qui - Ilaria Pasqua

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Le tre lune di Panopticon – Anime prigioniere
COME TUTTO EBBE INIZIO
Il Paese della Luce, come venne chiamato, era tutto fuorché luminoso.
I tre villaggi che lo componevano, non erano distanti l’uno dall’altra solo nella posizione, ma anche
nello spirito. Non erano tanto lontani, però, da non potersi toccare, o sfiorare lievemente con i loro
confini.
Ognuno dei tre credeva di essere il più forte, il più virtuoso, il più meritevole di possedere il Grande
Libro. Si diceva che questo avesse dato origine, non solo al Paese della Luce, ma all’intero pianeta,
grazie alle forze della Natura, che lo avevano generato per conservare l’equilibrio. Un equilibrio che
l’essere umano, in nessuna epoca, è mai riuscito a mantenere. Smosso, com’è sempre stato, da
bisogni terreni che ne hanno minato, di volta in volta, lo spirito.
“L’uomo non è un animale pacifico” diceva il Grande Libro durante l’apparizione settimanale, in
cui il capo leggeva le righe che comparivano di fronte all’intera popolazione. “E io sono qui per
ricordarvi di vivere in pace. Perché è la pace ciò che all’uomo serve”.
I tre villaggi se ne stavano buoni nei loro boschi e nelle loro pianure, con alte mura a proteggerli,
come se aspettassero che qualcuno attaccasse da un momento all’altro; erano dei vulcani inesplosi,
pronti a infiammarsi.
Il Grande Libro ogni settimana veniva portato di villaggio in villaggio, come era stato stabilito alla
sua apparizione, o meglio quando venne ritrovato al centro dei tre luoghi, proprio all’intersezione
tra i loro tre accampamenti. Era cosa certa, infatti, che il Grande Libro fosse già lì prima che
l’essere umano nascesse, forse era stato persino il Libro a volere l’uomo, come una sorta di Dio
onnipotente. Questo, gli uomini, non lo potevano sapere, anche se lo rispettavano perché i loro
villaggi, con la sua presenza prosperavano, nonostante le malattie continuassero a colpirli.
I tre villaggi alzarono palizzate sempre più alte, ma continuarono a far passare il Libro di mano in
mano, settimana dopo settimana, temendo l’ira del grande Spirito.
Un giorno però, il capo del primo villaggio, ordinò ai suoi uomini di non portare il Libro come di
consueto, accecato ormai com’era dalla sicurezza che la sua vita non sarebbe cambiata e dalla
pacifica calma dei giorni passati, che lo aveva reso cieco ma irrequieto.
Gli abitanti reagirono in diverse maniere: alcuni con gioia, altri con paura. Nonostante le critiche di
molti, il Grande Libro rimase lì.
“Lo abbiamo trovato noi. Ci appartiene di diritto” diceva il capo villaggio rafforzando intanto le
mura e mostrando le armi che in quelle ultime settimane erano state costruite.
“L’uomo non resiste alla guerra, perché non è mai soddisfatto di quello che ha” scrisse il Grande
Libro quella notte in cui tutto cambiò.
Gli altri due villaggi, informati dell’accaduto, partirono e attaccarono il primo, ma finirono per
confondersi gli uni con gli altri, vista la completa ignoranza in quel genere di cose, poiché erano
sempre vissuti in pace.
I tre villaggi combatterono l’uno contro l’altro, con un odio che non avevano mai avuto,
scambiando i fratelli per nemici. Fino a quel momento, c’era sempre stata indifferenza tra gli
abitanti, una fastidiosa convivenza che però non si era mai trasformata in odio. La smania di
possedere il Grande Libro, invece, li aveva accecati e, paradossalmente, ciò che doveva portare
equilibrio aveva generato il caos. Non bastava una vita tranquilla e pacifica, o il monito diffuso
dalla presenza del Grande Libro: “l’uomo ama la guerra, non riesce a vivere senza”.
I tre villaggi ne uscirono quasi distrutti dalla battaglia. Il Grande Libro sapeva cosa stava per
succedere. Lo sentiva nel cuore delle persone, nei gesti calibrati, eccessivamente calmi di quella
quiete innaturale che stava per trasformarsi in una tormentata tempesta. Il Grande Libro lo
prevedeva e agì. Se non l’avesse fatto, la guerra sarebbe ripresa, sterminandoli.
Quella notte, nei tre villaggi, tre donne diedero alla luce tre bambini.
Nel primo villaggio una bambina nacque nella calma, negli altri furono due maschi invece a urlare,
come se avessero percepito il tumulto nell’aria e le agitazioni di spirito di quella notte in cui erano
nati.
Celestia, Latlock e Paris, questi furono i loro nomi.
Il Libro quel giorno rinacque insieme a loro. Fu questo il gesto ultimo del Grande Spirito.
Il testo s’illuminò e bruciò le sue pagine rapidamente, poi qualcosa, un nucleo di spirito che
sembrava contenere tutta l’energia del pianeta, schizzò via separandosi in tre. Così in ogni culla
comparve un libro. Ora erano tre, tre come loro.
Tre libri quasi identici, diversi solo nei colori. Blu come il mare per la bambina, giallo come il sole
per uno dei due bambini, e rosso come il sangue per il terzo neonato.
Due volumi non potevano essere abbastanza, ma tre avrebbero mantenuto l’equilibrio. Lo spirito del
Grande Libro lo sperò: ora non avrebbe fatto altro. Divise in tre la sua stessa essenza mettendosi
nelle mani di quei tre neonati.
I bambini furono chiamati custodi, custodi del Libro originario che aveva accontentato i villaggi
riportando la pace… per il momento.
I tre bambini avevano il divieto di incontrarsi, anzi, non sapevano neppure dell’esistenza l’uno
dell’altro.
Ogni settimana, come già accadeva prima, il Libro parlava, ma lo faceva per tramite del suo piccolo
custode.
Raggiunti i dieci anni, i bambini divennero curiosi, e si mossero ognuno verso gli altri, ignari di
tutto questo, eppure spinti dal legame che il Libro originario non aveva potuto far scomparire.
Erano legati, come un’unica cosa.
Una mattina d’estate i tre si trovarono, nello stesso luogo, uno splendido lago che si nascondeva tra
i boschi e le rocce da cui scendeva una ricca cascata, che rifletteva i raggi del sole. Era quello il
Paese della Luce. Forse chi aveva scelto il nome a quel Paese aveva visto prima il luogo. Doveva
essere così. In cielo brillavano le tre lune sorte dopo la loro nascita, che riflettevano i colori, tenui
ma intensi, dei tre libri dello Spirito: blu, giallo e rosso.
Tutti e tre pensarono di aver trovato il centro del loro mondo, e incredibilmente era proprio lì che il
Grande Libro si era nascosto all’origine del pianeta.
Latlock e Paris guardarono intensamente quella bambina dai lunghi capelli castani, che sembravano
riflettere la luce come lo specchio dell’acqua. Intorno alla testa pareva avesse un’aureola luminosa,
mentre il chiarore della pelle faceva risaltare i suoi occhi verdi curiosi.
I tre si contemplarono per minuti interi. E s’innamorarono.
Ogni mattina si ritrovavano presso quel lago splendente. I primi quattro giorni, però, nessuno aveva
ancora avuto il coraggio di parlare. Andavano lì e trascorrevano le ore accucciati a osservarsi, a
studiarsi, come se apparissero l’uno all’altro come animali sconosciuti, o estinti.
Il quinto giorno Latlock si tuffò nel lago e gli altri due lo seguirono. Iniziarono a giocare e da allora
continuarono a farlo ogni giorno. Si sentivano finalmente completi. Latlock rimase sempre il primo
a buttarsi.
Lo spirito originario sapeva che il loro incontro sarebbe potuto essere una benedizione così come
una maledizione, ma era inevitabile che accadesse.
I tre erano sempre più legati, Latlock e Paris erano innamorati di Celestia, e lei di loro, ma i suoi
occhi erano attirati più spesso dal primo, anche se dell’amore non sapevano ancora nulla. Sempre
più spesso Paris assisteva ai loro scambi di sguardi, senza fare nulla per impedirlo, anzi si teneva in
disparte, incerto.
Quando raggiunsero i diciassette anni oltre al tempo, anche il loro spirito mutò. I tre Libri nel corso
degli anni, assunsero le sfumature dei loro custodi, seguendo le loro attitudini naturali, le
inclinazioni e le pulsazioni. Vivevano così in simbiosi, da influenzarsi a vicenda. Quando arrivarono
a quell’età, si fossilizzarono definitivamente su tre diverse attitudini: il Libro di Celestia sul bene,
quello di Latlock sul male e il terzo sull’incertezza. Quell’incertezza di esistenza che Paris aveva
sempre percepito sulla pelle. Quell’incertezza e indeterminatezza in cui aveva vissuto durante tutti
quegli anni, da quando aveva conosciuto gli altri, da quando Latlock era diventato una sorta di
leader che si prendeva tutto ciò che voleva e quando voleva, anche Celestia, la sua Celestia, che,
inizialmente, trattava entrambi nella stessa maniera. Eppure la sua incertezza era divenuta
patologica a causa della presenza di Latlock, che al contrario si faceva sempre più sicuro, volendo
sempre di più, pretendendo ogni cosa.
Celestia e Latlock, Bene e Male, erano due facce della stessa medaglia, che si contaminavano a
vicenda, quasi confondendosi. Paris non poteva fare niente per impedire quel loro rapporto
simbiotico, poiché loro erano legati indissolubilmente. Eppure senza di lui non potevano stare. Era
l’ago della bilancia, una presenza inscindibile.
Celestia era ora una donna forte, profondamente saggia e giusta, una donna che riusciva a risolvere
ogni tipo di problema e che era in grado di far scendere sugli animi la calma, la serenità, anche solo
con la sua presenza. Ma nonostante ciò, la sua personalità pacifica ne nascondeva una tormentata, e
la presenza di Latlock non faceva altro che portare alla luce tutti i suoi angoli bui, distruggendo
Celestia e rinforzandola allo stesso tempo.
Paris intanto non poteva fare altro che rimanere a guardare, dare man forte all’uno o all’altro,
mantenendo un equilibrio ogni giorno più precario. Forse non c’era mai stata una speranza.
I due non erano più gli stessi, e la confusione stava uccidendo il loro legame a tre. Come se i
villaggi riuscissero a sentire questo cambiamento, iniziarono tra di loro i primi tumulti. Ognuno
voleva la supremazia sull’altro, così come succedeva fra i tre custodi che erano diventati squilibrati,
ormai di uno squilibrio insanabile.
I Libri parlavano ai giovani raccomandando loro prudenza, ricordando a tutti e tre che il rapporto
sarebbe sempre dovuto rimanere stabile, in completa uguaglianza, senza prese di posizione o sbalzi
d’affetto. Un rapporto pieno di rispetto e di amicizia, umile, di parità e non di quell’amore che era
pericoloso anche per un comune essere umano. Conservare questo tipo di legame era una promessa
che tre ragazzini, così come tre uomini, non potevano mantenere.
I villaggi ora volevano di nuovo affrontare la guerra, e lo spirito originario capì che tutto questo era
stata una maledizione.
I villaggi mandarono avanti i tre giovani che non vennero più chiamati custodi, ma guerrieri. I
villaggi, che non si erano assegnati un nome per mantenere l’uguaglianza, ora portavano i nomi dei
loro guerrieri.
I tre ragazzi furono costretti a combattere, a uccidere, utilizzando il potere sopito dei Libri:
quell’energia misteriosa che sgorgava in loro, sin dalla nascita.
Celestia tentava di portare pace, ma era costretta ogni volta a fuggire, sporcata dal sangue degli altri
uomini e del suo stesso sangue. Non poteva sopportarlo.
Un giorno era stata costretta a uccidere degli uomini che volevano portarsi via la vita di sua madre.
E questo l’aveva scossa, il suo spirito era vacillato. Lei aveva provato soddisfazione e sollievo oltre
che disgusto. Si accorse che si accaniva con sempre maggiore rabbia su quegli esseri umani e
sentiva di star perdendo pian piano il contatto con sé, come se la guerra la stesse sporcando, e ancor
peggio, come se fosse proprio da se stessa che partiva tutto quel male. Anche questo, non poteva
sopportarlo. Non voleva essere così, proprio lei, la custode del Libro del bene. Non poteva avere lati
oscuri, non lei.
Latlock godeva invece della morte di quegli uomini, il male dentro di lui stava prendendo sempre
più spazio, contaminandolo come una macchia nera e appiccicosa, e sporcando anche il suo Libro.
Accecato dall’avidità, combatteva ogni giorno, alla ricerca del potere. Voleva riunire i Libri in uno.
I tre ragazzi lo sapevano, lo percepivano che solo insieme potevano essere completi. Come se
fossero stati separati in tre, venivano calamitati l’uno verso l’altro.
Una notte Celestia diede appuntamento agli altri due, al lago, lì dove si erano conosciuti. Quella era
la notte in cui avrebbero compiuto tutti e tre diciotto anni.
Quel luogo era rimasto immacolato, silenzioso. Non era stato intaccato dalla guerra e dalla sporcizia
di quel mondo.
Celestia respirò a fondo quell’aria pacifica cercando il coraggio.
Lì di nuovo insieme, i tre guardarono il cielo tristemente, poi si gettarono a terra con i loro Libri,
coperti dai peccati, e piansero a lungo uno nelle braccia dell’altra, fino al momento in cui la notte
divenne più densa, fino a quando il nuovo giorno iniziò a sgranchirsi le gambe per iniziare il suo
turno.
Quella notte le tre lune che brillavano in cielo sin dalla loro nascita, apparvero ancora più luminose,
come se stessero donando ai loro tre figli la forza di fare ciò che andava fatto.
Si guardarono negli occhi, chiedendosi perdono e perdonandosi reciprocamente.
Poi, senza dire una parola, si alzarono, si abbracciarono ancora una volta, tenendosi stretti e
baciandosi. Si guardarono tra loro, osservarono il lago con le tre lune che si riflettevano risolute ma
tristi e si tolsero la vita.
Celestia, Latlock e Paris caddero nello specchio illuminato dai tre testimoni alti in cielo,
colorandone le acque di sangue. Mentre i tre Libri sprofondavano nella terra, nascondendosi…
morti dentro.
Quel luogo magico sembrò piangere la loro fine. Si accartocciò su se stesso, spegnendosi. Le tre
lune voltarono le spalle e sbiadirono, sino a diventare di un bianco quasi trasparente, perdendo i
colori che le tingevano e nascondendosi agli occhi indiscreti. Aspettarono…
I tre villaggi, dopo poco, ritrovarono i loro guerrieri galleggiare nelle acque a pancia in giù, ancora
immersi nel loro sangue.
Piansero insieme, stretti l’uno contro l’altro.
I tre villaggi si riunirono per la prima volta, senza desiderio alcuno se non la pace. Il pentimento e il
senso d’inutilità, li aveva attraversati uno a uno e la guerra era finita in quell’istante. Tirarono fuori
dall’acqua i tre corpi e li seppellirono insieme, poi ricostruirono i tre villaggi, rimanendo in pace, a
lungo.
Non cercarono i Libri, non li volevano. I tre custodi erano morti e quei volumi con loro.
Lo spirito originario rimase a guardare, mentre i tre pezzi di sé, sepolti e nascosti, sorpassavano le
epoche successive. Fino a quando le tre famiglie discendenti, sangue del loro stesso sangue, non li
trovarono e tre nuovi custodi nacquero, portando un equilibrio e uno squilibrio di cui ormai il
pianeta si era impregnato. Scatenando sventure ben peggiori.
Era una storia che sarebbe continuata a ripetersi per altre generazioni… Fino a oggi.
Fino, forse, a una conclusione.
CAPITOLO 1
La storia si ripete sempre
“Quel libro dall’aspetto antico e del colore del mare, agli occhi di chiunque poteva apparire come
un normale volume, che aveva attraversato gli anni senza alcun clamore. Ma quando io ci poggiai
gli occhi sopra, ne fui calamitata. Il ciondolo, incastonato sulla sua superficie, sembrò brillare non
appena mi vide muovere i primi passi nella stanza, come fosse una presenza viva che aspettava solo
me.
Sentivo che mi stava chiamando”.
“Sta iniziando, Signore”.
“Bene”.
“Che forma prenderà questa volta?”.
“Non ne ho la più pallida idea”.
Il Presidente pensò alle parole che aveva letto sul suo libro tanto tempo prima, dicevano che era
stata la custode originaria - quella che per prima aveva rotto l’equilibrio decidendo di uccidersi per
ristabilirne un altro - a influenzare la rivoluzione che sarebbe avvenuta. Ma in un mondo in cui
quella custode non esisteva più, o come ormai credeva, era dormiente, quale sarebbe stato il
cambiamento? Cosa si doveva aspettare?
Il Presidente ci pensava e ripensava. Il libro l’aveva avvertito che questa volta sarebbe stato diverso.
Niente fucili, né terremoti. E allora cosa? Forzare gli eventi avrebbe sicuramente avuto delle
conseguenze, e lui era pronto ad affrontarle.
“Pensa che in questo modo usciranno allo scoperto?”
“Non ne sono sicuro, ma credo che saranno costretti a farlo”.
L’uomo si poggiò sullo schienale della sua poltrona, visibilmente affaticato. Una vena gli calcava la
fronte con insistenza, mentre la sua bocca era contorta in un’espressione di angoscia e incertezza.
Occhio Rosso, fermo sulla superficie del libro, racchiuso in quel ciondolo dorato, lo controllava da
lontano, come ogni giorno della sua lunghissima vita.
Il Presidente Reik era un uomo dall’età indefinibile, nessuno a Panopticon riusciva a ricordarla e
nessuno si sforzava di provare a definirla. Appariva giovane e allo stesso tempo vecchio,
vecchissimo, come se il suo corpo avesse lottato contro il tempo per tutta la vita, una lunga
esistenza di sofferenza che non aveva potuto fare a meno di lasciare dei segni, di indebolire il suo
spirito, di lasciare quell’immagine appannata e stanca, eppur forte di sé.
Il Presidente Reik si versò un bicchiere di liquore e lo buttò giù tutto d’un fiato, scostando dopo un
attimo la bottiglia dalla sua traiettoria, poi premette le dita sulle sue palpebre chiuse e rimase così
fino all’alba, a cercare di calmare quella rabbia e quella frustrazione, che sembravano provenire da
una persona che non era lui.
Viveva quel malessere cui opponeva la sua vana resistenza; una sofferenza che lo scuoteva e
prostrava, che lo piegava e controllava, da cui si lasciava guidare come una foglia dalla corrente di
un fiume, facendolo suo.
“Ti sento sempre più vicino”. Marin non poteva crederci. Era come se fosse accanto a lei.
“È perché il ragazzo sta arrivando”.
“Ora potremo…”.
“Cosa? Non possiamo fare materialmente nulla. Siamo Anime, Marin. Le loro Anime”.
“Stavolta è diverso. Lui sta arrivando e noi forse…”, la speranza stava fiorendo dentro Marin.
“Siamo Anime, non abbiamo più quel potere. Te lo ricordi?”.
“Lo so. Che ti prende ora? Non sei stato mai così pessimista, e in questo momento non dovresti
proprio esserlo. Stavolta è quella giusta. Non senti? Non è come Abel o gli altri”. Marin sentì
scuotere il suo spirito, e una fitta d’angoscia la immobilizzò.
“Sta iniziando” disse Marin in ascolto.
Dessel si rabbuiò. Provò diverse sensazioni, una sferzata di speranza e un solo e unico pressante
desiderio che sovrastava tutto il resto del suo sentire: essere libero o morire, morire davvero.
“Doveva succedere, prima o poi. La realtà è stata stabile a lungo”. Dessel sembrò tornare quello di
sempre: sicuro e ottimista.
“Non credevo sarebbe successo così presto”. Marin era realmente incredula. Aspettava questo
momento da tanto, tantissimo tempo. Eppure, ora che stava accadendo, era piena di dubbi.
“E come poteva essere altrimenti? Ma perché il Presidente ha aspettato così a lungo! Lui li vuole
riunire, ne sono certo, vuole ritornare alle origini”.
“È R…”.
“Zitta! Non pronunciare quel nome. Conosci le conseguenze. Chiamalo Occhio Rosso”.
“Odio quel nomignolo” disse Marin con una smorfia, “mi ricorda ciò che è successo”. Lo aveva
sempre detestato. “Comunque credo sia lui ad averlo trattenuto. Ha altri piani, lui non vorrà altro
che uscire da qui, come noi”.
“Non poteva accadere che ora” disse Dessel sovrappensiero. “Adesso c’è lei e tu ti sei finalmente
decisa a muoverti. Era ora”.
“Mi rimproveri forse qualcosa? Io ho tentato con Abel, ce l’ho messa tutta, ma non ne ha voluto
sapere. È fuggito via. E poi sbaglio o l’hai fatto anche tu? Se ai tempi fossi rimasto, forse tutto
questo non sarebbe successo”. Marin mise il broncio, il ricordo la infastidì.
“Piantala, non puoi rinfacciare cose successe anni e anni fa. Dovevo andare via, stare lontano da voi
due. E poi tanto lo sai che siamo inesorabilmente calamitati l’uno verso l’altra. Il ragazzo, infatti, è
qui”, sospirò affranto. “Per quanto riguarda il professore, non aveva, purtroppo, l’attitudine giusta.
Così come non l’aveva la nonna del ragazzo. Comunque ora tutto cambia”.
“Non sappiamo ancora com’è lei, né come si presenterà questa nuova guerra”.
“Sarà come l’aiuterai a essere”. Dessel ne era convinto. La speranza cominciò a fiorire
prepotentemente dentro di lui, o dentro quello che ne rimaneva.
“Se quello che ho percepito è corretto, temo che non sarà così semplice”.
“Perché?”.
“Quella ragazza ha qualcosa di buio dentro”.
“Come tutti noi”.
“È come il Presidente. E come colui che lo guida”.
“Ti sbagli. È impossibile. Non può essere come Occhio Rosso. Lui era un uomo malato ed è
diventato un’Anima malata, che ora rispecchia esattamente il suo custode” aggiunse Dessel.
“Reik non era così. Non te lo ricordi forse? È il libro, è la presenza di Occhio Rosso ad averlo
trasformato”.
“Si è fatto sopraffare perché anche lui è così”. Dessel era da sempre sicuro di questo e aveva capito
istintivamente che cosa sarebbe successo. La sua era solo una sensazione, che si rivelò poi giusta.
“Sofia è uguale a loro, percepisco che è così”. Si sentì prigioniera.
“Comunque ti sbagli”. Dessel non poteva crederci. “Se è veramente chi pensiamo, allora non può
essere, poiché sarebbe una contraddizione. Ti sbagli”.
“No, purtroppo. E molto presto te ne accorgerai”. Poi aggiunse in un sussurro: “L’aspetto da
sempre. Se solo Abel le avesse lasciato il libro prima… se solo mi avesse lasciata andare. Eppure
ora non può più tenermi con sé”.
“Siamo noi la generazione che ha cambiato tutto. Ora non siamo altro che delle Anime rinchiuse
dentro a degli oggetti. È ciò che ci meritiamo” disse Dessel assorto.
Marin sospirò, o almeno le sembrò di farlo, come se riuscisse ancora a percepire il suo corpo. Come
se un corpo ancora ce l’avesse.
CAPITOLO 2
Parole in fuga dalla realtà
Sono una pianta in calpestata, protetta dalla grandine e dal sole, sono una pianta che si
autoalimenta, che non ha bisogno di nessuno. Sono una pianta protetta, da me stessa e dagli altri.
Sono una pianta al sicuro, fino alla fine dei miei giorni.
“Sofi sei pronta?”.
“Sì, quasi mamma”.
Sofia era seduta sul letto, con le coperte ancora sfatte, immersa nella lettura. Lasciava oscillare
lentamente i piedi ancora scalzi mentre faceva tintinnare fastidiosamente il suo braccialetto stretto
al polso. Ogni tanto grattava la piastrina incollata alla pelle.
Al secondo urlo della madre scattò in piedi e con un gesto veloce si infilò le scarpe da ginnastica
riverse sul pavimento scuro, raccolse la borsa abbandonata in un angolo e scese tenendo un libro
sotto il braccio, ancora spettinata. La madre le lanciò uno sguardo di tenera disapprovazione.
“Ti sei messa a leggere, non è vero?”. Senza aspettare una risposta, aggiunse, “possibile che devi
sempre far tardi? La tua amica è già qui fuori”. Mentre le parlava, le sistemò i capelli castani dietro
le orecchie e mise in ordine quella disastrosa acconciatura, facendole una rapida coda.
Sofia si allarmò e camminò il più velocemente possibile verso la porta come se fosse in equilibrio
su una fune, tentando nel frattempo di infilare il volume che stava leggendo nella borsa già carica di
roba e sofferente.
“Ma lascia stare quel vecchio libro. Cerca di sbrigarti” disse la madre e lei, in risposta, smise di
armeggiare con la borsa e strappò dal tavolo una fetta di pane tostato facendole l’occhiolino. Poi
uscì in strada sbuffando, sfiorò delicatamente con il polso quello che sembrava un citofono, ma che
invece era uno scanner incastonato nel muro.
“Sofi, lascialo a casa. Evita di rischiare” urlò la mamma spaventata.
“Tranquilla”. Sofia se ne infischiava e ringraziava ogni giorno suo nonno per aver mantenuto, ben
nascosta ovviamente, un’immensa libreria ricca di classici, piena di quei libri che ormai in quella
nazione erano proibiti.
Sofia manteneva quel segreto. Del resto i controlli per scovare nascondigli erano ormai un vecchio
ricordo. I computer erano stati ripuliti uno per uno, così come ogni strumento tecnologico, anche i
libri erano stati fatti sparire. E la nuova Panopticon, sin dalle origini, si era data da fare per
sviluppare un suo diverso tipo di cultura, se così si poteva chiamare, legata alla nazione e a tutti
quei valori di amicizia e amore che non potevano essere sradicati, non ancora. Era la storia a essere
stata bandita, pericolosa per l’ordine e per le menti, ma d’altronde ogni cittadino viveva felice e le
isole prosperavano, perlomeno la prima isola, delle altre non si sapeva molto.
Al comune cittadino bastava seguire pigramente le regole per poter ottenere tutto ciò che
desiderava, nei limiti del possibile. Il Presidente rimaneva l’uomo più potente e influente, nessuno
poteva aspirare a essere come lui. Le aspirazioni erano pericolose, e ben trattenute entro i confini
dalle squadre di controllo, un’estensione aggressiva del Presidente Reik, una presenza che incuteva
timore in ogni cittadino, anche nei più rispettosi delle leggi.
Sofia aveva diciassette anni e detestava, in segreto, quelle leggi.
Era un’allegra ragazza dal carattere dolce ma indeciso, pieno, però, di ombre che difficilmente si
riuscivano a scorgere.
Come ogni mattina infilò i libri in borsa e sgambettò via. I libri erano la sua salvezza, non faceva
altro che perdersi nella lettura di quelle storie, per nascondersi da quel mondo che le trasmetteva un
sempre più grande malessere, si sentiva come se si trovasse in un’epoca cui non apparteneva.
Una spilungona, intanto, era ferma di spalle davanti alla porta di casa.
“Scusami, scusami, scusami” disse Sofia arruffata, strizzando gli occhi come se si aspettasse di
ricevere un pugno. La spilungona, che rispondeva al nome di Martha, si girò a braccia conserte:
“Sempre la solita eh? Possibile che non sei mai pronta in orario?”.
Sofia rispose con una linguaccia mentre l’amica, dopo aver sbuffato, la tirò per un braccio con
decisione per invogliarla a muoversi. S’incamminarono così fianco a fianco.
Martha camminava lentamente, perché era talmente alta da rendere difficile all’amica stare al suo
passo. Sofia era bassina e graziosa, ma anche scoordinata. L’amica non faceva altro che stare attenta
che lei non inciampasse, nelle mattonelle, o nei suoi stessi piedi, cosa che successe pochi secondi
dopo. La spilungona, però, riuscì ad afferrarla poco prima che finisse con la faccia a terra.
“Sei un disastro, lo sai?”. Sofia inizialmente spaventata dal terreno che aveva visto sempre più da
vicino, era scoppiata a ridere di gusto.
“Grazie” le disse subito dopo guardandola con tenerezza.
“Non c’è di che” rispose l’altra. E poi ridendo, le due figure, così scoordinate e apparentemente
inconciliabili tra loro, si diressero a passo deciso verso scuola, attraversando nuvole di odori tipici
del mattino: quello di cornetti caldi e pane appena sfornato, mescolati ai profumi delle persone che,
in quell’inizio di giornata, erano ancora impressi sulla pelle.
Sui marciapiedi ognuno andava per il proprio percorso stabilito, in maniera ordinata, in fila indiana
o a coppie, così come ogni mattina. Vedere le persone camminare così non poteva che far venire a
Sofia un forte malessere, forse perché suo nonno Abel non faceva altro che parlarle di come erano le
cose prima. Ma Sofia si comportava come tutti gli altri, confondendosi tra la folla ordinata di gente
senza colore, senza sorprese, pigra all’apparenza ma anche nella sostanza. Alzò gli occhi al cielo a
osservare le tre lune che sembravano stranamente luminose.
“Solitamente di giorno non si vedono bene” disse di colpo Sofia.
“Cosa? Che guardi?” Martha alzò gli occhi ma non notò nulla.
“Le tre lune. Guarda come sono visibili stamattina” confessò Sofia.
“Cosa dici? Tre lune? Che ti sei bevuta stamattina?” disse l’amica sorpresa.
“Non le vedi?” si bloccò e poggiò una mano sulla spalla di Martha mentre con l’altra indicava il
cielo azzurro con le tre sfere che sembravano l’una l’eco dell’altra.
“No Sofia, lì non c’è proprio un bel niente, c’è l’ombra della solita luna, UNA sola luna”.
“Tu hai sempre visto una sola luna?” chiese sbalordita lei.
“Certamente, perché tu ne vedi tre? Dai smettila di prendermi in giro. Andiamo, l’autobus è in
arrivo”.
Salirono sull’autobus che stranamente era in ritardo di alcuni minuti.
“Che fortuna eh?” disse subito Martha dando una leggera gomitata all’amica.
Sofia si era persa a pensare alle tre lune. Ricordava la prima volta che le aveva realmente notate,
alcuni mesi prima. Era insieme a suo nonno sul molo.
“Le riesci a vedere?” le chiese sorpreso lui.
“Sì. Ma ci sono sempre state?”.
“Sì. Sono lì da sempre”.
A Sofia il nonno apparve triste, come se il fatto che lei le vedesse chiaramente, significasse qualcosa
d’importante che lui non se la sentiva di rivelare e che l’aveva profondamente scosso.
“Sono bellissime”.
“Sono un marchio del nostro mondo. E da anni sono un ammonimento” disse come tra sé e sé,
eppure aveva parlato.
“Cosa
significa?”.
“Non ho detto nulla Sofi. Proprio nulla. Andiamo ora”. Poggiò la sua grande mano sulla testa e
tornarono verso casa, il nonno, all’apparenza, sembrava avesse un grave peso sulle spalle.
Sofia ci ripensò e reagì piena di meraviglia così come era accaduto a suo nonno, ma stavolta del
fatto che la sua amica non le vedesse. Rispose poi alla domanda che Martha le aveva da poco
formulato, il ricordo di quel momento era passato velocemente nella sua testa e non era durato che
pochi istanti.
“Sì, meno male. Non mi andava molto di camminare”.
“La solita pigra” commentò l’amica guardandola maliziosamente.
“Senti chi parla!” replicò invece lei rispondendo allo sguardo.
Le due ragazze trovarono posto in fondo, e pure quella fu una fortuna insperata. Mentre Martha
parlava in continuazione come fosse una macchinetta, sovrastando la voce che proveniva dagli
schermi pubblicitari ben fissati all’interno della vettura, Sofi si soffermò a osservare tutte le persone
sedute intorno a lei. Notò una ragazza sottolineare un manuale con la penna e fece una smorfia.
Erano molte le persone che leggevano sui mezzi e lei amava osservarli, perché sembravano chiusi in
una bolla distaccata dalla realtà, da quel brutto momento della vita quotidiana: l’inizio della
giornata lavorativa. Anche lei avrebbe letto se non avesse sofferto in quella maniera il mal d’auto.
Una volta aveva provato, “non si sa mai, magari mi è passato”, si era detta, ma aveva subito
vomitato la colazione sulla borsa di una signora che voleva fargliela ripagare.
“Proprio su una come quella dovevi vomitare? Non potevi girarti verso l’ometto sulla destra che
non indossava chili di gioielli d’oro?” commentò subito dopo Martha. Poi l’amica l’aveva trascinata
fuori per il braccio, l’aveva fatta sedere e insieme erano scoppiate a ridere.
Il ricordo la divertì, e Martha pensò fosse stato l’effetto del suo racconto.
Sofia si distrasse ancora una volta. Un altro passeggero aveva appena tirato fuori un libro,
apparentemente non maltrattato, e si apprestava a leggere. La ragazza rise a fior di labbra, subito
dopo, però, notò che aveva piegato un sostanzioso angolo della pagina per tenere il segno.
Sbuffò e si sentì scuotere, “ehi mi stai ascoltando? Sembri annoiata”.
“No, scusami tanto. Mi ero distratta”.
L’amica sospirò e riprese a parlare, stavolta con la piena attenzione di Sofia che, di tanto in tanto,
annuiva.
Si distraeva così spesso Sofia, che Martha credeva fosse per una sorta di vena indifferente che
scorreva in lei. Era una ragazza buona, chiusa, ma l’aveva considerata sempre una brava persona.
Eppure a volte diveniva irriconoscibile, fredda e distante, soprattutto con chi non era qualcuno a cui
tenesse. Spesso si chiudeva in se stessa e proseguiva i suoi discorsi fra sé e sé, senza interessarsi di
nessuno, chiunque fosse. Solo Martha, i genitori e il nonno erano in grado di farla tornare con i
piedi a terra, fra di loro. Era un modo di agire che faceva parte del suo carattere, eppure spaventava
la sua amica. Martha si chiedeva spesso cosa si nascondesse dietro quegli occhi verdi.
“Sofi”, la ragazza sentì la voce di Martha che la chiamava ancora. Quando si voltò, notò subito un
viso preoccupato.
“Che c’è ora?”.
“Il braccialetto” disse con voce decisa, Sofia stava grattando di nuovo la piastrina. “Ti dà ancora
fastidio?” le chiese Martha.
“Sì, come al solito”.
“Possibile che in diciassette anni di vita ancora non riesci ad abituarti alla sua presenza?”. “Non lo
so, la mia carne lo rigetta. Mi prude. Non so comunque come tu faccia” disse quasi con tono di
rimprovero.
“Che intendi?”.
“È una maledettissima catena, di nome e di fatto. Ma guardalo! Ti sembra giusta la presenza di
questo braccialetto? È uno strumento di controllo. Segnala l’entrata, segnala l’uscita, ormai siamo
talmente abituati, da riuscire persino a non pensarci” disse scuotendo la testa. Poi alzò gli occhi al
cielo: “Se potessi, me lo strapperei via, e non è detto che, prima o poi, non me lo tolga a morsi, per
la disperazione”.
“Sssssh. Sei impazzita?”.
“Che hai?” cambiò tono di voce, e con fare scherzoso agitando le mani davanti come una maga che
sta per compiere un incantesimo, le disse: “Sei ancora convinta che ci stiano ascoltando?”. Poi
scoppiò a ridere mentre Martha sbiancava.
“Sofia, non scherzare. Lo sai che è così”.
“Piantala. Controllano quando entriamo, usciamo, cosa compriamo... Ma non ci ascoltano”. “Questo
lo dici tu”.
“Sì va bene, va bene. Oh, guarda!” disse piena di entusiasmo cambiando discorso, “siamo
arrivate!”.
“E da quando in qua tutta questa voglia di entrare a scuola?”. Le due si guardarono e scoppiarono a
ridere.
Sofia si voltò pensierosa, fuori passò una delle tante squadre di controllo cui lei diede subito le
spalle. Si riconoscevano perché erano vestiti di bianco e, anche se ben nascoste, si potevano vedere
le pistole e i lacci elettrici legati alla cintura. Bianco come il colore della Nazione e come la
bandiera, che aveva disegnati anche sopra sei isole, cinque disposte a cerchio intorno alla loro, la
più grande. Bianco come la purezza, anche se Sofia ci vedeva solo una cosa: il vuoto. Per lei
rappresentava la schiavitù delle menti, l’uguaglianza portata ai limiti del possibile. Il vedere quella
bandiera la soffocava e la opprimeva da sempre.
Una scossa di brividi la percorse, non tanto per paura, ma per una sorta di disgusto che, nel corso
degli anni, stava crescendo dentro di lei.
“E questo, invece, ti sembra giusto?”.
“Cosa?”.
“La squadra di controllo”.
“Oh, non ricominciare. Così come i braccialetti, anche loro ci proteggono, e non aggiungerò altro”.
“Ci credi davvero?” le disse guardandola storto.
“S-sì. Certo. Lo sai che questi braccialetti li dobbiamo indossare per il nostro bene, per evitare una
nuova guerra”.
“Ma piantala. Chissà se poi la storia della guerra è vera. Se fosse tutta una scusa per tenere il popolo
buono?”.
“Ma cosa dici, finiscila. È morta tantissima gente, dovresti saperlo bene. Tuo nonno ce ne parla da
sempre” disse e poi gettò un’occhiata a una squadra di controllo che le aveva superate. “Loro ci
proteggono” ripeté ancora Martha quando le divise bianche furono lontane.
“Dici così perché ci ascoltano, eh?”. Martha sbiancò e Sofia ridacchiò. “Non è possibile che
facciano anche questo”.
In un edificio poco lontano una donna sussultò nell’ombra.
“Prigionieri da anni…”
“Eppure sembrano secoli” Dessel continuò il pensiero.
Marin pensava spesso alla sua condizione. Si sentiva chiusa in un piccolo spazio buio, dalle mura
sempre più strette, ma non era così in realtà, il posto in cui si trovavano era diverso, indescrivibile.
Era un luogo senza spazio, senza materia, così come loro: era una punizione.
… Il ragazzo era ormai arrivato. Dopo tanti anni, il secondo custode aveva finalmente raggiunto il
luogo cui apparteneva da sempre, ma che gli eventi avevano separato.
Marin non riusciva a pensare ad altro. Da moltissimi anni era in contatto con Dessel. Nonostante la
separazione fisica dei loro Libri, lei riusciva a sentirlo, così come sentiva Redis o, com’era stato
ribattezzato, Occhio Rosso. I tre ragazzi erano inscindibili, anche nella morte, anche in quella
prigione buia. Avevano passato gli anni a guidare i nuovi custodi e a rinfacciarsi ciò che avevano
fatto, ma le colpe appartenevano a tutti e tre, in egual misura.
Marin tentava in tutti i modi di bloccare l’influenza di Redis, ma lui, anche se non parlava, era
sempre con loro; come un’ombra dalle braccia lunghe e insidiose li abbracciava, li teneva stretti.
Marin e Dessel sentivano che complottava e sapevano che non si sarebbe mai fermato. Erano certi
che stava lavorando in segreto al suo unico obiettivo, un obiettivo condiviso anche da Marin e
Dessel, che però rifuggivano il suo modo di agire, come era sempre stato. In parte sapevano che ciò
che volevano fare era sbagliato. Per entrambi prima di tutto veniva la sicurezza del pianeta, di
Panopticon: era sempre stata quella la loro missione. Eppure l’equilibrio era mancato, come ogni
volta che uno dei tre si era sbilanciato, innamorato, o intestardito a conquistare il potere. Redis,
Marin e Dessel, erano colpevoli di ognuna di quelle accuse, così come lo erano i loro predecessori, i
tre custodi originari. Ma questa è una colpa che ricade su ogni essere umano, perché la natura
dell’uomo non può che abbracciare la guerra, non può che volere di più, sempre di più, in un gioco
senza fine. Per questo un equilibrio, per quanto cercato, non era possibile.
Marin e Dessel, nella loro forma di Anime, così come ogni essere umano, non potevano far altro che
osservare ancora una volta la distruzione dell’equilibrio, la guerra e le conseguenze che ne
sarebbero presto venute. Erano come tutti gli uomini colpevoli eppure innocenti.
“Panopticon, la grande Nazione libera” disse ironicamente Sofia ad alta voce, mentre saltava giù
dall’autobus, con Martha al suo fianco che era trasalita.
“Per favore Sofi” implorò con voce tremante.
“Va bene. La pianto” disse ridacchiando.
“Tu sei tanto coraggiosa ma quando si parla di Panopticon e del Presidente dai di matto e ti ritrai
come un gattino impaurito”.
“È più forte di me” balbettò lei.
“Sofi il piede” gridò Martha tirandola dentro le linee che marcavano il marciapiede, come due
serpenti luminosi, in entrambe le direzioni di percorrenza. Sofia non si era accorta di essere uscita
dal percorso destinato a loro. Per un attimo era trasalita. Il non rispetto delle regole, che così
forzatamente era stato impresso nelle loro menti, le causava al tempo stesso repulsione, ma ancor
più paura. Era un riflesso condizionato di cui non riusciva a liberarsene.
“Uffa. Maledettissimo volume” disse a un certo punto Sofia tappandosi le orecchie con i palmi delle
mani dopo aver indicato il mega schermo che si trovava sulla facciata dell’edificio di fronte la
scuola.
“Uh, quella canzone la conosco” urlò Martha, che si mise a cantare.
“No. Ti prego, lo scopo degli schermi è proprio questo” cercò di dire Sofia.
“Oggi sei più insofferenze del solito, lo sai?” disse l’amica tra una nota e l’altra.
“Non è vero. È che per la città c’è questo continuo suono… pubblicità, canzoni e poi quegli odiosi
discorsi del Presidente” mormorò guardando la spia rossa accesa in cima allo schermo.
“Sssh” disse l’amica smettendo di canticchiare. Le sembrava che un membro della squadra di
controllo, che era di passaggio, si fosse girato proprio verso di lei. “Hai visto? Stai zitta dai”. “Sì, va
bene. Va bene. Te la vuoi cantare tutta o pensi che possiamo entrare a scuola?” chiese Sofia
spazientita.
Un altro agente si stava avvicinando per controllare la loro anomala presenza in strada. Gli studenti
non potevano stare fuori dalle scuole dopo le 8 e 30.
“Ah già. Cavolo, corriamo!”.
Dopo aver passato la piastrina in uno dei tanti scanner all’ingresso ormai deserto, salirono per le
scale di corsa.
“Forse sarebbe stato meglio non passarla. Ora i professori sapranno subito che abbiamo fatto tardi”
si lamentò Sofia.
“Lo sapranno comunque. Saranno già in classe. Poi tanto non si può evitare di registrarsi, tu lo
dovresti sapere bene”.
“Sei troppo ligia al dovere cara mia” le disse con un sorriso di scherno. Martha s’infastidì e non
rispose.
“Buongiorno!” urlarono le due in sintonia, una volta messo piede in classe.
“Ciao Sofi, ciao Martha” rispose la ragazza che si trovava al primo banco sistemandosi i capelli
biondi dietro le orecchie.
Si guardarono intorno, sorprese.
“La prof non è ancora arrivata?” chiese Sofi meravigliata.
“No, non ancora. Strano vero?”.
“Sì, eravamo convinte di essere parecchio in ritardo”.
Un ragazzo dagli occhi chiari nascosti dietro gli occhiali, saltò fuori come dal nulla e poggiò una
mano sulla spalla di Sofia reclamando attenzione: “Infatti, lo siete. Come al solito. Siete le
peggiori” ridacchiò dando una gomitata a un amico che era appena accorso.
“Sì. Siete un disastro voi due. Com’è che si dice? Dio le fa...”.
“E poi le accoppia. Ahah”.
Tutti scoppiarono a ridere mentre le due amiche erano arrossite. Sofia con più forza, Martha invece,
con il suo carattere duro, aveva già preso il controllo.
“Ha parlato lui. Il collezionista di due. Il latinista occhialuto”.
Un’altra risata invase l’aula mentre la spilungona incrociò le braccia con soddisfazione.
Sofia l’aveva guardata con una punta di ammirazione, sembrava avesse sempre la risposta giusta da
dare, mentre lei aveva reagito come al solito, senza riuscire a farsi ascoltare come avrebbe voluto.
“Se fossi sfacciata come lei, probabilmente non avrei tutte queste difficoltà con la scuola” pensò in
quell’istante. Molto spesso le sue reazioni vuote spaventavano i professori, sembrava, infatti, non
preoccuparsi molto di ciò che le veniva detto.
La madre si chiedeva in continuazione come fosse possibile che una ragazza che viveva davvero nei
libri potesse avere problemi a scuola, era un’assurdità.
Sofia non sapeva mai rispondere a quello sguardo dubbioso che la madre riportava indietro quando
andava a parlare con i professori.
Nonostante fosse una persona graziosa e apparentemente socievole, era sempre chiusa in se stessa,
spaventata dalla gente, o forse più che spaventata, indifferente, poco coinvolta.
Non aveva mai analizzato se fosse il suo carattere ad avere qualcosa che non andava o se fosse in
realtà quella società ad averla spinta a questa chiusura, a quest’atteggiamento. Qualsiasi cosa fosse
stata, lei non voleva indagare.
C’erano alcune persone a cui teneva, e le andava bene così. Era solo su di loro che si basava. La
prima di queste era stata, senza ombra di dubbio, Martha, che conosceva da una vita. Era una sorta
di paladina per lei, il braccio forte della loro piccola squadra, l’amica che la sosteneva senza
criticare mai, o quasi, i suoi black-out e le sue, a volte, strane reazioni. L’accettava così com’era.
Anche se era Martha a cercare sempre gli occhi dell’amica prima di agire. Sofia agiva poco, ma
quando lo faceva, era decisa, più sicura di quanto credesse. Non aveva bisogno della spinta di
nessuno. Se la cosa la interessava, era la prima ad avere una reazione, ma non succedeva spesso.
Il latinista continuò a fissare Sofia, gli piaceva quando arrossiva e anche quando cadeva dalle
nuvole.
“Che hai da fissarmi?” il suo tono infastidito era arrivato al ragazzo, che a volte non riusciva a
capacitarsi del cambio di atteggiamento che subiva Sofia, tanto da non sembrare più lei, come se
un’altra personalità prendesse la parola.
Si voltò poi verso l’amica: “Visto Martha?”. Aprì lo zaino cercando distrattamente al suo interno.
“Potevamo pure non identificarci”.
“Sì, come no. Così andava a finire come la scorsa volta” sbuffò mentre Sofia ridacchiava.
“Un giorno dovremmo provarci… di nuovo e insieme” cambiò espressione all’improvviso.
“Cavolo, mi sono dimenticata i quaderni. Ne ho presi due sbagliati” disse Sofia affranta, mentre
stringeva l’elastico della coda, che si era allentata.
“Possibile che devi essere sempre così disordinata e distratta?” domandò Martha sgridandola,
mentre il latinista sorrideva a braccia conserte.
“Al massimo ti presto un foglio io, dai”. Il ragazzo tirò fuori un libro e lo lanciò sul banco di peso,
senza tatto.
“Attento” urlò Sofia, “ti sembra il modo di trattare quei poveri libri?” disse sbuffando. Il ragazzo si
ghiacciò in un solo istante, poi vedendo che era la solita Sofia ad aver parlato, si sciolse e la guardò
con occhi pieni d’indulgenza mista ad affetto.
“Sofi, sei proprio una rompiscatole lo sai?” disse facendole un occhiolino. A quel punto un altro dei
ragazzi si era avvicinato.
“Ma che non lo sai? Sofi è la salvatrice dei libri” disse ridacchiando.
“Prima o poi si rivolteranno!” rispose lei convinta, mentre il ragazzo prese a mimare a grandi gesti
una dea aggraziata. Risultò così ridicolo e buffo da far scoppiare tutti a ridere, ancora una volta.
Anche Sofia si lasciò andare e superò il fastidio delle frasi precedenti.
“Sei proprio scemo. Sembra di essere alle elementari” disse qualcuno di sottofondo.
Martha intanto, ridacchiando, sussurrava all’orecchio del ragazzo: “Se vuoi conquistarla, devi
trattarli meglio i libri”. Lui in risposta, dopo essere arrossito, l’aveva spintonata via, sperando si
togliesse dalla faccia quell’aria maliziosa e indagatrice che tanto lo infastidiva.
Le risate divertite e rilassate della classe sparirono in un soffio. La professoressa era, infatti, entrata
con il fiatone, visibilmente scossa, se non spaventata. Guardava i ragazzi, che nel frattempo erano
corsi ai loro posti, con aria preoccupata, tenendo spalancati i piccoli occhietti scuri come se avesse
assistito a un omicidio.
La professoressa si voltò da una parte all’altra, come se cercasse un appiglio immaginario.
Guardò lo schermo che era in alto sul muro, sopra la cattedra, sperando che si accendesse e desse lui
le direttive, che la sostituisse, insomma, come già era successo spesso, ma questa volta non lo fece.
Lo schermo tacque e lei fu costretta a prendersi quella responsabilità.
La lucetta rossa brillava in cima, come se qualcuno li stesse guardando. Era quella l’impressione
che ne ricavavano i ragazzi, quasi tutti, senza eccezione. Un occhio invadente, sempre acceso, che
sovrastava le loro teste dominandoli, sempre. Ma erano così abituati alla sua presenza, sin dalla
tenera età, che non ci facevano quasi più caso, così com’erano ormai assuefatti dal braccialetto
identificativo, di cui subivano l’influenza silenziosa ogni qualvolta la situazione lo richiedesse.
“Professoressa. Va tutto bene?” chiesa la ragazza bionda dal primo banco.
La donna esitò. “No, non proprio. Fate una versione a piacere. Io tornerò tra poco. D’accordo?”
disse d’un fiato e, senza ascoltare la risposta dei ragazzi, schizzò via.
Tutti si allarmarono, iniziarono a guardarsi in silenzio, senza che nessuno prendesse la parola. Si
scrutarono a fondo, cercando negli occhi dell’altro una spiegazione che nessuno poteva avere.
Erano tutti allo stesso modo sorpresi e spaventati.
Poi Martha ruppe la parete di silenzio che si era creata: “C’è qualcosa che non va, qualcosa di
grande”.
“Sì. La professoressa era terrorizzata. Che cosa sarà successo?”.
La spilungona si alzò, dopo aver lanciato uno sguardo a Sofia, e camminò tra i banchi, poi allungò il
collo verso il corridoio.
“C’è un silenzio innaturale”.
Finalmente i compagni si mossero. Camminarono in punta di piedi verso di lei, come se avessero
paura di risvegliare il problema misterioso con il loro rumore. Tante teste perplesse si affacciarono
fuori dalla porta.
“Mah” disse Sofia in confusione dopo essersi alzata di scatto in piedi. Poi decise di prendere uno
dei libri che si portava dietro e, quando stava per aprirlo, una ragazza urlò, era Claire, la biondina
del primo banco.
“Gu... guardate qui” disse a fatica, terrorizzata. Aveva preceduto Sofia di qualche secondo: un libro
giaceva aperto per terra, con la copertina rivolta verso l’alto. La ragazza, nello spavento, l’aveva
scaraventato per sbaglio.
Tutti si allontanarono dalla porta per soccorrere Claire.
“Che cos’hai?” chiesero gli amici aiutandola ad alzarsi. Lei era bianca come un lenzuolo, e la cosa
aveva ammutolito la maggior parte di loro.
“Il... il libro”.
“Che cosa ha il libro?” chiese Martha guardandolo.
Erano ormai tutt’intorno all’oggetto, indecisi sul da farsi. Vedendo l’incertezza dei compagni,
Martha si allungò, e, mentre tutti trattenevano il respiro, lo strappò da terra con un gesto deciso, poi
lo poggiò sul banco, di fronte a Claire, che per la sorpresa aveva fatto un salto indietro.
Martha e Sofia, che era accorsa subito dopo abbandonando il suo posto, lo fissarono intensamente,
poi lo aprirono.
Tutti tirarono dentro l’aria, rimanendo per qualche secondo senza fiato. Sofia spalancò gli occhi e
stette immobile, mentre Martha prese a sfogliare con agitazione le pagine.
Nessuno parlava più. Due dei ragazzi corsero ai loro posti e tirarono fuori i loro libri, con una
frenesia spaventata, buttandoli accanto a quello di Claire e tirando un altro sospiro di terrore.
I libri erano bianchi, bianchi come il latte. Privi di parole, non ce n’era neanche una.