diario d`iraq

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diario d`iraq
Dia!o d'Iraq
di
Michelangelo Severgnini
giorno 1 – Una fornace chiamata Baghdad
“Welcome to Baghdad”, il pilota giovane e biondo con la fronte arrossata apre
la sportello dell’aeroplanino e si fa scivolare la corda dalle mani per calare la
scaletta. E’ stata una scena a suo modo onirica. Dopo aver sorvolato per 2 ore
il deserto e aver sognato di atterrare tra le dune per una qualsiasi avaria in
cerca del mio piccolo principe, della mia volpe del deserto, della mia rosa. Ma
sceso dalla scaletta c’era l’asfalto della pista dell’aeroporto di Baghdad e
soldati all’orizzonte e mitra spianati. Eccola finalmente Baghdad, avamposto
odierno della “pax americana”, come Roma a suo tempo, come Saigon, come
Beirut, come Pristina. Il volo, l’ho già detto, è stato onirico (e non solo perché
la notte prima non ho chiuso occhio e quindi ogni tanto sonnecchiavo).
Decollati dal vecchio aeroporto di Amman, più piccolo, quasi in centro città,
con l’unica pista affiancata da case, è stato tutto deserto fino all’Eufrate,
un’arteria verde tra la distesa di giallo, una vena ingrossata sul braccio del
carovaniere. E poi la terra che di sotto cambia colore e si tinge di ogni
sfumatura di verde fino al Tigri, più piccolo, con i colori dei due fiumi: la
mezzaluna fertile, si dice, no?
L’atterraggio è stato quello che mi avevano raccontato. Dal momento che per
un piccolo aeroplanino perdere quota lentamente e da lontano
significherebbe diventare facile preda della contraerea della resistenza
irachena, allora il pilota si porta proprio sopra la pista e poi si avvita su se
stesso e comincia a perdere quota con la punta rivolta verso il basso. La forza
centrifuga è impressionante al punto che sollevare una mano dal sedile
sembra come sollevare un’incudine. Appena scesi dalla scaletta manca il fiato
per quanto calda è l’aria. Sull’aereo (più piccolo di un autobus, un sedile per
parte e in mezzo un piccolo corridoio) la temperatura era molto bassa, forse
neanche 15 gradi. A Baghdad oggi ce ne sono 51! Mi sono permesso una
battuta. Sono salito sull’aereo ad Amman con i capelli ancora un po’ umidi
della doccia mattutina e perciò mi si sono congelati durante il volo col rischio
di prendermi un raffreddore! Sceso dalla scaletta ci hanno fatto attendere 5
minuti a fianco dell’aereo. Tirava un vento secco e bollente: quello che ci
voleva per asciugarsi i capelli!Dopo 5 minuti ho esclamato a Karim: “Va bene
grazie, ora potete spegnere il phon...”. Davvero. Provate a puntarvi un phon
caldo in faccia alla distanza di 50 centimetri e dopo 15 minuti avrete la stessa
sensazione che si prova a Baghdad oggi (ma i prossimi giorni sarà uguale) per
la strada.
L’aeroporto era deserto, solo alcuni manovali, pochi funzionari, e i soldati
Nepalesi con il mitra spianato. “Where are you going?”, “Sorry?”, di nuovo lui
intesito: “Why are you standing here? Go, move on!”. “I’m waiting for my
friend, look, over there!”. Karim era ancora alle prese con la dogana ma al
militare stavano già saltando i nervi. I soldati Nepalesi sono dell’esercito? Da
verificare. Non avevano nessun distintivo nepalese, sembravano polizia
privata. D’altronde dice Karim che è pieno di agenzie private di paramilitari
(mercenari, si può dire?) di nazionalità nepalese, colombiana e filippina, tutte
nazioni dove l’intervento della CIA nell’addestramento di una guerriglia locale
controrivoluzionaria è stato determinante per contrastare la presenza di
gruppi armati di ispirazione marxista. E questa è la ricompensa: una fettina di
torta irachena...
Ci siamo avviati verso la fermata dell’autobus che conduce i rarissimi
passeggeri oltre i confini militari dell’aeroporto. I tabelloni delle partenze e
degli arrivi sono come pietrificati, sotto incantesimo. E’ così da 13 anni, ossia
dall’inizio dell’embargo. Ci sono ancora le provenienze e le destinazioni con il
numero di volo, la compagnia e l’orario dell’ultimo giorno prima dell’inizio
dell’embargo: Helsinki, Colombo, Dubai, Milan... Una sensazione spettrale.
Tutto intorno all’aeroporto i check-point dei soldati americani e intere
spianate di filo spinato e sacchi di sabbia. Ai confini militari dell’aeroporto ci
attendeva in macchina Thair (che in arabo significa “ribelle”, al contrario mi è
parsa una persona oltremodo mite), un operatore iracheno di Terre des
hommes.
La strada mi è parsa tranquilla, superato l’aeroporto non abbiamo incontrato
più nessun militare, ma il tragitto è stato breve, 10 minuti scarsi. La nuova
casa, nel quartiere di Al Mansur, pare altrettanto tranquilla. Una villetta su 2
piani con un piccolo giardino davanti. La casa è ampia, al piano terra un
grosso salone utilizzato come ufficio, cucina, 2 bagni e altre 2 stanze sempre
uffici. Al piano superiore, 2 stanze da letto, bagno, un piccolo salone per ora
deserto e una piccola terrazza. Sopra ancora un’altra terrazza. Le case irachene
(per quanto questa abbia l’aria di essere ben messa) hanno alcuni aspetti
stravaganti. Innanzi tutto nei muri ci sono dei vuoti dove vengono
posizionati i condizionatori d’aria (uno per stanza, ma nel salone ce n’è uno
per parete, d’inverno servono per riscaldare). Senza di questi si vedrebbe
fuori, quindi si dà per scontato che tutti ne facciano uso. Stanno a 2 metri
d’altezza, rinfrescano l’aria quando sono accesi e scaricano all’esterno quella
calda. Ad ogni soffitto ci sono dei ganci (già in dotazione) dove a piacere si
montano delle eliche sempre per rinfrescare. Il consumo di corrente specie
d’estate è altissimo. Tant’è che ogni 4-5 ore la corrente viene tolta e ritorna
dopo 3 ore circa (per esempio in questo momento siamo senza da ormai 30
minuti e purtroppo l’effetto dell’aria condizionata sta svanendo e stiamo
soffocando). Questo per razionare l’energia elettrica.
Ma a questo punto arriva il bello: innanzi tutto le case degli Iracheni sono
dotate di accumulatori, perciò ogni apparecchio prima di entrare nella presa a
muro passa per una “ciabatta-accumulatore”, così quando sparisce la corrente
gli apparecchi hanno ancora un’autonomia di 10-15 minuti. Giusto il tempo
per precipitarsi ad avviare i generatori a benzina (rumorosissimi, ma non è
che 5-6 apparecchi per l’aria condizionata per casa facciano tanto meno
rumore...), tanto qui costa pochissimo. Purtroppo noi oggi non abbiamo un
generatore, perciò per le prossime 2 ore e mezza boccheggeremo. Infatti mi sa
che per il momento vi saluto, perché anche il portatile su cui sto scrivendo
emana da par suo quel tanto di calore in più che sta contribuendo a far
svanire l’effetto aria condizionata.... Che vi avevo detto? Qui è come stare
sulla graticola: provare per credere...
Aahh, dopo una cenetta al ristorante per 3 dollari mi trovo ora sotto un getto
potente di aria condizionata nel salone al piano terra della nostra casetta (è
tornata la corrente!!). Ma quest’oggi abbiamo penato. Ci siamo ritrovati
Karim ed io distesi sul pavimento della stanza più riparata della casa, cercando
di scampare al caldo. E’ davvero una cosa che non si può descrivere. Per
esempio: qui in Iraq ci sono le maniglie dell’acqua come da noi, quella rossa se
calda, quella blu se fredda. Generalmente funzionano in maniera tradizionale
ma d’estate s’invertono. Se vuoi l’acqua fredda (si fa per dire) devi girare
quella rossa, se la vuoi bollente quella blu. Infatti in Iraq (come anche ad
Amman), per via che la pressione dell’acqua è bassissima e non arriverebbe ai
piani superiori, si carica con delle turbine fino in cisterne poste sul terrazzo, in
modo che quando si apre il rubinetto l’acqua praticamente scende nei tubi
dall’alto per effetto della forza di gravità. Ogni tanto passa un camion
dell’acqua e ricarica le cisterne. Perciò, immaginate quelle cisterne con questo
caldo esposte tutto il giorno al sole battente a che temperatura sono. L’acqua
cosiddetta calda invece sta in una specie di boiler, quindi all’interno della casa,
che chiaramente d’estate è spento, quindi riparata dal sole e perciò
leggermente più fresca. Robe da matti.
Nel tardo pomeriggio è venuto a trovarci il custode della casa, un ragazzo
simpaticissimo di etnia assira, una minoranza originaria del nord dell’Iraq ma
diffusa qui a Baghdad (sono circa l’8% dell’intera popolazione irachena).
Parlano la loro lingua, l’assiro (sì, sono i discendenti di Nabucodonosor), e
sono cristiani, ma secondo una confessione tutta loro che non è quella
cattolica. Il suo nome è Duraid, che in lingua assira vuol dire “i denti spaccati
del dinosauro”. Cioè, uno con un nome così non poteva che essere un comico
fatto e finito, come di fatti è. Peccato che oltre all’assiro parli solo arabo, e
sono sempre costretto a farmi tradurre quello che dice da Karim.
Questa sera quindi siamo usciti e ci siamo fatti una vasca per Al Mansur, la via
che dà il nome al quartiere, una delle principali della città. La prova è stata
superata brillantemente. Gli accorgimenti adottati per mimetizzarmi tra la
folla sembrano funzionare: pantaloni lunghi, camicia a quadri e sandali di
fabbricazione turca. Mi aveva colpito una cosa che Karim mi raccontò in Italia
a maggio, rientrato per un paio di settimane: “Non è solo come ti vesti o
come sei fatto, gli Iracheni ti riconoscono per come cammini...”. Béh, con
questi sandali turchi sono a posto: sono talmente scomodi che mi costringono
a camminare in una maniera del tutto innaturale, la mia camminata è
irriconoscibile, la mimesi è perfetta.
Sarà per via delle scarpe scomode che gli Iracheni camminano in maniera
diversa dalla nostra? In ogni caso, se qualcuno mi chiede chi sono, io mi
chiamo Miguel. Per il resto ho imparato a salutare in arabo quasi perfetto.
Anzi, ormai posso dire di saper leggere l’arabo, a furia di stressare Karim a
correggermi mentre leggo le insegne per strada. Certo, mi mancano le vocali
brevi, ma ogni tanto azzecco pure quelle. Perché dovete sapere che come in
quasi tutte le lingue di ceppo semitico, la scrittura si basa sulle consonanti e
sulle vocali lunghe. Le vocali brevi generalmente non si scrivono, si
sottintendono. Per esempio per i bambini delle elementari che ancora non
hanno vocabolario, si usano dei segni che indicano dove vanno collocate le
vocali brevi e quali sono. Ma se gli stessi segni fossero usati anche da un
grande, gli darebbero dell’infantile.
Provate a scrivere una frase in italiano, poi togliete tutte le vocali tranne
quelle accentate, poi fatela leggere ad un altra persona e vediamo se questa
riesce a capire cosa c’è scritto. Esempio: “Gl rchen son un popl mrvglios, pccat
ch q facc csì cald...”. Provate a leggere questa frase cercando di posizionare le
vocali che mancano. Per uno che parla perfettamente l’italiano è un gioco da
ragazzi, ma per uno che sa solo salutare e ringraziare sarà quasi impossibile.
La difficoltà di leggere l’arabo per uno che non lo parla sta tutta lì.... Oggi era
venerdì, per cui giorno di festa nel mondo arabo. Domani ci si butta a
capofitto nel lavoro. Un abbraccio, a presto...e non lamentatevi del caldo
italiano...
giorno 2 - La madonna sciita
Primo giorno di lavoro a Baghdad: contatto! Comincio a scrivere questa
puntata ma purtroppo qui nella casa nuova nel quartiere Al Mansur il server è
debolissimo e forse non riusciremo nemmeno mai a connetterci. Presso il
centro per bambini di Terre des hommes nel quartiere di Bataween il
collegamento internet non c’è. Oggi non abbiamo avuto tempo di fermarci
presso nessun internet point.
Domattina passando presso la sede di Intersos o di Un Ponte per, che sono
nella stessa casa, proverò a farmi prestare un pc per spedire e controllare la
posta. In ogni caso nessuno di voi mi ha chiamato, quindi vedo che comunque
non vi state preoccupando per me. E fate bene. Così domani vi sorbirete
queste 2 puntate una dietro l’altra. Alla fine Karim ed io abbiamo deciso di
dormire nella stanza dove abbiamo fatto pennica ieri pomeriggio.Sarebbe
l’ufficio di Karim. Però è il posto più riparato della casa. Abbiamo acceso aria
condizionata ed elica. Sembrava di stare in un sottomarino, c’era un casino
pazzesco e la temperatura man mano scendeva. A metà della notte ho avuto i
brividi dal freddo e mi son coperto. Poi è andata via la corrente e verso le 8
quando mi sono alzato ero in un bagno di sudore (nel frattempo mi ero
riscoperto e risvestito).
Tempo 1 ora e la casa si è popolata di operatori. La stanza da letto, rimossi i
materassi, si è ritrasformata nell’ufficio di Karim. Verso le 10 siamo usciti in
macchina con l’autista e un traduttore per recarci al centro per bambini.
Siamo passati davanti a zone nevralgiche della città (centrale della polizia,
aeroporto vecchio), imbottigliati in un traffico asfissiante. Abbiamo lambito la
zona verde (soldati americani sulle torrette con mitra spianato...) e, visto che
il traffico era proprio bloccato, siamo scesi a piedi lasciando l’autista alla sua
aria condizionata e abbiamo attraversato il ponte sul Tigri a piedi.
Stranamente (così mi dicono) il cielo era coperto e il fiume era ammantato da
una specie di nebbiolina, pareva quasi il Tamigi (se non fosse stato per quei
20-25 gradi di differenza).
Siamo quindi giunti al centro. I bambini stavano facendo lezione nelle aule:
musica, ceramica, computer e arabo (questa la lezione per me più
interessante: stavano facendo esercizi di scrittura dell‘alfabeto, uno di questi
giorni mi infilo in un banco - se ci entro - e seguo la lezione). Verso le 12 le
lezioni sono finite e alcuni bambini si sono avvicinati curiosi, ma
comunicavamo solo con grandi occhioni e risatine. Una bambina ha chiesto:
“Ma è curdo?”... incoraggiante.
Poi, ripresa la macchina siamo stati alla sede di Un ponte per e Intersos.
Abbiamo strappato qualche contatto interessante, domattina andiamo alla
biblioteca nazionale saccheggiata e dovremmo intervistare il direttore.
Giovedì prossimo dovremmo andare a Taji, ad un passo da Falluja, ma avrò
modo di spiegarvi. Oggi pomeriggio prima intervista: Ishlemon Warduni,
vescovo ausiliario della chiesa caldea qui in Iraq. Parlava italiano, ben inteso,
sono legati alla chiesa romana. Ci ha mostrato il centro, la chiesa, i bambini
che facevano catechismo e poi ci ha concesso un’intervista. Io ho insistito
perché si tenesse in arabo (anche se la loro lingua madre è l’assiro) e così è
stato. L’italiano faceva troppo sudditanza pontificia. Anche se non capivo ad
un certo punto del discorso ha alzato gli occhi al cielo e ha detto: “...Allah...”.
Certo, dio in arabo si dice così. Credo che quel passaggio sottotitolato farà
colpo.
Ma la cosa più meravigliosa della giornata è stata una scena avvenuta appena
entrati nella parrocchia (diciamo così). Un gruppo di 5-6 donne sciite, vestite
di nero da capo a piedi, bussare, farsi aprire e recarsi presso la statua della
Madonna in cortile a portare fiori e a pregare. Gesù Cristo e la Madonna sono
venerati dall’Islam, il primo come profeta, la seconda come donna santa
madre del profeta Gesù che viene diciamo subito dopo Maometto.
Al contrario, come disse durante un concerto Fabrizio De André, i cristiani
considerano Maometto poco più che un ciarlatano...Il punto di maggior
rottura tra Islam e Cristianesimo è proprio intorno alla figura di Gesù Cristo,
che per l’Islam non può essere dio, in quanto persona fisica. Ne apprezzano
tutta la portata spirituale, ma rimane un grande uomo, un profeta, non dio.
Dio è qualcos’altro. Se fosse solo questo il problema, non darei così torto
all’Islam.
Sempre De André scrive in una canzone dal titolo “Si chiamava Gesù”: “Ma
inumano è pur sempre l’amore di chi rantola senza rancore...”. E sempre nel
concerto citato disse: “Dio è qualcosa che se non ci fosse bisognerebbe
inventarla... E infatti è proprio quello che hanno fatto gli uomini...”.Questa
sera è saltata la corrente, perciò abbiamo dovuto accendere il generatore a
motore e abbiamo solo le pale delle eliche che girano ma senza aria
condizionata. Anzi, non sono solo le pale che girano, anche qualcos’altro... Un
abbraccio, a presto...
giorno 3 – Lo sceicco e la spada
Ragazzi, siamo partiti come i razzi. In 2 giorni tra cose fatte e cose messe in
conto se non addirittura già fissate abbiamo gettato le basi per quello in cui
forse ormai nemmeno speravamo. Stamattina non siamo andati alla
biblioteca nazionale, mi pare che avevo capito male io (sai, in arabo ancora mi
sfugge qualcosa..., scherzo, sono io che sono bollito). Alla biblioteca nazionale
ci andremo tra 2 giorni. Dicevo, stamattina abbiamo incontrato e intervistato
sheik Anwar. Dunque, avevo già accennato alcuni giorni fa alla faccenda.
“Sceicco” è una denominazione che non corrisponde a nulla in particolare,
denota solo rispetto e conferisce autorevolezza alla persona cui viene
preposta questa parola. E’ un po’ come il “don” in spagnolo. Nella fattispecie,
Anwar, è un giovane “diacono”, potremmo dire, della gerarchia ecclesiastica
sciita d’Iraq. Attualmente si trova al terz’ultimo stadio, dove il gradino più in
alto è rappresentato dall’ayatollah, che qui in Iraq è Al Sistani, poi ce n’è uno
più sotto, al quale per esempio si trova Moqtada Al Sadr, e poi ancora uno più
sotto dove per esempio sta sheik Anwar. E’ giovanissimo, ha solo 26 anni, ma
parla con una saggezza ammirabile. E poi è cordiale, finanche affettuoso e
soprattutto carismatico.
L’intervista pare sia venuta benissimo (purtroppo Karim mi traduce solo i
passaggi salienti per ora, anche se le domande le prepariamo prima insieme),
salvo forse non aver puntualizzato un punto, con nostro rammarico. Per
esempio, quest’oggi dei gruppi di sciiti pare abbiano incendiato 5 locali qui a
Baghdad che vendevano alcool (noi siamo passati davanti ad uno di questi in
macchina, i pompieri stavano giusto per andarsene a lavoro terminato). La
radio questa sera diceva che sono stati arrestati alcuni sciiti in città accusati di
aver partecipato ai roghi.
Purtroppo questo poteva essere lo spunto (ma al momento dell’intervista,
verso le 12, non eravamo in possesso di queste informazioni) per chiedere
quale fosse l’Iraq che gli sciiti vorrebbero. Pare non si sia puntualizzato a
sufficienza questo punto. E’ però vero che per quanto autorevole benché
giovane, sheik Anwar è quello che si potrebbe definire un moderato, forse
perché nell’interpretare il suo ruolo ci mette quella tolleranza e quell’apertura
di vedute di un giovane contemporaneo che guarda al mondo. Questa è la sua
bellezza. Ma forse, proprio per questo, la domanda sarebbe stato bello farla
diretta. Nessun problema, lo rivediamo domattina. Infatti ci ha invitati a
partecipare ad un sit-in di sciiti davanti al Ministero dell’Istruzione.Pare infatti
che per rappresaglia politica le promozioni scolastiche avvenute in alcuni
quartieri sciiti della città, tra cui Sadr City, siano state annullate. Questo è il
motivo della protesta. Ci ha promesso la massima sicurezza, anche Karim pare
convinto. Io lo sono.
A proposito. In questi 2 giorni ho avuto modo di vedere un bel po’ di palazzi
distrutti che ospitavano i rispettivi ministeri. Sapete qual è l’unico palazzo
ministeriale rimasto tale e quale? Indovinate... quello del Ministero del
Petrolio.... Quest’oggi abbiamo trovato davvero un sacco di posti di blocco
della polizia irachena lungo le strade della città, almeno 6-7. Sarà stato per i
disordini di cui dicevo, in ogni caso serve loro per far vedere che controllano il
territorio. Inoltre, questa sera, mentre passeggiavamo per un mercatino (mi
sono comprato un’altra camicia ed un altro paio di pantaloni sempre
“mimetici”, non nel senso militare, ma nel senso che servono per mimetizzarsi
con gli Iracheni), abbiamo incontrato dei pupazzi anche loro in mimetica,
quella vera però. Una pattuglia di 5-6 soldati americani che passava per il
mercatino con il mitra in mano mentre un mezzo corazzato li seguiva sulla
strada. Che pagliacci, a che serve? A terrorizzare la gente (che per inciso
ormai quasi non ci fa più caso), oppure a farla saltare per aria perché se
qualcuno s’incazza per davvero e decide di colpirli in mezzo ad un mercato
diventa un bagno di sangue, civili compresi.
Ero pieno di rabbia, gli stavo per dire qualcosa, ma mi son trattenuto, non
sono qui per dargli la possibilità di piantarmi grane. “Show must go home”, la
vostra pagliacciata deve tornarsene a casa, questo è ciò che gli avrei voluto
dire. Ora è il momento di parlare un po’ di personaggi. Innanzi tutto i 2
operatori che in genere accompagnano me e Karim. Il primo si chiama Raed, è
anche lui un assiro cristiano e parla italiano (è stato 2 anni a Firenze). Raed
significa “il coraggioso” ed è uno degli aggettivi che si attribuiscono ad Allah
(ora voi chiederete: “ma se è cristiamo come mai gli hanno messo per nome
uno degli attributi di Allah?” E che ne so: usanza irachena...).
Tra l’altro anche Karim è un aggettivo attribuito ad Allah: significa “il
generoso”, ed è quanto mai azzeccato.L’altro è il nostro autista personale e si
chiama Wamidh, che tradotto significa “lampo”. Allora spiegatemi: con un
autista che si chiama Lampo, un accompagnatore che si chiama Coraggioso e
un amico che si chiama Generoso, di cosa dovrei avere paura? Ma la palma
d’oro al miglior personaggio della giornata va assegnata senz’altro a Seif (che
in arabo significa “spada”, la spada di Allah...). E’ un tunisino che vive a
Baghdad da qualcosa come una ventina d’anni. Lui e Karim sono diventati
molto amici in questi mesi e io che di arabo so molto poco, però mi sono
accorto che tra di loro non parlano l’arabo iracheno ma quello del Maghreb,
quello parlato in Tunisia, Algeria e Marocco (per quanto anche lì tra di loro ci
siano differenze). Karim dice che comunque, anche dopo 20 anni il suo
accento tunisino è rimasto forte. Bèh, comunque...Questo Seif è davvero un
personaggio. Gli Iracheni sono gente simpatica, molto ospitale. Ma incontrare
Seif è come entrare in un altro mondo. Ha il tipico calore mediterraneo. Un
napoletano, avete presente? Ecco. E’ imprevedibile, comico, sagace, astuto,
caloroso. Ha 2 lauree, una della quali in Psicologia e starebbe per prenderne
una terza. E’ più o meno coetaneo di Karim. E’ venuto qui a Baghdad per
studiare all’università e da allora non si è più mosso.
Moltissimi giovani dai Paesi arabi venivano a Baghdad a studiare all’università
perché l’istruzione era praticamente gratuita. Non abbiamo avuto modo di
entrare in argomento quest’oggi (io e lui parliamo in francese), ma Karim mi
ha raccontato che per Seif, Saddam è stata una figura importante e ne porta
ancora rispetto. Ci sono tante contraddizioni in ballo, come per esempio il
fatto che Karim ne sia così amico (ma anche Isham, l’algerino di Amman,
nutriva della stima per Saddam, ricordate?). Ora lui lavora per una ONG
locale che lavora con i bambini di strada.
Martedì sera ci incontriamo, poi ci porterà a conoscere la sua attività,
pensiamo di intervistarlo perché ha un punto di vista interessante, e poi è una
macchietta. L’ultimo personaggio della giornata è Raed, un altro, quello del
libro di Salam Pax, “Baghdad blog”, quello che vi avevo consigliato (per chi
l’avesse comprato e avesse già cominciato a leggerlo). Per gli altri ora vi
spiego. Il titolo del blog in originale era “Where is Raed?”. Raed era ed è il
migliore amico di Salam Pax. Raed è un ragazzo giordano di Amman
(dovremmo essere circa coetanei) che ha studiato anche lui qui a Baghdad
all’università e da allora è rimasto sempre in contatto con Salam tant’è che
sotto i bombardamenti è venuto qui per trovare Salam (ecco il motivo del
titolo del blog). Bene, avevo trovato la sua mail in internet (anche Raed tiene
un blog) e gli ho scritto. Mi ha risposto ben 3 giorni fa, ma ho potuto scaricare
la posta solo oggi. Mi ha detto che è ad Amman e mi ha lasciato il suo
numero. Domani lo chiamiamo. Poi gli ho già dato un appuntamento ad
Amman per il 22, speriamo sia disponibile. Ci tengo tanto a conoscerlo perché
dal blog emerge essere una persona straordinaria, che si è girato l’Iraq nelle
settimane appena successive alla guerra per organizzare la prima assistenza
per le persone colpite attraverso una piccola associazione che lui stesso ha
aiutato a fondare (e poi vai a dire che gli arabi sono attendisti). Inoltre voglio
chiedergli notizie di Salam, perché l’indirizzo mail trovato su internet pare
non sia più attivo.
Rientrati a casa questa sera poi ne abbiamo scoperte delle altre (l’Iraq è un
Paese assurdo, se ne scopre sempre una nuova...). Innanzi tutto siamo ancora
senza pentole dopo 2 giorni e mezzo che siamo qui. Avevamo fame. Ho
cominciato a far bollire delle uova nella teiera (l’unico pezzo che abbiamo
trovato in fondo ad una credenza). Poi ho pensato: ma perché non cucinarci
anche una pasta, tanto che ci sono (anche quella trovata in fondo alla
credenza).
Alla fine ci siamo mangiati pasta Al Ghazal (prodotta ad Amman) e uova
sode. E sapete come ho scolato la pasta (lo scolapasta ovviamente non c’è)?
Versando l’acqua dal becco della teiera. Ve lo consiglio, è comodissimo ed
efficace.La pasta, d’ora in avanti, si fa nella teiera!! Ma la sorpresa sapete qual
è stata? Le uova irachene hanno il tuorlo bianco. Ce l’ha confermato Duraid IDenti-Spaccati-Del-Dinosauro, che dorme con noi la notte per sicurezza, non
erano le nostre venute male... Un abbraccio, allora, e a presto...
giorno 4 – Le vie del documentario e la resistenza alcoolica
Giornata davvero molto strana. Ricca di cose positive, alcune negative.
Risultato: sono nella confusione quasi totale. Stamattina ci siamo alzati
presto per la protesta sciita davanti al ministero dell’istruzione.
L’appuntamento però era alle 9 davanti al provveditorato di uno dei quartieri
sciiti di Baghdad. Ci siamo arrivati puntuali, abbiamo incontrato sheik Anwar
che ci ha presentato alcuni giovani studenti e ci ha invitato ad intervistarli.
Siamo entrati nel provveditorato (in realtà in quel posto vi stavano anche le
loro aule), erano loro stessi ad organizzare la perquisizione di tutti coloro che
vi entrassero (precauzioni minime in Iraq), li abbiamo messi in gruppo e chi
uno chi l’altro intervenivano. Sarà durata 5 minuti la ripresa.
Poi è arrivato un tizio, si è messo a protestare. Non ho capito alla fine cosa
volesse, probabilmente non ci vedeva di buon occhio. Non ho capito bene
nemmeno chi fosse. Sta di fatto che i ragazzi si sono disciolti. A quel punto il
corteo si doveva muovere verso il ministero, ma che succede?Nessuno degli
operatori che di giorno lavorano negli uffici nella casa dove viviamo aveva le
chiavi (di solito quando loro arrivano noi ci siamo ancora).Quindi siamo
dovuti rientrare a casa per le chiavi (!!??!?). Una specie di buco nell’acqua.
Verso le 11 decidiamo di andare a trovare i vicini di casa di Movimondo
(un’altra ONG italiana, la loro casa dista circa 200 metri dalla nostra!!). Lì
abbiamo trovato Rabye, che per oggi si è aggiudicata certamente la palma di
personaggio del giorno. Rabye è una donna di poco più di 40 anni, ha vissuto
circa 25 anni all’estero in esilio di cui quasi 20 in Italia, a Roma (parla un
ottimo italiano). Il marito iracheno è rimasto a Roma, ma da quasi un anno lei
ha deciso di ritornare da sola a vivere in Iraq e lavorare per il suo Paese
(lavora per Movimondo, appunto). Ha un passato di militante comunista qui
in Iraq e per questo è partita per l’esilio, per non far la fine delle altre migliaia
di oppositori di Saddam calati nell’acido (non di acido, ho detto nell’acido...)
oppure tritati ancora vivi come carne da macello. Si parla dei desaparecidos
argentini e cileni, ma pochi cosiddetti compagni ho sentito parlare dei
desaparecidos iracheni, eppure erano comunisti anche loro, in compagnia
degli sciiti, certo. Rabye è una donna molto simpatica e generosa, ci ha
proposto subito un sacco di contatti (domattina torniamo da lei per
un’intervista).
In un paio d’ore sono arrivati 4 ragazzi da lei invitati perché ci parlassimo.
Sono: Bassem (scultore), Rana (attrice di teatro), Ava (pittrice) e Amar
(fotografo). Sono tutti tra i 20 e i 25 anni, sembrano tutti svegli e talentuosi.
In poche ore il nostro documentario è stato ribaltato. Ci siamo trovati davanti
la possibilità di gestire un “patrimonio umano” sufficiente a scrivere tutto un
altro tipo di documentario, per esempio seguendo le loro storie, ritraendoli
durante l’attività in cui si esprimono (sono tutti artisti), dando un’immagine
giovane e non-convenzionale dell’Iraq. A questi 4 ragazzi va sicuramente
aggiunto Salman, un altro ragazzo che sta lavorando da Movimondo in questi
mesi (e che perciò era già lì) e che quest’ultimo anno l’ha passato a Miami
negli USA a studiare scrittura teatrale (la sua pronuncia dell’inglese è
assolutamente americana, ma il tipo è molto in gamba). Che dire? Abbiamo
preso un appuntamento con ciascuno di loro sul “posto di lavoro”, in modo da
poterli riprendere nel loro habitat ma al tempo stesso magari fare loro
qualche domanda. Si potrebbe anche riprenderli tutti insieme magari una sera
intorno a un tavolo fumando un narghilé e lì porgli domande sull’Iraq che
sognano e buonanotte al secchio (mi ricordo di aver discusso con Armando di
un canovaccio simile per un documentario su Cuba cui stiamo pensando da
parecchio tempo). Sapere di partire per l’Iraq con questa possibilità avrei
sottoscritto e sarei partito senza esitazione.
Ora però sono un po’ confuso. In realtà abbiamo calcolato che con questi
impegni che ci siamo presi con loro non avanzerebbe più moltissimo tempo
per fare altro, eppure, soprattutto anche grazie a Rabye, le possibilità per fare
un documentario “a tappeto” sono tante. Si potrebbero fare almeno 4
documentari diversi: 1) a tappeto intervistando esponenti di associazioni,
gruppi religiosi, partiti politici; 2) raccontando storie di persone reali (questi 5
ragazzi appunto); 3) riprendendo l’attività del centro per bambini a Batawin
aperto da Terre des hommes (cosa che comunque voglio fare e sto facendo
per debito nei loro confronti); 4) girare una fiction, o un docu-fiction,
partendo da una sceneggiatura scritta (vi ricordate il racconto scritto da
Karim sull’autobomba? Bellissimo, ma il problema si era detto era girare scene
di fiction all’aperto). Bene, Salman dice che non ci sono problemi, anzi, si è già
offerto insieme all’amico fotografo Amar di farmi da assistenti un giorno per
girare gli esterni qua a Baghdad. Dice che io sembro un curdo: “davvero, non
dai minimamente nell’occhio”. Il travestimento funziona, loro sono del posto,
sono del mestiere, si va per esempio in un mercato e si gira con disinvoltura...
a questo punto perché non provare a girare un cortometraggio sul racconto di
Karim? Praticamente abbiamo aperto il manuale cinematografico del
documentario e lo stiamo vivendo. Ma tanta manna va a sbattere contro 2
cose: 1) quasi certamente non avremo il tempo di fare tutte queste cose; 2)
ammesso di riuscirle a farle come si coniugano tutti questi linguaggi che in
fondo sono molto distanti tra loro? Il genere 3 e il genere 4 possono essere
concepiti a sé, cioè qualora venissero realizzati, potrebbero essere lavori a
parte: si fa un montaggio sul centro e lo si lascia a Terre des hommes e un
eventuale cortometraggio lo si concepisce come cortometraggio punto e
basta. Ma i primi 2 linguaggi tra loro cozzano, non si scappa. E fare 2
documentari diversi non ha senso soprattutto perché con questo poco tempo
(mannaggia!!quanto mi rode, cazzo!) si rischia di fare male uno e l’altro. E
poi che senso avrebbe? Non so, questi sono i miei dubbi. Anzi, Armando e
Francesca, se state leggendo vi invito caldamente a farvi sentire al più presto
per un suggerimento. Fabrizia, anche tu. Che altro?
Tornati dalla casa di Rabye verso le 4 (siamo stati da lei 5 ore, poverina, le
abbiamo sconvolto la giornata, ma anche lei piacevolmente a noi) siamo
andati all’internet point, uno qui vicino dove non ci eravamo mai stati. Karim
e Wamidh (Lampo) sono andati al centro di Batawin, io ho preferito tornare
qui a casa.
Mi sono fatto una passeggiata da solo. Karim era d’accordo. Tranquilli,
Baghdad è molto meglio di quello che si racconta. La gente è davvero ospitale
e generosa. L’unico rischio è quello di trovarsi nei pressi di un’autobomba che
esplode, ma alle 5.30 del pomeriggio, per una traversa assolata e deserta di Al
Mansur, dubito si corrano questi rischi. Se passi in un posto, ti fai anche
notare (ma già me lo dicono in molti che mi mimetizzo bene), non importa.
Basta che i tuoi spostamenti non diventino abitudinari. In questo caso la
percentuale su un tuo rapimento potrebbe salire dall’1 % all’1,5 %...: meglio
non correre rischi... In realtà l’effetto collaterale che secondo me stuzzica i
fondamentalisti tagliatori di teste è che a causa di questi rapimenti la gente è
propensa a non venire più in Iraq, oltre ai soldati (che comunque infatti non
se ne vanno), quindi non ci vengono più nemmeno le persone
benintenzionate e la gente normale viene abbandonata a se stessa e alla sua
paura.
La strategia del terrore di questi gruppi armati sarà certamente rivolta alle
truppe di occupazione, ma non va sottovalutato l’impatto certamente voluto
sugli Iracheni stessi, che in questo modo dovrebbero capire l’antifona e rigare
dritto (ricordate i locali di alcoolici dati alle fiamme ieri?). Per questo, dopo
averli abbandonati in 25 anni di Saddam, non possiamo abbandonare gli
Iracheni adesso. Tornando agli Iracheni che resistono (non quelli che
combattono contro le truppe di occupazione, quelli che difendono la loro
laicità dai colpi mortali dei fondamentalisti), Karim ieri mi ha ricordato un
modo di dire di Hassan, suo fratello che vive in Algeria in una zona
abbastanza frequentata dai fondamentalisti (ho avuto il piacere di conoscere
Hassan, una persona squisita): “Ogni volta che bevo un bicchiere di birra
faccio un atto di resistenza...”, e i suoi amici francesi quando lo chiamano gli
dicono: “Allora Hassan, stai resistendo oggi?”... “Eh, ho finito i soldi, per oggi
mi sa che dovrò arrendermi...”. Pensate che ieri sera, di ritorno a casa, lungo il
Tigri in una zona di periferia abbiamo visto un bel po’ di gente con le
macchine parcheggiate. Ci ha raccontato Raed (il Coraggioso) che quelli sono
“i bevitori“, quelli che si radunano per prendere la sbronza lungo il fiume,
appartati e clandestini...Bèh, comunque rientrato dalla mia passeggiata ho
trovato la casa chiusa perché tutti gli operatori avevano terminato l’orario di
lavoro ed erano andati a casa. Karim non sarebbe tornato che da lì a 2 ore. Mi
sono guardato intorno e ho scavalcato e ho cercato riparo all’ombra del
muretto sdraiato sull’erba del giardino. Dopo un po’ è arrivato Duraid I-DentiSpaccati-Del-Dinosauro e mi ha fatto una lezione di lettura araba leggendo da
un barattolo di fette d’ananas usato come porta fiori. Ho notato un’altra cosa
assurda che succede qui in Iraq: le formiche quando camminano all’ombra,
vanno alla velocità normale delle formiche. Ma quando si trovano a
camminare al sole inseriscono il turbo... E se scottano i piedi persino a loro, è
tutto dire... Un abbraccio, a presto...
giorno 5 - Feste nazionali e ragazzi di strada
Oggi è festa nazionale in Iraq. Si festeggia la caduta della monarchia e la
nascita della Repubblica: 46 anni fa, nella notte tra il 13 e il 14 luglio 1958,
proprio la notte appena trascorsa, il re Faisal, giocattolo degliinglesi, veniva
assassinato (in una casa vicina al centro di Batawin). E’ una festa che ha
attraversato indenne tutti questi anni di storia recente di Paese. Anche sotto
Saddam era festa nazionale sebbene riportasse ad un episodio non legato alla
propria era (fu comunque il partito Ba’th da cui Saddam proviene ad
orchestrare l’attentato). Ieri sera tuttavia si è creato il panico, perché dopo la
caduta di Saddam nessuno sa più quali siano le giornate nazionali. E questo
avviene perché nessuno ha più le idee chiare su chi stia comandando l’Iraq in
questo momento.
La caduta della monarchia fa piacere agli Americani? Forse sì, loro dicono di
essere la migliore democrazia al mondo... Ma si festeggia la caduta della
monarchia o la nascita della repubblica? Perché nel secondo caso si
festeggerebbe la salita al potere del partito Ba’th (Saddam prenderà il potere
solo nel 1979 dopo vari ribaltoni), partito che gli Americani hanno ormai
disintegrato. Ah, già, gli Americani non comandano più adesso, c’è il governo
provvisorio di Allawi. E loro cosa ne pensano? Penseranno lo stesso degli
Americani, ovvio (in questo momento esiste anche un Movimento
Costituzionale Monarchico che si candiderà sicuramente alle prime elezioni
libere: gennaio 2005?). Insomma il caos. Pare non esista una direttiva
nazionale oppure che esista ma sia stata diffusa all’ultimo (ora sono altre le
priorità) senza dar tempo di prepararsi. Risultato: ognuno oggi fa di testa sua.
E così c’è chi ha preso una giornata di malattia (nel caso si festeggiasse può
farla slittare a domani, poi venerdì è giorno festivo qui e quindi salta fuori un
bel ponte di 3 giorni), chi è costretto ad andare al lavoro ugualmente (gli
operatori di Terre des hommes) perché nessuno si era accorto della ricorrenza,
oppure chi è arrivato sul posto di lavoro ed è stato rispedito a casa perché
all’ultimo si è deciso di festeggiare. Questo è il motivo per cui questa mattina
sono libero.
Avevamo appuntamento con Bassem (il ragazzo scultore che sta lavorando
alla sua prossima opera) alla Biblioteca Nazionale dove avremmo intervistato
anche il direttore, ma almeno un ente statale si è ricordato della ricorrenza e
loro oggi chiudono (il fatto che però Bassem inizialmente avesse fissato per
oggi l’appuntamento la dice lunga... che sfortuna!). Ne approfitterò per
andare da Salman e pianificare con lui una giornata di riprese di esterni per
Baghdad (ormai dal finestrino della macchina ne sto comunque facendo) e
poi alle 14 vado da Hans, l’olandese conosciuto ad Amman che mi porterà
nell’ospedale dove lavora. Adesso vi racconto di ieri. Al mattino abbiamo
intervistato Leyla (nome inventato, nda). L’abbiamo intervistata, ma in forma
anonima. L’ho quindi messa davanti alla vetrata sul cortile e ho giocato di
diaframma e otturatore e ne ho fatto un controluce da cui non si possa
riconoscere, intanto si vede il bel giardino alle spalle. Tra le cose principali
emerse vi è stata la sua insofferenza nei confronti della cosiddetta
”resistenza”, la sfiducia proviene da tante cose: la maggior parte degli Iracheni
preferisce sfruttare le possibilità di ricostruire un Paese come loro lo vogliono
(che sono di più ora sotto gli Americani che sotto Saddam) che non buttarsi in
una guerra civile dopo 20 anni di guerre e di embargo, perciò si chiede
perplessa chi stia animando questa resistenza, chi ci stia dietro e soprattutto è
perplessa dal fatto che questa cosiddetta resistenza non abbia mai prodotto
una piattaforma, non si capisce per cosa combattono (l’uscita degli Americani
non può essere il solo obiettivo), ma soprattutto qual è l’Iraq che vogliono
dopo, perché se è un nuovo Afghanistan talebano allora la gente preferisce gli
Americani. Questa è la sostanza.
Al pomeriggio siamo stati alla sede del quotidiano “Al Mashriq”, uno dei più
letti qui a Baghdad ora, nato solo 6 mesi circa fa (in quest’ultimo anno c’è
stato il boom di tutto, com’è comprensibile, soprattutto nel campo
dell’informazione molte testate hanno aperto). Karim in questi mesi ne ha
apprezzato la linea editoriale e perciò siamo andati a trovarli. La loro sede è
nel quartiere di Batawin, perciò ci siamo andati a piedi. All’ingresso c’era
molta diffidenza nei nostri confronti, dei tizi imbruttiti stavano seduti sul
marciapiede e prima di entrare ci hanno perquisiti e ci hanno controllato la
borsa e poi ce l’hanno fatta lasciare all’entrata (quando poi sono sceso per
riprendermi la videocamera, da sotto al bancone ho intravisto un
kalashnjikov!).
Abbiamo incontrato il direttore Ali al-Shareefi (ma è la scrittura inglese,
sarebbe Al Sharifi), ci ha accolti nel suo studio, ci ha ascoltati (Karim ha
parlato, io per un’ora buona sono stato ad ascoltare una lingua
incomprensibile nella quasi totale alienazione), poi è intervenuto, Karim ha
risposto, quello si è scaldato, abbiamo fatto 2 giri di tè, 1 di narghilé (quanto
parlano questi arabi! E’ uno sport nazionale la conversazione...dove si trova
un altro direttore di giornale che riceve all’improvviso 2 sconosciuti e si
infervora a parlare con loro per più di un’ora?). Alla fine ha invitato il
caporedattore (non ho a portata di mano il suo nome perché Karim l’ha
scritto in arabo in una pagina fitta di parole, se sapessi qual è la parola cui
corrisponde il suo nome la saprei trascrivere ma così come faccio? Ora Karim
è al centro di Batawin, io sono a casa), ed è lui che abbiamo intervistato, un
giovane giornalista di poco più che 30 anni. Sulla resistenza ha detto le stesse
cose di Leyla, praticamente. In più lui è stato oppositore di Saddam, quindi ha
raccontato un bel po’ di cose interessanti ed infine è esperto in criminologia
(come un pasticciere nel Paese di Hansel e Gretel!!). Nel pomeriggio ho
ripreso un po’ i bambini al centro di Batawin, quei pazzi furiosi!! Che belle
riprese! Ho fatto una jam session con l’insegnante di musica (mi ha insegnato
una decina di ritmi iracheni, io alla chitarra e lui al darbuka).
Alle 19.30 è passato Seif (la Spada di Allah, il tunisino) a prenderci per andare
al centro che lui segue. E’ una comunità di ex-ragazzi di strada, abbiamo
raccolto le storie di 4 di loro, terribili. Ne riporto una: questo ragazzo, ora
19enne, è stato internato (è il caso di dirlo) all’età di 8 anni in una specie di
riformatorio/carcere minorile (un girone dantesco istituito dal regime di
Saddam) dove venivano rinchiusi indistintamente orfani, bambini di strada e
criminali minorenni. Non ne è mai uscito fino a quando sono arrivati gli
Americani (dagli 8 ai 18 anni questo ragazzino è rimasto in carcere senza aver
mai commesso nulla!!!!!!). Dice che gli ultimi giorni i carcerieri sono fuggiti
e li hanno lasciati rinchiusi senza cibo né acqua.
Quando sono arrivati gli Americani (gli altri furbi), hanno aperto le celle e li
hanno lasciati uscire così: “addio, disperdetevi!”. Da allora lui e tutti gli altri
sono diventati ragazzi di strada senza una famiglia, senza una casa, un lavoro,
senza niente, diventati presto tossicodipendenti alla colla. Finché sono stati
intercettati da questa sorta di unità di strada che ha messo loro a disposizione
una casa e dei soldi con cui vivere (per il lavoro si vedrà, qui non esiste
neanche per le persone “normali”). Tra l’altro, la cosa interessante che ha
raccontato, è stata che nei primi mesi dopo la caduta del regime, mentre
viveva per strada, una delle volontarie che ha conosciuto per prima è stata
quella giapponese che era stata rapita (Nahoko Takato, nda) insieme ad altri 2
connazionali, minacciata di morte e poi rilasciata...Dopodichè verso le 21
siamo usciti verso un paesino alle porte di Baghdad dove Seif sta incontrando
degli altri ragazzi di strada che vorrebbe inserire in un nuovo progetto e dar
loro una nuova casa. Per fare questo ha richiesto la nostra presenza perché
con le immagini che noi possiamo girare per lui sarebbe più facile ottenere i
finanziamenti e accelerare il tutto. Soltanto che al loro solito posto non
c’erano, si sarebbero forse ritrovati molto più tardi, allora abbiamo desistito.
Ci torniamo venerdì mattina presto, alle 7.
Questa è la tattica usata da Armando per il documentario sulla prostituzione,
uno scambio alla pari con le unità di strada, mettere a disposizione le riprese
in cambio della possibilità di effettuare le riprese stesse in ambientialtrimenti
inavvicinabili. Il posto era davvero triste, decadente a dir poco, sporco a dir
poco, degradato a dir poco, la periferia della periferia della periferia. Troverò il
momento per descriverlo con parole più efficaci (o magari lo faranno le
immagini al mio posto). Per ora vi lascio, sono già le 10.30, devo combinare
qualcosa anche oggi... A presto...
Ps: abbiamo appena acceso la radio: è saltata per aria un’autobomba poco più
di un’ora fa. Ne scriverò nella prossima puntata.
giorno 6 – La prima autobomba non si scorda mai
Ormai lo avrete saputo tutti. Questa mattina, mentre io scrivevo un’altra
puntata di questo diario, seduto nel salone di questa agiata villetta nel
quartiere Al Mansur, nei pressi della zona verde, a 15 minuti di macchina da
qui, è saltata in aria un’autobomba: 10 morti, 3 poliziotti iracheni e 7 civili.
L’intera zona è stata chiusa al traffico per quest’oggi. Di solito la si sfiora nei
pressi di un incrocio, percorribile solo ad angolo retto, chiuso cioè nelle
restanti due direzioni. Ci si passa per dirigersi verso il ponte della Repubblica,
quello che abbiamo percorso a piedi il giorno seguente il nostro arrivo, che
porta direttamente al quartiere Batawin, al di là del Tigri, dove si trova il
centro di Terre des hommes. Io non ho sentito nemmeno l’esplosione.
Dev’essere stato il rumore dei condizionatori d’aria a coprire il botto.
Abbiamo sentito la notizia alla radio. In Italia erano da poco passate le 7 del
mattino. Qualche ora dopo ho chiamato Radio Onda d’Urto, loro mi hanno
richiamato e intervistato per un buon quarto d’ora. Gli Iracheni hanno così
festeggiato il giorno della Repubblica, con l’ennesimo bagno di sangue.
L’ennesimo, scontato, normalissimo bagno di sangue. ”C’è stata un’esplosione
mezz’ora fa!!! Sono morte 10 persone!!!”, ripetevo questa mattina. “Ah, sì?
Dove?”. “Vicino alla zona verde”. “Eh già, meglio non passarci da quelle
parti...”. Per gli Iracheni è una cosa normale.
Non penso a quanto cinismo serva per affermare tutta questa naturalezza di
fronte ad una simile brutalità. Penso a quanta brutalità debbano aver
assistito per affermare con tanta naturalezza tutto questo cinismo.
In mattinata quindi non avevo impegni. Karim era già fuori, ma sapevo che
avrebbe fatto un altro giro, perché in fin dei conti da quelle parte ci si
imbottiglia nel traffico: troppi controlli, troppe barriere, troppo filo spinato. E’
passato alle 12 Wamidh “Lampo” a prendermi per portarmi a Batawin. Alle 14
sono stato a casa di Hans, l’olandese conosciuto ad Amman che lavora per
Medici Senza Frontiere, ricordate? E’ stato sempre Wamidh a portarmi. La
loro casa è davvero extra-lusso, al confronto la nostra è una modesta
residenza da imborghesiti. Abbiamo chiacchierato un po’, domani dovrebbe
richiamarmi per comunicarmi quando poter andare a visitare la loro clinica
nel quartiere di Sadr City, la periferia sciita dove il degrado ha offerto nei mesi
passati le sacche di resistenza più ostinata nel cuore di Baghdad.
La loro prima accoglienza non è servita solo per le normali patologie di un
quartiere degradato, ma anche per i feriti da combattimento o da conflitto in
genere. Tutto il personale medico è iracheno. Una visuale interessante per
farsi raccontare il quartiere, non credete? Abbiamo chiacchierato di tante cose
con Hans, è una persona gradevole. Ho riportato la conversazione a Karim
(che era rimasto al centro) e abbiamo convenuto sul fatto che Hans sia una
persona molto intelligente ma un po’ paranoica. Abbiamo parlato com’è ovvio
dell’autobomba scoppiata questa mattina. Da lì abbiamo fatto tutta una serie
di considerazioni, ma vi riporto quelle di Hans, che, sebbene opinabili in
alcuni punti, restano comunque interessanti:
“La gente normale è stanca di tutto questo orrore. Non si riconosce in questi
attentati. Ormai non sono nemmeno più rivolti agli Americani, muoiono
soltanto Iracheni. E’ resistenza questa? Io penso sia soltanto una strategia del
terrore che mira a destabilizzare e mantenere una situazione incerta
favorevole ai criminali di ogni risma. E non credo che dietro a questi attentati
ci sia la mano di Al Qaeda o di Al Zarqawi. Non credo abbiano queste capacità
attualmente qui in Iraq. Secondo me sono i resti del partito Ba’th. Si sarà
anche frammentato, ma dove sono andati a finire tutti i potenti servizi segreti
del raiss che si alimentavano dei traffici criminali prodotti dall’embargo? Non
hanno motivo di disciogliersi perché il loro nutrimento non è svanito. In Iraq
ora si possono concludere gli stessi affari loschi che si concludevano sotto
l’embargo, purché il nuovo Governo non faccia pulizia. Non è la presenza
degli Americani che a loro dispiace, in ultima analisi, ma il fatto che la nuova
polizia irachena assuma il controllo del territorio. Ed è quella che puntano a
colpire. La logistica ce l’hanno. Non si è disciolta, molti reparti speciali dell’exesercito di Saddam sono ancora alle loro dipendenze. E’ un mondo criminale
rimasto acefalo che continua a sopravvivere d’inerzia perché rimane del
terreno a loro fertile. Non hanno un programma politico perché non hanno
più una faccia, una facciata da proporre al Paese. Non hanno più una
copertura ideologica come quella offerta da Saddam. La gente lo percepisce.
Riconosce in questi attentati lo stile, ormai un po’ decadente e decaduto, di
Saddam ed è per questo che non la considera resistenza. Si dissocia, la
maledice, la detesta”.
Fin qui, totale accordo, mi pare. Poi però mi incalza: “Ma tu ti senti sicuro?”...
Io: “Bah, sì. Mi sento sicuro, gli Iracheni sono ospitali, sto attento a non
tornare nello stesso posto per due giorni di fila alla stessa ora. Ma mi sento
sicuro, poi magari mi sbaglio...”.
“Béh, vedi, io penso che quasi ogni occidentale sia segnalato o tenuto
d’occhio dagli ex-servizi segreti di Saddam. Da quando scendi all’aeroporto, sei
seguito, sanno dove risiedi, forse possono ricostruire anche i tuoi
spostamenti. E’ una rete ramificata e informale, che va dal vicino di casa che
parla con il cugino che conosce quel tipo che sa che offre soldi in cambio di
informazioni. Credo che sia una rete ancora in piedi. Credo che anche noi qui
siamo conosciuti. Tutta la via sicuramente sa della nostra presenza. Per
questo non usciamo mai di casa, lo facciamo solo per recarci alla clinica e lo
facciamo con la massima cautela. Per noi rischiare vuol dire anche mettere a
rischio il progetto. Cerchiamo di apparire insignificanti, non ci esponiamo.
Credi che non sappiano che esiste un europeo che gira per la città con una
borsa da quattro soldi in cui dentro però nasconde una videocamera e sta
incontrando delle persone per intervistarle?”.
”Bèh, Hans, non credo di essere così importante...”.
“Stai attento...”.
Ho raccontato tutto questo a Karim: fantascienza. Stasera siamo rientrati un
po’ più tardi del solito e Karim scherzava fingendo di essere una spia del
Ba‘th: “Cazzo, stasera sono rientrati più tardi, questi ogni giorno tornano
all’ora che vogliono loro....”.
Torniamo alla giornata. Alle 15 siamo tornati a prendere Karim e abbiamo
fatto un’esperienza incredibile.Siamo stati a trovare il centro di culto della
comunità Sabea Mandea. E che è? Mah, difficile da spiegare. Dunque, non
sono degli hippy freakkettoni partiti nel ‘68 dalle valli dell’Oregon per
ritornare alle origini della civiltà, nel cuore di Babilonia. In pratica si tratta di
una minoranza etnico-religiosa (sono 100mila i seguaci in tutto l’Iraq!!).
Sono Battisti, cioè venerano Giovanni Battista, colui che battezzò il Cristo. Ma
non sono Cristiani. Il loro culto consiste nel ripetere il battesimo ogni volta.
Hanno una grande sala con dei divani disposti uno in faccia all’altro in modo
che la comunità si possa parlare guardandosi negli occhi. Poi si alzano e vanno
in una specie di piscina con degli scalini e fanno il bagno vestiti!Abbiamo
intervistato la loro guida spirituale.
Martedì 20 appuntamento da non perdere: alle 8 del mattino raduno di tutti i
Sabei Mandei di Baghdad che si buttano nel Tigri!!! Poi siamo rientrati al
centro di Batawin e ho fatto altre riprese ai bambini (con queste penso di aver
materiale a sufficienza sul centro). Alle 19.30 poi siamo stati da uno scultore,
uno tra i più famosi in Iraq, che vive al nord ma che in questi giorni è a
Baghdad perché sta scolpendo 2 statue che sorreggono 2 colonne in una villa
in costruzione. L’ho ripreso all’opera, poi siamo saliti sulla terrazza di quella
che sarà una specie di reggia e l’abbiamo intervistato con la città al tramonto
alle sue spalle. Dice che sotto Saddam si lavorava parecchio, oggi il gusto per
l’arte plastica è un po’ diminuito (o forse il gusto per la retorica di regime,
aggiungo io).Bello anche questo punto di vista. Ecco il motivo del nostro
rientro un po’ più tardi del solito.
Al ritorno ci siamo imbattuti in un blindato di Americani che ha intasato un
incrocio stretto reso ancor più stretto da barriere di cemento armato e filo
spinato. Tre soldati sono scesi mitra alla mano a dirigere il traffico. Che scena
da nervi. Se fossi stato io al volante avrei fatto l’opposto di quel che mi
dicevano e sarei passato quando cazzo avessi avuto voglia io. Ma chi sono per
dirigere il traffico con il mitra in mano? Che potere hanno? Nessuno, né
morale né formale. Ormai c’è un governo riconosciuto dall’ONU, c’è una
polizia irachena, c’è la polizia stradale irachena. Non mi possono nemmeno
fare una multa. Il loro è solo il potere del mitra in mano e dell’arroganza! E
comunque il traffico non lo si dirige con il mitra in mano: vaffanculo! A me
cosa mi frega? Ma è l’arroganza nei confronti degli Iracheni che mi manda in
bestia. E meno male che sarebbero dovuti sparire dalla circolazione, limitando
i contatti con la popolazione civile.
Domattina sveglia presto, per cui vi lascio, vado a nanna. Usciamo da
Baghdad, andiamo a Taji, un piccolo villaggio alle porte di Falluja. Non dico
niente, vi racconto al ritorno. State tranquilli, a presto, un abbraccio (tra 10
giorni sono a Milano)...
giorno 7 – Cercando la resistenza irachena
Siamo rientrati dalla trasferta alle porte di Falluja! Non ho mai visto tanti
carri armati e blindati americani come oggi (ne ho ripresi fino alla nausea!).
Tutto a posto. Ho saputo quant’è il mio valore da quelle parti: 4000 dollari!
Bèh, in verità speravo qualcosa di più, ci potrei a malapena pagare questo
documentario.
Devo essere rapidissimo, domattina sveglia alle 5. Andiamo con Seif il tunisino
poco fuori Baghdad dove eravamo stati l’altra sera per incontrare questo
gruppo di ragazzi di strada, vi ho già spiegato. Dunque: niente, siamo partiti
questa mattina in 2 macchine più una che ci ha raggiunti dopo. Una era la
nostra: io, Karim e Wamidh “Lampo”. Le altre 2 erano di Intersos, una ONG
italiana.
Il viaggio di andata è stato tranquillissimo, in fondo anche quello di ritorno. E’
tutta autostrada a 3 corsie, all’inizio c’è l’uscita per Abu Ghraib (dove c’è il
famigerato carcere), più avanti quella per Falluja, poi, dopo aver oltrepassato
il ponte sull’Eufrate, quella per Ramadi e poco più avanti l’uscita per questo
campo profughi che ospita ormai da 20 anni Kurdi sunniti dell’Iran. Il viaggio:
come ho detto tranquillissimo. Su ogni cavalcavia ci sono 2 blindati americani,
lungo l’autostrada spesso se ne incrociano altri, ai lati ancora, ogni tanto un
accampamento. Ne ho ripresi fino alla nausea, vedrete che bel montaggio vi
preparo.... Il campo profughi: prima era seguito direttamente dall’UNHCR,
l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, da poco è subentrato
Intersos. In pratica è una comunità di Kurdi dell’Iran, cacciati perché sunniti.
Durante il regime di Saddam erano praticamente segregati in questo campo.
Ora desiderano andarsene e spostarsi verso nord, verso il Kurdistan iracheno,
sempre profughi, ma per lo meno in mezzo ad altri Kurdi. Vivono in un
dignitosissimo villaggio di mattoni e fango, ma all’interno hanno tutti i
comfort, dall’aria condizionata, alla televisione con satellite, ecc... Certo, il
lusso è un’altra cosa, ma dignitosissimi. E poi le donne e i bambini di una
bellezza rara. Ho fatto delle immagini bellissime.
Presso questo campo c’è anche una stazione di Polizia, siamo stati a conoscerli
un po’ per rispetto, un po’ per usanza, e ci è saltato in mente di proporre al
giovane comandante un’intervista. Ha accordato, anche se con qualche
titubanza e sotto anonimato. Ho usato la stessa tecnica già sperimentata con
Rabye, in controluce davanti alla finestra. Più tardi ci ha raggiunti al campo
anche la terza macchina che era passata da Falluja per raccogliere Maki,
questo operatore di Intersos che abita lì e che noi vorremmo intervistare
(forse sabato pomeriggio). E’ stato lui a farmi la battuta sui 4000 $. Il tipo è
molto sveglio, uno di quelli che la sa lunga, un signore sulla 40ina suonata
(ex-quadro di partito?).
Sulla strada del ritorno stessi scenari. Soltanto che siamo stati fermati
dall’esercito iracheno (agli albori, qualcosa di ancora non ben precisato) che
stava effettuando dei controlli e aveva allestito un check-point lungo
l’autostrada. Tutto tranquillo, non mi hanno chiesto nemmeno il passaporto,
hanno visto la videocamera e non hanno fatto una piega. Erano tutti molto
giovani, sui 20 anni, con il mitra in mano e mimetica, il foulard sul naso per la
polvere del deserto e un caldo soffocante. Ah, il deserto... Dopo Abu Ghraib,
praticamente ai lati dell’autostrada c’è solo deserto e qua e là dei piccoli centri
abitati con tante palme tutte intorno, qualche gregge e qualche asino. Che
sensazione!
Il controllo dell’esercito abbiamo scoperto più tardi era probabilmente dovuto
ad un assalto di questa mattina alle porte di Baghdad contro la polizia
irachena che ha provocato la morte di altre 10 persone. Per la cronaca in città
quest’oggi c’è stata una manifestazione di 3mila persone che chiedevano la
morte di Saddam. Pare fossero sciiti.Questa sera siamo usciti a cena con Seif,
io e Karim. Saputo che oggi siamo stati oltre Ramadi e introducendo il fatto
che domani vorremmo intervistarlo (dopo la piscina, programma: ore 5 dai
ragazzi di strada - rientro – ore 14 piscina - ore 18 intervista - ore 20 couscous
a casa sua..., domani è venerdì, giorno di festa), ci ha raccontato di avere
amici a Ramadi e Falluja, amici dell’università.
Seif è un personaggio ricco e strano. Non credo di aver il tempo qui per
lanciarmi in una descrizione esaustiva. Vi riporto 3 domande che gli ho fatto e
altrettante risposte (domani dovrebbe ripetere tutto, ma sotto anonimato):
“A Falluja ci sono i resti del partito Ba’th, qual è il loro obiettivo?”... qui Seif ha
dovuto ammettere la mia considerazione:
”Sì, a Falluja ci sono i resti del partito Ba’th. Il loro obiettivo è quello di evitare
la giustizia americana di parte, negoziando non solo l’immunità, ma il loro
reinserimento nei quadri del futuro Iraq. Una città piccola come Falluja non
resiste ad un mese di assedio all’esercito più potente del mondo se dentro non
ci sono dei reparti speciali... E’ vero non hanno un programma politico. Non
cercano la solidarietà internazionalista. Mirano solo a tenere alta la tensione
fino a che non troveranno soddisfacenti le offerte degli Americani”.
“Chi c’è dietro le autobomba?”.
“Dietro ad attentati che prevedano l’uso di kamikaze non c’è il Ba’th, non fa
parte della loro logica. Il kamikaze ha una provenienza religiosa. Sempre che
non ci sia una collaborazione: l’integralismo fornisce il kamikaze, il Ba’th la
logistica dell’azione”.
”Chi c’è dietro i rapimenti degli occidentali?”.
“Secondo me la CIA. Non è un caso che gli Italiani siano stati liberati qualche
giorno prima delle elezioni. Se ci sono fondati sospetti addirittura circa
responsabilità dei servizi segreti americani per l’attentato alle torri gemelle,
allora possono fare di tutto”.
Quest’ultima risposta mi è parsa la più fragile. Le prime 2 interessanti. Il
motivo di quest’ultima domanda era esplicito:
“Se hai una proposta seria, per conto mio vengo a Falluja...”.
“Ma certo, se avessi anche solo il minimo dubbio su queste persone non ti
parlerei nemmeno di loro. Non sono mostri come la propaganda
internazionale vuole dipingere...”.
Poi mi sono sentito di dover aggiungere:
“Vengo se viene Karim...”, Karim ha aggiunto: “
Non lo so, ci devo pensare, devo valutare anche la mia posizione con Terre des
hommes, in teoria non potrei fare queste cose, non potrei occuparmi di
politica, mentre sono alle dipendenze di una ONG”. Sacrosanto. Ah, non
allarmatevi per favore, altrimenti non vi scrivo queste cose e comincio a
tenere 2 diari separati. Le condizioni logistiche sono ottimali, i contatti
valutati nel dettaglio. Le mie valutazioni sono serie. Dall’Italia può sembrare
una cosa, da qui dico solo che altre volte è stata più dura, solo che non
scrivevo un diario telematico in tempo reale. Questa sera Karim è tornato a
dormire sul pavimento del suo ufficio dove mi sistemo io, dopo qualche notte
che dormiva sulla terrazza. La chiamiamo la sala-obitorio, perché di notte
metto l’aria condizionata al massimo (un po’ di sano cinismo, suvvia!). A
presto, un abbraccio...
Ps: ha appena chiamato Seif, è la mezzanotte qui. Cambio di programma: dice
che la polizia ha appena fatto una retata è ha arrestato quel gruppo di ragazzi
di strada. Domattina si va al commissariato, ma non più alle 5 perlomeno...
giorno 8 – La città dei check-point
Oggi è stato tutto un cambio di programma. Niente commissariato (anche
perché era proprio quello di Batawin e Karim non voleva farsi vedere in veste
di ”reporter”, visto che già è conosciuto lì come responsabile del centro per
l’infanzia di Terre des hommes). Abbiamo aspettato a casa tutta la mattina e
parte del pomeriggio una chiamata di Seif (oggi era venerdì, quindi giorno
festivo settimanale nel mondo islamico, quindi c’era poco altro da fare).Alle 13
è arrivata in città Giorgia, l’altra responsabile di Terre des hommes che
avevamo lasciato ad Amman e che ora starà qui con noi (anche lei con
l’aeroplanino che si avvita nell’atterraggio). Alle 14 ha chiamato Seif: si va in
piscina! Alle 15 già sguazzavamo.
Sto riassumendo all’osso le cose fatte, dovete scusarmi, sono un po’ stanco. Ci
sarebbero da raccontare un sacco di cose sull’esperienza in piscina. Per
esempio, uomini e donne che ci vanno a giorni alterni come all’hammam.
L’esperienza della piscina per soli uomini è di un deprimente... Ma non solo
perché noi europei siamo abituati ad associare al concetto di piscina visioni
paradisiache e estasi contemplative (e francamente oggi c’era ben poco da
contemplare: solo grossi panzoni pelosi e qualche giovanotto esagitato), ma
anche perché soli uomini in una piscina sono capaci di farla diventare un
campo di battaglia senza tregua. Dal momento che qui oltretutto non ci sono
bagnini né tanto meno regole comportamentali, è tutta una competizione più
o meno goliardica: gente che si spinge in acqua, altri che si tuffano
all’indietro, quelli che prendono la rincorsa da trenta metri a chi si tuffa più in
lungo, questi altri che si schizzano, altri ancora che si prendono sulle spalle e
si fanno la lotta contro altri due.
Immaginatevi la scena se fosse entrata all’improvviso una dolce fanciulla, con
occhiali da sole, incedere fermo e aria sufficiente, mezza svestita coperta di
crema solare. Si sarebbero paralizzati tutti. Avrebbero smesso di fare i cretini
e si sarebbe finalmente (tra l’altro) potuto nuotare un po’ in santa pace (ma
non credo che sarebbe stata una bella esperienza per questa dolce fanciulla
sentirsi addosso qualche centinaio di occhi fuori dalle orbite...). Per il resto,
essendo la piscina in un albergo vicino al Tigri e vicino alla zona verde, per
una buona mezz’ora si sono sentite raffiche e spari a ripetizione. Seif
continuava a ripetere: “A l’attaque!!” (e la gente in acqua faceva come se
niente fosse...). Karim dice che tante volte gli scontri che avvengono
all’interno della zona verde nemmeno vengono riportati dai giornali, perché
nessuno li vede.
La zona verde sarebbe quella parte di città lungo il Tigri dove sorgevano i
palazzi presidenziali di Saddam ora occupati dal comando supremo delle forze
alleate e da funzionari vari. Nessuno vi entra se non autorizzato. Le
autobomba scoppiano regolarmente al check-point. I kamikaze si mettono in
fila, ci stanno anche una buona mezz’ora, cercano di avvicinarsi il più
possibile, quando è il loro turno di essere controllati, i kamikaze tirano una
cordicella e boom, saltano per aria loro, i poliziotti iracheni del check-point e
magari qualche passante. Questo per dire che la zona verde è off-limits. Se
qualcuno della resistenza tira una granata o un razzo all’interno e ammazza
10 soldati, per dire, nessuno lo sa. Anche per i giornalisti non sempre è facile
ottenere i permessi per entrare. Io non ero preoccupato per gli spari che si
sentivano in piscina. Paura? Ragazzi, siamo obiettivi. Baghdad soprattutto in
questi ultimi 3 giorni è piena di check-point, filo spinato, polizia irachena, si
rivede una presenza massiccia di soldati americani (nei primi giorni ne vedevo
molti di meno). Ma i rischi quali sono? Non sono un soldato, non me le vado
a cercare. Sono qui come un qualsiasi abitante di Baghdad, una città di quasi 6
milioni di abitanti, in quest’ultima settimana stando alle cronache sono morte
circa 20-30 persone tra civili e soldati. Non è nemmeno un’eccezione Baghdad
nel mondo. Ficchiamoci in testa che questa per lo più è la normalità delle cose
nel mondo. Ed è la nostra società occidentale la più spietata e violenta e
sanguinaria. L’inganno sta nel fatto che noi siamo quasi riusciti a riservarci
una pace forzata, una “sicurezza” (parolina magica), fatta di bodyguard,
polizia di quartiere, ma soprattutto di aeronautica e soldati nostri disseminati
in mezzo pianeta (guerra preventiva...). Non siamo noi i buoni perché ci
inorridisce l’idea di passare davanti a un check-point con soldati che
imbracciano un mitra (perché quei soldati per altro sono i nostri e li ha
concepiti la nostra mente). Siamo i più furbi. Questo è il mondo che noi
abbiamo costruito e che gli altri stanno subendo. L’Occidente è di gran lunga
il più grande produttore e rivenditore di armi al mondo e senza armi i vari
Saddam per quanto efferati al massimo si sarebbero presi a colpi di clava sulla
testa, non a razzi, bombe, armi chimiche ecc... Abbiamo fatto una guerra
contro l’Iraq perché forse qui si nascondevano armi di distruzione di massa.
Anche se fosse vero che non c’erano, Saddam in passato le ha usate per gasare
il villaggio kurdo di Halabya, ma allora erano gli Stati Uniti a passargliele
pensando che le usasse contro l’Iran che aveva rovesciato il pascià molto
amato dall’Occidente perché faceva le sue veci.
Il problema però è un altro: se si bombarda l’Iraq per le armi chimiche, allora
ad Israele cosa dovremmo fare? Cosa sta costruendo o cosa ha già costruito
Israele per “difendere” i propri interessi nazionali in Medio Oriente? Quali
armi di distruzione di massa possiede? Chimiche, nucleari? E’ possibile, anzi
certo. Ma perché l’America non bombarda Israele? Perché è un Paese amico?
Allora il torto di Saddam non era possedere (sempre che così fosse) armi di
distruzione di massa, ma non essere (più) un alleato (o per meglio dire servo)
dei padroni dell’impero: gli Stati Uniti. Secondo quale logica Saddam non
avrebbe dovuto cercare di procurarsi armi adeguate per difendersi da Israele?
Quella del fesso? Ma allora chi ha deciso questo stato delle cose? A chi va
attribuita la paternità di questa logica del dominante sul dominato a qualsiasi
costo? Il nuovo ordine mondiale inizia con la bomba atomica su Hiroshima e
Nagasaki. Non cerchiamo di far finta di non vedere le cose come stanno.
Torniamo a Baghdad. Non mi fa paura un check-point, mi inorgoglisce
passarci a fianco, perché questa è la sorte che tocca alla probabile
maggioranza delle persone che abitano questo pianeta.E questo a causa della
società ipocrita da cui provengo. Ma al tempo stesso mi fa schifo. Mi
inorgoglisce e mi fa schifo. Perché non ho ancora smesso di pensare che
questo nostro pianeta potrebbe essere diverso. Non accetto questa realtà!
Non spero che cambi, perché da sola non cambia, è inutile e ipocrita che io lo
speri.
Non credo alla pace come ideale. Credo alla pace come pratica. E praticare la
pace significa anche passare davanti a un check-point e non aver paura ma
provare schifo. Significa saltare al di là del filo spinato entro il quale
l’Occidente rinchiude i suoi cittadini come pecore ignare provando a
spaventarci, cercando di raccontarci che là fuori ci sono lupi cattivi e quindi
noi per paura ce ne stiamo buoni e beati e non ci interessa di andare a vedere
cosa avviene realmente “là fuori”, e mai così capiremo che là fuori non ci sono
lupi ma altre pecore massacrate al posto nostro. E man mano il recinto si
stringe, e le pecore che prima stavano dentro ora stanno fuori (la Jugoslavia
ad esempio, l’Algeria, i Paesi che avevano sperato nel terzomondismo e ora si
ritrovano esclusi da un un club dei Paesi civili sempre più ristretto ma il cui
stato sociale è pur sempre anch’esso in caduta libera).
Venire qui significa venire a condividere la sorte delle nostre vittime (almeno
ogni tanto) e avere il coraggio di guardarle con i nostri propri occhi e
incazzarsi. Per me i check-point è come non esistessero. Guardo quei soldati e
mi dico: non esistete. Non contate niente nella mia vita, non avete nessun
valore, non avete neanche il potere di spaventarmi.Cazzo! Cazzo!!!! Scusate
lo sfogo. Dopo la piscina siamo stati a casa di Seif che ci ha preparato del
cous-cous (qui non sanno nemmeno cosa sia, e lui da buon tunisino l’ha
cucinato come dio comanda: Karim ed io ci siamo sentiti come a casa...) e poi
mi ha insegnato a montare il narghilé e ci siamo fatti una fumata. Mentre
stavamo per salire in macchina per rientrare abbiamo sentito un botto
tremendo. Poco fa abbiamo ascoltato la radio: pare che un blindato
americano sia saltato su una mina. Tranquilli, sono mine anti-carro, ci vuole
un tot di peso minimo per farle detonare. Il punto in cui è saltato era proprio
sul nostro tragitto. Abbiamo visto decine di auto della polizia irachena (oggi
siamo anche stati fermati da loro a un check-point: ieri l’esercito, oggi la
polizia), decine di altri blindati americani accorsi, era un putiferio. Abbiamo
così dovuto fare un giro più lungo.Siamo tutti un po’ nervosi, stiamo
sentendo elicotteri sorvolare la città. Quindi prendetevi questo sfogo così
com’è, per quello che è... Ma state tranquilli, la statistica è tutta dalla mia
parte... Un abbraccio, a presto..
giorno 9 – Una lenta danza di morte
Tra una settimana esatta sarò nella mia casetta a Milano. E starò lì a
guardarmi indietro. E devo fare in modo che questi ultimi giorni raccolgano le
aspettative.Il quadro comincia a comporsi, ma gli ultimi ritocchi sono quelli
dove ci vuole la mano più ferma del solito.
Questa giornata si è aperta con un altro botto. Non erano ancora le 7 in Italia,
qui non ancora le 9 del mattino.Una bomba è scoppiata a 10 minuti a piedi da
qui (circa a 200mila persone da qui, mi dispiace la lista d’attesa è lunga, non è
che uno arriva a Baghdad e dopo 10 giorni può già pretendere di saltare su
un’autobomba...). Ha centrato il convoglio con la scorta che portava il
ministro della giustizia del governo provvisorio. Lui si è salvato, buona parte
della scorta no. Sarebbe stato un bel colpo per il partito Ba’th clandestino.
Oggi era un altro anniversario pesante: 36 anni dalla rivoluzione irachena
(una delle tante). Dal 17 luglio 1968 si segna l’inizio vero e proprio dell’era del
partito arabosocialista (ovvero nazional-socialista: ovvero fascista? Oops,
qualche buon stalinista in Italia potrebbe offendersi...) Ba’th.
Colpire il ministro della giustizia avrebbe significato far fuori proprio la
persona che sta orchestrando il processo a Saddam (e quindi alla storia del
partito): sarebbe stato un colpo ad effetto di quelli spettacolari. Ma non è
riuscito. Cambia poco per la Signora Morte, che anche oggi si è dissetata
comunque col sangue iracheno.Alle 12 avevamo appuntamento all’accademia
dello spettacolo con Rana, l’attrice che avevamo conosciuto insieme agli altri
ragazzi. Forse vale la pena aggiornare il discorso su di loro. Dopo che per la
festa nazionale del 14 era saltato l’appuntamento con Bassem lo scultore,
anche Ava la pittrice ieri venerdì (giorno di festa) ha disdetto.
Stamattina abbiamo chiamato Rana l’attrice per la conferma e con una
mezz’oretta di ritardo (ma avevamo avvisato) siamo arrivati. Ma lei non c’era
più. Ad attenderci c’era però Muhanad, un suo amico danzatore che ci ha
invitati alle prove della compagnia: uno spettacolo! Sono una decina di
ragazzi e una sola ragazza, stanno provando uno spettacolo di danza da loro
scritto che si intitola “Slow death”. Ho ripreso le prove, poi sono stato un po’
con loro e infine ho fatto qualche domanda a Muhanad al circolo degli artisti.
Karim nel frattempo se n’era andato, perciò ho dovuto porre le domande in
inglese e fidarmi delle sue risposte in arabo. Lunedì ripasso a trovarli prima
che partano per Amman per uno spettacolo, mi lasceranno il loro curriculum e
un dvd con una ripresa del loro spettacolo, magari in Italia si trova qualcuno
interessato. Alcuni di loro sono davvero fenomenali. Ho fatto delle riprese
alla “Fame” o alla “Hair” se preferite, avevano un’aria molto “indie”, molto
fresca.
Credo che con queste riprese posso aver soddisfatto la mia esigenza di
immagini suggestive su cui costruire un percorso narrativo che vada al di là
dell’esposizione dei contenuti delle interviste, per quanto storie o racconti di
storie siano. Perciò mi è tornata la fissa di puntare sull’idea della fenice che
ben si adatta ai pezzi di spettacolo che hanno provato, alla “morte lenta”, che
nel documentario potrebbe diventare anche una “rinascita lenta”. Comunque
davvero, le immagini sono venute molto belle, le vedrete. Alle 17 siamo stati
alla sede di Intersos e abbiamo intervistato Maki Al Nazzal, il signore di
Falluja conosciuto l’altro giorno nei pressi di Ramadi. E’ stata un’intervista
pesante, nel senso positivo del termine. Il tipo è un personaggio ricco,
scrittore, giornalista, autore (ma non meglio precisato), forse personaggio a
doppio fondo, con le mani in pasta un po’ ovunque, di poco sopra la
quarantina, aspetto da persona d’apparato ma con una venatura di tarda
modernità, baffetti e inglese sciolto.
Karim è molto contento, io mi fido, non mi resta altro finché non vedrò per
intero la traduzione. In sostanza ha raccontato i giorni d’assedio della città, ha
detto che in quel periodo ha fatto il volontario presso l’ospedale e andava a
raccogliere i feriti. Dice che è falso che a Falluja ci siano i resti del Ba’th, che
per le strade ci sono slogan che dicono che non sono i servi di Saddam, che la
resistenza di Falluja ha radici antiche (ha scritto un libro dove racconta la
storia della città vista come una roccaforte inespugnata già al tempo degli
inglesi, sta cercando ora qualcuno che glielo pubblichi...), che non è vero che
si sta imponendo la ”sharia” (la legge islamica) e che alle donne non è stato
imposto di portare il velo ma lo fanno di loro spontanea iniziativa già da
prima che Saddam cadesse (!?). Dette così sembrano tutte delle bufale o per
meglio dire delle stronzate pazzesche. Karim dice che comunque i suoi
ragionamenti erano credibili, che ha ammesso la presenza di combattenti
provenienti dall’estero, che c’è sicuramente un sentimento arabo-nazionalista
diffuso, che la resistenza (o per meglio dire la reazione) è stata
particolarmente decisa perché gli Americani ne hanno combinate di tutti i
colori con bombardamenti assassini di civili tali da scatenare la sete di
vendetta anche delle persone più miti ed è vero che si sente forte la pressione
degli ulema sunniti (ma dice che era così anche prima). Per lo meno molti di
voi potranno tranquillizzarsi perché dopo essersi dichiarato disposto ad
aiutarci in qualsiasi modo, ha aggiunto:
“Tranne che di portarvi a Falluja... Mi dispiace, in un altro periodo l’avrei fatto
con orgoglio, ma ora non mi sento di garantire la vostra sicurezza. In città c’è
un odio per gli occidentali che è difficile controllare, la gente si sente tradita e
arrabbiata, a Falluja gli Americani hanno esagerato...”, e pare che
nell’intervista lo racconti nei dettagli.Non convinto dalla ritrosia di Maki,
poco più tardi abbiamo incontrato Seif che ci ha fatto conoscere un suo amico
tunisino, anche lui trasferito a Baghdad da diversi anni. Anche lui
probabilmente in passato legato in maniera indiretta (o diretta) ai servizi
segreti iracheni. L’idea era chiedere anche a lui di accompagnarci a Falluja
(Seif diceva che con lui era sicuro), ma questi ha risposto che un viaggio da
quelle parti di questi tempi va preparato con molta, molta cura, non si può
organizzare in 3 giorni (per cui abbiamo desistito ufficialmente dall’idea di
recarci nel cuore della resistenza irachena).
Ci ha promesso in cambio però che lunedì ci porta una persona con qualcosa
di interessante (l’intervista sarà sotto anonimato).Il tema è il classico “who is
who?”, “chi è chi?”. Lui dice che gli atti di violenza degli Iracheni in questo
periodo sono di 3 tipi: 1) i civili esasperati che si vendicano contro gli
americani (Falluja?); 2) i nazionalisti-arabi magari a sfondo religioso che
combattono gli Americani solo perché ce li hanno a portata di mano senza
dover dirottare 2 aerei a Manhattan (mi pare la storia di Obelix e Asterix); 3)
gli Iracheni che regolano tra di loro vecchi conti in sospeso (per esempio
l’attentato di questa mattina, pare che l’attuale ministro della giustizia fosse
un protetto di Saddam e quindi ora un traditore)... Usciti dal ristorante Karim
ed io abbiamo deciso di tornare a casa a piedi e infatti ci siamo persi. Non
eravamo lontani da casa, ma Karim ha l’orientamento di una cavia da
laboratorio dopo essere stata centrifugata, io per Al Mansur (il quartiere dove
stiamo) non mi ci raccapezzo per niente. E’ un quartiere coloniale costruito
dagli Inglesi, con le 4 vie in croce principali e tutte le traverse numerate (ma
che si assomigliano tutte quante). Ma questo in teoria, perché non sono
affatto numerate.
Mettere nomi alle vie qui in Iraq è un vezzo, non una necessità, tant’è che il
servizio postale non è mai esistito. Per spedirsi le lettere usano tutti delle
caselle fermo-posta agli uffici postali del quartiere e ognuno passa a ritirarli
quando c’ha voglia o c’ha tempo o quando gli capita. Dopo un’ora che
vagavamo come 2 fantasmi nelle tenebre, abbiamo chiamato Duraid ”I-DentiSpaccati-Del-Dinosauro” e questi mosso a compassione ci ha recuperato in
macchina mentre eravamo seduti su un marciapiede senza aver la benché
minima idea di dove fossimo (gli abbiamo detto solo il nome del ristorante
davanti al quale eravamo). Ne approfitto per tornare su un argomento: da un
po’ di puntate non mi sentite più lamentarmi del caldo. Ma non è perché è
diminuita la temperatura, tranquilli. Stasera, intanto che aspettavamo Duraid,
Karim mi ha detto:
“Certo che dopo un po’ ci si fa l’abitudine al caldo di Baghdad”. No, non è
nemmeno esattamente così. E’ che alla fine sei talmente stremato che ti
accorgi che lamentarti sono solo energie che sprechi e che innalzano ancor di
più la temperatura corporea. L’unica strategia plausibile (ma lungi dall’essere
in ogni caso efficace) è il silenzio zen... Domani giornata importante: alle 12
appuntamento per intervistare la ministra dell’ambiente del governo
provvisorio.Sorpresa! E’ da 2 giorni che sappiamo di questo appuntamento
che ci ha procurato Rabye, sentiamo che ci dice (non mi pare un ministero di
prestigio, un bersaglio sensibile, vi pare?). Poi alle 2 (Karim si fermerà al
centro di Batawin per dedicarsi alle ultime cose...) carico Salman e dedico
l’intera giornata a girare con lui esterni a Baghdad: monumenti, marciapiedi,
check-point della polizia, palazzi bombardati, mercatini di quartiere, truppe
americane, relitti di autobomba, ecc... Un abbraccio, a presto... tra poco mi
avrete ancora tra voi....rassegnatevi...
giorno 10 – Un quartiere chiamato Libertà
Il fatto è che ormai comincio a trovare Baghdad familiare ed ora comincia a
spaventarmi di più Milano. Dico sul serio. Ho tanti di quei pensieri per la testa
che preferirei fermarmi qui. Oggi guardavo ai mitra appoggiati al muro o
tenuti a spalla come a dei giocattoli. Come se per folclore locale il personale di
guardia tenesse a mo’ di ornamento un pezzo di ferraglia rivestito in legno
nell’impugnatura. Stamattina quindi sono rimasto a casa a preparare
l’intervista con Nasrin Berwari, la ministra curda, agli affari sociali, rettifica.
Aveva qualcosa di assurdo questo appuntamento.
Karim che capisce ministro all’ambiente da Rabye, in realtà scopro io dopo
una ricerca su internet che è ministro agli affari sociali. Karim che arriva tardi
a casa e quindi ci presentiamo con 5 minuti di ritardo al palazzo del ministero
(che poi diventano 15 perché tra la strada e l’ufficio della ministra ci sono 3
perquisizioni di mezzo e un po’ di anticamera). Noi che ci presentiamo così un
po’ spaesati e questa che ci accoglie dicendo: ”Only 10 minutes, ok?”. Alla fine
saranno 20. Io avevo preparato 8 domande dopo essermi documentato
(anche se in fretta e furia in una sola mattinata, mi sembravano domande
plausibili, per lo meno rispetto a ciò che interessa a noi seguendo il filo del
documentario).Avere solo 10 minuti a disposizione un po’ ci spiazza,
scegliamo le 3 domande principali, poi trascorsi i 10 minuti la ministra ha
ancora voglia di parlare e quindi Karim improvvisa... Io non capisco nulla di
quel che stanno parlando.
Trovo assurda la scenografia, sembra davvero una stanza della Casa Bianca,
cerco dei dettagli sul viso della ministra, cerco di ritrarla donna al posto di un
qualunque funzionario di uno dei tanti governi fantoccio sparsi per il pianeta.
Provo a cercare la paura nei suoi occhi, quella che deve aver visto il mese
scorso scampando ad un attentato a Mosul, in Kurdistan, al nord, in cui hanno
perso la vita alcuni uomini della sua scorta. Ha gli occhi lucidi, ma non
piangeva, non era commossa, non lo credo, ma aveva gli occhi lucidi. A me
tornava solo bene, la fotografia e i dettagli ne guadagnavano, ma tutto mi
pareva assurdo, anche me che stavo lì e non capivo ciò che diceva. Allo
scoccare del 20esimo minuto ci interrompe.
“Is it ok? I gave you 20 minutes, I think it’s enough...”. In meno di 5 minuti
siamo di nuovo in strada e per rispettare il filone dell’assurdo dato alla
mattinata ci schiaffiamo nella rosticceria più unta di tutta Baghdad, appena
fuori il palazzo del ministero. Mentre mangio felafel mi accorgo di essere
senza un bottone della camicia: dalla vita di strada alla ministra e ritorno in
circa mezz’ora. Chiedo a Karim dell’intervista: “Ha detto cose interessanti di
quando era oppositrice di Saddam e in quanto kurda ha parlato degli stermini
di massa in Kurdistan. Ha parlato della sua terra e del Partito Democratico del
Kurdistan da cui proviene. Poi però ha tagliato corto sulla resistenza, ha detto
che gli Iracheni sono il bersaglio, quindi non è resistenza ma terrorismo.
Infine ha detto che “gli Americani non sono truppe di occupazione e che
aiutano l’Iraq fino a quando non sarà in grado di formare una polizia e un
esercito adeguati”.
Va bene, abbiamo intervistato una ministra irachena nel luglio 2004, forse
molti ci invidieranno. Rimpiango di non parlare l’arabo, forse gliel’abbiamo
perdonata per questa volta, la prossima non ci faremo rifilare queste cazzate.
Nel pomeriggio Salman mi ha affidato ad un suo amico, Masar, e se mi è
concesso ripristinare la palma al personaggio della giornata scelgo
decisamente Masar rispetto alla ministra. Non ci crederete ma questo pazzo
(26 anni, giornalista e scrittore di storie - donnaiolo nel tempo libero) mi ha
portato in un mercato in un quartiere sciita vecchio e povero che si chiama Al
Hurria (la Libertà). fatto sta che, dopo la decima volta che ha risposto alle
mie paranoie mentre cercavo di filmare dal finestrino della macchina con un
“It’s safe to shoot with your camera, no problem”, allora gli ho detto:
“Really? Well, ok, go down, let’s shoot inside the market...!”, ”Ok, no
problem!”, ma a dir la verità un po’ sorpreso. Beh, siamo scesi con la
videocamera e ho cominciato a riprendere di tutto, scenari pazzeschi, pesci
agonizzanti nella vasca da bagno con 1 dito d’acqua, vecchietti secchi con
turbante e narghilé che tiravano dadi o giocavano a domino, un fruttivendolo
che ci ha raccontato di essere stato torturato dagli Americani e ci ha mostrato
la cicatrice delle catene ai polsi e un tatuaggio sul braccio fatto una volta
liberato che diceva: “La vita è una tortura”, ragazzi che si lamentavano per la
mancanza di luce, acqua, corrente, altri che chiedono più sicurezza e non
vogliono che gli Americani se ne vadano, e poi bambini, polli, montagne di
angurie...: un sottobosco pazzesco.
Masar è un personaggio davvero in gamba: sveglio, sincero, creativo,
affettuoso. Dopodomani nel tardo pomeriggio cercheremo di incontrarci tutti
e 3 con Salman (che oggi ad un certo punto ci ha lasciati), voglio intervistarli
lungo il Tigri al tramonto, 2 amici, Salman sunnita e Masar sciita. Con loro
potrebbero nascere delle idee per la prossima volta che torno qua (sì, avete
letto bene, ci torno - Baghdad non è quel posto che la tv ci fa credere che sia),
magari un cortometraggio, raccontare una storia, ambientarla nella Baghdad
profonda dove gli antichi fasti e i vicoli marci di fogne a cielo aperto
dischiudono ancora una remota poesia irretita dal filo spinato (ovunque
presente...).
Abbiamo girato per la città in macchina, abbiamo filmato i muri, la gente, i
palazzi, le piazze...Una giornata senza Karim mi ha fatto bene. E’ stanco, forse
confuso, un po’ nervoso... I 6 mesi di permanenza finiranno tra pochi giorni,
immaginate cosa voglia dire. Inoltre in questi pochi giorni ci sarebbero ancora
un sacco di cose da fare, in più lui deve badare anche al suo lavoro qui. A
proposito: quanto manca al ritorno? Non lo so. So che il 24 sera sarò a
Milano (…vale la pena tornare?), ma non so ancora quando lascerò Baghdad.
Karim deve passare un pomeriggio all’ufficio dell’UNICEF ad Amman. Noi
ripartiamo il 24 mattina che è un sabato. Ma il venerdì è festivo nei Paesi
arabi. Quindi il giovedì pomeriggio deve essere ad Amman. Pare che il volo
del giovedì mattina non gli consentirebbe di essere in orario all’UNICEF. Così
Karim partirebbe mercoledì mattina. Ma a me 2 giorni sembrano così pochi.Ci
stiamo pensando: con Salman e Masar mi sento al sicuro, forse io riparto
giovedì mattina per Amman (ma a questo punto perché non venerdì?). Ma
sapete qual è il punto? Che il calore della gente qui è particolare. Forse gli
proviene dal passato: quando una civiltà è stata abituata per secoli ad
attraversare il deserto conosce bene il valore dell’ospitalità. E qui mi sento a
casa. E scusate se ho qualche ferita dell’anima da farmi medicare qui... State
bene, a presto...
Ps: è da poco passata la mezzanotte. Stavo salvando lo scritto quando si è
sentito un botto tremendo, più sordo e cupo del solito. Anche questo non
doveva essere molto distante, forse non più di 500mila persone da qui...
domani sentiremo alla televisione a quanto ammonta questa volta il bottino
di Signora Morte...
giorno 11 – Anche i figli di Allah sono dei cops
Eccoci di nuovo ad Amman. Siamo arrivati ieri sera, abbiamo viaggiato di
giorno in macchina, una di quelle che per mestiere fanno avanti-indietro
Baghdad-Amman: chi l’avrebbe detto? Attraversare il deserto, 10 ore di
viaggio tra il nulla... Ma il pezzo pericoloso (Baghdad-Ramadi), il primo,
quello l’avevamo fatto già qualche giorno prima e ci era sembrato tutto
sommato sicuro, quindi perché non farla tutta? Karim aveva da fare oggi qui
ad Amman presso l’ufficio dell’UNICEF di Amman e non c’erano voli
disponibili per essere qui in tempo, e così...: 12 giorni di Baghdad. Pochissimi,
doveva essere 1 mese all’origine, poi avevamo detto 3 settimane, poi la
malattia di Karim, quindi il tempo che si è ridotto inesorabilmente, 18 giorni,
16, poi 13, alla fine siamo tornati anche un giorno prima. Quello che siamo
riusciti a fare in 12 giorni (e a 50 gradi) ha del miracoloso, ma che peccato!
Sarebbe bastata forse una settimana in più per fare cose inimmaginabili:
Falluja tra la resistenza (una di queste notti ho incontrato in sogno il Saladino,
come Francesco di Assisi, e questi mi accoglieva pacificamente - figurarsi se i
miei sogni non dovevano essere a sfondo mistico...), incontrare ragazze che si
prostituiscono con i militari USA (mettiamocelo in testa: dove c’è un esercito
c’è la tortura e c’è la prostituzione, sono la stessa cosa, è la cosa più facile da
prevedere, non fingiamo di meravigliarci, perché la guerra è l’affermazione del
maschio, ma ne parlerò), poi abbiamo saltato per mancanza di tempo
l’incontro con la Lega delle donne (esiste da 20 anni, ci avrebbero fatto una
panoramica del passato), poi qualche esponente dei comunisti (forse coloro
che avrebbero governato in Iraq dalla fine degli anni ‘70 se la CIA non avesse
aiutato Saddam a prendere il potere contro il solito pericoloso rosso e contro
l’Iran - in questi ultimi 25 anni i maggiori oppositori eliminati nell’acido e nel
tritacarne erano comunisti), altre interviste per la strada, nei locali dove si
fuma il narghilé e altre cose con Salman e Masar. Niente.
Rimarranno un rimpianto. Almeno per ora. Perché sto pensando di tornare a
Baghdad. Sì che ci torno. In questo momento Karim è all’UNICEF e io sono in
casa da solo. Voglio scrivere di questi ultimi giorni e poi di tante cose che ho
tralasciato qua e là perché la sera ero troppo stanco per ricordarmele tutte.
Chissà se ora mi torneranno alla mente mentre sto scrivendo.
Innanzi tutto cominciamo con l’episodio più fantascientifico del viaggio,
diciamolo pure: il rischio più grosso che abbiamo corso. Era il 20 sera,
martedì, esattamente la sera prima di partire. Ci siamo ritrovati al pomeriggio
con la decisione presa di partire l’indomani mattina e un sacco di
appuntamenti stavano svanendo nel nulla e le ore a nostra disposizione ci
sfuggivano tra le mani. Abbiamo chiamato Ava, la pittrice, che avevamo
incontrato il giorno prima alla Biblioteca nazionale dove siamo stati per
intervistare il direttore e dove abbiamo intervistato anche Bassam, lo scultore,
che ha realizzato insieme ad altri la statua che ora sostituisce quella di
Saddam, quella che il mondo intero ha visto cadere tirata con i cavi da un
carro armato americano.
Avremmo dovuto avere con Ava appuntamento il giorno seguente, quindi
l’abbiamo chiamata verso le 19 chiedendole di poter passare da lei per quella
che sarebbe stata la nostra ultima intervista prima della partenza (ci
tenevamo).
Lei gentile ci ha aspettato a casa dove ha il laboratorio. Casa sua (vive dai
genitori) non è lontana da Al Mansur, ma è in uno dei quartieri più ”in” di
Baghdad, dove abitano tutte le autorità. C’è subito un check-point prima di
entrare nel quartiere e poi prima di arrivare a casa sua altri 3. Ci ha dato uno
strappo Seif con un suo amico autista. Già al primo check-point l’impatto non
è stato dei migliori (era poco prima del tramonto, c’era ancora luce). Erano in
3 con il mitra in mano. Ci hanno fatto fermare e chiesto dove andassimo.
Karim gli ha detto “a trovare un’amica che abita poco più avanti” (avevamo le
indicazioni, non eravamo mai stati da Ava). Sembrava tutto tranquillo, ma
uno dei 2 gorilla che erano rimasti seduti ad un certo punto si alza e fa cenno
all’altro di aggirare l’auto dall’altra parte.
Io, accortomi dei 2 impazziti, guardo questi e gli faccio con un cenno: ”Salam
aleikum”, che è il modo di salutare in arabo, letteralmente significa: ”La pace
sia con te”. E’ una di quelle cose alle quali in genere nessun arabo si sottrae,
anche il tuo miglior nemico se ti augura la pace tu devi rispondere: ”Walekum
salam”, ovvero: “Anche con te sia la pace”. Di solito funziona.
Questi invece mi ha guardato imbruttito e non mi ha neanche risposto. Karim
da dentro l’auto mi fa: “Stai zitto, lascia stare”...e intanto si mette a ridere
perché la scena era troppo comica: io che ingenuo faccio lo sforzo di salutare
in arabo e il tipo che manco mi risponde ma con il mitra in mano continua a
guardarmi in cagnesco. Mi sono trattenuto a stento, gli stavo per ridere in
faccia. Era comica la scena, di una comicità esilarante. Con tutti i terroristi,
kamikaze, assassini che si aggirano per Baghdad, noi, i più sconclusionati
pacifisti che la città abbia mai ospitato da qualche secolo a questa parte
guardati in cagnesco da un gorilla stupido e gonfiato che solo lui sa ad un
certo punto cosa abbia visto di sospetto in noi e nella nostra macchina. Vai a
pensare quale viaggio mentale si sarà fatto: non ci provo neanche. Vabbeh, il
tizio che ci stava parlando al finestrino (il capo) fa cenno che si può
proseguire, io lo interrompo in inglese: ”Scusi, io e quest’altro (Karim) più
tardi torneremo indietro a piedi perché la macchina che ci verrà a riprendere,
un’altra, non questa, la facciamo attendere a questo check-point. Si può
tornare a piedi? E’ sicuro?”. “Ma sì, certo, che problema c’è?...”. Vabbeh, ci
muoviamo, superiamo di slancio gli altri 3 check-point, arriviamo a casa di
Ava, suoniamo, esce, salutiamo Seif, entriamo in casa di Ava, ci accoglie, ci
porta nel sua stanza-laboratorio, la intervistiamo, la salutiamo, ci diamo
appuntamento a Roma ad agosto (probabilmente passerà da Roma
quest’estate e io dovrei essere lì montando il documentario - la villa di Ava era
niente male, lei dice costruita da suo nonno nel ’66, i suoi devono essere
gente di affari, ma pare pulita, lei kurda e di famiglia da sempre oppositrice di
Saddam non ha potuto frequentare l’accademia d’arte: ”Mi hanno detto: sei
kurda, non sei iscritta al partito e vuoi entrare in accademia? Scordatelo”. Così
è autodidatta). Karim ed io prendiamo quindi a camminare nella notte in
direzione del primo check-point dove ci avrebbe atteso Duraid “I-DentiSpaccati-Del-Dinsosauro”. Questo quartiere sembra una zona residenziale di
Hollywood, con grandi ville, grandi palme e grandi gorilla (non nel senso di
scimmie, ma qualche dubbio a proposito rimane...).
Un casino infernale di generatori. Sì, chiamali generatori … Siccome per
alimentare simili ville (aria condizionata in tutte le stanze a pieno regime,
corrente varia, televisioni, luci, e quant’altro) ci vuole uno sproposito di watt,
quando la corrente manca (ed evidentemente succede anche nei quartieri
”in”...) più che un generatore sono dotati di motori che sono in pratica dei
reattori per aeroplani, ingabbiati in una struttura di ferro grande come la
gabbia di un leone, con un serbatoio di benzina grande quanto una vasca per
trote. Sembra di stare su una pista di decollo di un aeroporto con tanti aerei
che stanno rullando i motori, o sull’asfalto di un rettilineo di partenza di un
granpremio di formula 1 se preferite. Una puzza di benzina tremenda, un
frastuono, un calore inenarrabile (perché oltre ai già normali 50 gradi l’aria è
ulteriormente riscaldata da queste turbine).... ma tanto ognuno è barricato in
casa con i doppi vetri e l’aria condizionata (ed evidentemente qui in Iraq la
benzina costa talmente poco che è meglio consumare vasche e vasche di
benzina che non pagare la bolletta della luce...). Beh, quindi Karim ed io
prendiamo a camminare per questi viali (Karim sperduto nel buio come al
solito che brancolava come un formichiere ubriaco): “Di qui Karim...”, “Ma non
siamo arrivati per di là?”, “No...”. Primo check-point, secondo... Siamo dunque
in mezzo a un viale, buio. Ad un certo punto intravedo 2 ombre avvicinarsi, lì
per lì ho avuto una reazione di semplice sorpresa. Ho dato per scontato che
fossero 2 agenti della polizia del check-point e quindi ho dato per scontato
che tenessero in mano un mitra (mi sembrava di intravedere pure quelli), ma
noi eravamo ancora sotto al lampione di un incrocio, quindi ho pensato
vedessero bene che eravamo 2 persone normali ed innocue che stavano
passeggiando e che quindi si stessero dirigendo verso di noi per affari loro
diretti altrove.
Invece no!! Quelli erano più spaventati di noi (anzi, noi non lo eravamo per
niente, io per i motivi appena citati, Karim perché proprio non li aveva visti
avvicinarsi). “Stop!”, e altre frasi in arabo che io non ho capito.
A quel punto Karim si blocca (anzi si paralizza) e mi dice: “Alza le mani in alto
e getta a terra la borsa”... Senza indugio anzi prontamente appoggio la borsa a
terra (con dentro la videocamera) e alzo le mani ben in alto.
I 2 tizi si avvicinano urlando sempre di più, mitra puntato. Accorre un terzo
che sentite le grida e forse non consapevole della scena sin dall’inizio si
precipita e quando è ormai a pochi metri da noi sgancia la sicura al suo
mitragliatore (avete presente i film americani dove se non si sente almeno
una decina di volte una sicura di arma da fuoco sganciata viene classificato
automaticamente nella collana “film della nonna”?). Il rumore è il ”click-click”
su cui la narrativa televisiva americana ha tirato su milioni e milioni di
ragazzini in tutto il mondo (un rumore così familiare a tutti quanti noi, ma lo
abbiamo mai sentito dal vivo? Questa si chiama colonizzazione culturale, ce
ne siamo mai accorti? Conosciamo a memoria e familiarmente qualcosa che
non fa parte della nostra vita quotidiana: il click-click l’abbiamo
probabilmente sentito miliardi di volte alla televisione ma mai dal vivo.
Questo è essere colonizzati culturalmente). Gli Americani hanno vinto la
guerra in Iraq perché erano già presenti nell’immaginario collettivo dei
ragazzini iracheni ormai da generazioni. E quei ragazzini ora sono gorilla tra i
20 e i 30 anni al soldo del miglior offerente (gli Americani).
Quel coglione che ha sganciato la sicura al suo mitragliatore venendo verso di
noi, 2 poveri pacifisti sconclusionati persi nella notte, quel rumore (click-click)
per la prima volta l’avrà sentito da ragazzino in un telefilm americano
(sicuro!).
C’è una scritta su un muro a Baghdad: “Grazie America: adesso anche i figli di
Allah sono diventati dei cops”. Chiaro? Chiaro???? La sintesi è perfetta.
Il significato di quella scritta sul muro noi l’abbiamo vissuta a distanza
ravvicinata e non è stata una bella esperienza. La volgarità della sottocultura
proliferante alla periferia dell’impero vomitata su di noi da un imbecille.
Ecco quello che è stato quel “click-click”. Ero più offeso da quel click-click che
spaventato. E se comunque ero spaventato, la cosa che mi faceva più paura
era l’imbecillità di quel gorilla. Morire per uno sparo? Va bene. Mentre sto
andando a Falluja, colpito da un proiettile vagante. Va bene, ci sta. Ma da una
smitragliata di un imbecille che si sta vivendo il suo personalissimo film da
robocop, madonna che paura! Non avevo paura di morire, ma di morire in
maniera così stupida. Eccheccazzo, si muore una volta sola! Cos’altro?
Avevamo già le mani alzate, cosa potevamo temere? Non avevamo cattive
intenzioni, eravamo disarmati, innocui con le mani in alto. Ma bastava un
niente in quei lunghissimi istanti. Non so, uno scoiattolo sonnambulo che
fosse cascato in testa proprio a quel gorilla e “tra-tra”. Erano spaventati, forse
sì, all’inizio. Ma poi ci hanno visti, dai... Ma avete presente Karim ed io? Ma
dai... Allora in loro dopo lo spavento è subentrata la spavalderia, forse il “clickclick” è arrivato quando nella testa di quel gorilla si era proprio nella fase di
passaggio, dallo spavento alla spavalderia (cazzo, quante cose sono successe
in quella testa in una frazione di secondo: troppe per un cervello così
piccolo...). Allora si è messo come a danzare intorno a noi, con il mitra in
mano. Ormai sicuro di aver immobilizzato e reso inoffensivo l’avversario
tramutava l’adrenalina in eccesso per lo spavento in euforia e spavalderia.
E si pavoneggiava. “Allontanatevi dalle borse...”... Cazzo! Avete presente la
borsetta da intellettuale di Karim? Una borsettina che non ci sta nemmeno
una pistola smontata messa per lungo! E la mia? Una specie di borsa sportiva
da partita “scapoli contro ammogliati” di una marca contraffatta, che già con
una videocamera dentro a mala pena sta insieme (un giorno o l’altro per il
peso si sfonderà, l’ho presa così proprio per non dare nell’occhio).
”Sedetevi, allontanatevi, non parlate tra di voi, non fate questo, non fate
quello”: ostentazione del potere. Fare o ordinare una cosa non perché serva,
ma perché comunica un sottotesto: io ti sono superiore perché ho un’arma in
mano. E allora il mio film invece si intitola: “tu sei un imbecille con o senza
arma in mano“. Una scena paradossale. Come se non bastasse, ho scoperto
che nelle situazioni di pericolo, a Karim scatta un meccanismo di autodifesa
per cui comincia a ridere. Che scena! Il gorilla chiede il passaporto a Karim:
nazionalità algerina (gli Algerini, dai gruppi islamici armati degli anni ‘90 in
poi, vengono considerati dei sospetti terroristi in particolare tra gli arabi che
pensano di conoscerli bene...), il tipo già si gongola pensando di aver
sgominato un tentativo di attentato a qualche ministro o presidente di
partito... Karim stava già per ridere. Poi prende la borsetta da intellettuale di
Karim e comincia a controllarla... Cosa c’era dentro? Dvd pirata comprati al
mercatino nel pomeriggio con immagini della resistenza di Falluja, di
Moqtada al Sadr, di Saddam e delle torture degli Americani. E il tipo che più
tirava fuori dvd più faceva uno sguardo come dire: “Ah però...”. Karim era
come una mongolfiera, stava scoppiando dal ridere eppure si tratteneva. Io
uguale...
Alla fine arrivano 2, 3 pattuglie. Scende un tipo in borghese sulla trentina
abbondante che parla un inglese sciolto, gentile ma fermo. Interroga prima
Karim, poi me. In disparte, interrogatorio incrociato. Io sono stato il secondo,
da panico. “Mi dica, avete relazioni con un ministro?”...oddio, e che avrà detto
Karim? “Mah, diciamo che conosciamo una persona che conosce un ministro
e che quindi abbiamo avuto l’occasione di incontrarlo...”. “E’ vero che lei sta
facendo un documentario?”, oddio adesso mi sequestra la camera con le
videocassette....: “Mah, più che un docuementario, ho giusto con me una
videocamera e perciò ogni tanto faccio delle riprese in un centro per
bambini...”. Risposte esatte, pare, ma il tipo non convinto mi dice: “Dunque
voi eravate a trovare un’amica. Saprebbe tornare alla casa di questa
amica?”...qual è la risposta esatta? E se poi si ritorcono contro Ava?
“S..s..s..sì”... “Bene, allora salga sul fuoristrada e ci porti da lei”... Sono in 4, uno
guida, a fianco davanti sta questo in borghese, dietro io in mezzo a 2 gorilla
della polizia irachena con il mitra fuori dal finestrino. “E se proprio stasera a
qualcuno della resistenza gli gira di lanciare un assalto contro la polizia
irachena? Io che c’entro?”. Mi sentivo bersaglio, non so come mai, avevo
questa strana sensazione. Ho pensato che se fossi caduto proprio in quella
circostanza Vespa si sarebbe fatto le pippe dalla felicità pensando di aver
trovato l’anello mancante tra la resistenza irachena e l’eversione anarchica
italiana. Arriviamo alla casa di Ava, la chiamano, si avvicina al fuoristrada,
guarda dentro, mi saluta stranita, la salutano. Si riparte, torniamo al checkpoint. Fermi, ce n’è un’altra, non è finita. Noi avevamo appuntamento con
Duraid “I-Denti-Spaccati-Del-Dinosauro” che sarebbe dovuto venirci a
prendere al primo check-point. Ormai era passata un mezz’ora. “Senta, c’era
una macchina che ci aspettava al primo check-point, adesso chissà se ancora ci
aspetta... Come torniamo a casa?”... chiedo mentre mi stanno riportando al
check-point: “Tranquillo, lo sappiamo, è lì che vi aspetta”...ah, bene. Ma non
era Duraid (che infatti si era perso, o forse visto il tipo di quartiere aveva fatto
finta di perdersi e girata la macchina se n’era tornato indietro), era Seif che era
stato bloccato anche lui con l’autista mentre stava tornandosene a casa dopo
averci lasciato!!!! Ci stava aspettando al primo check-point da quasi 3
ore!!!!! Il tempo di portarci da Ava e al primo check-point avevano fatto il
cambio della guardia, perciò quando è tornato non sapevano chi fosse. Lui gli
ha raccontato di aver accompagnato degli amici a casa di una persona e questi
gli hanno risposto: “Va bene, allora aspettiamo insieme che i tuoi amici
ritornino (?!?!?!)”. Questa volta la frase che per scherzo Seif mi ripete me la
sono meritata: “Kullu min ek!”, ossia ”Tutta colpa tua!”. Eppure alla fine è
finita a tarallucci e vino, il poliziotto in borghese, Seif, l’autista, Karim ed io.
“Ci scusi per il disturbo, noi siamo qui per garantire la sicurezza anche a voi
occidentali che ci state aiutando a ricostruire questo Paese. La prego di
scusarci, lei è sempre il benvenuto qui in Iraq...”, mi ripeteva il poliziotto in
borghese.
Tutto è bene quel che finisce bene.... Più tardi a casa ci ha chiamati Ava, per
assicurarsi che tutto fosse andato bene, ci ha detto che il punto dove ci hanno
fermati era proprio davanti alla casa di Pachachi, uno che fino a qualche mese
fa era candidato al ruolo occupato attualmente da Allawi (che abita solo poco
più in là), ossia primo ministro del governo provvisorio. Karim è già rientrato
dall’UNICEF, nel frattempo è passato Raed, sì, l’amico di Salam Pax (avete
comprato il libro???). Dice che ha perso i contatti con Salam. Domani ripassa
di qua per le 16 e proviamo a lavorare a una sceneggiatura.
E’ stato molto gentile. Io sono stanco (Karim è di là che dorme, sono le 18).
Mi fermo qui. Ora mi preparo un bel narghilé e mi sdraio sul divano. Un po’ di
tranquillità... “Allah abu el kher”, dio è padre del bene, dicono in Iraq quando
stai per goderti una cosa.... Domani sera si riparte per l’Italia (decollo alle 3 del
mattino, ve l’ho detto che l’aeroporto di Amman funziona solo di notte!!),
alle 9 sono alla Malpensa.
Un abbraccio, a prestissimo...