altro sono
proprio quelli occupati storicamente da personale ultraquarantenne1. A distanza di anni, l’appiattimento degli organigrammi ha toccato anche le grandi aziende italiane2.
Inoltre, un ulteriore mutamento riguarda l’intensificazione e la “densificazione” dell’attività produttiva, con l’aumento dei carichi di lavoro e degli effetti usuranti3 Esemplare, a tal fine, è l’introduzione della nuova metrica del
lavoro negli stabilimenti Fiat, denominato “Tmc 24”. In sostanza, la riduzione del tempo di lavoro per ciclo sembra favorire fasce d’età più fresche, in
grado di reggere la fatica della nuova organizzazione produttiva. Alla luce
di ciò, si comprende il processo di ringiovanimento ad un tempo psico-fisico e tecnologico in atto in molte aziende del settore industriale.
Infine, altro fattore di cambiamento in atto nel mondo del lavoro riguarda
la svalutazione culturale dell’anzianità lavorativa. Essa si fonda su un corpo
di affermazioni, evidentemente condivise, che mira a gettare discredito sui
lavoratori anziani. Si presume, ad esempio, che essi siano meno produttivi
dei giovani - ipotesi rafforzata dai cambiamenti in atto nelle imprese, come
144
focus
focus
accennato. Per di più, si presume che essi siano più avversi ai rischi ed abbiano competenze e capacità oramai obsolete per aziende che operano in
mercati sempre più mutevoli e dinamici5.
Ad onor del vero, non vanno sottovalutati taluni interessi che le imprese
difendono nel sostituire i lavoratori anziani con i lavoratori giovani: il costo del lavoro di un giovane è minore, poiché non vi sono costi aggiuntivi
legati all’anzianità; inoltre, gli adulti hanno vissuto una socializzazione politica e sindacale maggiore rispetto ai loro colleghi più giovani, sviluppando
una filosofia lavorativa più rivendicativa nei confronti dei datori di lavoro6;
infine, la struttura del costo del lavoro si è andata flessibilizzando negli ultimi anni, con la sostituzione di vecchie tipologie di contratto, più rigide e
costose, con nuove tipologie, più economiche.
Da quanto illustrato sinora, emerge con chiarezza come quella dei lavoratori maturi non sia solo una questione di mismatch tra giovani (e donne)
da una parte e lavoratori anziani dall’altra, quanto piuttosto un problema
multiforme, che chiama in causa tanto la struttura del mercato quanto un
slittamento complessivo del significato del lavoro. Non a caso oggi si parla
di mercato del lavoro e non più di mondo del lavoro. Pensare ad un lavoratore senior, o ad un disoccupato senior, come tendenzialmente non funzionale ai nuovi assetti aziendali globalizzati è un atteggiamento diffuso a
vari livelli del sistema produttivo italiano.
Inversione di marcia
Che cosa fare dunque, per far sì che si possa invertire l’attuale tendenza e
si possa recuperare il gap che ci separa da paesi quali Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi?
Certamente, la questione della (buona) occupazione giovanile è un tema
caldo del dibattito pubblico; d’altra parte, sono oramai maturi i tempi per
porsi domande che estendano la questione all’intera classe dei lavoratori:
quale sorte attende quei lavoratori che da un giorno all’altro si trovano tagliati fuori dal turbillion produttivo? Senza trascurare che la disoccupazione
adulta tende a colpire in modo più pesante i lavoratori con qualifiche più
basse; come favorire l’occupabilità di soggetti così deboli? In buona sostanza, è possibile risolvere il paradosso del lavoratore senza lavoro? Persone che
nel pieno della vita activa si ritrovano improvvisamente private della propria occupazione? Proviamo qui ad esporre alcune considerazioni, indicative, certamente non esaustive, frutto degli sforzi intrapresi in questi anni
in Italia e all’estero in materia di politica del lavoro e frutto altresì di analisi dibattute nel mondo accademico.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
145
Innanzitutto, è evidente che l’innesco dell’intero processo sia la disponibilità delle aziende a riconsiderare la propria posizione sui lavoratori over
45. Sorprende la rarità nel trovare aziende che investano in progetti specificamente calibrati su candidati maturi. C’è da dire che timidi segnali provengono da alcune aziende medio-grandi del Nord Italia. La Mondadori Printing, ad esempio, crea gruppi di condivisione delle conoscenze tra over35
e giovani, dimostrando in tal modo di valorizzare la memoria aziendale a
favore delle nuove leve; oppure la società di assicurazione Pramerica, del
gruppo Prudential Insurance, che nel 2007 ha investito risorse e tempo nell’assunzione di oltre venti lavoratori tra i 40 e i 55 anni, al termine di un
percorso di selezione che ha visto coinvolti oltre 600 ultraquarantenni.
L’esperienza di queste imprese dimostra come si possa investire strategicamente, con candidature collettive, anche su ultra-quarantenni in cerca di
occupazione; non per beneficienza, ma in virtù del contributo specifico che
possono dare alla crescita dell’impresa.
Ci si chiede se esperienze del genere siano replicabili altrove. Probabilmente sì, ma a condizioni lavorative diverse dal passato. Il futuro dei lavoratori maturi fuoriusciti dal mercato del lavoro (o di quelli a rischio)
potrebbe passare per l’apertura di nuovi spazi produttivi, nuovi mercati
per i quali le aziende avranno bisogno di profili di esperienza per organizzare la loro attività. In tal senso, il settore terziario potrebbe trainare
nuova occupazione di lavoratori senior. Da parte loro, i disoccupati maturi dovranno probabilmente abbandonare le vecchie certezze e i vecchi
modelli di lavoro – contratti di lavoro tradizionali, prassi lavorative consolidate – ed essere disposti a lasciarsi guidare verso nuovi modelli di lavoro, finalizzati ad esaltare quanto di buono hanno fatto nel tempo, ma in
contesti ridefiniti.
Sul fronte delle azioni da intraprendere, probabilmente gli attuali strumenti di contrasto della disoccupazione devono essere maggiormente corrispondenti alle caratteristiche del mercato dei senior. La formazione continua è una condizione assolutamente necessaria (anche se non sufficiente,
purtroppo) per mantenere elevata la capacità di occupabilità di un paese.
L’Italia sconta un certo ritardo nell’aggiornamento professionale dei lavoratori ultraquarantacinquenni, con tassi di partecipazione alla formazione
del 6%; una percentuale ben al di sotto dei tassi scandinavi, dove si arriva
al 23% della Finlandia (nuovo polo tecnologico europeo) o al 29% della Danimarca – il mercato del lavoro più flessibile del continente (dati Eurostat,
2007). Se alla rigidità culturale delle aziende nell’assumere lavoratori maturi si aggiunge anche un ritardo nell’aggiornamento professionale dei la-
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voratori, è chiaro che la tendenza alla sottoccupazione di quest’ultimi difficilmente si invertirà nel breve termine.
Per quanto riguarda la ricerca del lavoro, è importante che i dispositivi di
intermediazione siano tarati sulle necessità del lavoratore maturo, necessità diverse dal giovane: la persona matura ha un’esperienza consolidata, da
valorizzare; il giovane si sta invece formando. Politiche di assunzione basate su chiamate numeriche sono adatte a profili di lavoro generici, indifferenziati, giovani. È pur vero che la chiamata numerica è stata abolita con la
riforma dei centri per l’impiego; tuttavia, in tali centri si ha a volte l’impressione che questa logica permanga tuttora. Con ciò si limita le possibilità di
ricollocamento di persone con una robusta esperienza lavorativa alle spalle, per le quali sono più adatti strumenti quali il colloquio individuale e le
schede anagrafiche personalizzate di richiesta di lavoro.
In aggiunta, chi cerca lavoro a 50 anni ha un progetto di vita avviato (famiglia, mutuo, spese varie), che non può essere interrotto con l’interruzione
del lavoro. Occorre pensare a politiche di sostegno immediato al reddito
della persona in caso di messa in discussione del suo lavoro, qualora la sua
liquidazione e l’eventuale buonuscita non siano sufficienti a tamponare
l’emergenza che si viene a creare. Si pensi ad esempio ad una indennità in
caso di reddito intermittente.
In generale, le fonti di informazione sul lavoro vanno affinate ed integrate,
allo scopo di instaurare un dibattito politico su dati certi e condivisibili. Ad
oggi, è difficile trovare dati statistici sul lavoro approfonditi e articolati che
riguardino classi di età come quelle dei 45-54enni e dei 55-64enni. La disponibilità di informazioni puntuali ed affidabili sulla questione permetterebbe al dibattito politico di concentrarsi meno su posizioni ideologiche e
più su questioni reali. Ne guadagnerebbero la credibilità delle istituzioni e,
indirettamente, le tasche dei contribuenti, giacché le risorse pubbliche per
l’impiego troverebbero una destinazione mirata e maggiormente efficace.
Infine, le imprese. Aprire nuovi spazi produttivi crea le condizioni per una
maggiore occupabilità di persone con esperienza lavorativa alle spalle. Si potrebbe pensare, in tal senso, a forme di incentivazione – esenzioni fiscali, sgravi contributivi – per quelle imprese che intendano aprire nuovi mercati usufruendo del contributo di neoassunti senior. Le attuali politiche europee del
lavoro sono di natura attiva e prevedono il sostegno all’occupazione attraverso la valorizzazione della produttività dei lavoratori delle imprese.
Solo se questi ultimi verranno accompagnati e non lasciati soli sarà per loro possibile risalire il crinale della centralità sociale e riacquistare quella dignità di uomini, prima che di lavoratori, che rischiano di vedere dissolversi
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a causa di cambiamenti epocali di cui essi, in larga parte, sono stati soltanto passivi spettatori. Al di là dei singoli aspetti e delle specifiche misure che
si potrebbero adottare, è opportuno iniziare a discutere la questione del
lavoro maturo senza falsi pudori, coinvolgere senza timore il grande pubblico nel dibattito; creare in tal modo un clima d’opinione in grado di orientare le scelte pubbliche – e le iniziative private – nella direzione di una sempre maggiore occupazione delle forze di lavoro attive del paese.
note
1 Testimonianza di questo cambiamento è l’appiattimento, negli anni Novanta, degli organigrammi di grandi
aziende, come ad esempio Ibm e Coca Cola: in particolare, a fronte del mantenimento del livello dirigenziale
e del livello operativo, si è assistito al taglio di interi livelli intermedi della piramide gerarchica. Per un approfondimento dell’argomento si veda C. Meyer, S. Davis, Blur, Milano, Olivares, 1999; cfr. Anche T.A. Stewart, Il
capitale intellettuale, Firenze, Ponte alle Grazie, 1999.
2 Si veda F. Pirone, La regolazione della transizione dal lavoro alla pensione, convegno su “I sensi della ricerca: interdisciplinarietà e temi di frontiera negli studi di popolazione”, Roma, 1-3 dicembre 2004.
3 Un’analisi lucida si trova in L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Bari, Laterza, 2001, p.72-78.
4 «Con la nuova metrica i lavoratori vedono accrescere i ritmi ed i carichi di lavoro, la cadenza nelle linee di
produzione si esaspera e le pause diminuiscono. La velocità di esecuzione (il cosiddetto rendimento), che con
la precedente metrica Tmc1 era espressa in 133,33 centesimi di minuto, ora passa a 163, 38 centesimi. […]
Per fare un esempio, alla “Carrozzeria” di Mirafiori, se prima dell’introduzione del “tmc 2” un operaio doveva lavorare su 250 autovetture al giorno, ora deve lavorare su 292. Si costringe cioè l’operaio a far entrare in
un turno una più grande quantità di lavoro». La citazione è tratta da una testimonianza di un operaio della
Fiat, resa pubblica su www.geocities.com/scintilla_mail/progresso.htm.
5 Ne consegue che «man mano che le esperienze di un individuo si accumulano, perdono anche di valore.
Ciò che un lavoratore anziano ha imparato negli anni sul conto di una particolare azienda o professione può
andare contro il nuovo indirizzo dettato dai superiori».Tratto da R. Sennett, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 2001, p.94.
6 Si noti, a tale riguardo, la seguente affermazione, tratta da una intervista ad un operaio Fiat: «E poi, con quelli più anziani come me, ad esempio, non si può fare come se si trattasse di un giovane entrato da poco, perché anche se c’è l’attaccamento al lavoro e all’azienda, non ti fai comandare a bacchetta».Tratto da F. Pirone,
La regolazione della transizione dal lavoro alla pensione, convegno su “I sensi della ricerca: interdisciplinarietà e
temi di frontiera negli studi di popolazione”, Roma, 1-3 dicembre 2004, p.12. Sulla stessa lunghezza d’onda si
colloca il già citato Sennett, il quale afferma che «dal punto di vista dell’istituzione, la flessibilità rende i giovani più malleabili in termini sia di assunzione di rischi sia di immediata sottomissione». R. Sennett, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 2001, p.94.
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Conciliazione dei tempi
di vita e di lavoro
L’esperienza di un progetto europeo
di Simona Bartolini, Cristina Morga, Federica Volpi1
Introduzione
focus
Il viaggio nel nuovo millennio della famiglia può essere facilmente paragonato ad un tour di rafting piuttosto che ad una tranquilla crociera in acque
miti. Le famiglie sono chiamate ad elaborare numerose strategie innovative per gestire una realtà in rapido mutamento e che può essere definita –
usando un termine del sociologo tedesco Ulrich Beck – come una società
del rischio. La ormai decretata partecipazione delle donne al mercato del
lavoro tende a scontrarsi con il ruolo centrale che ciascuna ricopre all’interno della famiglia: una funzione tradizionalmente accordata al mondo femminile che si traduce il più delle volte in una netta sproporzione, a sfavore
delle donne, nella distribuzione dei carichi e delle responsabilità familiari,
nonché in una loro posizione di svantaggio sul fronte professionale. La gestione del tempo è uno dei più rilevanti fattori critici su cui si gioca l’interazione tra l’universo familiare e il mondo della produzione; stando, infatti, ai ritmi serrati con cui i membri affrontano la quotidianità, la difficoltà di
conciliare i tempi del sé e della famiglia con quelli lavorativi, nella maggior
parte dei casi, ha notevoli ripercussioni sull’organizzazione, sulle relazioni
familiari e conseguenze non trascurabili sui costi sociali. Queste osservazioni hanno rappresentato il punto di partenza delprogetto “2Reconciliate: verso un’effettiva conciliazione fra vita familiare e vita lavorativa” che è
stato finanziato dalla Commissione Europea (Direzione Generale Occupazione e Affari Sociali), nell’ambito del programma concernente la strategia
comunitaria in materia di parità fra uomini e donne. Il progetto, promosso
e coordinato dall’Associazione portoghese Fernão Mendes Pinto, è stato
–– Simona Bartolini e Cristina Morga Ricercatrici Iref, Federica Volpi Ricercatrice Ufficio Studi Acli
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realizzato tra il 2002 e il 2004, coinvolgendo partner transnazionali quali la
Grecia, la Spagna, l’Olanda e l’Italia. Le attività del progetto hanno previsto
una fase di ricerca in ogni singolo paese sullo stato delle pari opportunità
e della conciliazione tra la vita familiare e quella lavorativa, a seguito della
quale si è realizzato uno studio comparativo tra i paesi europei interessati dalla ricerca. Inoltre, sono state previste campagne di sensibilizzazione/informazione per datori di lavoro, lavoratori/lavoratrici e rappresentanti sindacali, anche nel tentativo di individuare delle buone pratiche nel campo
delle pari opportunità da segnalare in ambito europeo.Tutte le campagne,
comunque, hanno beneficiato del supporto di una brochure legislativa in
tema di pari opportunità e conciliazione dei tempi, elaborata per l’occasione in ogni paese coinvolto indipendentemente. Infine, è stata avanzata la
proposta di costruire percorsi didattici in tema di pari opportunità rivolti
alle scuole materne, realizzati attraverso il contributo di materiale pedagogico elaborato allo scopo.
Uno sguardo sulla conciliazione dei tempi: esiti della ricerca
In epoca odierna, la famiglia rappresenta un universo plurale in cui professioni, luoghi e tempi si intrecciano, rincorrendosi a ritmi frenetici, riuscendo solo a tratti ad armonizzarsi con i moderni processi di produzione. Da
queste premesse muove l’indagine condotta dall’Iref in Italia, nell’ambito del
progetto europeo “2Reconciliate”, che si inserisce nel più generale quadro
delle vicende legate alla parità di genere e alla conciliazione dei tempi fra
vita familiare e professionale. Nel dettaglio, la ricerca si sofferma sullo stretto legame che intercorre tra la dimensione lavorativa e il tema della conciliazione, rilevando in che misura la richiesta di uomini e donne di “liberare tempo” per gli impegni familiari trovi un’adeguata corrispondenza in modelli di organizzazione aziendale adattabili alle richieste del mercato e, al
contempo, sensibili ad una cultura della conciliazione. Ci si è proposti, tra
l’altro, di aprire uno spazio di analisi e riflessione più ampio riguardo un tema complesso, (quello della conciliazione) che investe diverse sfere della
vita quotidiana di una famiglia, nel nostro paese così come negli altri paesi
europei interessati dal progetto: le dinamiche dei ruoli fra uomini e donne
all’interno del nucleo; l’articolazione della vita professionale e del lavoro di
cura; la gestione dei tempi e degli spazi nei centri urbani; la funzione assunta dalle imprese e dal mercato del lavoro; l’erogazione dei servizi di welfare. A tale scopo, sono state realizzate delle interviste semi-strutturate rivolte a lavoratori (uomini e donne, con figli), a datori di lavoro, a responsabili di organismi aziendali di pari opportunità e a rappresentanti sindacali,
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che svolgono la loro attività professionale in imprese di grandi, medie e piccole dimensioni, in enti non profit e nella pubblica amministrazione. In particolare, per quanto concerne l’Italia, le organizzazioni lavorative interessate sono state accuratamente selezionate in base al criterio supplementare
della distribuzione geografica, in modo da coprire l’intero territorio nazionale. Nello specifico, i risultati della ricerca in Italia restituiscono un’immagine caratterizzata da lavoratori e lavoratrici che si trovano sulla soglia critica relativamente alla capacità di gestire e conciliare i tempi di vita con
quelli professionali: riescono con molta fatica a rispettare, in tempi compressi al massimo, impegni e responsabilità sul duplice fronte familiare e lavorativo che li vede protagonisti. Soprattutto, si è messo in evidenzia come tale situazione venga valutata alla stregua di un problema che investe
ogni coppia, i cui membri siano impegnati in qualche attività professionale,
a prescindere dalla presenza o meno di figli, anziani o disabili a carico. A
ciò si aggiunga una rassegnazione e una forte propensione a rinunciare ai
servizi pubblici, a volte anche a causa della diffusa convinzione che le problematiche familiari competano unicamente ai componenti del nucleo. Sorretti da tale visione, uomini e donne italiani, imbrigliati nelle maglie del “fai
da te”, ricorrono a soluzioni di tipo privato, con conseguente dispendio di
risorse economiche; oppure, come accade il più delle volte, sono spinti ad
affidarsi all’aiuto proveniente da parenti ed amici. Malgrado si intravedano
mutamenti lenti ma inesorabili, volti ad una ridefinizione dei ruoli e dei compiti di uomini e donne, all’interno del nucleo familiare le strategie di conciliazione dei tempi sembrerebbero costituire ancora una preoccupazione
tutta al femminile. Si tratta di una situazione che sottopone le donne a pressioni spesso difficili da sostenere, inducendole, non di rado, a sperimentare un senso di inadeguatezza nell’esercizio della propria professione, quando non addirittura a rinunciare alla realizzazione di un proprio percorso di
carriera, per rispondere alle necessità dell’organizzazione domestica e familiare. Del resto, l’opportunità di considerare l’affermazione professionale di entrambi i partner come un aspetto importante, promuovendo una
condivisione più equilibrata dei carichi familiari fra i sessi, sembrerebbe una
tendenza riscontrabile più che altro nelle giovani generazioni, le quali, seppure con riserva, appaiono esprimere una maggiore sensibilità verso questi temi. Sul fronte delle realtà lavorative che accolgono uomini e donne, i
risultati della ricerca non evidenziano uno scenario particolarmente confortante. Sotto questo profilo, sembra affiorare in Italia un quadro piuttosto variegato, che a grandi linee tende a riprodurre alcune note demarcazioni all’interno del paese: a fronte di organizzazioni lavorative che manife-
151
stano una discreta sensibilità verso le misure di conciliazione e di pari opportunità (soprattutto al Centro-Nord), si rintracciano realtà in cui una timida apertura nei confronti di questi argomenti si alterna a più marcate resistenze culturali, ciò specie al Sud. Malgrado tutto, non appena si tenta di
superare la logica delle differenze territoriali per tratteggiare una situazione complessiva, non si può comunque fare a meno di rilevare una discontinuità nell’impegno delle aziende, che tendono ad affrontare la questione
della conciliazione e delle pari opportunità su un piano ancora prettamente ideologico, sovente di difficile traduzione in iniziative concrete e/o di ampio raggio. Questa affermazione trova un suo riscontro (fra i diversi aspetti analizzati dalla ricerca) già a partire dalla scarsa capacità, soprattutto da
parte delle aziende private, di informare il personale riguardo i propri diritti e doveri in tema di conciliazione e pari opportunità (soprattutto sulla legge 53/2000); d’altro canto, il settore pubblico sembrerebbe più incline a rispettare gli adempimenti in materia di informazione, riscontrando
una discreta soddisfazione da parte dei propri lavoratori.
In sostanza, pur non mancando esperienze degne di nota, l’implementazione delle misure di conciliazione dei tempi da parte delle imprese, soprattutto quelle finalizzate a coniugare la maternità con la carriera lavorativa
delle donne, appare come un processo che stenta ad andare a regime. In
Italia, rispetto a quanto non avvenga in altri paesi europei coinvolti nel progetto, non sembrano infatti essersi aperti ancora gli spazi sufficienti per incentivare l’adozione di misure e strategie atte a promuovere interventi di
conciliazione, favorendo un maggiore bilanciamento fra i generi. D’altronde, la conciliazione dei tempi fra lavoro e vita familiare costituisce uno degli aspetti determinanti della più ampia questione inerente le pari opportunità tra uomini e donne. In particolare, la conciliazione, configurandosi
come un possibile strumento preventivo all’insorgere di fenomeni di discriminazione ed esclusione (a danno delle donne) nei luoghi di lavoro, potrebbe rappresentare la chiave di volta per ripristinare un effettivo equilibrio
tra i generi, agevolando uomini e donne nell’adempimento delle proprie responsabilità familiari. Appare pertanto chiaro come la modesta realizzazione di interventi di conciliazione nei luoghi del lavoro possa dispiegare i propri effetti negativi non solo nel senso di un deterioramento del clima organizzativo, ma anche (e soprattutto) nei termini del rafforzamento della
disparità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici. Dunque, si prospetta all’orizzonte ancora un lungo lavoro di sensibilizzazione che sappia proporsi come stimolo ad un impegno costante da parte delle imprese e alla diffusione di una cultura della conciliazione. Soprattutto, sembrerebbe esse-
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focus
re giunto il momento di approcciarsi al tema, nei luoghi di lavoro stimolando il monitoraggio dei costi e dei benefici delle misure di pari opportunità
e di conciliazione, come già avviene in altri paesi europei, dove infatti sono
state assunte come parte integrante delle strategie di competitività delle
aziende.
Le campagne di sensibilizzazione:
come far diventare costume una norma
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focus
Ricostruire il quadro odierno, europeo e nazionale, della conciliazione dei
tempi è un compito arduo, ma è necessario accennare ad alcuni cambiamenti di fondo per comprendere il contesto in cui il progetto si è mosso,
specialmente nella fase delle campagne di informazione e sensibilizzazione.
Allo stato attuale l’Unione europea considera la conciliazione un termine
chiave, attraverso il quale tenta di mettere a fuoco e a tema un problema
prioritario, sviluppando una cultura intorno ad esso (Trifiletti, 2006). Oggi,
in ambito europeo, sempre più spesso si accoglie la definizione anglosassone di work-life balance, cioè la ricerca di un equilibrio senza eccessive scosse e negligenze tra le due sfere (personale e lavorativa), esteso a tutto il
corso di vita di una persona. L’approccio europeo muove, dunque, da questo punto di vista; tuttavia nei singoli stati membri esistono diversità culturali e diversità nell’impostazione della politica sociale – in cui sono inseriti gli interventi di conciliazione – che rendono difficile l’adozione di misure efficaci. Inoltre, sulla concettualizzazione della conciliazione e sull’elaborazione degli interventi a sostegno oggi influisce grandemente la trasformazione della natura e del mercato del lavoro a livello globale.Tra l’altro, i
cambiamenti che hanno caratterizzato l’organizzazione del lavoro negli ultimi anni, hanno alimentato la richiesta sempre crescente di una grande dilatabilità e flessibilità di tempo, che coinvolge individui e famiglie.
Nel nostro paese i vincoli citati hanno ridotto la portata del dibattito sulla conciliazione, limitandolo all’organizzazione della giornata tipo anziché
concentrarsi sulle possibilità di scelta e le costrizioni nella vita privata e
lavorativa, su come queste sfere interagiscono e si condizionano reciprocamente nel corso degli anni e delle diverse fasi di una vita, e anche sulla
presenza di traiettorie biografiche che si sovrappongono all’interno delle
famiglie.
Per questo le politiche di conciliazione vanno calate nelle diverse costruzioni sociali, differenti per ogni paese, e situarsi laddove valori e norme sociali interagiscono con l’ambiente economico (Simonazzi, 2006): determinate strutture culturali e sociali hanno influenza sulla conciliazione. Esisto-
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no, per esempio, in paesi diversi, specifici modelli di divisione di genere del
lavoro familiare e nelle organizzazioni lavorative, dove, se il mondo del lavoro consolida la ripartizione dei carichi in ambito domestico, fa apparire
non solo naturale, ma anche razionale il mantenimento della divisione nella vita privata (Saraceno, 2003). La legislazione, come pure le politiche e le
misure a sostegno, non possono imporre un diverso sistema nella sfera personale e familiare ma proporlo in quella professionale (diversa forma di regolazione della prestazione lavorativa), in modo da rappresentare l’occasione per un cambiamento di visione generale.
La seconda fase del progetto europeo “2Reconciliate”, relativa alle campagne di informazione/sensibilizzazione, si proponeva appunto di contribuire
a superare il livello della norma scritta per approdare a quello del patrimonio culturale condiviso e della pratica sociale abituale. Nei propositi iniziali tali campagne dovevano servire, in primo luogo, a stimolare idee ed iniziative delle parti sociali, dei responsabili per le politiche sociali a livello nazionale e locale e dei responsabili per le politiche aziendali, dei responsabili sindacali, dei lavoratori, nonché di altre parti interessate, per la promozione fattiva, negli ambienti di lavoro, di una cultura imperniata sulla conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro. A tale scopo era prevista
un’azione di informazione/sensibilizzazione efficace, che andava oltre le opzioni previste e consentite. Inoltre, le campagne si proponevano di trattare la combinazione tra responsabilità familiari e lavorative come aspetto
normale della vita di chi lavora, e non, come spesso accade, quale “specificità negativa femminile” (Saraceno, 2003). In concreto, le campagne sono
state svolte in tutti i paesi coinvolti e tarate sulle specificità nazionali. Sono
state rivolte a 3 distinte categorie di persone: 1) lavoratori e lavoratrici (da
intendersi come lavoratori dipendenti di qualunque settore – non profit,
pubblico e privato) e possibilmente con figli, cioè con maggiori problematiche sul fronte della conciliazione; 2) datori di lavoro, ugualmente di qualunque settore; 3) rappresentanti sindacali. Secondo un approccio flessibile e volto alla maggiore efficacia comunicativa, le campagne potevano essere realizzate nei modi più disparati: attraverso laboratori, seminari, gruppi
di discussione, programmi radio, invio e-mail, siti Internet, a mezzo stampa,
ecc.). Per l’Italia è stata prescelta la modalità di incontri in forma seminariale. Le campagne hanno avuto lo scopo di fornire ai datori di lavoro informazioni sulla legislazione in vigore, incentivando persone e organizzazioni ad aggiornarsi, perché la conciliazione e le pari opportunità sono non
solo un diritto ma anche un sinonimo di sviluppo e ottimizzazione delle risorse. In sostanza si è trattato di suggerire una modernizzazione, tenendo
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presente questo asse strategico e dimostrando che è possibile introdurre
cambiamenti nelle organizzazioni che consentono di migliorarne l’efficacia,
attraverso politiche di conciliazione per tutti i cittadini. In secondo luogo,
si è perseguito il fine di dotare i rappresentanti sindacali di un corredo di
notizie utili per arricchire o sviluppare le competenze di negoziazione diretta circa questi temi, per la loro promozione nelle aziende e riuscire quindi meglio a trovare correttivi a diagnosticate situazioni problematiche. Infine, è stato fornito alle lavoratrici l’incentivo per una migliore consapevolezza dei propri diritti e doveri e per una partecipazione più attiva attraverso un reale empowerment; ai lavoratori l’invito ad una maggiore corresponsabilità e condivisione dei carichi domestici e familiari. Ad entrambi
l’occasione di un cambiamento nell’atteggiamento e nella prassi.
A sostegno dell’attività di sensibilizzazione è stato ideato e realizzato uno
strumento, la brochure legislativa, rivolto rispettivamente alle tre categorie di attori destinatari delle campagne. L’esperienza ha consentito, anche
al gruppo di lavoro, di prendere coscienza dell’esistenza di un vasto corpus
normativo sul tema della parità di genere e della conciliazione, tanto a livello internazionale che nazionale, alcune volte poco conosciuto ed altre
disapplicato, che invece definisce le coordinate del problema e rappresenta le fondamenta su cui continuare a costruire. In particolare in ambito europeo la conciliazione e la parità sono riconosciuti come valori specifici
dell’Unione, ed occupano un posto centrale nella legislazione2 e nelle politiche comunitarie, per incentivare e contribuire allo sviluppo di politiche
antidiscriminatorie nei singoli stati.
Le campagne realizzate hanno avuto il merito di tener desti la riflessione
ed il dibattito intorno a questi temi. Riguardo gli esiti in Italia, l’attività di
sensibilizzazione ha innanzitutto confermato i risultati della ricerca: l’informazione circa diritti e doveri in tema di parità di genere e conciliazione è
imprecisa e parziale, quando non del tutto assente. In tale ambito gli incontri di informazione/sensibilizzazione hanno effettivamente risposto ad un’esigenza reale e sentita. Si è registrato, però, un diffuso e vivo interesse tra le
persone per le questioni che riguardano direttamente la loro vita quotidiana ed il tentativo di conservare l’integrità (o quasi) di tutte le parti di cui
si compone; siano essi indifferentemente lavoratori, datori o rappresentanti sindacali. Si è osservata, infine, una marcata propensione al cambiamento, specie nei giovani, che fa ben sperare in un’ottica futura.
Campagne di informazione/sensibilizzazione come quelle condotte nel progetto “2Reconciliate”, unite agli indicatori sociali nazionali, mostrano che in
Italia la società è ancora incapace di affrontare e risolvere i problemi di con-
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ciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. L’intervento dello Stato nei confronti delle famiglie è lacunoso e debole; le imprese manifestano un atteggiamento di sostanziale chiusura nei confronti del lavoro delle persone con
carichi familiari, e una scarsa capacità innovativa in termini di organizzazione del lavoro, laddove sarebbe invece necessario un significativo cambiamento. Il minor numero di possibilità tra le misure family-friendly a disposizione, nonché il ritardo e l’esitazione con cui sono introdotte dalle aziende, non sono dovuti, peraltro, solo alle resistenze o rigidità culturali dei datori di lavoro, ma anche all’atteggiamento dei sindacati, che spesso hanno
osteggiato alcune soluzioni temendo un peggioramento delle condizioni di
lavoro. Le famiglie, da parte loro, sono tuttora legate ad un modello tradizionale di divisione dei ruoli, che tende ad affidare principalmente alla donna il lavoro domestico e di cura (Villa, 2006).
Le pari opportunità e i bambini: l’importanza del gioco
Il progetto, oltre a prevedere una ricerca qualitativa sui tempi di vita e di
lavoro e una descrizione degli attuali strumenti legislativi riguardanti le pari opportunità e la conciliazione dei tempi, ha altresì previsto la costruzione di materiale pedagogico da distribuire all’interno di alcune scuole
italiane.Infatti, si sono chiesti i promotori del progetto, perché coinvolgere
unicamente il mondo degli adulti e non anche quello dei bambini?
È vero che i più piccoli apprendono quello che la società distintamente si
aspetta dall’uomo e dalla donna all’interno della famiglia.Tuttavia, quando
crescono, attraverso altri impulsi culturali, sociali e mediatici, la percezione
di genere può assumere connotati diversi rispetto al modello proposto in
famiglia. Ma i bambini non sono sempre correttamente indirizzati da queste agenzie e dal momento che tali concetti sono interiorizzati nei primissimi anni della loro crescita, i bambini, prima vengono orientati, meglio è.
In questo senso la scuola, simboleggiando il primo spazio di inclusione e di
socializzazione dei bambini e rappresentando un momento cruciale nella
costruzione della loro identità di genere, ha un ruolo fondamentale nella
riproduzione o non-riproduzione e nel rafforzamento o meno di stereotipi sulle differenze di genere: dare ai bambini l’opportunità di confrontarsi
su questi temi – giocando – significa offrire loro da subito l’opportunità di
scoprire tutti gli aspetti di pari opportunità esistenti nella vita quotidiana e
di problematizzarli sin dalla più tenera età.
Quest’azione del progetto è quindi rivolta direttamente ai bambini e indirettamente agli educatori e agli insegnanti, poiché si propone di diffondere
uno strumento (elaborato sotto forma di una valigetta di cartone) in gra-
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do di offrire, attraverso un adeguato approccio pedagogico, alcune indicazioni su come educare i bambini alle pari opportunità.
Tale strumento era già stato elaborato, a grandi linee, dall’Afmp nel 2001,
ma era stato diffuso solo in Portogallo. Nell’ambito del progetto “2Reconciliate” del 2003, l’Afmp e i vari partner hanno ampliato con ulteriori giochi e approfondimenti il kit, promuovendo la diffusione di tale strumento
anche in altri paesi, come l’Italia, la Grecia, l’Olanda e la Spagna.
Il kit di materiali pedagogici può essere così descritto: si tratta di unavaligetta contenente diversi giochi (per esempio un gioco dell’oca tarato sulle pari opportunità), alcuni strumenti didattici (cartoncini raffiguranti mestieri svolti da ambedue i generi, fotografie, ecc.) e una guida.
Le dodici attività proposte nella guida (il gioco, il canto, la rappresentazione teatrale, il disegno, il commento di foto, ecc.) sono state suddivise per
essere proposte a due principali fasce d’età e hanno lo scopo di stimolare
la riflessione dei bambini su tematiche riguardanti la vita professionale, quella familiare e quella della generale partecipazione degli uomini e delle donne alla vita sociale.
Alcune proposte di gioco sono indirizzate ai bambini che frequentano la
scuola materna (3 e 6 anni). Questa fascia d’età rappresenta, infatti, la cosiddetta “età d’oro” dello sviluppo del bambino. Improvvisamente, il lattante cessa di essere un neonato e diventa un essere partecipante, pronto a
conoscere nuovi spazi e ad appropriarsi di nuove sensazioni. Il bambino
controlla le funzioni del proprio corpo e acquisisce abitudini igieniche. Impara l’articolazione del linguaggio e sviluppa giochi di drammaticità, pur vivendo in un mondo magico e pieno di fantasie. Comincia a seguire le attività che richiedono movimenti più complessi o espressioni plastiche. Impara a conoscere se stesso e gli altri, imita i suoi pari e gli adulti. Capisce e
interiorizza le regole. Associando diverse idee, riesce a capire strutture più
complesse, sia a livello linguistico che matematico. Contemporaneamente,
percepisce anche universi più astratti e simbolici.
Le altre proposte di gioco e apprendimento sono indirizzate ai bambini che
hanno 6-12 anni, età in cui scoprono un mondo completamente nuovo. Alle elementari, il bambino effettua il passaggio dalla fantasia alla realtà. Acquisisce la capacità di interpretare e di generalizzare. Impara a leggere e
scrivere. I suoi pensieri sono basati su dati concreti. Acquisisce la nozione
di tempo e organizza il proprio tempo con impegni da portare a termine.
Amplia le sue capacità e abilità. Sviluppa la propria immaginazione. Rafforza i processi di socializzazione giorno dopo giorno e dà un’importanza sempre maggiore allo spirito di comunità.
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Per rendere la fruizione del kit il più agile possibile, ogni scheda di attività
contiene, oltre alla descrizione del gioco, gli obiettivi pedagogici, gli obiettivi di pari opportunità e i materiali da utilizzare. Per questa ragione tale
strumento può diventare un valido punto di riferimento per molte agenzie di socializzazione: non solo per le scuole, ma anche per le ludoteche e
le associazioni familiari.
I risultati che si sono raggiunti con la diffusione di questi materiali sono stati fondamentalmente tre: 1) la sensibilizzazione di politici locali, di educatori e di genitori sulla necessità di insistere sui temi delle pari opportunità
e della conciliazione dei tempi; 2) la trasmissione ai piccoli di buone pratiche sulle pari opportunità; 3) un ripensamento della vita quotidiana degli
adulti che sono diventati, in alcuni casi, diretti protagonisti di un effettivo
cambiamento di mentalità e dicomportamento nella vita di tutti i giorni.
Cenni conclusivi
La questione del lavoro, anche in ottica femminile, sarà all’ordine del giorno nei prossimi anni, e perciò non ci si potrà dimenticare del tema della
conciliazione, che interessa non solo la sfera del lavoro ma la vita complessiva degli individui, anche nei suoi risvolti quotidiani. In primo luogo la politica dovrebbe occuparsi da vicino di come migliorare la vita delle persone, per essere buona politica. Del resto, senza politiche adeguate, e messe
in opera in maniera sinergica, la conciliazione non può affermarsi e funzionare. Si produce effetto se, oltre ad essere posta nelle norme, la conciliazione è sostenuta da interventi integrati sui diversi fronti, che affermino la
bontà del principio e la sua pratica come costume prevalente. «Se le politiche di “conciliazione” vengono adottate separatamente e senza alcuna
coerenza tra loro, i limiti possono essere gravi» (Piazza, 2003). In Italia si è
ancora lontani dall’attribuire una priorità a tali questioni. I mutamenti in
corso nei comportamenti familiari e demografici non vengono visti come
il contesto idoneo per sviluppare politiche sociali e del lavoro appropriate. Così non viene interpretata la domanda di conciliazione esistente, che
invece consentirebbe un miglior utilizzo delle risorse umane e delle strutture produttive. In questo senso, la legislazione italiana, che è relativamente avanzata, rischia di rimanere non applicata o di avere minor forza, trovandosi a dover superare ostacoli e resistenze provenienti da più parti.
Per attuare il passaggio ad una reale cultura della conciliazione e superare
la frammentarietà e l’estemporaneità di iniziative legate esclusivamente all’utilizzo di fondi nazionali e comunitari, c’è ancora strada da fare. La presenza di queste risorse può svolgere un compito essenziale per fornire l’in-
158
focus
bibliografia
Piazza M.,
2003 Presentazione a “Quando il lavoro è amico”, A. M. Ponzellini e A.Tempia, Edizioni Lavoro, Roma.
Saraceno C.,
2003 La conciliazione di responsabilità familiari e attività lavorative: paradossi e equilibri imperfetti, Polis, n. 2, Il Mulino, Bologna.
Trifiletti R.,
2006 Il concetto di conciliazione e le pratiche quotidiane: un’analisi comparata in cinque paesi europei, in “Questioni di genere, questioni di politica”, A. Simonazzi (a cura di), Carocci, Roma.
Villa P.,
2006 Famiglia, impresa, società: gli effetti delle politiche di conciliazione, in “Questioni di genere, questioni di
politica”, A. Simonazzi (a cura di), Carocci, Roma.
focus
put iniziale e per consentire lo sviluppo di questo tipo di misure, ma se non
si provoca la nascita di una rete di sostegno e non si raggiunge il coinvolgimento e l’impegno di tutti gli attori rilevanti non si costruisce un’alternativa duratura (Saraceno, 2003).
Malgrado ciò, e pur nella differenza delle soluzioni adottate nei paesi europei, si va affermando l’interpretazione della conciliazione come problema
collettivo: ricercare una migliore qualità della vita e del lavoro di tutti, che
passa anche attraverso un riequilibrio nella distribuzione della cura, che altrimenti rappresenta un impedimento reale al funzionamento della società nel suo complesso.
Per contribuire a sviluppare la cultura della parità e della conciliazione è
utile anche rendere noti i risultati di progetti che si inscrivono in questa
cornice, come il progetto “2Reconciliate”, e le realizzazioni di azioni positive attuate con risorse nazionali o comunitarie. I risultati ottenuti meritano di essere diffusi e consolidati a testimonianza del processo di crescita
della cultura della parità di genere e della conciliazione nel nostro paese, e
come risultati concreti del cambiamento della condizione femminile, in particolare nel mercato del lavoro.
note
1 Simona Bartolini e Cristina Morga hanno scritto l’introduzione; Simona Bartolini ha scritto il primo paragrafo; Cristina Morga ha scritto il terzo paragrafo; Federica Volpi ha scritto il secondo paragrafo e le conclusioni.
2 Il principio di parità di trattamento fra uomini e donne è sancito all’art. 119 del Trattato di Roma e ripreso
dall’art. 141 del Trattato di Amsterdam. È inoltre sancito nella recente Costituzione europea.
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Promuovere la solidarietà
fra le generazioni
CESE - Introduzione di Luca Jahier - 13 dicembre 2007
di Luca Jahier
zoom
Il presente parere interviene su un argomento rilevante del recente dibattito europeo e si inserisce nel quadro di alcune nuove linee di lavoro che
le diverse istituzioni europee hanno messo al centro della propria attenzione negli ultimi anni.
Con il Libro verde del marzo 2005 dedicato alle sfide demografiche, la
Commissione aveva aperto un dibattito sulla necessità di rafforzare la solidarietà fra le generazioni. Nella comunicazione del 12 ottobre 2006 sul
futuro demografico dell’Europa ha successivamente sottolineato che gli
Stati membri dell’Unione europea dovrebbero favorire una prospettiva di
rinnovamento demografico iscrivendo la loro azione nella strategia di
Lisbona rinnovata per la crescita e l’occupazione, promuovendo in particolare le politiche della parità fra gli uomini e le donne e ampliando la
gamma delle misure volte a consentire una più efficace conciliazione tra
vita professionale e famigliare. Così gli Stati membri potranno aiutare i cittadini europei a realizzare i propri progetti personali e famigliari e il desiderio di avere dei figli.
I Capi di Stato e di governo dell’Ue hanno deciso, sin dal vertice della primavera 2007, poi sviluppata nel Consiglio del 30 maggio e nelle conclusioni del Consiglio europeo del 21-22 giugno scorsi, di stabilire una Alleanza
europea per le famiglie, che dovrà servire da piattaforma di scambio di
opinioni e di esperienze sulle politiche favorevoli alle famiglie e di buone
pratiche tra gli Stati membri.
Nella sua Comunicazione adottata nel mese di maggio 2007, la Commissione presenta in modo articolato il modo nel quale essa intende
–– Luca Jahier Dipartimento attività e relazioni internazionali Presidenza nazionale Acli
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
161
sostenere e sviluppare tale Alleanza europea per la famiglia, soprattutto in
quanto piattaforma di ricerca e di scambi.
Come è noto, le responsabilità in materia di politiche familiari spettano
tuttora esclusivamente agli Stati membri.Tuttavia, le politiche dell’Unione
europea e in particolare quelle in materia di occupazione e di promozione delle pari opportunità hanno un impatto importante sulla qualità della
vita familiare. Inoltre, pur nella loro forte varietà e differenziazione, le politiche di sostegno alla famiglia nei paesi dell’Ue si sviluppano oggi secondo
tre dimensioni principali:
–– compensazione dei costi, diretti e indiretti, connessi alla famiglia;
–– servizi di sostegno ai genitori per l’educazione e la custodia dei bambini, nonché per le persone non autosufficienti;
–– adattamento dei tempi delle condizioni di lavoro e di accesso ai servizi
per favorire una più ampia conciliazione tra vita professionale e vita famigliare.
Per sostenere l’Alleanza europea per le famiglie la Commissione si propone di costituire:
–– un gruppo ad alto livello di esperti governativi;
–– dei forum e reti europee, nazionali, regionali e locali;
–– un osservatorio delle buone prassi,
–– dei dispositivi di ricerca.
E per sostenere tutto questo invita gli Stati membri a fare in modo che i
programmi operativi da loro presentati nell’ambito dei fondi strutturali
europei siano in grado di sostenere queste azioni.
Il principio della solidarietà tra le generazioni è certamente una delle chiavi strutturali del modello sociale europeo: alla luce delle conseguenze dei
disequilibri demografici esso richiede un nuovo impegno e nuove soluzioni che ne consentano il rafforzamento, nel quadro di nuovi e necessari
equilibri finanziari.
Benché la comunicazione della Commissione abbia per titolo Promuovere la
solidarietà tra generazioni, il suo contenuto si concentra essenzialmente sulla
problematica della famiglia, proprio in relazione alla novità dell’Alleanza per
le famiglie, decisa dal Consiglio europeo. La dinamica attualmente in corso
a livello comunitario costituisce infatti una ripresa importante di attenzione e azione sul tema della famiglia, dopo una lunga interruzione e - come
afferma la stessa comunicazione della Commissione - «il primo passo di
una risposta europea alle sfide poste dal cambiamento demografico».
Il presente parere si concentra pertanto su tali problematiche, tanto
più che sulla conciliazione tra la vita professionale e familiare, sulla
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Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
zoom
promozione delle pari opportunità e sulla promozione dell’occupazione, con particolare riferimento all’occupazione femminile, il Cese si è
già espresso recentemente con una serie articolata di pareri le cui raccomandazioni vengono interamente recepite e riproposte nella loro
integrità dal presente parere, ponendosi peraltro nella linea già avviata dal parere Buffetaut, approvato da questo Comitato lo scorso mese
di marzo.
Il Cese esprime un forte apprezzamento per la concreta agenda operativa predisposta dalla Commissione, la quale rappresenta una piattaforma
costruttiva, che recepisce diversi degli orientamenti che il Cese e più in
generale il dibattito di questi anni hanno già formulato, per rispondere alle
sfide dei cambiamenti demografici e sociali legati alla famiglia.
Si tratterà tuttavia di vigilare affinché, dopo l’impulso decisivo dato dalla
presidenza tedesca dell’Unione, non si verifichi il rischio di possibile
marginalizzazione di tale nuova linea di lavoro. Alcuni recenti elementi
critici circa i necessari finanziamenti per sostenere tali azioni sin dal
2008 ci fanno infatti temere che la politica del rinvio possa affossare
questa prospettiva.
Nel quadro della nuova e sempre più forte attenzione delle diverse
istanze europee circa le questioni sociali e del benessere dei cittadini,
la famiglia comincia ad essere un nuovo fuoco di attenzione, riflessione
e azione. Queste prime e timide aperture devono essere progressivamente rafforzate ed estese, grazie a un piano di lavoro articolato che
dovrebbe concludersi con il 3° forum demografico europeo, previsto
nel 2010.
Ricorrendo poi il prossimo anno i 60 anni della Dichiarazione universale
dei diritti umani, che costituisce una acquisizione giuridica di valore universalmente fondativo, non possiamo non ricordare quanto è scritto
all’art. 16 comma 3: «La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della
società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato».
Non si tratta certo in questo parere di risolvere la complessa e controversa questione di dare una definizione uniforme e univoca a livello europeo di famiglia. Sappiamo che su tale argomento non esistono solo sensibilità diverse, ma anche tradizioni e legislazioni vieppiù differenti e pertanto tale argomento va lasciato, secondo il principio di sussidiarietà, alla
competenza esclusiva degli Stati membri.
Ciò che a noi interessa e ciò su cui l’Unione europea può dare un contributo di straordinaria rilevanza è riconoscere e valorizzare pragmaticamente il contributo sostanziale che le famiglie continuano a garantire alle
163
nostre società e alla concreta cura delle persone in ogni età della vita.
Considerandone anche sia l’utilità sociale ed economica sia l’eventuale ed
insostenibile aumento dei costi in termini soprattutto di servizi di welfare qualora la famiglia non fosse adeguatamente sostenuta ed incoraggiata
nello svolgimento del proprio ruolo.
Venendo poi ad alcune raccomandazioni specifiche, il Cese ritiene che la
creazione di un osservatorio delle buone prassi in materia di politiche
familiari in seno alla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro vada pertanto appoggiata e raccomanda che questa abbia luogo nel quadro di una stretta consultazione degli attori della
società civile.
Sarà tuttavia necessario vegliare affinché il focus principale di tale osservatorio non sia limitato alle sole questioni familiari correlate alla vita lavorativa, ma sia piuttosto orientato a sviluppare una puntuale ricognizione
sui bisogni della famiglia e delle generazioni.
Per quanto attiene la ricerca, il Cese suggerisce anche i seguenti assi specifici di lavoro: il ruolo e l’impatto delle politiche fiscali, le politiche e le
azioni nel campo della terza età attiva, la prospettiva del ciclo di vita, l’impatto sociale e i costi della povertà infantile, le politiche della casa e la
situazione delle persone disabili o in condizione di grande dipendenza.
Particolarmente meritevole di attenzione sembra poi la proposta recentemente rilanciata alle diverse istituzioni europee da un ampio cartello di
organizzazioni familiari a livello europeo di revisione delle aliquote Iva per
gli articoli della prima infanzia.
Il lavoro del gruppo di studio e la discussione della sezione sono stati
quantomai articolati e di forte spessore, a confermare come tali questioni siano profondamente riconosciute come centrali da tutti noi.
Noi siamo convinti che, come diceva il noto scrittore francese Antoine de
Saint-Exupery, il futuro non si tratta solo di prevederlo, ma di renderlo
possibile. Si tratta dunque di operare affinché cresca una nuova fiducia nel
futuro da parte di tutti i cittadini, in particolare le famiglie e soprattutto i
giovani. Così essi non saranno più costretti a fare i conti con un ambiente sociale così sfavorevole, in termini di risorse, servizi e tempi, da obbligarli a rinviare troppo avanti nel tempo la decisione di realizzare i propri
progetti famigliari e di avere il numero desiderato di figli. Il 97% dei cittadini europei ritiene infatti che la famiglia sia uno degli aspetti più importanti della propria vita, secondo solo alla salute. E dunque anche questo è
un modo molto concreto per riavvicinare i cittadini alle istituzioni dell’Unione europea.
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zoom
Comitato economico e sociale europeo
SOC/277
Promuovere la solidarietà fra le generazioni
Bruxelles, 13 dicembre 2007
PARERE
della sezione specializzata Occupazione, affari sociali, cittadinanza
in merito alla
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo,
al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo
e al Comitato delle regioni
Promuovere la solidarietà fra le generazioni
COM(2007) 244 def.
Relatore: JAHIER
La Commissione, in data 20 giugno 2007, ha deciso, conformemente al
disposto dell’articolo 262 del Trattato che istituisce la Comunità europea,
di consultare il Comitato economico e sociale europeo in merito alla:
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio,
al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni Promuovere la solidarietà fra le generazioni
COM(2007) 244 def.
zoom
La sezione specializzata Occupazione, affari sociali, cittadinanza, incaricata
di preparare i lavori del Comitato in materia, ha formulato il proprio parere in data 14 novembre 2007, sulla base del progetto predisposto dal relatore JAHIER.
Il Comitato economico e sociale europeo, in data 13 dicembre 2007 nel
corso della 440a sessione plenaria, ha adottato il seguente parere con 105
voti favorevoli, 21 voti contrari e 28 astensioni.
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1. Premessa
1.10 Il principio della solidarietà tra le generazioni è una delle chiavi strutturali del modello sociale europeo: alla luce delle conseguenze dei
disequilibri demografici esso richiede un nuovo impegno e nuove
soluzioni che ne consentano il rafforzamento, nel quadro di nuovi e
necessari equilibri finanziari. Il mantenimento di tale principio della
solidarietà tra le generazioni richiede pertanto, ai diversi livelli, un
approccio attivo dei poteri pubblici ed un protagonismo di tutti i
diversi attori sociali, nel garantire servizi sociali di interesse generale
di qualità per le famiglie, i giovani e tutte le persone in condizioni di
non autosufficienza e una durabilità dei sistemi di pensionamento e
di sicurezza sociale.
1.20 Sul complesso di questi argomenti, ed in particolare sulla conciliazione tra la vita professionale e familiare, sulla promozione delle pari
opportunità e sulla promozione dell’occupazione, con particolare
riferimento all’occupazione femminile, il CESE si è già espresso
recentemente con una serie articolata di pareri1 le cui raccomandazioni sono state recepite e vengono riproposte nella loro integrità
dal presente parere, sia nella parte di analisi che in quella propositiva.
1.30 Benché la comunicazione della Commissione abbia per titolo
“Promuovere la solidarietà tra le generazioni”, il suo contenuto si
concentra essenzialmente sulla problematica della famiglia, anche in
relazione alla novità dell’Alleanza per le famiglie, recentemente decisa dal Consiglio europeo. La dinamica attualmente in corso a livello
comunitario costituisce infatti una ripresa importante, dopo una
lunga interruzione, di attenzione e di azione sul tema della famiglia, e
- come afferma la stessa comunicazione della Commissione - “il
primo passo di una risposta europea alle sfide poste dal cambiamento demografico”. Il presente parere si concentra pertanto su tali problematiche.
1.40 Nel 1983, il Parlamento europeo adottò una risoluzione sulla politica familiare europea, dando così per la prima volta visibilità europea
alla politica familiare e permettendo soprattutto, l’anno successivo,
l’apertura di una linea di bilancio per la promozione di attività a favore delle famiglie.
1.50 Nel 1989 si tenne la prima riunione del Consiglio dei ministri della
famiglia, che adottò alcune importanti misure sulla base delle propo-
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Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
zoom
ste della Commissione europea. Così, fu richiesto alla Commissione
stessa di istituire un osservatorio europeo della situazione sociale,
della demografia e della famiglia, oggi denominato Osservatorio della
demografia e della situazione sociale, nonché un gruppo di alti funzionari governativi sulla famiglia. Infine, la Commissione creò un gruppo
Interservizi sulla dimensione familiare delle varie politiche comunitarie. In tale occasione il Consiglio decise anche l’istituzionalizzazione
di contatti con le organizzazioni familiari e con l’intergruppo
“Famiglia e protezione dell’infanzia” del Parlamento europeo.
1.60 Nel 1994, 1999 e 2004 il Parlamento adottò delle nuove risoluzioni,
mentre già nel 1988 era stato costituito un intergruppo Famiglia.
1.70 La crisi delle linee di bilancio e della loro base legale, nel 1998, ha purtroppo messo fine anche alla linea dedicata al sostegno alle famiglie.
1.80 La comunicazione in oggetto costituisce il seguito della riflessione
della Commissione sul tema della demografia, iniziata con il Libro
verde del 2005 sulle sfide demografiche2 e portata avanti con la
comunicazione Il futuro demografico dell’Europa: trasformare una sfida in
un’opportunità3. Esso s’inserisce peraltro in una più ampia dinamica
istituzionale, avviata dalla presidenza tedesca con le conclusioni del
Consiglio europeo di primavera e terminata con le conclusioni del
Consiglio dei ministri sull’Alleanza per le famiglie del 30 maggio 2007,
poi riprese nelle conclusioni del Consiglio europeo del 21-22 giugno
2007.
1.90 La comunicazione ricorda come in Europa esistano essenzialmente
tre tipologie d’intervento a sostegno della famiglia: compensazioni
dei costi, diretti ed indiretti, connessi alla famiglia; servizi di sostegno
ai genitori per la custodia e l’educazione dei figli e per la cura delle
persone non autosufficienti; adattamento dei tempi e delle condizioni di lavoro e di occupazione e dell’organizzazione dell’accesso ai servizi sociali di interesse generale a livello locale.Tali dimensioni hanno
avuto uno sviluppo molto diverso nei vari Stati membri, a seconda
delle scelte politiche e degli obiettivi stessi di queste.
Se la Commissione ritiene difficile indicare quali siano le politiche
più efficaci, essa sottolinea tuttavia come alcuni Stati (i paesi scandinavi) siano riusciti a trovare un mix di politiche che promuovono
la conciliazione della vita professionale e della vita familiare, nonché
la parità di genere, in modo da favorire al contempo un tasso di
fecondità elevato e un tasso di occupazione femminile ugualmente
sostenuto.
167
1.10 Benché le politiche familiari stricto sensu siano di esclusiva competenza degli Stati membri, la Commissione ricorda come l’Unione europea abbia sempre cercato, nella sua azione politica, di tener conto
della dimensione della famiglia e della qualità della vita dei suoi membri. Peraltro, la conciliazione tra vita familiare e professionale è diventata uno degli assi portanti delle politiche comunitarie di occupazione, nel quadro della strategia di Lisbona.
1.11 La comunicazione della Commissione passa poi a delineare le caratteristiche dell’Alleanza europea per le famiglie e l’azione comunitaria
volta a sostenerla. È in particolare previsto un gruppo ad alto livello
di esperti governativi sulle questioni demografiche, l’organizzazione
di forum e reti europei, ma anche nazionali, regionali e locali, la creazione presso la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di un osservatorio delle buone prassi, e
quindi una serie di dispositivi di ricerca incentrati in particolare sul
Settimo programma quadro. Infine, la Commissione intende mobilitare le risorse dei fondi strutturali europei a sostegno delle pari opportunità e della conciliazione fra vita familiare e professionale.
2. Constatazioni e sfide
2.10 La questione della solidarietà tra le generazioni è certamente assai
ampia e complessa e si inserisce nel più articolato quadro delle sfide
poste dai diversi cambiamenti sociali, economici e internazionali in
atto, tra cui in particolare l’invecchiamento della popolazione, che
avranno un impatto consistente sulla vita futura dei cittadini europei,
e segnatamente sulle condizioni di lavoro e sulle condizioni sociali. La
Commissione, nella sua comunicazione, osserva che la strategia di
Lisbona fornisce le basi per la modernizzazione della politica della
famiglia, promuovendo le pari opportunità e soprattutto dando
impulso alla conciliazione della vita professionale e familiare e della
vita privata, che fa aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Questa conciliazione è evidenziata anche negli orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione, in base ai quali la
politica occupazionale dovrebbe essere adattata per diventare compatibile con le circostanze della vita familiare e i cambiamenti che
queste subiscono durante le diverse fasi. Il metodo di coordinamento aperto, che si applica alla sicurezza sociale e all’integrazione socia-
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le, si concentra sul miglioramento della situazione dei minori poveri
e delle loro famiglie, con misure di sostegno per l’assistenza di lungo
periodo di persone non autosufficienti e con provvedimenti di
modernizzazione delle pensioni.
2.20 L’incontro tra le generazioni, che si realizza e si sviluppa nella famiglia, è diventato una sfida di enorme portata anche per l’Europa. La
famiglia è il luogo privilegiato in cui si esplica fisiologicamente la solidarietà di genere e del ciclo di vita. I cambiamenti sociali hanno fatto
emergere molte forme diverse di strutture familiari. Quando si concepiscono delle misure si deve tener conto della varietà delle situazioni famigliari, con riferimento sia al principio di sussidiarietà che al
diritto interno degli Stati membri.4
2.30 I rapporti più recenti sulla situazione sociodemografica ci dicono che
nei vari paesi il numero dei nuclei familiari sta aumentando, mentre la
loro ampiezza diminuisce. Al contempo, la struttura delle famiglie
muta molto più velocemente di un tempo a causa della diminuzione
dei matrimoni (il numero dei matrimoni è diminuito da 8 per 1.000
abitanti negli anni ‘60 a 5,1 per 1.000 abitanti nel 1999), dell’innalzamento dell’età in cui ci si sposa, dell’aumento delle separazioni e dei
divorzi, dell’aumento delle persone che vivono da sole e dell’aumento dei figli nati fuori dal matrimonio. A tale proposito il numero di
bambini, all’interno dell’UE, che vivono in una famiglia monoparentale è cresciuto del 50% dal 1983, e attualmente il 13% dei bambini
dell’Unione vive in una famiglia con un solo genitore (con una punta
del 25% in Gran Bretagna)5. Un numero crescente di bambini vive in
famiglie ricomposte, in cui vi sono nonni e fratelli appartenenti a
famiglie precedenti. Crescono le adozioni di bambini non europei e
come conseguenza dell’immigrazione sono comparse nuove culture
familiari.
2.40 Il tasso di fecondità in Europa è oggi intorno a 1,45 figli per donna,
e quindi ben al di sotto del tasso di sostituzione della popolazione.
I livelli più bassi si registrano nei paesi mediterranei e nei paesi
dell’Est. Il declino della natalità è un fenomeno quasi universale all’interno dell’Unione europea: dagli anni ‘60 ad oggi la natalità ha conosciuto una caduta di oltre il 45%.
2.50 Le nostre società contano pertanto sempre meno giovani e bambini
e sempre più pensionati e persone anziane in generale. Nel 1950, il
40% della popolazione dell’UE-25 aveva meno di 25 anni. Nel 2000
tale quota era solo del 30% e nel 2025 essa scenderà al 25%. Per con-
169
tro, nel 1950 solo 1 persona su 10 aveva più di 65 anni, mentre nel
2000 era già 1 su 6 e nel 2025 ci si avvicinerà ad 1 su 4. Queste cifre
fanno prevedere cambiamenti profondi nella struttura dei consumi,
nei bisogni di alloggio e di cura, nei comportamenti sociali e nelle
stesse priorità delle politiche pubbliche.
2.60 Certo oggi, grazie ai diversi modelli di sicurezza sociale esistenti in
Europa, delle condizioni di lavoro e dei progressi della medicina, la
maggior parte delle persone anziane può contare su un tempo di vita
assai più lungo e con un reddito relativamente confortevole. Ma esistono comunque pesanti problemi di povertà, che toccano almeno
1/6 delle donne con più di 65 anni, e in generale circa un quarto delle
persone anziane che vivono sole6. La povertà e l’esclusione tra le
donne anziane sono di solito il risultato del fatto che esse hanno
avuto percorsi lavorativi limitati o inesistenti. Questa situazione
diventa ovviamente più seria per gli ultrasettantenni e gli ultraottantenni, creando un peso sempre più insostenibile per le famiglie, nella
misura in cui il sistema di sicurezza sociale e di assistenza sociale non
è in grado di fornire servizi adeguati.
2.70 Secondo l’Eurobarometro7, il 97% degli europei considera la famiglia
tra gli aspetti più significativi della propria vita, collocandola subito
dopo la salute. L’opinione positiva degli europei nei confronti di tale
aspetto risulta ancora più diffusa se essi sono chiamati ad esprimere
un giudizio in chiave futura8. L’importanza della famiglia risulta evidente in relazione ai casi in cui si ha bisogno di aiuto: il 70% dice di rivolgersi al proprio partner, mentre il 25% si rivolge ad un altro membro
della famiglia, in particolare in caso di malattia (88%), di bisogno di un
consiglio (78%) o di bisogno di soldi (68%).
2.80 Le famiglie in Europa vivono sempre più nelle aree periferiche delle
grandi città. Questo modello, però, nasconde forti differenze per
fascia di età: le persone molto anziane e i giovani sono più legati alla
residenza nelle grandi città, mentre le famiglie con figli e le persone
in età pensionabile tendono a spostarsi verso piccoli centri. La diversa localizzazione per fasce di età tende a generare nuovi problemi in
termini di gestione dei servizi e di coesione sociale nelle grandi aree
metropolitane, fenomeno accentuato anche dai movimenti migratori, mediamente più sostenuti nelle città in cui è richiesta una maggiore quantità di forza lavoro.
2.90 Con riferimento all’età della popolazione, la percentuale di popolazione europea con più di 65 anni è aumentata, toccando nel 2005 il
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17,2% (UE-15). Le donne, per la loro maggiore longevità, rappresentano la quota più rilevante del crescente contingente di anziani e in
tutti i paesi europei rappresentano più del 50% della popolazione con
età superiore ai 65 anni.
2.10 Per quanto concerne la povertà, essa tocca circa 72 milioni di persone
nell’UE-25 (cioè il 15%) mentre 26 milioni sono ai limiti della relativa
soglia di rischio9. Di questi, circa 12 milioni sono persone anziane; il 9%
della popolazione dell’UE ha vissuto in una famiglia a basso reddito per
due dei tre ultimi anni della propria vita; il rischio povertà si concentra
maggiormente nelle famiglie che hanno più figli. Circa il 20% dei 94
milioni di giovani con meno di 18 anni in Europa è esposto al rischio di
povertà e nel corso degli ultimi tre decenni il tasso di povertà dei bambini è cresciuto in tutti gli Stati dell’Unione ed oggi supera quello della
popolazione complessiva, con particolare punte di gravità nel caso delle
famiglie monoparentali, delle famiglie che conoscono situazioni durevoli di disoccupazione o sottooccupazione e delle famiglie numerose. I figli
delle famiglie povere soffrono di privazioni, sono fortemente svantaggiati, hanno maggiori problemi di salute e risultati scolastici negativi, con
evidenti costi sociali, economici e politici per il futuro. Una mancanza di
interesse per i diritti dei minori può alimentare un clima favorevole alla
delinquenza minorile, allo sfruttamento e alla tratta dei minori.
3. Osservazioni generali
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3.10 Nonostante quanto richiamato in premessa, le istituzioni dell’Unione
europea hanno sinora mostrato forti difficoltà a considerare la famiglia come una struttura sociale che svolge un ruolo essenziale nella
società contemporanea e che pertanto merita di essere oggetto di
un maggiore interesse comunitario.
3.20 Seppure il panorama internazionale ed europeo sia ricco di
Dichiarazioni ufficiali - da parte dei più svariati organismi pubblici - che
attribuiscono alla famiglia un ruolo fondamentale nella società, a livello concreto l’Europa non sembra aver sinora incluso la famiglia nelle
sue priorità, che si basano essenzialmente su due pilastri: da un lato,
le forze del libero mercato e della concorrenza e, dall’altro, l’uguaglianza di opportunità per tutti i cittadini. Il riferimento a questi due
pilastri è evidente per esempio all’interno della strategia di Lisbona e
dell’agenda sociale 2005-2010.
171
3.30 In linea generale, la Commissione europea affronta il tema della famiglia sotto il profilo della politica sociale, dell’occupazione e delle pari
opportunità10. Di norma, però in molti documenti che toccano aspetti quali i giovani, i diritti dei bambini, le questioni formative, ecc., la
nozione stessa di famiglia è quasi sempre assente e l’approccio è prevalentemente orientato alla sola prospettiva dei diritti individuali,
ovvero della persona come soggetto economico. Raramente la persona viene considerata nella sua dimensione relazionale, e quindi in
primo luogo quale parte di una famiglia e del sistema di relazioni
sociali che ruota intorno ad essa, mentre di fatto la famiglia continua
a svolgere un ruolo prevalente nel sostenere il percorso di crescita
di una persona, nell’accompagnarne l’inserimento sociale e lavorativo
e molto spesso anche nel farsi carico della sua malattia, come anche
delle sue eventuali condizioni temporanee o durature di disabilità e
non autosufficienza. I servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche,
dal mercato privato o sociale restano fondamentali, specie nel promuovere la conciliazione della vita lavorativa e di quella familiare, evitando la povertà e la disoccupazione nell’ambito della famiglia e
sostenendo le famiglie che soffrono di problemi legati a malattie,
abuso di sostanze, difficoltà nell’allevare i figli e violenza domestica.
Tali servizi, da soli, non costituiscono però una risposta sostitutiva ai
bisogni emozionali e affettivi della persona, sia essa quella che è presa
in carico che quella che se ne cura11.
3.40 La crescente domanda di attenzione alla famiglia da parte dei cittadini europei sembra tuttavia essere stata recepita assai positivamente
dalla presidenza tedesca dell’UE, che ha proposto una “grande alleanza” tra le istituzioni al fine di favorire politiche coordinate che possano controbilanciare la riduzione delle nascite e l’aumento degli
anziani. Negli ultimi due anni si registra in effetti una fase di rilancio
che interessa tutte le istituzioni dell’Unione e si caratterizza per un
approccio più sistematico, strategico e prospettico, e dunque con
maggiori potenzialità.
3.50 Questo è evidente a partire dalle importanti disposizioni della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea attinenti alla famiglia12,
anche se sarebbe stato auspicabile che in sede di revisione dei Trattati
fosse stato inserito nell’articolo 3 dedicato agli obiettivi dell’Unione
europea un esplicito riferimento al “sostegno della vita familiare”.
3.60 Il CESE esprime un ampio apprezzamento per la comunicazione della
Commissione, la quale predispone una concreta agenda operativa
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Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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per dare sostanza alla prospettata Alleanza per le famiglie. Essa rappresenta una piattaforma costruttiva, che recepisce diversi degli
orientamenti che il CESE, e più in generale il dibattito di questi anni,
ha già formulato, per rispondere alle sfide dei cambiamenti demografici, sostenere la cooperazione e il partenariato tra i vari attori, incoraggiare una migliore risposta ai bisogni delle famiglie nella presa in
carico dei figli e delle altre persone in stato di non autosufficienza,
migliorare il livello di conciliazione del lavoro con la famiglia e la vita
privata anche attraverso un decisivo investimento in un sistema di
servizi di qualità per l’infanzia e per le famiglie, contribuendo così a
rilanciare una nuova e più solida solidarietà intergenerazionale.
3.70 Rimane tuttavia deplorevole il fatto che, a causa del mancato sostegno di alcuni Stati membri, non si sia potuto applicare a tale ambito
il metodo di coordinamento aperto, dando così maggiore pregnanza
strategica e strutturale all’Alleanza. Il CESE riconosce tuttavia che la
comunicazione offre basi possibili per sviluppare una piattaforma
organica, che non pregiudichi la possibilità di ulteriori sviluppi basati
su un più esplicito coordinamento.
3.80 Si tratterà dunque di vigilare affinché, dopo l’impulso decisivo dato
dalla presidenza tedesca dell’Unione, non si verifichi il rischio di una
possibile marginalizzazione di tale nuova linea di lavoro. Nel quadro
della nuova e sempre più forte attenzione delle diverse istanze europee alle questioni sociali e del benessere dei cittadini, la famiglia
comincia ad essere un nuovo centro di attenzione, riflessione e azione. Queste prime e timide aperture devono essere progressivamente rafforzate ed estese, grazie a un piano di lavoro articolato che
dovrebbe concludersi con il 3° forum demografico europeo, previsto
nel 2010.
3.90 Più in generale si tratta di riconoscere pragmaticamente il contributo sostanziale che le famiglie continuano a garantire alle nostre società e alla cura, in concreto, delle persone in ogni età della vita, considerando anche da questo punto di vista sia l’utilità sociale ed economica della famiglia sia l’insostenibile aumento dei costi che si avrebbe in termini soprattutto di servizi di welfare, qualora essa non fosse
adeguatamente sostenuta ed incoraggiata nello svolgimento del proprio ruolo.
3.10 In questa prospettiva un ruolo significativo lo stanno già svolgendo i
partner sociali ai diversi livelli. Nell’ambito del loro primo programma di lavoro congiunto 2003-2006, i partner sociali europei hanno
173
presentato una griglia di azione in materia di pari opportunità, con un
riferimento particolare alla conciliazione tra vita familiare e vita professionale e tutte le materie connesse, mentre il loro secondo programma per il 2006-2008 è basato su un’ampia analisi delle principali sfide del mercato del lavoro13. Il CESE incoraggia le parti sociali a
proseguire in questa direzione.
3.11 Si deve anche e sempre più considerare la dimensione strutturale del
ruolo di produzione e riproduzione del capitale sociale e relazionale, il quale viene vieppiù riconosciuto come fondante per il benessere dei singoli cittadini e della società tutta. Il tempo dedicato ai figli e
alla famiglia è certamente un tempo che viene sottratto alla carriera,
ma è anche un investimento nella cura o nella formazione delle persone e dunque va riconosciuto e valorizzato. Si deve riflettere quindi sulla possibilità di affiancare alle misure già esistenti (trasferimenti, detrazioni fiscali, congedi parentali, ecc.) anche una qualche forma
di riconoscimento pensionistico del tempo dedicato alla cura dei
14
soggetti non autosufficienti che vivono in famiglia , evitando così che
la solidarietà tra generazioni crei un debito differito (in termini di
pensioni inadeguate e conseguente maggiore rischio di povertà), che
peserà soprattutto sulle donne.
3.12 Così si deve anche considerare la dimensione di dono gratuito del
tempo, che è difficilmente contabilizzabile e dunque spesso invisibile,
ma che tuttavia incide profondamente sulla qualità della vita sociale,
fatto che è sempre più ricercato e apprezzato dalla maggior parte
delle persone.
3.13 È necessario pertanto che venga espressa una diversa valorizzazione
sociale, esplicita e positiva, verso questa dimensione strutturale e
fondante delle persone, originaria e generativa del legame sociale, che
accompagni un migliore sviluppo e adeguamento di tutte le altre condizioni di ambiente e di servizi atte a consentire di realizzare le aspettative di creare una propria famiglia, di avere il numero dei figli desiderato e di prendersi cura in modo sereno dei propri cari.
4. Osservazioni specifiche
4.12 La comunicazione della Commissione individua già alcune linee di
lavoro positive e ben strutturate nelle intenzioni e nelle prime applicazioni (come è il caso dell’insediamento del gruppo di alto livello di
174
zoom
esperti governativi sulle questioni demografiche). Il CESE appoggia
queste linee di lavoro, ne incoraggia il pieno sviluppo e auspica che ad
esse venga costantemente data un’adeguata pubblicità e ne vengano
diffusamente comunicati gli stati di avanzamento, per cercare di conseguire la maggiore partecipazione possibile al processo.
4.22 Per quanto attiene il positivo coinvolgimento degli enti locali e regionali, che ricopre una particolare rilevanza visto il ruolo sempre più
significativo e centrale di tali istituzioni nella produzione di servizi
sociali e nella realizzazione di sperimentazioni efficaci, sembra opportuno non solo incoraggiare la realizzazione di forum regionali e locali, ma anche invitare la Commissione a svolgere un ruolo proattivo e,
d’intesa con i soggetti interessati, a predisporre e sostenere un piano
articolato di forum e iniziative in tutti i paesi dell’Unione, al fine di
garantire la massima adesione al processo.
4.32 Il CESE ritiene che la creazione di un osservatorio delle buone prassi in materia di politiche familiari in seno alla Fondazione europea per
il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro vada appoggiata e
raccomanda che questa intervenga nel quadro di una stretta consultazione degli attori della società civile, e in particolare delle associazioni familiari, nelle varie fasi del processo.
4.42 Sarà poi necessario vegliare affinché il focus principale di tale osservatorio non sia limitato alle sole questioni familiari correlate alla vita
lavorativa, ma sia piuttosto orientato a sviluppare una puntuale ricognizione sui bisogni della famiglia e delle generazioni, così come sull’offerta e sulla spesa destinata a tutelare e promuovere lo sviluppo
di nuove solidarietà tra le generazioni. In questo modo si contribuirebbe alla messa in evidenza dello stato delle infrastrutture di cittadinanza sociale oggi esistenti nei paesi dell’Unione15.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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4.52 Per quanto attiene la ricerca, il CESE suggerisce anche i seguenti assi
specifici di lavoro:
• il ruolo e l’impatto che politiche fiscali (sia per quanto attiene i trasferimenti che le deduzioni e le detrazioni fiscali) praticate dai
diversi paesi dell’Unione hanno sul sostegno o sulla penalizzazione
della vita familiare: questo vale, in particolare per quanto concerne
i figli (dalla nascita, alla cura, all’educazione) e le persone adulte a
carico dei singoli nuclei familiari, la conciliazione della vita professionale e familiare, l’occupazione femminile e una più equa divisione dei compiti tra uomini e donne,
175
4.52 • le politiche e le azioni nel campo della terza età attiva, tenuto conto
che esiste un lasso di tempo sempre più significativo tra il momento del pensionamento e le situazioni di dipendenza dovute a malattie o all’età avanzata - anche con riguardo al moltiplicarsi di iniziative e azioni di impegno e coinvolgimento delle persone anziane in
attività sociali e culturali a favore della propria comunità, fatto che
accresce la qualità del capitale sociale complessivo,
4.52 • la prospettiva del ciclo di vita, per indagare se rispetto alla dimensione longitudinale attuale della media delle biografie di vita16 non sia
ipotizzabile ricercare una struttura più mobile e alternata, nella quale
l’investimento famigliare, le pause per dedicarsi ai figli o altre persone bisognose di cure o per la propria formazione, non siano più considerate una fortunata eccezione oppure non comportino, soprattutto per le donne, un’inevitabile penalizzazione di carriera, ma
diventino progressivamente una condizione normale ed ordinaria
per la maggior parte degli uomini e delle donne che lo desiderino17,
4.52 • a questo proposito, le ricerche dovranno anche tener conto del
fatto che il già menzionato forte aumento del numero di famiglie
monoparentali rischia di condurre a situazioni di solitudine nella
terza età, sulle quali le spese obbligatorie avranno un forte impatto
negativo e alle quali una struttura mobile del ciclo di vita potrebbe
nuocere pesantemente. Sarà inoltre necessario studiare quali misure dovranno essere prese affinché le pensioni possano garantire a
tutti un livello di vita decoroso, esaminando anche la possibilità di
personalizzare le pensioni all’interno della famiglia,
4.52 • l’impatto sociale e i costi della povertà infantile (tra cui la tratta dei
minori e i reati commessi contro questi ultimi); il sostegno fornito
alle famiglie per far fronte alla disoccupazione, alla malattia, all’abuso di sostanze, ai problemi di salute mentale, alla violenza domestica e alle difficoltà incontrate nell’allevare i figli; gli ostacoli che i giovani di ambo i sessi incontrano nel rendersi indipendenti e dare origine a una famiglia propria.
4.62 Esistono poi due ambiti ancora poco esplorati, e sui quali il CESE
ritiene necessaria una maggiore e più significativa attenzione da parte
della Commissione nell’ambito della presente strategia:
4.52 • le politiche della casa, ancora sostanzialmente concepite all’interno
di un ciclo di vita in cui la parte dedicata al lavoro era assolutamente preponderante, ma che non sembra più corrispondere alla realtà
attuale18. In particolare sul fronte dell’housing sociale, con riferimen-
176
zoom
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
zoom
to sia allo sviluppo di asili famigliari che al diritto e alla concreta possibilità di vivere a casa per molte persone non autosufficienti,
4.52 • la situazione delle persone disabili o in condizione di grande dipendenza, che spesso risiedono al proprio domicilio o nel domicilio
della famiglia: questa rappresenta sia una sfida per l’introduzione di
quei servizi e prodotti in grado di aiutare tali persone a vivere in
modo autonomo a casa propria sia una sfida per le dinamiche della
solitudine delle persone e delle famiglie, delle quali ci si accorge
solo in occasione dell’esplodere di tragedie sociali.
4.72 Particolarmente meritevole di attenzione sembra poi la proposta
recentemente rilanciata alle diverse istituzioni europee da un ampio
cartello di organizzazioni familiari a livello europeo19. Essa consiste
nella richiesta di revisione delle aliquote IVA per gli articoli della
prima infanzia, a cominciare dai pannolini per bambini. In proposito vi
fu già un preciso impegno politico della Commissione, il 19 luglio
2006, di presentare una proposta di revisione della Sesta direttiva ed
in particolare dell’allegato H della direttiva 2006/112/CE, elencante i
prodotti e i servizi per cui gli Stati membri sono autorizzati ad applicare eventualmente un’aliquota ridotta non inferiore al 5%20.Tali articoli hanno un costo che mediamente incide in modo molto significativo sui bilanci familiari in tutta Europa. Il CESE sostiene tale proposta la quale rientra nelle competenze dell’Unione europea e potrebbe rappresentare un modo concreto per incoraggiare gli Stati membri a varare un sostegno economico delle famiglie di tutto riguardo.
4.82 Sembra infine opportuno richiamare ancora due linee di lavoro specifiche.
4.52 • La necessità di stabilire un più preciso Family mainstreaming delle
diverse politiche dell’Unione, per tenere conto sistematicamente
sia dell’impatto sulle famiglie delle singole misure messe in atto, sia
della dimensione familiare all’interno dei diversi settori di azione
sociale ed economica dell’Unione.A questo proposito, il CESE ritiene opportuno che la Commissione rilanci il gruppo Interservizi,
creato nel 1989 ma poi lasciato cadere, che le consentirebbe di
coordinare maggiormente la sua azione in materia.
4.52 • La necessità di una consultazione sistematica dei cittadini europei e
in particolare delle associazioni famigliari e dei partner sociali, per
consentire una migliore valutazione in itinere delle misure prese, una
più corretta ed efficace diffusione dell’informazione, sostenendo
questo processo sia finanziariamente sia attraverso lo stabilimento di
177
procedure e di sedi adeguate. A tale proposito il CESE può rivelarsi un’ottima sede per dare stabilità strutturale a questo compito.
5. Conclusioni
5.12 Il tema della solidarietà tra le generazioni non dovrà privilegiare e
dunque limitarsi alla sola questione demografica - pur riconoscendo
l’importanza della sfida che quest’ultima pone - ma dovrà sempre più
essere concepito come un problema prioritario dei prossimi anni, tra
centri di responsabilità orizzontali (istituzioni, partner sociali, organizzazioni della società civile, ecc.) e longitudinali (giovani, anziani,
ecc.), in quanto determinante per lo sviluppo europeo (economico,
sociale e culturale) e per il rinnovo dello stesso patto sociale sul
quale si reggono le nostre democrazie.
Infatti, le culture della solidarietà, che hanno sinora caratterizzato lo
sviluppo europeo, hanno reso possibili nel tempo soluzioni tanto originali quanto sostenibili, che si sono rivelate determinanti per il suo
sviluppo umano, sociale ed economico: dai sistemi nazionali di welfare al rapporto tra diritti e doveri sociali, dallo sviluppo dei diritti di
cittadinanza all’incontro e alla continuità di responsabilità tra generazioni nella famiglia.
5.22 Come diceva lo scrittore francese Antoine de Saint-Exupery, il futuro
non si tratta solo di prevederlo, ma di renderlo possibile. Si tratta dunque di operare affinché cresca una nuova fiducia nel futuro da parte
di tutti i cittadini, in particolare le famiglie e soprattutto i giovani. Così
essi non saranno più costretti a fare i conti con un ambiente sociale
così sfavorevole, in termini di risorse, servizi e tempi, da obbligarli a
rinviare troppo avanti nel tempo la decisione di realizzare i propri
progetti famigliari e di avere il numero desiderato di figli. Ma avvertiranno piuttosto la solidità di una rinnovata alleanza solidale tra le
generazioni e saranno messi nelle condizioni di poter dare il proprio
contributo e di potersi così misurare con le sfide del nostro tempo.
Bruxelles, 14 novembre 2007
178
La presidente
della sezione specializzata
Occupazione, affari sociali, cittadinanza
Il Segretario generale
del Comitato economico
e sociale europeo
Brenda KING
Patrick VENTURINI
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note
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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1 Cfr. il parere del CESE del 16 dicembre 2004 sul tema I rapporti fra le generazioni (relatore: BLOCH-LAINÉ),
GU C 157 del 28.6.2005; il parere del CESE del 14 marzo 2007 sul tema La famiglia e l’evoluzione demografica (relatore: BUFFETAUT), GU C 161 del 13.7.2007; il parere del CESE del 14 marzo 2007 sul tema L’impatto
dell’invecchiamento della popolazione in termini economici e di bilancio (relatrice: FLORIO), GU C 161 del
13.7.2007 e Il ruolo delle parti sociali nella conciliazione della vita professionale, familiare e privata (relatore: CLEVER), luglio 2007; per non citare che i principali.
2 COM(2005) 94 def.
3 COM(2006) 571 def., su cui si pronunciò il Comitato, nell’ambito del parere esplorativo richiesto dalla presidenza tedesca, con il parere del CESE del 14 marzo 2007 sul tema La famiglia e l’evoluzione demografica (relatore: BUFFETAUT), GU C 161 del 13.7.2007.
4 Cfr. il parere CESE del 28 settembre 2005 in merito al Libro verde sul diritto applicabile e sulla giurisdizione in materia di divorzio, relatore Returea (GU C 24 del 31.1.2006), in cui si afferma che “Il Libro verde
propone saggiamente di non percorrere la strada dell’armonizzazione del diritto sostanziale”.
5 Eurostat, Population in Europe, 2005. Sebbene la diffusione delle famiglie monogenitoriali sia molto diversa
all’interno dei paesi dell’Unione europea (in Italia è meno diffusa, al contrario della Svezia), la composizione
per genere è pressoché identica in tutte le realtà nazionali e presenta una netta prevalenza delle donne, con
l’unica eccezione della Svezia, dove il 26% dei genitori soli con figli sono uomini.
6 La povertà è qui calcolata in misura relativa ai livelli di reddito di ogni Stato membro, cosicché essa risulta inferiore in alcuni dei nuovi Stati membri (per esempio, solo il 6% in Polonia), mentre è assai più alta in
altri come l’Irlanda (44%), la Grecia (33%), il Portogallo (30%), il Belgio (26%) o la Gran Bretagna (24%). La
realtà sociale in Europa, documento base per la consultazione predisposto dal BEPA, marzo 2007.
7 Special Eurobarometer 273, European Social Reality, February 2007.
8 Cfr. in proposito il libro Valori a confronto, a cura di R. Gubert e G. Pollini, Milano 206, il quale si basa sui
dati della ricerca dell’European Values Study, condotta presso 40.000 cittadini di 33 Stati europei (agli Stati
membri dell’UE si aggiungono alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa) ad opera di varie università europee. Anche la ricerca The demografic future of Europe, realizzata dal Robert Bosch Institute, assieme all’Istituto
federale tedesco di ricerche demografiche, intervistando 34.000 cittadini di 14 Stati europei conferma il forte
attaccamento degli europei all’istituzione familiare.
9 Calcolo effettuato sulla base di una soglia di povertà del 60% del reddito medio. Situazione sociale in
Europa 2004 e Eurostat 2003. Cfr. anche l’ultimo Rapporto sulla situazione sociale in Europa 2005-2006, pubblicato nella primavera del 2007 dalla Commissione, avente per tema l’equilibrio tra generazioni in un’Europa
che invecchia.
10 Le questioni riguardanti la famiglia sono affidate alla direzione generale Occupazione, affari sociali e pari
opportunità. È possibile reperire documenti specifici sul portale dell’Alleanza europea per le famiglie,
http://ec.europa.eu/employment_social/families/index_en.html.
Resta tuttavia da deplorare il fatto che non sia possibile accedere a tutto l’importante insieme di lavoro svolto negli anni precedenti al 2000 dal già citato Osservatorio sulla famiglia istituito nel 1989 e sulle importanti attività svolte per oltre un decennio.
11 Susy Giullari e Jane Lewis, The adult Worker Model Family, Gender equality and care; politique sociale et développement, Document de programme 19, Institut de recherche des Nations Unies pour le développement social, avril
2005.
12 Si tratta degli articoli 7, 9, 14, 24-3, 33, 34.
13 Nel luglio 2007 le parti sociali europee hanno inviato una lettera al commissario ?PIDLA in cui esprimevano la loro volontà di chiarire la direttiva sul congedo parentale e la situazione relativa alla conciliazione
del lavoro e della vita familiare nell’UE. A tal fine è stato istituito un gruppo di lavoro congiunto che deve
presentare una relazione al vertice Affari sociali dell’UE che si terrà nel marzo 2008.
14 Cfr. per esempio - le nuove misure previste in Finlandia, dove le parti sociali hanno negoziato un’importante riforma del sistema pensionistico nel 2003, poi approvata dal Parlamento nel 2004 ed entrata in vigore nel 2005. Per maggiori informazioni, cfr. le pagine in inglese sul sito www.tyoelake.fi.
15 Cfr. il parere del CESE del 10 dicembre 2003 sul tema Agenda per la politica sociale (relatore: JAHIER), GU
C 80 del 30.3.2004.
16 Una biografia che oggi mediamente prevede un susseguirsi assolutamente rigido dei tempi di crescita, formazione, difficoltoso e prolungato inserimento nel mondo del lavoro, con conseguenze inevitabili sui tempi
179
della famiglia e della possibile natalità, finendo poi nella maturità avanzata con la necessità di dover far fronte al doppio carico del sostegno dei figli e della cura dei propri anziani in condizioni di non autosufficienza.
17 A questo proposito sono assolutamente da incoraggiare ed ampliare le linee di ricerca, peraltro già previste, della Fondazione di Dublino.
18 A questo proposito si rimanda anche al parere L’abitazione e la politica regionale (relatore: GRASSO, correlatrice: PRUD’HOMME), CESE 407/2007 del 15 marzo 2007.
19 Il 15 maggio scorso, in occasione della Giornata internazionale della famiglia, la ELFAC (Confederazione
europea delle famiglie numerose), insieme a molte altre organizzazioni quali la Coface e altre, hanno lanciato un appello ai responsabili delle istituzioni dal titolo Need for reduced VAT on essential items for child raising.
Ulteriori documentazioni e informazioni sul sito www.elfac.org.
20 Ad oggi, già alcuni Stati membri applicano un’aliquota IVA ridotta ai pannolini per bambini, ma si ritiene
che debba essere presa una decisione più significativa, che comprenda tutti i prodotti per la prima infanzia,
a partire da quelli destinati all’alimentazione e al vestiario, che sono tutt’ora soggetti alle aliquote massime.
180
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COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE
Bruxelles, 27.6.2007
COM(2007) 359 definitivo
COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL PARLAMENTO EUROPEO, AL
CONSIGLIO, AL COMITATO ECONOMICO E SOCIALE EUROPEO E AL
COMITATO DELLE REGIONI
Verso principi comuni di flessicurezza:
Posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza
{SEC(2007) 861}
{SEC(2007) 862}
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Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
181
INDICE
1.
Le sfide e le opportunità presentate dalla globalizzazione e dal cambiamento ........... 3
2.
Una strategia integrata di flessicurezza........................................................................ 4
3.
Politiche di flessicurezza: l'esperienza degli Stati membri .......................................... 8
4.
Flessicurezza e dialogo sociale .................................................................................... 9
5.
Sviluppare principi comuni di flessicurezza .............................................................. 10
6.
Percorsi di flessicurezza............................................................................................. 11
7.
La dimensione finanziaria della flessicurezza............................................................ 12
8.
I prossimi passi: la flessicurezza e la strategia di Lisbona per la crescita e
l'occupazione .............................................................................................................. 13
ALLEGATO I PERCORSI DI FLESSICUREZZA................................................................. 15
ALLEGATO II ESEMPI DI FLESSICUREZZA .................................................................... 22
ALLEGATO III INDICATORI DI CONTESTO PERTINENTI PER LA FLESSICUREZZA
.................................................................................................................................................. 25
2
182
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1.
LE SFIDE E LE OPPORTUNITÀ PRESENTATE DALLA GLOBALIZZAZIONE E DAL
CAMBIAMENTO
Il modo in cui i cittadini europei vivono e lavorano sta cambiando rapidamente1. Se
ne possono indicare quattro motivi principali: l'integrazione economica europea e
internazionale, lo sviluppo di nuove tecnologie, in particolare nei settori
dell'informazione e della comunicazione, l'invecchiamento demografico delle società
europee unitamente a tassi d'occupazione ancora relativamente bassi e a un'elevata
disoccupazione di lungo periodo che mettono a rischio la sostenibilità dei sistemi di
protezione sociale. A ciò si aggiunge l'emergere, in diversi paesi, di mercati del
lavoro segmentati2 in cui coesistono lavoratori relativamente protetti e lavoratori
sprovvisti di protezione (gli "insider" e gli "outsider").
Nel complesso la globalizzazione rappresenta un'occasione per la crescita e
l'occupazione, ma i cambiamenti che essa reca con sé richiedono risposte rapide da
parte delle imprese e dei lavoratori. L'occupazione è aumentata nell'UE e la
disoccupazione registra un calo costante. Questi sviluppi positivi costituiscono un
buon punto di partenza anche se nell'UE vi sono ancora 17 milioni di disoccupati
(2007) e le economie europee si devono ancora ristrutturare. Il processo di
adattamento richiede un mercato del lavoro maggiormente flessibile combinato con
livelli di sicurezza che tengano conto contemporaneamente delle nuove esigenze dei
datori di lavoro e dei lavoratori. L'Europa deve creare posti di lavoro più numerosi e
migliori per gestire il cambiamento e i nuovi rischi sociali. Essa deve ridurre la
segmentazione dei mercati del lavoro e il precariato e promuovere un'integrazione
sostenibile e l'accumulo di competenze. Le donne, i giovani e i migranti sono già
sovrarappresentati tra gli outsider del mercato del lavoro e i lavoratori anziani si
trovano ad affrontare molteplici difficoltà per trovare un posto di lavoro3. Anche chi
ha un contratto a tempo indeterminato si può sentire minacciato perché in caso di
licenziamento si trova ad affrontare le stesse difficoltà a trovare un posto di lavoro di
qualità.
Per raggiungere gli obiettivi di Lisbona relativi a posti di lavoro più numerosi e
migliori servono nuove forme di flessibilità e di sicurezza. I singoli hanno sempre
più bisogno di sicurezza dell'occupazione piuttosto che di sicurezza del posto di
lavoro, poiché sono sempre meno coloro che hanno lo stesso impiego per tutta la
vita. Le imprese, soprattutto le piccole e medie, devono essere in grado di adattare la
loro forza lavoro al cambiamento delle condizioni economiche. Esse devono essere
in grado di reclutare personale dotato di competenze meglio rispondenti alle loro
esigenze, più produttivo e adattabile in modo da assicurare l'innovazione e la
competitività. Tuttavia, l'Europa non si sta adeguando come potrebbe agli shock cui è
esposta la sua economia. Ciò può aggravare le preoccupazioni legate all'outsourcing
e alla delocalizzazione4, oltre ad accrescere le differenze salariali e i divari tra
lavoratori qualificati e lavoratori non qualificati5. L'UE e i suoi Stati membri devono
2
3
4
5
BEPA (2007): Europe's Social Reality.
Commissione europea, "L'occupazione in Europa 2004", capitolo 4.
OECD (2006): Live longer, work longer. Vedi anche OECD 2007 Employment Outlook.
BEPA (2006): EU competitiveness and industrial location.
J. Hudson: Inequality and the Knowledge economy: Running or standstill?
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
zoom
1
183
procedere ulteriormente verso un'economia delle conoscenze dinamica e efficace,
tale da distribuire la prosperità in modo più equo in tutta la società. Deve aumentare
il numero di coloro che traggono profitto dal cambiamento e si deve assicurare una
più intensa mobilità ascendente. Si deve riuscire a trasformare un maggior numero di
"esclusi" in "inclusi".
I cittadini dell'UE accettano la necessità dell'adattamento e del cambiamento. Il 76%
dei cittadini europei concorda che il fatto di avere lo stesso posto di lavoro con lo
stesso datore di lavoro per tutta la vita è una cosa del passato. Il 76% ritiene inoltre
che il fatto di poter passare facilmente da un lavoro all'altro costituisce oggi un
vantaggio per riuscire a trovare lavoro. Il 72% dichiara che i contratti di lavoro
dovrebbero diventare più flessibili per incoraggiare la creazione di posti di lavoro. E
infine, l'88% dei cittadini afferma che una formazione regolare migliora le
opportunità lavorative6.
La risposta politica complessiva dell'UE alle sfide e alle opportunità presentate dalla
globalizzazione è data dalla rinnovata strategia di Lisbona per la crescita e
l'occupazione. Il Consiglio europeo ha sollecitato gli Stati membri "a sviluppare in
maniera più sistematica nei piani nazionali di riforma strategie a tutto campo per
migliorare l'adattabilità dei lavoratori e delle imprese". La Commissione, assieme
agli Stati membri e alle parti sociali, è stata invitata a esaminare "lo sviluppo di una
serie di principi comuni in materia di flessicurezza" quale utile riferimento per
conseguire mercati del lavoro più aperti e reattivi, nonché luoghi di lavoro più
produttivi7.
2.
UNA STRATEGIA INTEGRATA DI FLESSICUREZZA
La motivazione di fondo di una strategia integrata di flessicurezza è data dalla
necessità di raggiungere gli obiettivi della rinnovata strategia di Lisbona8, in
particolare posti di lavoro più numerosi e migliori, e nel contempo di ammodernare il
modello sociale europeo. Ciò richiede politiche che affrontino contemporaneamente
aspetti quali la flessibilità dei mercati del lavoro, dell'organizzazione del lavoro e
delle relazioni di lavoro nonché la sicurezza – intesa quale sicurezza dell'occupazione
e sicurezza sociale.
La flessicurezza intende assicurare che i cittadini dell'UE possano beneficiare di un
livello elevato di sicurezza occupazionale, vale a dire della possibilità di trovare
agevolmente un lavoro in ogni fase della loro vita attiva e di avere buone prospettive
di sviluppo della carriera in un contesto economico in rapido cambiamento. Essa
intende anche aiutare sia i lavoratori che i datori di lavoro a cogliere appieno le
opportunità che la globalizzazione presenta. Essa crea quindi una situazione in cui la
sicurezza e la flessibilità possono rafforzarsi reciprocamente.
Gli Stati membri dovrebbero fare di più per rendere i loro mercati del lavoro
maggiormente di favorevoli all'occupazione: le misure politiche sono spesso
concepite e attuate in modo frammentato senza tenere conto delle problematiche più
6
7
8
184
European Employment and Social Policy, Special Eurobarometer 261, October 2006.
Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo 23/24 marzo 2006 e 8 marzo 2007.
Relazioni annuali sullo stato di avanzamento, del gennaio e dicembre 2006: orientamento 21.
zoom
ampie presenti sul mercato del lavoro. Troppo spesso le politiche intendono
accrescere o la flessibilità per le imprese o la sicurezza dei lavoratori con il risultato
di neutralizzarsi o contraddirsi a vicenda. La ripresa dell'economia con la crescita
economica al livello più alto da sei anni e con la creazione di 7 milioni di nuovi posti
di lavoro tra il 2005 e il 2008 costituisce un'opportunità per l'Unione e per gli Stati
membri: si devono ora raddoppiare gli sforzi e avviare le riforme necessarie per far
fronte agli impegni dell'Unione in materia di crescita e occupazione e di coesione
economica e sociale.
Cos'è la flessicurezza?
La flessicurezza può essere definita quale strategia integrata volta a promuovere
contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro.
La flessibilità, da un lato, ha a che fare con i momenti di passaggio ("transizioni")
che contrassegnano la vita di un individuo: dal mondo della scuola a quello del
lavoro, da un'occupazione a un'altra, tra la disoccupazione o l'inattività e il lavoro e
dal lavoro al pensionamento. Essa non comporta soltanto una maggiore libertà per le
imprese di assumere o licenziare e non implica che i contratti a tempo indeterminato
siano un fenomeno obsoleto. La flessibilità significa assicurare ai lavoratori posti di
lavoro migliori, la "mobilità ascendente", lo sviluppo ottimale dei talenti. La
flessibilità riguarda anche organizzazioni del lavoro flessibili, capaci di rispondere
con efficacia ai nuovi bisogni e alle nuove competenze richieste dalla produzione;
riguarda anche una migliore conciliazione tra lavoro e responsabilità private. La
sicurezza, d'altro canto, è qualcosa di più che la semplice sicurezza di mantenere il
proprio posto di lavoro: essa significa dotare le persone delle competenze che
consentano loro di progredire durante la loro vita lavorativa e le aiutino a trovare un
nuovo posto di lavoro. Essa ha anche a che fare con adeguate indennità di
disoccupazione per agevolare le transizioni. Essa comprende inoltre opportunità di
formazione per tutti i lavoratori, soprattutto per quelli scarsamente qualificati e per i
lavoratori anziani.
Le imprese e i lavoratori possono quindi beneficiare sia della flessibilità che della
sicurezza, ad esempio grazie a una migliore organizzazione del lavoro9, alla mobilità
ascendente dovuta al miglioramento delle competenze, agli investimenti nella
formazione che vanno a vantaggio delle imprese aiutando nel contempo i lavoratori
ad adattarsi e ad accettare il cambiamento.
Le componenti della flessicurezza
La Commissione e gli Stati membri, in base all'esperienza e ai risultati dell'evidenza
empirica, hanno raggiunto un consenso sul fatto che è possibile concepire e attuare
politiche di flessicurezza attraverso quattro componenti politiche:
9
forme contrattuali flessibili e affidabili (nell'ottica del datore di lavoro e del
lavoratore, degli "insider" e degli "outsider") mediante una normativa del
lavoro, contrattazioni collettive e un'organizzazione del lavoro moderne;
zoom
–
OECD (2006): Live longer, work longer.
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185
–
strategie integrate di apprendimento lungo tutto l'arco della vita per assicurare
la continua adattabilità e occupabilità dei lavoratori, in particolare di quelli più
vulnerabili;
–
efficaci politiche attive del mercato del lavoro che aiutino le persone a far
fronte a cambiamenti rapidi, riducano i periodi di disoccupazione e agevolino
la transizione verso nuovi posti di lavoro;
–
sistemi moderni di sicurezza sociale che forniscano un adeguato supporto al
reddito, incoraggino l'occupazione e agevolino la mobilità sul mercato del
lavoro. Questo include un'ampia copertura delle prestazioni sociali (indennità
di disoccupazione, pensioni e assistenza sanitaria) che aiutino le persone a
conciliare il lavoro con le responsabilità private e familiari, come ad esempio la
cura dei figli.
Come funziona la flessicurezza
L'analisi economica10 dimostra che queste quattro componenti possono rinforzarsi
l'una con l'altra e migliorare l'occupazione (complessiva come anche quella delle
donne, dei giovani e dei lavoratori anziani), i tassi di coloro che sono a rischio di
povertà e il capitale umano.
Mentre certi lavoratori subiscono un'elevata flessibilità e poca sicurezza, altri hanno
forme contrattuali che scoraggiano o ritardano i trasferimenti. Ciò avviene in
particolare laddove vi è una rigida legislazione a tutela dell'occupazione che si
frappone ai licenziamenti di natura economica. Sulla base delle analisi di cui si
dispone11, una legislazione rigida a tutela dell'occupazione12 riduce il numero di
licenziamenti ma fa anche calare il numero delle transizioni dalla disoccupazione al
lavoro. Al momento di reclutare nuovo personale le aziende tengono conto della
probabilità di trovarsi ad incorrere in futuro in elevati costi di licenziamento. Questa
è una preoccupazione particolarmente avvertita dalle piccole imprese. Le analisi13
suggeriscono inoltre che, sebbene al livello della disoccupazione complessiva
l'impatto di una legislazione rigida a tutela dell'occupazione sia limitato, esso può
avere un impatto negativo sui gruppi più esposti ad incontrare problemi di accesso al
mercato del lavoro, come i giovani, le donne, i lavoratori anziani e i disoccupati di
lunga durata. Le donne, ad esempio, sono più soggette degli uomini a entrare e uscire
ripetutamente dal mondo del lavoro, in particolare quando si trovano a dover
conciliare il lavoro e la vita familiare, e risentono quindi maggiormente delle minori
possibilità di assunzione determinate da una legislazione rigida a tutela
dell'occupazione. Una legislazione rigida a tutela dell'occupazione incoraggia spesso
il ricorso a tutta una serie di contratti temporanei scarsamente tutelati – che
riguardano soprattutto donne e giovani – con limitate transizioni verso posti di lavoro
10
11
12
13
European Commission, Employment in Europe 2006, Chapter 2.
OECD (2004) Employment Outlook, Chapter 2.
L'OCSE valuta il rigore complessivo della legislazione a tutela dell'occupazione. Vedi ad esempio
OECD (2004): Employment Outlook.
Ad. es. Algan and Cahuc (2004), Job Protection: the Macho Hypothesis, IZA DP no. 1192 and Nickell
and Layard, (1999), Labour Market Institutions and Economic Performance, in: Ashenfelter and Card
(Eds.), Handbook of Labour Economics.
I
186
zoom
a tempo indeterminato14. Ne risulta una segmentazione del mercato del lavoro cui la
flessicurezza intende porre rimedio. La legislazione a tutela dell'occupazione ha
ovviamente anche effetti positivi; in particolare, incoraggia le imprese a investire
nella formazione oltre a promouovere la lealtà e una maggiore produttività dei
lavoratori.
Strategie integrate di apprendimento lungo tutto l'arco della vita e migliori
investimenti nelle risorse umane sono necessari per rispondere al ritmo rapido del
cambiamento e dell'innovazione. Si tratta di un fattore sempre più cruciale sia per la
competitività delle aziende sia per l'occupabilità di lungo periodo dei lavoratori.
Un'educazione di base di elevata qualità, un'ampia gamma di capacità chiave e
investimenti continuativi nelle competenze migliorano le opportunità che ha
un'impresa di far fronte al cambiamento economico e le opportunità che hanno i
lavoratori di rimanere occupati o di trovare una nuova occupazione. Un'elevata
partecipazione all'apprendimento permanente è correlata positivamente con un tasso
elevato di occupazione e un basso tasso di disoccupazione (di lungo periodo)15.
Troppo spesso però questi investimenti vanno a solo vantaggio delle persone più
qualificate16: le persone che hanno maggiormente bisogno di apprendere, come ad
esempio i lavoratori scarsamente qualificati, i lavoratori con contratto temporaneo, i
lavoratori autonomi e i lavoratori anziani, sono coloro che maggiormente risentono
del sottoinvestimento in tale ambito. Le imprese possono essere scoraggiate
dall'investire nell'aumento delle competenze poiché il personale formato può venire
poi reclutato da altre imprese. La condivisione dei costi, ad esempio costituendo
apposite fonti di finanziamento a livello settoriale, possono in parte contribuire a
prevenire tale problema. Strategie inclusive di apprendimento permanente richiedono
la partecipazione attiva dei governi, delle parti sociali, delle imprese e dei singoli
lavoratori.
Sistemi moderni di sicurezza sociale che offrano adeguate indennità di
disoccupazione, nonché politiche attive del mercato del lavoro sono componenti
essenzali per la sicurezza dei redditi e per il sostegno durante i cambiamenti di
lavoro. Validi sistemi di indennità di disoccupazione sono necessari per compensare
le conseguenze negative sui redditi dovute ai trasferimenti da un lavoro all'altro, ma
possono avere un effetto negativo sull'intensità della ricerca di lavoro e possono
ridurre gli incentivi finanziari ad accettare un lavoro. A questo si può ampiamente
ovviare mettendo a punto un sostegno alla ricerca del lavoro e incentivi a lavorare
efficaci17, assicurando un equilibrio tra i diritti e i doveri. Dall'evidenza empirica
sisulta che un'assistenza diretta alla ricerca di un lavoro, come ad esempio corsi di
tecniche di ricerca del lavoro e job club, risultano essere tra le misure più efficaci per
aiutare i disoccupati a rientrare nel mondo del lavoro18. L'investimento in politiche
attive del mercato del lavoro è associato a una più contenuta disoccupazione
15
16
17
18
Commissione europea, "L'occupazione in Europa", 2004.
Employment in Europe 2006: p. 108.
OECD (2005): Promoting Adult Learning.
OECD (2005): From unemployment to work.
Jochen Kluve, The Effectiveness of Active Labour Market Policy, IZA Discussion Paper, March 2007.
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zoom
14
187
aggregata19. L'efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro ha una
correlazione positiva con legislazioni meno rigide a tutela del lavoro20.
Un'efficace strategia di flessicurezza deve trovare un giusto equilibrio tra la funzione
di assicurazione dei redditi insita nel sistema di indennità di disoccupazione e
un'appropriata strategia di "attivazione" volta ad agevolare le transizioni verso il
mondo del lavoro e potenziare lo sviluppo delle carriere. L'evidenza suggerisce che i
i lavoratori si sentono maggiormente protetti da adeguate indennità di
disoccupazione piuttosto che da una rigida protezione contro i licenziamenti. Le
politiche attive del mercato del lavoro hanno anche un effetto positivo sulla
sensazione di sicurezza dei lavoratori21. Se si chiede ai lavoratori quali sono le loro
possibilità di trovare un nuovo lavoro in caso di licenziamento, gli intervistati
reagiscono in modo estremamente diverso in Europa. Ad esempio, i lavoratori
francesi, che godono di un'elevata legislazione a tutela dell'occupazione, ritengono
molto basse le loro opportunità in tal senso mentre i lavoratori danesi, che fruiscono
di una legislazione a tutela dell'occupazione alquanto moderata, considerano le loro
opportunità estremamente alte22. Ciò indica come adeguate indennità di
disoccupazione, efficaci politiche attive del mercato del lavoro e mercati del lavoro
dinamici accrescano la sensazione di sicurezza dei singoli.
3.
POLITICHE DI FLESSICUREZZA: L'ESPERIENZA DEGLI STATI MEMBRI
Negli ultimi anni il dibattito sulla flessicurezza si è ispirato ai risultati positivi in
termini occupazionali e socioeconomici registrati in alcuni Stati membri, come
indicato dalla rilanciata job strategy dell'OCSE23. L'OCSE caratterizza la
flessicurezza essenzialmente nel seguente modo: una legislazione moderata a tutela
dell'occupazione; un'elevata partecipazione all'apprendimento permanente; un
investimento elevato in politiche attive del mercato del lavoro (sia passive che
attive); sistemi generosi di indennità di disoccupazione che equilibrino i diritti e i
doveri; un'ampia copertura assicurata dai sistemi di sicurezza sociale; e un'elevata
copertura sindacale. I risultati socioeconomici sono caratterizzati da elevati tassi di
occupazione, ridotti tassi di disoccupazione e contenuti tassi di povertà relativa
rispetto alla media UE. Studi condotti nell'ambito dell'OCSE24, dell'OIL25 e della
Commissione europea26 indicano che le politiche di flessicurezza hanno contribuito
alla realizzazione di questi risultati positivi.
In linea con la strategia per la crescita e l'occupazione, la flessicurezza va vista in un
contesto più ampio. Politiche macroeconomiche valide e finanziariamente sostenibili
19
20
21
22
23
24
25
26
188
OECD: OECD Jobs Strategy: Lessons from a decade's experience.
Jochen Kluve (vedi sopra).
OECD (2004, vedi sopra) and Postel-Vinay and Saint-Martin (2004) 'Comment les salariés perçoiventils la protection de l'emploi?'.
European Employment and Social Policy, Special Eurobarometer 261, p. 27.
OECD (2006), Boosting Jobs and Incomes, Policy Lessons from Reassessing the OECD Jobs Strategy.
Ibidem.
ILO, Seventh European Regional Meeting, 14-18 February 2005: official conclusions no. 18; ILO,
Changing Patterns of Work, Report of the Director-General, June 2006: page 33-35. Vedi anche: S.
Cazes and A. Nesporova, Flexicurity: A relevant approach in Central and Eastern Europe, ILO 2007.
OECD (2006), Boosting Jobs and Incomes, Policy Lessons from Reassessing the OECD Jobs Strategy.
European Commission, DG EMPL, Employment in Europe 2006.
zoom
e efficaci politiche microeconomiche, nonché mercati dei prodotti, servizi e capitali
aperti e competitivi creano un contesto in cui le aziende possono cogliere le
opportunità emergenti, finanziare nuove idee commerciali e creare posti di lavoro.
Analogamente, la flessicurezza deve essere integrata da politiche sociali indirizzate
ai gruppi svantaggiati e alle persone che si trovano più lontane dal mercato del
lavoro.
L'allegato II riporta alcuni esempi di paesi che conducono politiche efficaci di
flessicurezza o affrontano le sfide cui sono esposti in modo globale, orientato alla
flessicurezza.
Per monitorare l'efficacia delle politiche di flessicurezza gli Stati membri e la
Commissione stanno discutendo la definizione e l'uso di indicatori pertinenti; i
risultati di queste attività ancora in corso sono riportati nell'allegato III.
4.
FLESSICUREZZA E DIALOGO SOCIALE
Il coinvolgimento attivo delle parti sociali è la chiave per far sì che la flessicurezza
vada a vantaggio di tutti. È altresì essenziale che tutti gli attori interessati siano pronti
ad accettare il cambiamento e ad assumersene la responsabilità. Strategie integrate di
flessicurezza sono spesso applicate in paesi in cui il dialogo – e soprattutto la fiducia
– tra le parti sociali e tra le parti sociali e le autorità pubbliche ha svolto un ruolo
importante. Le parti sociali si trovano spesso nella posizione migliore per rispondere
alle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori e cogliere le sinergie tra di esse, ad
esempio per quanto concerne l'organizzazione del lavoro o la concezione e
l'attuazione di strategie di apprendimento permanente. Il sostegno delle parti sociali
agli obiettivi centrali della strategia di Lisbona è un elemento importante: tradurre
questo sostegno in iniziative politiche concrete rientra ugualmente nelle
responsabilità dei governi e delle parti sociali. Una strategia integrata di flessicurezza
– contrapposta a misure politiche separate – è concepibilmente il modo migliore per
assicurare che le parti sociali si impegnino in un dibattito generale sull'adattabilità.
L'esperienza insegna che un approccio di partenariato è il più idoneo per sviluppare
una politica di flessicurezza. Spetta ovviamente a questi attori, in quanto
organizzazioni autonome, decidere per conto loro in che modo partecipare,
nell'ambito del dialogo sociale, alle politiche di flessicurezza.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
zoom
In certi Stati membri la flessicurezza potrebbe costituire un quadro per un processo
volto a definire obiettivi nazionali di adattamento e cambiamento per quanto
concerne gli aspetti dell'occupazione, della produttività, della flessibilità e della
sicurezza. Tale processo richiederebbe una maggiore sensibilizzazione sui bisogni
specifici in materia di cambiamento e di miglioramenti politici. Esso verrebbe
avviato dalle autorità pubbliche con il coinvolgimento delle parti sociali ed
eventualmente di altri interessati. Si potrebbe avviare un dialogo nazionale con i
rappresentanti dei datori di lavoro, dei lavoratori, del governo e di altre parti con il
compito di formulare una serie di approcci politici o di negoziare un pacchetto di
misure. Ciò potrebbe sfociare nell'adozione di una strategia nazionale integrata di
flessicurezza. La Commissione incoraggia gli Stati membri a collaborare con le parti
sociali al fine di includere i loro approcci in materia di flessicurezza nei programmi
nazionali di riforma.
189
5.
SVILUPPARE PRINCIPI COMUNI DI FLESSICUREZZA
Se da un lato le politiche e le misure di flessicurezza devono rispecchiare le più
svariate situazioni nazionali, tutti gli Stati membri dell'UE si trovano ad affrontare la
stessa sfida della modernizzazione e dell'adattamento alla globalizzazione e al
cambiamento. Per tale motivo, onde agevolare i dibattiti nazionali nell'ambito degli
obiettivi comuni della strategia per la crescita e l'occupazione, appare opportuno
raggiungere un consenso a livello UE su una serie di "principi comuni di
flessicurezza".
Questi principi comuni potrebbero costituire un utile riferimento per realizzare
mercati del lavoro più aperti e reattivi e posti di lavoro più produttivi. Essi possono
aiutare gli Stati membri a definire e attuare strategie di flessicurezza che tengano
pienamente conto delle sfide, delle opportunità e delle circostanze specifiche cui
sono confrontati, con la partecipazione attiva delle parti sociali.
I principi comuni potrebbero essere:
190
(1)
La flessicurezza comporta accordi contrattuali flessibili e affidabili (nell'ottica
sia del datore di lavoro che del lavoratore, degli insider e degli outsider),
strategie integrate di apprendimento permanente, efficaci politiche attive del
mercato del lavoro e sistemi moderni di sicurezza sociale. Il suo obiettivo è
rafforzare l'attuazione della strategia per la crescita e l'occupazione, creare
posti di lavoro migliori e più numerosi e rafforzare il modello sociale europeo
mettendo a punto nuove forme di flessibilità e sicurezza volte ad aumentare
l'adattabilità, l'occupazione e la coesione sociale.
(2)
La flessicurezza implica un giusto equilibrio tra diritti e responsabilità per i
datori di lavoro, i lavoratori, le persone in cerca di impiego e le autorità
pubbliche.
(3)
La flessicurezza dovrebbe essere adattata alle circostanze, ai mercati del
lavoro e alle relazioni industriali propri degli Stati membri. La flessicurezza
non riguarda un modello unico di mercato del lavoro né un'unica strategia
politica.
(4)
La flessicurezza dovrebbe ridurre il divario tra gli insider e gli outsider nel
mercato del lavoro. Gli insider hanno bisogno di protezione e sostegno per
essere pronti alle transizioni da un lavoro all'altro. Gli outsider – compresi i
disoccupati, tra i quali si annoverano preponderantemente le donne, i giovani
e i migranti – hanno bisogno di facili punti d'accesso al lavoro e di supporti
per progredire verso soluzioni contrattuali stabili.
(5)
Va promossa la flessicurezza interna (all'interno dell'impresa) come anche
quella esterna (da un'impresa all'altra). Una sufficiente libertà di assumere e
licenziare deve essere accompagnata da transizioni sicure da un lavoro
all'altro. Si deve incoraggiare la mobilità ascendente come anche quella tra
disoccupazione o inattività e lavoro. Posti di lavoro di qualità elevata
caratterizzati da quadri capaci, una buona organizzazione del lavoro e un
continuo aggiornamento delle competenze sono tra gli obiettivi della
zoom
flessicurezza. La protezione sociale deve incoraggiare, non ostacolare, la
mobilità.
6.
(6)
La flessicurezza dovrebbe supportare la parità di genere promuovendo un
accesso equo a un'occupazione di qualità per le donne e gli uomini e offrendo
possibilità di conciliare il lavoro e la vita familiare, oltre a fornire pari
opportunità ai migranti, ai giovani disabili e ai lavoratori anziani.
(7)
La flessicurezza richiede un clima di fiducia e il dialogo tra le autorità
pubbliche, le parti sociali e gli altri attori, un clima in cui tutti sono pronti ad
assumersi la responsabilità del cambiamento e a produrre risposte politiche
equilibrate.
(8)
Le politiche di flessicurezza hanno implicazioni finanziarie e dovrebbero
contribuire a politiche di bilancio sane e finanziariamente sostenibili. Esse
dovrebbero mirare a un'equa distribuzione dei costi e benefici, soprattutto tra
le imprese, i singoli individui e i bilanci pubblici, con un'attenzione
particolare per la situazione specifica delle piccole e medie imprese.Allo
stesso tempo, politiche di flessicurezza efficaci possono contribuire a questo
obiettivo generale.
PERCORSI DI FLESSICUREZZA
L'attuazione dei principi comuni di flessicurezza negli Stati membri richiede la
definizione di combinazioni e sequenze di politiche e misure pianificate e negoziate
adeguatamente. Poiché gli Stati membri presentano un contesto socioeconomico,
culturale e istituzionale estremamente variegato, le combinazioni e sequenze
specifiche saranno anch'esse diverse.
Se è vero che la flessicurezza non interessa un modello unico di mercato del lavoro o
un'unica strategia politica, le buone pratiche raccolte in tutta l'Unione forniscono
ampie opportunità agli Stati membri di apprendere l'uno dall'altro e di analizzare ciò
che può funzionare meglio nella loro situazione specifica.
È possibile identificare diverse combinazioni e sequenze "tipiche" delle componenti
politiche della flessicurezza al fine di meglio affrontare le sfide tipiche che i paesi si
trovano ad affrontare sulla via della flessicurezza; tali combinazioni e sequenze sono
i percorsi di flessicurezza. I quattro percorsi tipici – e le sfide cui intendono dare
risposta - riportati nell'allegato I non rispecchiano – né lo potrebbero – la situazione
concreta di un paese specifico. Ciascun percorso però – o addirittura una
combinazione di essi - affronta sfide specifiche proprie a diversi Stati membri.
Gli Stati membri, alla luce della loro situazione specifica e del loro contesto
istituzionale, dovrebbero esaminare, in consultazione con le parti sociali e con gli
27
zoom
Questi percorsi sono stati sviluppati sulla base delle situazioni degli Stati membri
tenendo conto della relazione del gruppo di esperti sulla flessicurezza27.
Flexicurity Pathways, report by Prof. Ton Wilthagen, rapporteur of the Flexicurity Expert Group, May
2007.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
191
altri attori – le sfide specifiche e i percorsi tipici che possono aiutare ad affrontarle al
fine di definire il loro percorso globale verso una migliore combinazione di
flessibilità e sicurezza.
I percorsi tipici dovrebbero fungere anche da strumento per l'apprendimento
reciproco e per il benchmarking nel quadro della strategia di Lisbona rinnovata.
7.
LA DIMENSIONE FINANZIARIA DELLA FLESSICUREZZA
Cambiamenti crescenti nell'economia e nel mercato del lavoro richiedono che i
lavoratori, nel corso della loro carriera lavorativa, si spostino più frequentemente da
un posto di lavoro all'altro. Ciò può comportare che essi debbano ricorrere a
indennità di disoccupazione nel periodo in cui fruiscono di un aiuto per la ricerca
attiva di un posto di lavoro e per il miglioramento delle loro competenze.
Nei paesi in cui esiste già un sistema di indennità di disoccupazione e queste sono
generose, l'applicazione del principio dei diritti e doveri dovrebbe contribuire
all'efficacia dei costi che il sistema comporta. Nei paesi in cui i sistemi di indennità
sono meno sviluppati, le autorità possono contemplare l'eventualità di riassegnare le
risorse in modo da potenziare le politiche di flessicurezza e ripartire gli eventuali
costi addizionali tra gettiti diversi, agendo sulla leva fiscale o su quella contributiva.
I costi finanziari della flessicurezza andrebbero però sempre valutati alla luce dei
vantaggi finanziari derivanti da un accresciuto dinamismo del mercato del lavoro,
dall'aumento dell'occupazione e della produttività. Uno studio28 stima che un
aumento del 10% della spesa per le politiche attive del mercato del lavoro per
ciascun disoccupato riduce dello 0,4% il tasso di disoccupazione. Un intervento
tempestivo riduce i costi di lungo periodo della disoccupazione e le relative
conseguenze negative in termini di salute e di esclusione sociale29.
Per migliorare l'apprendimento permanente occorrerà fare un uso più efficiente, e a
volte maggiore, delle risorse pubbliche e private, ma ciò dovrebbe comportare un
ritorno in termini di aumento dell'occupazione e di accresciuta produttività del
lavoro. Si è stimato che le persone che seguono una formazione professionale sul
posto di lavoro guadagnano mediamente 5% di più di quelli che non lo fanno30. Una
parte significativa dei costi della formazione sul posto di lavoro è sostenuta
attualmente dai datori di lavoro e continuerà ad esserlo. Ma anche le politiche
pubbliche possono incoraggiare iniziative di apprendimento permanente finanziate
dai singoli individui, ad esempio mediante detrazioni fiscali. Nella maggior parte dei
paesi i lavoratori possono essere responsabilizzati a investire nell'apprendimento
permanente e a avvalersi dell'offerta di formazione disponibile. Per tale motivo i
lavoratori possono essere anch'essi chiamati a sostenere parte dei costi, investendo ad
esempio il loro tempo.
28
29
30
192
Bassani and Duval, "Employment Patterns in OECD Countries: Reassessing the Role of Policies and
Institutions", OECD WP n° 35, 2006.
Iskra Beleva, Long-Term Unemployment as Social Exclusion, Human Development Report, UNDP
1997.
De la Fuente and Ciccone, "Human capital in a global and knowledge-based economy", May 2002.
zoom
Il rafforzamento delle politiche attive del mercato del lavoro può richiedere che si
concentrino nuove risorse su politiche personalizzate e preventive. Queste politiche
però non diventano più efficaci se ci si limita ad aumentare la spesa totale. La loro
efficacia dipende dalla loro qualità e dalla loro pertinenza per il mercato del lavoro,
dal fatto di essere appropriate e dall'efficace combinazione di sicurezza e
disponibilità ad accettare il cambiamento, nonché dal dinamismo dei mercati del
lavoro. Efficaci politiche antidiscriminatorie servono anch'esse a completare le
politiche attive del mercato del lavoro.
Le politiche di flessicurezza comportano spesso costi e devono rimanere pienamente
compatibili con sane politiche di bilancio sostenibili sul piano finanziario. In certi
paesi la spesa legata alla flessicurezza è di per sé sufficientemente elevata, ma se ne
deve accrescere l'efficacia, in particolare migliorando la struttura dell'apprendimento
permanente e delle politiche attive del mercato del lavoro. In altri paesi vi è un chiaro
bisogno di risorse supplementari con conseguente aumento della spesa pubblica e
privata se non altro nel breve termine; tuttavia questo finanziamento supplementare
non deve provenire necessariamente da una maggiorazione della spesa pubblica,
bensì anche da un'equa distribuzione dei costi tra le imprese, le singole persone e i
bilanci pubblici e da una ridistribuzione della spesa pubblica tra le priorità politiche.
Il finanziamento delle politiche di flessicurezza: il contributo comunitario
Gli orientamenti comunitari per la coesione e quelli per lo sviluppo rurale
evidenziano il contributo della politica di coesione e dello sviluppo rurale agli
obiettivi strategici dell'Unione e in particolare della strategia di Lisbona. Più
specificamente tutte le misure che rientrano negli orientamenti per l'occupazione
(comprese quindi le politiche di flessicurezza) sono finanziabili dal Fondo sociale
europeo (FSE), che nel periodo di programmazione 2007-2013 metterà a
disposizione degli Stati membri circa 70 miliardi di euro, e in molti casi il Fondo
europeo di sviluppo regionale può anch'esso fornire un sostegno finanziario. Tra le
azioni suscettibili di essere finanziate vi sono la formazione a livello d'impresa e le
misure attive del mercato del lavoro, tra cui l'assistenza ai disoccupati affinché
trovino un lavoro, l'apprendimento permanente e la promozione del lavoro autonomo
e dell'imprenditorialità. Il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione può
anch'esso recare un importante contributo comunitario.
8.
I PROSSIMI PASSI: LA FLESSICUREZZA E LA STRATEGIA DI
CRESCITA E L'OCCUPAZIONE
LISBONA
PER LA
La prossima relazione comune sull'occupazione per il periodo 2007/2008 dovrebbe
analizzare in particolare in che misura gli Stati membri stanno sviluppando strategie
politiche integrate comprendenti le quattro componenti della flessicurezza. Nella sua
analisi dei programmi nazionali di riforma di quest'anno relativi alla strategia di
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
zoom
L'obiettivo della presente comunicazione è incoraggiare un ampio dibattito tra le
istituzioni dell'UE, gli Stati membri, le parti sociali e gli altri attori affinché il
Consiglio europeo possa adottare, entro la fine del 2007, un insieme di principi
comuni di flessicurezza. Questi principi comuni dovrebbero ispirare e promuovere
l'attuazione degli orientamenti integrati per la crescita e l'occupazione e in particolare
gli orientamenti per l'occupazione.
193
Lisbona la Commissione formulerà commenti preliminari sul modo in cui gli Stati
membri potrebbero trarre vantaggio da principi e percorsi comuni di flessicurezza
nella concezione delle loro politiche specifiche.
Durante il prossimo ciclo degli orientamenti integrati gli Stati membri saranno
invitati a utilizzare i loro programmi di riforma nazionali per riferire esplicitamente
sulle loro strategie di flessicurezza. La Commissione monitorerà le strategie nelle
relazioni annuali di andamento e riferirà sui progressi compiuti in materia di strategia
di flessicurezza alla fine del ciclo di Lisbona. La Commissione proporrà un
programma di apprendimento reciproco rafforzato e più puntuale per assicurare che
gli Stati membri beneficino di politiche di flessicurezza funzionanti.
Considerato il ruolo del dialogo sociale nella definizione e attuazione di strategie
efficaci di flessicurezza la Commissione invita le parti sociali europee a impegnarsi
in un dialogo a livello comunitario sulla base dei principi comuni della flessicurezza
approvati dal Consiglio europeo. Tale dibattito integrerà e alimenterà il ruolo
centrale delle parti sociali nei loro rispettivi contesti nazionali. Il vertice sociale
trilaterale del 2008 potrebbe incentrare le sue discussioni sulla flessicurezza.
194
zoom
ALLEGATO I
PERCORSI DI FLESSICUREZZA
Percorso 1: affrontare la segmentazione contrattuale
Questo percorso tipico può presentare un interesse per i paesi in cui la sfida maggiore è
costituita da mercati del lavoro segmentati caratterizzati da una separazione tra insider e
outsider. Questo percorso servirebbe a distribuire la flessibilità e la sicurezza in modo più
equo tra la forza lavoro. Creerebbe punti d'accesso all'occupazione per coloro che entrano
per la prima volta nel mercato del lavoro e incoraggerebbe la loro progressione verso forme
contrattuali migliori.
In questi paesi i contratti a tempo indeterminato sono stati considerati lo strumento principale
di protezione nel contesto della normativa del lavoro e degli accordi collettivi. Le opportunità
di formazione e la sicurezza sociale tendono ad essere collegate ai contratti a tempo
indeterminato. In seguito ai tentativi per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro si
sono diffusi i contratti a tempo determinato, i contratti a chiamata, il lavoro tramite agenzia,
ecc. I lavoratori si trovano spesso a lavorare per lunghi periodi con una sequela di contratti a
tempo determinato prima di ottenere un contratto a tempo indeterminato. Piuttosto che punti
di partenza per migliorare la propria condizione, questi contratti rischiano di diventare delle
trappole. In questi paesi la sicurezza tende a basarsi sulla protezione del lavoro piuttosto che
sulle prestazioni sociali. Ne consegue che le indennità di disoccupazione sono alquanto ridotte
e i sistemi di assistenza sociale sono poco sviluppati. Gli enti che gestiscono le indennità e i
servizi pubblici per l'impiego, nella loro situazione attuale, necessitano di un rafforzamento
istituzionale per garantire una sana gestione ed efficaci politiche attive del mercato del lavoro
per i disoccupati.
I vantaggi per i cittadini e per la società si cumulerebbero se si creassero delle basi efficaci
che consentano ai lavoratori di accedere al mercato del lavoro e progredirvi raggiungendo una
mobilità ascendente.
Nel contesto delle forme contrattuali questo percorso mirerebbe a migliorare la posizione dei
lavoratori con contratto a tempo determinato, quelli che fanno lavoro tramite agenzia o che
lavorano a chiamata, ecc. Esso assicurerebbe che a questi lavoratori venga offerta una
protezione adeguata, ad esempio la parità retributiva e un minimo di ore lavorative per i
lavoratori a chiamata. Le condizioni secondarie dell'occupazione, come ad esempio la
copertura di fondi pensione professionali e l'accesso alla formazione si applicherebbero anche
a questi lavoratori. La legislazione e i contratti collettivi limiterebbero il ricorso consecutivo a
contratti atipici e promuoverebbero una più tempestiva progressione verso contratti migliori.
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Un approccio complementare consisterebbe nel riformulare i contratti a tempo indeterminato.
Sulla base di tale opzione i lavoratori disporrebbero di un contratto a tempo indeterminato sin
dall'inizio del rapporto di lavoro con il datore di lavoro e non inizierebbero più, come ora
spesso accade, con una serie di contratti a tempo determinato o di contratti con agenzie. Il
contratto a tempo indeterminato verrebbe riconfigurato in modo da includere un progressivo
accumulo di tutela del lavoro. Esso inizierebbe con un livello di base di tutela del lavoro e la
protezione si accumulerebbe progressivamente via via che il lavoratore occupa un posto di
lavoro fino a raggiungere una protezione "piena". Questa strategia assicurerebbe una
progressione automatica verso condizioni contrattuali migliori riducendo così il rischio di
restare bloccati con una copertura contrattuale meno protetta.
195
Per i contratti a tempo indeterminato si dovrebbero ridefinire le regole per i licenziamenti
economici riducendo la burocrazia, le lungaggini procedurali, migliorando la trasparenza dei
risultati e rendendo il processo più affidabile.
Per quanto concerne l'apprendimento lungo tutto l'arco della vita, i datori di lavoro e le
autorità pubbliche dovrebbero collaborare per migliorare l'offerta di formazione ai lavoratori
temporanei. Attualmente a queste categorie spesso non vengono offerte possibilità di
formazione poiché i datori di lavoro non sanno per quanto tempo terrànno questi lavoratori.
Fondi di formazione e istituti di formazione a livello settoriale o regionale verrebbero creati
per assicurare che ognuno possa beneficiare di una formazione. Per accrescere la
partecipazione si rafforzerebbero gli incentivi ai lavoratori e alle imprese, compresi i
contributi finanziari e i crediti d'imposta.
Le politiche attive del mercato del lavoro inizierebbero con il rafforzamento dei servizi
pubblici per l'impiego in termini di personale e competenze. Si contemplerebbe la possibilità
di cooperare con i partner presenti sul mercato, come ad esempio le agenzie di lavoro
temporaneo. Le politiche attive del mercato del lavoro verrebbero configurate per supportare
non solo i disoccupati (di lungo periodo) ma anche coloro che conoscono frequenti periodi di
disoccupazione.
I sistemi di sicurezza sociale assicurerebbero la possibilità per i lavoratori temporanei di
accumulare diritti e migliorerebbero la portabilità dei diritti anche fuori dell'azienda o del
settore. Essi verrebbero riconfigurati al fine di erogare indennità maggiori durante periodi di
disoccupazione più brevi. Si contemplerebbe l'introduzione di un sistema di assistenza sociale
per accrescere la mobilità dei cittadini e renderli meno dipendenti da un sostegno familiare
informale.
Si rafforzerebbe ulteriormente la fiducia tra le parti sociali offrendo loro opportunità per
presentare ai loro affiliati i benefici derivanti dal cambiamento.
Per quanto concerne la sequenza temporale e il finanziamento si darebbe priorità alle
necessità di ridurre la segmentazione, il che comporterebbe costi diretti limitati. Misure nel
contesto dell'apprendimento permanente e delle politiche attive del mercato del lavoro
rivestono la massima importanza ma possono richiedere tempo per produrre risultati. Esse
richiedono anche investimenti pubblici e privati. Il miglioramento della sicurezza sociale,
soprattutto la costituzione di un sistema di assistenza sociale, possono richiedere una
ridistribuzione o un'intensificazione della spesa pubblica di pari passo con il monitoraggio e la
condizionalità delle indennità per assicurare che tale spesa sia efficiente sul piano dei costi. La
riconfigurazione delle norme relative ai licenziamenti di natura economica potrebbe avvenire
in parallelo con la realizzazione di tali condizioni.
***
Percorso 2: sviluppare la flessicurezza all'interno dell'impresa e offrire la sicurezza nella
transizione
Questo percorso tipico riveste interesse per i paesi che presentano flussi occupazionali
relativamente limitati. Esso aumenterebbe gli investimenti nell'occupabilità per consentire ai
lavoratori attivi nelle imprese di aggiornare continuativamente le loro capacità ed essere così
meglio preparati a futuri cambiamenti nei metodi di produzione e nell'organizzazione del
lavoro. Questo percorso guarderebbe anche al di là del lavoro e del datore di lavoro attuali
196
zoom
mettendo in atto sistemi volti ad assicurare un'efficace transizione da lavoro a lavoro in caso
di ristrutturazioni aziendali e di esubero.
I paesi cui potrebbe interessare questo percorso sono quelli dominati da grandi imprese che
offrono elevati livelli di protezione del lavoro. I lavoratori hanno un forte attaccamento alle
loro imprese e il dinamismo del mercato del lavoro è piuttosto basso. Negli ultimi anni questa
tradizione ha subito degli shock poiché le ristrutturazioni aziendali e l'outsourcing si sono fatti
più frequenti. In questi paesi i sistemi di sicurezza sociale sono essenzialmente ben sviluppati
e le prestazioni sono adeguate. La sfida continua ad essere quella di combinare buone
indennità con forti incentivi ad accettare un posto di lavoro. La spesa per le politiche attive del
mercato del lavoro è spesso aumentata notevolmente, ma i programmi non sono sempre
efficaci, soprattutto laddove si tratta di offrire occasioni di rientro nel mondo del lavoro ai
disoccupati di lungo periodo.
Una maggiore mobilità dei lavoratori tra le imprese andrebbe a tutto vantaggio dei cittadini e
della società. I lavoratori sarebbero maggiormente inclini ad assumersi i rischi legati ai
trasferimenti tra posti di lavoro se le prestazioni sociali fossero adeguate durante questi
periodi di transizione e se le prospettive di trovare posti di lavoro nuovi e migliori fossero
reali.
Le forme contrattuali dovrebbero rispondere ai seguenti requisiti: a) un approccio preventivo
con un investimento continuo nell'apprendimento permanente (vedi oltre), una maggiore
flessibilità dell'orario di lavoro e soluzioni atte a conciliare il lavoro e le responsabilità private
e familiari; b) un intervento tempestivo, vale a dire che la ricerca di un nuovo posto di lavoro
non verrebbe ritardata fin dal momento in cui il lavoratore fosse effettivamente messo in
esubero, ma inizierebbe immediatamente allorché la minaccia si presenta, e c) azione
congiunta di tutti gli attori interessati. I datori di lavoro, le parti sociali, i servizi pubblici per
l'impiego e le agenzie di lavoro temporaneo collaborerebbero per organizzare le transizioni e
evitare che i lavoratori in esubero diventino disoccupati (di lungo periodo). Se si soddisfano
tali condizioni le procedure di licenziamento possono essere notevolmente alleggerite
rendendole anche meno costose e meno lunghe.
Le politiche attive del mercato del lavoro gestite dai servizi pubblici per l'impiego
contribuirebbero ad assicurare il successo delle transizioni da lavoro a lavoro (vedi sopra). Al
di là di ciò, i servizi pubblici per l'impiego si concentrerebbero sui disoccupati di lungo
periodo e offrirebbero programmi meglio adattati alla domanda del mercato del lavoro nonché
consulenze personalizzate per le persone in cerca di lavoro.
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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Le imprese aumenterebbero vigorosamente i loro investimenti nell'apprendimento lungo tutto
l'arco della vita e nell'occupabilità della loro forza lavoro. Ciò avverrebbe in modo da tener
conto della diversità delle imprese e delle loro dimensioni. Programmi di sviluppo delle
competenze offrirebbero una formazione personalizzata e programmi di sviluppo delle
carriere a ogni lavoratore. Tali programmi sarebbero considerati parte integrante del contratto
di lavoro e rappresenterebbero un obbligo reciproco a fare il possibile per raggiungere i
requisiti di competenze concordati. Anche l'occupabilità diventerebbe oggetto di negoziazione
a livello di impresa o di settore. Gli accordi collettivi fisserebbero requisiti di competenze per
ciascuna occupazione pertinente, prevederebbero l'offerta formativa necessaria per
raggiungere tali competenze e fisserebbero i tempi in cui i lavoratori devono raggiungere tali
requisiti. Nei settori dominati da piccole e medie imprese sarebbe utile una cooperazione a
livello settoriale per creare efficaci politiche di sviluppo del capitale umano.
197
I sistemi di sicurezza sociale si prefiggerebbero di assicurare la condizionalità delle indennità
e l'efficace monitoraggio degli sforzi di cercare lavoro. I livelli delle indennità, anche se
generalmente adeguati, potrebbero richiedere un incremento nei primi periodi di
disoccupazione per migliorare la situazione dei lavoratori in transizione.
Anche se il dialogo sociale istituzionale è ben sviluppato, occorre urgentemente rafforzare la
fiducia tra le parti sociali, soprattutto a livello nazionale. Laddove possibile i livelli
decentralizzati dovrebbero essere implicati nei negoziati.
Per quanto concerne la sequenza temporale e il finanziamento si dovrebbe dare priorità alle
misure e agli investimenti effettuati dalle imprese e dai settori per sviluppare ulteriormente la
flessicurezza interna e la sicurezza della transizione. Ciò andrebbe di pari passo con una
ridefinizione delle procedure di licenziamento in modo da assicurare un intervento tempestivo
e la transizione. Il miglioramento delle politiche attive del mercato del lavoro richiederebbe
un miglioramento della qualità della spesa piuttosto che un aumento della sua quantità.
***
Percorso 3: affrontare le carenze di competenze e opportunità tra la manodopera
Questo percorso tipico riveste interesse per i paesi in cui la sfida maggiore è data da grandi
carenze di competenze e opportunità tra la popolazione. Esso promuoverebbe le opportunità
delle persone scarsamente qualificate di entrare nel mondo del lavoro e di sviluppare le loro
competenze per raggiungere una posizione sostenibile sul mercato del lavoro.
In questi paesi i tassi di occupazione tendono ad essere elevati, ma non tutti i gruppi sono
ugualmente rappresentati nel mondo del lavoro. Si deve promuovere la mobilità ascendente.
Gli accordi contrattuali tendono ad essere sufficientemente flessibili, ma in certi casi si dovrà
forse fornire una maggiore protezione ai gruppi più vulnerabili sul mercato del lavoro. Le
carenze di competenze e le carenze di opportunità possono portare a una segmentazione in
settori e posti di lavoro e possono ripercuotersi anche sul mercato del lavoro. Vi è il rischio
che determinati gruppi (donne, madri single, migranti, disabili, giovani e lavoratori anziani)
vengano esclusi dal mercato del lavoro. Ciò può comportare la dipendenza di un numero
elevato di persone da prestazioni sociali continue e potrebbe accrescere i tassi di povertà. Le
politiche attive del mercato del lavoro dovrebbero dare forti incentivi all'accettazione di un
lavoro, ma si dovrebbe fare il possibile per assicurare un miglioramento in termini di qualità
del lavoro e di livelli di competenze.
Per i cittadini e la società i benefici proverrebbero da un miglioramento delle opportunità di
mobilità sociale offerte alle persone scarsamente qualificate preparandole ad avanzare
nell'ambito di diverse professioni e a cogliere le nuove opportunità.
Le forme contrattuali consentirebbero ai lavoratori scarsamente qualificati di accedere a
un'occupazione a condizioni favorevoli per i datori di lavoro potenziali, ma consentirebbero
anche loro di avanzare verso soluzioni contrattuali più stabili via via che le loro competenze
migliorano e che il rapporto di lavoro acquista un carattere più permanente.
Le politiche di apprendimento lungo tutto l'arco della vita affronterebbero le carenze di
opportunità tra la manodopera prendendo il via sin dal sistema d'istruzione di base. Si
combatterebbe la dispersione scolastica e si migliorerebbero i livelli generali di qualifica di
coloro che lasciano la scuola. Si affronterebbe il problema dell'analfabetismo e
198
zoom
l'analfabetismo matematico. La formazione professionale verrebbe indirizzata specificamente
sulle persone a bassa qualifica. Si promuoverebbero le combinazioni di lavoro e formazione
nonché la mobilità tra sistemi di formazione. Si riconoscerebbe e convaliderebbe
l'apprendimento informale e si organizzerebbero all'interno e all'esterno del posto di lavoro
formazioni basilari e di facile accesso in materia di competenze linguistiche e uso del
computer. In base alla diversità e alle dimensioni, le imprese svilupperebbero strategie
integrate in materia di competenze e consentirebbero al loro personale di formarsi e di
acquisire nuove competenze. Le autorità pubbliche possono migliorare gli incentivi dati alle
imprese affinché queste investano nella loro forza lavoro facendo leva su incentivi fiscali o
altri strumenti. Esse però aumenterebbero anche gli incentivi diretti ai lavoratori, ponendo ad
esempio in atto un sistema di conti individuali di formazione. Questi conti consentirebbero ai
lavoratori di spendere una certa quantità di tempo (lavorativo) e denaro per il loro sviluppo
personale, in cooperazione con i loro datori di lavoro.
Le politiche attive del mercato del lavoro farebbero una chiara distinzione tra le persone in
cerca di lavoro sufficientemente qualificate e coloro che hanno bisogno di rafforzare le loro
competenze. Per il primo gruppo si porrebbe l'accento su un aiuto personalizzato alla ricerca
di lavoro. Per il secondo gruppo tuttavia le politiche attive del mercato del lavoro si
concentrerebbero sull'erogazione di una formazione adeguata a sostegno della mobilità
ascendente e di una integrazione che dovrebbe essere piuttosto sostenibile che veloce.
I sistemi di sicurezza sociale offrirebbero incentivi alle persone scarsamente qualificate che
ricevono indennità sociali e monitorerebbero la condizionalità di tali indennità al fine di
assicurare che valga la pena accettare un lavoro, se del caso offrendo indennità supplementari
o ritirando gradualmente le indennità. In tal modo si contribuirebbe a ridurre il problema dei
lavoratori che versano comunque in condizioni di povertà. Tali sistemi contribuirebbero anche
a ridurre i costi non salariali dei lavoratori a bassa qualifica.
Laddove il ruolo delle parti sociali non è molto sviluppato il dialogo sociale potrebbe essere
rivitalizzato mettendo sul tavolo nuove tematiche di discussione, come ad esempio la R&S,
l'innovazione nonché l'educazione e le competenze.
Per quanto concerne la sequenza temporale e il finanziamento si darebbe priorità ai
miglioramenti a livello dell'istruzione di base, ma questi richiederebbero tempo per
raggiungere un effetto. Un miglioramento della formazione sul posto di lavoro richiederebbe
investimenti privati supportati da incentivi pubblici. Si devono potenziare efficaci politiche
del mercato del lavoro e politiche nel settore della sicurezza sociale al fine di rendere più
interessante reclutare persone con bassa qualifica.
***
Percorso 4: migliorare le opportunità per coloro che ricevono prestazioni sociali e i
lavoratori sommersi
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Questo percorso tipico riveste interesse per i paesi che hanno attraversato di recente
un'importante ristrutturazione economica che ha comportato un numero consistente di
persone che si trovano a dipendere da prestazioni sociali di lungo periodo e che hanno scarse
prospettive di ritornare sul mercato del lavoro. Esso mirerebbe a migliorare le opportunità
per coloro che dipendono dalle prestazioni sociali e per farli passare dal lavoro sommerso a
un'occupazione formale grazie allo sviluppo di efficaci politiche attive del mercato del lavoro
199
e di sistemi di apprendimento permanente unitamente a un livello adeguato di indennità di
disoccupazione.
In questi paesi le imprese tradizionali, spesso a carattere industriale, si sono trovate obbligate
a mettere in esubero un numero importante di persone. I lavoratori disoccupati ricevono
prestazioni spesso denominate "indennità di uscita dal mercato del lavoro" piuttosto che
"transizione verso una nuova occupazione". Gli investimenti nelle politiche attive del mercato
del lavoro sono limitati come sono anche scarse le possibilità di trovare una nuova
occupazione. Le amministrazioni che erogano prestazioni sociali e i servizi pubblici per
l'impiego hanno bisogno di un rafforzamento istituzionale per erogare efficaci politiche attive
del mercato del lavoro. Si sta sviluppando una nuova attività economica, soprattutto nei
servizi. Per le persone che dipendono dalle prestazioni sociali è difficile cogliere le
opportunità occupazionali legate ai nuovi sviluppi economici. I nuovi posti di lavoro spesso
presentano bassi livelli di protezione mentre certe misure che si applicano ai vecchi posti di
lavoro possono essere troppo restrittive. Continuano le discriminazioni di genere. Molte
persone si rifugiano nell'economia sommersa. Sistemi inadeguati di formazione professionale
rendono difficile l'adattamento ai requisiti del mercato del lavoro per i lavoratori con basse
qualifiche e i giovani senza esperienza lavorativa.
Dalla creazione di nuove opportunità per i disoccupati e dalla trasformazione di lavoro nero in
lavoro dichiarato si cumulerebbero vantaggi per i cittadini e per la società.
Nel contesto delle forme contrattuali si assicurerebbe che i lavoratori occupati in settori
emergenti dell'economia, molti dei quali lavorano con contratto a tempo determinato o su
chiamata, ricevano adeguati livelli di protezione. La regolarizzazione del lavoro sommerso
potrebbe essere resa più attraente migliorando i diritti dei lavoratori informali e fornendo loro
accesso alla formazione professionale. Un'occupazione che esce dal sommerso porta a un
aumento del gettito fiscale e dei contributi sociali. Le transizioni verso un lavoro dichiarato
chiederebbero anche ulteriori riforme della fiscalità che grava sul lavoro, dei requisiti per la
registrazione delle imprese come anche il rafforzamento degli ispettorati del lavoro e degli
ispettorati delle finanze al fine di combattere il lavoro nero. I lavoratori con contratti a tempo
determinato trarrebbero vantaggio dai maggiori investimenti nella loro formazione e da
un'azione tempestiva in caso di minacciato esubero. Se queste condizioni si realizzano si
avverte meno la necessità di applicare regole rigide in materia di licenziamenti di natura
economica.
L'apprendimento lungo tutto l'arco della vita, i sistemi d'istruzione e formazione
professionale verrebbero sviluppati in stretta cooperazione con le imprese tenendo conto dei
bisogni del mercato del lavoro. Verrebbero stimolati gli investimenti delle imprese
nell'apprendimento permanente. Un obbligo fatto ai datori di lavoro di investire nei loro
dipendenti potrebbe essere un elemento chiave nella contrattazione collettiva. Lo sviluppo dei
sistemi di apprendimento permanente e di formazione professionale richiederebbe uno stretto
partenariato tra il pubblico e il privato. Occorre correlare meglio lo stanziamento delle risorse
con i risultati dell'istruzione se si vuole che questi sistemi siano efficaci sul piano dei costi.
La capacità amministrativa dei servizi pubblici per l'impiego costituirà una priorità. Occorrerà
migliorarla in termini di organico, competenze, processo decisionale e organizzazione del
lavoro. La cooperazione tra le amministrazioni che erogano prestazioni sociali e i servizi
pubblici per l'impiego verrà rafforzata in modo da porre in atto efficaci politiche attive del
mercato del lavoro. Le politiche attive del mercato del lavoro si concentrerebbero sui
disoccupati di lunga durata e sui lavoratori disabili nonché sui lavoratori a rischio di esubero.
200
zoom
Esse fornirebbero un'assistenza personalizzata, nonché programmi in grado di meglio
rispondere ai bisogni del mercato del lavoro per assicurare un efficace rientro nel mondo del
lavoro alle persone che sono alla ricerca di un'occupazione. I partenariati pubblico-privati di
tutti gli attori interessati (autorità pubbliche a tutti i livelli, enti d'istruzione e formazione, parti
sociali, imprese, ONG, agenzie private di collocamento) potrebbero contribuire all'efficacia
delle politiche attive del mercato del lavoro.
Per quanto concerne il sistema di sicurezza sociale le indennità di disoccupazione verrebbero
portate a un livello adeguato per consentire una ricerca di lavoro senza che le persone siano
tentate di scivolare nel sommerso. Contemporaneamente si devono migliorare gli incentivi al
lavoro e la condizionalità delle indennità, sia dal lato dei lavoratori che da quello dei datori di
lavoro. Tali incentivi incoraggerebbero da un lato le persone che dipendono da indennità di
disoccupazione e che sono in grado di lavorare a cercare un posto di lavoro e dall'altro
stimolerebbero i datori di lavoro a creare nuovi posti di lavoro. Verrebbero migliorate le
condizioni per l'integrazione dei disabili sul mercato del lavoro. Si migliorerebbe anche la
portabilità dei diritti alla sicurezza sociale.
La capacità delle parti sociali verrebbe rafforzata estendendo ad esempio i diritti a negoziare
elementi chiave delle condizioni di lavoro, compreso l'orario di lavoro. I governi
promuoverebbero la creazione di ampie organizzazioni inclusive del padronato e dei
rappresentanti dei lavoratori e il loro confluire in organizzazioni più ampie. Si potrebbe
rafforzare il dialogo sociale sia bipartito che tripartito. Il dialogo sociale a livello settoriale e
regionale potrebbe essere sviluppato.
Per quanto concerne la sequenza temporale e il finanziamento si procederebbe
prioritariamente a far riemergere il lavoro sommerso. In tal modo diventerebbe più sostenibile
economicamente il rafforzamento istituzionale dei servizi pubblici per l'impiego e i
miglioramenti da apportare alla sicurezza sociale. Gli investimenti nell'apprendimento
permanente richiederebbero sforzi congiunti del settore pubblico e di quello privato. Sarebbe
possibile una riconfigurazione delle procedure di licenziamento parallelamente al
miglioramento delle politiche attive del mercato del lavoro, dell'apprendimento permanente e
della sicurezza sociale.
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Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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ALLEGATO II
ESEMPI DI FLESSICUREZZA
Gli esempi seguenti illustrano in che modo le politiche di flessicurezza possono funzionare.
Essi pongono in luce i meriti di un approccio integrato che tenga conto almeno di alcune delle
quattro componenti della flessicurezza in un contesto in cui la flessibilità e la sicurezza si
rafforzano reciprocamente.
Il sistema austriaco di indennità di licenziamento. L'Austria combina un'elevata flessibilità
del mercato del lavoro con un livello medio di indennità sociali cui si affiancano efficaci
politiche attive del mercato del lavoro e una forte fiducia nel partenariato sociale. La
legislazione austriaca del lavoro stabilisce un livello di fatto relativamente basso di protezione
dell'occupazione anche se le statistiche rivelano un indice medio. Questa discrepanza è dovuta
ad aspetti procedurali che incoraggiano procedure di licenziamento relativamente agevoli. I
datori di lavoro hanno relativamente poco bisogno di ricorrere a contratti a tempo determinato
la cui percentuale si situa sotto la media (9% nel 2006 contro il 14,4% della media UE). Il
tasso di disoccupazione è tra i più bassi in Europa (4,8%). La disoccupazione di lunga durata
si situa a 1,3%. I tassi di occupazione sono conformi all'obiettivo di Lisbona (70,2% in totale
e 63,5% per le donne). La partecipazione all'apprendimento permanente ha superato
l'obiettivo UE e si situa al 12,9% (2005). Il tasso delle persone a rischio di povertà appare
basso situandosi al 12%.
In questo contesto si è registrata un'importantissima innovazione nel 2003 allorché è entrato
in vigore il nuovo sistema d'indennità di licenziamento. Secondo il vecchio sistema l'indennità
di licenziamento versata ai lavoratori in esubero dipendeva dalla lunghezza del rapporto di
lavoro. Ciò significava che i lavoratori, passando da un datore di lavoro all'altro, perdevano i
diritti che avevano accumulato. Il nuovo sistema fa obbligo al datore di lavoro di versare un
importo fisso mensile su un conto individuale intestato al lavoratore. I lavoratori possono
attingere a questo conto in caso di licenziamento. Il nuovo sistema elimina gli effetti
scoraggianti per la mobilità e impedisce che i lavoratori perdano i diritti acquisiti in caso di
cessazione volontaria del rapporto di lavoro. Inoltre, le fondazioni del lavoro
(Arbeitsstiftungen) costituiscono un modello particolarmente efficace per lenire le
conseguenze della ristrutturazione. Esse servono quali agenzie di transizione a sostegno del
collocamento da un'occupazione all'altra in caso di rischio di licenziamento collettivo in
quanto applicano i principi dell'intervento tempestivo e dell'azione congiunta di tutte le parti
pubbliche e private interessate.
Il "triangolo d'oro" danese. Il mercato del lavoro danese presenta un'efficace combinazione
di flessibilità e sicurezza in quanto presenta una normativa del lavoro flessibile e una
protezione del lavoro relativamente bassa, ampi sforzi in materia di apprendimento
permanente e di politiche attive del mercato del lavoro nonché un sistema di sicurezza sociale
generoso. Questo quadro risale al cosiddetto "accordo di settembre" del 1899 che ha
controbilanciato il diritto di assumere e licenziare con lo sviluppo di un sistema pubblico di
indennità in campo occupazionale. Negli anni '60, con la costituzione del servizio pubblico
per l'impiego, lo Stato si è accollato gran parte del rischio legato all'occupazione. Alla fine
degli anni '80 e all'inizio degli anni '90 a questo quadro si sono aggiunte politiche attive del
mercato del lavoro volte a motivare i disoccupati a cercare e accettare un'occupazione come
anche a migliorare le loro qualifiche. Lo sviluppo delle competenze è stato stimolato da un
sistema di rotazione del lavoro che ha consentito ai lavoratori di formarsi mentre dei
disoccupati li sostituivano temporaneamente. Questi elementi presi assieme costituiscono il
202
zoom
cosiddetto "triangolo d'oro" di accordi contrattuali flessibili, un sistema generoso di sicurezza
e previdenza sociale e ampie politiche attive del mercato del lavoro. La Danimarca è
caratterizzata da tassi di occupazione estremamente elevati (77,4% nel 2006), una
disoccupazione (3,9%), una disoccupazione giovanile (7,7%) e una disoccupazione di lunga
durata (0,8%) molto contenute, un elevato turnover (un quarto dei lavoratori è stato con lo
stesso datore di lavoro per meno di un anno), un'elevata partecipazione all'apprendimento
permanente (27,4%), un tasso contenuto di persone a rischio di povertà (12%) e un sentimento
generalizzato di sicurezza tra la popolazione.
Lavoro temporaneo nei Paesi Bassi. Il cosiddetto "Accordo di Wassenaar" (1982) ha
accettato la moderazione salariale in cambio di occupazione e ha aperto la via allo sviluppo di
lavori part time nel contesto degli accordi collettivi. I lavori part time si basano per lo più su
contratti a tempo determinato e non vanno confusi con il "lavoro precario". La grande
maggioranza dei lavoratori part time, che sono per lo più donne, scelgono volontariamente
questa opzione lavorativa. Negli anni '90 la relativa mancanza di flessibilità del mercato del
lavoro suscitava preoccupazione, ma le autorità pubbliche non riuscivano a trovare un accordo
sulla modernizzazione del diritto del lavoro. Le parti sociali (nell'ambito della Fondazione del
lavoro) sono state infine invitate a negoziare un pacchetto. L'accordo si è concentrato sul
rafforzamento della posizione dei lavoratori con contratto temporaneo riducendo il precariato
senza pregiudicare però l'aspetto della flessibilità. Esso comportava tre ingredienti principali:
1) limitare a tre il ricorso consecutivo a contratti a tempo determinato (il contratto successivo
al terzo doveva essere a tempo indeterminato); 2) eliminare gli ostacoli al funzionamento
delle agenzie di lavoro temporaneo; 3) riconoscere i contratti a tempo determinato e i contratti
delle agenzie di lavoro temporaneo nel codice del lavoro e introdurre una protezione e una
paga minima. I lavoratori delle agenzie di lavoro temporaneo sarebbero stati coperti dagli
accordi collettivi che offrivano garanzie in termini di salari, formazione e pensione
integrativa. L'accordo è stato ancorato nella legislazione; la legge sulla flessibilità e la
sicurezza è entrata in vigore il 1° gennaio 1999. Nel corso degli anni '90 i Paesi Bassi hanno
visto una drastica riduzione della disoccupazione e una forte creazione di posti di lavoro. I
tassi di occupazione sono elevati (74,3% nel 2006) e questo vale anche per le donne (67,7%).
L'occupazione espressa in equivalente a tempo pieno è inferiore a causa del peso notevole del
part time. La disoccupazione è contenuta (3,9%) come anche la disoccupazione giovanile
(6,6%) e la disoccupazione di lunga durata (1,7%). La partecipazione all'apprendimento
permanente è relativamente alta (15,9%). Con l'11% il tasso di persone a rischio di povertà è
relativamente contenuto.
L'accordo tra le parti sociali "Towards 2016" in Irlanda. L'economia e il mercato del
lavoro in Irlanda hanno registrato negli ultimi anni un periodo di rapido cambiamento.
L'Irlanda si è trasformata da un'economia a basso reddito e a crescita lenta con tassi di
disoccupazione elevati in un paese dalla grande crescita, redditi elevati e bassa
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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Riduzione dei contratti a tempo determinato in Spagna. La Spagna registra una
percentuale costantemente elevata di contratti a tempo determinato che ammontano a circa il
34% dell'occupazione complessiva. Nel maggio 2006 è stato firmato tra le parti sociali, con il
sostegno del governo, un ampio accordo che resterà in vigore fino alla fine del 2007 e che
intende limitare l'uso eccessivo dei contratti a tempo determinato e alleggerire gli oneri che
gravavano sui datori di lavoro. Ogni lavoratore che abbia avuto due o più contratti a tempo
determinato con la stessa impresa e che abbia lavorato nello stesso posto per più di 24 mesi in
un arco di 30 mesi acquisisce automaticamente un contratto a tempo indeterminato; sulla base
di tale contratto l'indennità di licenziamento obbligatoria è ridotta da 45 a 33 paghe
giornaliere per anno lavorato.
203
disoccupazione. L'Irlanda ha un mercato del lavoro flessibile e sta rafforzando gli
investimenti nelle politiche attive del mercato del lavoro (0,75% del PIL rispetto alla media
UE dello 0,5%). La scarsa istruzione dei lavoratori anziani (41,7% dei lavoratori tra i 45 e i 54
anni ha al massimo un diploma di scuola secondaria inferiore) rispecchia i precedenti
sottoinvestimenti nell'istruzione, ma la situazione sta migliorando notevolemente per quanto
concerne le giovani generazioni. La partecipazione all'apprendimento permanente è ancora
inferiore a quella dei paesi dell'UE con i risultati migliori e rispecchia difficoltà nell'assicurare
opportunità per i lavoratori anziani e quelli a basse qualifiche. L'accordo del 2006 "Towards
2016" intende raccogliere queste sfide con un approccio globale. Esso identifica il bisogno di
una maggiore partecipazione, produttività e attivazione e pone un maggiore accento sui
disoccupati di lunga durata, i giovani disoccupati e le persone che sono più lontane dal
mercato del lavoro. Esso ribadisce inoltre che l'aggiornamento delle competenze deve
avvenire soprattutto in quanto apprendimento sul posto di lavoro (comprese le competenze di
base) e deve interessare i lavoratori con le qualifiche più basse e i lavoratori vulnerabili
nonché i migranti. Esso delinea piani per estendere l'apprendimento sul posto di lavoro e
accrescere il finanziamento per il Fondo per l'educazione di base sul posto di lavoro che
intende affrontare i problemi dell'analfabetismo e dell'analfabetismo matematico.
204
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ALLEGATO III
INDICATORI DI CONTESTO PERTINENTI PER LA FLESSICUREZZA
Gli indicatori elencati qui di seguito, la maggior parte dei quali sono tratti dall'elenco
concordato di indicatori per il monitoraggio degli orientamenti europei per l'occupazione,
possono essere considerati pertinenti per ciascuna delle quattro componenti come anche per i
risultati generali del mercato del lavoro.
A. Forme contrattuali flessibili
–
Rigidità della protezione dell'occupazione, totale, per i lavoratori permanenti e
non permanenti (OCSE)
–
Diversità delle forme contrattuali e loro relative motivazioni (EUROSTAT)
B. Strategie integrate di apprendimento lungo tutto l'arco della vita
–
Percentuale della popolazione adulta tra i 25 e i 64 anni che partecipa
all'istruzione e alla formazione (EUROSTAT)
–
Livello d'istruzione delle coorti di età 45-54 e 25-34 (percentuale della
popolazione che possiede almeno un diploma d'istruzione secondaria superiore
(EUROSTAT)
C. Efficaci politiche attive del mercato del lavoro
–
Spesa per le politiche attive e passive del mercato del lavoro in percentuale del
PIL (EUROSTAT)
–
Spesa per le politiche attive e passive del mercato del lavoro per disoccupato
(EUROSTAT)
–
Numero di partecipanti a politiche attive del mercato del lavoro, per tipo di
misura (OCSE)
–
Percentuale di disoccupati giovani o adulti cui non è stato offerto un lavoro o
una misura di attivazione entro 6 o 12 mesi rispettivamente (EUROSTAT)
D. Sistemi moderni di sicurezza sociale
–
Tassi netti di sostituzione nel primo anno e dopo 5 anni (OCSE)
–
Trappole della disoccupazione intese quali misure dei livelli di indennità
(OCSE-EUROSTAT)
–
Tasso di occupazione, totale, per le donne e per i lavoratori anziani
(EUROSTAT)
–
Tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) (EUROSTAT)
Enaip Formazione & Lavoro 1/2008
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E. Risultati ottenuti sul mercato del lavoro
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206
–
Tasso di disoccupazione di lunga durata (EUROSTAT)
–
Aumento della produttività del lavoro (EUROSTAT)
–
Qualità del lavoro (in preparazione)
–
Tassi delle persone a rischio di povertà (EUROSTAT)
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Finito di stampare nel mese di marzo 2008