scarica - G. Veronese

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Lucio Anneo Seneca
Ercole sull’Èta
Traduzione e adattamento di Roberto Vianello
per il Progetto di Teatro Classico
a.s. 2012 – 2013
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PERSONAGGI
Ercole
Iole
Nutrice
Deianira
Lica (muto)
Illo
Alcmèna
Filottète
Coro di fanciulle di Ecalia
Coro di donne di Etòlia
Seguaci di Ercole
La scena si svolge a Trachis,
40 stadi a ovest delle Termopili
Avvertenza: per favorire la correttezza della pronuncia da parte degli studenti-attori sono stati
inseriti nel testo anche accenti che non dovrebbero essere segnati (es. Èta, té,
spòsa ecc.).
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ERCOLE (Lica e Seguaci silenziosi) – Padre degli dèi, che vibri con la mano il fulmine e lo
sentono entrambe le dimore d’Apollo, regna sicuro. Ho diffuso la pace per té,
dovunque il Mare vieta alle terre di estendersi. Non devi più tuonare; sono caduti i re infìdi, i tiranni spietati. Ho distrutto tutto quanto avresti dovuto fulminare. Ma il cielo, padre, mi è tuttora negato? Mi sono mostrato ovunque degno di Giove. Che tu sia mio padre lo ha testimoniato Giunone stessa, la matrigna. Perché prendi tempo? C’è paura di mé?
Perché, perché, padre, mi neghi le stelle? Si è arreso ogni flagello generato dalla terra, dal mare, dall’aria, dagli inferi. Tutto ciò che la terra ostile ha generato, è finito ed è stato abbattuto
dalla mia destra: non è stato più lecito agli dèi manifestare la loro collera. Rendi ora al figlio il
padre o gli astri al forte. Non ti chiedo di mostrarmi il cammino. Permettilo soltanto: troverò
io la strada. Già la terra esita a concepire fiere destinate a essere abbattute da mé e non trova
più esseri prodigiosi. Tutto ciò che di spaventoso mi si è fatto incontro, le mie sole braccia
l'hanno abbattuto. Non ho temuto fiere da giovane, non le ho temute da bambino. Quanti
mostri ho annientato senza l'ordine di alcun Euristeo! Mi ha tormentato il mio valore, più
feroce di Giunone. Chiedo il cielo che ho portato sulle spalle. Ma tu, Lica, compagno delle
fatiche di Ercole, diffondi i miei trionfi, la vittoria sulla casa di Èurito e il suo regno abbattuto.
Voi spingete presto il bestiame dove la costa, innalza i templi di Giove Cenèo e contempla il
mare d'Eubea temibile per il vento Australe. (Esce)
CORO DI FANCIULLE DI ECALIA (compresa Iole)
È pari agli dei chi ha avuto
giorni e sventura in egual misura;
ha il ritmo della morte la vita,
quando si trascina lentamente
da coloro che piangono.
Chi ha posto sotto i piedi
il destino rapace
e la barca dell'ultimo fiume
non porgerà le sue braccia di prigioniero alle catene,
non avanzerà nobile preda nel corteo di trionfo:
non è mai misero quello
per cui è facile morire.
Se la nave lo inganna in mezzo al mare,
quando l'Africo scaccia Bòrea
o Euro lo Zèfiro, quando dividono il mare,
non raccoglie i pezzi della nave sconquassata,
sino a sperare l'approdo nell'alto mare:
chi potrà restituire subito la vita,
solo lui non potrà soffrire il naufragio.
Una macilenza ripugnante ci afferra
e lacrime e capelli sudici di cenere patria.
Noi non il fuoco rapace,
non il fragore ha travolto:
tu ségui i beati, o morte, i miseri li fuggi.
Noi siamo ancora qui, e non ci sarà posto, ahinoi,
per le patrie messi, ma per foreste,
e i templi caduti diverranno sordide baracche.
Ormai il Dòlope avvezzo al gelo
condurrà qui il suo bestiame,
dove è ancor calda, in rovina,
la cenere superstite di Ecàlia abbattuta.
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In quella rocca il pastore Tessalo
ripetendo le sue melodie con l'indotta zampogna
canterà le nostre sventure con un flebile canto;
e nel tempo in cui il dio
radunerà poche generazioni,
si chiederà quale fu il luogo della patria.
Felice ho abitato focolari non sterili
e iugeri non aridi di suolo Tèssalo:
ora sono chiamata a Trachis,
alle sue rigide rupi,
agli orridi roveti sui torridi gioghi,
bosco a pena gradito
al bestiame che erra sui monti.
E se una sorte migliore
chiama alcune di noi schiave, quelle
o le trasporterà ad Argo l'Ìnaco rapido
o abiteranno a Tebe le mura Dircee,
dove scorre l'Ismeno languido
con la sua tenue corrente
(qui era andata spòsa
la madre di Ercole superbo).
Quali rocce di Scizia,
quale pietra ti ha generato?
Ti ha generato forse, feroce Titano, il Rodope,
ti ha generato l'Athos dirupato
o la selvaggia terra del Caspio?
Quale tigre ti ha porto le mammelle?
È falsa la favola della duplice notte,
quando il cielo trattenne le stelle più a lungo
e Lucifero cedette il suo turno a Espero
e la Luna, più lenta, impedì il sorgere del Sole:
le sue membra non patiscono ferite,
la spada si infrange sul suo corpo nudo
e la pietra rimbalza; non si cura del fato
e sfida la morte con il corpo indomito.
Non lo potevano trafiggere le lance,
non l'arco teso dalla freccia Scitica,
non i dardi che porta il freddo Sarmata
Ha abbattuto le mura di Ecalia col suo corpo;
niente può fermarlo; è già stato vinto
quel che si prepara a vincere.
Quanti sono caduti per le ferite?
Come destino è stato potente il suo aspetto smisurato.
Grandi vantaggi si prestano a grandi disfatte,
nessun male resta escluso: noi misere
abbiamo visto l'ira di Ercole!
IOLE -
Ma io, infelice, non piango perché i templi
sono crollati sui propri dèi,
i focolari sono stati dispersi,
i padri sono bruciati coi figli,
gli dei con gli uomini, i templi coi sepolcri:
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non piango un male di tutti.
Il mio destino mi impone di piangere
altre rovine.
Cosa piangerò prima? Cosa per ultima?
La Terra non mi ha dato più petti
perché risuonino percosse degne del destino.
Dèi del cielo, mutatemi nella rupe lacrimosa del Sìpilo,
oppure aggiungetemi agli scogli di Sicilia,
dove possa gemere il mio destino, Sirena di Tessaglia.
Trasformatemi in ciò che si addice alle mie lacrime
e risuoni dei miei mali l'aspra Trachis.
Perché le mie braccia non prendono ancora
piume d'uccello?
Felice, oh felice quando la selva
sarà detta mia dimora
e siederò sul patrio suolo,
a cantare le mie rovine con querulo mormorio
e la fama narrerà di Iole mutata in uccello.
Perché io ho visto, ho visto
il misero destino di mio padre,
quando colpito dalla clava mortale
giacque a pezzi in tutta la reggia:
oh se i fati t'avessero dato un sepolcro,
quante volte, padre, t'avrei dovuto cercare!
Ma come ho potuto assistere alla tua morte, Tossèo, fratello mio,
non ancora rivestite di lanugine le tue tenere guance,
non ancora vigorose le tue forze?
Perché piango il vostro destino, genitori,
portati in salvo dalla giustizia della morte?
A mé chiede lacrime la mia sventura:
tra poco ormai, prigioniera, raccoglierò
le rócche e i fusi di una padrona.
Ahi fascino crudele, ahi bellezza
che mi preparerà la morte:
per té sola è caduta tutta una casa,
mentre mio padre mi rifiutava ad Alcìde
e aveva timore d'esser suocero d'Ercole.
Ma ormai raggiungiamo la dimora della padrona.
CORO DI FANCIULLE DI ECALIA
Perché ti volgi a guardare
la gloria del regno di tuo padre
e le tue disgrazie, pazza?
Fugga i tuoi sguardi la fortuna di un tempo.
Felice chiunque ha imparato a soffrire
la sorte di servo e di re
e può mutare gli atteggiamenti suoi.
Ha già sottratto le forze e il peso del male
chi sopporta le sventure con equilibrio. (Escono. Entra la Nutrice)
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NUTRICE -
Quanto furore cruento istìga le donne, quando una stessa casa si è aperta per
l'amante e la spòsa! Sono meno temibili Scilla e Cariddi, che rimescolano le di
stese del mare siculo, nessuna bélva sa essere peggiore. Appena è brillata la
bellezza dell'amante prigioniera e Iòle è rifulsa come un giorno senza nubi, come stella luminosa nelle notti serene, la spòsa di Ercole è rimasta immobile, simile a pazza, come una tigre
d'Armenia, che ha partorito da poco e giace sotto una rupe e balza in piedi, se vede il nemico.
Poi si trascina furiosa per la dimora di Ercole, a stento le basta l'intera casa. Si laménta,
implora, geme... Ma sono risuonati i battenti. Ecco corre a svelare i segreti pensieri della sua
ménte.
DEIANIRA -
In qualunque parte del cielo tu sia, spòsa del Tonante, manda contro Ercole una
bélva che basti a placarmi. Se qualche serpe più smisurata dell'intera palude
agita il capo capace di rigenerarsi, ignara di sconfitta; se qualcosa di immane,
terribile, orribile ha superato le bélve, esca da quest'immenso speco. O, se mi neghi le bélve, ti
prego, converti quest'animo in un mostro. Già il petto non trattiene la mia furia minacciosa.
Perché scuoti le profondità dell'estrema terra e sconvolgi il mondo? Perché chiedi mostri
all'Inferno? Troverai in questo petto tutte le bélve che lui potrà temere; prendi quest'arma per
il tuo odio: sono io la matrigna di Ercole. Serviti del mio furore! Quale crimine ordini sia
compiuto? Escogitalo, perché indugi?
NUTRICE –
Trattieni, figlia, i laménti del cuore malato e domane le fiamme; tieni a freno il
dolore. Mostrati degna spòsa di Ercole.
DEIANIRA -
E Iole, una prigioniera, darà fratelli ai miei figli? Da serva diventerà nuora di
Giove? Non me ne andrò invendicata! Anche se tutto il mondo ti deve la pace,
c'è qualcosa di peggio dell'Idra: il dolore di una móglie adirata. Una prigioniera mi ruberà il
talamo? Or ora temevo i mostri, ma in luogo di una bélva è giunta una odiosa concubina. O
sommo re degli dei le preghiere che ho offerto sono state esaudite per una prigioniera. Torna
incolume per lei. O dolore, che non si accontenta di alcuna pena, trova supplizi orrendi, mai
escogitati, indicibili; insegna a Giunone di cosa sia capace l'odio: lei non sa adirarsi
abbastanza.
NUTRICE –
Che delitto prepari, pazza! Ucciderai tuo marito? L’uomo il cui ultimo giorno
conosce lodi come il primo e la cui fama vede le terre ai suoi piedi, eretta fino
in cielo? Contro questi roghi si leverà la terra madre. Ogni terra difenderà il
suo vendicatore: tu sola quante pene pagherai! Ma immagina pure di poter fuggir loro e il
genere umano: il padre di Alcìde conduce a segno il fulmine. Fa' conto già di vedere il fuoco
minaccioso attraversare il cielo e il giorno tonante per il fulmine vibrato. Pure la morte devi
temere, che ritieni sicura: domina laggiù lo zio paterno del tuo Alcìde. Dovunque ti dirigerai,
infelice, vedrai dèi suoi parenti. Morirai!
DEIANIRA -
Morirò, certo. Come spòsa dell’inclito Ercole. E nessun giorno mi vedrà senza
marito, né una concubina prigioniera si prenderà il mio talamo. Spegnerò le
fiaccole nuziali col mio sangue. Muoia o mi ammazzi. Può annoverare anche
mé tra le fatiche Ercùlee. Voglio andare, voglio andare tra le ombre spòsa di Ercole, ma non
invendicata. Se Iole ha concepito un figlio dal mio Ercole, glielo strapperò con le mie mani
prima e aggredirò la rivale persino tra le fiaccole della cerimonia nuziale. Mi colpisca a morte
come vittima nel giorno delle nòzze, furioso, purché io possa stramazzare sopra Iole esanime:
giacerà felice chiunque calpesta quelli che ha imparato a odiare.
NUTRICE –
Ha amato Iole: certo mentre suo padre era sul trono e aspirava alla figlia di un
ré. La regina è caduta nella condizione di serva: ha perduto smalto l’amore e
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molto gli ha sottratto l’infelice condizione di lei. Si amano le cose illecite: tutto
ciò che è lecito perde di interesse.
DEIANIRA -
Ma egli ama proprio il fatto che lei manca della casa paterna, che i suoi capelli
sono trascurati, non adorni di oro e gemme, forse è innamorato delle sue stesse
sciagure, misericordioso. È un'abitudine per Ercole: si innamora delle
prigioniere.
NUTRICE –
È passato qua e là, incostante. Ma la giovane d’Arcadia, Àuge, gli è già uscita
di ménte. Perché ricordarti le altre? Dovunque si è acceso, ma si è acceso di un
fuoco debole. Ti preferirà una schiava, e figlia di nemico?
DEIANIRA -
Una sublime bellezza pervade le sélve a primavera. Ma quando la bruma
implacabile ne ha disperso le chiome, vedi il bosco disadorno ed i tronchi
spogli. Così la mia bellezza perde sempre qualcosa e l’avvenenza di un tempo
non è più. Tutto ciò che un giorno è stato cercato in mé è venuto meno e vacilla. Invece vedi
come la schiava non perda la sua profonda grazia? Vive nello squallore: e proprio tra gli
affanni rifulge la sua bellezza e le sciagure e il suo crudele destino non le hanno sottratto
nulla, tranne il regno. Questo timore assale il mio cuore, nutrice, questa angoscia mi ruba il
sonno.
NUTRICE -
Ma intanto quella schiava viene trascinata come dono per té.
DEIANIRA –
Lo vedi avanzare per le città pieno di gloria e porta con sé sulla schiena le vive
spoglie del leone. Va in cerca di ciò che possa amare, insidia i letti delle
vergini. Se una gli è stata negata, la rapisce; infuria contro la sua gente, cerca mogli mediante
le rovine e il suo vizio incontrollato viene chiamato valore. È caduta la nobile Ecàlia, la luce
di un sol giorno l’ha vista ergersi e cadere; e motivo della guerra è l’amore. Dopo tutto ciò
perché trattengo queste mani, finché finga la follia e spietato tenda l’arco e sopprima mé ed il
figlio? Così Alcìde caccia le sue mógli, è questo il suo modo di ripudiarle. E non può essere
accusato di colpa: causa del suo misfatto ha fatto sembrare al mondo Giunone, la sua
matrigna. Perché stupisci e resti immobile, mio furore? Bisogna precedere il delitto: affrettati,
finché il braccio è acceso d’ira.
NUTRICE –
Ucciderai tuo marito?
DEIANIRA -
Di certo quello della mia rivale.
NUTRICE –
Con la spada?
DEIANIRA -
Con la spada.
NUTRICE –
E se non ce la fai?
DEIANIRA -
Lo ucciderò con l’inganno.
NUTRICE –
Ucciderai quest’uomo, che neppure la matrigna ha saputo sopprimere?
DEIANIRA -
L’ira dei celesti rende infelici quelli che opprime. Quella umana li annienta.
NUTRICE –
Risparmialo, donna degna di compassione, e abbi timore.
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DEIANIRA -
Non teme alcuno, chi prima ha imparato a non temere la morte; voglio andare
contro alle spade.
NUTRICE –
Il tuo dolore, figlia, è più grande del male che ti è stato fatto. La colpa deve esi
gere un odio proporzionato. Perché decidi pene spietate per colpe modeste?
DEIANIRA -
Credi sia lieve per una spòsa il malanno di una concubina? Tutto ciò che nutre
il dolore, ritienilo eccessivo.
NUTRICE –
L’amore per il nobile Alcìde ti ha abbandonato?
DEIANIRA -
Non mi ha abbandonato, nutrice; rimane, e siede nel profondo, ben confitto
nelle viscere, credi. Ma è un grande dolore un amore preda dell’ira.
NUTRICE –
Con arti magiche miste a preghiere le spòse usano stringere il legame
matrimoniale.
DEIANIRA -
E dove troverò un maleficio a cui egli possa cedere?
NUTRICE –
Ha vinto anche i celesti l’amore.
DEIANIRA -
Forse sarà vinto soltanto da lui e diverrà l’ultima fatica di Ercole. Ma per tutta
la potenza dei Celesti, per questo timore, ti prego: nascondi nel profondo tutto
ciò che di occulto preparo e tienilo segreto con tacita fedeltà.
NUTRICE –
Che cosa chiedi resti segreto?
DEIANIRA -
Su, guardati intorno, che qualcuno non sorprenda i segreti; volgi ovunque il tuo
sguardo indagatore.
NUTRICE –
Ecco, il luogo è vuoto, sicuro da ogni controllo.
DEIANIRA -
(Con circospezione) C’è, in un luogo remoto della reggia, un antro, che protegge in silenzio i miei segreti. Là sta nascosto il pegno dell’amore di Ercole.
Nutrice, lo confesserò: autore di quel veleno è il centauro Nèsso. Mentre
Alcìde, vincitore, mi aveva in spòsa, accadde che il fiume Evèno, che attraversa le pianure,
fosse turbato già fin quasi alla sommità delle sponde. Nèsso, solito attraversare i suoi guadi,
chiese una ricompensa; e già portandomi sul dorso infrangeva il corso minaccioso del fiume
in piena. Appena vide Alcìde lontano, disse: “Tu sarai mia preda e mia spòsa: è bloccato dalle
onde”. E mi abbracciava, per portarmi via e affrettava l’andatura. Ma le onde non trattengono
Ercole: “Traghettatore infido! – dice – Inseguirò con una freccia la tua fuga!”. L’arco fu più
rapido delle parole. Una freccia lo raggiunse e lo trafisse a morte. Quello, già cercando la
luce, raccoglie con la destra il sangue fluente della ferita e me lo consegna, introdotto in uno
zoccolo, spezzato e strappato con mano spietata. E poi, morendo, aggiunge queste parole:
“Maghe di Tessaglia hanno detto che l’amore può essere rafforzato da questo veleno. Donerai
vesti cosparse di questo umore, se una concubina odiosa insidierà il tuo letto nuziale”. La
quiete sorprese le sue parole e un sopore portò la morte alle membra spossate. Tu, che la
fedeltà ammette ai miei segreti, affrettati, perché il veleno, cosparso su una splendida veste,
raggiunga per le membra l’animo di Ercole e tacito entri nel profondo delle viscere.
NUTRICE –
Eseguirò al più presto i tuoi ordini, figlia; tu chiama ad assisterci il dio invitto,
che scocca frecce infallibili con la sua giovane mano. (Esce)
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DEIANIRA -
Té, té prego, che il mondo e gli dei del cielo temono, e il mare, e colui che vi
bra il fulmine forgiato nell’Etna, fanciullo armato di frecce, che anche la madre
spietata deve temere. Scaglia un dardo veloce con mano sicura. Prendi la freccia con cui una volta, terribile, colpisti Giove, quando, divenuto toro, solcò il mare infuriato
per trasportare Europa, la fanciulla di Siria. Suscita in lui l’amore, impàri ad amare la moglie.
Più forte dell’irata matrigna, conquista da solo questo trionfo e vinci Ercole.
NUTRICE –
(Rientra) Ho portato il filtro e una veste. Si cosparga il veleno, ora, e la veste di
Ercole assorba la peste. Accrescerò con gli scongiuri la virtù del maleficio.
(Intona una nenia?). Nel tempo medesimo ecco sopraggiunge il diligente Lica.
Bisogna nascondere il terribile sortilegio, perche non siano manifesti i nostri inganni.
DEIANIRA -
Lica, nome sempre fedele alla casa del re, prendi questa veste, che le mie mani
hanno tessuto mentre Ercole vagava per il mondo e domandava per sé Iòle.
Forse piegherò il suo animo spaventoso coi miei meriti: i meriti hanno sempre vinto i mali.
Avverti il mio spòso di non indossare la veste prima di aver nutrito le fiamme con l’incenso e
aver placato gli dèi. Io stessa mi dirigerò nella reggia e venererò con preghiere la madre
dell’implacabile dio Amore. Voi (chiama le donne etoliche, che appaiono in scena alla
spicciolata), che ho condotto mie compagne dalla dimora di mio padre, fanciulle di Calidóne,
piangete la mia sorte lacrimevole. (Esce).
CORO DI DONNE ETOLICHE
Piangiamo le tue sventure, figlia di Èneo,
noi schiera di compagne complici
degli anni tuoi più giovani.
Piangiamo, o miserabile
il tuo incerto talamo.
Con té eravamo solite
calcare il guado di Achelòo,
quando al termine della primavera
già placava le onde tumide,
e serpeggiava gracile
con un tranquillo scorrere;
noi ci recavamo agli altari di Pallade
e prendevamo parte alle danze delle vergini.
Anche ora qualunque sventura tu tema,
accoglici come fedeli compagne del tuo destino:
è rara la fedeltà quando ormai
la sorte favorevole precipita.
Tu, chiunque tu sia che impugni lo scettro,
anche se tutto il volgo bussa
a cento porte nella tua reggia,
se anche vai circondato dalla moltitudine,
a stento uno solo ti sarà fedele.
Domina la soglia dorata un’Erinni,
e quando s’aprono le grandi porte
entrano frodi e subdoli inganni
e la spada nascosta;
quando i ré si preparano a uscire tra la gente,
è loro compagna l’invidia.
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Una zolla più morbida di una coperta di porpora
suole indurre sonni sereni:
invece un soffitto ricoperto d’oro
rompe la quiete e la porpora
si trascina dietro notti insonni.
Oh, se si aprissero i cuori dei ricchi!
Quanti timori vi insinua nel profondo
la sorte che li ha elevati.
Il povero mantiene un animo sicuro.
Impugna tazze di faggio volgare,
ma non le tiene con mano tremante;
spezza cibi comuni e vili,
ma non vede impugnare spade contro sé;
nelle tazze d’oro si mesce sangue.
Una spòsa unita a un marito modesto
non fa sfoggio di doni splendenti del Mar Rosso,
ma non riscalda un letto incerto.
Chi abbandona la strada di mezzo
mai corre su un cammino sicuro:
Fetonte, mentre chiedeva di portare
un solo giorno al mondo,
stette in piedi, ragazzo, sul carro paterno
e non scese per la via di sempre,
ma cercando con la ruota errante
stelle ignote alle fiamme di Febo,
mandò in rovina insieme il mondo e sé stesso.
Mentre viaggiava a mezzo il cielo,
sorvolò placidi lidi Dedalo
e non diede il nome ad alcun mare;
ma mentre Icaro osava vincere i veri uccelli
e guardava dall’alto, ragazzo, il volo del padre,
e volava troppo vicino al Sole,
diede il nome a un mare ignoto:
le grandezze sono compensate male dalla rovina.
Il nome di un altro risuoni felice e grande:
mé nessuna moltitudine chiami potente.
La mia barca leggera costeggi i litorali
e nessun vento impetuoso costringa
la mia piccola barca a solcare il mezzo mare:
la mala sorte oltrepassa i golfi al sicuro,
e cerca le navi sul profondo mare,
le cui vele feriscono le nubi.
Ma perché atterrita, con volto pauroso,
la regina si trascina con rapido passo,
come una Mènade tormentata da Bacco?
Quale sorte ti angustia di nuovo, sventurata? Dillo!
Se anche lo neghi, il volto denuncia
quello che nascondi.
DEIANIRA -
(Entrano Deianira e la Nutrice) Un tremore vaga per le membra e le scuote a
forza. Si rizzano ispide le chiome, il terrore resta tuttora nell’animo sconvolto e
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il cuore, attonito, sobbalza. Come il mare sconvolto dall’Austro si gonfia ancora, se anche il giorno s’acquieta, così l’animo è ancora angustiato, anche dopo scacciata la
paura. Quando un dio comincia a incalzare quelli che si sentono felici, li torménta. Le grandi
cose hanno questi effetti.
CORO DI DONNE ETOLICHE - Quale irreparabile accidente ti tormenta, misera?
DEIANIRA -
Appena inviata la veste imbevuta dell’umore di Nèsso, ho diretto piangendo il
mio passo nella camera nuziale e l’animo mio ha preso a temere un pericolo.
Voglio fare una prova. Nèsso ha raccomandato di tenere lontano dai raggi del
sole il terribile veleno e che il sangue non sia avvicinato alle fiamme: questa astuzia mi ha
fatto presagire una frode. Al calore e alla luce quel sangue, gettato a terra, trema e riscaldato
appena dai raggi prende ad ardere (a stento posso riferire il prodigio). Come Lèucade sul mare
Ionio infrange i flutti, che scemano in schiuma sulla costa, così si disfa ogni striscia di lana e
va perdendo i suoi fili. Mentre guardo stupefatta, tutto quel che viene toccato da quella peste
vacilla e fermentando senza rumore si decompone. (Entra Illo).
Ma riconosco mio figlio in preda allo sbigottimento, che avanza con passo irruente. Che novità porti? Racconta.
ILLO –
Vattene, fuggi. Cerca se qualcosa si apra più lontano delle terre, del mare, degli
inferi: fuggi al di là delle fatiche di Alcìde, madre.
DEIANIRA -
L’animo mio presagisce non so quale grande male.
ILLO –
Raggiungi il regno del trionfo, il tempio di Giunone. Solo questo si apre per té,
gli altri santuari ti sono preclusi.
DEIANIRA -
Dimmi quale sciagura mi opprime senza colpa.
ILLO –
Quell’onore del mondo, unico presidio dato alla terra in luogo di Giove, madre,
se n’è andato: non so che peste brucia le membra e i muscoli erculei; lui,
proprio lui, che ha domato le bélve, vincitore, è vinto, piange, soffre. Cosa
chiedi di più? Già l’umanità tutta grida per il dolore.
DEIANIRA -
Ma dimmi, ti prego, dimmi quanto vicino alla morte giace il mio Alcìde.
ILLO –
La morte fugge da lui, lei che una volta è stata vinta da lui nel suo regno, e i
destini non osano ammettere una empietà tanto orribile. Forse persino Cloto ha
lasciato cadere la rócca e teme di portare a termine il destino di Ercole. Ahi
giorno, giorno orribile! Sarà l’ultimo per il grande Alcìde?
DEIANIRA -
ILLO –
Dici che mi precede verso il destino, verso le ombre del mondo più buio? O
posso anticipare per prima la morte? Parla, se non è ancora morto.
Nella terra d’Eubea, su una rupe elevata, che nessuna nube raggiunge, risplende l’annoso tempio di Giove Cenèo. Appena ogni animale votivo si fermò,
splendido per la tua veste, accese gli altari. “Accetta, – disse – queste mèssi sui
focolari, tu che sei davvero mio padre, e il sacro fuoco cominci a risplendere di abbondante
incenso. La terra è pacificata – disse – e il cielo, e il mare: deponi il fulmine” – E un gemito
cadde in mezzo alle preghiere, mentre lui stesso stupiva; quindi riempie il cielo di orrido
clamore. Come un toro in fuga riempie di uno smisurato muggito il santuario, che ne trema,
così quello turba le stelle e il mare col suo gemito. Lo vediamo piangere. Si crede tornata la
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pazzia di un tempo. Allora i servi si danno alla fuga. Ma lui, volgendo intorno lo sguardo, uno
tra tutti ségue, con occhi di fuoco: cerca Lica. Quello, abbracciato all’altare con mano tremante, consuma la morte nel terrore: poco di sé lascia al castigo. “Da questa mano – dice – da
questa, o fati, si dovrà dire che sono stato vinto? Ercole l’ha sconfitto Lica?”. Viene scagliato
quel corpo fino alle stelle e cosparge le nubi del suo sangue. Il tronco cade in mare, tra le
rocce la testa. A pena Ercole indica il flagello e si accanisce su di sé: lacera egli stesso i suoi
arti e con la mano strappa pezzo dopo pezzo le sue membra smisurate. La veste si fa una sola
cosa con la pelle. Cerca le onde del mare, ma le onde non attenuano la sofferenza. O sorte
amara! Ora una nave lo riporta dalla spiaggia di Eubea e un lieve Austro trascina il peso di
Ercole; l’animo ha abbandonato le membra, la notte ne copre gli occhi.
DEIANIRA -
Perché ti senti mancare, animo? Perché resti attonito? Il delitto si è compiuto.
Giove reclama suo figlio, Giunone il rivale. Una spada, immersa, attraversi il
mio corpo. Così, così è da fare. Ma... sarà una mano così debole a infliggere la
punizione adeguata a tanto delitto?
NUTRICE –
Perché trascini nella rovina una casa abbattuta? È frutto di errore in essa ogni
empietà, qualunque sia. Non è colpevole chi non lo è di sua volontà.
DEIANIRA -
Chiunque perdona il destino e risparmia sé stesso ha meritato di peccare: è de
ciso che sia condannata alla morte.
NUTRICE –
Vuole apparire colpevole, chi cerca di morire.
DEIANIRA -
Solo la morte rende innocente chi è stato ingannato.
NUTRICE –
Ma Alcìde è vivo e respira l’aria celeste.
DEIANIRA -
Ercole ha cominciato a morire da quando ha potuto essere vinto.
NUTRICE –
E seguirai il tuo spòso?
DEIANIRA -
Lo precedono, di solito, le mógli caste.
NUTRICE –
Sciagurata, se sei tu a condannarti, ti riconosci colpevole del delitto.
DEIANIRA -
Mi difenderò laggiù: gli dèi di laggiù assolveranno la colpevole. Purifichi Plu
tone queste mani. Starò davanti alle tue sponde, Lète dell’oblio e, ombra triste,
accoglierò il mio spòso. Ma tu, che affliggi i regni del cielo oscuro, prepara una
punizione tremenda. Strappi le fibre qui e qui l’avido avvoltoio di Tizio. Prendimi con té
come compagna, Medea: questa mano è più colpevole, più colpevole di entrambi i tuoi delitti
di madre o sorella spietata. Chiudetemi l’Elisio, spòse fedeli che abitate le radure del bosco
sacro. Mi piace andarmene tra quella folla di spòse: ma anche quella moltitudine fuggirà mani
tanto spietate. Invitto spòso, il mio animo è innocente, è la mia mano empia. Ahi mente
troppo credula, ahi Nèsso ingannatore e inganni semibestiali! Volevo sottrarti all’amante e ti
ho strappato a mé.
ILLO –
Riguardati ormai, madre, ti prego; perdona il destino. L’errore non ha colpa.
DEIANIRA -
Se vuoi cercare la vera pietà di un figlio, Illo, sopprimi tua madre. Ora. Perché
trema la tua mano impaurita? Perché volti la faccia? Sarà amore di figlio que
sto delitto. Ne dubiti, codardo? Non sarà così grave il misfatto che compirai: la
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mano che mi abbatterà sarà tua, ma l’intenzione mia. Ecco, è scoperto il petto pieno di
affanni: colpiscilo! Io ti perdono il delitto. Perdoneranno la tua destra anche le Eumenidi. ...
(Sbigottita): Ho sentito ... rumore di colpi di sferza. Chi è costei, che ha la chioma intrecciata
di una serpe velenosa e scuote ali nere sulle squallide tempie? Perché mi perséguiti, maledetta
Megèra, con la tua fiaccola ardente? Chiedi vendetta per Alcìde? L’avrai. Ma ecco vedo le
porte tremende del carcere. Chi è questo che, già troppo vecchio, porta un immane macigno
sulle spalle consumate? Ecco già vinta, la pietra cerca di scivolare ancora indietro. Chi affida
le membra alla ruota della tortura? Ecco, pallida, si drizza la crudele Tisìfone e reclama la
punizione. Risparmia, ti prego, risparmia le frustate Megèra, trattieni le fiaccole Stigie: è un
delitto d'amore. Ma che accade? La terra vacilla e la reggia ha risuonato per il tetto scosso. Da
dove proviene questa moltitudine minacciosa? Tutto il mondo si precipita contro il mio volto,
di qua e di qua fremono le genti e tutto il mondo reclama il suo vendicatore. Dove posso
precipitare la mia fuga? La morte sola darà un porto alle mie sventure. Chiamo a testimone la
fiammante ruota del Sole splendente, chiamo a testimoni gli dèi del cielo: lascio Ercole ancor
vivo in terra, mentre mi accingo a morire.
ILLO –
È fuggita, terrorizzata. Ahimè. Si è compiuta ormai la parte di mia madre. Ha
deciso di morire. Resta ora la mia: allontanarne l'impeto di morte. Misero mio
amore di figlio: se impedisci che muoia la madre, sei empio verso il padre; se
la lasci morire, fai torto alla madre. Incalza da una parte e dall'altra l'empietà. Ma devo
fermarla: andrò a impedirle di compiere quel misfatto. (Esce anche la Nutrice).
CORO (DI DONNE ETOLICHE) (ma si potrebbe frammischiarvi qualche donna di Ecalia)
È vero quel che cantò il sacro Òrfeo,
il figlio di Calliope, modulando la voce
sulla lira ispirata dalle Muse
sotto le rupi del Ròdope di Tracia:
nulla dura in eterno.
Si fermò al suono della sua melodia
il fragore del torrente in piena
e, dimentica di seguire la sua fuga,
l'acqua perse il suo impeto.
Trascinò il bosco gli uccelli
e si mosse verso lui
chi abitava la selva.
Vide franare le sue rocce il monte Athos,
portandosi dietro i Centauri,
e si fermò presso il Ròdope,
scioltesi le nevi ai canti di quello;
e le Drìadi, lasciando le querce,
si affrettavano verso il vate.
Ai canti tuoi vennero le fiere
coi loro stessi rifugi
e il leone Marmàrico sedette
a fianco delle greggi senza paura
né i daini temevano i lupi
e il serpente abbandonava i nascondigli,
dimentico in quel tempo del suo veleno.
E quando per le porte Tenarie
si recò ai taciti Mani,
pizzicando la lira lamentosa,
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col suo flebile canto vinse il Tartaro
e le fósche divinità dell’Èrebo
e non temette le paludi dello Stige
su cui giurano gli dèi sùperi.
Ricrebbe il fégato di Tizio,
mentre col canto tratteneva gli avvoltoi;
udiva incantato anche il nocchiero
e la barca del fiume infernale
avanzava senza rematore.
Di nuovo le Parche sostituirono
lo stame di Euridice consunto.
Ma mentre, immemore del divieto,
Òrfeo si volgeva a guardarla,
dubbioso che lo seguisse restituita,
perse il premio del canto.
Periva colei che di nuovo era nata.
Allora, cercando sollievo nel canto,
con flebile intonazione Òrfeo
cantò queste verità ai Gèti:
'Léggi sono imposte agli dèi
e il dio che regola il tempo
ha disposto quattro avvicendaménti
dell'anno che corre verso il suo termine.
Per tutti le Parche sono avare
nel collegare gli stami alla rócca:
ciò che è nato potrà morire”.
Ercole sconfitto costringe a credere
al vate di Tracia.
E già, già, sopraffatte le leggi,
quando verrà per il mondo
il giorno stabilito,
il polo australe abbatterà
quanto giace nella Libia;
il polo boreale travolgerà
ciò che giace sotto il cielo del nord
e l’arido Bòrea percuote.
Perduto il cielo, tremante,
il Sole caccerà via il giorno.
La volta del cielo, abbattendosi,
trascinerà con sé oriente e occidente,
e morte e caos annienteranno
pariménti tutti gli dèi,
e la morte stessa preparerà per sé
un insolito ultimo destino.
Quale luogo accoglierà il mondo?
Quale luogo conterrà
un delitto così grande del destino,
quale luogo conterrà da solo
per gli dèi sùperi tre regni
il mare, il tartaro, le stelle?
Ma quale eccessivo fragore
percuote le orecchie sbigottite?
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È la voce, è proprio la voce di Ercole.
(Il coro resta in scena. Ercole giunge trasportato dal coro dei suoi seguaci).
ERCOLE -
Piega il corso dei tuoi cavalli ansanti, Sole splendente, fai uscire la notte: muo
ia per il mondo questo giorno in cui muoio io; inorridisca di un’atra nube il
cielo. Ora, padre, conveniva fosse ristabilito il caos tenebroso; di qua e di qua
si sarebbero dovuti frantumare i due poli. Perché risparmi gli astri? Stai perdendo Ercole,
padre! Guarda ora in ogni parte del cielo, che qualche Gigante non scagli contro té rupi di
Tessaglia. Spalancherà oramai le porte dello scuro carcere l’orgoglioso Plutone, strapperà le
catene al padre Saturno e gli renderà il cielo.
CORO (DI DONNE ETOLICHE E DI SEGUACI DI ERCOLE)
Non temi pericoli vani, figlio del Tonante:
ora Tifèo vincerà le rocce
ed Encèlado porterà di là il fuoco dell’Etna
e sventrerà il fianco della montagna aperta,
non ancora sconfitto dal fulmine:
seguono ormai la tua sorte i regni del cielo.
ERCOLE -
Io, disdegnato lo Stige, sono tornato per le paludi di Lète con un trofeo,
per il quale a pena il Sole non è caduto, barcollando i suoi destrieri; io, di cui
hanno fatto prova i tre regni degli dèi, muoio. E nessuna spada stride, immersa
nel mio fianco; nessun macigno è l’arma della mia morte: sono vinto senza un nemico. E quel
che più mi torménta è che l’ultimo giorno di Alcìde non abbatte alcun mostro. Sacrifico la
vita, ahimè, per nessuna impresa. Si dirà che una femmina è autrice della morte di Ercole!
Avessi potuto, almeno, cadere per l’odio di Giunone, che domina il cielo. Per mano di quale
donna vengo sopraffatto! Ne nasce una vergogna maggiore per té, matrigna. Una femmina
mortale è andata oltre il tuo odio.
CORO (DI DONNE ETOLICHE E DI SEGUACI DI ERCOLE)
Vedi come il valore cosciente di lode
non provi orrore per il fiume dell’oblio?
Prova vergogna per l’omicida,
non si duole della morte.
Se la causa di essa è da commiserare,
perché non c’è alcuna fiera,
alcun gigante a provocarla,
chi resta ormai, che sia degno
della morte di Ercole,
se non la tua sola destra?
ERCOLE -
Quale scorpione, dentro, quale cancro brucia le mie viscere? Brucia il fégato e
un lento vapore ha portato via tutto il sangue. Una peste ha consumato la pelle
e ha aperto una strada nelle membra; il veleno ha divorato in profondità gli arti e le costole, ha
raggiunto le viscere: sta nelle ossa svuotate. Mi ha abbandonato il mio corpo possente, le
membra di Ercole non sono più all’altezza di questa peste. Ahi, quanto grande è il male, che
confesso smisurato! Guardate, città, guardate che resta ormai del famoso Ercole. E tu, Padre,
mi riconosci? Volgi il tuo sguardo alla mia disfatta, padre: Alcìde non è mai ricorso alle tue
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mani. Ma questo giorno mi ha indotto a chiedere qualcosa. Un fulmine solo ti chiedo. Per
crudeltà o per misericordia concedi la tua mano al figlio, mentre la morte si affretta, e fa tuo
questo merito. (Entra Alcmèna)
ALCMÈNA -
Verso quali terre potrò dirigermi, io, madre infelice di Alcìde? Dov’è, dov’è
mio figlio? Se lo sguardo non mi inganna, ecco, brucia a terra, mentre il
suo cuore ansima. Gème: tutto è compiuto. Lascia che abbracci ciò che resta
delle tue membra, figlio, che la mia bocca raccolga lo spirito che fugge.
ERCOLE -
Stai guardando Ercole, madre; ma l’ombra di mé, un non so che di nes
sun valore. Riconoscimi, madre: perché volgi indietro lo sguardo e nascondi il
volto? Ti vergogni che si dica Ercole tuo figlio?
ALCMÈNA -
Che empietà tanto funesta trionfa su té? Chi è il vincitore di Ercole?
ERCOLE -
Tu vedi Alcìde abbattuto dagli inganni della spòsa. Un’idra si aggira tra le mie
viscere, credilo, madre; e mille fiere con quella di Lerna. Vi prego, compagni,
gettatemi in mezzo ai flutti e in mezzo ai fiumi. Nemmeno l’Ocèano, più esteso
delle terre, spegnerà le mie vampe.
ALCMÈNA -
Trattieni le lacrime, almeno; doma il tuo affanno. Mostra Ercole indomito a
sofferenze così insopportabili e differisci la morte. Vinci gli inferi, tu che sai
farlo.
ERCOLE -
Se l’orrido Caucaso mi offrisse in pasto, incatenato, all’aquila vorace, non mi
uscirebbe un sospiro degno di lacrime; se questo stesso cielo si precipitasse
contro mé, madre, non domerebbe la ménte di Ercole un solo indegno grido.
Anche sparso in mille pezzi tacerò. Non mi strapperanno gemiti le fiere, non le armi, nulla che
si possa abbattere. (Entra Illo)
ILLO –
Ahi luce amara, giorno colmo di scelleratezze! La nuora del dio che tuona è
morta, il figlio giace senza forze: resto solo io, il nipote. Questo muore per il
delitto di mia madre, quella è stata ingannata da una frode. Quale vecchio potrà
raccontare così tante sciagure in tutta la sua vita? Un solo giorno mi ha strappato tutti e due i
genitori; e perdo un padre come Ercole!
ERCOLE -
Sono questi, Illo, i doni di tua madre? Datemi clava e arco, si contamini la mia
destra, imprimerò una macchia alla mia fama, sceglierò una femmina come
ultima fatica di Ercole.
ILLO –
Tieni a freno le terribili minacce dell’ira. Ha ricevuto l’ultimo colpo. È
finita. Ha scontato le pene che chiedi. Giace la madre, uccisa di sua propria
mano.
ERCOLE -
È giusto il tuo dolore. Ma avrebbe meritato di cadere per mano di Ercole adirato. Perché il suo cadavere è sottratto alle mie minacce? Lo ricevano in
nutrimento le fiere.
ILLO –
Ha sofferto più di té ferito, l’infelice. È caduta di sua mano, a causa del tuo
dolore; ha patito più di quanto chiedi. Nèsso ha ordito questi inganni, colpito
dalle tue frecce. La veste è stata tinta col sangue della mezza belva ed è Nèsso
ora a esigere queste pene.
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ERCOLE -
Le ha. È fatta. Si svolge il mio destino. Questa è l’ultima luce. La quercia profetica, un giorno, mi aveva predetto questa sorte: « Per mano di un uomo
morto, Alcìde, vincitore, un giorno cadrai; questo termine ultimo è dato a té,
dopo che avrai attraversato mari e terre e le ombre». Non lamentiamoci oltre. È stata
conveniente questa fine, perché un vincitore di Ercole non gli sopravvivesse. Ora si scelga
una morte illustre, memorabile, nobile, proprio come si addice a mé: renderò famoso questo
giorno. Sia abbattuta la sélva tutta e prenda fuoco il bosco dell’Èta: e il rògo accolga Ercole,
ma prima della sua morte. Tu, Filottète, figlio di Peante: prepara per mé, giovane, questa triste
cerimonia: la fiamma di Ercole risplenda per l’intero giorno. E tu, nobile madre, cessa i
laménti funebri, ti prego: vive Alcìde per té. Col mio valore ho fatto credere mia matrigna la
tua rivale Giunone. Risparmia le lacrime: sarai superba tra le madri Argoliche. Cosa di simile
ha generato Giunone? Termina il tuo corso, ora, o Sole. Io vado a raggiungere il Tartaro e i
Mani. Ma porterò presso quelli di sotto questo illustre motivo di gloria: che nessun flagello ha
sconfitto apertaménte Alcìde, ma Alcìde ogni flagello l’ha sconfitto apertaménte! (Esce
accompagnato dai seguaci).
CORO (DI DONNE ETOLICHE)
Ornaménto del mondo, splendente Sole,
annuncia ai Sabèi posti sotto l’Aurora,
annuncia agli Ibèri posti sotto il tramonto,
che Ercole si affretta verso i Mani eterni
da dove mai egli farà ritorno.
Quando, dove, sotto quale cielo
seguirai in terra un altro Ercole?
Giace simile a tutti, quello che la terra
generò simile al dio che tuona.
Risuoni il pianto per le immense città.
Tu vai al Lète e alla sponda dello Stige,
da dove nessuna imbarcazione ti riporterà;
tu vai ai Mani, degno di compianto,
Ma non sarai tra le ombre indegne di stima:
giudicherai le azioni, colpendo i tiranni.
Il valore ha un posto tra gli astri.
Ti insedierai nella regione dell’Orsa
o dove il Sole cocente emette i suoi ardori?
O splenderai sotto il tiepido occidente?
Su quali luoghi del cielo sereno
graverai col tuo peso?
Nasceranno le messi nel mare profondo,
prima che i popoli cessino le tue lodi.
Ahimè, che accade? Il mondo risuona.
Ecco piange, piange il padre il suo Alcìde.
È il clamore degli dei?
È la voce della matrigna impaurita,
fugge gli astri Giunone alla vista di Ercole?
O piuttosto hanno tremato i Mani terribili?
Ci stiamo ingannando: ecco viene con lieto volto
il figlio di Peante, erede di Ercole, e porta sulle spalle
le frecce nella faretra ben nota ai popoli.
Narraci i casi di Ercole, ti prego, giovane Filottète,
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e con quale volto Alcìde abbia affrontato la morte.
FILOTTÈTE - Col volto con cui nessuno affronta la vita.
CORO -
Tanto lieto si è gettato negli ultimi fuochi?
FILOTTÈTE - Ha mostrato che le fiamme erano niente ormai. Che cosa sotto questo cielo Er
cole ha lasciato immune dall’essere vinto? Ecco: tutto è stato domato.
CORO -
Che possibilità c’è stata tra le fiamme per quel forte?
FILOTTÈTE - È stata vinta anche la fiamma, il solo male che al mondo non aveva ancora
sconfitto. Anche questa si è aggiunta alle belve: il fuoco è finito tra le fatiche
Erculee.
CORO -
Racconta, su: in che modo è stata vinta la fiamma?
FILOTTÈTE - Appena la schiera tutta, mèsta, assale l’Èta, per mano di questo un faggio perde
i rami ombrosi e l’intero suo tronco giace abbattuto; quest’altro, impetuoso,
piega un pino tanto elevato da minacciare gli astri e lo tira giù dal mezzo di una
nube: scuote la roccia mentre si prepara a crollare e trascina con sé una selva di alberi meno
robusti. Una enorme quercia di Caonia, un tempo mormorante, porta giù cadendo una vasta
rovina e subito il luogo lascia filtrare tutti i raggi del sole. Cacciati dalle dimore, gli uccelli
vagano tutto il giorno e con le stanche ali vanno cercando il bosco. Le piante vengono
ammassate tutte e uno dopo l’altro i tronchi innalzano agli astri un rògo augusto per Ercole. E
quello viene trasportato, come un leone possente e malato, che muggisce col petto piegato nel
cuore del bosco Africano. Chi crederebbe che sia trasportato verso le fiamme? Era il volto di
uno che si dirige agli astri, non al fuoco. Come tocca coi piedi l’Èta e percorre con lo sguardo
il rògo, chiede l’arco. « Ricevi questi doni – dice – figlio di Peante, e accetta il dono di Alcìde.
Giovane felice destinato alla vittoria, queste frecce non le scoccherai mai invano contro un
nemico; e quest’arco non tradirà mai la tua destra. I dardi scoccati dalla sua corda non
sbagliano direzione. Tu soltanto, ti prego, predisponi per mé il fuoco e l’ultima fiaccola ».
Geme tutta la folla e il dolore non risparmia le lacrime a nessuno. La madre in lutto,
impazzita, apre il petto e colpisce con colpi devastanti le mammelle denudate fino al ventre; e
accusando con le sue parole gli dèi celesti e lo stesso Giove, riempie ogni luogo con la sua
voce di donna. « Madre, tu rendi disonorevole la morte di Ercole, trattieni le lacrime, trattieni
il tuo dolore di donna. Perché Giunone dovrebbe ritenere lieto questo giorno a causa del tuo
pianto? ». E si stende sul rògo, col coraggio mostrato quando condusse per le città Argoliche
il cane, quando tornò vincitore dell’Erebo, dopo aver sfidato Dite, mentre la morte tremava.
Quanta pace ha prodotto quell’atteggiamento! Nessuno piange più per colui che sta per
morire: ormai piangere è motivo di vergogna. Anche Alcmèna, cui il sesso ingiunge di affliggersi, resta immobile con le guance asciutte e sta ferma, madre ormai quasi simile al figlio.
CORO -
E non ha mandato preghiere al cielo, agli dèi Superi, sul punto di bruciare?
Non si è rivolto a Giove per invocarlo?
FILOTTÈTE - Si è disteso sicuro di sé e guardando il cielo ha cercato se dall’alto di qualche
rocca il padre lo guardasse. Poi, tendendo le mani, ha detto: «Padre, da
qualunque parte osservi il figlio, té, proprio té prego, padre. Se cantano le mie
lodi l’una e l’altra spiaggia di Fèbo, se è piena di pace la terra, se non ci sono più delitti...
accogli il mio spirito tra le stelle. Non mi spaventano il mondo della morte sotterranea né i
tristi regni dell’oscuro Giove; ma andare come ombra tra quegli dèi che ho sconfitto, padre...
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Ne arrossisco! Squarciate le nubi, manifesta il giorno, perché lo sguardo degli dèi contempli
Ercole che brucia: anche se tu mi negherai le stelle e il cielo, padre, al contrario vi verrai
costretto da loro. Se il dolore mi strapperà un solo grido, allora spalanca le paludi Stigie e
rendimi al destino. Ma prima lasciami mostrare che sono tuo figlio: questo giorno mi farà
ritenere degno degli astri». Poi ha domandato il fuoco. « Porgilo, su, compagno di Alcìde,
afferra senza indugio la fiaccola Etèa. Perché ha tremato la tua destra? Afferra la torcia con
l’animo con cui vedi giacere Alcìde. Guardami ansioso di bruciare. Ecco già il padre mi
chiama e spalanca il cielo: vengo, padre!». E l’aspetto non è stato più lo stesso. Con la destra
tremante ho gettato il pino infuocato. Ma il fuoco è fuggito: fanno resistenza le fiamme e
stanno lontane dalle membra. Ma è lui, Ercole, a inseguire il fuoco che indietreggia.
Crederesti che bruci il Caucaso, o il Pindo, o l’Athos: ma nessuna voce esce dalla sua bocca,
soltanto il fuoco geme. O cuore inflessibile! Tra il fumo e le minacce delle fiamme, immoto,
incrollabile, senza piegare su alcun fianco le membra aggredite dal fuoco, esorta, ammonisce.
Infonde coraggio ai ministri della cerimonia; l’avresti detto ardente di bruciare. Stupisce tutta
la folla tanto placida è la fronte, tanta la maestà dell’eroe. E non ha fretta di essere bruciato.
Trascina a sé tronchi infuocati e dove l’incendio si espande più vivo, si lancia, intrepido,
indomito. E quando già il fuoco minaccioso aggredisce il volto e le fiamme lambiscono il
capo, non chiude gli occhi.
Ma che è questo? Vedo una donna afflitta, che porta in grembo quanto resta del grande
Ercole. Geme Alcmèna, agitando la squallida chioma.
ALCMÈNA -
Temete il destino, dèi del cielo: è così piccolo il cenere di Ercole. Così, così si
è ridotto quel gigante. Il mio grembo di vecchia, ahimè, basta a raccogliere Al
cìde. A stento ha riempito tutta l’urna. Che peso leggero è per mé colui sul
quale tutto il cielo gravò senza pesargli! Un tempo, figlio, scendevi ai regni estremi del
Tartaro per farne ritorno. Quando potrai abbattere le porte Tenarie? Tu vai ai Mani destinato a
un cammino senza ritorno. Perché duri, misera vita? In quali terre mi recherò, vecchia, odiosa
ai crudeli tiranni? Forse Giunone, adirata, pretenderà una mia punizione. Si è liberata dello
sconfitto Alcìde, e resto io, la rivale. Mi è stato dato di vedere mio figlio gareggiare con
Giove per la gloria, perché mi fosse concesso questo solo: sapere cosa il destino mi poteva
rapire.
FILOTTÈTE - Trattieni il pianto dovuto al figlio, madre del nobile Alcìde. Non bisogna piangere né incalzare con la sua grave morte chi col valore ha sottratto la strada al
destino. Il suo eterno valore vieta di piangere Ercole! Chi è forte proibisce il
pianto, il vile lo pretende.
ALCMÈNA -
Io, la madre, frenare i laménti, dopo che si è perduto il vendicatore della terra e
del mare? Quanti figli, madre infelice, ho sepolto in uno solo! Mi mancava un
regno, ma potevo donarne. Sola tra tutte le madri della terra ho rinunciato alle preghiere, nulla
ho chiesto agli dèi, finché mio figlio era vivo: che cosa poteva negarmi l'ardore d'Ercole,
Qualsiasi cosa mi avesse negato Giove, me l'avrebbe data lui. Cosa di simile generò mai una
madre mortale? La madre Niobe si erse immobile, annientata per la morte dell'intera
figliolanza e quattordici figli pianse da sola. A quanti figli poteva essere paragonato lui?
Mancava alle madri infelici fino ad ora un esempio straordinario: lo darò io, Alcmèna. Tacete,
madri, se un lutto ostinato vi costringe ancora a piangere, se un grave dolore vi trasforma in
pietre; cedete tutte a questi miei mali. Ma una sola vegliarda senza forze può bastare per la
morte di tanto eroe? Chiama a battersi il petto l'umanità, per suscitare col pianto l'invidia negli
dèi.
Piangete il figlio di Alcmèna e del grande Giove,
per concepire il quale un giorno andò perduto
e l'Aurora congiunse due notti:
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muore qualcosa di più della luce stessa.
Piangete insieme, genti tutte,
i cui feroci tiranni egli costrinse a penetrare
nelle dimore dello Stige e a deporre il ferro
grondante del sangue dei loro popoli.
Rendete il pianto per meriti tanto grandi;
tutto il mondo, tutto, lo riecheggi.
Pianga Alcìde l'azzurra Creta,
terra cara al grande Tonante:
cento popoli si percuotano le braccia.
Piangete la morte di Ercole, Àrcadi,
già popolo quando ancora il Sole non sorgeva.
Piangete, donne di Argo, piangete donne di Cleone.
Pianga la terra libera da Antèo
e la regione sottratta al feroce Gerióne.
Battete il petto con mé, genti sventurate,
sentano questi colpi l'uno e l'altro mare.
E anche voi, moltitudine del cielo veloce,
versate lacrime per la sorte di Ercole, o numi:
il mio Alcìde sostenne sul capo il vostro mondo e il cielo,
quando Atlante, che regge l'Olimpo stellato
poté respirare, liberato dal peso.
Dove sono ora le vostre ròcche, Giove?
Dove la reggia del cielo promesso?
Certo il mortale Alcìde è morto, certo è sepolto.
Figlio mio, hai già raggiunto le dimore dell'Elisio,
hai raggiunto la riva, a cui natura chiama tutte le genti?
O il nero Stige ti ha chiuso il varco,
e i fati ti trattengono sull'estremo limitare di Dite?
Quale spavento si impadronisce delle ombre e dei Mani, figlio?
Fugge il traghettatore, allontanata la barca?
Mi inganno, mi inganno, pazza furente che sono;
e i Mani e le ombre non ti temono,
e la pelle strappata al leone Argolico,
coperta di fulva criniera, non copre, spaventosa,
le tue braccia non più vigorose;
le zanne della belva non proteggono le tue tempie:
e scoccherà le tue frecce ormai
una mano meno possente.
Vaghi indifeso, figlio, tra le ombre,
tra le quali sarà destino tu resti per sempre.
ERCOLE -
ALCMÈNA -
Perché col pianto mi costringi a avvertire la morte, ora che occupo i regni della
volta stellata, restituito finalmente al cielo? Basta: la virtù ha aperto per mé la
via alle stelle e agli dèi stessi del cielo.
Da dove, da dove questo suono colpisce le mie trepide orecchie? Da dove il
fragore frena le mie lacrime? Intendo, intendo: il caos è stato vinto. Torni a mé
un'altra volta dallo Stige, figlio? Hai vinto ancora i luoghi della morte? Ma
certo io ti ho visto posto sopra le selve deflagranti, mentre le fiamme infuriavano con minacce
contro il cielo: tu sei bruciato! Perché i luoghi più remoti degli inferi non hanno trattenuto la
tua ombra? Cosa di té hanno temuto i Mani? Dillo, ti supplico!
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ERCOLE -
Non mi trattengono le paludi del Cocìto che geme; non ha traghettato la mia
ombra la barca tenebrosa; cessa, madre, oramai i laménti. Il fuoco, invitto, ha
portato via quanto di té era stato in mé mortale: la parte del padre è stata data al cielo, quella
tua alle fiamme. Perciò smetti di infliggerti colpi. Il lutto sia riservato agli indegni. Il valore
tende agli astri, la paura alla morte. Ma ormai devo salire alla volta celeste: io, Alcìde, ho vinto ancora i luoghi infernali.
ALCMÈNA -
Rimani un poco... Se n'è andato, si è allontanato dalla mia vista, viene portato
agli astri. Mi inganno o gli occhi credono d'aver visto mio figlio? La ménte
sconsolata stenta a credere. Sei un dio e appartieni al cielo per sempre.
CORO –
Mai la nobile virtù viene condotta alle ombre dello Stige:
vivete, voi che siete forti:
il destino crudele non vi trascinerà lungo i fiumi dell'oblio,
ma quando il giorno ormai trascorso porterà via le ultime ore,
la gloria aprirà la strada verso gli dèi del cielo.
Ma tu, grande vincitore di fiere
e pacificatore del mondo, sii vicino a noi:
anche ora volgiti a guardare la nostra terra,
e se qualche belva dal nuovo aspetto
sconvolgerà i popoli con grave terrore,
tu annientala con fulmini di tre punte:
scaglia fulmini con forza maggiore del tuo stesso padre.