la leggenda di itxaro - La città e le stelle

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la leggenda di itxaro - La città e le stelle
sara zanghì
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la leggenda di itxaro
la città e le stelle - taccuini
la leggenda di Itxaro
La città e le stelle - 2012
Via Manfredi Azzarita, 207-00189 Roma
Tel e fax 06 332 61 614
Internet: www.cittaelestelle.it
E.mail: [email protected]
In copertina:
Bruno Varacalli - Senza titolo (particolare)
Della stessa autrice, per i Taccuini de La città e le stelle:
La nimica sorte, 2012
Un giorno di primavera all’inizio del XVI secolo,
la giovane Itxaro era seduta su una pietra nel piccolo
anfratto tra due rocce ombreggiato dalla chioma di un
albero, intenta a lavare ciuffetti di erbe sotto lo zampillo della fonte che sgorgava da un tubo di ferro infitto nella bocca di un buffo mascherone scolpito nella
parete rocciosa davanti a lei. Erano erbe officinali,
preziose per la farmacopea del tempo, abbondanti tra
la vegetazione del monte Urgull che si erge sulla baia
della Concha nella meravigliosa città basca della costa
cantabrica: Dinostia (San Sebastian), allora appartenente all’antico Regno di Navarra, esteso sui due lati
della catena dei Pirenei e comprendente terre spagnole
e francesi.
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Un lieve scalpiccio dietro di lei, Itxaro si girò ed
eccolo lì, Eneko ilmaestro d’ascia, così chiamato per
la sua bravura nel pulire dalla scorza i tronchi degli
alberi appena tagliati e da usare come travi o legnami.
Si stagliava alto e snello all’ingresso dell’anfratto, i
capelli biondi mossi dalla brezza e una luce azzurra
negli occhi felici. Un’apparizione cui Itxaro era abituata: spesso, stando alla fontana, lui arrivava per
bere, diceva, ma lei capiva che andava per incontrarla
e sempre le sembrava un dio antico uscito da leggende
e miti millenari, ancora vivi nella memoria collettiva
di quei luoghi. Si salutarono sorridendosi, lei si levò
a fargli largo perché si avvicinasse alla fonte alzando
le mani a spingere indietro i nerissimi capelli ondulati, e lui ammirò la linea armoniosa della fronte, poi
posò lo sguardo sulla delicata pelle all’interno del
polso e come altre volte pensò lugar de la ternura!
ma quel pomeriggio lo disse e si avvicinò a sfiorarlo
con le labbra. Lei sorrise e gli fece una carezza sui capelli.
Eneko era innamorato di quella giovane dalla figura elegante, l’ovale perfetto e i lineamenti amabili,
la bocca sensuale e i grandi occhi splendenti di blu
come lo stellato delle notti limpide di gennaio, ma era
intimidito dal suo atteggiamento schivo. Finalmente
quel pomeriggio, incoraggiato dal suo gesto, riuscì a
dirle di amarla e la strinse in un abbraccio che lei ricambiò. Le chiese se voleva sposarlo e lei disse sì, ma
a patto che vivessero nella casetta di pietra sulle pendici alte dell’Urgul che domina il paesaggio fino all’immensa cerchia del mare da cui emergono le verdi
colline. Lei, orfana dei genitori sin da bambina, abitava lì con la nonna che l’aveva cresciuta e educata e
le aveva trasmesso la conoscenza delle erbe officinali
e il mestiere di medica empirica e levatrice.
Eneko accettò volentieri, si sposarono in breve
tempo e dopo dieci mesi Itxaro mise al mondo una
bambina e, potendola affidare alla nonna ancora attiva e forte nonostante fosse quasi ottuagenaria, continuò ad assistere nel parto le donne del villaggio e
tutte le persone che avevano bisogno di cure; e non
per avidità di denaro poiché, come aveva fatto la
nonna, soccorreva gratuitamente i poveri e a maggior
ragione dopo aver sposato Eneko il cui guadagno era
sufficiente ai bisogni della famiglia.
Ebbero altri due figli e vivevano felici in quel-
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l’ambiente sociale in cui erano inseriti musulmani,
provenienti da un’antica penetrazione araba, ed ebrei
che dal tempo della diaspora erano sparsi dappertutto.
E tali gruppi etnici vivevano in reciproca tolleranza
delle diverse religioni, pacificamente anche con i nativi baschi in buona parte cristiani e altrettanto tolleranti, essendo persone libere per definizione. Nella
loro lingua, misteriosa come le proprie origini, chiamano il loro paese Euskadi, (terra degli uomini liberi)
e con fierezza ricordano che furono dei valorosi montanari baschi a sconfiggere l’esercito Carlo Magno
nella battaglia di Roncisvalle del 778, impedendogli
di occupare il loro territorio. E non fu cosa da poco,
poiché le altre zone dei Pirenei conquistate da Carlo
Magno, che ebbe dal papa la corona del Sacro Romano Impero, furono soggette all’intolleranza religiosa per opera delle gerarchie cattoliche. Invece, la
Navarra per lungo tempo rimase fuori dall’egemonia
cattolica, il cristianesimo era penetrato tardi e più che
altrove era contaminato da elementi delle religioni pagane e da ataviche credenze in culti magici ed entità
mitologiche, come ninfe e folletti. Poche le chiese cattoliche, e rari i sacerdoti che cercavano di cristianiz-
zare quelle contaminazioni modificandole in altre
forme magiche, quali l’uso di acqua santa, candele benedette, rosari, reliquie.
La popolazione, pertanto, era salva dagli orrori dell’Inquisizione e continuava a dedicarsi ai lavori artigianali, all’agricoltura e ai commerci che, come negli
altri paesi europei, fervevano in quel territorio sin dal
medioevo e vi partecipavano le donne. C’erano contadine filatrici tessitrici sarte ricamatrici pellicciaie
merciaie vasaie e decoratrici, lavandaie tintore stiratrici locandiere miniaturiste e herbarie, mediche empiriche e levatrici. Queste ultime erano tenute in
grande considerazione per le loro capacità di curare
le malattie e intervenire efficacemente nei parti difficili. Alcune di loro, date le credenze dei tempi, avevano nomea di streghe e pertanto che avessero anche
la capacità di compiere dei malefici ed erano temute
ma tollerate nella convinzione che si trattasse di un’attitudine magica nativa non dovuta a influenze diaboliche, come invece era diffusa opinione in molti
luoghi cristiani dove le streghe, come gli eretici, erano
perseguitate dall’Inquisizione e spesso arse vive sul
rogo. 1
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Nel 1512, però, la situazione mutò: il re di Spagna
Ferdinando il cattolico, cogliendo l’occasione di una
guerra scoppiata in Navarra tra eredi al trono, si inserì nella mischia e conquistò la parte del regno a suddei Pirenei, detta alta Navarra, che poi associò allo
Stato spagnolo completandone l’unificazione e realizzando il sogno della consorte regina Isabella morta
poco più che cinquantenne otto anni prima.
Non furono contenti gli abitanti di quel territorio
di perdere la loro indipendenza e di finire sotto il dominio spagnolo di cui conoscevano i metodi, soprattutto dai racconti di ebrei e musulmani rifugiatisi in
Navarra per essere stati cacciati dal regno di Spagna
in seguito all’introduzione della Santa Inquisizione
proprio per iniziativa delle maestà cattoliche Isabella
e Ferdinando. 2
Perciò molti baschi erano accorsi a combattere
contro l’offensiva spagnola, e tra questi anche Eneko
preoccupato come gli altri, ma era stato vano per la
potenza schiacciante dell’esercito di Ferdinando.
Completata l’unificazione della Spagna, il re cattolico pensò subito di pulire il territorio di nuova conquista e il mezzo adottato fu di estendervi la Santa
Inquisizione che nelle terre del reame di Spagna aveva
già arso vivi più di tredicimila persone, e il Collegio
giudicante cominciò a lavorare alacremente per eliminare anche lì ebrei, musulmani, omosessuali e
quanti erano sospettati di stregoneria, in particolare le
donne guaritrici. La popolazione, pur non protestando
per paura, palesava lo scontento chiudendosi in casa
anziché accorrere allo spettacolo dei roghi, allora il re
Ferdinando chiamò un vescovo idoneo per istruire i
sacerdoti al compito che la situazione richiedeva, consistente nell’inculcare nella gente la convinzione che
l’Inquisizione fosse il giusto mezzo per liberare il territorio dagli infestatori della limpieza de sangre,3 e da
tutti quelli che facevano malefici grazie al potere conferitogli da satana. Il vescovo istruì i sacerdoti sui misogini testi aristotelici, tomistici e vari libri sacri che
definivano le donne esseri inferiori, privi di anima e
proclivi al male, e sulle teorie secondo cui la capacità
di guarire i mali era loro conferita dal diavolo, e anche
il potere di compiere malefici vari, tra cui quello di
privare gli uomini della virilità. Pertanto soggiacevano al maligno e partecipavano alle feste del saba,
luogo diabolico dove si recano di notte in volo, a ca-
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vallo di un manico di scopa, e intrattenevano anche
rapporti sessuali con satana.
Il vescovo raccomandava ai sacerdoti di spiegare
tutto questo nelle prediche e loro, per renderle più efficaci, si sbizzarrivano raccontando, come fossero fatti
storici, leggende sui poteri del maligno, soprattutto
quella sui diavoli succubi e incubi. Secondo questa,
satana, pur essendo un’entità unica e incorporea, si
materializzava e si moltiplicava assumendo forme
animalesche o umane, anche di donna e, in tal caso,
fornicava con gli uomini ricevendo il seme per generare nell’accoppiamento, in forma di uomo, con le
streghe che perciò mettevano al mondo esseri satanici
perché il seme umano era stato infestato dal diavolo.
E i sacerdoti elencavano alcuni famosi satanici di cui
parlavano leggende date come storia: Romolo e
Remo, Servio Tullio, Platone, Alessandro Magno, il
mago Merlino e lodavano l’opera della Santa Inquisizione che, bruciando le streghe, come accadeva in vari
paesi cristiani, liberava i territori dall’invasione di esseri satanici. Anche se alcune persone, tra cui Itxaro
ed Eneko, sostenevano che i preti raccontassero fandonie, e motteggiavano sui diavoli succubi e incubi,
quelle prediche avvelenavano gli animi, incutevano
paure e inducevano sospetti verso le guaritrici del territorio. Se un bambino nasceva morto o moriva la partoriente, la levatrice cadeva in sospetto e così anche la
guaritrice se un malato non risanava. In ogni caso,
quelle donne erano sottoposte all’interrogatorio dell’inquisitore e, poiché negavano d’aver fatto malefici,
erano torturate atrocemente: se continuavano a negare
finivano con il morire sotto le torture, se non resistevano e dichiaravano di essere colpevoli come spesso
accadeva perché gli inquisitori davano loro l’illusione
che confessandosi si sarebbero salvate, erano bruciate
vive.
Alcune di quelle donne basche erano già finite sul
rogo, perciò Itxaro agiva con prudenza e quando giudicava che un malato fosse grave, ne informava i familiari dichiarando che il suo intervento avrebbe
potuto essere inutile, ma le davano fiducia e così si
salvava nel caso le sue cure non andassero a buon
fine.
Erano trascorsi già dieci anni dall’introduzione dell’Inquisizione, Ferdinando il cattolico era morto e l’infernale attività continuava sotto il suo successore,
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quando anche a Itxaro successe d’essere accusata per
la calunnia di un mascalzone. Costui, detto il nano per
la sua bassa statura dovuta al rachitismo degli arti inferiori, sottili e corti stecchi per cui camminava a
stento, era uno dei creduloni delle frottole pretesche e
si era rivolto a Itxaro per essere guarito da una malformazione genitale congenita. Un mattino, mentre lei
spazzava l’aia dalle foglie portate dal vento, si presentò e le disse: “Tu guarisci tutti, perciò sei una
strega buona, liberami dall’imperfezione che mi affligge e ti ricompenserò con questo sacchetto di monete d’oro.”
“Non ti permettere di chiamarmi strega, sono una
guaritrice per le conoscenze apprese da mia nonna,
ma non posso far nulla quando un’anomalia è presente
dalla nascita, come quella delle tue gambe.”
“Non si tratta delle gambe, ma di una più grave disgrazia dovuta al maleficio che una strega fece a mia
madre quando era incinta di me… e penso che tu potrai annullarla, guarda qui…” E con gesto veloce aprì
la patta dei pantaloni e mostrò una mostruosa protuberanza simile alla testa di un grosso ragno.
Itxaro, sconvolta, gli disse: “Mi dispiace, ma nes-
suno può correggere un’imperfezione di nascita perciò ti consiglio di rassegnarti e di non farti rubare i
soldi da false promesse.”
“Non è vero, mi hanno detto che tu fai miracoli,
perciò aiutami.”
“I miracoli li fanno i santi, se sei devoto di qualcuno di essi, pregalo!”
“So che li fa anche satana, di cui sei seguace, perciò pregalo che ti dia anche il potere di liberarmi da
questa sofferenza.”
Itxaro si arrabbiò: “Come ti permetti di insultarmi,
ignorante e stupido che sei, vattene subito altrimenti
ti rompo la testa con questo bastone!”
Quello bestemmiò e se ne andò pieno di rancore
convinto che lei non avesse voluto aiutarlo e, per vendicarsi, si recò dall’inquisitore del luogo e gli raccontò
una versione architettata lungo la strada: si era innamorato di Itxaro e, nonostante sapesse che era una
strega, aveva avuto l’ardire di corteggiarla sperando
che lei cedesse perché le avrebbe donato un sacchetto
di monete d’oro. Lei gli ripeteva di essere una donna
onesta e poiché lui insisteva, un giorno si arrabbiò e
gli disse non importunarmi più, brutto nano! Allora
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lui, reagendo in modo sbagliato (sì, lo ammetteva),
sbottonò i pantaloni e le mostrò il membro eretto dicendo: “Guarda, non ti sembra quello di un gigante?
Vedrai come ti farò divertire!”
Itxaro tentò di colpirlo con la scopa, lui riuscì a
spostarsi gridando che se ne sarebbe andato e, mentre
si avviava, lei disse: “Vedrai come ti divertirai tu!”
“Mentre attraversavo il bosco” – continuò il calunniatore – mi cominciarono forti dolori al basso
ventre tanto che mi dovetti sedere a terra e, portandomi le mani sulla zona dolente, sentii una forma
strana, allora mi scoprii e guardate che ho visto!” Mostrò la mostruosità all’inquisitore – un uomo giovane
da poco tempo delegato a quell’incarico – che si coprì
gli occhi con un’esclamazione di raccapriccio. E il
nano: “Vi terrorizzate anche voi per come mi ha fatto
diventare la strega, ed io, che dovrei fare? Ammazzarla e poi buttarmi dalla cima della torre?” L’inquisitore cercò di controllarsi e gli disse: “Torna da lei,
chiedi scusa e pregala di toglierti il maleficio.”
“E Vossignoria crede che non l’abbia già fatto? Appena ho visto quest’obbrobrio, mi sono trascinato da
lei, mi sono buttato in ginocchio chiedendole perdono
piangendo, ho messo ai suoi piedi il sacchetto con i
denari che avevo in saccoccia e lei l’ha respinto con
un calcio dicendomi che neanche per tutto l’oro del
mondo potevo tornare come prima, lei non aveva il
potere di annullare ciò che aveva fatto, solo togliermi
di dolori che difatti passarono subito.”
E l’inquisitore: “Mi dispiace tanto, pover’uomo,
cerca di farti coraggio, offri a Dio la tua sofferenza e
non commettere gesti inconsulti che dannerebbero la
tua anima in eterno, ma ti assicuro che ti sarà fatta giustizia.”
Il giorno dopo Itxaro fu arrestata e portata davanti
all’inquisitore che l’accusò di stregoneria riferendole
la versione del denunciate.
Lei negò, espose la verità dei fatti, e con orgoglio
protestò che non era una strega, non faceva malefici e
neanche credeva che esistessero.
L’inquisitore le contestò che nel suo racconto non
c’era alcuna ragione plausibile a giustificazione della
denuncia di quell’uomo. Lei rispose che, come tante
persone ignoranti, il calunniatore era vittima dei diffusi
pregiudizi e perciò credendo che lei non avesse voluto
aiutarlo, si era vendicato inventandosi quella storia.
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L’inquisitore ribadì che i malefici delle streghe
erano fatti verificati e perciò era inutile che lei tentasse di negarli nel tentativo di tirarsi fuori dall’accusa. Lui aveva il modo di accertare la verità.
Intanto, mobilitate dall’angosciato Eneko, varie
persone, vincendo la paura, si presentavano per testimoniare che da Itxaro avevano ricevuto solo bene, ma
l’inquisitore non diede peso a quelle affermazioni;
magari, pensò, agivano così perché inconsapevolmente erano sotto l’influsso di quella strega. Perciò
continuò a tenerla sotto stringenti interrogatori e, poiché lei insisteva nel dichiararsi innocente senza mai
cadere in contraddizioni, un pomeriggio la condusse
nella sala delle torture e le mostrò una sedia chiodata
con le punte in alto. “Vedi? Se non confesserai di tua
volontà, sarai denudata e posta, legata, su questa sedia
finché ammetterai la tua colpa, altrimenti morirai dissanguata.”
Itxaro rabbrividì e anche l’inquisitore immag
nando lo strazio delle belle fattezze che indovinava
sotto la veste.
Riportata nell’angusta e lurida cella, Itxaro si buttò
sul pagliericcio e rimase a fissare il soffitto pieno di
ragnatele, soggiacendo al terrore di ciò che l’aspettava. Non aveva via d’uscita: se avesse dichiarato
d’essere colpevole sarebbe stata arsa viva, e con la
conseguenza di lasciare una fama di sé che sarebbe ricaduta come un’onta su suo marito e i loro figli, e certamente avrebbe messo in pericolo la primogenita,
poiché le figlie delle streghe erano considerate con sospetto. No, non si sarebbe mai dichiarata colpevole
perché non lo era, neanche sotto la tortura della sedia,
sarebbe morta straziata ma tutti dovevano sapere che
era innocente! E si tastava il corpo tremando di raccapriccio e per la paura di non avere la forza di resistere e cedere all’accusa come tante povere donne
sotto tortura. No, piuttosto si sarebbe data la morte da
sé, facendo delle strisce con la sua tunica per ottenere
una sorta di corda per impiccarsi legandola alle sbarre
della grata di ferro della finestrina. La guardò, le sembrò troppo alta e salì sullo sgabello per verificare di arrivarci con le mani. Sì, afferrò la base delle sbarre e
stava per ridiscendere a mettere in atto il suo proposito quando gli occhi le andarono al lembo di cielo
che l’apertura riquadrava: scorse un gruppo di stelle e
stette a guardarle. Fu quella luce a dissipare l’oscurità
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della disperazione facendo emergere dalla sua mente
l’idea che l’avrebbe potuta salvare?
Saltò dallo sgabello, sedette sul pagliericcio e
pensò e ripensò all’idea sviluppandola in tutti i particolari. Poi, stremata, si addormentò.
Il giorno dopo, condotta davanti all’inquisitore che
le chiese se finalmente si era decisa a confessare, rispose che niente aveva da confessare perché niente
aveva commesso.
“Vedremo se insisterai ancora a negare quando
sarai seduta sui chiodi”, disse quello afferrandola per
un braccio e cercando di trascinarla verso la stanza
delle torture, ma lei fece resistenza e piangendo gridò:
“Non mi faccia torturare, dirò tutto quello che Vossignoria vuole!”
“Io voglio soltanto la verità, perciò parla.”
E lei parlò, seguendo con attenzione quanto aveva
costruito nella sua mente: “È vero, ho fatto il maleficio al nano, ma è stata l’unica volta, prima di allora
non l’avevo mai fatto a nessuno pur sapendo di averne
il potere.”
“E come lo sapevi?”
“Mia nonna un giorno mi disse che io, come lei,
potevo fare malefici semplicemente desiderando il
male a qualcuno, ma non mi era mai accaduto prima
che mi succedesse con quell’uomo…”
“E perché a lui?”
“Perché lui ha fatto male a me… non ha raccontato la verità a Vossignoria. Mi perseguitava ovunque
dicendo di essere innamorato di me e mi mostrava un
sacchetto di denari d’oro che mi avrebbe donato se gli
avessi ceduto, io gli dicevo di lasciarmi in pace e lui
continuava a venirmi davanti. Non mi allontanavo più
da casa per proteggermi, ma tornava e sempre di mattina quando ero sola, mio marito usciva presto per andare a lavorare, i nostri figli erano a scuola e la nonna
non c’era più. Appena lo vedevo arrivare mi chiudevo
in casa e gli gridavo di andarsene altrimenti l’avrei
detto a mio marito che come minimo gli avrebbe rotto
le gambe. Per la verità fino a quel momento non avevo
avvisato Eneko per non farlo compromettere…. Per
un po’ non l’ho visto più, finché un mattino, mentre
spazzavo l’aia, è sbucato da dietro la casa e mi si è
parato davanti con il sesso fuori dai pantaloni, brandendo un coltellaccio con una mano e tendendo l’altra per afferrarmi. Ho tentato di colpirlo con la scopa,
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ma l’avrò preso solo di striscio, perché lui si è scansato e se n’è andato bestemmiando. Ero terrorizzata e
ho desiderato che il sesso gli diventasse inservibile.
Quando ho saputo da Vossignoria che gli si era trasformato in una mostruosità, ho capito che era vero
quanto mi aveva detto la nonna, ma non sono stata per
niente contenta. Le ho raccontato la pura verità, e Vossignoria mi deve credere, mi sono soltanto difesa.”
“Ti credo e hai ragione, ma c’è un problema: se tu
gli avessi rotto la testa, ti sarebbe stata riconosciuta la
legittima difesa, ma quello che è successo, prova che
tu hai un potere diabolico e perciò sei pericolosa per
la società e questo mi costringe a condannarti per stregoneria…”
“Che significa, che sarò bruciata viva?”
“Mi dispiace, è così e non posso sottrarmi al mio
dovere”.
“Deve però pensare che alle prime fiamme che mi
lambiranno, lo strazio della mia carne ricadrà sulla sua!”
L’inquisitore impallidì: “Vuoi dire che mi desidererai il male?”
“Se vossignoria mi farà arrostire come un pezzo di
carne di porco, come faccio ad assicurarle che non le
desidererò qualcosa di simile?”
“Potresti, per la salvezza della tua anima.”
“Io penso che Dio, se c’è, saprà giudicare quali
sono le anime da salvare e quelle da dannare…”
Lo disse e si pentì, timorosa di aver vanificato la
buona riuscita del suo ragionamento, ma l’inquisitore
aveva più paura di lei, e dopo qualche attimo di riflessione, disse: “Alla mia coscienza risulta che non
avevi intenzione di usare il tuo terribile potere e perciò potrei liberarti, ma devo escogitare qualcosa, non
è possibile si sappia che hai confessato, tutti devono
invece sapere che hai resistito alla tortura riaffermando la tua innocenza. Aspetta in cella, ti farò sapere quando troverò una soluzione”.
Itxaro fece l’atto di baciargli le mani, ma lui si ritrasse e le indicò la porta della cella dove, buttata sul
pagliericcio, il viso affondato sul puzzolente guanciale, soffocò le lacrime di gioia convinta di essere in
salvo.
Ed eccolo entrare, serio e sempre pallidissimo,
quell’uomo colto e vittima dei pregiudizi come qualsiasi popolano ignorante, che cercava la pace della coscienza per essere venuto meno ai doveri del proprio
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ufficio aggrappandosi al dubbio suscitatagli dalle parole di Itxaro sul giudizio di Dio. E, aiutandola a levarsi, le sussurrò: “Vieni, ho trovato il modo di
salvarti, ma tu devi giurarmi che sosterrai la versione
che ti suggerirò.”
“Oh, certo, glielo giuro!”
“Resterai qui ancora qualche giorno, poi farò chiamare tuo marito perché ti accompagni a casa e starai
a letto almeno una settimana in modo che tutti credano quanto io metterò a verbale e dichiarerò, ossia
che tu hai resistito alla tortura fino al limite del dissanguamento protestando la tua innocenza, e ti abbiamo sciolta dalla sedia e stesa per terra perché
sembravi morta, ma poi ci siamo accorti che il tuo
cuore pulsava ancora, anche se molto debolmente e ti
abbiamo appoggiato sotto il naso una pezza intrisa di
aceto, ti sei svegliata, e messa a letto, per alcuni giorni
sei stata nutrita con sangue di bue e ti sei ripresa.
Non eri più condannabile, perché il tuo caso è simile a quello dell’impiccato che rimane vivo per la
rottura della corda, e soprattutto perché abbiamo giudicato che hai potuto resistere tanto perché sei veramente innocente. Ma sappi che se tu racconterai che
ti ho liberato pur confessandoti colpevole, finiremo
ambedue sul rogo.”
“Come potrei tradire chi mi ha salvato la vita mettendo in pericolo anche me stessa?”
L’inquisitore sorrise come chi è sollevato da un incubo.
Trascorsa una settimana, fu portata a casa, su una
barella, da Eneko e un infermiere avvolta nel medesimo lenzuolo con cui era uscita dalla cella. Secondo
le istruzioni ricevute dall’inquisitore, non doveva mostrare neanche al marito il suo corpo, dire solo che le
ferite si stavano rimarginando. Invece lei, sicura che
Eneko avrebbe mantenuto il segreto, la notte gli raccontò tutto ma non poterono ridere per la ripercussione del terrore sofferto, piansero di gioia per il
pericolo scampato.
Soltanto quando, malata e ormai vecchia, comprese
di essere in punto di morte, raccontò la sua vicenda ai
figli e da allora, trasmesso per generazioni lungo i secoli, il racconto diventò la leggenda di Itxaro.
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Nota biobibliografica dell’autrice
Nata in Sicilia, vive a Roma dove ha insegnato
Letteratura italiana e storia.
Suoi libri di poesia:
Fort-da, Il Lavoro Editoriale, Ancona, 1986; Il
circo smantellato, Sciascia, Caltanissetta, 1987;
Una sospettata inclinazione, Empirìa, Roma,
1995 – 2^ edizione, con l’aggiunta di una nuova
sezione, 2002.
Di prosa: Io e loro, racconti, Empirìa, Roma,
1992; La cima della stella, romanzo, ivi. 1998,
ristampa 2006; Nebris, romanzo, ivi, 2003 (Premio Amelia Rosselli 2004) – ristampa 2004,
2010; Matilde, come una leggenda, rom. storico,
Tufani, Ferrara, 2008; Non tutto è perduto, racconti, Empiria 2011; La nimica sorte, racconto,
ed. la città e le stelle – taccuini, 2012.
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Note
1.
Nel corso del XII secolo, in alcune zone dell’Europa occidentale, si diffusero vari movi menti spirituali che, reagendo alla corruzione del clero, sostenevano il ritorno al
cristianesimo delle origini secondo il dettato dei vangeli e
degli atti degli apostoli. La chiesa cattolica li considerava
eretici e per eliminarli il papato istituì, nel 1184, il tribunale della Santa Inquisizione e i primi a essere colpiti furono i Catari, diffusi nel meridione della Francia e
nell’Italia settentrionale.
Alcuni decenni dopo, con la bolla papale a extirpanda, fu
autorizzata la tortura dei sospettati e la persecuzione contro la stregoneria. Per l’atrocità delle torture, gli accusati
finivano con il confessarsi colpevoli ed erano condannati
al rogo.
2. Dopo la conquista del vasto regno musulmano di Granada, avvenuta del 1492, Isabella di Castiglia e Ferdinando
d’Aragona che con il loro matrimonio avevano unificato i
due reami, per consolidare il proprio potere assunsero il
ruolo di protettori del cattolicesimo e difensori della limpiezza de sangre e ottennero dal papa Sisto IV il consenso
di introdurre in tutto il loro regno il Tribunale dell’Inquisizione.
Nominarono inquisitore generale il loro confessore fra
Tomas de Torquemada ed ebrei e musulmani furono cacciati da tutte le terre di Spagna e da quelle appartenenti alla
corona aragonese, come la Sicilia, meno i convertiti al cattolicesimo che, invece, furono in gran parte accusati di praticare in segreto la loro religione e finirono arsi vivi. Agli
ebrei convertiti che si salvarono dalle accuse, furono vietati
dei mestieri e, additati come marranos, (maiali), vennero
segregati in ghetti delle città dette Juderias.
Nell’operosità del Tribunale dell’inquisizione non erano
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estranei motivi economici perché sia l’espulsione sia le
condanne comportavano la confisca dei beni a favore dello
Stato spagnolo, e notevoli erano le ricchezze della nobiltà
musulmana e della borghesia ebraica. Inoltre, i cittadini
spagnoli erano esentati dal saldare i debiti contratti con banchieri ebrei riconosciuti colpevoli, beneficio del quale godette anche padre del re Ferdinando. La gloriosa impresa
di cristianizzazione della Spagna, meritò a Isabella e al marito il titolo di Maestà cattolica, concesso dal papa Innocenzo VII. La regina ringraziò devolvendo al pontefice
successivo, lo spagnolo Rodrigo Borgia, l’oro portato da
Colombo dopo la sua conquista dell’isola di Quisqueva, da
lui rinominata Santo Domingo.
3. Anticipazione delle teorie naziste e fasciste sulla “purezza della razza”.
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