diario d`iraq
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Dia!o d'Iraq di Michelangelo Severgnini giorno 1 – Una fornace chiamata Baghdad “Welcome to Baghdad”, il pilota giovane e biondo con la fronte arrossata apre la sportello dell’aeroplanino e si fa scivolare la corda dalle mani per calare la scaletta. E’ stata una scena a suo modo onirica. Dopo aver sorvolato per 2 ore il deserto e aver sognato di atterrare tra le dune per una qualsiasi avaria in cerca del mio piccolo principe, della mia volpe del deserto, della mia rosa. Ma sceso dalla scaletta c’era l’asfalto della pista dell’aeroporto di Baghdad e soldati all’orizzonte e mitra spianati. Eccola finalmente Baghdad, avamposto odierno della “pax americana”, come Roma a suo tempo, come Saigon, come Beirut, come Pristina. Il volo, l’ho già detto, è stato onirico (e non solo perché la notte prima non ho chiuso occhio e quindi ogni tanto sonnecchiavo). Decollati dal vecchio aeroporto di Amman, più piccolo, quasi in centro città, con l’unica pista affiancata da case, è stato tutto deserto fino all’Eufrate, un’arteria verde tra la distesa di giallo, una vena ingrossata sul braccio del carovaniere. E poi la terra che di sotto cambia colore e si tinge di ogni sfumatura di verde fino al Tigri, più piccolo, con i colori dei due fiumi: la mezzaluna fertile, si dice, no? L’atterraggio è stato quello che mi avevano raccontato. Dal momento che per un piccolo aeroplanino perdere quota lentamente e da lontano significherebbe diventare facile preda della contraerea della resistenza irachena, allora il pilota si porta proprio sopra la pista e poi si avvita su se stesso e comincia a perdere quota con la punta rivolta verso il basso. La forza centrifuga è impressionante al punto che sollevare una mano dal sedile sembra come sollevare un’incudine. Appena scesi dalla scaletta manca il fiato per quanto calda è l’aria. Sull’aereo (più piccolo di un autobus, un sedile per parte e in mezzo un piccolo corridoio) la temperatura era molto bassa, forse neanche 15 gradi. A Baghdad oggi ce ne sono 51! Mi sono permesso una battuta. Sono salito sull’aereo ad Amman con i capelli ancora un po’ umidi della doccia mattutina e perciò mi si sono congelati durante il volo col rischio di prendermi un raffreddore! Sceso dalla scaletta ci hanno fatto attendere 5 minuti a fianco dell’aereo. Tirava un vento secco e bollente: quello che ci voleva per asciugarsi i capelli!Dopo 5 minuti ho esclamato a Karim: “Va bene grazie, ora potete spegnere il phon...”. Davvero. Provate a puntarvi un phon caldo in faccia alla distanza di 50 centimetri e dopo 15 minuti avrete la stessa sensazione che si prova a Baghdad oggi (ma i prossimi giorni sarà uguale) per la strada. L’aeroporto era deserto, solo alcuni manovali, pochi funzionari, e i soldati Nepalesi con il mitra spianato. “Where are you going?”, “Sorry?”, di nuovo lui intesito: “Why are you standing here? Go, move on!”. “I’m waiting for my friend, look, over there!”. Karim era ancora alle prese con la dogana ma al militare stavano già saltando i nervi. I soldati Nepalesi sono dell’esercito? Da verificare. Non avevano nessun distintivo nepalese, sembravano polizia privata. D’altronde dice Karim che è pieno di agenzie private di paramilitari (mercenari, si può dire?) di nazionalità nepalese, colombiana e filippina, tutte nazioni dove l’intervento della CIA nell’addestramento di una guerriglia locale controrivoluzionaria è stato determinante per contrastare la presenza di gruppi armati di ispirazione marxista. E questa è la ricompensa: una fettina di torta irachena... Ci siamo avviati verso la fermata dell’autobus che conduce i rarissimi passeggeri oltre i confini militari dell’aeroporto. I tabelloni delle partenze e degli arrivi sono come pietrificati, sotto incantesimo. E’ così da 13 anni, ossia dall’inizio dell’embargo. Ci sono ancora le provenienze e le destinazioni con il numero di volo, la compagnia e l’orario dell’ultimo giorno prima dell’inizio dell’embargo: Helsinki, Colombo, Dubai, Milan... Una sensazione spettrale. Tutto intorno all’aeroporto i check-point dei soldati americani e intere spianate di filo spinato e sacchi di sabbia. Ai confini militari dell’aeroporto ci attendeva in macchina Thair (che in arabo significa “ribelle”, al contrario mi è parsa una persona oltremodo mite), un operatore iracheno di Terre des hommes. La strada mi è parsa tranquilla, superato l’aeroporto non abbiamo incontrato più nessun militare, ma il tragitto è stato breve, 10 minuti scarsi. La nuova casa, nel quartiere di Al Mansur, pare altrettanto tranquilla. Una villetta su 2 piani con un piccolo giardino davanti. La casa è ampia, al piano terra un grosso salone utilizzato come ufficio, cucina, 2 bagni e altre 2 stanze sempre uffici. Al piano superiore, 2 stanze da letto, bagno, un piccolo salone per ora deserto e una piccola terrazza. Sopra ancora un’altra terrazza. Le case irachene (per quanto questa abbia l’aria di essere ben messa) hanno alcuni aspetti stravaganti. Innanzi tutto nei muri ci sono dei vuoti dove vengono posizionati i condizionatori d’aria (uno per stanza, ma nel salone ce n’è uno per parete, d’inverno servono per riscaldare). Senza di questi si vedrebbe fuori, quindi si dà per scontato che tutti ne facciano uso. Stanno a 2 metri d’altezza, rinfrescano l’aria quando sono accesi e scaricano all’esterno quella calda. Ad ogni soffitto ci sono dei ganci (già in dotazione) dove a piacere si montano delle eliche sempre per rinfrescare. Il consumo di corrente specie d’estate è altissimo. Tant’è che ogni 4-5 ore la corrente viene tolta e ritorna dopo 3 ore circa (per esempio in questo momento siamo senza da ormai 30 minuti e purtroppo l’effetto dell’aria condizionata sta svanendo e stiamo soffocando). Questo per razionare l’energia elettrica. Ma a questo punto arriva il bello: innanzi tutto le case degli Iracheni sono dotate di accumulatori, perciò ogni apparecchio prima di entrare nella presa a muro passa per una “ciabatta-accumulatore”, così quando sparisce la corrente gli apparecchi hanno ancora un’autonomia di 10-15 minuti. Giusto il tempo per precipitarsi ad avviare i generatori a benzina (rumorosissimi, ma non è che 5-6 apparecchi per l’aria condizionata per casa facciano tanto meno rumore...), tanto qui costa pochissimo. Purtroppo noi oggi non abbiamo un generatore, perciò per le prossime 2 ore e mezza boccheggeremo. Infatti mi sa che per il momento vi saluto, perché anche il portatile su cui sto scrivendo emana da par suo quel tanto di calore in più che sta contribuendo a far svanire l’effetto aria condizionata.... Che vi avevo detto? Qui è come stare sulla graticola: provare per credere... Aahh, dopo una cenetta al ristorante per 3 dollari mi trovo ora sotto un getto potente di aria condizionata nel salone al piano terra della nostra casetta (è tornata la corrente!!). Ma quest’oggi abbiamo penato. Ci siamo ritrovati Karim ed io distesi sul pavimento della stanza più riparata della casa, cercando di scampare al caldo. E’ davvero una cosa che non si può descrivere. Per esempio: qui in Iraq ci sono le maniglie dell’acqua come da noi, quella rossa se calda, quella blu se fredda. Generalmente funzionano in maniera tradizionale ma d’estate s’invertono. Se vuoi l’acqua fredda (si fa per dire) devi girare quella rossa, se la vuoi bollente quella blu. Infatti in Iraq (come anche ad Amman), per via che la pressione dell’acqua è bassissima e non arriverebbe ai piani superiori, si carica con delle turbine fino in cisterne poste sul terrazzo, in modo che quando si apre il rubinetto l’acqua praticamente scende nei tubi dall’alto per effetto della forza di gravità. Ogni tanto passa un camion dell’acqua e ricarica le cisterne. Perciò, immaginate quelle cisterne con questo caldo esposte tutto il giorno al sole battente a che temperatura sono. L’acqua cosiddetta calda invece sta in una specie di boiler, quindi all’interno della casa, che chiaramente d’estate è spento, quindi riparata dal sole e perciò leggermente più fresca. Robe da matti. Nel tardo pomeriggio è venuto a trovarci il custode della casa, un ragazzo simpaticissimo di etnia assira, una minoranza originaria del nord dell’Iraq ma diffusa qui a Baghdad (sono circa l’8% dell’intera popolazione irachena). Parlano la loro lingua, l’assiro (sì, sono i discendenti di Nabucodonosor), e sono cristiani, ma secondo una confessione tutta loro che non è quella cattolica. Il suo nome è Duraid, che in lingua assira vuol dire “i denti spaccati del dinosauro”. Cioè, uno con un nome così non poteva che essere un comico fatto e finito, come di fatti è. Peccato che oltre all’assiro parli solo arabo, e sono sempre costretto a farmi tradurre quello che dice da Karim. Questa sera quindi siamo usciti e ci siamo fatti una vasca per Al Mansur, la via che dà il nome al quartiere, una delle principali della città. La prova è stata superata brillantemente. Gli accorgimenti adottati per mimetizzarmi tra la folla sembrano funzionare: pantaloni lunghi, camicia a quadri e sandali di fabbricazione turca. Mi aveva colpito una cosa che Karim mi raccontò in Italia a maggio, rientrato per un paio di settimane: “Non è solo come ti vesti o come sei fatto, gli Iracheni ti riconoscono per come cammini...”. Béh, con questi sandali turchi sono a posto: sono talmente scomodi che mi costringono a camminare in una maniera del tutto innaturale, la mia camminata è irriconoscibile, la mimesi è perfetta. Sarà per via delle scarpe scomode che gli Iracheni camminano in maniera diversa dalla nostra? In ogni caso, se qualcuno mi chiede chi sono, io mi chiamo Miguel. Per il resto ho imparato a salutare in arabo quasi perfetto. Anzi, ormai posso dire di saper leggere l’arabo, a furia di stressare Karim a correggermi mentre leggo le insegne per strada. Certo, mi mancano le vocali brevi, ma ogni tanto azzecco pure quelle. Perché dovete sapere che come in quasi tutte le lingue di ceppo semitico, la scrittura si basa sulle consonanti e sulle vocali lunghe. Le vocali brevi generalmente non si scrivono, si sottintendono. Per esempio per i bambini delle elementari che ancora non hanno vocabolario, si usano dei segni che indicano dove vanno collocate le vocali brevi e quali sono. Ma se gli stessi segni fossero usati anche da un grande, gli darebbero dell’infantile. Provate a scrivere una frase in italiano, poi togliete tutte le vocali tranne quelle accentate, poi fatela leggere ad un altra persona e vediamo se questa riesce a capire cosa c’è scritto. Esempio: “Gl rchen son un popl mrvglios, pccat ch q facc csì cald...”. Provate a leggere questa frase cercando di posizionare le vocali che mancano. Per uno che parla perfettamente l’italiano è un gioco da ragazzi, ma per uno che sa solo salutare e ringraziare sarà quasi impossibile. La difficoltà di leggere l’arabo per uno che non lo parla sta tutta lì.... Oggi era venerdì, per cui giorno di festa nel mondo arabo. Domani ci si butta a capofitto nel lavoro. Un abbraccio, a presto...e non lamentatevi del caldo italiano... giorno 2 - La madonna sciita Primo giorno di lavoro a Baghdad: contatto! Comincio a scrivere questa puntata ma purtroppo qui nella casa nuova nel quartiere Al Mansur il server è debolissimo e forse non riusciremo nemmeno mai a connetterci. Presso il centro per bambini di Terre des hommes nel quartiere di Bataween il collegamento internet non c’è. Oggi non abbiamo avuto tempo di fermarci presso nessun internet point. Domattina passando presso la sede di Intersos o di Un Ponte per, che sono nella stessa casa, proverò a farmi prestare un pc per spedire e controllare la posta. In ogni caso nessuno di voi mi ha chiamato, quindi vedo che comunque non vi state preoccupando per me. E fate bene. Così domani vi sorbirete queste 2 puntate una dietro l’altra. Alla fine Karim ed io abbiamo deciso di dormire nella stanza dove abbiamo fatto pennica ieri pomeriggio.Sarebbe l’ufficio di Karim. Però è il posto più riparato della casa. Abbiamo acceso aria condizionata ed elica. Sembrava di stare in un sottomarino, c’era un casino pazzesco e la temperatura man mano scendeva. A metà della notte ho avuto i brividi dal freddo e mi son coperto. Poi è andata via la corrente e verso le 8 quando mi sono alzato ero in un bagno di sudore (nel frattempo mi ero riscoperto e risvestito). Tempo 1 ora e la casa si è popolata di operatori. La stanza da letto, rimossi i materassi, si è ritrasformata nell’ufficio di Karim. Verso le 10 siamo usciti in macchina con l’autista e un traduttore per recarci al centro per bambini. Siamo passati davanti a zone nevralgiche della città (centrale della polizia, aeroporto vecchio), imbottigliati in un traffico asfissiante. Abbiamo lambito la zona verde (soldati americani sulle torrette con mitra spianato...) e, visto che il traffico era proprio bloccato, siamo scesi a piedi lasciando l’autista alla sua aria condizionata e abbiamo attraversato il ponte sul Tigri a piedi. Stranamente (così mi dicono) il cielo era coperto e il fiume era ammantato da una specie di nebbiolina, pareva quasi il Tamigi (se non fosse stato per quei 20-25 gradi di differenza). Siamo quindi giunti al centro. I bambini stavano facendo lezione nelle aule: musica, ceramica, computer e arabo (questa la lezione per me più interessante: stavano facendo esercizi di scrittura dell‘alfabeto, uno di questi giorni mi infilo in un banco - se ci entro - e seguo la lezione). Verso le 12 le lezioni sono finite e alcuni bambini si sono avvicinati curiosi, ma comunicavamo solo con grandi occhioni e risatine. Una bambina ha chiesto: “Ma è curdo?”... incoraggiante. Poi, ripresa la macchina siamo stati alla sede di Un ponte per e Intersos. Abbiamo strappato qualche contatto interessante, domattina andiamo alla biblioteca nazionale saccheggiata e dovremmo intervistare il direttore. Giovedì prossimo dovremmo andare a Taji, ad un passo da Falluja, ma avrò modo di spiegarvi. Oggi pomeriggio prima intervista: Ishlemon Warduni, vescovo ausiliario della chiesa caldea qui in Iraq. Parlava italiano, ben inteso, sono legati alla chiesa romana. Ci ha mostrato il centro, la chiesa, i bambini che facevano catechismo e poi ci ha concesso un’intervista. Io ho insistito perché si tenesse in arabo (anche se la loro lingua madre è l’assiro) e così è stato. L’italiano faceva troppo sudditanza pontificia. Anche se non capivo ad un certo punto del discorso ha alzato gli occhi al cielo e ha detto: “...Allah...”. Certo, dio in arabo si dice così. Credo che quel passaggio sottotitolato farà colpo. Ma la cosa più meravigliosa della giornata è stata una scena avvenuta appena entrati nella parrocchia (diciamo così). Un gruppo di 5-6 donne sciite, vestite di nero da capo a piedi, bussare, farsi aprire e recarsi presso la statua della Madonna in cortile a portare fiori e a pregare. Gesù Cristo e la Madonna sono venerati dall’Islam, il primo come profeta, la seconda come donna santa madre del profeta Gesù che viene diciamo subito dopo Maometto. Al contrario, come disse durante un concerto Fabrizio De André, i cristiani considerano Maometto poco più che un ciarlatano...Il punto di maggior rottura tra Islam e Cristianesimo è proprio intorno alla figura di Gesù Cristo, che per l’Islam non può essere dio, in quanto persona fisica. Ne apprezzano tutta la portata spirituale, ma rimane un grande uomo, un profeta, non dio. Dio è qualcos’altro. Se fosse solo questo il problema, non darei così torto all’Islam. Sempre De André scrive in una canzone dal titolo “Si chiamava Gesù”: “Ma inumano è pur sempre l’amore di chi rantola senza rancore...”. E sempre nel concerto citato disse: “Dio è qualcosa che se non ci fosse bisognerebbe inventarla... E infatti è proprio quello che hanno fatto gli uomini...”.Questa sera è saltata la corrente, perciò abbiamo dovuto accendere il generatore a motore e abbiamo solo le pale delle eliche che girano ma senza aria condizionata. Anzi, non sono solo le pale che girano, anche qualcos’altro... Un abbraccio, a presto... giorno 3 – Lo sceicco e la spada Ragazzi, siamo partiti come i razzi. In 2 giorni tra cose fatte e cose messe in conto se non addirittura già fissate abbiamo gettato le basi per quello in cui forse ormai nemmeno speravamo. Stamattina non siamo andati alla biblioteca nazionale, mi pare che avevo capito male io (sai, in arabo ancora mi sfugge qualcosa..., scherzo, sono io che sono bollito). Alla biblioteca nazionale ci andremo tra 2 giorni. Dicevo, stamattina abbiamo incontrato e intervistato sheik Anwar. Dunque, avevo già accennato alcuni giorni fa alla faccenda. “Sceicco” è una denominazione che non corrisponde a nulla in particolare, denota solo rispetto e conferisce autorevolezza alla persona cui viene preposta questa parola. E’ un po’ come il “don” in spagnolo. Nella fattispecie, Anwar, è un giovane “diacono”, potremmo dire, della gerarchia ecclesiastica sciita d’Iraq. Attualmente si trova al terz’ultimo stadio, dove il gradino più in alto è rappresentato dall’ayatollah, che qui in Iraq è Al Sistani, poi ce n’è uno più sotto, al quale per esempio si trova Moqtada Al Sadr, e poi ancora uno più sotto dove per esempio sta sheik Anwar. E’ giovanissimo, ha solo 26 anni, ma parla con una saggezza ammirabile. E poi è cordiale, finanche affettuoso e soprattutto carismatico. L’intervista pare sia venuta benissimo (purtroppo Karim mi traduce solo i passaggi salienti per ora, anche se le domande le prepariamo prima insieme), salvo forse non aver puntualizzato un punto, con nostro rammarico. Per esempio, quest’oggi dei gruppi di sciiti pare abbiano incendiato 5 locali qui a Baghdad che vendevano alcool (noi siamo passati davanti ad uno di questi in macchina, i pompieri stavano giusto per andarsene a lavoro terminato). La radio questa sera diceva che sono stati arrestati alcuni sciiti in città accusati di aver partecipato ai roghi. Purtroppo questo poteva essere lo spunto (ma al momento dell’intervista, verso le 12, non eravamo in possesso di queste informazioni) per chiedere quale fosse l’Iraq che gli sciiti vorrebbero. Pare non si sia puntualizzato a sufficienza questo punto. E’ però vero che per quanto autorevole benché giovane, sheik Anwar è quello che si potrebbe definire un moderato, forse perché nell’interpretare il suo ruolo ci mette quella tolleranza e quell’apertura di vedute di un giovane contemporaneo che guarda al mondo. Questa è la sua bellezza. Ma forse, proprio per questo, la domanda sarebbe stato bello farla diretta. Nessun problema, lo rivediamo domattina. Infatti ci ha invitati a partecipare ad un sit-in di sciiti davanti al Ministero dell’Istruzione.Pare infatti che per rappresaglia politica le promozioni scolastiche avvenute in alcuni quartieri sciiti della città, tra cui Sadr City, siano state annullate. Questo è il motivo della protesta. Ci ha promesso la massima sicurezza, anche Karim pare convinto. Io lo sono. A proposito. In questi 2 giorni ho avuto modo di vedere un bel po’ di palazzi distrutti che ospitavano i rispettivi ministeri. Sapete qual è l’unico palazzo ministeriale rimasto tale e quale? Indovinate... quello del Ministero del Petrolio.... Quest’oggi abbiamo trovato davvero un sacco di posti di blocco della polizia irachena lungo le strade della città, almeno 6-7. Sarà stato per i disordini di cui dicevo, in ogni caso serve loro per far vedere che controllano il territorio. Inoltre, questa sera, mentre passeggiavamo per un mercatino (mi sono comprato un’altra camicia ed un altro paio di pantaloni sempre “mimetici”, non nel senso militare, ma nel senso che servono per mimetizzarsi con gli Iracheni), abbiamo incontrato dei pupazzi anche loro in mimetica, quella vera però. Una pattuglia di 5-6 soldati americani che passava per il mercatino con il mitra in mano mentre un mezzo corazzato li seguiva sulla strada. Che pagliacci, a che serve? A terrorizzare la gente (che per inciso ormai quasi non ci fa più caso), oppure a farla saltare per aria perché se qualcuno s’incazza per davvero e decide di colpirli in mezzo ad un mercato diventa un bagno di sangue, civili compresi. Ero pieno di rabbia, gli stavo per dire qualcosa, ma mi son trattenuto, non sono qui per dargli la possibilità di piantarmi grane. “Show must go home”, la vostra pagliacciata deve tornarsene a casa, questo è ciò che gli avrei voluto dire. Ora è il momento di parlare un po’ di personaggi. Innanzi tutto i 2 operatori che in genere accompagnano me e Karim. Il primo si chiama Raed, è anche lui un assiro cristiano e parla italiano (è stato 2 anni a Firenze). Raed significa “il coraggioso” ed è uno degli aggettivi che si attribuiscono ad Allah (ora voi chiederete: “ma se è cristiamo come mai gli hanno messo per nome uno degli attributi di Allah?” E che ne so: usanza irachena...). Tra l’altro anche Karim è un aggettivo attribuito ad Allah: significa “il generoso”, ed è quanto mai azzeccato.L’altro è il nostro autista personale e si chiama Wamidh, che tradotto significa “lampo”. Allora spiegatemi: con un autista che si chiama Lampo, un accompagnatore che si chiama Coraggioso e un amico che si chiama Generoso, di cosa dovrei avere paura? Ma la palma d’oro al miglior personaggio della giornata va assegnata senz’altro a Seif (che in arabo significa “spada”, la spada di Allah...). E’ un tunisino che vive a Baghdad da qualcosa come una ventina d’anni. Lui e Karim sono diventati molto amici in questi mesi e io che di arabo so molto poco, però mi sono accorto che tra di loro non parlano l’arabo iracheno ma quello del Maghreb, quello parlato in Tunisia, Algeria e Marocco (per quanto anche lì tra di loro ci siano differenze). Karim dice che comunque, anche dopo 20 anni il suo accento tunisino è rimasto forte. Bèh, comunque...Questo Seif è davvero un personaggio. Gli Iracheni sono gente simpatica, molto ospitale. Ma incontrare Seif è come entrare in un altro mondo. Ha il tipico calore mediterraneo. Un napoletano, avete presente? Ecco. E’ imprevedibile, comico, sagace, astuto, caloroso. Ha 2 lauree, una della quali in Psicologia e starebbe per prenderne una terza. E’ più o meno coetaneo di Karim. E’ venuto qui a Baghdad per studiare all’università e da allora non si è più mosso. Moltissimi giovani dai Paesi arabi venivano a Baghdad a studiare all’università perché l’istruzione era praticamente gratuita. Non abbiamo avuto modo di entrare in argomento quest’oggi (io e lui parliamo in francese), ma Karim mi ha raccontato che per Seif, Saddam è stata una figura importante e ne porta ancora rispetto. Ci sono tante contraddizioni in ballo, come per esempio il fatto che Karim ne sia così amico (ma anche Isham, l’algerino di Amman, nutriva della stima per Saddam, ricordate?). Ora lui lavora per una ONG locale che lavora con i bambini di strada. Martedì sera ci incontriamo, poi ci porterà a conoscere la sua attività, pensiamo di intervistarlo perché ha un punto di vista interessante, e poi è una macchietta. L’ultimo personaggio della giornata è Raed, un altro, quello del libro di Salam Pax, “Baghdad blog”, quello che vi avevo consigliato (per chi l’avesse comprato e avesse già cominciato a leggerlo). Per gli altri ora vi spiego. Il titolo del blog in originale era “Where is Raed?”. Raed era ed è il migliore amico di Salam Pax. Raed è un ragazzo giordano di Amman (dovremmo essere circa coetanei) che ha studiato anche lui qui a Baghdad all’università e da allora è rimasto sempre in contatto con Salam tant’è che sotto i bombardamenti è venuto qui per trovare Salam (ecco il motivo del titolo del blog). Bene, avevo trovato la sua mail in internet (anche Raed tiene un blog) e gli ho scritto. Mi ha risposto ben 3 giorni fa, ma ho potuto scaricare la posta solo oggi. Mi ha detto che è ad Amman e mi ha lasciato il suo numero. Domani lo chiamiamo. Poi gli ho già dato un appuntamento ad Amman per il 22, speriamo sia disponibile. Ci tengo tanto a conoscerlo perché dal blog emerge essere una persona straordinaria, che si è girato l’Iraq nelle settimane appena successive alla guerra per organizzare la prima assistenza per le persone colpite attraverso una piccola associazione che lui stesso ha aiutato a fondare (e poi vai a dire che gli arabi sono attendisti). Inoltre voglio chiedergli notizie di Salam, perché l’indirizzo mail trovato su internet pare non sia più attivo. Rientrati a casa questa sera poi ne abbiamo scoperte delle altre (l’Iraq è un Paese assurdo, se ne scopre sempre una nuova...). Innanzi tutto siamo ancora senza pentole dopo 2 giorni e mezzo che siamo qui. Avevamo fame. Ho cominciato a far bollire delle uova nella teiera (l’unico pezzo che abbiamo trovato in fondo ad una credenza). Poi ho pensato: ma perché non cucinarci anche una pasta, tanto che ci sono (anche quella trovata in fondo alla credenza). Alla fine ci siamo mangiati pasta Al Ghazal (prodotta ad Amman) e uova sode. E sapete come ho scolato la pasta (lo scolapasta ovviamente non c’è)? Versando l’acqua dal becco della teiera. Ve lo consiglio, è comodissimo ed efficace.La pasta, d’ora in avanti, si fa nella teiera!! Ma la sorpresa sapete qual è stata? Le uova irachene hanno il tuorlo bianco. Ce l’ha confermato Duraid IDenti-Spaccati-Del-Dinosauro, che dorme con noi la notte per sicurezza, non erano le nostre venute male... Un abbraccio, allora, e a presto... giorno 4 – Le vie del documentario e la resistenza alcoolica Giornata davvero molto strana. Ricca di cose positive, alcune negative. Risultato: sono nella confusione quasi totale. Stamattina ci siamo alzati presto per la protesta sciita davanti al ministero dell’istruzione. L’appuntamento però era alle 9 davanti al provveditorato di uno dei quartieri sciiti di Baghdad. Ci siamo arrivati puntuali, abbiamo incontrato sheik Anwar che ci ha presentato alcuni giovani studenti e ci ha invitato ad intervistarli. Siamo entrati nel provveditorato (in realtà in quel posto vi stavano anche le loro aule), erano loro stessi ad organizzare la perquisizione di tutti coloro che vi entrassero (precauzioni minime in Iraq), li abbiamo messi in gruppo e chi uno chi l’altro intervenivano. Sarà durata 5 minuti la ripresa. Poi è arrivato un tizio, si è messo a protestare. Non ho capito alla fine cosa volesse, probabilmente non ci vedeva di buon occhio. Non ho capito bene nemmeno chi fosse. Sta di fatto che i ragazzi si sono disciolti. A quel punto il corteo si doveva muovere verso il ministero, ma che succede?Nessuno degli operatori che di giorno lavorano negli uffici nella casa dove viviamo aveva le chiavi (di solito quando loro arrivano noi ci siamo ancora).Quindi siamo dovuti rientrare a casa per le chiavi (!!??!?). Una specie di buco nell’acqua. Verso le 11 decidiamo di andare a trovare i vicini di casa di Movimondo (un’altra ONG italiana, la loro casa dista circa 200 metri dalla nostra!!). Lì abbiamo trovato Rabye, che per oggi si è aggiudicata certamente la palma di personaggio del giorno. Rabye è una donna di poco più di 40 anni, ha vissuto circa 25 anni all’estero in esilio di cui quasi 20 in Italia, a Roma (parla un ottimo italiano). Il marito iracheno è rimasto a Roma, ma da quasi un anno lei ha deciso di ritornare da sola a vivere in Iraq e lavorare per il suo Paese (lavora per Movimondo, appunto). Ha un passato di militante comunista qui in Iraq e per questo è partita per l’esilio, per non far la fine delle altre migliaia di oppositori di Saddam calati nell’acido (non di acido, ho detto nell’acido...) oppure tritati ancora vivi come carne da macello. Si parla dei desaparecidos argentini e cileni, ma pochi cosiddetti compagni ho sentito parlare dei desaparecidos iracheni, eppure erano comunisti anche loro, in compagnia degli sciiti, certo. Rabye è una donna molto simpatica e generosa, ci ha proposto subito un sacco di contatti (domattina torniamo da lei per un’intervista). In un paio d’ore sono arrivati 4 ragazzi da lei invitati perché ci parlassimo. Sono: Bassem (scultore), Rana (attrice di teatro), Ava (pittrice) e Amar (fotografo). Sono tutti tra i 20 e i 25 anni, sembrano tutti svegli e talentuosi. In poche ore il nostro documentario è stato ribaltato. Ci siamo trovati davanti la possibilità di gestire un “patrimonio umano” sufficiente a scrivere tutto un altro tipo di documentario, per esempio seguendo le loro storie, ritraendoli durante l’attività in cui si esprimono (sono tutti artisti), dando un’immagine giovane e non-convenzionale dell’Iraq. A questi 4 ragazzi va sicuramente aggiunto Salman, un altro ragazzo che sta lavorando da Movimondo in questi mesi (e che perciò era già lì) e che quest’ultimo anno l’ha passato a Miami negli USA a studiare scrittura teatrale (la sua pronuncia dell’inglese è assolutamente americana, ma il tipo è molto in gamba). Che dire? Abbiamo preso un appuntamento con ciascuno di loro sul “posto di lavoro”, in modo da poterli riprendere nel loro habitat ma al tempo stesso magari fare loro qualche domanda. Si potrebbe anche riprenderli tutti insieme magari una sera intorno a un tavolo fumando un narghilé e lì porgli domande sull’Iraq che sognano e buonanotte al secchio (mi ricordo di aver discusso con Armando di un canovaccio simile per un documentario su Cuba cui stiamo pensando da parecchio tempo). Sapere di partire per l’Iraq con questa possibilità avrei sottoscritto e sarei partito senza esitazione. Ora però sono un po’ confuso. In realtà abbiamo calcolato che con questi impegni che ci siamo presi con loro non avanzerebbe più moltissimo tempo per fare altro, eppure, soprattutto anche grazie a Rabye, le possibilità per fare un documentario “a tappeto” sono tante. Si potrebbero fare almeno 4 documentari diversi: 1) a tappeto intervistando esponenti di associazioni, gruppi religiosi, partiti politici; 2) raccontando storie di persone reali (questi 5 ragazzi appunto); 3) riprendendo l’attività del centro per bambini a Batawin aperto da Terre des hommes (cosa che comunque voglio fare e sto facendo per debito nei loro confronti); 4) girare una fiction, o un docu-fiction, partendo da una sceneggiatura scritta (vi ricordate il racconto scritto da Karim sull’autobomba? Bellissimo, ma il problema si era detto era girare scene di fiction all’aperto). Bene, Salman dice che non ci sono problemi, anzi, si è già offerto insieme all’amico fotografo Amar di farmi da assistenti un giorno per girare gli esterni qua a Baghdad. Dice che io sembro un curdo: “davvero, non dai minimamente nell’occhio”. Il travestimento funziona, loro sono del posto, sono del mestiere, si va per esempio in un mercato e si gira con disinvoltura... a questo punto perché non provare a girare un cortometraggio sul racconto di Karim? Praticamente abbiamo aperto il manuale cinematografico del documentario e lo stiamo vivendo. Ma tanta manna va a sbattere contro 2 cose: 1) quasi certamente non avremo il tempo di fare tutte queste cose; 2) ammesso di riuscirle a farle come si coniugano tutti questi linguaggi che in fondo sono molto distanti tra loro? Il genere 3 e il genere 4 possono essere concepiti a sé, cioè qualora venissero realizzati, potrebbero essere lavori a parte: si fa un montaggio sul centro e lo si lascia a Terre des hommes e un eventuale cortometraggio lo si concepisce come cortometraggio punto e basta. Ma i primi 2 linguaggi tra loro cozzano, non si scappa. E fare 2 documentari diversi non ha senso soprattutto perché con questo poco tempo (mannaggia!!quanto mi rode, cazzo!) si rischia di fare male uno e l’altro. E poi che senso avrebbe? Non so, questi sono i miei dubbi. Anzi, Armando e Francesca, se state leggendo vi invito caldamente a farvi sentire al più presto per un suggerimento. Fabrizia, anche tu. Che altro? Tornati dalla casa di Rabye verso le 4 (siamo stati da lei 5 ore, poverina, le abbiamo sconvolto la giornata, ma anche lei piacevolmente a noi) siamo andati all’internet point, uno qui vicino dove non ci eravamo mai stati. Karim e Wamidh (Lampo) sono andati al centro di Batawin, io ho preferito tornare qui a casa. Mi sono fatto una passeggiata da solo. Karim era d’accordo. Tranquilli, Baghdad è molto meglio di quello che si racconta. La gente è davvero ospitale e generosa. L’unico rischio è quello di trovarsi nei pressi di un’autobomba che esplode, ma alle 5.30 del pomeriggio, per una traversa assolata e deserta di Al Mansur, dubito si corrano questi rischi. Se passi in un posto, ti fai anche notare (ma già me lo dicono in molti che mi mimetizzo bene), non importa. Basta che i tuoi spostamenti non diventino abitudinari. In questo caso la percentuale su un tuo rapimento potrebbe salire dall’1 % all’1,5 %...: meglio non correre rischi... In realtà l’effetto collaterale che secondo me stuzzica i fondamentalisti tagliatori di teste è che a causa di questi rapimenti la gente è propensa a non venire più in Iraq, oltre ai soldati (che comunque infatti non se ne vanno), quindi non ci vengono più nemmeno le persone benintenzionate e la gente normale viene abbandonata a se stessa e alla sua paura. La strategia del terrore di questi gruppi armati sarà certamente rivolta alle truppe di occupazione, ma non va sottovalutato l’impatto certamente voluto sugli Iracheni stessi, che in questo modo dovrebbero capire l’antifona e rigare dritto (ricordate i locali di alcoolici dati alle fiamme ieri?). Per questo, dopo averli abbandonati in 25 anni di Saddam, non possiamo abbandonare gli Iracheni adesso. Tornando agli Iracheni che resistono (non quelli che combattono contro le truppe di occupazione, quelli che difendono la loro laicità dai colpi mortali dei fondamentalisti), Karim ieri mi ha ricordato un modo di dire di Hassan, suo fratello che vive in Algeria in una zona abbastanza frequentata dai fondamentalisti (ho avuto il piacere di conoscere Hassan, una persona squisita): “Ogni volta che bevo un bicchiere di birra faccio un atto di resistenza...”, e i suoi amici francesi quando lo chiamano gli dicono: “Allora Hassan, stai resistendo oggi?”... “Eh, ho finito i soldi, per oggi mi sa che dovrò arrendermi...”. Pensate che ieri sera, di ritorno a casa, lungo il Tigri in una zona di periferia abbiamo visto un bel po’ di gente con le macchine parcheggiate. Ci ha raccontato Raed (il Coraggioso) che quelli sono “i bevitori“, quelli che si radunano per prendere la sbronza lungo il fiume, appartati e clandestini...Bèh, comunque rientrato dalla mia passeggiata ho trovato la casa chiusa perché tutti gli operatori avevano terminato l’orario di lavoro ed erano andati a casa. Karim non sarebbe tornato che da lì a 2 ore. Mi sono guardato intorno e ho scavalcato e ho cercato riparo all’ombra del muretto sdraiato sull’erba del giardino. Dopo un po’ è arrivato Duraid I-DentiSpaccati-Del-Dinosauro e mi ha fatto una lezione di lettura araba leggendo da un barattolo di fette d’ananas usato come porta fiori. Ho notato un’altra cosa assurda che succede qui in Iraq: le formiche quando camminano all’ombra, vanno alla velocità normale delle formiche. Ma quando si trovano a camminare al sole inseriscono il turbo... E se scottano i piedi persino a loro, è tutto dire... Un abbraccio, a presto... giorno 5 - Feste nazionali e ragazzi di strada Oggi è festa nazionale in Iraq. Si festeggia la caduta della monarchia e la nascita della Repubblica: 46 anni fa, nella notte tra il 13 e il 14 luglio 1958, proprio la notte appena trascorsa, il re Faisal, giocattolo degliinglesi, veniva assassinato (in una casa vicina al centro di Batawin). E’ una festa che ha attraversato indenne tutti questi anni di storia recente di Paese. Anche sotto Saddam era festa nazionale sebbene riportasse ad un episodio non legato alla propria era (fu comunque il partito Ba’th da cui Saddam proviene ad orchestrare l’attentato). Ieri sera tuttavia si è creato il panico, perché dopo la caduta di Saddam nessuno sa più quali siano le giornate nazionali. E questo avviene perché nessuno ha più le idee chiare su chi stia comandando l’Iraq in questo momento. La caduta della monarchia fa piacere agli Americani? Forse sì, loro dicono di essere la migliore democrazia al mondo... Ma si festeggia la caduta della monarchia o la nascita della repubblica? Perché nel secondo caso si festeggerebbe la salita al potere del partito Ba’th (Saddam prenderà il potere solo nel 1979 dopo vari ribaltoni), partito che gli Americani hanno ormai disintegrato. Ah, già, gli Americani non comandano più adesso, c’è il governo provvisorio di Allawi. E loro cosa ne pensano? Penseranno lo stesso degli Americani, ovvio (in questo momento esiste anche un Movimento Costituzionale Monarchico che si candiderà sicuramente alle prime elezioni libere: gennaio 2005?). Insomma il caos. Pare non esista una direttiva nazionale oppure che esista ma sia stata diffusa all’ultimo (ora sono altre le priorità) senza dar tempo di prepararsi. Risultato: ognuno oggi fa di testa sua. E così c’è chi ha preso una giornata di malattia (nel caso si festeggiasse può farla slittare a domani, poi venerdì è giorno festivo qui e quindi salta fuori un bel ponte di 3 giorni), chi è costretto ad andare al lavoro ugualmente (gli operatori di Terre des hommes) perché nessuno si era accorto della ricorrenza, oppure chi è arrivato sul posto di lavoro ed è stato rispedito a casa perché all’ultimo si è deciso di festeggiare. Questo è il motivo per cui questa mattina sono libero. Avevamo appuntamento con Bassem (il ragazzo scultore che sta lavorando alla sua prossima opera) alla Biblioteca Nazionale dove avremmo intervistato anche il direttore, ma almeno un ente statale si è ricordato della ricorrenza e loro oggi chiudono (il fatto che però Bassem inizialmente avesse fissato per oggi l’appuntamento la dice lunga... che sfortuna!). Ne approfitterò per andare da Salman e pianificare con lui una giornata di riprese di esterni per Baghdad (ormai dal finestrino della macchina ne sto comunque facendo) e poi alle 14 vado da Hans, l’olandese conosciuto ad Amman che mi porterà nell’ospedale dove lavora. Adesso vi racconto di ieri. Al mattino abbiamo intervistato Leyla (nome inventato, nda). L’abbiamo intervistata, ma in forma anonima. L’ho quindi messa davanti alla vetrata sul cortile e ho giocato di diaframma e otturatore e ne ho fatto un controluce da cui non si possa riconoscere, intanto si vede il bel giardino alle spalle. Tra le cose principali emerse vi è stata la sua insofferenza nei confronti della cosiddetta ”resistenza”, la sfiducia proviene da tante cose: la maggior parte degli Iracheni preferisce sfruttare le possibilità di ricostruire un Paese come loro lo vogliono (che sono di più ora sotto gli Americani che sotto Saddam) che non buttarsi in una guerra civile dopo 20 anni di guerre e di embargo, perciò si chiede perplessa chi stia animando questa resistenza, chi ci stia dietro e soprattutto è perplessa dal fatto che questa cosiddetta resistenza non abbia mai prodotto una piattaforma, non si capisce per cosa combattono (l’uscita degli Americani non può essere il solo obiettivo), ma soprattutto qual è l’Iraq che vogliono dopo, perché se è un nuovo Afghanistan talebano allora la gente preferisce gli Americani. Questa è la sostanza. Al pomeriggio siamo stati alla sede del quotidiano “Al Mashriq”, uno dei più letti qui a Baghdad ora, nato solo 6 mesi circa fa (in quest’ultimo anno c’è stato il boom di tutto, com’è comprensibile, soprattutto nel campo dell’informazione molte testate hanno aperto). Karim in questi mesi ne ha apprezzato la linea editoriale e perciò siamo andati a trovarli. La loro sede è nel quartiere di Batawin, perciò ci siamo andati a piedi. All’ingresso c’era molta diffidenza nei nostri confronti, dei tizi imbruttiti stavano seduti sul marciapiede e prima di entrare ci hanno perquisiti e ci hanno controllato la borsa e poi ce l’hanno fatta lasciare all’entrata (quando poi sono sceso per riprendermi la videocamera, da sotto al bancone ho intravisto un kalashnjikov!). Abbiamo incontrato il direttore Ali al-Shareefi (ma è la scrittura inglese, sarebbe Al Sharifi), ci ha accolti nel suo studio, ci ha ascoltati (Karim ha parlato, io per un’ora buona sono stato ad ascoltare una lingua incomprensibile nella quasi totale alienazione), poi è intervenuto, Karim ha risposto, quello si è scaldato, abbiamo fatto 2 giri di tè, 1 di narghilé (quanto parlano questi arabi! E’ uno sport nazionale la conversazione...dove si trova un altro direttore di giornale che riceve all’improvviso 2 sconosciuti e si infervora a parlare con loro per più di un’ora?). Alla fine ha invitato il caporedattore (non ho a portata di mano il suo nome perché Karim l’ha scritto in arabo in una pagina fitta di parole, se sapessi qual è la parola cui corrisponde il suo nome la saprei trascrivere ma così come faccio? Ora Karim è al centro di Batawin, io sono a casa), ed è lui che abbiamo intervistato, un giovane giornalista di poco più che 30 anni. Sulla resistenza ha detto le stesse cose di Leyla, praticamente. In più lui è stato oppositore di Saddam, quindi ha raccontato un bel po’ di cose interessanti ed infine è esperto in criminologia (come un pasticciere nel Paese di Hansel e Gretel!!). Nel pomeriggio ho ripreso un po’ i bambini al centro di Batawin, quei pazzi furiosi!! Che belle riprese! Ho fatto una jam session con l’insegnante di musica (mi ha insegnato una decina di ritmi iracheni, io alla chitarra e lui al darbuka). Alle 19.30 è passato Seif (la Spada di Allah, il tunisino) a prenderci per andare al centro che lui segue. E’ una comunità di ex-ragazzi di strada, abbiamo raccolto le storie di 4 di loro, terribili. Ne riporto una: questo ragazzo, ora 19enne, è stato internato (è il caso di dirlo) all’età di 8 anni in una specie di riformatorio/carcere minorile (un girone dantesco istituito dal regime di Saddam) dove venivano rinchiusi indistintamente orfani, bambini di strada e criminali minorenni. Non ne è mai uscito fino a quando sono arrivati gli Americani (dagli 8 ai 18 anni questo ragazzino è rimasto in carcere senza aver mai commesso nulla!!!!!!). Dice che gli ultimi giorni i carcerieri sono fuggiti e li hanno lasciati rinchiusi senza cibo né acqua. Quando sono arrivati gli Americani (gli altri furbi), hanno aperto le celle e li hanno lasciati uscire così: “addio, disperdetevi!”. Da allora lui e tutti gli altri sono diventati ragazzi di strada senza una famiglia, senza una casa, un lavoro, senza niente, diventati presto tossicodipendenti alla colla. Finché sono stati intercettati da questa sorta di unità di strada che ha messo loro a disposizione una casa e dei soldi con cui vivere (per il lavoro si vedrà, qui non esiste neanche per le persone “normali”). Tra l’altro, la cosa interessante che ha raccontato, è stata che nei primi mesi dopo la caduta del regime, mentre viveva per strada, una delle volontarie che ha conosciuto per prima è stata quella giapponese che era stata rapita (Nahoko Takato, nda) insieme ad altri 2 connazionali, minacciata di morte e poi rilasciata...Dopodichè verso le 21 siamo usciti verso un paesino alle porte di Baghdad dove Seif sta incontrando degli altri ragazzi di strada che vorrebbe inserire in un nuovo progetto e dar loro una nuova casa. Per fare questo ha richiesto la nostra presenza perché con le immagini che noi possiamo girare per lui sarebbe più facile ottenere i finanziamenti e accelerare il tutto. Soltanto che al loro solito posto non c’erano, si sarebbero forse ritrovati molto più tardi, allora abbiamo desistito. Ci torniamo venerdì mattina presto, alle 7. Questa è la tattica usata da Armando per il documentario sulla prostituzione, uno scambio alla pari con le unità di strada, mettere a disposizione le riprese in cambio della possibilità di effettuare le riprese stesse in ambientialtrimenti inavvicinabili. Il posto era davvero triste, decadente a dir poco, sporco a dir poco, degradato a dir poco, la periferia della periferia della periferia. Troverò il momento per descriverlo con parole più efficaci (o magari lo faranno le immagini al mio posto). Per ora vi lascio, sono già le 10.30, devo combinare qualcosa anche oggi... A presto... Ps: abbiamo appena acceso la radio: è saltata per aria un’autobomba poco più di un’ora fa. Ne scriverò nella prossima puntata. giorno 6 – La prima autobomba non si scorda mai Ormai lo avrete saputo tutti. Questa mattina, mentre io scrivevo un’altra puntata di questo diario, seduto nel salone di questa agiata villetta nel quartiere Al Mansur, nei pressi della zona verde, a 15 minuti di macchina da qui, è saltata in aria un’autobomba: 10 morti, 3 poliziotti iracheni e 7 civili. L’intera zona è stata chiusa al traffico per quest’oggi. Di solito la si sfiora nei pressi di un incrocio, percorribile solo ad angolo retto, chiuso cioè nelle restanti due direzioni. Ci si passa per dirigersi verso il ponte della Repubblica, quello che abbiamo percorso a piedi il giorno seguente il nostro arrivo, che porta direttamente al quartiere Batawin, al di là del Tigri, dove si trova il centro di Terre des hommes. Io non ho sentito nemmeno l’esplosione. Dev’essere stato il rumore dei condizionatori d’aria a coprire il botto. Abbiamo sentito la notizia alla radio. In Italia erano da poco passate le 7 del mattino. Qualche ora dopo ho chiamato Radio Onda d’Urto, loro mi hanno richiamato e intervistato per un buon quarto d’ora. Gli Iracheni hanno così festeggiato il giorno della Repubblica, con l’ennesimo bagno di sangue. L’ennesimo, scontato, normalissimo bagno di sangue. ”C’è stata un’esplosione mezz’ora fa!!! Sono morte 10 persone!!!”, ripetevo questa mattina. “Ah, sì? Dove?”. “Vicino alla zona verde”. “Eh già, meglio non passarci da quelle parti...”. Per gli Iracheni è una cosa normale. Non penso a quanto cinismo serva per affermare tutta questa naturalezza di fronte ad una simile brutalità. Penso a quanta brutalità debbano aver assistito per affermare con tanta naturalezza tutto questo cinismo. In mattinata quindi non avevo impegni. Karim era già fuori, ma sapevo che avrebbe fatto un altro giro, perché in fin dei conti da quelle parte ci si imbottiglia nel traffico: troppi controlli, troppe barriere, troppo filo spinato. E’ passato alle 12 Wamidh “Lampo” a prendermi per portarmi a Batawin. Alle 14 sono stato a casa di Hans, l’olandese conosciuto ad Amman che lavora per Medici Senza Frontiere, ricordate? E’ stato sempre Wamidh a portarmi. La loro casa è davvero extra-lusso, al confronto la nostra è una modesta residenza da imborghesiti. Abbiamo chiacchierato un po’, domani dovrebbe richiamarmi per comunicarmi quando poter andare a visitare la loro clinica nel quartiere di Sadr City, la periferia sciita dove il degrado ha offerto nei mesi passati le sacche di resistenza più ostinata nel cuore di Baghdad. La loro prima accoglienza non è servita solo per le normali patologie di un quartiere degradato, ma anche per i feriti da combattimento o da conflitto in genere. Tutto il personale medico è iracheno. Una visuale interessante per farsi raccontare il quartiere, non credete? Abbiamo chiacchierato di tante cose con Hans, è una persona gradevole. Ho riportato la conversazione a Karim (che era rimasto al centro) e abbiamo convenuto sul fatto che Hans sia una persona molto intelligente ma un po’ paranoica. Abbiamo parlato com’è ovvio dell’autobomba scoppiata questa mattina. Da lì abbiamo fatto tutta una serie di considerazioni, ma vi riporto quelle di Hans, che, sebbene opinabili in alcuni punti, restano comunque interessanti: “La gente normale è stanca di tutto questo orrore. Non si riconosce in questi attentati. Ormai non sono nemmeno più rivolti agli Americani, muoiono soltanto Iracheni. E’ resistenza questa? Io penso sia soltanto una strategia del terrore che mira a destabilizzare e mantenere una situazione incerta favorevole ai criminali di ogni risma. E non credo che dietro a questi attentati ci sia la mano di Al Qaeda o di Al Zarqawi. Non credo abbiano queste capacità attualmente qui in Iraq. Secondo me sono i resti del partito Ba’th. Si sarà anche frammentato, ma dove sono andati a finire tutti i potenti servizi segreti del raiss che si alimentavano dei traffici criminali prodotti dall’embargo? Non hanno motivo di disciogliersi perché il loro nutrimento non è svanito. In Iraq ora si possono concludere gli stessi affari loschi che si concludevano sotto l’embargo, purché il nuovo Governo non faccia pulizia. Non è la presenza degli Americani che a loro dispiace, in ultima analisi, ma il fatto che la nuova polizia irachena assuma il controllo del territorio. Ed è quella che puntano a colpire. La logistica ce l’hanno. Non si è disciolta, molti reparti speciali dell’exesercito di Saddam sono ancora alle loro dipendenze. E’ un mondo criminale rimasto acefalo che continua a sopravvivere d’inerzia perché rimane del terreno a loro fertile. Non hanno un programma politico perché non hanno più una faccia, una facciata da proporre al Paese. Non hanno più una copertura ideologica come quella offerta da Saddam. La gente lo percepisce. Riconosce in questi attentati lo stile, ormai un po’ decadente e decaduto, di Saddam ed è per questo che non la considera resistenza. Si dissocia, la maledice, la detesta”. Fin qui, totale accordo, mi pare. Poi però mi incalza: “Ma tu ti senti sicuro?”... Io: “Bah, sì. Mi sento sicuro, gli Iracheni sono ospitali, sto attento a non tornare nello stesso posto per due giorni di fila alla stessa ora. Ma mi sento sicuro, poi magari mi sbaglio...”. “Béh, vedi, io penso che quasi ogni occidentale sia segnalato o tenuto d’occhio dagli ex-servizi segreti di Saddam. Da quando scendi all’aeroporto, sei seguito, sanno dove risiedi, forse possono ricostruire anche i tuoi spostamenti. E’ una rete ramificata e informale, che va dal vicino di casa che parla con il cugino che conosce quel tipo che sa che offre soldi in cambio di informazioni. Credo che sia una rete ancora in piedi. Credo che anche noi qui siamo conosciuti. Tutta la via sicuramente sa della nostra presenza. Per questo non usciamo mai di casa, lo facciamo solo per recarci alla clinica e lo facciamo con la massima cautela. Per noi rischiare vuol dire anche mettere a rischio il progetto. Cerchiamo di apparire insignificanti, non ci esponiamo. Credi che non sappiano che esiste un europeo che gira per la città con una borsa da quattro soldi in cui dentro però nasconde una videocamera e sta incontrando delle persone per intervistarle?”. ”Bèh, Hans, non credo di essere così importante...”. “Stai attento...”. Ho raccontato tutto questo a Karim: fantascienza. Stasera siamo rientrati un po’ più tardi del solito e Karim scherzava fingendo di essere una spia del Ba‘th: “Cazzo, stasera sono rientrati più tardi, questi ogni giorno tornano all’ora che vogliono loro....”. Torniamo alla giornata. Alle 15 siamo tornati a prendere Karim e abbiamo fatto un’esperienza incredibile.Siamo stati a trovare il centro di culto della comunità Sabea Mandea. E che è? Mah, difficile da spiegare. Dunque, non sono degli hippy freakkettoni partiti nel ‘68 dalle valli dell’Oregon per ritornare alle origini della civiltà, nel cuore di Babilonia. In pratica si tratta di una minoranza etnico-religiosa (sono 100mila i seguaci in tutto l’Iraq!!). Sono Battisti, cioè venerano Giovanni Battista, colui che battezzò il Cristo. Ma non sono Cristiani. Il loro culto consiste nel ripetere il battesimo ogni volta. Hanno una grande sala con dei divani disposti uno in faccia all’altro in modo che la comunità si possa parlare guardandosi negli occhi. Poi si alzano e vanno in una specie di piscina con degli scalini e fanno il bagno vestiti!Abbiamo intervistato la loro guida spirituale. Martedì 20 appuntamento da non perdere: alle 8 del mattino raduno di tutti i Sabei Mandei di Baghdad che si buttano nel Tigri!!! Poi siamo rientrati al centro di Batawin e ho fatto altre riprese ai bambini (con queste penso di aver materiale a sufficienza sul centro). Alle 19.30 poi siamo stati da uno scultore, uno tra i più famosi in Iraq, che vive al nord ma che in questi giorni è a Baghdad perché sta scolpendo 2 statue che sorreggono 2 colonne in una villa in costruzione. L’ho ripreso all’opera, poi siamo saliti sulla terrazza di quella che sarà una specie di reggia e l’abbiamo intervistato con la città al tramonto alle sue spalle. Dice che sotto Saddam si lavorava parecchio, oggi il gusto per l’arte plastica è un po’ diminuito (o forse il gusto per la retorica di regime, aggiungo io).Bello anche questo punto di vista. Ecco il motivo del nostro rientro un po’ più tardi del solito. Al ritorno ci siamo imbattuti in un blindato di Americani che ha intasato un incrocio stretto reso ancor più stretto da barriere di cemento armato e filo spinato. Tre soldati sono scesi mitra alla mano a dirigere il traffico. Che scena da nervi. Se fossi stato io al volante avrei fatto l’opposto di quel che mi dicevano e sarei passato quando cazzo avessi avuto voglia io. Ma chi sono per dirigere il traffico con il mitra in mano? Che potere hanno? Nessuno, né morale né formale. Ormai c’è un governo riconosciuto dall’ONU, c’è una polizia irachena, c’è la polizia stradale irachena. Non mi possono nemmeno fare una multa. Il loro è solo il potere del mitra in mano e dell’arroganza! E comunque il traffico non lo si dirige con il mitra in mano: vaffanculo! A me cosa mi frega? Ma è l’arroganza nei confronti degli Iracheni che mi manda in bestia. E meno male che sarebbero dovuti sparire dalla circolazione, limitando i contatti con la popolazione civile. Domattina sveglia presto, per cui vi lascio, vado a nanna. Usciamo da Baghdad, andiamo a Taji, un piccolo villaggio alle porte di Falluja. Non dico niente, vi racconto al ritorno. State tranquilli, a presto, un abbraccio (tra 10 giorni sono a Milano)... giorno 7 – Cercando la resistenza irachena Siamo rientrati dalla trasferta alle porte di Falluja! Non ho mai visto tanti carri armati e blindati americani come oggi (ne ho ripresi fino alla nausea!). Tutto a posto. Ho saputo quant’è il mio valore da quelle parti: 4000 dollari! Bèh, in verità speravo qualcosa di più, ci potrei a malapena pagare questo documentario. Devo essere rapidissimo, domattina sveglia alle 5. Andiamo con Seif il tunisino poco fuori Baghdad dove eravamo stati l’altra sera per incontrare questo gruppo di ragazzi di strada, vi ho già spiegato. Dunque: niente, siamo partiti questa mattina in 2 macchine più una che ci ha raggiunti dopo. Una era la nostra: io, Karim e Wamidh “Lampo”. Le altre 2 erano di Intersos, una ONG italiana. Il viaggio di andata è stato tranquillissimo, in fondo anche quello di ritorno. E’ tutta autostrada a 3 corsie, all’inizio c’è l’uscita per Abu Ghraib (dove c’è il famigerato carcere), più avanti quella per Falluja, poi, dopo aver oltrepassato il ponte sull’Eufrate, quella per Ramadi e poco più avanti l’uscita per questo campo profughi che ospita ormai da 20 anni Kurdi sunniti dell’Iran. Il viaggio: come ho detto tranquillissimo. Su ogni cavalcavia ci sono 2 blindati americani, lungo l’autostrada spesso se ne incrociano altri, ai lati ancora, ogni tanto un accampamento. Ne ho ripresi fino alla nausea, vedrete che bel montaggio vi preparo.... Il campo profughi: prima era seguito direttamente dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, da poco è subentrato Intersos. In pratica è una comunità di Kurdi dell’Iran, cacciati perché sunniti. Durante il regime di Saddam erano praticamente segregati in questo campo. Ora desiderano andarsene e spostarsi verso nord, verso il Kurdistan iracheno, sempre profughi, ma per lo meno in mezzo ad altri Kurdi. Vivono in un dignitosissimo villaggio di mattoni e fango, ma all’interno hanno tutti i comfort, dall’aria condizionata, alla televisione con satellite, ecc... Certo, il lusso è un’altra cosa, ma dignitosissimi. E poi le donne e i bambini di una bellezza rara. Ho fatto delle immagini bellissime. Presso questo campo c’è anche una stazione di Polizia, siamo stati a conoscerli un po’ per rispetto, un po’ per usanza, e ci è saltato in mente di proporre al giovane comandante un’intervista. Ha accordato, anche se con qualche titubanza e sotto anonimato. Ho usato la stessa tecnica già sperimentata con Rabye, in controluce davanti alla finestra. Più tardi ci ha raggiunti al campo anche la terza macchina che era passata da Falluja per raccogliere Maki, questo operatore di Intersos che abita lì e che noi vorremmo intervistare (forse sabato pomeriggio). E’ stato lui a farmi la battuta sui 4000 $. Il tipo è molto sveglio, uno di quelli che la sa lunga, un signore sulla 40ina suonata (ex-quadro di partito?). Sulla strada del ritorno stessi scenari. Soltanto che siamo stati fermati dall’esercito iracheno (agli albori, qualcosa di ancora non ben precisato) che stava effettuando dei controlli e aveva allestito un check-point lungo l’autostrada. Tutto tranquillo, non mi hanno chiesto nemmeno il passaporto, hanno visto la videocamera e non hanno fatto una piega. Erano tutti molto giovani, sui 20 anni, con il mitra in mano e mimetica, il foulard sul naso per la polvere del deserto e un caldo soffocante. Ah, il deserto... Dopo Abu Ghraib, praticamente ai lati dell’autostrada c’è solo deserto e qua e là dei piccoli centri abitati con tante palme tutte intorno, qualche gregge e qualche asino. Che sensazione! Il controllo dell’esercito abbiamo scoperto più tardi era probabilmente dovuto ad un assalto di questa mattina alle porte di Baghdad contro la polizia irachena che ha provocato la morte di altre 10 persone. Per la cronaca in città quest’oggi c’è stata una manifestazione di 3mila persone che chiedevano la morte di Saddam. Pare fossero sciiti.Questa sera siamo usciti a cena con Seif, io e Karim. Saputo che oggi siamo stati oltre Ramadi e introducendo il fatto che domani vorremmo intervistarlo (dopo la piscina, programma: ore 5 dai ragazzi di strada - rientro – ore 14 piscina - ore 18 intervista - ore 20 couscous a casa sua..., domani è venerdì, giorno di festa), ci ha raccontato di avere amici a Ramadi e Falluja, amici dell’università. Seif è un personaggio ricco e strano. Non credo di aver il tempo qui per lanciarmi in una descrizione esaustiva. Vi riporto 3 domande che gli ho fatto e altrettante risposte (domani dovrebbe ripetere tutto, ma sotto anonimato): “A Falluja ci sono i resti del partito Ba’th, qual è il loro obiettivo?”... qui Seif ha dovuto ammettere la mia considerazione: ”Sì, a Falluja ci sono i resti del partito Ba’th. Il loro obiettivo è quello di evitare la giustizia americana di parte, negoziando non solo l’immunità, ma il loro reinserimento nei quadri del futuro Iraq. Una città piccola come Falluja non resiste ad un mese di assedio all’esercito più potente del mondo se dentro non ci sono dei reparti speciali... E’ vero non hanno un programma politico. Non cercano la solidarietà internazionalista. Mirano solo a tenere alta la tensione fino a che non troveranno soddisfacenti le offerte degli Americani”. “Chi c’è dietro le autobomba?”. “Dietro ad attentati che prevedano l’uso di kamikaze non c’è il Ba’th, non fa parte della loro logica. Il kamikaze ha una provenienza religiosa. Sempre che non ci sia una collaborazione: l’integralismo fornisce il kamikaze, il Ba’th la logistica dell’azione”. ”Chi c’è dietro i rapimenti degli occidentali?”. “Secondo me la CIA. Non è un caso che gli Italiani siano stati liberati qualche giorno prima delle elezioni. Se ci sono fondati sospetti addirittura circa responsabilità dei servizi segreti americani per l’attentato alle torri gemelle, allora possono fare di tutto”. Quest’ultima risposta mi è parsa la più fragile. Le prime 2 interessanti. Il motivo di quest’ultima domanda era esplicito: “Se hai una proposta seria, per conto mio vengo a Falluja...”. “Ma certo, se avessi anche solo il minimo dubbio su queste persone non ti parlerei nemmeno di loro. Non sono mostri come la propaganda internazionale vuole dipingere...”. Poi mi sono sentito di dover aggiungere: “Vengo se viene Karim...”, Karim ha aggiunto: “ Non lo so, ci devo pensare, devo valutare anche la mia posizione con Terre des hommes, in teoria non potrei fare queste cose, non potrei occuparmi di politica, mentre sono alle dipendenze di una ONG”. Sacrosanto. Ah, non allarmatevi per favore, altrimenti non vi scrivo queste cose e comincio a tenere 2 diari separati. Le condizioni logistiche sono ottimali, i contatti valutati nel dettaglio. Le mie valutazioni sono serie. Dall’Italia può sembrare una cosa, da qui dico solo che altre volte è stata più dura, solo che non scrivevo un diario telematico in tempo reale. Questa sera Karim è tornato a dormire sul pavimento del suo ufficio dove mi sistemo io, dopo qualche notte che dormiva sulla terrazza. La chiamiamo la sala-obitorio, perché di notte metto l’aria condizionata al massimo (un po’ di sano cinismo, suvvia!). A presto, un abbraccio... Ps: ha appena chiamato Seif, è la mezzanotte qui. Cambio di programma: dice che la polizia ha appena fatto una retata è ha arrestato quel gruppo di ragazzi di strada. Domattina si va al commissariato, ma non più alle 5 perlomeno... giorno 8 – La città dei check-point Oggi è stato tutto un cambio di programma. Niente commissariato (anche perché era proprio quello di Batawin e Karim non voleva farsi vedere in veste di ”reporter”, visto che già è conosciuto lì come responsabile del centro per l’infanzia di Terre des hommes). Abbiamo aspettato a casa tutta la mattina e parte del pomeriggio una chiamata di Seif (oggi era venerdì, quindi giorno festivo settimanale nel mondo islamico, quindi c’era poco altro da fare).Alle 13 è arrivata in città Giorgia, l’altra responsabile di Terre des hommes che avevamo lasciato ad Amman e che ora starà qui con noi (anche lei con l’aeroplanino che si avvita nell’atterraggio). Alle 14 ha chiamato Seif: si va in piscina! Alle 15 già sguazzavamo. Sto riassumendo all’osso le cose fatte, dovete scusarmi, sono un po’ stanco. Ci sarebbero da raccontare un sacco di cose sull’esperienza in piscina. Per esempio, uomini e donne che ci vanno a giorni alterni come all’hammam. L’esperienza della piscina per soli uomini è di un deprimente... Ma non solo perché noi europei siamo abituati ad associare al concetto di piscina visioni paradisiache e estasi contemplative (e francamente oggi c’era ben poco da contemplare: solo grossi panzoni pelosi e qualche giovanotto esagitato), ma anche perché soli uomini in una piscina sono capaci di farla diventare un campo di battaglia senza tregua. Dal momento che qui oltretutto non ci sono bagnini né tanto meno regole comportamentali, è tutta una competizione più o meno goliardica: gente che si spinge in acqua, altri che si tuffano all’indietro, quelli che prendono la rincorsa da trenta metri a chi si tuffa più in lungo, questi altri che si schizzano, altri ancora che si prendono sulle spalle e si fanno la lotta contro altri due. Immaginatevi la scena se fosse entrata all’improvviso una dolce fanciulla, con occhiali da sole, incedere fermo e aria sufficiente, mezza svestita coperta di crema solare. Si sarebbero paralizzati tutti. Avrebbero smesso di fare i cretini e si sarebbe finalmente (tra l’altro) potuto nuotare un po’ in santa pace (ma non credo che sarebbe stata una bella esperienza per questa dolce fanciulla sentirsi addosso qualche centinaio di occhi fuori dalle orbite...). Per il resto, essendo la piscina in un albergo vicino al Tigri e vicino alla zona verde, per una buona mezz’ora si sono sentite raffiche e spari a ripetizione. Seif continuava a ripetere: “A l’attaque!!” (e la gente in acqua faceva come se niente fosse...). Karim dice che tante volte gli scontri che avvengono all’interno della zona verde nemmeno vengono riportati dai giornali, perché nessuno li vede. La zona verde sarebbe quella parte di città lungo il Tigri dove sorgevano i palazzi presidenziali di Saddam ora occupati dal comando supremo delle forze alleate e da funzionari vari. Nessuno vi entra se non autorizzato. Le autobomba scoppiano regolarmente al check-point. I kamikaze si mettono in fila, ci stanno anche una buona mezz’ora, cercano di avvicinarsi il più possibile, quando è il loro turno di essere controllati, i kamikaze tirano una cordicella e boom, saltano per aria loro, i poliziotti iracheni del check-point e magari qualche passante. Questo per dire che la zona verde è off-limits. Se qualcuno della resistenza tira una granata o un razzo all’interno e ammazza 10 soldati, per dire, nessuno lo sa. Anche per i giornalisti non sempre è facile ottenere i permessi per entrare. Io non ero preoccupato per gli spari che si sentivano in piscina. Paura? Ragazzi, siamo obiettivi. Baghdad soprattutto in questi ultimi 3 giorni è piena di check-point, filo spinato, polizia irachena, si rivede una presenza massiccia di soldati americani (nei primi giorni ne vedevo molti di meno). Ma i rischi quali sono? Non sono un soldato, non me le vado a cercare. Sono qui come un qualsiasi abitante di Baghdad, una città di quasi 6 milioni di abitanti, in quest’ultima settimana stando alle cronache sono morte circa 20-30 persone tra civili e soldati. Non è nemmeno un’eccezione Baghdad nel mondo. Ficchiamoci in testa che questa per lo più è la normalità delle cose nel mondo. Ed è la nostra società occidentale la più spietata e violenta e sanguinaria. L’inganno sta nel fatto che noi siamo quasi riusciti a riservarci una pace forzata, una “sicurezza” (parolina magica), fatta di bodyguard, polizia di quartiere, ma soprattutto di aeronautica e soldati nostri disseminati in mezzo pianeta (guerra preventiva...). Non siamo noi i buoni perché ci inorridisce l’idea di passare davanti a un check-point con soldati che imbracciano un mitra (perché quei soldati per altro sono i nostri e li ha concepiti la nostra mente). Siamo i più furbi. Questo è il mondo che noi abbiamo costruito e che gli altri stanno subendo. L’Occidente è di gran lunga il più grande produttore e rivenditore di armi al mondo e senza armi i vari Saddam per quanto efferati al massimo si sarebbero presi a colpi di clava sulla testa, non a razzi, bombe, armi chimiche ecc... Abbiamo fatto una guerra contro l’Iraq perché forse qui si nascondevano armi di distruzione di massa. Anche se fosse vero che non c’erano, Saddam in passato le ha usate per gasare il villaggio kurdo di Halabya, ma allora erano gli Stati Uniti a passargliele pensando che le usasse contro l’Iran che aveva rovesciato il pascià molto amato dall’Occidente perché faceva le sue veci. Il problema però è un altro: se si bombarda l’Iraq per le armi chimiche, allora ad Israele cosa dovremmo fare? Cosa sta costruendo o cosa ha già costruito Israele per “difendere” i propri interessi nazionali in Medio Oriente? Quali armi di distruzione di massa possiede? Chimiche, nucleari? E’ possibile, anzi certo. Ma perché l’America non bombarda Israele? Perché è un Paese amico? Allora il torto di Saddam non era possedere (sempre che così fosse) armi di distruzione di massa, ma non essere (più) un alleato (o per meglio dire servo) dei padroni dell’impero: gli Stati Uniti. Secondo quale logica Saddam non avrebbe dovuto cercare di procurarsi armi adeguate per difendersi da Israele? Quella del fesso? Ma allora chi ha deciso questo stato delle cose? A chi va attribuita la paternità di questa logica del dominante sul dominato a qualsiasi costo? Il nuovo ordine mondiale inizia con la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Non cerchiamo di far finta di non vedere le cose come stanno. Torniamo a Baghdad. Non mi fa paura un check-point, mi inorgoglisce passarci a fianco, perché questa è la sorte che tocca alla probabile maggioranza delle persone che abitano questo pianeta.E questo a causa della società ipocrita da cui provengo. Ma al tempo stesso mi fa schifo. Mi inorgoglisce e mi fa schifo. Perché non ho ancora smesso di pensare che questo nostro pianeta potrebbe essere diverso. Non accetto questa realtà! Non spero che cambi, perché da sola non cambia, è inutile e ipocrita che io lo speri. Non credo alla pace come ideale. Credo alla pace come pratica. E praticare la pace significa anche passare davanti a un check-point e non aver paura ma provare schifo. Significa saltare al di là del filo spinato entro il quale l’Occidente rinchiude i suoi cittadini come pecore ignare provando a spaventarci, cercando di raccontarci che là fuori ci sono lupi cattivi e quindi noi per paura ce ne stiamo buoni e beati e non ci interessa di andare a vedere cosa avviene realmente “là fuori”, e mai così capiremo che là fuori non ci sono lupi ma altre pecore massacrate al posto nostro. E man mano il recinto si stringe, e le pecore che prima stavano dentro ora stanno fuori (la Jugoslavia ad esempio, l’Algeria, i Paesi che avevano sperato nel terzomondismo e ora si ritrovano esclusi da un un club dei Paesi civili sempre più ristretto ma il cui stato sociale è pur sempre anch’esso in caduta libera). Venire qui significa venire a condividere la sorte delle nostre vittime (almeno ogni tanto) e avere il coraggio di guardarle con i nostri propri occhi e incazzarsi. Per me i check-point è come non esistessero. Guardo quei soldati e mi dico: non esistete. Non contate niente nella mia vita, non avete nessun valore, non avete neanche il potere di spaventarmi.Cazzo! Cazzo!!!! Scusate lo sfogo. Dopo la piscina siamo stati a casa di Seif che ci ha preparato del cous-cous (qui non sanno nemmeno cosa sia, e lui da buon tunisino l’ha cucinato come dio comanda: Karim ed io ci siamo sentiti come a casa...) e poi mi ha insegnato a montare il narghilé e ci siamo fatti una fumata. Mentre stavamo per salire in macchina per rientrare abbiamo sentito un botto tremendo. Poco fa abbiamo ascoltato la radio: pare che un blindato americano sia saltato su una mina. Tranquilli, sono mine anti-carro, ci vuole un tot di peso minimo per farle detonare. Il punto in cui è saltato era proprio sul nostro tragitto. Abbiamo visto decine di auto della polizia irachena (oggi siamo anche stati fermati da loro a un check-point: ieri l’esercito, oggi la polizia), decine di altri blindati americani accorsi, era un putiferio. Abbiamo così dovuto fare un giro più lungo.Siamo tutti un po’ nervosi, stiamo sentendo elicotteri sorvolare la città. Quindi prendetevi questo sfogo così com’è, per quello che è... Ma state tranquilli, la statistica è tutta dalla mia parte... Un abbraccio, a presto.. giorno 9 – Una lenta danza di morte Tra una settimana esatta sarò nella mia casetta a Milano. E starò lì a guardarmi indietro. E devo fare in modo che questi ultimi giorni raccolgano le aspettative.Il quadro comincia a comporsi, ma gli ultimi ritocchi sono quelli dove ci vuole la mano più ferma del solito. Questa giornata si è aperta con un altro botto. Non erano ancora le 7 in Italia, qui non ancora le 9 del mattino.Una bomba è scoppiata a 10 minuti a piedi da qui (circa a 200mila persone da qui, mi dispiace la lista d’attesa è lunga, non è che uno arriva a Baghdad e dopo 10 giorni può già pretendere di saltare su un’autobomba...). Ha centrato il convoglio con la scorta che portava il ministro della giustizia del governo provvisorio. Lui si è salvato, buona parte della scorta no. Sarebbe stato un bel colpo per il partito Ba’th clandestino. Oggi era un altro anniversario pesante: 36 anni dalla rivoluzione irachena (una delle tante). Dal 17 luglio 1968 si segna l’inizio vero e proprio dell’era del partito arabosocialista (ovvero nazional-socialista: ovvero fascista? Oops, qualche buon stalinista in Italia potrebbe offendersi...) Ba’th. Colpire il ministro della giustizia avrebbe significato far fuori proprio la persona che sta orchestrando il processo a Saddam (e quindi alla storia del partito): sarebbe stato un colpo ad effetto di quelli spettacolari. Ma non è riuscito. Cambia poco per la Signora Morte, che anche oggi si è dissetata comunque col sangue iracheno.Alle 12 avevamo appuntamento all’accademia dello spettacolo con Rana, l’attrice che avevamo conosciuto insieme agli altri ragazzi. Forse vale la pena aggiornare il discorso su di loro. Dopo che per la festa nazionale del 14 era saltato l’appuntamento con Bassem lo scultore, anche Ava la pittrice ieri venerdì (giorno di festa) ha disdetto. Stamattina abbiamo chiamato Rana l’attrice per la conferma e con una mezz’oretta di ritardo (ma avevamo avvisato) siamo arrivati. Ma lei non c’era più. Ad attenderci c’era però Muhanad, un suo amico danzatore che ci ha invitati alle prove della compagnia: uno spettacolo! Sono una decina di ragazzi e una sola ragazza, stanno provando uno spettacolo di danza da loro scritto che si intitola “Slow death”. Ho ripreso le prove, poi sono stato un po’ con loro e infine ho fatto qualche domanda a Muhanad al circolo degli artisti. Karim nel frattempo se n’era andato, perciò ho dovuto porre le domande in inglese e fidarmi delle sue risposte in arabo. Lunedì ripasso a trovarli prima che partano per Amman per uno spettacolo, mi lasceranno il loro curriculum e un dvd con una ripresa del loro spettacolo, magari in Italia si trova qualcuno interessato. Alcuni di loro sono davvero fenomenali. Ho fatto delle riprese alla “Fame” o alla “Hair” se preferite, avevano un’aria molto “indie”, molto fresca. Credo che con queste riprese posso aver soddisfatto la mia esigenza di immagini suggestive su cui costruire un percorso narrativo che vada al di là dell’esposizione dei contenuti delle interviste, per quanto storie o racconti di storie siano. Perciò mi è tornata la fissa di puntare sull’idea della fenice che ben si adatta ai pezzi di spettacolo che hanno provato, alla “morte lenta”, che nel documentario potrebbe diventare anche una “rinascita lenta”. Comunque davvero, le immagini sono venute molto belle, le vedrete. Alle 17 siamo stati alla sede di Intersos e abbiamo intervistato Maki Al Nazzal, il signore di Falluja conosciuto l’altro giorno nei pressi di Ramadi. E’ stata un’intervista pesante, nel senso positivo del termine. Il tipo è un personaggio ricco, scrittore, giornalista, autore (ma non meglio precisato), forse personaggio a doppio fondo, con le mani in pasta un po’ ovunque, di poco sopra la quarantina, aspetto da persona d’apparato ma con una venatura di tarda modernità, baffetti e inglese sciolto. Karim è molto contento, io mi fido, non mi resta altro finché non vedrò per intero la traduzione. In sostanza ha raccontato i giorni d’assedio della città, ha detto che in quel periodo ha fatto il volontario presso l’ospedale e andava a raccogliere i feriti. Dice che è falso che a Falluja ci siano i resti del Ba’th, che per le strade ci sono slogan che dicono che non sono i servi di Saddam, che la resistenza di Falluja ha radici antiche (ha scritto un libro dove racconta la storia della città vista come una roccaforte inespugnata già al tempo degli inglesi, sta cercando ora qualcuno che glielo pubblichi...), che non è vero che si sta imponendo la ”sharia” (la legge islamica) e che alle donne non è stato imposto di portare il velo ma lo fanno di loro spontanea iniziativa già da prima che Saddam cadesse (!?). Dette così sembrano tutte delle bufale o per meglio dire delle stronzate pazzesche. Karim dice che comunque i suoi ragionamenti erano credibili, che ha ammesso la presenza di combattenti provenienti dall’estero, che c’è sicuramente un sentimento arabo-nazionalista diffuso, che la resistenza (o per meglio dire la reazione) è stata particolarmente decisa perché gli Americani ne hanno combinate di tutti i colori con bombardamenti assassini di civili tali da scatenare la sete di vendetta anche delle persone più miti ed è vero che si sente forte la pressione degli ulema sunniti (ma dice che era così anche prima). Per lo meno molti di voi potranno tranquillizzarsi perché dopo essersi dichiarato disposto ad aiutarci in qualsiasi modo, ha aggiunto: “Tranne che di portarvi a Falluja... Mi dispiace, in un altro periodo l’avrei fatto con orgoglio, ma ora non mi sento di garantire la vostra sicurezza. In città c’è un odio per gli occidentali che è difficile controllare, la gente si sente tradita e arrabbiata, a Falluja gli Americani hanno esagerato...”, e pare che nell’intervista lo racconti nei dettagli.Non convinto dalla ritrosia di Maki, poco più tardi abbiamo incontrato Seif che ci ha fatto conoscere un suo amico tunisino, anche lui trasferito a Baghdad da diversi anni. Anche lui probabilmente in passato legato in maniera indiretta (o diretta) ai servizi segreti iracheni. L’idea era chiedere anche a lui di accompagnarci a Falluja (Seif diceva che con lui era sicuro), ma questi ha risposto che un viaggio da quelle parti di questi tempi va preparato con molta, molta cura, non si può organizzare in 3 giorni (per cui abbiamo desistito ufficialmente dall’idea di recarci nel cuore della resistenza irachena). Ci ha promesso in cambio però che lunedì ci porta una persona con qualcosa di interessante (l’intervista sarà sotto anonimato).Il tema è il classico “who is who?”, “chi è chi?”. Lui dice che gli atti di violenza degli Iracheni in questo periodo sono di 3 tipi: 1) i civili esasperati che si vendicano contro gli americani (Falluja?); 2) i nazionalisti-arabi magari a sfondo religioso che combattono gli Americani solo perché ce li hanno a portata di mano senza dover dirottare 2 aerei a Manhattan (mi pare la storia di Obelix e Asterix); 3) gli Iracheni che regolano tra di loro vecchi conti in sospeso (per esempio l’attentato di questa mattina, pare che l’attuale ministro della giustizia fosse un protetto di Saddam e quindi ora un traditore)... Usciti dal ristorante Karim ed io abbiamo deciso di tornare a casa a piedi e infatti ci siamo persi. Non eravamo lontani da casa, ma Karim ha l’orientamento di una cavia da laboratorio dopo essere stata centrifugata, io per Al Mansur (il quartiere dove stiamo) non mi ci raccapezzo per niente. E’ un quartiere coloniale costruito dagli Inglesi, con le 4 vie in croce principali e tutte le traverse numerate (ma che si assomigliano tutte quante). Ma questo in teoria, perché non sono affatto numerate. Mettere nomi alle vie qui in Iraq è un vezzo, non una necessità, tant’è che il servizio postale non è mai esistito. Per spedirsi le lettere usano tutti delle caselle fermo-posta agli uffici postali del quartiere e ognuno passa a ritirarli quando c’ha voglia o c’ha tempo o quando gli capita. Dopo un’ora che vagavamo come 2 fantasmi nelle tenebre, abbiamo chiamato Duraid ”I-DentiSpaccati-Del-Dinosauro” e questi mosso a compassione ci ha recuperato in macchina mentre eravamo seduti su un marciapiede senza aver la benché minima idea di dove fossimo (gli abbiamo detto solo il nome del ristorante davanti al quale eravamo). Ne approfitto per tornare su un argomento: da un po’ di puntate non mi sentite più lamentarmi del caldo. Ma non è perché è diminuita la temperatura, tranquilli. Stasera, intanto che aspettavamo Duraid, Karim mi ha detto: “Certo che dopo un po’ ci si fa l’abitudine al caldo di Baghdad”. No, non è nemmeno esattamente così. E’ che alla fine sei talmente stremato che ti accorgi che lamentarti sono solo energie che sprechi e che innalzano ancor di più la temperatura corporea. L’unica strategia plausibile (ma lungi dall’essere in ogni caso efficace) è il silenzio zen... Domani giornata importante: alle 12 appuntamento per intervistare la ministra dell’ambiente del governo provvisorio.Sorpresa! E’ da 2 giorni che sappiamo di questo appuntamento che ci ha procurato Rabye, sentiamo che ci dice (non mi pare un ministero di prestigio, un bersaglio sensibile, vi pare?). Poi alle 2 (Karim si fermerà al centro di Batawin per dedicarsi alle ultime cose...) carico Salman e dedico l’intera giornata a girare con lui esterni a Baghdad: monumenti, marciapiedi, check-point della polizia, palazzi bombardati, mercatini di quartiere, truppe americane, relitti di autobomba, ecc... Un abbraccio, a presto... tra poco mi avrete ancora tra voi....rassegnatevi... giorno 10 – Un quartiere chiamato Libertà Il fatto è che ormai comincio a trovare Baghdad familiare ed ora comincia a spaventarmi di più Milano. Dico sul serio. Ho tanti di quei pensieri per la testa che preferirei fermarmi qui. Oggi guardavo ai mitra appoggiati al muro o tenuti a spalla come a dei giocattoli. Come se per folclore locale il personale di guardia tenesse a mo’ di ornamento un pezzo di ferraglia rivestito in legno nell’impugnatura. Stamattina quindi sono rimasto a casa a preparare l’intervista con Nasrin Berwari, la ministra curda, agli affari sociali, rettifica. Aveva qualcosa di assurdo questo appuntamento. Karim che capisce ministro all’ambiente da Rabye, in realtà scopro io dopo una ricerca su internet che è ministro agli affari sociali. Karim che arriva tardi a casa e quindi ci presentiamo con 5 minuti di ritardo al palazzo del ministero (che poi diventano 15 perché tra la strada e l’ufficio della ministra ci sono 3 perquisizioni di mezzo e un po’ di anticamera). Noi che ci presentiamo così un po’ spaesati e questa che ci accoglie dicendo: ”Only 10 minutes, ok?”. Alla fine saranno 20. Io avevo preparato 8 domande dopo essermi documentato (anche se in fretta e furia in una sola mattinata, mi sembravano domande plausibili, per lo meno rispetto a ciò che interessa a noi seguendo il filo del documentario).Avere solo 10 minuti a disposizione un po’ ci spiazza, scegliamo le 3 domande principali, poi trascorsi i 10 minuti la ministra ha ancora voglia di parlare e quindi Karim improvvisa... Io non capisco nulla di quel che stanno parlando. Trovo assurda la scenografia, sembra davvero una stanza della Casa Bianca, cerco dei dettagli sul viso della ministra, cerco di ritrarla donna al posto di un qualunque funzionario di uno dei tanti governi fantoccio sparsi per il pianeta. Provo a cercare la paura nei suoi occhi, quella che deve aver visto il mese scorso scampando ad un attentato a Mosul, in Kurdistan, al nord, in cui hanno perso la vita alcuni uomini della sua scorta. Ha gli occhi lucidi, ma non piangeva, non era commossa, non lo credo, ma aveva gli occhi lucidi. A me tornava solo bene, la fotografia e i dettagli ne guadagnavano, ma tutto mi pareva assurdo, anche me che stavo lì e non capivo ciò che diceva. Allo scoccare del 20esimo minuto ci interrompe. “Is it ok? I gave you 20 minutes, I think it’s enough...”. In meno di 5 minuti siamo di nuovo in strada e per rispettare il filone dell’assurdo dato alla mattinata ci schiaffiamo nella rosticceria più unta di tutta Baghdad, appena fuori il palazzo del ministero. Mentre mangio felafel mi accorgo di essere senza un bottone della camicia: dalla vita di strada alla ministra e ritorno in circa mezz’ora. Chiedo a Karim dell’intervista: “Ha detto cose interessanti di quando era oppositrice di Saddam e in quanto kurda ha parlato degli stermini di massa in Kurdistan. Ha parlato della sua terra e del Partito Democratico del Kurdistan da cui proviene. Poi però ha tagliato corto sulla resistenza, ha detto che gli Iracheni sono il bersaglio, quindi non è resistenza ma terrorismo. Infine ha detto che “gli Americani non sono truppe di occupazione e che aiutano l’Iraq fino a quando non sarà in grado di formare una polizia e un esercito adeguati”. Va bene, abbiamo intervistato una ministra irachena nel luglio 2004, forse molti ci invidieranno. Rimpiango di non parlare l’arabo, forse gliel’abbiamo perdonata per questa volta, la prossima non ci faremo rifilare queste cazzate. Nel pomeriggio Salman mi ha affidato ad un suo amico, Masar, e se mi è concesso ripristinare la palma al personaggio della giornata scelgo decisamente Masar rispetto alla ministra. Non ci crederete ma questo pazzo (26 anni, giornalista e scrittore di storie - donnaiolo nel tempo libero) mi ha portato in un mercato in un quartiere sciita vecchio e povero che si chiama Al Hurria (la Libertà). fatto sta che, dopo la decima volta che ha risposto alle mie paranoie mentre cercavo di filmare dal finestrino della macchina con un “It’s safe to shoot with your camera, no problem”, allora gli ho detto: “Really? Well, ok, go down, let’s shoot inside the market...!”, ”Ok, no problem!”, ma a dir la verità un po’ sorpreso. Beh, siamo scesi con la videocamera e ho cominciato a riprendere di tutto, scenari pazzeschi, pesci agonizzanti nella vasca da bagno con 1 dito d’acqua, vecchietti secchi con turbante e narghilé che tiravano dadi o giocavano a domino, un fruttivendolo che ci ha raccontato di essere stato torturato dagli Americani e ci ha mostrato la cicatrice delle catene ai polsi e un tatuaggio sul braccio fatto una volta liberato che diceva: “La vita è una tortura”, ragazzi che si lamentavano per la mancanza di luce, acqua, corrente, altri che chiedono più sicurezza e non vogliono che gli Americani se ne vadano, e poi bambini, polli, montagne di angurie...: un sottobosco pazzesco. Masar è un personaggio davvero in gamba: sveglio, sincero, creativo, affettuoso. Dopodomani nel tardo pomeriggio cercheremo di incontrarci tutti e 3 con Salman (che oggi ad un certo punto ci ha lasciati), voglio intervistarli lungo il Tigri al tramonto, 2 amici, Salman sunnita e Masar sciita. Con loro potrebbero nascere delle idee per la prossima volta che torno qua (sì, avete letto bene, ci torno - Baghdad non è quel posto che la tv ci fa credere che sia), magari un cortometraggio, raccontare una storia, ambientarla nella Baghdad profonda dove gli antichi fasti e i vicoli marci di fogne a cielo aperto dischiudono ancora una remota poesia irretita dal filo spinato (ovunque presente...). Abbiamo girato per la città in macchina, abbiamo filmato i muri, la gente, i palazzi, le piazze...Una giornata senza Karim mi ha fatto bene. E’ stanco, forse confuso, un po’ nervoso... I 6 mesi di permanenza finiranno tra pochi giorni, immaginate cosa voglia dire. Inoltre in questi pochi giorni ci sarebbero ancora un sacco di cose da fare, in più lui deve badare anche al suo lavoro qui. A proposito: quanto manca al ritorno? Non lo so. So che il 24 sera sarò a Milano (…vale la pena tornare?), ma non so ancora quando lascerò Baghdad. Karim deve passare un pomeriggio all’ufficio dell’UNICEF ad Amman. Noi ripartiamo il 24 mattina che è un sabato. Ma il venerdì è festivo nei Paesi arabi. Quindi il giovedì pomeriggio deve essere ad Amman. Pare che il volo del giovedì mattina non gli consentirebbe di essere in orario all’UNICEF. Così Karim partirebbe mercoledì mattina. Ma a me 2 giorni sembrano così pochi.Ci stiamo pensando: con Salman e Masar mi sento al sicuro, forse io riparto giovedì mattina per Amman (ma a questo punto perché non venerdì?). Ma sapete qual è il punto? Che il calore della gente qui è particolare. Forse gli proviene dal passato: quando una civiltà è stata abituata per secoli ad attraversare il deserto conosce bene il valore dell’ospitalità. E qui mi sento a casa. E scusate se ho qualche ferita dell’anima da farmi medicare qui... State bene, a presto... Ps: è da poco passata la mezzanotte. Stavo salvando lo scritto quando si è sentito un botto tremendo, più sordo e cupo del solito. Anche questo non doveva essere molto distante, forse non più di 500mila persone da qui... domani sentiremo alla televisione a quanto ammonta questa volta il bottino di Signora Morte... giorno 11 – Anche i figli di Allah sono dei cops Eccoci di nuovo ad Amman. Siamo arrivati ieri sera, abbiamo viaggiato di giorno in macchina, una di quelle che per mestiere fanno avanti-indietro Baghdad-Amman: chi l’avrebbe detto? Attraversare il deserto, 10 ore di viaggio tra il nulla... Ma il pezzo pericoloso (Baghdad-Ramadi), il primo, quello l’avevamo fatto già qualche giorno prima e ci era sembrato tutto sommato sicuro, quindi perché non farla tutta? Karim aveva da fare oggi qui ad Amman presso l’ufficio dell’UNICEF di Amman e non c’erano voli disponibili per essere qui in tempo, e così...: 12 giorni di Baghdad. Pochissimi, doveva essere 1 mese all’origine, poi avevamo detto 3 settimane, poi la malattia di Karim, quindi il tempo che si è ridotto inesorabilmente, 18 giorni, 16, poi 13, alla fine siamo tornati anche un giorno prima. Quello che siamo riusciti a fare in 12 giorni (e a 50 gradi) ha del miracoloso, ma che peccato! Sarebbe bastata forse una settimana in più per fare cose inimmaginabili: Falluja tra la resistenza (una di queste notti ho incontrato in sogno il Saladino, come Francesco di Assisi, e questi mi accoglieva pacificamente - figurarsi se i miei sogni non dovevano essere a sfondo mistico...), incontrare ragazze che si prostituiscono con i militari USA (mettiamocelo in testa: dove c’è un esercito c’è la tortura e c’è la prostituzione, sono la stessa cosa, è la cosa più facile da prevedere, non fingiamo di meravigliarci, perché la guerra è l’affermazione del maschio, ma ne parlerò), poi abbiamo saltato per mancanza di tempo l’incontro con la Lega delle donne (esiste da 20 anni, ci avrebbero fatto una panoramica del passato), poi qualche esponente dei comunisti (forse coloro che avrebbero governato in Iraq dalla fine degli anni ‘70 se la CIA non avesse aiutato Saddam a prendere il potere contro il solito pericoloso rosso e contro l’Iran - in questi ultimi 25 anni i maggiori oppositori eliminati nell’acido e nel tritacarne erano comunisti), altre interviste per la strada, nei locali dove si fuma il narghilé e altre cose con Salman e Masar. Niente. Rimarranno un rimpianto. Almeno per ora. Perché sto pensando di tornare a Baghdad. Sì che ci torno. In questo momento Karim è all’UNICEF e io sono in casa da solo. Voglio scrivere di questi ultimi giorni e poi di tante cose che ho tralasciato qua e là perché la sera ero troppo stanco per ricordarmele tutte. Chissà se ora mi torneranno alla mente mentre sto scrivendo. Innanzi tutto cominciamo con l’episodio più fantascientifico del viaggio, diciamolo pure: il rischio più grosso che abbiamo corso. Era il 20 sera, martedì, esattamente la sera prima di partire. Ci siamo ritrovati al pomeriggio con la decisione presa di partire l’indomani mattina e un sacco di appuntamenti stavano svanendo nel nulla e le ore a nostra disposizione ci sfuggivano tra le mani. Abbiamo chiamato Ava, la pittrice, che avevamo incontrato il giorno prima alla Biblioteca nazionale dove siamo stati per intervistare il direttore e dove abbiamo intervistato anche Bassam, lo scultore, che ha realizzato insieme ad altri la statua che ora sostituisce quella di Saddam, quella che il mondo intero ha visto cadere tirata con i cavi da un carro armato americano. Avremmo dovuto avere con Ava appuntamento il giorno seguente, quindi l’abbiamo chiamata verso le 19 chiedendole di poter passare da lei per quella che sarebbe stata la nostra ultima intervista prima della partenza (ci tenevamo). Lei gentile ci ha aspettato a casa dove ha il laboratorio. Casa sua (vive dai genitori) non è lontana da Al Mansur, ma è in uno dei quartieri più ”in” di Baghdad, dove abitano tutte le autorità. C’è subito un check-point prima di entrare nel quartiere e poi prima di arrivare a casa sua altri 3. Ci ha dato uno strappo Seif con un suo amico autista. Già al primo check-point l’impatto non è stato dei migliori (era poco prima del tramonto, c’era ancora luce). Erano in 3 con il mitra in mano. Ci hanno fatto fermare e chiesto dove andassimo. Karim gli ha detto “a trovare un’amica che abita poco più avanti” (avevamo le indicazioni, non eravamo mai stati da Ava). Sembrava tutto tranquillo, ma uno dei 2 gorilla che erano rimasti seduti ad un certo punto si alza e fa cenno all’altro di aggirare l’auto dall’altra parte. Io, accortomi dei 2 impazziti, guardo questi e gli faccio con un cenno: ”Salam aleikum”, che è il modo di salutare in arabo, letteralmente significa: ”La pace sia con te”. E’ una di quelle cose alle quali in genere nessun arabo si sottrae, anche il tuo miglior nemico se ti augura la pace tu devi rispondere: ”Walekum salam”, ovvero: “Anche con te sia la pace”. Di solito funziona. Questi invece mi ha guardato imbruttito e non mi ha neanche risposto. Karim da dentro l’auto mi fa: “Stai zitto, lascia stare”...e intanto si mette a ridere perché la scena era troppo comica: io che ingenuo faccio lo sforzo di salutare in arabo e il tipo che manco mi risponde ma con il mitra in mano continua a guardarmi in cagnesco. Mi sono trattenuto a stento, gli stavo per ridere in faccia. Era comica la scena, di una comicità esilarante. Con tutti i terroristi, kamikaze, assassini che si aggirano per Baghdad, noi, i più sconclusionati pacifisti che la città abbia mai ospitato da qualche secolo a questa parte guardati in cagnesco da un gorilla stupido e gonfiato che solo lui sa ad un certo punto cosa abbia visto di sospetto in noi e nella nostra macchina. Vai a pensare quale viaggio mentale si sarà fatto: non ci provo neanche. Vabbeh, il tizio che ci stava parlando al finestrino (il capo) fa cenno che si può proseguire, io lo interrompo in inglese: ”Scusi, io e quest’altro (Karim) più tardi torneremo indietro a piedi perché la macchina che ci verrà a riprendere, un’altra, non questa, la facciamo attendere a questo check-point. Si può tornare a piedi? E’ sicuro?”. “Ma sì, certo, che problema c’è?...”. Vabbeh, ci muoviamo, superiamo di slancio gli altri 3 check-point, arriviamo a casa di Ava, suoniamo, esce, salutiamo Seif, entriamo in casa di Ava, ci accoglie, ci porta nel sua stanza-laboratorio, la intervistiamo, la salutiamo, ci diamo appuntamento a Roma ad agosto (probabilmente passerà da Roma quest’estate e io dovrei essere lì montando il documentario - la villa di Ava era niente male, lei dice costruita da suo nonno nel ’66, i suoi devono essere gente di affari, ma pare pulita, lei kurda e di famiglia da sempre oppositrice di Saddam non ha potuto frequentare l’accademia d’arte: ”Mi hanno detto: sei kurda, non sei iscritta al partito e vuoi entrare in accademia? Scordatelo”. Così è autodidatta). Karim ed io prendiamo quindi a camminare nella notte in direzione del primo check-point dove ci avrebbe atteso Duraid “I-DentiSpaccati-Del-Dinsosauro”. Questo quartiere sembra una zona residenziale di Hollywood, con grandi ville, grandi palme e grandi gorilla (non nel senso di scimmie, ma qualche dubbio a proposito rimane...). Un casino infernale di generatori. Sì, chiamali generatori … Siccome per alimentare simili ville (aria condizionata in tutte le stanze a pieno regime, corrente varia, televisioni, luci, e quant’altro) ci vuole uno sproposito di watt, quando la corrente manca (ed evidentemente succede anche nei quartieri ”in”...) più che un generatore sono dotati di motori che sono in pratica dei reattori per aeroplani, ingabbiati in una struttura di ferro grande come la gabbia di un leone, con un serbatoio di benzina grande quanto una vasca per trote. Sembra di stare su una pista di decollo di un aeroporto con tanti aerei che stanno rullando i motori, o sull’asfalto di un rettilineo di partenza di un granpremio di formula 1 se preferite. Una puzza di benzina tremenda, un frastuono, un calore inenarrabile (perché oltre ai già normali 50 gradi l’aria è ulteriormente riscaldata da queste turbine).... ma tanto ognuno è barricato in casa con i doppi vetri e l’aria condizionata (ed evidentemente qui in Iraq la benzina costa talmente poco che è meglio consumare vasche e vasche di benzina che non pagare la bolletta della luce...). Beh, quindi Karim ed io prendiamo a camminare per questi viali (Karim sperduto nel buio come al solito che brancolava come un formichiere ubriaco): “Di qui Karim...”, “Ma non siamo arrivati per di là?”, “No...”. Primo check-point, secondo... Siamo dunque in mezzo a un viale, buio. Ad un certo punto intravedo 2 ombre avvicinarsi, lì per lì ho avuto una reazione di semplice sorpresa. Ho dato per scontato che fossero 2 agenti della polizia del check-point e quindi ho dato per scontato che tenessero in mano un mitra (mi sembrava di intravedere pure quelli), ma noi eravamo ancora sotto al lampione di un incrocio, quindi ho pensato vedessero bene che eravamo 2 persone normali ed innocue che stavano passeggiando e che quindi si stessero dirigendo verso di noi per affari loro diretti altrove. Invece no!! Quelli erano più spaventati di noi (anzi, noi non lo eravamo per niente, io per i motivi appena citati, Karim perché proprio non li aveva visti avvicinarsi). “Stop!”, e altre frasi in arabo che io non ho capito. A quel punto Karim si blocca (anzi si paralizza) e mi dice: “Alza le mani in alto e getta a terra la borsa”... Senza indugio anzi prontamente appoggio la borsa a terra (con dentro la videocamera) e alzo le mani ben in alto. I 2 tizi si avvicinano urlando sempre di più, mitra puntato. Accorre un terzo che sentite le grida e forse non consapevole della scena sin dall’inizio si precipita e quando è ormai a pochi metri da noi sgancia la sicura al suo mitragliatore (avete presente i film americani dove se non si sente almeno una decina di volte una sicura di arma da fuoco sganciata viene classificato automaticamente nella collana “film della nonna”?). Il rumore è il ”click-click” su cui la narrativa televisiva americana ha tirato su milioni e milioni di ragazzini in tutto il mondo (un rumore così familiare a tutti quanti noi, ma lo abbiamo mai sentito dal vivo? Questa si chiama colonizzazione culturale, ce ne siamo mai accorti? Conosciamo a memoria e familiarmente qualcosa che non fa parte della nostra vita quotidiana: il click-click l’abbiamo probabilmente sentito miliardi di volte alla televisione ma mai dal vivo. Questo è essere colonizzati culturalmente). Gli Americani hanno vinto la guerra in Iraq perché erano già presenti nell’immaginario collettivo dei ragazzini iracheni ormai da generazioni. E quei ragazzini ora sono gorilla tra i 20 e i 30 anni al soldo del miglior offerente (gli Americani). Quel coglione che ha sganciato la sicura al suo mitragliatore venendo verso di noi, 2 poveri pacifisti sconclusionati persi nella notte, quel rumore (click-click) per la prima volta l’avrà sentito da ragazzino in un telefilm americano (sicuro!). C’è una scritta su un muro a Baghdad: “Grazie America: adesso anche i figli di Allah sono diventati dei cops”. Chiaro? Chiaro???? La sintesi è perfetta. Il significato di quella scritta sul muro noi l’abbiamo vissuta a distanza ravvicinata e non è stata una bella esperienza. La volgarità della sottocultura proliferante alla periferia dell’impero vomitata su di noi da un imbecille. Ecco quello che è stato quel “click-click”. Ero più offeso da quel click-click che spaventato. E se comunque ero spaventato, la cosa che mi faceva più paura era l’imbecillità di quel gorilla. Morire per uno sparo? Va bene. Mentre sto andando a Falluja, colpito da un proiettile vagante. Va bene, ci sta. Ma da una smitragliata di un imbecille che si sta vivendo il suo personalissimo film da robocop, madonna che paura! Non avevo paura di morire, ma di morire in maniera così stupida. Eccheccazzo, si muore una volta sola! Cos’altro? Avevamo già le mani alzate, cosa potevamo temere? Non avevamo cattive intenzioni, eravamo disarmati, innocui con le mani in alto. Ma bastava un niente in quei lunghissimi istanti. Non so, uno scoiattolo sonnambulo che fosse cascato in testa proprio a quel gorilla e “tra-tra”. Erano spaventati, forse sì, all’inizio. Ma poi ci hanno visti, dai... Ma avete presente Karim ed io? Ma dai... Allora in loro dopo lo spavento è subentrata la spavalderia, forse il “clickclick” è arrivato quando nella testa di quel gorilla si era proprio nella fase di passaggio, dallo spavento alla spavalderia (cazzo, quante cose sono successe in quella testa in una frazione di secondo: troppe per un cervello così piccolo...). Allora si è messo come a danzare intorno a noi, con il mitra in mano. Ormai sicuro di aver immobilizzato e reso inoffensivo l’avversario tramutava l’adrenalina in eccesso per lo spavento in euforia e spavalderia. E si pavoneggiava. “Allontanatevi dalle borse...”... Cazzo! Avete presente la borsetta da intellettuale di Karim? Una borsettina che non ci sta nemmeno una pistola smontata messa per lungo! E la mia? Una specie di borsa sportiva da partita “scapoli contro ammogliati” di una marca contraffatta, che già con una videocamera dentro a mala pena sta insieme (un giorno o l’altro per il peso si sfonderà, l’ho presa così proprio per non dare nell’occhio). ”Sedetevi, allontanatevi, non parlate tra di voi, non fate questo, non fate quello”: ostentazione del potere. Fare o ordinare una cosa non perché serva, ma perché comunica un sottotesto: io ti sono superiore perché ho un’arma in mano. E allora il mio film invece si intitola: “tu sei un imbecille con o senza arma in mano“. Una scena paradossale. Come se non bastasse, ho scoperto che nelle situazioni di pericolo, a Karim scatta un meccanismo di autodifesa per cui comincia a ridere. Che scena! Il gorilla chiede il passaporto a Karim: nazionalità algerina (gli Algerini, dai gruppi islamici armati degli anni ‘90 in poi, vengono considerati dei sospetti terroristi in particolare tra gli arabi che pensano di conoscerli bene...), il tipo già si gongola pensando di aver sgominato un tentativo di attentato a qualche ministro o presidente di partito... Karim stava già per ridere. Poi prende la borsetta da intellettuale di Karim e comincia a controllarla... Cosa c’era dentro? Dvd pirata comprati al mercatino nel pomeriggio con immagini della resistenza di Falluja, di Moqtada al Sadr, di Saddam e delle torture degli Americani. E il tipo che più tirava fuori dvd più faceva uno sguardo come dire: “Ah però...”. Karim era come una mongolfiera, stava scoppiando dal ridere eppure si tratteneva. Io uguale... Alla fine arrivano 2, 3 pattuglie. Scende un tipo in borghese sulla trentina abbondante che parla un inglese sciolto, gentile ma fermo. Interroga prima Karim, poi me. In disparte, interrogatorio incrociato. Io sono stato il secondo, da panico. “Mi dica, avete relazioni con un ministro?”...oddio, e che avrà detto Karim? “Mah, diciamo che conosciamo una persona che conosce un ministro e che quindi abbiamo avuto l’occasione di incontrarlo...”. “E’ vero che lei sta facendo un documentario?”, oddio adesso mi sequestra la camera con le videocassette....: “Mah, più che un docuementario, ho giusto con me una videocamera e perciò ogni tanto faccio delle riprese in un centro per bambini...”. Risposte esatte, pare, ma il tipo non convinto mi dice: “Dunque voi eravate a trovare un’amica. Saprebbe tornare alla casa di questa amica?”...qual è la risposta esatta? E se poi si ritorcono contro Ava? “S..s..s..sì”... “Bene, allora salga sul fuoristrada e ci porti da lei”... Sono in 4, uno guida, a fianco davanti sta questo in borghese, dietro io in mezzo a 2 gorilla della polizia irachena con il mitra fuori dal finestrino. “E se proprio stasera a qualcuno della resistenza gli gira di lanciare un assalto contro la polizia irachena? Io che c’entro?”. Mi sentivo bersaglio, non so come mai, avevo questa strana sensazione. Ho pensato che se fossi caduto proprio in quella circostanza Vespa si sarebbe fatto le pippe dalla felicità pensando di aver trovato l’anello mancante tra la resistenza irachena e l’eversione anarchica italiana. Arriviamo alla casa di Ava, la chiamano, si avvicina al fuoristrada, guarda dentro, mi saluta stranita, la salutano. Si riparte, torniamo al checkpoint. Fermi, ce n’è un’altra, non è finita. Noi avevamo appuntamento con Duraid “I-Denti-Spaccati-Del-Dinosauro” che sarebbe dovuto venirci a prendere al primo check-point. Ormai era passata un mezz’ora. “Senta, c’era una macchina che ci aspettava al primo check-point, adesso chissà se ancora ci aspetta... Come torniamo a casa?”... chiedo mentre mi stanno riportando al check-point: “Tranquillo, lo sappiamo, è lì che vi aspetta”...ah, bene. Ma non era Duraid (che infatti si era perso, o forse visto il tipo di quartiere aveva fatto finta di perdersi e girata la macchina se n’era tornato indietro), era Seif che era stato bloccato anche lui con l’autista mentre stava tornandosene a casa dopo averci lasciato!!!! Ci stava aspettando al primo check-point da quasi 3 ore!!!!! Il tempo di portarci da Ava e al primo check-point avevano fatto il cambio della guardia, perciò quando è tornato non sapevano chi fosse. Lui gli ha raccontato di aver accompagnato degli amici a casa di una persona e questi gli hanno risposto: “Va bene, allora aspettiamo insieme che i tuoi amici ritornino (?!?!?!)”. Questa volta la frase che per scherzo Seif mi ripete me la sono meritata: “Kullu min ek!”, ossia ”Tutta colpa tua!”. Eppure alla fine è finita a tarallucci e vino, il poliziotto in borghese, Seif, l’autista, Karim ed io. “Ci scusi per il disturbo, noi siamo qui per garantire la sicurezza anche a voi occidentali che ci state aiutando a ricostruire questo Paese. La prego di scusarci, lei è sempre il benvenuto qui in Iraq...”, mi ripeteva il poliziotto in borghese. Tutto è bene quel che finisce bene.... Più tardi a casa ci ha chiamati Ava, per assicurarsi che tutto fosse andato bene, ci ha detto che il punto dove ci hanno fermati era proprio davanti alla casa di Pachachi, uno che fino a qualche mese fa era candidato al ruolo occupato attualmente da Allawi (che abita solo poco più in là), ossia primo ministro del governo provvisorio. Karim è già rientrato dall’UNICEF, nel frattempo è passato Raed, sì, l’amico di Salam Pax (avete comprato il libro???). Dice che ha perso i contatti con Salam. Domani ripassa di qua per le 16 e proviamo a lavorare a una sceneggiatura. E’ stato molto gentile. Io sono stanco (Karim è di là che dorme, sono le 18). Mi fermo qui. Ora mi preparo un bel narghilé e mi sdraio sul divano. Un po’ di tranquillità... “Allah abu el kher”, dio è padre del bene, dicono in Iraq quando stai per goderti una cosa.... Domani sera si riparte per l’Italia (decollo alle 3 del mattino, ve l’ho detto che l’aeroporto di Amman funziona solo di notte!!), alle 9 sono alla Malpensa. Un abbraccio, a prestissimo...