icerone - i nostri tempi supplementari

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icerone - i nostri tempi supplementari
ELOQUENZA
L'eloquenza fiorisce specialmente in questo periodo di lotte civili.
Ci sono tre generi di eloquenza:
1) asiatico, caratterizzato dalla forma splendida e ridondante, mirante più
a stupire che a convincere. Principale cultore del genere fu l'oratore
Quinto Ortensio Ortalo, prima rivale poi amico di Cicerone, che per quasi
un cinquantennio prese parte alla vita forense. Cicerone ci lasciò di lui uno
splendido elogio nel Brutus;
2) attico, caratterizzato dalla forma semplice e arida. È l'opposto del
precedente e si propone come modello l'oratore greco Lisia, maestro
dell'atticismo puro. Principali cultori di questo genere furono Giulio Cesare,
Marco Giunio Bruto (l'uccisore di Cesare) e Licinio Calvo, amico di Catullo;
3) rodio, cosiddetto perché coltivato dalla scuola di Rodi, che sta in mezzo
tra lo splendore eccessivo dell'asiatico e l'aridità dell'attico. Principale
culture di questo genere fu Cicerone.
VITA (106-43 a.C.)
Nacque presso Arpino da famiglia equestre nel 106 a.C.
Studiò a Roma, sotto i più rinomati maestri di poesia, di eloquenza, di
filosofia, di diritto civile.
A 25 anni pronunciò la sua prima orazione: la Pro Quintio (causa civile per
una questione di eredità) contro Ortensio, che allora teneva il primo posto
nell'arte del dire.
Forse per sottrarsi all'ira di Silla, o anche per perfezionarsi negli studi,
si recò in Grecia, dove strinse amicizia con T. Pomponio Attico; e a Rodi
dove poté riudire Apollonio Molone (suo maestro di eloquenza), il cui genere
(rodio) seguì per tutta la vita.
Tornato in patria iniziò come homo novus la carriera politica: è prima
questore a Lilibeo in Sicilia (la sua amministrazione fu tanto retta che i
Siciliani lo scelsero a patronus, o rappresentante della provincia di Sicilia, e si
rivolsero più tardi a lui nella causa contro il pretore Verre), poi pretore e infine
nel 63 console.
È questo l'anno della congiura di Catilina: Cicerone riesce a scoprire il
tentativo e fece arrestare e giustiziare senza regolare processo i principali
congiurati, mentre Catilina, riuscito a fuggire, fu sconfitto e ucciso a Pistoia
dall'esercito di Antonio, collega di consolato di Cicerone. Per quest'opera
Cicerone ottenne il titolo di pater patriae, di cui si vantò per tutta la vita.
Il primo triumvirato (60 a. C.), con Cesare, Pompeo e Crasso, segna il
trionfo del partito democratico (Cesare), per cui incominciano i guai per
Cicerone, assertore del partito aristocratico e dei privilegi della classe
senatoria.
Clodio, tribuno cesariano, lo accusa infatti di aver violato la lex
Sempronia, per aver mandato a morte i congiurati senza il voto del
popolo (in realtà C. aveva ricevuto dal senato poteri dittatoriali).
C. si reca in volontario esilio a Tessalonica (Salonicco), i suoi beni
vengono confiscati, la casa sul Palatino viene distrutta e sulla sua area
su costruisce un tempio alla dea Libertà, inoltre sono distrutte le ville di
Tuscolo e di Formia (58 a. C.).
L'anno seguente Cicerone viene richiamato in patria, perché stava
maturando una nuova situazione politica: Pompeo, geloso delle vittorie
riportate da Cesare nelle Gallie, si era sempre più avvicinato al senato
e aveva perciò appoggiato la proposta del tribuno Annio Milone (ostile a
Clodio), che aveva chiesto il richiamo di Cicerone.
L'oratore viene ricevuto dal popolo e dal senato in modo trionfale, ottiene
che gli venga riedificata la casa a pubbliche spese, e riprende la carriera
politica (proconsole in Cilicia).
Intanto scoppia apertamente la lotta civile tra Cesare (proconsole nelle
Gallie) e Pompeo, che, preoccupato delle vittorie militari di Cesare, si era
riaccostato al senato; C., nonostante una certa sfiducia, tiene per Pompeo,
perché senatoriale e per un dovere di gratitudine.
Dopo la battaglia di Farsalo (48 a. C.), cui però non fu presente, C.
ottenne il perdono di Cesare, ma si ritirò dalla vita politica nelle sue
ville di Tuscolo e di Formia, dedicandosi ai prediletti studi di filosofia e
di retorica.
In questo stesso periodo ripudiò Terenzia, perché donna poco economa e
molto loquace (la quale sposò poi Sallustio), e si unì in secondo nozze con
Publilia, giovane ventenne di cui era tutore. L'anno seguente, mortagli
l'amata figlia Tulliola, ripudiò anche la nuova sposa, perché non aveva
partecipato sufficientemente al suo dolore.
C. non dovette partecipare direttamente all'uccisione di Cesare (44 a. C.)
avvenuta per mano di M. Giunio Bruto, ma certo si mantenne nell'intimo
costantemente anticesariano, nonostante qualche atto di formale ossequio
verso il dittatore; e certo gioì della morte, se è vero che si trovò a pochi
passi dal luogo del delitto e che i congiurati levarono i pugnali verso di lui,
gridando il suo nome.
A ogni modo Cesare fu sostituito dal collega Antonio, che inaugurò un
regime ancor più democratico e rivoluzionario; e C., che per difendere il
potere della classe senatoria aveva combattuto Cesare, a maggior ragione
combatté Antonio (Filippiche).
Improvvisamente Antonio si allea con il giovane Ottaviano, nipote ed erede
universale di Cesare, costituendo, insieme a Lepido, il secondo triumvirato:
C., che fino ad allora aveva confidato nella protezione di Ottaviano, viene
messo nelle liste di proscrizione e, dopo aver invano, tentato due volte,
dalla sua villa di Formia, di imbarcarsi per raggiungere Bruto in Grecia,
viene raggiunto dai sicari di Antonio nella lettiga, e decapitato (43 a. C.). La
sua testa fu recata a Fulvia, moglie di Antonio, e, dopo che questa si divertì a
trapassarne la lingua con uno spillo, fu esposta sui rostri.
PERSONALITÀ
C. fu un uomo di carattere, ebbe il coraggio delle proprie idee morali e
politiche: a 26 anni entrò in lotta con Ortensio contro un potente liberto di
Silla e si mantenne sempre strenuo difensore della posizione del senato
contro ogni tentativo di menomazione (Catilina, Cesare, Antonio).
Fu invece uomo di scarsa veduta politica interna ed esterna perché, a
differenza di Cesare, non comprese che i problemi di politica interna
(questione agraria) ed estera (organizzazione dell'impero) che travagliavano
la repubblica, potevano risolversi solo negando il senato, latifondista e
cattivo amministratore delle province, a f avore d i u n reg im e
sostanzialmente monarchico, fondato sulla volontà popolare.
Sotto il profilo storico-politico fu uno straordinario testimone del suo
tempo, in cui si compì il trapasso dalla repubblica al principato.
Dal punto di vista storico-culturale si propose di operare una sintesi
armoniosa della cultura romana arcaica e del pensiero filosofico greco.
Sotto il profilo letterario fu un grandissimo prosatore, il massimo
rappresentante dell'oratoria romana, il creatore della letteratura
filosofica latina e il primo rappresentante a Roma, del genere
epistolografico.
OPERE
Le opere principali di C. si dividono in quattro gruppi: orazioni, opere
retoriche, opere filosofiche, lettere.
Orazioni
A noi sono giunte 57 orazioni intere; di 20 si hanno frammenti; di 40 si
conoscono solo i titoli.
Le principali orazioni legate alla vita dell'autore sono:
1)Pro Quinctio (prima orazione).
2)Pro Roscio Amerino.
3)In Verrem: 6 orazioni in 2 actiones (o processi) (70 a.C.). Sono discorsi
di accusa, per incarico dei Siciliani, contro C. Verre, già pretore in
Sicilia dal 73 al 71 a.C., accusato di concussione (de repetundis).
La prima orazione, che costituisce la prima actio, fu pronunciata da C., le
altre 5 furono solo scritte, perché Verre, dopo la prima, se ne andò
volontariamente in esilio.
Queste orazioni sono interessanti dal punto di vista storico, perché rivelano
i sistemi di disonesto governo delle province da parte degli
aristocratici (famiglie senatorie); inoltre la quinta, intitolata De signis
(ruberie di oggetti artistici), ci dà numerose notizie che riguardano
l'arte antica.
Le Verrine già nell'antichità furono considerate un capolavoro di
eloquenza.
Le Verrine furono precedute dalla Divinatio in Caccilium, con la quale C.
ottenne, a preferenza di Q. Cecilio, di fungere da accusatore, poiché con Q.
Cecilio la causa si sarebbe risolta in una burletta.
4)Pro lege Manilia de imperio Gnaei Pompei (66 a.C.): è la prima
orazione deliberativa tenuta da Cicerone, allora pretore, davanti al popolo, a
favore di una legge, proposta dal tribuno Manilio, che assegnava a Pompeo
poteri straordinari per la guerra contro Mitridate in Oriente. Cicerone insiste
sulla gravità della guerra e propone un grandioso elogio di Pompeo.
5)De lege agraria (63 a.C.): sono tre orazioni contro una proposta di riforma
agraria, che avrebbe gravemente danneggiato i proprietari di latifondi, ai quali
sarebbero stati tolti i terreni di proprietà dello Stato che da tempo avevano
occupato (la legge fu poi ritirata).
6)Catilinarie (63 a.C.): 4 orazioni, di cui 2 tenute davanti al popolo e 2
davanti al senato, pronunciate nei giorni drammatici della scoperta e della
repressione della congiura di Catilina.
Nella prima, pronunciata in senato, C. assale Catilina con una terribile
invettiva.
Nella seconda informa il popolo della fuga di Catilina, avvenuta nella
notte dopo il primo discorso.
Nella terza informa ancora il popolo dell'arresto dei congiurati.
Nella quarta, pronunciata in senato, pur senza pronunciarsi
apertamente, fa capire di associarsi alla sentenza di Catone, che
chiedeva la morte dei congiurati.
7)Post reditum: 4 orazioni di cui le prime due di ringraziamento al senato e al
popolo; la terza De domo sua, per la ricostruzione della casa a spese
pubbliche; la quarta, De haruspicum responsis, ritorce contro Clodio le
risposte degli aruspici.
8)Pro Sestio (56 a.C.): orazione giudiziaria in cui Cicerone difende Sestio, il
tribuno della plebe che nel 57 si era adoperato per il suo ritorno dall'esilio,
accusato de vi per aver organizzato bande armate da opporre a quelle di
Clodio. Sestio fu assolto.
9)Pro Caelio (56 a.C.): orazione giudiziaria in difesa del giovane Marco Celio
Rufo, accusato, tra l'altro, di aver rubato dei gioielli a una sua ex amante,
Clodia, sorella di Clodio (con ogni probabilità la Lesbia di Catullo). C. coglie
l'occasione per colpire Clodio, attaccando violentemente la sorella, presentata
come corrotta e dissoluta. Celio fu assolto.
10)De provinciis consularibus (56 a.C.): orazione deliberativa tenuta in
senato a favore della proroga dell'imperium di Cesare nelle Gallie.
11)Pro Annio Milone (52 a.C.): accusato di aver ucciso Clodio. È il
capolavoro dell'eloquenza ciceroniana, nonostante non rappresenti il
discorso originale, per il noto episodio dei Clodiani rumoreggianti.
12)Filippiche (44-43 a.C.): 14 orazioni, di cui la più importante è la
seconda, terribile requisitoria contro Antonio, che si può definire la
condanna a morte dell'oratore, con l'intento di far dichiarare Antonio
nemico pubblico.
Devono il nome di Filippiche all'accostamento, fatto da Cicerone stesso in una
lettera a Bruto, alle celeberrime orazioni di Demostene contro Filippo di
Macedonia. A esse effettivamente si avvicinano per il rigore e l'impeto
polemico e per l'ardore appassionato con cui l'autore si impegna con
tutte le sue forze in una lotta mortale.
Le orazioni minori sono:
1)De imperio Cn. Pompei: in favore della legge Manilia (detta anche Pro lege
Manilia), con cui si dava a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate.
Eccessive le lodi per Pompeo.
2)Pro Archia poeta: in favore del suo antico maestro, cui si contendeva il
diritto di cittadinanza romana. Contiene uno splendido elogio della poesia.
3)Pro Marcello, Pro Ligario, Pro rege Deiòtaro: pronunciate davanti a
Cesare in favore di amici pompeiani.
Caratteristiche delle orazioni
C. è un grandissimo oratore: assolve perfettamente la prima funzione che
nelle sue opere retoriche assegna all'oratore: quella di docere, cioè di
informare chiaramente il pubblico sulla causa in discussione e di
dimostrare la sua tesi nel modo più plausibile e convincente dal punto
di vista razionale.
Svolge molto bene anche la funzione oratoria di delectare cioè di conciliarsi
le simpatie del pubblico procurandogli piacere. C. fa ricorso alle sue doti
di narratore vivacissimo, di ritrattista psicologicamente acuto e
penetrante, usa l'arguzia e la verve ironica e satirica talora pungente e
caustica, e la sua sterminata cultura storica e letteraria.
Quanto alla terza funzione dell'oratore quella di movere o flectere, cioè di
trascinare gli uditori al consenso suscitando commozione, ira sdegno,
compassione; C. ricorre a effetti emozionali forti e anche violenti,
soprattutto nelle perorazioni, cioè nelle parti conclusive dei discorsi.
Nell'eloquenza C. segue il genere rodio, al quale era stato avviato dal retore
rodiense Apollonio Molone. Suoi modelli sono Demostene e Isocrate.
Lo stile di C. è vario, duttile, multiforme, capace di solennità e di
magniloquenza fino alla ridondanza e all'ampollosità, ma è capace
anche, all'occorrenza di brevità, stringatezza, concisione, essenzialità.
Caratteristica dello stile ciceroniano è la concinnitas o simmetria
(cum...tum...; et...et...; due aggettivi in un membro del periodo e due
corrispondentemente in un altro, ecc.): ne risulta un periodo musicale dotato
di un suo ritmo, per cui quasi si può prevedere lo sviluppo seguente. In
tutto ciò C. è veramente il migliore rappresentante dell'equilibrata e organica
mentalità greco-romana.
Opere retoriche
Le principali opere retoriche di C. sono tre:
De oratore (55 a.C.): la più bella opera retorica di tutta la letteratura
latina, il capolavoro assoluto di C.
È in forma di dialogo di tipo platonico-aristotelico: l'autore affida il compito
di trattare l'argomento a vari interlocutori, inseriti in una cornice
'drammatica', cioè presentati in uno scenario fittizio, ma storicamente
definito.
I protagonisti sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, considerati da C. i
più eminenti oratori della generazione precedente alla sua e che erano
stati la sua guida quando, durante l'adolescenza, aveva incominciato a
frequentare il Foro.
C. immagina che il dialogo abbia avuto luogo nella villa di Crasso a Tuscolo
nel 91 a.C., pochi giorni prima della morte improvvisa di Crasso, e che vi
abbiano partecipato altri cinque personaggi minori, tra i quali Quinto
Mucio Scevola l'Augure, rinomato giureconsulto, anch'egli maestro del
giovane C.
Nel primo libro Crasso, che nel dialogo è il più diretto portavoce dell'autore,
espone e sviluppa ampiamente la tesi di fondo dell'opera: nessuno potrà
essere riconosciuto un oratore perfetto se non avrà acquisito una
conoscenza approfondita di tutti gli argomenti più importanti e di tutte
le discipline, per potere parlare con competenza ed efficacia su
qualsiasi argomento, inoltre l'oratore ideale doveva essere impegnato
a fondo nella vita pubblica. Il bagaglio ideale del perfetto oratore deve
comprendere il diritto civile, la filosofia, la storia, le scienze antiquarie, la
geografia, le scienze naturali. La personalità deve essere intellettualmente e
moralmente superiore. L'oratore deve avere una buona preparazione filosofica.
Nel II libro si passa alla trattazione sistematica delle parti della retorica.
Antonio tratta dell'inventio (la ricerca degli argomenti da svolgere),
della dispositio (l'ordine secondo cui gli argomenti devono essere
disposti nel discorso) e della memoria (le tecniche per memorizzare
ciò che si deve dire).
Nel III libro Crasso svolge i precetti relativi all'elocutio, cioè allo stile. Egli
tratta specialmente il più importante fra i requisiti dello stile oratorio:
l'ornatus, ossia l'elaborazione artistica del materiale linguistico, da
attuare con un accorto uso delle figure retoriche. I capitoli finali sono dedicati
alla quinta e ultima parte della retorica: l'actio, cioè il modo in cui l'oratore
deve 'porgere' il discorso (dizione, tono della voce, gesti).
Il De oratore è forse, fra tutti i dialoghi di C., quello scritto con maggiore cura
formale.
Brutus sive De claris oratoribus (46 a.C.): altro dialogo importante, perché
è l'unica storia dell'eloquenza greco-romana che ci sia rimasta.
In forma di dialogo ha come interlocutori Cicerone stesso, che svolge in
prima persona il discorso principale, e gli amici Attico e Marco Giunio Bruto (il
futuro cesaricida), al quale l'opera è intitolata e dedicata.
Dopo un sintetico excursus della storia dell'oratoria greca, C. sviluppa una
grandiosa storia dell'oratoria romana, presentando le caratteristiche di
circa duecento oratori.
E' chiaro che C. presenta implicitamente se stesso come il punto di
arrivo di un lento e faticoso processo di affinamento e
perfezionamento dell'eloquenza romana, come la meta e il culmine di
uno sviluppo secolare.
Gli oratori atticisti sono, sia nel Brutus sia nell'Orator, i bersagli polemici di
C., che rimprovera loro l'exilitas, cioè la povertà e l'inefficacia dello stile,
esaltando di contro la grande eloquenza, veramente attica di Demostene,
suo modello e punto di riferimento.
Orator ad M. Brutum (46 a.C.): dopo averci dato la teoria del perfetto
oratore (De oratore) e la storia dell'eloquenza (Brutus), C. ci fornisce ora
l'esemplare pratico del perfetto oratore.
L'opera è un'esposizione continuata fatta in prima persona da C. in un
unico ampio libro.
Vi è ripresa la teoria dello stile oratorio, ma le parti nuove e
interessanti sono: l'illustrazione delle differenze tra lo stile oratorio e lo
stile, rispettivamente, dei filosofi, degli storici, dei poeti; la distinzione
dei tre stili, umile, medio, sublime, collegati rispettivamente con i tre
compiti dell'oratore, docere, delectare e movere o flectere; l'ampia
trattazione della numerosa et apta oratio, cioè della prosa ritmica, con
particolare riguardo alle clausule, ossia delle sequenze prosodiche
(successione e alternanza delle sillabe lunghe e brevi) che è consigliabile
adottare di preferenza nella chiusa dei periodi e delle frasi.
Le opere retoriche minori sono:
De inventione (2 libri): testo di retorica composto in età giovanile e più tardi
rifiutato da C. stesso.
De partitione oratoria: trattato elementare di arte retorica a domanda e
risposta.
Topica: illustra i Topici di Aristotele, cioè a teoria che riguarda il ritrovamento
delle argomentazioni.
De optimo genere oratorum: prefazione alla traduzione (ora perduta) delle
due famose orazioni di Eschine e Demostene Per la corona. Vi si discorre di due
generi attico e asiatico, combattendo specialmente il primo.
Opere filosofiche
C. si diede alla filosofia dopo il ritorno di Cesare dalla guerra civile,
quando si ritirò dalla vita pubblica e fu afflitto contemporaneamente
da sventure domestiche (la morte della figlia Tullia).
Al tempo di C. erano abbastanza note le scuole accademica, peripatetica,
epicurea (Lucrezio) e stoica; specialmente quest'ultima, diffusa da Panezio e
più tardi da Posidonio, ebbe favore presso i Romani, perché di carattere più
morale e pratico.
C. non porta tuttavia negli studi filosofici alcuna originalità: si può definire un
eclettico che, basandosi sul criterio della verosimiglianza, coglie il meglio di
ogni dottrina, inclinando prevalentemente verso le scuole accademica
e stoica.
Ha quindi scarsissimo valore come filosofo (il maggior filosofo romano fu
Seneca), e gli spetta unicamente il merito di aver creato il linguaggio
filosofico di essere stato un buon divulgatore della filosofia greca.
Le opere filosofiche di C. sono generalmente in forma di dialogo, secondo
l'esempio platonico, e si possono distinguere in due categorie: quelle che
si occupano di filosofia politica e quelle che si occupano di filosofia
teoretica e morale.
a) Filosofia politica
De repubblica (Lo Stato): dialogo in 6 libri, di cui non ci rimangono che i
primi due; e il Somnium Scipionis (Scipione Africano il Minore) dell'ultimo libro,
tramandatoci da Macrobio per l'analogia con le idee cristiane sull'oltretomba.
C. studia quale possa essere lo stato ideale, seguendo molto da vicino
Platone che aveva scritto un'opera omonima: a differenza del filosofo
ateniese, C. si propone di affrontare i problemi politico-costituzionali
concretamente e storicamente, mettendosi da un punto di vista
specificamente romano.
Protagonista del dialogo è Publio Cornelio Scipione Emiliano, l'uomo
politico romano più ammirato da C.
L'introduzione narrativa che delinea la cornice del dialogo presenta Scipione
impegnato nel 129 a. C. (poco prima della morte) in una conversazione con un
gruppo di amici, fra i quali l'inseparabile Gaio Lelio e Furio Filo.
Nel primo libro Scipione dà la sua definizione dello Stato: esso è cosa del
popolo, e quest'ultimo è inteso come aggregazione di un gruppo di
persone unite da un accordo sui reciproci diritti e da interessi comuni.
Scipione poi presenta e discute le tre forme di governo: monarchia,
aristocrazia, democrazia e le loro rispettive degenerazioni: tirannide,
oligarchia, monarchia.
Inoltre sostiene che la costituzione migliore in assoluto è quella mista.
Esempio eccellente di tale forma mista, afferma Scipione, è la costituzione
romana, in cui il potere monarchico è rappresentato dai consoli, quello
aristocratico dal senato, quello democratico dal popolo (tribuni della
plebe).
Nel secondo libro sono delineati l'origine e gli sviluppi dello Stato
romano, da Romolo fino alla caduta della monarchia e poi in età
repubblicana, con particolare attenzione alle riforme che ridussero via via il
potere del senato, cioè dell'aristocrazia, a favore del popolo.
Il terzo libro, molto lacunoso, trattava della virtù politica per eccellenza: la
giustizia.
Ad uno degli interlocutori Furio Filo, toccava lo sgradito compito di riferire le
argomentazioni che Carneade aveva addotto nella celebre conferenza
tenuta a Roma nel 155 a.C., contro l'esistenza di un fondamento
naturale della giustizia. Non sulla giustizia, affermava il filosofo, ma sulla
sopraffazione dei più deboli, i popoli dominatori, e Roma stessa,
fondano i loro imperi, aggiungendo provocatoriamente che, se avessero
voluto applicare le norme della giustizia, i Romani avrebbero dovuto restituire
agli altri popoli ciò di cui li avevano privati con la forza, ritornando alle
capanne e alla miseria delle loro origini.
Lelio assumeva invece la difesa della giustizia naturale, sostenendo la
legittimità morale dell'impero di Roma, in quanto esercitato
nell'interesse e a vantaggio dei popoli sottoposti.
Quasi interamente perduti sono il libro IV, dedicato alla formazione del
buon cittadino, e il V, in cui era delineata la figura del governatore
perfetto.
Del VI libro si conserva solo la parte finale, detta Somnium Scipionis.
Scipione Emiliano racconta un sogno da lui fatto vent'anni prima,
durante la terza guerra punica. In esso gli era apparso l'avo adottivo,
Scipione Africano, il quale dopo avergli predetto le future imprese
gloriose e la morte prematura, gli aveva mostrato lo spettacolo
grandioso delle sfere celesti, rivelandogli che l'immortalità e una
dimora in cielo nella Via Lattea, sono il premio riservato dagli dei alle
anime dei grandi uomini di Stato, benefattori della patria.
De legibus: dialogo in 6 libri, di cui non rimangono che tre libri e frammenti.
Complemento dell'antecedente, sempre dietro l'esempio di Platone, che
aveva scritto un'opera omonima: si risale alle sorgenti del diritto, per
affermare, contro l'instabilità della morale umana, la preesistenza del
diritto razionale e naturale.
Gli interlocutori del dialogo (che si immagina tenuto nella villa di C. ad
Arpino) sono Cicerone stesso, suo fratello Quinto e l'amico Attico.
Vengono illustrate l'origine naturale del diritto e le sue forme, si passa poi
all'esame e al commento di numerosissime leggi romane: l'opera appare
come un vero e proprio trattato di storia delle istituzioni e del diritto pubblico,
civile e religioso, di Roma. Frequenti sono i riferimenti all'attualità
politica.
Caratteristiche delle opere di filosofia politica
Al De republica a al De legibus si affiancherà più tardi il De officis, trattato
filosofico con forti implicazioni politiche.
Queste tre opere sono simili nell'impostazione di fondo, sempre orientata alla
soluzione dei problemi concreti posti dall'attualità storico-politica.
In queste tre opere Cicerone vuole utilizzare gli strumenti concettuali
offerti dalla filosofia greca per sostenere e difendere strenuamente le
istituzioni della res publica oligarchica, contro le spinte che avrebbero
portato di lì a poco all'instaurazione del regime imperiale.
b) Filosofia teoretica e morale
Consolazione a se stesso: la prima opera che C. compose subito dopo la
morte di Tullia, fu la Consolatio rivolta a sé stesso, in cui raccolse e discusse le
principali argomentazioni elaborate dalle diverse scuole filosofiche greche per
combattere l'afflizione e per dimostrare che la morte non è un male
Academica priora (2 libri) e Academica posteriora (4 libri): la seconda
opera è un rifacimento della prima.
Ci restano solo frammenti, in cui C. manifesta le sue simpatie per la scuola
accademica (storia della filosofia da Socrate ad Arcesilao, problema
della conoscenza, ecc.).
C. affronta il problema gnoseologico, preliminare a ogni altro problema
filosofico, discute cioè se sia possibile per l'uomo attingere la conoscenza
della verità. Egli aderisce alla posizione della scuola accademica (fondata
da Platone): è una posizione intermedia tra dogmatismo e scetticismo e
sostiene che non esiste un criterio oggettivo per distinguere con
certezza assoluta (come pretendono gli stoici) ciò che è vero da ciò
che è falso, ma che è possibile avvicinarsi alla verità attenendosi a ciò
che appare probabile, cioè razionalmente approvabile, verosimile,
dotato di un grado maggiore di persuasività rispetto ad altri contenuti di
pensiero.
De finibus bonorum et malorum (5 libri) (= I termini estremi del bene e del
male; Il sommo bene e il sommo male): la migliore opera filosofica di C. Vi si
tratta del problema del sommo bene e del sommo male, secondo le
varie scuole: vi è confutata la teoria epicurea (utile, piacere) e viene
data la preferenza alla scuola stoica (ragione contro passione).
C. tratta la questione centrale dell'etica: quale sia lo scopo supremo a cui
l'uomo deve tendere e che costituisce per lui il sommo bene, capace di dargli
la vera felicità.
Nei primi due libri viene riferito un dialogo (ovviamente immaginario)
ambientato nella villa di C. a Cuma, in cui intervengono C. stesso e due
giovani amici.
Nel I libro Lucio Torquato espone la posizione epicurea che identifica il
sommo bene con il piacere e il sommo male con il dolore.
Nel II libro C. confuta Epicuro, rilevando nella sua dottrina una serie di
gravi contraddizioni.
I due libri successivi sono ambientati in un'altra villa di C. a Tuscolo.
Marco Porcio Catone (il futuro Uticense) presenta nel III libro la dottrina
stoica, di cui è convinto sostenitore: essa individua il sommo e unico bene
nella vita secondo natura e secondo ragione (cioè nella sapienza e nella
virtù) e l'unico male nel vizio.
Nel IV libro C. si assume il compito di confutare anche la tesi stoica che
arriva ad affermazioni paradossali come quella che il dolore non è un male.
L'ultimo dialogo, nel libro V, si svolge ad Atene, nell'Accademia. Viene
esposta, appunto, la dottrina accademica, verso cui C. esprime la sua
preferenza: la felicità consiste nella virtù che però, a differenza di quanto
affermano gli stoici, è completa solo quando ai beni spirituali si
aggiungono i beni del corpo (la salute, l'agiatezza, il successo).
Tusculanae disputationes (5 libri) (= Discussioni Tusculane): a differenza
del De finibus non sono in forma di dialogo, ma si presentano come un
contraddittorio fra C. e un anonimo interlocutore che propone gli
argomenti e avanza obiezioni e osservazioni.
Vi si tratta della felicità e degli ostacoli che si frappongono al suo
raggiungimento.
Nel I libro C. affronta il tema della paura della morte. Discute dell'essenza
dell'anima e sul suo destino, e si assume il compito di dimostrare che la
morte non è un male, ma che anzi dev'essere considerata un bene. Come
già Lucrezio C. imposta la battaglia contro il timore della morte sulla
svalutazione della vita umana.
Il II libro tratta della sopportazione del dolore fisico: bisogna fortificare
l'animo, in modo che sia in grado di sopportare coraggiosamente il
dolore.
Tema del III libro è la mitigazione dell'afflizione, cioè la lotta contro il
dolore spirituale. Su questo punto C. aderisce alla tesi stoica, secondo cui
l'afflizione nasce dalla falsa opinione di quello che viene erroneamente
ritenuto un male (per esempio la perdita di una persona cara) e che, alla
luce della ragione, non risulta affatto tale.
Nel IV libro C. tratta, sempre attenendosi a fonti stoiche, degli altri
turbamenti dell'animo o «passioni»: la paura, l'invidia, l'amore l'ira,
ecc. Come rimedio alle passioni viene indicata la virtù della temperanza.
Infine nel V e ultimo libro ci si propone di dimostrare che la virtù basta da
sola ad assicurare la felicità: qui, contrariamente alle riserve avanzate nel
De finibus, C. si pronuncia senza esitazioni a favore della tesi stoica,
secondo cui il sapiente, che possiede la virtù, è perfettamente felice
anche se è privo dei beni materiali e, anzi, perfino se si trova in mezzo
alle più atroci torture.
L'opera è molto curata stilisticamente, resa varia e piacevole dalla
presenza di numerosi aneddoti storici e mitologici e da frequenti
citazioni di poeti greci e latini.
De natura deorum (3 libri): vi si tratta il problema teologico.
Sono confutate sia la dottrina epicurea, che vuole gli dei del tutto
estranei e indifferenti alle vicende umane, sia la concezione stoica di una
provvidenza divina che regge il mondo e governa la vita degli uomini.
Nella conclusione dell'opera peraltro C. definisce la posizione stoica, prima
rifiutata, più vicina all'apparenza della verità, traducendo l'imbarazzo provocato
in lui dal conflitto tra l'agnosticismo religioso, a cui lo portava il suo spiccato
razionalismo, e la preoccupazione di salvare (come permetteva di fare lo
stoicismo) la religione tradizionale, elemento essenziale nel sistema delle
istituzione politiche romane.
È data la preferenza alla dottrina accademica che fa valere un concetto
trascendente della divinità, non panteistico e immanente (come invece
ritenevano gli epicurei e gli stoici).
Cato maior de senectute (44 a.C.): si tratta di un breve dialogo, molto
curato stilisticamente, ambientato nel 150 a.C., quando Catone il Censore
aveva 84 anni.
Cicerone immagina di svolgere, con i giovani amici Scipione Emiliano e
Gaio Lelio, l'elogio della vecchiaia, soffermandosi sui vantaggi e sui
piaceri che essa arreca all'uomo virtuoso, specialmente all'uomo
politico.
Non ultimo fra questi piaceri è il pensiero della morte vicina, che avvierà
l'anima, finalmente libera dalle catene del corpo, verso una vita immortale.
Laelius de amicitia (44 a.C.): è un breve dialogo dedicato da C. all'amico
carissimo Attico.
In esso Galio Laelio, pochi giorni dopo la morte (nel 129 a. C.)
dell'inseparabile amico Scipione l'Emiliano, ne rievoca la luminosa figura
e tratta dell'amicizia, il bene più grande per l'uomo dopo la sapienza,
alla quale peraltro sempre si accompagna.
C. reinterpreta la concezione romana dell'amicizia: essa non nasce
dall'interesse e dal bisogno, come vogliono gli epicurei, ma dall'amore
per i propri simili innato nell'uomo: la vera amicizia può sussistere solo
tra i buoni, e il mezzo migliore per procurarsi veri amici è la pratica
della virtù.
De officiis (I doveri) (44 a. C.): in tre libri, dedicati al figlio Marco, cui
l'autore si rivolge.
È uno dei più importanti trattati della morale romana: vi si parla infatti,
seguendo gli stoici Panezio (II sec. a.C.) e Posidonio, dei rapporti tra l'utile e
l'onesto, mirando a dimostrare che l'utile vero non è mai in contrasto
con l'onesto.
Nel I libro viene chiarito il concetto di honestum, cioè di bene morale.
Esso si esplica in quattro virtù fondamentali: la sapienza, la giustizia, la
fortezza o magnanimità e la temperanza. Nell'ambito di quest'ultima virtù
rientra il decorum, cioè il senso di ciò che è moralmente ed esteticamente
conveniente a ciascuna persona e situazione.
Il II libro è dedicato all'utile.
La tesi da dimostrare è che i doveri, cioè i retti comportamenti, che si
stabiliscono in base al criterio dell'utile, sono gli stessi già dedotti nel
libro precedente, dal criterio dell'honestum e si identificano con
l'esercizio delle virtù.
Nel III e ultimo libro si parla del conflitto tra l'onesto e l'utile.
Si tratta di un conflitto solo apparente, nessuno infatti può trarre una
vera utilità da azioni che mirino esclusivamente al tornaconto
personale e non al vantaggio comune.
L'opera illustra numerosissimi esempi, tratti dalla vita comune, dalla mitologia,
dalla letteratura, dalla storia greca e soprattutto dalla storia romana.
Cicerone dà ampio spazio ai doveri dell'uomo politico e tratta dei mezzi
per conquistare la gloria, cioè il prestigio che rende capaci di influire sui
concittadini orientandone le idee e i comportamenti. L'uomo politico deve
beneficare i singoli individui e la collettività.
Cicerone coglie infine l'occasione di scagliarsi contro i populares.
Opere filosofiche minori sono:
Paradoxa: sei sunti della dottrina stoica, che vanno apparentemente contro
l'opinione comune.
De divinatione (in 3 libri): C. vi attacca e confuta la fede nella
divinazione nelle sue varie forme (interpretazione di sogni e di prodigi,
oracoli, astrologia, aruspicina, arte augurale), criticando i filosofi che hanno
cercato di difenderla afferma che la religione avrebbe maggiore credito se
fosse depurata da credenze superstiziose e false (è facile rilevare la
contraddizione tra il punto di vista teorico assunto da C. in sede filosofica e la
sua posizione ufficiale di cittadino romano e magistrato, appartenente fra l'altro
al collegio degli auguri).
De fato: molto lacunoso. Vi si affronta il problema se la vita umana sia
determinata dal destino o dalla libera volontà dell'uomo.
Hortensius: altro elogio della filosofia (frammenti).
Consolatio: elogio della filosofia, scritto nel dolore per la morte della figlia
amatissima (opera perduta).
De gloria: letto fino all'epoca del Petrarca, ora perduto.
Caratteristiche delle opere di filosofia teoretica e morale
C. ha elaborato una visione del mondo e dell'uomo che ci appare come il punto
di arrivo di uno sviluppo secolare: il tentativo è quello di fondere i risultati delle
riflessioni dei massimi pensatori greci e e i frutti dell'esperienza morale e
politica romana.
L'ideale dell'humanitas, cioè la concezione dell'uomo che emerge dalle
opere di C. e la seguente:
-l'uomo veramente degno di questo nome assoggetta gli istinti naturali, i
sentimenti e le passioni, al dominio della ragione, punto di riferimento
essenziale e criterio supremo di comportamento in ogni circostanza;
-l'acquisizione attraverso lo studio, di una vasta cultura enciclopedica è
indispensabile per affinare le qualità naturali e per conoscere a fondo se stessi
e il mondo, così da orientarsi convenientemente nella vita;
-nei rapporti con i suoi simili, l'uomo deve essere sempre animato da rispetto,
tolleranza e benevolenza;
-il dovere di rendersi utili alla società e alla patria è preminente rispetto a
tutti gli altri;
-i riconoscimenti esteriori (successo, gloria, prestigio) non sono da
disprezzare, ma non costituiscono il movente né lo scopo dell'azione.
Lo stile del filosofo è diverso da quello dell'oratore, diversi sono gli scopi
perseguiti: il filosofo si propone semplicemente di docēre, eventualmente
di delectare, mentre l'oratore valente deve saper piegare, commuovere,
conquistare l'uditorio. Lo stile del filosofo è dunque semplice e poco ornato.
C. vuole elevarsi al di sopra degli oscuri e disprezzati scrittori di filosofia a lui
anteriori, rivendicando per sé la capacità, a essi negata, di scrivere copiose
ornateque, e si propone di emulare i sommi modelli greci, primo fra tutti
Platone.
C. dovendo esprimere per la prima volta in latino una quantità di concetti ai
quali corrispondeva in greco una terminologia tecnica abbastanza precisa,
procede alla creazione di un lessico tecnico-filosofico latino (strada già
imboccata da Lucrezio).
C. si muove con una disinvoltura maggiore di quella che metteva nello
scrivere le orazioni, anche per quanto riguarda la sintassi, più vicina ai modi
colloquiali. Ciò non esclude il ricorso a svariati moduli stilistici, con una
ricca gamma di livelli e di toni, adeguati alle situazioni e agli argomenti.
Lettere
Di Cicerone si è conservato un imponente corpus di epistole (piccola parte
del fittissimo carteggio che egli intrattenne con una grande quantità di
corrispondenti), pubblicato postumo dal liberto Tirone e dall'amico
Attico e comprendente in totale 864 lettere suddivise in 4 raccolte:
1) Epistulae ad familiares: in 16 libri, vi sono incluse molte lettere
indirizzate a parenti, come la moglie Terenzia e i figli, amici, uomini
politici come Pompeo, Cesare, Catone, ecc., e sono state scritte dal 62 al
43; la raccolta comprende anche una novantina di lettere di suoi
corrispondenti.
2) Epistulae ad Atticum: in 16 libri. Attico era l'amico intimo e l'editore
di C. Sono molto importanti perché C. apriva all'amico l'animo senza
riserbo, specialmente intorno alle cose politiche del tempo; queste
lettere sono state scritte negli anni dal 68 al 44.
3) Epistulae ad Quintum fratrem: in 3 libri, scritte dal 60 al 54.
4) Epistulae ad Marcum Brutum (l'uccisore di Cesare): 25 lettere di
dubbia autenticità, scritte dall'aprile al luglio del 43 a.C. Vi sono incluse
alcune lettere di Bruto.
Le lettere di C. sono importanti per due motivi:
a) motivo storico: costituiscono una miniera di notizie, specie sull'agitato
periodo delle guerre civili tra Cesare e Pompeo;
b) motivo artistico: furono scritte senza intenzione di essere pubblicate,
e quindi, a differenza di quelle di Plinio, sono spontanee e prive di
artificiosità. In molte affiorano le debolezze, le indecisioni, i dubbi, le
contraddizioni dl loro autore, la sua tendenza al lamento e
all'autocompatimento, talvolta anche la pusillanimità e il cedimento
a compromessi.
Non tutte le lettere si possono considerare private, cioè scritte per
essere lette solo dal destinatario.
A parte l'intenzione, non realizzata, espressa dallo stesso C. di pubblicare una
parte della sua corrispondenza, alcune epistole si presentano come lettere
pubbliche o aperte, scritte per essere divulgate, cioè riprodotte in più
copie e fatte pervenire a più persone. In questi casi il destinatario, pur
essendo reale, funge da intermediario tra fra l'autore e un pubblico più vasto.
La maggioranza delle epistole sono tuttavia lettere private, nelle quali
prevale una notevole cura stilistica e l'adesione alle regole del genere
letterario epistolare.
Il C. più intimo, vero e spontaneo, è quello delle lettere all'amico più
caro Attico: viene svelato l'uomo nelle sue reazioni più genuine e nei suoi
sfoghi più sinceri. Affiorano le incertezze e le vanità, ma anche la
grande vitalità, il senso dell'umorismo, l'arguzia e l'ironia, la lucidità
spesso caustica dei giudizi, la brillante capacità di descrivere e di
raccontare con straordinaria vivacità ed efficacia.
L'interesse di queste lettere è grande anche dal punto di vista linguistico, sono
infatti un raro documento di linguaggio colloquiale proprio dl genere
epistolografico: prevalgono la paratassi, l'uso di di diminutivi, parole, frasi,
citazioni e modi di dire greci.
Opere poetiche
C. scrisse anche opere in poesia, considerate non all'altezza delle sue
opere in prosa, per cui non tramandate. Ne possediamo solo
frammenti.
Abbiamo notizia di due operette scritte da C. in età giovanile: Pontius
Glaucus e Alcyones, i cui titoli corrispondono ai nomi di due personaggi
mitologici, Glauco e Alcione, protagonisti entrambi di storie di metamorfosi, e
sembrano rinviare al genere tipicamente ellenistico dell'epillio.
Sempre da giovane, C. fece una traduzione in esametri di un fortunato poema
didascalico ellenistico, i Fenomeni di Arato di Soli (III secolo a.C.). C. tende a
rendere l'arido poemetto astronomico di Arato più colorito, più animato, più
ricco di elementi descrittivi e pittoreschi.
Tutte le opere fin qui citate sembrano riconducibili all'ambito della poesia
dotta, di stampo ellenistico. Sappiamo però che C. criticò severamente quei
poeti (Catullo, Calvo, ecc.) che avevano adottato senza riserve le poetiche, i
modi e gli stili della poesia alessandrina, e che furono denominati proprio da
C., con una certa ironica e sprezzante riprovazione, neòteroi, poetae novi.
Ad essi C. non perdonava il distacco programmatico e ostentato dalla
tradizione della poesia romana arcaica, rappresentata in primo luogo da Ennio
che C. amava e ammirava.
C. scrisse poi un poema epico-storico Marius, dedicato alle gesta del suo
grande concittadino (anche Mario era di Arpino e homo novus come C.).
Nulla è rimasto invece di un altro poema in esametri, scritto nel 54, per
celebrare la spedizione di Giulio Cesare in Britannia.
C. compose due poemi epico-storici sulle proprie gesta: De consulatu
suo (finito alla fine del 60) e De temporibus suis (scritto fra il 55 e il 54).