Premesse generali del globo nel 1968
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Premesse generali del globo nel 1968
Presentazione A quarant’anni dal Sessantotto è interessante, al di là delle celebrazioni, ripercorrere il variegato movimento di contestazione che ha coinvolto i giovani di tutto il mondo con un’ansia di cambiamento e di libertà che nella società attuale sembra decisamente sopita. Al di là del giudizio che si può dare del fenomeno, appare evidente la sua eredità in numerosi ambiti, ma quello che risulta sorprendente è la vitalità che ancora oggi promana dalle diverse manifestazioni che esso ha assunto in tutti i campi della vita civile. Per i giovani si tratta di un confronto importante e significativo, che suscita curiosità e fornisce stimoli per la conoscenza e l’approfondimento della storia collettiva. Il nostro lavoro è partito da una presentazione in classe in cui, dopo una ricostruzione del contesto storico, sono stati individuati i filoni da seguire e sviluppare. Gli alunni hanno poi lavorato in gruppo approfondendo diverse tematiche, dalla conoscenza del complesso scenario mondiale in cui la contestazione si è verificata alle forme particolari che essa ha assunto nei vari Paesi, agli aspetti di innovazione introdotti in diversi ambiti della vita civile: la scuola, la religione, il costume e i rapporti sociali, la musica, la moda. Inoltre, hanno cercato di comprendere il contributo apportato dalle analisi di pensatori come Marcuse e dalle posizioni critiche di intellettuali come Pier Paolo Pasolini, si sono documentati sul senso che ha avuto la contestazione per persone che l’hanno vissuta direttamente e sul giudizio che attualmente ne viene dato. Senz’altro molti aspetti non sono stati sviluppati come meritavano, ma riteniamo estremamente positivo lo stimolo che questo lavoro ha costituito per ulteriori ricerche e approfondimenti. Prof.ssa Piera Francesca Ianni Il Sessantotto Premessa Il movimento nacque a metà degli anni Sessanta e raggiunse il suo culmine nel 1968. Nel mondo occidentale (Europa e Stati Uniti) un vasto schieramento di studenti e operai prese posizione contro l’ideologia dell’allora nuova società dei consumi, che proponeva il valore del denaro e del mercato come punto centrale della vita sociale. Negli Stati Uniti la protesta giovanile si schierò contro la guerra del Vietnam, legandosi alla battaglia per i diritti civili ed alle filosofie che esprimevano un rifiuto radicale ai principi della società capitalistica (controcultura). Al contempo, alcune popolazioni del blocco orientale si sollevarono per denunciare la mancanza di libertà e l’invadenza della burocrazia di partito, gravissimo problema sia dell’URSS che dei paesi legati ad essa. Diffusa in buona parte del mondo, dall’Occidente all’Est comunista, la contestazione ebbe come nemico comune il principio di autorità. Nelle scuole gli studenti contestavano i pregiudizi dei professori, la cultura ufficiale e il sistema scolastico classista e obsoleto. Nelle fabbriche gli operai rifiutavano l’organizzazione del lavoro ed i principi dello sviluppo capitalistico che mettevano in primo piano il profitto a scapito dell’elemento umano. Anche la famiglia tradizionale veniva scossa dal rifiuto dell’autorità dei genitori e del conformismo dei ruoli. Facevano il loro esordio i nuovi movimenti che mettevano in discussione le discriminazioni in base al sesso (con la nascita del femminismo e del movimento di liberazione omosessuale) ed alla razza. Gli obiettivi comuni ai diversi movimenti erano la riorganizzazione della società sulla base del principio di uguaglianza, il rinnovamento della politica in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, l’eliminazione di ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione razziale e l’estirpazione della guerra come modalità di relazione tra gli stati. Antonio Iacomi L’assetto bipolare e la sua crisi Negli anni Sessanta entrò in crisi l’assetto politico del mondo che si era definito alla fine della Seconda guerra mondiale. Il 1945, anno della fine della Seconda guerra mondiale, ha segnato l’inizio di un’epoca definita l’età delle superpotenze, dominata dalla presenza e dalla concorrenza di due grandi blocchi politico-economico-militari entrambi in grado di distruggere l’avversario e con esso la vita di tutto il pianeta. Fortunatamente lo scontro politico ed ideologico non degenerò mai in un conflitto militare aperto: per questo il dopoguerra viene generalmente denominato come il periodo della guerra fredda. Gli anni della guerra fredda sono stati segnati da una tensione continua, da guerre locali definite “guerre per delega”, in quanto combattute dagli alleati degli USA e dell’URSS, e dalla corsa agli armamenti. L’inizio della guerra fredda viene fatto risalire alla conferenza di Yalta, dove i tre grandi, Churchill, Roosevelt e Stalin, decisero le sorti del mondo che usciva dalla guerra. In termini brutali, ci fu una vera e propria spartizione del mondo tra USA e URSS. I protagonisti della guerra fredda URSS L’URSS uscì dalla Seconda guerra mondiale notevolmente provata: 18 milioni di morti, molte città distrutte e tutte le sue regioni europee invase dalla Germania. Riuscì comunque ad affermarsi a livello mondiale grazie alla forza del suo grande esercito (l’armata rossa), alla ferrea disciplina imposta da Stalin e allo sfruttamento dei territori occupati. Fin dal 1945, infatti, l’URSS avviò una politica di sfruttamento sistematico dei paesi occupati, volta a ricostruire e accelerare lo sviluppo del sistema industriale sovietico. Vennero quindi imposte pesantissime riparazioni agli ex alleati della Germania (Ungheria, Romania e Bulgaria) costretti a cedere risorse finanziarie, derrate agricole, macchinari e mezzi di locomozione. Interi complessi industriali, un tempo controllati dai Tedeschi, vennero inoltre smantellati e ricostruiti su territorio russo. Il suo potere derivò inoltre dal grande appoggio di tutti i partiti comunisti del mondo e dalle speranze di indipendenza che essa alimentava in tutti i paesi ancora soggetti al regime coloniale. Nell’Europa orientale, la massiccia presenza dell’armata rossa anche dopo la fine del conflitto determinò l’imposizione russa di governi comunisti filo-sovietici (e quindi l’allontanamento forzato dei dirigenti collettivizzazione dell’economia. non comunisti) e la conseguente Nel 1947 così si insediarono governi filo-sovietici in Polonia, Bulgaria, Ungheria e Romania, uniti tutti alla “madre Russia“ mediante organizzazioni politiche, economiche e militari, mediante il COMINFORM e COMECON, e infine il Patto di Varsavia. Il Cominform era una sorta di riedizione della terza Internazionale (che si era sciolta nel ’43 in omaggio all’alleanza antifascista) ed il suo scopo era quello di coordinare l’azione di tutti i partiti comunisti europei. Fondato nel 1947 dai rappresentanti dei partiti comunisti dei paesi dell’Europa orientale, di Francia ed Italia, Il Cominform divenne lo strumento tipico della contrapposizione tra blocco comunista e blocco occidentale. Il Cominform venne però sciolto nel 1956 con l’avvio della politica di coesistenza pacifica avviata dal leader sovietico Chruscev. Grazie al COMECON invece, l’URSS si assicurò il controllo delle economie dei paesi da lei occupati. Attraverso il “consiglio di mutua assistenza economica“ (COMECON) infatti, l‘URSS poté scegliere i processi di produzione dei paesi satelliti in modo tale che questi risultassero complementari a quelli russi. I tassi di cambio all’interno dell’area del rublo, nonché la quantità ed i prezzi dei beni scambiati furono quindi rigidamente controllati dal potere sovietico. La Russia così conobbe ben presto un rapido sviluppo: nei primi anni del dopoguerra, la crescita produttiva sovietica fu notevole, con incrementi medi del 10% annuo. Il Patto di Varsavia fu invece la risposta sovietica all’ingresso della Nato della Germania Federale. Esso si configurò come organizzazione militare dei paesi comunisti dell’Europa orientale e conferì alla Russia il comando di tutte le forze militari dei paesi contraenti il trattato. Il patto di Varsavia si sciolse soltanto nel 1991 in seguito al crollo dei regimi comunisti nell’Europa orientale. USA Gli USA uscirono dalla Seconda guerra mondiale addirittura rafforzati; essi non avevano conosciuto né occupazione straniera né bombardamenti e la loro capacità produttiva era notevolmente aumentata dato lo sforzo fatto per rifornire di armi e di ogni altra merce i propri soldati in guerra. Alla fine della guerra gli USA si ritrovarono con la più potente marina e aviazione militare del mondo e la loro supremazia militare era garantita dal possesso della bomba atomica. Anche nel campo economico la supremazia degli USA era indiscutibile; con la conferenza di Bretton Woods del 1944 infatti, poiché gli USA possedevano i due terzi delle riserve aurifere mondiali ed era necessaria la ricostruzione di un sistema monetario internazionale efficiente e stabile per la ripresa della crescita degli scambi internazionali, fu deciso che di tutte le monete internazionali solo il dollaro avrebbe mantenuto la convertibilità in oro diventando così la moneta chiave del sistema. Gli scambi e i pagamenti internazionali sarebbero stati effettuati unicamente in dollari e la valuta americana sarebbe divenuta moneta di riserva in sostituzione dell’oro. Vennero inoltre create due nuove istituzioni economiche internazionali: la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale con lo scopo di agevolare con prestiti lo sviluppo dei paesi più arretrati. Queste istituzioni, nate per essere super partes dipendevano però principalmente dai finanziamenti USA e sono state quindi largamente influenzate dalla politica di Washington. Agli occhi degli Americani il fallimento delle democrazie europee, la nascita dei regimi fascisti, dei vari nazionalismi e la stessa catastrofe bellica erano il frutto della mancata risoluzione dei problemi finanziari creati dalla Prima guerra mondiale. Solo l’affermazione della libertà di commercio su scala mondiale e lo sviluppo della cooperazione internazionale avrebbero potuto assicurare la pace e la democrazia. Gli USA si proclamarono allora promotori di quest’ideale e lo dimostrarono attuando il cosiddetto “Piano Marshall“. Il Piano Marshall consisteva nella concessione agli stati europei di prestiti a basso interesse o a fondo perduto, nella fornitura di massicci aiuti in beni alimentari e materie prime e soprattutto nel rinnovamento tecnico delle imprese europee attraverso l’introduzione di macchinari, tecnologie e tecniche di produzione più moderne. Il piano Marshall, che all’inizio era piuttosto vago, assunse ben presto dimensioni considerevoli: dal 1948 (anno del suo inizio) al 1957 (anno della conclusione) esso portò allo stanziamento di ben 13 miliardi di dollari. Esso d’altra parte permise agli USA di influenzare la condotta economico-finanziaria dei paesi assistiti e di favorire gli investimenti esteri americani. Il piano Marshall inoltre, creando un forte legame tra USA e Europa occidentale, si poneva come forte baluardo contro le mire espansionistiche sovietiche in Europa. Fu per questo dunque che, quando gli Americani offrirono i loro aiuti anche a Cecoslovacchia e Polonia, fu lo stesso Stalin ad intervenire e ad imporre ai governi di Varsavia e di Praga di rifiutare l’offerta americana. La solidarietà politica tra Usa ed Europa si riaffermò poi nel 1949 con l’alleanza politico-militare del Patto Atlantico che ebbe il suo strumento bellico nella NATO (North Atlantic Treaty Organization) cui aderirono 12 Paesi. La Nato era un’alleanza con dichiarato carattere difensivo, ma il suo sorgere confermò comunque una netta divisione dell’Europa occidentale da quella orientale. Questa divisione fu confermata nel 1955 quando i paesi del blocco comunista opposero alla NATO una loro alleanza militare, il Patto di Varsavia, che istituiva a Mosca il comando supremo delle forze armate di tutti i paesi a lei alleati. LA CRISI Il sistema bipolare, costruito attorno all’asse Unione Sovietica-Stati Uniti, manifestò però i primi segnali di crisi fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta a causa di molteplici fattori. Un primo elemento è dato dall’emergere di una nuova potenza, la Repubblica popolare cinese, che si mostrò desiderosa di svolgere un ruolo di primo piano sulla scena politica mondiale. Nel 1963 la Cina ruppe addirittura i rapporti con Mosca, aprendo una spaccatura significativa all’interno del mondo comunista. Tale spaccatura diviene ancora più evidente con la crisi di Praga nel 1968, quando Mosca ricorse all’intervento armato, di fronte al tentativo della Cecoslovacchia di realizzare un “socialismo dal volto umano”, soffocando così le speranze che si erano accese nella popolazione di molti Paesi dell’Est. Nello stesso tempo anche gli Stati Uniti vivevano una crisi d’immagine, soprattutto a causa della sanguinosa guerra in Vietnam, che li rese impopolari agli occhi del mondo. Il movimento di contestazione giovanile, esploso a metà degli anni Sessanta negli Usa e poi diffusosi in Europa fu, nello stesso tempo, l’espressione e l’acceleratore di questa crisi degli Usa nel ruolo di guida del mondo occidentale. Negli anni Settanta l’Europa, a sua volta, venne pervasa da una crescente esigenza di costruirsi un’identità autonoma dai due blocchi e dalla volontà di farsi promotrice di una politica di dialogo tra Est e Ovest. Essa infatti intraprese in quegli anni un proprio percorso, che porterà all’allargamento della Comunità economica europea e alle prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. LA CINA DI MAO TSE-TUNG Mentre negli anni Cinquanta del XX secolo la guerra fredda tra Usa e Urss continuava a dominare lo scenario internazionale, in Asia stava emergendo una nuova potenza politica, la Repubblica popolare cinese, che aspirava a disporre di spazi di manovra sempre più ampi e a godere di una considerazione internazionale maggiore rispetto a quanto il bipolarismo avesse precedentemente permesso. Favorito dall’aiuto dell’Unione Sovietica e deciso a risolvere i problemi interni della società cinese, il presidente Mao Tse-Tung aveva seguito la via centralizzata e burocratizzata della collettivizzazione attraverso un primo piano quinquennale, finalizzato al potenziamento dell’industria anche nelle zone più interne del paese. Mao Tse-Tung Con tale piano ci fu l’introduzione del controllo dei prezzi che riuscì con ampio successo a spezzare la spirale inflattiva della precedente Repubblica di Cina, ed una semplificazione della scrittura cinese che mirava ad aumentare l’alfabetizzazione. La terra venne redistribuita dai proprietari terrieri ai contadini poveri e vennero intrapresi progetti di industrializzazione su larga scala, che contribuirono alla costruzione di moderne infrastrutture nazionali. Mao adottò inoltre delle politiche intese a promuovere la scienza, i diritti delle donne e delle minoranze, combattendo al tempo stesso l'uso di droghe e la prostituzione. Non stanziò mai fondi per la scolarizzazione delle masse, ma anzi fece in modo che chi era nato contadino rimanesse tale. Molti degli studenti, alla fine degli studi iniziali, si trovarono nella condizione di non poter più studiare, essendo stati tagliati tutti i fondi alle scuole e all’istruzione. Tale piano però, volto soprattutto al potenziamento delle industrie, si rivelò in seguito inadatto a soddisfare le esigenze della numerosa popolazione cinese, la quale aveva bisogno essenzialmente di beni agricoli per sopravvivere; Mao si trovò quindi a dover cambiare in breve tempo l’impostazione del suo programma e a puntare soprattutto sullo sviluppo dell’agricoltura: fu così lanciata la politica del “Grande balzo in avanti”, la quale sollecitò la creazione di nuove infrastrutture industriali e imponenti lavori di irrigazione. Egli fece appello alla volontà rivoluzionaria del partito: "tre anni di sforzi e mille anni di felicità". Frattanto, venne internato nei campi di concentramento il personale dell'Ufficio centrale di statistica, che aveva espresso dubbi sulla realizzabilità dei progetti di Mao. In agosto egli annunciò la formazione delle "comuni popolari": gigantesche unità produttive e sociali, destinate a raggruppare ciascuna migliaia o decine di migliaia di famiglie contadine, dove tutto divenne comune (pasti in comune, riposo in grandi camerate collettive, collettivizzazione anche degli oggetti di uso personale) e non c'era vita privata familiare. Mao pensava che esse avrebbero dovuto rendersi autosufficienti attraverso lo sviluppo di attività industriali interne. Abolì il diritto di tenere piccoli orti privati e di abbandonare le cooperative di appartenenza. Ben presto però anche questa politica si dimostrò inadatta a determinare quel “grande balzo”; infatti l’aumento della produzione agricola non vi fu e la Cina attraversò una crisi alimentare gravissima che, inasprita dai successivi quattro anni di carestia, portò alla morte per fame quasi trenta milioni di persone. Di qui un ritorno parziale alle cooperative (1960) fondate su specifici gruppi di produzione, e un mutamento del programma economico. La bomba atomica cinese e la frattura del mondo socialista Un cambiamento importante si stava nel frattempo verificando nella politica estera cinese: dopo il 1960, infatti, iniziò una fase di aspra conflittualità nei confronti dell’Urss, che nel luglio del 1963 sfociò in una rottura delle relazioni tra Pechino e Mosca a causa sia della critica cinese alla politica di coesistenza pacifica voluta da Krusciov, sia della mancata concessione da parte dell’Urss dei piani di costruzione della bomba atomica. La dottrina della coesistenza pacifica, adottata nel 1956, riconosceva che lo scontro tra i due "blocchi" (socialista e capitalista) non costituiva una fatalità storica e che la guerra era quindi evitabile. All'interno della coesistenza si riteneva infatti possibile una pacifica competizione economica tra i due sistemi in cui il socialismo avrebbe mostrato a tutti i popoli la sua superiorità e si sarebbe potuto imporre, soprattutto nei paesi industriali avanzati, per via democratica e parlamentare. Sebbene non rifiutasse una visione bipolare del mondo, la coesistenza pacifica attribuiva un ruolo significativo ai paesi non allineati, cioè alle posizioni neutraliste di molti dei nuovi stati indipendenti sorti con la decolonizzazione del Terzo mondo. La Cina, anche senza l’aiuto dell’Urss, riuscì comunque a costruire il primo ordigno nucleare (1964), il che accentuò ancora di più la divisione all’interno del mondo socialista, determinando così di fatto l’incrinazione del bipolarismo. La perdita dello slancio rivoluzionario e la svolta di Mao Dopo il fallimento del “grande balzo in avanti”, nelle fabbriche e soprattutto nelle campagne, si attenuò la mobilitazione popolare: il che favoriva un rapido ritorno verso forme di vita borghesi, tendenti ad accentuare le divisioni tra lavoratori manuali e intellettuali, e destinate a riprodurre forme di privilegio economico e sociale. Mao ritenne necessario riprendere la via della rivoluzione per eliminare ogni tendenza verso il benessere economico individuale e per combattere il “revisionismo”, sostenuto all’interno del Partito comunista cinese da Deng Xiao-Ping, convinto assertore della linea Kruscioviana. La rivoluzione culturale cinese Nel 1965 Mao Tse-Tung aprì la via alla “rivoluzione culturale”, così definita perché finalizzata a trasformare la mente dei cinesi. Il movimento, nato inizialmente tra gruppi di studenti, si estese progressivamente e coinvolse nei suoi attacchi alcuni settori del partito comunista, dello Stato e dell'esercito cinese, per poi passare definitivamente sotto il controllo dell'esercito e, in particolar modo, del ministro della difesa Lin Piao. Al 9° congresso del partito comunista cinese, tenutosi nell'aprile 1969, trionfò la rivoluzione culturale e Lin Piao, visto come il successore di Mao, sostenne la politicizzazione dell'esercito contro i rischi di un eccessivo potere del partito. Questo, però, lentamente riprese il sopravvento e Lin Piao, scomparso misteriosamente nel settembre 1971, venne posto sotto accusa nel corso del 10° congresso (agosto 1973), assieme ai suoi collaboratori. La vittoria del partito, guidato dal premier Chou En-lai, fu sancita dall'avvio di una "seconda rivoluzione culturale", il cui scopo primario fu quello di screditare la figura di Lin Piao, che veniva accomunata a quella di Confucio (la cui filosofia si basava sull'etica personale e politica, sulla correttezza delle relazioni sociali, sulla giustizia, sul rispetto dell'autorità familiare e gerarchica, sull'onestà e la sincerità) e accusata di revisionismo. Alla morte di Mao (1976), i successori e in particolare Deng Xiao-Ping, andranno ancora oltre, inaugurando una politica economica basata su nuovi elementi: l’abbandono della collettivizzazione delle terre e dell’industrializzazione pianificata; l’impostazione della vita economica sulla base della proprietà privata e del libero mercato; l’ammodernamento della tecnologia produttiva; l’apertura agli scambi economici con l’Occidente. I nuovi dirigenti del Partito Comunista cinese intendevano ripensare i propri legami col passato, nel difficile tentativo di coniugare progresso economico e tradizione socialista, riforme liberiste e stabilità politica, libertà di mercato e centralizzazione governativa. L’UNIONE SOVIETICA E LA CRISI DI PRAGA Nel 1964, al posto di Krusciov, era divenuto segretario del Partito comunista sovietico Leonid Breznev, il quale promosse due nuovi piani economici quinquennali, incentrati soprattutto sullo sviluppo dell’industria leggera, e quindi su una maggiore produzione di beni di consumo e sul potenziamento delle fattorie al fine di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori agricoli. I piani prevedevano inoltre una nuova apertura all’Occidente, sia nel settore degli scambi economici, sia in quelli commerciali. La gestione di Breznev non fu però in grado né di attuare un concreto sviluppo produttivo, né di creare le premesse per una revisione del sistema economico comunista. In politica estera Breznev non si allontanò dalla linea della distensione, come dimostrarono non solo gli accordi sulla limitazione delle armi missilistiche tra Usa e Urss, ma anche quelli del novembre successivo sottoscritti a Bonn con i rappresentanti della Repubblica federale tedesca e della Repubblica democratica tedesca, relativi all’assetto territoriale dell’Europa centro-orientale. Tali accordi erano stati definiti alla conclusione del secondo conflitto mondiale, ma non erano stati ancora ufficialmente ratificati. Nei confronti dei paesi satellite Breznev continuò a ribadire l’autorità dell’Unione Sovietica contro ogni tentazione nazionalistica o “deviazionistica”, sulla base della teoria di una loro sovranità limitata. Questa teoria comportava anzitutto un’intransigente lotta contro ogni dissidenza, considerata “antisovietica”, “filoborghese” e pertanto “filoccidentale”. Fu in base a tale presupposto che Breznev si rese responsabile nel 1968 di un colpo di forza ai danni della Cecoslovacchia (cfr Primavera di Praga) GLI STATI UNITI E IL CONFLITTO IN VIETNAM Lyndon Johnson succede a Kennedy Nel novembre 1963, dopo l’assassinio di John Kennedy, era salito alla presidenza degli Stati Uniti il democratico Lyndon Johnson (1908-1973), che aveva ricoperto la carica di vicepresidente durante la precedente amministrazione. Johnson riprese la linea della “nuova frontiera” e adottò il programma detto “della grande società”, incentrato su un’aperta lotta al pauperismo e alla discriminazione razziale, assai diffusi presso vasti strati della popolazione statunitense. Durante la sua presidenza, la politica della coesistenza pacifica fu messa profondamente in crisi dall’intervento militare americano nel Vietnam, iniziato nel 1962 durante la presidenza Kennedy e destinato a trasformarsi in una vera e propria calamità per gli Usa. L’intervento americano in Vietnam La conferenza di Ginevra (1954), che poneva fine alla guerra tra Francia e Indocina, non doveva portare la pace in quell’area dell’Estremo Oriente. L’Indocina si divise in due: il Vietnam del nord e il Vietnam del sud. La forza assunta dal nord filo-sovietico e dalla guerriglia filo-comunista al sud, spinse gli USA a rafforzare prima il regime del sud e poi (constatata la sua debolezza e nel timore di perdere il controllo di tutta l'area) ad intervenire direttamente: da poche centinaia di consiglieri militari della fine degli anni Cinquanta, si arrivò a oltre 70.000 uomini nel 1968, obbligando gli USA a reintrodurre la coscrizione obbligatoria. Nel frattempo la guerra si era fatta brutale. Da un lato la guerriglia vietcong ricorreva ad ogni mezzo (ricevendo sostegni dalle potenze comuniste), dall'altro gli USA bombardavano a tappeto città e villaggi, usavano aggressivi agenti chimici, estesero le operazioni alla Cambogia e al Laos. La resistenza vietnamita e le aspre proteste della comunità internazionale e dell'opinione pubblica, anche dopo un tentativo di "vietnamizzazione" (cioè di riduzione dell'impegno USA) portarono alla sconfitta finale (1975). La brutalità di quella guerra - oltre che marcare drammaticamente la vita del popolo vietnamita - ferì profondamente tutta una generazione di Americani e la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale. Suscitò contestazioni anche all’interno della stessa società americana e condusse a una crescente impopolarità del presidente Johnson che, nel 1968, decise di rinunciare a una nuova candidatura a causa soprattutto della grave perdita di prestigio degli Stati Uniti nel mondo. Ad offuscare il prestigio degli Stati Uniti contribuirono anche due gravissimi episodi di criminalità politica avvenuti nel 1968 in piena campagna presidenziale: l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, fratello del defunto presidente. Meno di quaranta anni fa, in America, c'erano fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri. A teatro, le balconate erano altrettanto separate e così i posti negli autobus pubblici. La lotta per cambiare queste condizioni e guadagnare la parità dei diritti di fronte alla legge per i cittadini di qualsiasi razza è stata la scelta di fondo della breve vita proprio di Martin Luther King. Pacifista convinto e grande uomo del Novecento, Martin Luther King Jr. nacque il 15 gennaio 1929 ad Atlanta (Georgia), nel profondo sud degli States. Suo padre era un predicatore della chiesa battista e sua madre una maestra. I King inizialmente vivono nella Auburn Avenue, soprannominata il Paradiso Nero, dove risiedono i borghesi del ghetto, gli "eletti della razza inferiore", per dirla con un'espressione paradossale in voga al tempo. Nel 1948 Martin si trasferì a Chester (Pennsylvania) dove studiò teologia e vinse una borsa di studio che gli consentì di conseguire il dottorato di filosofia a Boston. Durante gli anni della lotta contro la discriminazione razziale, King venne più volte arrestato e molte manifestazioni da lui organizzate finirono con violenze e arresti di massa; egli continuò a predicare la non violenza pur subendo minacce e attentati. "Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora. Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nell’ora di mezzanotte, batteteci e lasciateci mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello alla vostra coscienza e al vostro cuore che alla fine conquisteremo anche voi, e la nostra vittoria sarà piena.” Nel mese di aprile dell'anno 1968 Martin Luther King si recò a Memphis per partecipare ad una marcia a favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero. Mentre, sulla veranda dell'albergo, s'intratteneva a parlare con i suoi collaboratori, dalla casa di fronte vennero sparati alcuni colpi di fucile: King cadde riverso sulla ringhiera, pochi minuti dopo era morto. Approfittando dei momenti di panico che seguirono, l'assassino si allontanò indisturbato. Erano le ore diciannove del 4 aprile. Il killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi; si chiamava James Earl Ray, ma rivelò che non era stato lui l'uccisore di King; anzi, sosteneva di sapere chi fosse il vero colpevole. Nome che non poté mai fare perché venne accoltellato la notte seguente nella cella in cui era rinchiuso. Il 4 aprile, durante un viaggio promozionale ad Indianapolis anche Robert Kennedy venne a conoscenza dell'assassinio di Martin Luther King. Durante il suo discorso Kennedy chiese e sottolineò fortemente quanto fosse necessaria una riconciliazione fra le razze. Egli vinse le primarie in Indiana e nel Nebraska, perse in Oregon e il 4 giugno 1968 la sua candidatura ricevette una grande spinta con la vittoria in South Dakota e California. Ma dopo aver incontrato i suoi sostenitori quella stessa sera all'Ambassador Hotel di Los Angeles, Robert Kennedy venne assassinato con un colpo di pistola e morì all'alba del 6 giugno 1968, a soli 42 anni. Ora la sua salma riposa vicino a quella del fratello nell'"Arlington National Cemetery". Martin Luther King Robert Kennedy Il discredito delle politiche di Usa e Urss Come abbiamo detto, alla fine degli anni Sessanta il bipolarismo Usa-Urss mostrava segni evidenti di crisi. Il coinvolgimento nella lunga e sanguinosa guerra del Vietnam, rendeva impopolari gli Stati Uniti agli occhi del mondo. Anche l’Urss, dopo i fatti di Praga, non manteneva più il suo ruolo centrale all’interno del mondo comunista. Il movimento di contestazione giovanile del 1968, sostenendo ideali di rinnovamento politico e culturale e opponendosi ad ogni autoritarismo, contribuiva ad accelerare il dissolvimento dell’ordine bipolare. Inoltre, proprio agli inizi degli anni Settanta, tutto l’Occidente, pur se in forme diverse, conobbe una gravissima crisi economica determinata in parte anche da un sensibile e generalizzato aumento del prezzo del petrolio greggio imposto dal mondo arabo, che si avviava a diventare un nuovo polo politico ed economico, oltre che culturale, ormai pienamente autonomo. Di fronte a questi fenomeni Usa e Urss reagirono in due modi totalmente diversi: l’Unione sovietica, come dimostrò con la repressione della “primavera di Praga”, rimase rigidamente ancorata alla logica della spartizione in sfere d’influenza. Gli Stati Uniti ebbero invece il merito di non abbandonarsi al recupero di schemi di rigido controllo sul mondo, ormai superati e inefficaci. L’iniziativa partì soprattutto dal presidente repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968. Egli, con l’aiuto del segretario di stato Henry Kissinger, fece di tutto per riconquistare credibilità morale e prestigio internazionale. Sul fronte della politica estera Nixon seguì una politica pragmatica, una “Realpolitik”, consapevole dei profondi mutamenti in atto nel mondo, con i quali la potenza statunitense doveva ormai fare i conti. IL RIAVVICINAMENTO AMERICANO ALLA CINA Nixon aveva capito che il futuro dell’egemonia americana si sarebbe giocato nell’area cino-sovietica, alla quale dunque era necessario aprirsi. Ecco perché, sfruttando sia le ostilità tra Russi e Cinesi, sia la progressiva apertura commerciale e diplomatica cinese nei confronti dell’Occidente, e soprattutto degli Stati Uniti, Nixon attuò una politica di riavvicinamento alla Cina di Mao. Una tappa importante di tale politica fu il ritiro del veto americano all’ingresso nell’Onu della Repubblica popolare cinese (1971). Quest’ultima potè essere così ammessa alle Nazioni Unite: fino ad allora, infatti, erano stati i rappresentanti del governo di Formosa a occupare il seggio cinese. Nel febbraio 1972 vi fu anche un viaggio di Nixon a Pechino, cui seguì una liberalizzazione degli scambi commerciali tra i due Paesi. L’avvicinamento cino-americano giunse proprio mentre si stava acuendo il dissidio tra Cina e Unione Sovietica, sfociato in veri e propri scontri armati al confine tra i due Paesi. Si accentuava così sulla scena mondiale il “confronto a tre”, fra Unione Sovietica, Cina e Stati Uniti. UNA CRISI DEL SISTEMA CAPITALISTICO Nel 1971 il presidente Nixon annunciò ufficialmente che gli Stati Uniti non erano più in grado di assicurare la convertibilità del dollaro in oro (anche per le enormi difficoltà economiche derivanti dall’impegno in Vietnam). Le autorità americane decisero pertanto di dichiarare il dollaro inconvertibile nell’agosto del 1971 e di svalutarlo nel dicembre dello stesso anno: ciò segnò la fine del gold exchange standard. Il gold exchange standard era un “sistema di cambio monetario con l’oro” creato nel corso di una conferenza a Genova nel 1922, e nonostante i tentativi di altre monete di sostituirsi ad esso, il dollaro rimase comunque l’unica moneta in grado di finanziare la maggior parte degli scambi mondiali, data la sua enorme disponibilità. RITIRO DEGLI USA ED EPILOGO DELLA GUERRA IN VIETNAM A caratterizzare la presidenza di Nixon fu infine il fermo proposito di ritirare le truppe americane dal Vietnam. All'interno degli USA infatti, la guerra in Vietnam non era popolare: il prezzo pagato dai soldati americani (47000 morti alla fine del conflitto), i costi altissimi dell'impresa (trenta miliardi di dollari nel solo 1966), la lontananza e l'estraneità del teatro delle operazioni, la durata di un conflitto del quale non si riusciva a vedere la fine, l'imbarazzo per le difficoltà che la superpotenza nucleare incontrava di fronte a un Paese sottosviluppato del Terzo Mondo, moltiplicavano i dubbie il disagio morale per un'impresa iniziata senza valutarne bene le conseguenze. Su questo tessuto di fondo, alimentato anche da gesti clamorosi di dissenso (come la renitenza alla leva da parte del campione di pugilato Cassius Clay "Mohamed Alì") e dai servizi televisivi sulle conseguenze drammatiche dei bombardamenti (la guerra del Vietnam è stata la prima ripresa dalla televisione e "portata" attraverso il teleschermo in tutte le case), si innestava l'opposizione aperta dei movimenti di contestazione giovanile: non solo negli USA, ma in tutta l'Europa occidentale, il ribellismo della generazione del Sessantotto faceva del Vietnam il simbolo della lotta contro l'imperialismo, contro la società del benessere che lo esprimeva. L'opposizione si accentuava nel 1970 quando, nelle remore dei negoziati di pace, il presidente Richard Nixon estendeva il conflitto alla Cambogia e al Laos, sia con bombardamenti che si proponevano di tagliare alla guerriglia le vie di rifornimento, sia favorendo un colpo di Stato a Pnom Pehn che determinava la caduta del principe Cambogia Sianouk e l'instaurazione del regime autoritario del generale Lon Nol: durante le manifestazioni che si svolgevano in molte città americane, le forze dell'ordine intervenivano duramente e nell'università di Kent State, nell'Ohio, quattro manifestanti rimasero uccisi. La spinta congiunta dell'opposizione interna e delle difficoltà militari induceva l'amministrazione Nixon ad una svolta, sancita alla fine del 1970 dalla decisione del Congresso di revocare la risoluzione del Tonchino. Pur continuando con le operazione aeree di bombardamento, gli americani iniziavano un progressivo disimpegno e ritiravano le proprie truppe che a fine 1972 si ridussero a 43000 Nixon durante un incontro uomini. Il 27 gennaio 1973 a Parigi veniva diplomatico firmata la pace tra USA e Vietnam del nord. Il ritiro americano accelerava l'esito della crisi indocinese. Nel Laos il movimento del Patet Lao, appoggiato dalle forze di Hanoi, giungeva al potere conquistando nel 1974 la capitale Vientiane; in Cambogia la rivolta contro il regime di Lon Nol portava alla vittoria del movimento rivoluzionario dei Khmer Rossi di Pol Pot; in Vietnam, l'offensiva delle forze del nord determinava il crollo dell'esercito di Van Thieu e, il 30 aprile 1975, la caduta di Saigon, da cui venivano evacuati poche ore prima gli ultimi funzionari e consiglieri americani rimasti. Iniziata come guerra di contenimento del comunismo, l'avventura degli USA in Vietnam si concludeva così con la trasformazione di tutta l'Indocina in una regione governata da regimi rivoluzionari. SCANDALO WATERGATE Nell’agosto del 1974 il presidente americano Nixon fu costretto a dimettersi. Durante la campagna presidenziale del 1972, alcuni soggetti, legati al partito Repubblicano di Nixon, spiavano le attività dei concorrenti democratici infiltrandosi persino nelle loro stanze dell'albergo Watergate (da qui il nome). Due giornalisti del Washington Post, Woodward e Bernstein vennero a conoscenza di queste attività spionistiche e le pubblicarono. Qui Nixon fece il suo grave errore: per la paura di essere coinvolto direttamente diede ordine di ostacolare le indagini e negò ripetutamente di averlo fatto o di essere a conoscenza delle stesse. Fu questa bugia che lo condannò, molto più del fatto in se (l'attività di spionaggio tra i due partiti non scandalizzava nessuno). A causa di questa dimostrata menzogna e dei maldestri tentativi di nasconderla, Nixon subì l'Impeachment e dovette abbandonare, nel 1974, la carica di Presidente con la curiosa nota che essendosi dovuto dimettere precedentemente anche il vicepresidente eletto Agnew per evasione fiscale, la Presidenza andò allo Speaker della Camera, Gerald Ford. IL VIETNAM INVADE LA CAMBOGIA Intanto nel Sud-est asiatico la fine del confitto vietnamita non coincise con la pacificazione dell’area: nel 1979, infatti, il Vietnam entrò in guerra con la confinante Cambogia, retta da una feroce dittatura comunista appoggiata dalla Cina, quella dei Khmer rossi, guidati da Pol Pot. Il regime di Pol Pot, tra il 1976 e il 1978, aveva portato a compimento uno dei più feroci esperimenti di rivoluzione sociale: nel tentativo di estirpare dal Paese ogni residuo occidentale, Pol Pot arrivò a sterminare centinaia di migliaia di oppositori e provocare la morte per fame e stenti di circa un milione e mezzo di cittadini. Il Vietnam, che considerava il regime di Pol Pot un ostacolo ai propri piani di espansione in Indocina, nel Dicembre 1978 invase la Cambogia, instaurando nel Gennaio 1979 un governo amico e rovesciando quello dei Khmer rossi. All’arrivo delle truppe vietnamite la situazione in cui si trovava la Cambogia era disperata. Con fanatica meticolosità i Khmer rossi avevano spopolato le città e costretto la popolazione urbana al lavoro forzato nelle campagne, massacrando chiunque non condividesse la loro opinione e chiunque sapesse leggere e scrivere, poiché ritenuto pericoloso in vista dell’instaurazione di una società completamente nuova e radicalmente priva di memoria del passato. I templi buddisti, le biblioteche e altre sedi di istituzioni, furono distrutti nell’intento di cancellare la vecchia società e di sostituirla con il nuovo modello fondato sul comunismo agrario. Abolita la moneta e ridotti gli scambi al baratto, distrutto il sistema dell’istruzione e della sanità, interrotta ogni via di comunicazione e di trasporto, il Paese aveva un aspetto spettrale, ovunque disseminato dalle macabre fosse comuni in cui venivano accatastati i cadaveri delle migliaia di vittime del regime. LA FINE DELLA GUERRA E L’EMERGERE DI UN NUOVO RUOLO DELL’ASIA Le truppe vietnamite si ritirarono dalla Cambogia soltanto nel 1988, in seguito alla mediazione dell’Onu e grazie al miglioramento dei rapporti tra Urss e Cina. Finiva così un conflitto che aveva provocato un milione di morti. A proposito di questa vicenda, c’è chi ha osservato che il Vietnam “aveva vinto la guerra, ma aveva perso la pace”, a causa della via seguita per la propria ricostruzione: una strada basata sull’aggressione espansionistica, che stravolse e soffocò persino molti degli ideali che pure avevano ispirato la lotta contro gli Stati Uniti. Una cosa risultava ben chiara tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta: l’Asia, ormai in pieno fermento, si era sottratta al controllo politico e militare americano e seguiva logiche proprie, non più coincidenti con gli interessi politici delle due superpotenze. Francesca Bentivoglio Le contestazioni studentesche in America e il movimento per i diritti civili negli Usa Nato nelle università del Nord, il movimento studentesco si era dato come obiettivo essenziale la piena attuazione di quella democrazia, garantita dai principi costituzionali, ma negata dall'organizzazione della società, che tollerava la persistenza della segregazione razziale negli stati del Sud, reprimeva le forme di opposizione al sistema e favoriva il militarismo. Negli stati del Sud, negli anni Cinquanta era venuto maturando un movimento nero per l'uguaglianza, promosso dalle comunità di colore. Uno degli atti più significativi fu il boicottaggio degli autobus di Montogomery, Alabama, lanciato nel 1955 per protesta contro la segregazione delle razze. Nel 1959 la Corte Suprema americana ordinò la fine della segregazione nelle scuole: si trattò di uno dei più importanti risultati conseguiti dal movimento. A questo punto si temeva che lo sviluppo del movimento nero portasse alla fine dell'esclusione di fatto della popolazione di colore dal voto, praticata in tutto il Sud, con l'aiuto dell'organizzazione violenta e razzista del Ku Klux Klan. In appoggio al movimento nero del Sud, gli studenti di molte università del Nord degli Stati Uniti diedero inizio alle "marce al Sud”, massicce campagne d'invio di militanti (la maggior parte dei quali bianchi) durante l'estate, con il compito di proteggere il diritto al voto della popolazione di colore. Come risposta vi furono numerosi assassinii e linciaggi, mentre i tradizionali leader politici assumevano posizioni di aperto sostegno alla violenza. Nonostante tutto, il movimento ottenne significativi successi politici, contribuendo al superamento della segregazione. A partire dal 1963-1964, le agitazioni dei neri si svilupparono rapidamente anche nelle grandi città del Nord degli Usa. Qui però il problema non era la segregazione istituzionale: la rivendicazione della piena uguaglianza coi bianchi, infatti, non si accompagnava (come nel movimento per i diritti civili del Sud) con la volontà di un'integrazione sociale totale nella "comunità dei bianchi", ma al contrario voleva preservare la diversità e la specificità, culturale e sociale. Eguaglianza e diversità, soppressione dei privilegi bianchi ma autogoverno dei neri nella loro comunità. Giulia Franco Il Maggio francese È a partire dal bisogno di rivendicare le proprie libertà in una società considerata rigida ed ormai superata, dalla contestazione della guerra in Vietnam, dalla massificazione dell’insegnamento e dal rischio dell’introduzione dei test di accesso all’università per gli studenti liceali che in Francia nasce e si sviluppa il movimento fatto di proteste e manifestazioni noto col nome di “maggio francese”. I primi focolai della rivoluzione appaiono nel marzo ’68 quando l’arresto, durato qualche ora, dello studente anarchico Daniel Cohn-Bendit, accusato di aver partecipato ad un attentato alla sede parigina dell'American Express, scatena la mobilitazione di molti giovani e la conseguente occupazione della facoltà di Nanterre e della storica università della Sorbona a Parigi. È però a partire dal 3 maggio che ha inizio la vera protesta in seguito al fermo per il controllo dell'identità di qualche centinaio di studenti, da cui prendono il via le giornate di disordine nel Quartiere latino, le manifestazioni e i duri e violenti scontri tra studenti e forze dell’ordine. Dal 7 maggio anche i lavoratori divengono parte attiva nelle contestazioni, mettendo in atto una lunga serie di scioperi tesi a piegare il potere politico francese, rappresentato dal presidente De Gaulle e dal primo ministro Pompidou, le cui deboli proposte a poco erano servite nel sedare le proteste, e ad ottenere più garanzie e diritti nei vari ambiti dei propri impieghi. Lo smarrimento apportato dalla mancanza di uno strumento di comunicazione di massa (la televisione pubblica era in sciopero), l’appoggio alla protesta di personaggi noti e attori (il festival del cinema di Cannes si autodisciolse) e la tensione generata dal tentativo di incendiare la Borsa di Parigi, che si sommava a quella delle precedenti settimane di contestazioni, portano il generale De Gaulle alla drammatica decisione di sparire per qualche ora, per poi tornare con la promessa di un referendum di “approvazione presidenziale” in seguito al quale si dimetterà. Il 30 maggio, con l’approvazione dei negoziati di Granelle, le proteste dei lavoratori come anche le contestazioni degli studenti inziano lentamente ad affievolirsi per consegnare alla Francia una nuova quotidianità, vita, società cui abituarsi. Opinioni sul Maggio I due articoli che seguono sono esemplificativi dell’opinione che si sta diffondendo attualmente a proposito del Sessantotto in Francia e di come esso viene analizzato, stimato, valutato mediante la riflessione e l’esperienza di un popolo, maturata in 40 anni di storia e vita. Il primo articolo riporta la nota dichiarazione dell’allora candidato alla presidenza della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, e le sue considerazioni sul periodo del maggio francese, discorso tra i più noti, conosciuti e diffusi dell’intera campagna elettorale. In esso Sarkozy lancia pesanti accuse al movimento sessantottino, mirando all’opposizione politica guidata dalla socialista Ségolène Royal, criticando i molti politici ex-manifestanti presenti nelle file della sinistra di aver portato e lasciato la Francia alla mercé di teppisti, truffatori, manager, sindacalisti per nulla attenti agli interessi del paese. A questo punto l’opinione pubblica francese si divide e il secondo articolo riportato ne è una chiara dimostrazione. Da una parte viene riferito il dato di un paese in cui tre abitanti su quattro giudicano positivamente la rilevante eredità lasciata dal movimento sessantottino mentre dall’altra vediamo come intellettuali ed ex-sessantottini stessi professino ormai la “dottrina dell’oblio” del periodo storico in esame. Quale la verità? È probabilmente impossibile pretendere di poter dare dei giudizi completi e definitivi riguardo il complesso movimento in questione e le conseguenze da esso prodotte nella storia della Francia. Questo perché, come ci viene insegnato dalla storia, le grandi conquiste sono accompagnate da comportamenti e azioni spesso estremi che nel tempo possono avere influenze molto negative nei confronti di coloro che li hanno prodotti. Forse è questo che gli intellettuali francesi vedono oggi nel loro paese: conseguenze che hanno saputo segnare negativamente lo stato transalpino molto più di quanto lo abbiano aiutato a modernizzarsi, segnali negativi in numero maggiore rispetto a quelli che 40 anni fa, sull’onda delle proteste, si sarebbero potuti immaginare. È magari allora la citazione della monaca buddhista Pemachadron che può aiutare ciascuno di noi a capire meglio la realtà controversa e complessa in cui si trova a vivere oggi la Francia, al pari di molti altri paesi europei, per cercare di comprendere così anche il perché della diversità e divergenza di opinioni in persone che hanno vissuto la stessa storia, nello stesso momento e sulla propria pelle: “il fatto che consideriamo la nostra condizione come Paradiso o Inferno dipende dal nostro tipo di percezione”. 40 anni dopo: L’opinione pubblica e il “maggio francese” Sarkozy: sarò io il becchino del '68 «I suoi eredi hanno fatto sparire la morale dalla politica» DOMENICO QUIRICO «La mia Francia è quella che paga sempre per gli altri, per gli errori dei politici, dei tecnocrati, dei manager, dei sindacalisti, per i truffatori, i teppisti, per coloro che approfittano del sistema, di quelli che chiedono sempre e che non vogliono mai dare niente, la Francia che soffre, che non ne può più, la Francia esasperata». Eccolo il vero Sarkozy, furente, implacabile, prestigiatore della parola. Ha individuato il piedestallo dal quale fare il secondo balzo, quello decisivo verso l’Eliseo: è la Francia della maggioranza silenziosa che lui intuisce affollata e vitaminica. Trovata la chiave, lo slogan, la semplificazione fulminante per schiacciare i sorrisi di Ségolène: «Io -ha proclamato Sarkozy- sono l’anti-Sessantotto». Quarant’anni dopo per lui c’è una Francia che è ancora ostaggio di quella che occupava la Sorbona e invocava l’immaginazione al potere. Ma non solo: perché questo «gauchisme» ha infettato anche i 40 anni successivi, che hanno accettato il quieto vivere, il compromesso, la ipocrisia codarda. Lui si pone come il salvatore, che la guarirà con il ritorno all’autorità, al merito, all’obbedienza. In una parola, ma lui non la dice mai, la sua «rupture» si chiama: ordine. [...] Il massicio centrale del discorso è l’anti-Sessantotto: «Da allora non si può più parlare di morale in politica, ci ha imposto il relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del ’68 ci hanno imposto che non c’è alcuna differenza tra bene e male, tra bello e laido, tra vero e falso, che l’allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può vivere senza una gerarchia dei valori». Gli eredi di questo atonismo morale «che sono nella politica, nei media, nell’amministrazione e nella economia», Sarkozy li ha individuati soprattutto nella Gauche segolenista descritta come contemporaneamente relativista e impotente, ipocrita e meschina: «Difende i trasporti pubblici ma non li prende mai, ama la scuola pubblica e non ci manda i suoi figli, adora le banlieues 1 ma non ci vive, parla di interesse generale ma si barrica nel clientelismo e nel corporativismo, firma petizioni quando si espellono gli squatters2 ma non ne ospiterebbe mai uno a casa sua». Sarkozy ha ripronunciato la parola fatale «teppisti», quella che ha scatenato la rivolta delle banlieues, ma per mettere con cura notarile sul gobbo dei suoi avversari accuse pesantissime: «Guardate come l’eredità del ‘68 indebolisce l’autorità dello Stato! Guardate come gli eredi di coloro che gridavano:”CRS=SS”3 prendono sistematicamente le parti contro la polizia dei teppisti, dei casseurs e dei truffatori». Sintesi: «Gli eredi del ‘68 fanno l’apologia del comunitarismo, denigrano l’identità nazionale, attizzano l’odio della famiglia, della società, dello Stato, della nazione, della République». Il «Dio patria e famiglia» della Francia petainista non è molto distante. Sarkozy è sicuro che su questa via la Francia lo seguirà. [...] (Quotidiano: “La Stampa” 30 Aprile 2007) 1 2 3 Periferie, sobborghi; termine che indica l'area periferica dei grandi agglomerati urbani francesi Individui che occupano illegalmente proprietà vuote per viverci lo slogan che equiparava i “celerini” francesi ai nazisti Cresce tra gli intellettuali l’ondata critica sul Sessantotto. Persino il leader delle barricate Cohn Bendit chiede di «dimenticare». Parigi: appassiti i fiori di Maggio DANIELE ZAPPALA' «Liquidare l’eredità del maggio 1968». Seguita da un punto interrogativo o pronunciata invece con toni perentori – come aveva fatto Nicolas Sarkozy l’anno scorso prima dell’ingresso trionfale all’Eliseo – l’espressione è divenuta alla moda nella Francia di questi ultimi mesi , che si guarda allo specchio per capire cos’è rimasto e cos’è cambiato negli ultimi 40 anni. Secondo un sondaggio del Nouvel Observateur, tre francesi su quattro disapprovano l’auspicio del presidente, riconoscendo un’eredità piuttosto positiva alle barricate di boulevard Saint Germain e al clima contestatario spento 40 anni fa dalla firma dei celebri accordi di Grenelle, che aumentarono sensibilmente i salari dei ceti più modesti. Il mondo intellettuale, però, privilegia ormai l’esame di coscienza. Fu «un anno di sogni delusi , di illusioni perdute», sostiene il cineasta Patrick Rotman, sessantottino fra i più noti , autore di un fresco documentario molto atteso in Francia e intitolato semplicemente 68. E persino l’odierno eurodeputato verde Daniel Cohn-Bendit, leader studentesco all’epoca fra i più ascoltati col nome di battaglia «Dany il rosso», raccomanda oggi di «dimenticare» il maggio dei cubetti di porfido strappati al selciato dei boulevard parigini e lanciati contro i cordoni di forze dell’ordine. Nei salotti e in libreria, con oltre un centinaio di titoli spesso in salsa amarcord, il dibattito è rilanciato ogni giorno e due campi si affrontano senza esclusione di colpi . Da una parte, gli irriducibili difensori dei «progressi civili e sociali » scaturiti grazie a quella stagione culturale. Dall’altra i sempre pi ù numerosi detrattori , per i quali il Sessantotto ha in fondo spianato la strada a una società individualista e narcisista, consumista quanto svuotata di riferimenti forti e sempre più tentata dal relativismo culturale. Fra le analisi meno avventizie, quella del filosofo Serge Audier presenta un’approfondita panoramica del «pensiero anti68» e delle «origini di una restaurazione intellettuale» che continua a imporsi in Francia a dispetto degli slogan mediatici ufficiali ancora favorevoli alle contestazioni sessantottine. «Tanto coloro che si rivendicano liberali, quanto coloro che auspicano un ritorno alla Repubblica hanno costruito il loro pensiero in riferimento alla rivolta di maggio », osserva Audier. Diventa dunque oggi possibile ciò che in passato pareva impensabile, ovvero che «il rinnovo del pensiero politico e morale in Francia trovi uno dei suoi motori in una forma di reazione alla contestazione degli anni Sessanta». Per il filosofo, docente alla Sorbona, gli attacchi sempre più frequenti contro il ’68 corrispondono a un autentico assedio condotto da direzioni molto diverse. Accanto ad intellettuali di sensibilità conservatrice cresciuti nella scia del filosofo liberale Raymond Aron, anche frange relativamente vaste della gauche si sono progressivamente dissociate negli anni dall’esperienza sessantottina: «È in effetti con Régis Debray che avanza la diagnosi neomarxista, già formulata in Italia dal cineasta e poeta Pier Paolo Pasolini, secondo la quale nel maggio 1968 non è accaduto nulla, se non l’adeguamento della Francia alle esigenze consumiste ed edoniste del capitalismo internazionale, così come ai nuovi canoni della comunicazione mediatica di massa». Una delle accuse più frequenti mosse al Sessantotto è di aver generato una riflessione sfuggente e in fondo «introvabile». Il cosiddetto «pensiero del 68», secondo Audier, è stato sempre più attaccato come semplice «mito» o come abito informe adattabile a ogni stagione. Per pensatori come Luc Ferry ed altri, in particolare, «la filosofia del ’68 può essere giudicata, secondo i punti di vista, i momenti e le mode, come globalmente positiva o negativa, tanto 'morale' quanto 'nichilista' e talvolta una miscela dei due». A riflettere questa molteplicità di 'appropriazioni' personali spesso contraddittorie è un’altra opera, questa volta polifonica, intitolata Liquider mai 68?, per i tipi di Presses de la Renaissance. Venti intellettuali di diversi orizzonti soppesano i lasciti del ’68, ridimensionandone perlopiù la portata storica. Per il saggista Patrice de Plunkett, «sotto gli scimmiottamenti pseudo-marxisti correva in realtà una febbre irresistibile d’individualismo, votata a bruciare tutto ciò che sembrava frenare ancora un po’ il regno dell’ego». Molto critico è anche il giudizio dello scrittore Denis Tillinac, per il quale occorre chiudere il «sipario su una generazione che, giunta al potere, non ha reso la Francia più generosa, più fraterna, più felice, più splendente, più creativa». Per la filosofa Chantal Delsol, poi, i fatti di 40 anni or sono furono l’opera di «una generazione che ha preso i mezzi per dei fini, venerando fanaticamente la rottura fine a se stessa». Anche le voci meno critiche deplorano la patina di vernice brillante stesa negli anni dalla «vulgata pro-68». La stessa che pare oggi sfaldarsi quasi come il macadam dei boulevard parigini di 40 anni fa. (Quotidiano: “Avvenire” 1 Aprile 2008) 40 anni dopo: Testimonianze. INTERVISTA ALLA PROF.SSA CLAIRE DAINAIN SUL TEMA DEL “MAGGIO FRANCESE” È molto importante conoscere ed informarsi riguardo agli avvenimenti accaduti in anni lontani, ma anche più vicini della nostra storia; spesso per fare ciò un semplice libro di testo non basta. Questa intervista nasce proprio dall’esigenza di rendere più vicino a ciascuno di noi un tema importante come il ’68 in Francia (meglio conosciuto col nome di “maggio francese”) affrontandolo con una donna francese, Claire Dainain, che all’epoca delle rivolte aveva 20 anni e che oggi, dopo 40 anni, risiede e lavora invece in Italia, ma che non ha comunque dimenticato le lotte, le rivolte, i cambiamenti che hanno attraversato il suo paese, come anche molti altri stati, cambiando il corso della storia. Come erano la situazione e il contesto socio-politico degli anni ’60 in Francia? Il presidente francese in carica era De Grulle, di Destra, e la situazione politica non era particolarmente disastrosa, ma c’era comunque del malcontento per esempio tra gli studenti i quali iniziarono a protestare già prima del ’68. Cosa ricorda delle proteste di quegli anni in Francia? Ci sono fatti che le sono rimasti particolarmente impressi? Le proteste partirono dall’università di Nanterre nella facoltà di sociologia e poi si estesero anche al mondo operaio. Ricordo bene le lotte, gli scontri duri, anche violenti, nel Quartiere latino tra polizia e studenti. Poi c’è stato anche uno sciopero generale che per circa una settimana ha letteralmente bloccato la Francia e l’economia del paese, e il presidente de Gaulle ha allora deciso di trattare con i manifestanti. Ricordo anche che all’università della Sorbona, occupata come tutte le più importanti università del paese, molti intellettuali, primo fra tutti Sartre, ma anche attori e personaggi noti si schieravano a favore delle proteste. Quali erano i motivi della protesta? Si protestava contro una società vecchia, fondata su valori obsoleti. Si volevano rimettere in discussione i rapporti nella famiglia, l’autorità e i ruoli nelle istituzioni, il governo. Ci si trovava davanti a un moto generazionale tra due epoche opposte a confronto che esplode nel ’68, ma che da almeno una decina di anni si stava preparando e da cui nascono poi altri movimenti e fenomeni importanti: il femminismo e gli hippy solo per fare un esempio. Ha mai partecipato alle proteste? No, andavo alle assemblee il pomeriggio, quindi partecipavo marginalmente alle contestazioni. Come venivano viste le proteste dall’opinione pubblica francese? L’opinione pubblica era divisa: le rivolte erano approvate dalla sinistra ma bocciate dalla destra. Cosa ha cambiato il ’68 in Francia? Il ’68 ha cambiato moltissime cose: i rapporti nella scuola tra professori e alunni sono divenuti molto meno rigidi, nel mondo del lavoro sono stati stipulati nuovi accordi sui salari e sulle ore di lavoro, nella famiglia la relazione tra genitori e figli diventa molto più aperta, con meno divieti e più dialogo. E’ stato sicuramente un momento che ha segnato e creato un abisso tra generazioni. Che notizie arrivavano dagli altri stati? Dell’America sapevamo tutto (anche perchè alle radici delle lotte degli studenti francesi c’era la protesta contro la guerra in Vietnam) mentre non conoscevo la situazione dell’Italia (dato che non ero molto sensibile alla politica di questo paese). Ricordo che in Spagna e in Grecia non avveniva nulla perchè in entrambi gli stati si era stabilita una dittatura, ma in Francia si parlava sia delle rivolte di Praga che delle lotte tedesche. Come sono viste oggi dopo 40 anni le proteste francesi dall’opinione pubblica? Non lo so, ho sentito qualcosa ma non sono molto informata. Come definirebbe il “maggio francese” in poche parole? È stato sicuramente un momento indispensabile per la crescita delle società, forse discutibile, ma indispensabile. Sitografia: www.lastampa.it www.avvenire.it www.media68.it Francesca Arciero La Primavera di Praga Il Sessantotto è stato un anno di profonde tensioni e drammatici avvenimenti che hanno segnato tutta l’Europa ed in particolare la Cecoslovacchia. Qui, infatti, il malcontento generale che si era diffuso fin dagli inizi degli anni Sessanta verso il regime comunista aveva portato alla nascita di un movimento politico e culturale che mirava ad ottenere una maggiore libertà d’espressione. Durante il sesto congresso degli scrittori a Praga, numerosi partecipanti reclamarono la libertà di stampa e accusarono il regime per gli abusi commessi in passato. Successivamente il leader comunista Dubcek, preso atto del largo dissenso manifestato, tentò di promuovere delle riforme che prevedevano una maggiore autonomia e tolleranza politica, ma al momento di sancire definitivamente le riforme e, quindi, demolire la corrente staliniana, tutto ebbe bruscamente termine nella notte fra il 20-21 agosto del 1968 con l’invasione sovietica. Di fronte a tutto ciò, i paesi democratici dell’Occidente dovettero limitarsi a proteste verbali. Non osarono, infatti, sfidare la potenza militare sovietica durante il periodo della “guerra fredda”, dato che già in precedenza i paesi dell’Urss minacciavano il pericolo di una guerra nucleare. La fine della Primavera di Praga provocò un enorme fenomeno di emigrazione verso i paesi esteri, mentre nel resto d’Europa l’esito di questa evoluzione politica risultò essere una profonda delusione per molti militanti e comportò posizioni fortemente critiche all’interno dei partiti comunisti. L’invasione Sovietica del 20 agosto 1968 “Il Rosso e il Nero: Sboccia la Primavera…”, così inizia il libro di Franco Fracassi e Gianandrea Turi “1968, il mondo in piazza”, dove viene raccontato il tentativo riformista fatto da Alexander Dubcek, prima di diventare vittima dell’invasione sovietica. Il leader nacque in Slovacchia nel 1921 ed entrò a far parte del partito comunista a soli diciotto anni, partecipando attivamente alla resistenza per contrastare l’occupazione tedesca. Durante il regime stalinista, raccolse i fermenti di dissenso e di rinnovamento proponendo una serie di riforme che, una volta approvate, avrebbero garantito una maggiore libertà di parola e d’espressione. L’Urss, sentendosi minacciata da questa nuova corrente che avrebbe messo in discussione l’intero sistema comunista, intraprese una rigida repressione mirata all’abolizione di ogni forma di protesta contro il regime. La primavera di Praga, ovvero il periodo nel quale il popolo, esasperato dai divieti imposti dalla dittatura comunista, iniziò una serie di rivolte di massa nel tentativo di liberalizzare la vita del paese, si concluse drammaticamente nell’agosto nel 1968 con l’invasione delle truppe sovietiche. Il capo politico Dubcek dovette cedere alle condizioni dei sovietici, che poco dopo lo deposero. Solo nel 1989 ritornò alla vita politica. Nel libro viene descritta la tragica morte di Ian Palach, uno studente cecoslovacco che nel 1969, dopo il fallimento del movimento rivoluzionario, si arse vivo nella piazza del paese in segno di protesta contro l’intervento dell’Urss. “…La dittatura muore solo quando muoiono nella gente la corruzione e la pigrizia…” Questa è una parte del discorso pronunciato da Vaclov Havel di fronte al martirio del giovane rivoluzionario, che rinunciò alla propria vita per esortare gli altri alla trasformazione della società ceca. Tomba di Ian Palach a Praga I due autori, attraverso la vita del leader comunista cecoslovacco, ripercorrono le tappe più importanti della primavera di Praga, sottolineando la drammaticità di quegli anni e il numero sbalorditivo di persone che, private dei loro valori più profondi e di qualsiasi forma di libertà e d’espressione, persero la vita nella battaglia contro il regime staliniano. Elisabetta Porcari Melissa Passaretti La contestazione in Italia In Italia il fenomeno nacque senza un preciso orientamento politico in concomitanza con il crescere del fenomeno dei beatnik, più che altro come forma di insofferenza giovanile verso le generazioni adulte accusate di essere portatrici di una mentalità chiusa e repressiva. Le rivendicazioni non furono espresse nel consueto circuito istituzionale e partitico, ma direttamente nelle piazze. I sessantottini, come si chiameranno più tardi i giovani che parteciparono alle contestazioni di quegli anni, rifiutavano tutte le istituzioni borghesi, ritenute autoritarie ed ingiuste. Ritenevano che potesse divenire reale la società che loro immaginavano: una società di liberi e di uguali, con una democrazia diretta, basata sul potere delle assemblee. Ad aggiungersi alle insurrezioni studentesche vi furono le lotte operaie, che avevano come scopo quello di ottenere miglioramenti economici e il rispetto dei diritti civili in fabbrica. La Contestazione studentesca II movimento studentesco italiano portò avanti la sua lotta mirando soprattutto alla didattica e all'organizzazione dell'università, che veniva paragonata ad una fabbrica con i suoi padroni-professori. Scrivevano gli studenti in quei giorni: «II sistema dei voti e degli esami è fondato sul principio di premiare il più brillante e il più svelto e di penalizzare il meno appariscente e il più lento. L'indice di produttività richiesto dalla scuola allo studente diventa sempre più il grado di accettazione delle norme scolastiche stesse, esattamente come nella fabbrica, dove è più "bravo" l'operaio che ha interiorizzato più degli altri l'interesse del padrone». Le proposte alternative erano i gruppi di studio, o seminari, diretti dagli studenti, in cui si studiava, si discuteva, si parlava di politica e di problemi personali. I professori venivano chiamati come esperti, anche perché alla fine si dovevano fare degli esami, sia pure di gruppo e con voto uguale per tutti. In tutta Italia si ebbero occupazioni delle facoltà universitarie, con interventi della polizia e scontri con gli studenti, cortei per le vie delle città, con tanta partecipazione, slogan e scritte che si rifacevano alle lotte di Che Guevara e di Ho Chi Min. Per quanto uniti su alcuni specifici temi quali la pace e l'antifascismo, dal punto di vista organizzativo i giovani rimasero divisi in una miriade di gruppi e formazioni, quando non addirittura nuovi partiti, dai diversi orientamenti a volte in conflitto tra di loro. Di fronte a tutto ciò il mondo politico e parlamentare non seppe dare ai giovani nessuna risposta seria. Verso la fine del '68 il movimento studentesco cominciò ad indirizzare le sue proteste e le sue richieste al campo politico e sociale e tentò di collegarsi con la classe operaia e le femministe, cercando le forme per dare attuazione alle sue proposte e collegarle ai bisogni della società nel suo insieme, con una forte sottolineatura dei diritti sociali e dell’egualitarismo (ciò che gli conferì una netta connotazione ideologica di sinistra). In Italia la contestazione studentesca si annunciò con l’occupazione della facoltà di architettura di Milano e della sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino verso la fine del 1967. Tra gennaio e febbraio vennero occupate praticamente tutte le università italiane. Un fattore che accomunava praticamente tutte le proteste era la lotta contro “l’autoritarismo accademico”, cioè contro lo strapotere dei docenti universitari, i cosiddetti “baroni”, e la critica ai metodi di insegnamento ed ai programmi dei corsi. Ben presto la critica si estese al ruolo dell’università nella società, ed infine diventò critica della società. A Trento, il 31 gennaio, un’assemblea studentesca dichiarò l’occupazione della facoltà. L’occupazione sarebbe proseguita fino al 7 aprile e sarebbe stata caratterizzata da due posizioni interne al movimento studentesco: una che privilegiava il collegamento con le lotte operaie e le attività esterne, ed un’altra più propensa a rimanere all’interno dell’Università e a gestire gli spazi conquistati. Il 29 febbraio, a Roma, il Rettore fece sgombrare l’Università dalla polizia. La polizia intervenne picchiando selvaggiamente dentro l’Università e fuori, caricando un corteo che si avviava a protestare verso il Parlamento. A marzo il Comitato Centrale dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (sezione italiana della Quarta Internazionale) decise di sciogliersi per dare vita a più vaste aggregazioni rivoluzionarie. Il primo giorno del mese, a Roma, gli studenti si raccolsero a piazza di Spagna per riconquistare la facoltà di Architettura a Villa Borghese. La facoltà era presidiata dalla polizia che caricava, ma gli studenti risposero picchiando i poliziotti e incendiando le camionette: è la “battaglia di Valle Giulia”, che rappresenta una svolta perché fino ad allora il movimento studentesco era stato abbastanza pacifico. Questa battaglia fu un noto scontro di piazza tra contestatori politici e forze dell’ordine, in cui i manifestanti per riconquistare la Facoltà di Architettura attaccarono la polizia che la presidiava dopo averla sgomberata dagli studenti che l’avevano occupata. Qualche mese dopo la battaglia di Valle Giulia, all'inizio di giugno, il settimanale "L'Espresso" pubblicò la poesia "controcorrente" di Pier Paolo Pasolini, che difendeva i poliziotti, "figli dei poveri", ma soprattutto attaccava gli studenti .con il titolo aggiunto poi ("Vi odio, cari studenti" mentre il vero titolo era "Il Pci ai giovani"), che rappresentava male il suo pensiero. E, in effetti, nella poesia c'è molto di più della polemica sugli scontri davanti ad Architettura. C'è una polemica forte contro una finta rivolta "borghese" e anticomunista. Un'interpretazione anticonformista del Sessantotto, in cui Pasolini, spesso profetico, sapeva leggere alcuni segnali negativi che già trasparivano, ma che quasi nessuno era ancora in grado di interpretare. Questa poesia riprendeva la polemica di Don Milani, il prete di Barbiana, che l'anno prima, nella sua Lettera a una professoressa, scriveva: "tra gli studenti universitari i figli di papà sono l'86,5%. I figli di lavoratori dipendenti il 13,5%...e i figli di papà li accolgono e gli regalano tutti i loro difetti. In conclusione: 100% di figli di papà". Ecco alcune frasi di quella poesia di Pasolini: "Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, urbane o contadine che siano. Quanto a me, conosco assai bene, il loro modo di essere stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. E poi, guardateli come si vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l'essere odiati fa odiare). Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà avete bastonato, appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate, i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto), erano i poveri". "Una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, la violenza conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l'odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine, anche se già lontane. Questo, cari figli, sapete. E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l'aspirazione al potere. Si, i vostri slogan vertono sempre la presa di potere". "Ecco, gli Americani, vostri adorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un linguaggio rivoluzionario 'nuovo'! Se lo inventano giorno per giorno! Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n'è già uno: potreste ignorarlo? Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del 'Time' e del 'Tempo'). Lo ignorate andando, con moralismo provinciale, 'più a sinistra'. Strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale, Partito Comunista, ne avete adottato una variante ereticale ma sulla base del più basso idioma referenziale dei sociologi senza ideologia. Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme, l'applicazione di nuovi metodi pedagogici, e il rinnovamento di un organismo statale. Bravi! Santi sentimenti! Che la buona stella della borghesia vi assista!" Il 1 marzo 1968, circa 4000 persone si radunarono in Piazza di Spagna. Da lì il corteo si divise in due: una parte mosse verso la città universitaria, mentre la maggioranza degli studenti si diresse verso Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalla polizia. Giunti sul posto, gli studenti fronteggiarono un imponente cordone di forze dell'ordine. Un piccolo gruppo di poliziotti, staccatosi dalla fila, prese uno studente e iniziò a picchiarlo; la reazione degli studenti fu immediata e iniziò un lancio di sassi ed altri oggetti contundenti. Solo gli ufficiali di presidio disponevano di armi cariche. Gli scontri presto degenerarono in tutta l'area universitaria e, sorprendentemente, gli studenti mostrarono di essere in grado di reggere l'urto con le cariche della polizia, a differenza di quanto era accaduto in altri scontri accaduti nei mesi precedenti. Questa protesta, nello stesso mese, si allargò ad alcuni istituti superiori: la prima scuola ad occupare fu il Liceo Parini a Milano, il cui preside venne destituito per essersi rifiutato di chiamare la polizia. Anche le modalità secondo cui fu decisa l’occupazione sono degne di nota: i 1.100 studenti decisero l’occupazione in assemblea, votando per appello nominale (usando i registri di classe), con solo una decina di contrari ed altrettanti astenuti. In quello stesso mese, a Roma un gruppo di fascisti, guidati da Almirante e Caradonna, assaltò l’Università picchiando gli studenti; ferito gravemente Oreste Scalzone. Il 7 giugno a Milano gli studenti bloccarono con barricate l’uscita dalla tipografia degli automezzi carichi del Corriere della Sera, per protesta contro la faziosità di quel giornale nel criticare il movimento studentesco, che definiva sprezzantemente “cinesi” gli studenti del movimento. Nei due giorni successivi a Venezia ci fu l’assemblea nazionale del movimento studentesco, a cui parteciparono delegati delle università italiane in lotta. Al centro del dibattito era il rapporto studenti-operai. La maggioranza degli studenti cercava un rapporto con gli operai, ma questa uscita dal “sindacalismo” studentesco segnò anche la crisi del movimento studentesco come movimento di massa, per dare sempre più spazio all’ideologia ed ai gruppi della sinistra rivoluzionaria Il 14 luglio un professore di filosofia, Aldo Braibanti, venne condannato a nove anni di reclusione perché avrebbe “plagiato” due giovani, con cui in realtà aveva avuto relazioni sentimentali omosessuali. La sentenza era stata voluta da magistrati retrivi per condannare l’omosessualità in quanto tale, ed era sintomo dell’arretratezza di parte della società italiana. A Roma, il 4 ottobre, venne fondata l’Unione dei Comunisti Italiani marxisti-leninisti, nota anche come Servire il Popolo, dal nome del suo giornale e che si diffuse rapidamente soprattutto in settori piccolo-borghesi, in particolare fra gli studenti. Verso la metà di quel mese a Roma ci fu una nuova occupazione del Liceo Mamiani. Durante l’autunno la mobilitazione studentesca si estese anche alle scuole medie. Sempre a Roma, il 17 novembre, il preside del Liceo “Plinio” decise di espellere tutti i “capelloni”, andando contro gli studenti, che reagiscono occupando l’istituto. Il movimento studentesco fu discusso dal secondo congresso nazionale del Psiup, tenutosi a Roma a dicembre. In quello stesso mese, a Milano, gli studenti lanciarono uova e ortaggi contro la borghesia milanese alla prima della Scala. I governi occidentali si trovarono impreparati a fronteggiare una situazione senza precedenti e, per il breve periodo durante il quale la protesta studentesca si saldò con quella operaia, reagirono su due piani distinti: reprimendo con la forza i moti studenteschi e operai di piazza e riformando il sistema scolastico nella direzione richiesta dalle assemblee studentesche e cercando accordi con le organizzazioni sindacali, concedendo aumenti di stipendio, che si vanificarono, a causa di un'inflazione galoppante che i governi non controllarono. In Italia il movimento del '68, in ambito scolastico, aprì agli studenti le biblioteche riservate dei professori, aumentò gli aiuti economici e le borse di studio per spese scolastiche alle famiglie con basso reddito, e affermò una novità, l’assemblea d’Istituto, un'assemblea generale degli studenti di una scuola per discutere i propri problemi e decidere in merito. In Italia il fenomeno non si esaurì ed anzi aumentò progressivamente di intensità negli anni successivi, raggiungendo livelli di scontro politico unici al mondo. Dalla contestazione studentesca, che fu inizialmente sottovalutata dai politici a dalla stampa, si passò appunto repentinamente alle lotte dei lavoratori. La Contestazione operaia Le lotte dei lavoratori presero origine dalle agitazioni per il rinnovo di molti contratti di lavoro; per l'aumento dei salari uguale per tutti, per la diminuzione dell'orario, per le pensioni, la casa, la salute, i servizi, ecc. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e il mondo studentesco, uniti fin dalle prime agitazioni su molte questioni del mondo del lavoro, provocarono delle tensioni nel Paese sempre più radicali e a carattere rivoluzionario, sfiorando in alcuni casi l'insurrezione, visti i proclami, i giornali e i fatti che accadono in Italia Gli anni che vanno dal 1968 al 1973 sono stati definiti della conflittualità permanente, delle grandi conquiste contrattuali e dei diritti civili in fabbrica, dell’organizzazione autonoma dei lavoratori. Le caratteristiche e le modalità con le quali si presentò alla lotta il movimento operaio nel 1969 stupì tutti. I sindacati pensarono di poter gestire il conflitto riconducendolo a una contrattazione sulle qualifiche, ma non funzionò; si trovarono ben presto scavalcati da un’ondata spontanea che non riconosceva automaticamente i sindacati come legittimi rappresentanti dei lavoratori. I sindacati e i partiti di sinistra “apparivano in quel momento sulla difensiva, spiazzati dall’iniziativa spontanea dei lavoratori in difficoltà nell’elaborare strategie rivendicative adeguate alla forza che gli scioperi all’improvviso avevano manifestato”. Di questa situazione approfittarono i militanti esterni del movimento studentesco, che si fecero interpreti del radicalismo e del ribellismo diffusi fra gli operai e si misero a loro disposizione. L’incontro con gli operai, soprattutto coi giovani, venne facilitato, oltre che da fattori anagrafici, dalla condivisione del modo di vestire e del taglio dei capelli, della musica, dei film e dei fumetti, insomma di alcuni dei caratteri di una cultura giovanile di massa sempre più diffusa. Il fenomeno dello scavalcamento ebbe una particolare rilevanza a Torino, alla Fiat dove, per tante ragioni, il sindacato era più debole. La Fiat di Torino, dopo alcuni incidenti in settembre, causati da atti di sabotaggio alle catene di montaggio, dove vennero persino distrutte migliaia di auto, reagì e sospese 25.000 operai, dopo cinque giorni di inutili mediazioni: si sfiorò il dramma. Vi fu una mobilitazione generale e il tentativo di occupazione dell'azienda. Ai primi di novembre si processò il padronato dell'azienda. Tre mesi di agitazione misero in crisi la città, con tre mesi senza salario vennero paralizzate tutte le attività produttive e commerciali. Nella primavera-estate e in parte nell’autunno del 1969 il movimento di lotta degli operai, a Torino e alla Fiat, era sfuggito al controllo sindacale. Nell’estate del 1969 infatti la gestione degli scioperi non l’avevano più i sindacati ma Lotta Continua, organizzazione politica. Le rivendicazioni non si limitavano più a questioni di natura sindacale, ma rivendicavano anche una maggiore democrazia in fabbrica e si allargavano ai temi sociali fuori dalla fabbrica, rompendo quella divisione classica fra dentro e fuori. Ben presto si andò definendo una nuova immagine dell’operaio fatta di tanti attributi positivi e molto più centrale nella società rispetto agli anni precedenti. Da una parte venivano rappresentati quali “elementi di una modernizzazione conflittuale della società”, dall’altra si privilegiava “l’immagine rivoluzionaria dell’operaio”, sintesi di valori alternativi e soggetto propulsore di una trasformazione palingenetica della società, immagine, quest’ultima, cara ai gruppi studenteschi ed extraparlamentari. I sindacati dei metalmeccanici, FIOM, FIM, UILM, tra i primi, fecero proprie alcune delle intuizioni più feconde delle lotte operaie e studentesche assorbendo la contestazione, anche attraverso la controversa adozione della linea egualitaria, il riconoscimento dei delegati eletti direttamente nei reparti, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, il passaggio di qualifica per tutti e si proposero come soggetto politico, rifiutando quella divisione tra momento economico e contrattuale, che spettava al sindacato e politico, proprio dei partiti e della dialettica parlamentare e istituzionale. Il sindacalismo, o pansidacalismo, come si disse, poteva approfittare di quello spazio lasciato vuoto dal sistema dei partiti e delle istituzioni statali, incapaci, in quegli anni, di offrire risposte politiche alla domanda di trasformazione che giungeva dalla società. In quei mesi il sindacato avviò la politica delle riforme, proponendosi esplicitamente non più solo come interlocutore economico ma come soggetto politico. Pure il sindacato produsse una rappresentazione del soggetto operaio, tesa a valorizzare gli elementi di forza e responsabilità e la volontà di lottare per le riforme. Il sistema sindacale italiano, così com’era andato costituendosi nel secondo dopoguerra, fu messo in discussione. Intanto la spinta delle lotte impose un’unità sindacale, anche formale, che non si registrava più dal 1948. Nel 1970 le tre confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL) tornarono a celebrare assieme la festa del primo maggio; esse si trovavano in una posizione di forza e di prestigio molto maggiore che in passato. I delegati e i consigli di fabbrica rimodellarono il sindacato e il suo modo di essere e di rappresentare i lavoratori . Dopo i contratti del ‘69 si cominciò a parlare di rifondazione del sindacato su basi unitarie. Si prevedette lo scioglimento a breve termine delle tre confederazioni, fase conclusiva di un processo costituente unitario il cui perno fu dato dalla formazione delle federazioni unitarie di categoria come accadde con la FLM per i metalmeccanici e la FUL per i chimici, che iniziarono a tesserare i lavoratori senza distinzioni di appartenenza. Il bienno ‘68-69 è stato decisivo per l’emergere della sinistra sindacale all’interno dei sindacati, in particolare tra i metalmeccanici FIOM e FIM. Nel 1968 la FIM, che tenne a Genova la sua seconda assemblea organizzativa, propose l’assemblea di base e il consiglio di fabbrica come momento essenziale di partecipazione dei lavoratori, rivendicò la contestazione degli squilibri della società capitalistica, il rafforzamento dell’autonomia dai partiti, la valorizzazione del ruolo politico del sindacato. Assieme alla FIOM voleva favorire l’unità sindacale organica. Anche il convegno della FIOM, che si svolse a Bologna nel giugno 1969, riprese il tema dei delegati e dei consigli, presentandoli come gli elementi nuovi della riqualificazione della presenza in fabbrica, in contrasto col PCI notoriamente schierato a favore delle vecchie Commissioni Interne e delle Sezioni Sindacali Aziendali. La sinistra sindacale, che si presentò come un raggruppamento trasversale alle tre Confederazioni, ma presente soprattutto nelle categorie di punta del sindacalismo industriale, chiese una sensibile accelerazione verso un unico grande sindacato dei lavoratori (il sindacato dei consigli) che promuovesse la partecipazione operaia e raccogliesse le spinte più radicali della base. Tale proposta, se fosse stata accettata e portata a termine, “avrebbe significato la rifondazione elettiva del sindacato unitario di classe”. All’interno delle tre confederazioni l’entusiasmo era minore, più frenato, poiché puntato a un processo unitario più cauto che avesse difeso le prerogative dell’organizzazione e limitato l’autonomia delle nuove strutture unitarie nei luoghi di lavoro, senza aver messo a rischio l’esistenza di quelle burocratiche, già esistenti e costituite attorno ai tre sindacati. Quegli anni rappresentarono il culmine della lotta operaia La spinta prodotta dalle lotte operaie aveva conseguito importati obiettivi contrattuali, allargato gli spazi di democrazia nella società e in fabbrica, imposto un nuovo modo di essere dei sindacati e dato impulso alle correnti della sinistra sindacale, ma non aveva intaccato più di tanto il quadro politico e istituzionale del paese e stentava ancora a tramutare la sua forza in direzione politica nuova. I gruppi della nuova sinistra, nati in quel contesto, non rappresentarono, se non in piccola parte e in zone ben delimitate del paese, quella prospettiva. Il 21 dicembre 1969 con una mediazione vennero accolte quasi tutte le richieste dei sindacati e ritornò una calma apparente. Ma iniziò un'altra epoca, generando nuovi movimenti che sfociarono nelle azioni armate (come le Brigate Rosse). Gli operai ottennero alla fine dell'anno molti risultati: aumenti salariali, interventi nel sociale, pensioni, minori ore lavorative, diritti di assemblea, consigli di fabbrica. E getteranno anche le basi dello Statuto dei lavoratori (siglato poi nel '70). L’importanza dell’ideologia di Marcuse I moti sessantottini, come ogni movimento, ebbero una base ideologica. Tale base fu fornita dalla "Scuola di Francoforte" e soprattutto dai testi di H. Marcuse (Eros e Civiltà, edito nel 1955 e L'uomo a una dimensione, edito nel 1964). La scuola di Francoforte, formatasi a partire dal 1922 presso il celebre "Istituto per la ricerca sociale", sul piano filosofico è sostanzialmente una teoria critica della società presente alla luce dell'ideale rivoluzionario di un'umanità futura, libera e disalienata. Essa intende porsi come pensiero critico e negativo nei confronti dell'esistente, teso a smascherarne le contraddizioni profonde e nascoste mediante un modello utopico in grado di fornire un'incitazione rivoluzionaria per un suo mutamento radicale. Marcuse, uno dei maggiori esponenti della scuola di Francoforte, polemizza, appunto, contro la società repressiva in difesa dell'individuo e della sua felicità, e con le sue opere fomenta quindi e dà una base razionale, filosofica al movimento del '68. Già in Eros e Civiltà Marcuse ritiene che la società di classe si sia sviluppata reprimendo gli istinti e la ricerca del piacere dell’uomo, impedendo la libera soddisfazione dei suoi bisogni, delle sue passioni. L'istintività, il piacere sono stati asserviti da ciò che lui chiama "principio della prestazione", cioè la direttiva di impiegare tutte le energie psicofisiche dell'individuo per scopi produttivi e lavorativi. Ma la civiltà della prestazione non può far tacere del tutto gli impulsi primordiali verso il piacere, la cui memoria è conservata dall'inconscio e dalle sue fantasie. Inoltre Marcuse ritiene che tale principio di prestazione abbia creato "le precondizioni storiche per la sua stessa abolizione" poiché lo sviluppo tecnologico e l'automatismo hanno posto le premesse per una diminuzione radicale della quantità di energia investita nel lavoro, a tutto vantaggio dell'eros e di un lavoro quale attività libera e creatrice. L'Utopia di Marcuse è, in sostanza, il desiderio di un paradiso ricreato in base alla conquista della civiltà. Nell'Uomo a una dimensione Marcuse riprende e radicalizza i vari motivi di critica della società tecnologica avanzata. Il sistema tecnologico ha, infatti, la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l'individuo in un frenetico universo cosmico in cui possa mimetizzarsi. Il sistema si ammanta di forme pluralistiche e democratiche che però sono puramente illusorie perché le decisioni in realtà sono sempre nelle mani di pochi Tale situazione fa sì che il soggetto rivoluzionario non sia più quello individuato dal marxismo classico, cioè la classe operaia, in quanto questa si è completamente integrata nel sistema, bensì quello rappresentato dai gruppi esclusi dalla società benpensante. Essi permangono al di fuori del processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria, anche se non lo è la loro coscienza; colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema: è una forza elementare che viola la regola del gioco e così facendo mostra che è un gioco “truccato". Ad Herbert Marcuse venne poi dato l’appellativo di “cattivo maestro”in quanto accusato di essere stato un cattivo esempio per i giovani; divenne il capro espiatorio dei moti studenteschi ed operai. Elena Anastasi Sara Guarino Il Sessantotto in parrocchia Parlare oggi del ‘68 ci fa tornare in mente le innumerevoli manifestazioni, proteste, scioperi, cortei che si sono susseguiti a partire da quell’anno. Alcuni veterani di quel periodo ricorderanno certamente l’aria di riforma che si respirava tra le file degli studenti, nei centri lavorativi, nei dopolavoro… Qualche prete la ricorderà tra i banchi. Si, della chiesa. Infatti, nonostante sembri difficile crederlo il ‘68 ebbe una grande influenza anche all’interno dell’istituzione ecclesiale. Giancarlo Zizola, cronista di Panorama, nell’88 produsse un corposo elaborato in cui prendeva in analisi tutti i movimenti che nacquero nel corso di un decennio all’interno delle parrocchie, definendo la Chiesa cattolica l’istituzione-simbolo della sacralità in aggiornamento. Tra gli esponenti dell’anno della contestazione troviamo numerosi preti, suore ed addirittura fondatori di comunità importanti come don Enzo Mazzi passato alla storia per il suo Isolotto. La prova generale del ’68 nella Chiesa inizia subito dopo la fine della guerra con i segni di un dissenso e un bisogno di rinnovamento comunitario che anticipano movimenti critici successivi, ma forse con più equilibrio e maggiore profondità spirituale. Tensioni e differenziazioni attraversano la chiesa di Pio XII, solo apparentemente monolitica. Iniziano infatti le prime vere proteste, le prime occupazioni, che vedono numerosi sacerdoti-attivisti tra il clero secolare. A Milano padre Camillo Da Piaz e padre Davide Maria Turoldo animano la “Corsia dei Servi”, primo centro di riflessione per un rinnovamento della chiesa e della civiltà. A Genova alcuni cattolici fondano “Il Gallo” per far risuonare in una Chiesa uscita dalla guerra impenitente e trionfalista l’eco della misericordia evangelica. Don Zeno Saltini fonda a Nomadelfia una ideale città in cui non viga la legge del più forte né le discriminazioni ideologiche tra eguali. A Bozzolo, nella bassa Mantova, don Primo Mazzolari fonda “Adesso” come organo delle avanguardie cristiane. A Firenze don Enzo Mazzi, sacerdote-rivoluzionario, come padre Turoldo anche scomunicato, fonda la famosa comunità dell’Isolotto. In tutti questi movimenti vige una sola regola. Riformare. Riformare qualcosa di vecchio che, ormai distante dalla società non salva nessuno e non dà gioie. Le tanto partecipate messe iniziano ad essere disertate; la lingua latina piace a pochi borghesi mentre il “popolo di Dio” inizia ad essere insofferente rispetto a quella lingua di cui ricorda solo il Pater, Ave, Gloria… Iniziano addirittura le prime forme di occupazione ecclesiale. A Firenze alcuni attivisti occupano per giorni il Duomo, tra lo sgomento generale della gerarchia ecclesiastica, e il compiacimento di pochi. Arrivano le prime scomuniche. L’esilio per padre Turoldo dopo aver scosso la borghesia dal pulpito del Duomo. Forte di tutte queste manifestazioni, Giovanni XXIII convoca il secondo concilio ecumenico Vaticano che si concluderà proprio nell’anno più caldo delle proteste, e che sarà una vera e propria primavera per tutta la chiesa. La gioia dei preti attivisti si espande grande tra le donne velate che iniziano a portare in chiesa i mariti che non declinano bene il latino. I vescovi e i prelati più conservatori sono restii alle troppe riforme del concilio ma non possono mentire sul ritorno a messa delle folle, sui banchi di nuovo pieni come prima della guerra. La parola passa alla Chiesa mentre prima il Papa era il solo a parlare. Il monolito si fa spazio di differenze e di movimenti. Un vecchio Papa dimostra che amare le tradizioni significa crearne di nuove… La comunità dell’Isolotto La comunità di base dell’Isolotto è uno degli esempi più concreti dell’attivismo rivoluzionario sessantottino nella Chiesa. Fra il ’68 e il ’69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell’Isolotto di Firenze ebbe risonanza mondiale. La piazza dell’Isolotto divenne un crocevia internazionale dal quale iniziò a nascere in tutti la consapevolezza che a livello universale si stava creando una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, diritti umani e sociali… Quando un giornalista chiese a Don Enzo Mazzi di parlare brevemente della storia della sua comunità, il fondatore dell’Isolotto espose una storia che dopo tanto tempo faceva ancora tornare in mente i vivi ricordi di quegli anni difficili. Ritengo sia più che necessario riportare la sua riflessione… “Avvenimenti fondanti quali il disgelo internazionale, il Concilio Vaticano II, il mitico '68-'69, vengono non di rado considerati come realtà storiche staccate le une dalle altre e frutto dell'iniziativa dall'alto o ispirate da grandi leaders. Noi, invece, li abbiamo vissuti e conosciuti come segni di un processo di trasformazione dal basso della società. E più precisamente come La Piazza dell'Isolotto negli anni '70 momenti di un grande sforzo, di un immenso tentativo di unificazione del mondo nel segno della speranza. La guerra aveva dato al mondo la coscienza della propria unità, ma lo aveva fatto nel segno tragico della distruzione. In particolare, la bomba atomica rendeva tutti solidali sotto la sua macabra cupola di fuoco, di morte, di terrore. Tale coscienza di unità non poteva restare prigioniera della paura. L'uomo ha bisogno di creatività e di speranza come il corpo necessita dell'aria. Ed ecco nei decenni successivi alimentarsi progressivamente in tutto il mondo un crogiolo di esperienze positive e creative, diverse fra loro, tutte orientate però all'unità planetaria sulla base di alcuni valori…” Le esperienze a cui fa riferimento Don Mazzi sono numerose. Tra tutte la più vivida non può che essere la sera del 31 ottobre 1968 quando, nella piazza della parrocchia fiorentina, si riunirono quasi 10mila persone per dare un segno forte nei confronti di una Chiesa ancora troppo chiusa e di una società esasperatamente maschilista. Poi vennero le occupazioni. Si arrivò addirittura ad occupare il Duomo della città. Seguirono numerose proteste che invitavano il responsabile dell’accaduto, lo stesso don Mazzi, a ritirare le accuse mosse contro la gerarchia vaticana ed a giustificare l’accaduto… Eppure anche stavolta qualcosa si mosse. Le battaglie proseguirono e i risultati si iniziarono a vedere. Oggi la comunità dell’Isolotto è un importante centro di riflessione e di accoglienza. Nelle menti di molti però è ancora un ricordo felice di quegli anni. Francesco Orefice La cultura hippy Nel corso degli anni Sessanta ebbe origine un movimento giovanile chiamato “hippy”. La parola deriva dal termine ”hipster”, utilizzato per descrivere la generazione ribelle nata in America (San Francisco). Due furono gli avvenimenti che fecero amare e disprezzare la generazione hippy: la ”Summer of love “ (1967) e il leggendario “ festival di Woodstock “(1969). La rivoluzione si espanse a macchia d’olio per tutto il globo, facendo creare in quasi ogni nazione una propria versione del movimento contro-culturale. La moda e i valori hippy hanno avuto un notevole impatto sulla cultura e in campi come la musica, la televisione, il cinema, la letteratura e l’arte. La diversità culturale e religiosa che propugnano e difendono gli hippy ha avuto una notevole diffusione e i loro concetti riguardanti la filosofia orientale hanno raggiunto un vasto pubblico. L’eredità hippy può essere osservata nella cultura contemporanea in una miriade di forme, dalla salute alimentare ai festival musicali ai cambiamenti nei costumi sessuali. La cultura hippy non è mai completamente scomparsa né tanto meno abbandonata: numerosissimi hippy si possono ancora trovare in moltissime parti del mondo. In Italia abbiamo l’esempio della comunità hippy presente a Calcata. Etica e caratteristiche del movimento Gli Hippy hanno cercato di liberarsi dalle restrizioni della società, scegliendo la propria strada e trovando un nuovo senso della vita. Un’espressione dell'indipendenza dalle norme sociali raggiunta dagli hippy è stato il loro insolito modo di vestire. Questo ha fatto sì che gli hippy fossero immediatamente riconoscibili, così come è accaduto in seguito con altri movimenti, per esempio i Punk. Inoltre, l’abbigliamento è stato un simbolo visivo attraverso il quale sottolineare anche il valore del rispetto dei diritti individuali. I simboli e l'iconografia hippy erano di basso status sociale, riflettendo una moda disordinata. Come altri adolescenti fecero prima di loro, il comportamento deviante, anche nel vestiario, degli hippy era impegnato a contestare prevalentemente le differenze di genere del loro tempo: gli uomini e le donne del movimento hippy indossavano jeans, ed entrambi i sessi indossavano sandali o camminavano a piedi nudi. Gli uomini spesso portavano barbe e capelli lunghi, mentre le donne non usavano o usavano poco il trucco. Gli hippy inoltre spesso sceglievano d'indossare coloratissimi vestiti con stili insoliti, come pantaloni a zampa d'elefante, giubbotti, indumenti stile tie-dyed ( t-shirt con disegni e colori psichedelici di un particolare tessuto), dashikis (specie di mantelli provenienti dall'Africa) o camicette; in particolare larghissimo fu nella donna l'utilizzo della gonna. Gli abiti indossati erano sovente anche di provenienza non occidentale, ispirati all'abbigliamento dei nativi americani, africani e latino-americani che sono stati anche motivi popolari. Molto l'abbigliamento hippy è stato disprezzato dalla cultura aziendale. Le case, i veicoli e altri beni hippy sono stati spesso decorati con arte psichedelica. I viaggi, sia nazionali che internazionali, sono stati una caratteristica della cultura hippy. Scuolabus simili al Ken Kesey's Furthur, o all'iconico VW, sono stati popolari perché gruppi di amici ci viaggiarono comodamente. Il VW bus - più noto come il maggiolino Volkswagen- divenne noto come un simbolo della controcultura hippy, e molti di questi autobus sono stati ridipinti con grafica psichedelica e/o personalizzati e, a detta loro, nel dipingere questi posti sono stati predecessori dell'arte contemporanea. Un simbolo di pace era spesso sostituito al marchio Volkswagen. Molti hippy hanno però preferito l'autostop come principale modalità di trasporto perché era economico, ecologico, ed era un modo sicuro per incontrare nuove persone. Gli Hippy hanno spesso partecipato a cortei pacifisti e a dimostrazioni di non violenza politica, come le marce per i diritti civili, le marce su Washington DC, e manifestazioni contro la guerra in Vietnam , tra cui una protesta nel 1968 alla Democratic National Convention. Oltre a dimostrazioni politiche non violente, gli hippy che si opposero alla guerra in Vietnam hanno incluso l'organizzazione di gruppi di azione politica per opporsi alla guerra, insegnando il rifiuto di fare il servizio militare. Il simbolo della pace è stato sviluppato nel Regno Unito come un logo per la campagna per il disarmo nucleare, ed è stato abbracciato da US protesta contro la guerra nel 1960. La fine del movimento hippy ha dato origine ad una miriade di movimenti per la protezione della terra, a favore di una cultura pacifista e del ritorno alla natura mangiando rigorosamente frutta biologica. Un elemento caratteristico, e che fece molto discutere sui gruppi hippies, riguardò l'uso delle droghe. Questo utilizzo portò ad una progressiva ma veloce espansione di queste sostanze. Seguendo l'esempio della Beat Generation, gli hippy usarono canapa indiana (o marijuana), considerando il suo effetto piacevole e benigno. Più tardi, ebbero bisogno di allargare ulteriormente il loro "io" spirituale e cominciarono a fare uso incondizionato di allucinogeni quali LSD e mescalina. Sulla Costa Est degli Stati Uniti, professori di Università di Harvard come Timothy Leary, Ralph Metzner e Richard Alpert difesero l'uso dell'LSD dichiarandola sostanza "dell'anima" che aiuta l'esplorazione religiosa e spirituale. Sulla Costa Ovest degli Stati Uniti, Ken Kesey (foto) fu il principale utilizzatore della sostanza e assieme al suo gruppo, gli Stregoni, promosse l'uso dell'LSD per fini ricreativi. In seguito gli Hippy passarono a sostanze più pesanti, come oppio e anfetamina, ma in seguito vennero abbandonate perchè, come dichiarato dagli stessi consumatori, provocano danno e creano dipendenza. L'uso di eroina, per esempio, fu vietato allo Stonehenge Free Festival del 1967. Influenza degli hippy nella cultura popolare L'eredità che gli hippy lasciarono alla società è molto forte ancora oggi. Dimostrazioni politiche e pubbliche ora sono considerate libere espressioni legittime. Coppie non sposate si sentono libere di viaggiare e vivere insieme senza disapprovazione della società. Le tematiche che riguardano le questioni sessuali sono divenute di norma, ed i diritti degli omosessuali e dei transessuali si sono espansi. Elemento caratteristico delle comuni hippy fu il concetto di amore libero in tutte le sue forme, che all'atto pratico si risolse in una maggiore libertà sessuale. In una società estremamente puritana, la promiscuità accentuata presente nelle comuni destò sicuramente maggior scandalo di qualunque altro "vizio" che gli Hippies potessero avere. Il fatto che la maggior parte di loro fosse anche minorenne, accentuava ancor più il risentimento della classe media. Il radicale cambiamento delle abitudini sessuali portò a conseguenze importanti nei rapporti interpersonali. L'amore omosessuale non fu più considerato un tabù assoluto e le prime organizzazioni gay fecero la loro comparsa soprattutto nella zona di New York. La diversità religiosa e culturale ha guadagnato più accettazione. Imprese commerciali co-operative e comunità creative con vita di gruppo sono accettate estesamente. L'interesse per cibo naturale, rimedi erbacei e vitamine si sono molto estesi, ed i cibi salutari hippy degli anni Sessanta ora sono di grande attualità. In particolare, lo sviluppo e la popolarizzazione di Internet trovano le loro radici nell'ethos antiautoritario promosso dalla cultura hippy. Durante gli anni Sessanta, baffi, barbe e capelli lunghi divennero luogo comune e l'abbigliamento etnico dominò il mondo. Da allora, una larga serie di scelte riguardanti l'aspetto personale e lo stile nel vestiario divenne accettabile per tutti, cosa non comune nell'era hippy. Gli hippy ispirarono molti altri cambiamenti: uno degli esempi più evidenti è costituito dalla diminuzione della popolarità della cravatta che era stata usata quotidianamente durante gli anni Cinquanta e primi anni Sessanta; in letteratura, libri come The Electric Kool-Aid Acid Test ed in musica, la psichedelia portò alla creazione di nuovi generi come l'hard rock; in televisione non si contano più i film che parlano e ritraggono le comunità hippy, come Woodstock, Easy Rider, Hair, The Doors, e Crumb. Le tradizionali feste hippy, cominciate negli Stati Uniti nel 1965, continuano a svolgersi e a svilupparsi ancora oggi; ad esempio, dal 1976 in Nuova Zelanda ogni anno si celebra un festival rock, che richiama da tutto il mondo hippy e neo-hippy, naturalmente tutto all'insegna di musica ad alto volume, droghe, spirito di fratellanza e cibi salutari. Cosa è rimasto di quel decennio? Nei dieci anni di cui abbiamo parlato, gli Stati Uniti furono certamente scossi da grida rivoluzionarie provenienti da più parti. Il mito del sogno americano fu attaccato alla luce delle disuguaglianze sociali e razziali e messo in difficoltà. Eppure negli anni Settanta di quel gran “baccano” era rimasto ben poco. Certo, vi fu un notevole rinnovamento in ambito culturale e sessuale, ma la strada verso una piena integrazione e tolleranza non era giunta neppure a metà del cammino. Anzi, per quel che riguarda la comunità nera si ebbe una netta inversione di tendenza, con la creazione di quartieri borghesi separati. I gay che finalmente potevano mostrarsi alla luce del sole senza temere il pubblico ludibrio, erano ancora fortemente discriminati nei lavori pubblici. Le donne furono probabilmente l'unica categoria che ebbe la forza di ottenere e conservare delle importanti vittorie, quasi certamente perché si trattava non di minoranza, ma di maggioranza silenziosa. Le esperienze vissute dai dimostranti negli anni dell'università furono molto spesso nascoste dai laureati che entravano nel mondo del lavoro e coloro che avevano lottato contro la guerra nel Vietnam si riciclarono con maggiore o minore successo nell'altrettanto ardua lotta in difesa dell'ambiente, senza mutare le idee che li muovevano. Il sempre crescente uso della droga si sarebbe segnalato, purtroppo, come la conseguenza più duratura degli anni Sessanta. Simona Pacioni, Alessia Ferraro, Eleonora Tunetti, Elisa Torregrossa Il femminismo Il femminismo è un movimento di donne che si propone di ottenere l'equiparazione della donna all'uomo, sia in campo civile che in campo politico-sociale; in altre parole, si propone di ottenere per le donne gli stessi diritti ed opportunità degli uomini. E' un movimento che si batte per il diritto della donna di estrinsecare liberamente la propria personalità. Il movimento femminista, preparato dalle idee divulgate dai filosofi e letterati dell'Illuminismo, apparve per la prima volta in Francia all'epoca della Rivoluzione francese. Nel 1791, la scrittrice Olympe de Gouges presentò, di fronte all'Assemblea Costituente di Parigi, una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina rivendicando i diritti delle donne. La petizione fu respinta da Robespierre, che fece ghigliottinare la de Gouges, ma il movimento femminista non si arrestò e anzi, crebbe sempre più numeroso in Francia, in Inghilterra e in Germania sostenendo fermamente l'emancipazione femminile. In Italia il movimento per i diritti delle donne nacque in ritardo rispetto ad altri paesi; quando la rivoluzione industriale, alla fine del secolo scorso, cominciò ad occupare come forza lavoro anche le donne, si posero problemi quali l'orario di lavoro, da conciliare con il lavoro casalingo, e la tutela della maternità. Si formarono, così, dei gruppi femminili che all'inizio erano formati per lo più da donne della borghesia. In seguito si unirono a loro anche movimenti di donne socialiste. Molti furono i cambiamenti che le donne riuscirono a portare in una società come quella italiana: ottenendo sia il diritto di voto, che ancora oggi non è concesso in tutto il mondo, sia la legge sul divorzio. Come tutti i movimenti, anche il femminismo conobbe nel Sessantotto un momento di grande affermazione. La moda Gli anni Sessanta sono un periodo di grande rivoluzione dei costumi in tutto il mondo occidentale. Dagli Stati Uniti le nuove generazioni rifiutano i modelli esistenti e cercano nuove forme come il movimento degli hippies, dei mod e dei rockers. La moda si concentra soprattutto sui giovani, tra i quali per la prima volta la minigonna irrompe come protagonista. Il suo ingresso si deve alla stilista di successo Mary Quant. Al posto di calze e reggicalze compaiono i primi collants colorati, mentre la biancheria intima si riduce sempre più al minimo. La donna proposta sulle passerelle è una giovane ragazza dalle caratteristiche adolescenziali: la famosa Twiggy, ragazza pelle e ossa. I motivi fantasia che si ritrovano sui mini-abiti, si devono all’influenza della pop-art. Vengono utilizzati anche nuovi materiali come il vinile, lucente, con effetto bagnato e tessuti acrilici e poliestere di facile manutenzione. Il colore torna ad esplodere! Tra i vari capi d’abbigliamento degli anni ’60 il primo posto è occupato dall’eskimo, giubbotto di tela impermeabile, con cappuccio, chiuso da una zip, dotato di ampie e comode tasche con apertura obliqua. In senso metaforico l’eskimo emana un’aura d’avventura, di responsabilità, di apertura all’imprevisto. Anche la sciarpa, avvolta un paio di volte intorno al collo e lasciata pendere sul davanti o sulla schiena con disinvoltura, è un altro capo d’abbigliamento tipico di questi anni. I capelli si portano lunghi, sciolti e lisci. L’abbondanza, il rigoglio di capelli, barbe e baffi caratterizzano l’individuo. La vera rivoluzione nella moda e nel costume è data dal trionfo dei jeans, che inaugurano uno stile unisex, accompagnati da scarponcini tipo Clarks in pelle scamosciata con la suola in gomma, alti sulla caviglia, leggeri, adatto alla corsa e alla fuga. Chiara Amicosante Chiara Bickel Francesca De Luca Federica Sorino La musica del Sessantotto in Italia e all’estero Il megafono di una generazione Negli anni Sessanta, caratterizzati come abbiamo visto da importanti eventi, l'America è come bruscamente svegliata da un sogno bellissimo, quello di una "nuova frontiera" di pace e serenità. I giovani, nella loro ingenuità, fiutano un futuro di incertezze e cercano nella protesta collettiva una via che porti ad un mondo migliore. I primi fermenti rivoluzionari si esprimono attraverso il movimento hippy. La musica è il megafono di una generazione idealista e confusa, che si identifica totalmente nelle parole e nella musica di artisti quali ERIC CLAPTON, BEATLES, DEEP PURPLE, JIMI HENDRIX, BLACK SABBATH, interpreti di canzoni che hanno fatto la storia della musica degli anni Sessanta. Con la generazione dei Beat, che hanno preceduto di poco l'esplosione della canzone, era accaduta questa rivoluzione: un risveglio di cultura urbana del tutto staccata dalla classe media e dalle università, capace di mescolare due anime, quella country della purezza contadina e quella aspra di un sindacalismo urbano quasi soltanto mitico. "On the road" racconta la libertà di attraversare fisicamente l'America che non appartiene né ai ricchi né ai poveri, semplicemente a chi ha vitalità e sogno. Bisogna collocare qui il nome di Peter Paul and Mary per la loro semplicità musicale e più tardi quelli di Bob Dylan e Joan Baez. Sembrava impossibile, ascoltando allora Blowing in the Wind dalla voce strozzata e nasale di Dylan, immaginare quello che stava per succedere. Era una canzone "diversa" fatta per unire la tribù giovane, per separare il Paese alla maniera di un culto, di una predicazione. Quasi nello stesso periodo la voce di Joan Baez crea il ponte di un nuovo modo di esistere in cui i giovani devono offrire solo se stessi, a cominciare dal corpo. La live catena che in questi anni ha legato questi artisti a King ai Beatles("Imagine All The People...) è stata la forza che ha fatto scattare in fuori e in avanti il popolo giovane, fino al giorno in cui quel popolo si è ritrovato a centinaia di migliaia, impantanato nel fango e nella solitudine di Woodstock. In questo periodo il messaggio che si diffonde in molte canzoni è un messaggio di pace, di libertà, di voglia di vivere senza limiti e senza divieti, come emerge dalla canzone del 1971 di John Lennon Imagine, che ha un grande significato idealista, pacifista, ma non affatto scontato e poi una melodia facile e orecchiabile. È un brano che auspica un mondo in cui tutti vivano alla giornata, liberi da preoccupazioni, in pace, un mondo in cui non esistano religioni in cui credere. Imagine di John Lennon Testo della canzone (lingua originale) Imagine there's no heaven It's easy if you try No hell below us Above us only sky Imagine all the people Living for today... Imagine there's no countries It isn't hard to do Nothing to kill or die for And no religion too Imagine all the people Living life in peace... You may say I'm a dreamer But I'm not the only one I hope someday you'll join us And the world will be as one Imagine no possessions I wonder if you can No need for greed or hunger A brotherhood of man Imagine all the people Sharing all the world... You may say I'm a dreamer But I'm not the only one I hope someday you'll join us And the world will live as one Testo della canzone (traduzione italiana) Immagina Immagina non ci sia il Paradiso prova, è facile Nessun inferno sotto i piedi Sopra di noi solo il Cielo Immagina che la gente viva al presente... Immagina non ci siano paesi non è difficile Niente per cui uccidere e morire e nessuna religione Immagina che tutti vivano la loro vita in pace... Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno Immagina un mondo senza possessi mi chiedo se ci riesci senza necessità di avidità o fame La fratellanza tra gli uomini Immagina tutta le gente condividere il mondo intero... Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno Eric Clapton: Eric Clapton inizia la propria carriera come chitarrista nei Blues Breakers di John Mayall, vera fucina di talenti blues (tra cui Mick Fleetwood e Mick Taylor, forse i più celebri). Dopo l'esordio con l'omonimo disco del gruppo di Mayall, il giovane Eric si unisce in un sodalizio musicale con il bassista Jack Bruce ed il batterista Ginger Baker: nascono così nel 1966 i Cream, con cui Clapton vive la sua prima affermazione mondiale, che non sarà oscurata nemmeno dall'arrivo a Londra di Jimi Hendrix, leggenda della musica rock. La fama conquistata procura a Eric Clapton il primo dei suoi soprannomi, che peraltro la dice lunga sulla devozione dei suoi fans. Sui muri di Londra spesso accade di leggere: Clapton is God. E se non Dio in persona, certamente Eric ha da ringraziare qualcuno molto in alto per il talento che dimostra di possedere sulla tastiera della sua Fender. Inoltre l'assetto dei Cream, un trio di virtuosi, consente ad ognuno di loro di liberare le proprie capacità senza essere costretti nei limiti delle canzonette pop. Sunshine of your love, White room, Badge e la famosissima Cocaine sono le gemme più luminose della prima parte della carriera di Clapton. Jimi Hendrix: James Marshall Hendrix (Seattle Washington, 27 novembre 1942 - Londra, Inghilterra, 18 settembre 1970) è stato un chitarrista blues/rock e, a parere di molti, uno dei maggiori innovatori del suono della chitarra elettrica. La sua carriera musicale ebbe di fatto inizio nel 1965 quando Hendrix iniziò a suonare nelle session di apertura dei concerti di musicisti soul e blues come B.B. King e Little Richard. Firmò il suo primo contratto il 15 ottobre 1965. Dal 1966 si trasferì a New York, dove creò una sua band, Jimmy James and the Blue Flames. Scoperto successivamente da Chas Chandler, del gruppo rock britannico The Animals, si trasferì in Inghilterra, dove formò una nuova band, destinata alla celebrità, la Jimi Hendrix Experience, col bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell; il produttore era lo stesso Chandler. Dopo appena qualche concerto, la band divenne subito famosa, sorprendendo anche chitarristi del calibro di Eric Clapton, Jeff Beck, ed anche alcuni membri dei gruppi Beatles e The Who. Il primo singolo, una cover del pezzo blues Hey Joe, fu successivamente prova effettiva dell'innovazione musicale che Hendrix portava avanti, entrando nella classifica dei singoli Top 10; destino analogo ebbero anche i successivi due singoli, Purple Haze e The Wind Cries Mary. La "Jimi Hendrix Experience" Nel 1967 il gruppo pubblicò il suo primo album, Are you experienced, un sorprendente mix di ballate melodiche, hard-rock, psichedelia e blues tradizionale che ebbe un successo planetario. Al termine della performance live del 31 marzo 1967 presso l'Astoria Theatre di Londra, Hendrix dovette ricoverarsi in ospedale per ustioni alle mani: era la prima volta che dava fuoco sul palcoscenico alla sua chitarra. Successivamente, incoraggiata da Paul McCartney, la band partecipò al Monterey Pop Festival, dove la sua esibizione fu immortalata dal regista D.A. Pennebaker nel film Pop In Monterey. Nel frattempo la fama di Jimi Hendrix continuava a crescere, in virtù della sua immagine di uomo selvaggio e delle sue indiscusse qualità di virtuoso della chitarra (fu famoso per essere in grado di suonarne le corde coi denti). La sua parabola artistica, breve quanto intensa, lo ha consegnato direttamente all'immaginario collettivo degli appassionati di musica di un'epoca che, musicalmente parlando, ha avuto secondo gran parte della critica ben pochi paragoni. Così nella memoria rimane, oltre alla sua produzione discografica, l'immagine del chitarrista mancino che, imbracciata la sua Fender Stratocaster suona, con irriverente visionarietà artistica, l'Inno nazionale americano. Black Sabbath: I Black Sabbath nacquero alla fine degli anni '60 a Birmingham in Inghilterra (patria anche dei Led Zeppelin e di altre importanti band hard rock dell'epoca). Il gruppo era inizialmente blues rock e si chiamava Polka Tulk Blues Band o semplicemente Polka Tulk, in seguito trasformato in Earth; quest'ultimo nome venne sostituito quando Geezer Butler (tra l'altro grande appassionato dei romanzi di magia nera di Dennis Wheatley), scrisse una canzone sull'occulto dal titolo Black Sabbath (sabba nero), probabilmente ispirandosi a un film horror con Boris Karloff. Al nuovo nome si accompagnò una transizione dal blues rock a un suond nuovo, prima con elementi di folk europeo e poi con toni sempre più cupi, fino a una soluzione inedita per la quale i Sabbath sarebbero diventati famosi e sarebbero stati additati come pionieri dell'Heavy Metal in genere e del Doom Metal in particolare. Questa trasformazione fu, a quanto si narra, in parte casuale: dopo un film horror visto insieme, Ozzy Osbourne (cantante) avrebbe detto a Butler (bassista): "se la gente paga per vedere film che spaventano, non pensi che pagherebbero per ascoltare musica che spaventa?" A prescindere che questa leggenda sia vera o meno, è facile leggere nella musica dei Black Sabbath la risposta rock alle atmosfere gotiche, demoniache e angosciose dei film horror. Beatles: The Beatles sono stati il più famoso gruppo musicale del XX secolo. Originari di Liverpool (Inghilterra) hanno segnato un'epoca non solo nella musica ma anche nel costume, nella moda e nell'arte moderna. Sono considerati uno dei maggiori fenomeni di influsso sulla musica contemporanea, tale da condizionare in maniera determinante la cultura pop del XX secolo. A distanza di diverse decadi dal loro scioglimento ufficiale e dopo la morte di due dei suoi quattro componenti i Beatles contano ancora su un vasto seguito. I loro dischi vengono regolarmente commercializzati in versione digitale e arricchiti dal recupero di materiale inedito. Numerosi sono i fan club a loro dedicati esistenti in ogni parte del mondo e l'aura - per molti versi non sempre codificabile secondo canoni comuni - che circonda tanto lo sviluppo del loro sorprendente successo come parte dei moderni media quanto lo straordinario esito artistico - in senso innovativo - della loro attività di musicisti rock, sono tuttora oggetto di studio da parte di persone appassionate o estranee al mondo della musica. Deep Purple: Quando si parla di Hard-Rock, subito viene in mente il nome Deep Purple. Un gruppo che era capace dell’incredibile durante i loro concerti in termini di tecnica musicale e di divertimento ma non molto dediti alla sperimentazione ed evoluzione del loro suono. Con ciò non si creda che i Deep Purple siano stati del tutto privi di originalità; la loro miscela di fragore e melodie raffinate, abbinata a una eleganza esecutiva indubbia costituisce una novità nell'ambito del rock più ruvido. La loro musica migliore appare estremamente semplice e fruibile, ma non banale: tuttavia una parte della critica tende a sminuirne il valore, liquidando il gruppo come fautore di dischi troppo corrivi e ordinari. In realtà, nel periodo d'oro del gruppo è evidente la volontà di aprirsi a un ventaglio di sonorità e stili molto ampia; tale qualità costituisce un valore aggiunto che distingue i Deep Purple dalle molte band che in seguito riproporranno aridamente e senza lo stesso gusto alcune loro brillanti soluzioni, contribuendo a banalizzare e impoverire la scena hard rock. Queste specificità sono spesso rivendicate dai componenti del gruppo, tanto che Ian Gillan (cantante) in un'intervista relativamente recente dirà: "Ciò che più mi dispiace è vedere oggi il nostro nome associato esclusivamente all'ambiente metal; noi in realtà ci muovevamo in un campo senza confini precisi, la nostra musica andava dai Black Sabbath a Marc Bolan, e nel mezzo ci mettevamo di tutto." Intanto in Italia la musica leggera incrocia il Sessantotto nel 1967, l'anno del disperato gesto antifestival di Luigi Tenco, l'anno in cui per la prima volta si sente pronunciare in una canzonetta la parola Vietnam in C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, portata al successo da Gianni Morandi. Poi compaiono la Patty Pravo di Ragazzo triste, la Caterina Caselli di Sono bugiarda, la coppia Celentano-Mori con La coppia più bella del mondo, i Pooh con Piccola Katy e tanti altri. Tra i cantautori politici ricordiamo Paolo Pietrangeli con Contessa, uno dei canti del movimento che si cantava in corteo. Non fosse che per la parola "sistema", la canzone di Pietrangeli pareva mimare nella forma il canto rivoluzionario, anarchico della tradizione ottocentesca. Contessa Che roba Contessa, all'industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati, gridavano, pensi, di esser sfruttati. E quando è arrivata la polizia quei pazzi straccioni han gridato più forte, di sangue han sporcato il cortile e le porte, chissa quanto tempo ci vorrà per pulire...". Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello, scendete giù in piazza, affossate il sistema. Voi gente per bene che pace cercate, la pace per far quello che voi volete, ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sotto terra, ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato, nessuno piu al mondo dev'essere sfruttato. "Sapesse, mia cara che cosa mi ha detto un caro parente, dell'occupazione che quella gentaglia rinchiusa lì dentro di libero amore facea professione... Del resto, mia cara, di che si stupisce? anche l'operaio vuole il figlio dottore e pensi che ambiente che può venir fuori: non c'è più morale, contessa..." Se il vento fischiava ora fischia più forte le idee di rivolta non sono mai morte; se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa ha gettato in un fosso. Voi gente per bene che pace cercate... Scritta in occasione della prima occupazione studentesca dell'università a Roma, in seguito all'assassinio da parte fascista di Paolo Rossi, la canzone divenne tra le più eseguite durante il Maggio del '68. Michela Iommetti Lucrezia Paolini Lettura suggerita Mario Capanna, Il Sessantotto al futuro, Garzanti, Milano 2008 Quarant'anni fa, il maggio '68 ha cambiato il mondo. Le gabbie e le censure della vecchia società sono state travolte. Da allora i comportamenti, l'abbigliamento, i costumi sessuali non sono più gli stessi. Da allora si discute sul '68. È stata una scossa salutare? O l'inizio di un decadimento di cui paghiamo ancora le conseguenze? E’ stato, quindi, l’origine di tutti i mali contemporanei o la speranza che ci illumina ancora? Ma che cosa ha da dire, oggi, il '68? Mario Capanna, che di quel movimento è stato protagonista, ne rilancia i valori profondi, le sue verità e la sua istintiva saggezza. Mostra come la voce del Sessantotto parli oggi con un’attualità accresciuta, in proporzione all’aumento dei pericoli che minacciano la specie umana e la Terra. E ci esorta a ripartire proprio da lì, per costruire di più e meglio: da quei ragazzi che di fronte alla violenza e alle ingiustizie hanno saputo dire: «Il re è nudo!», da quella rivoluzione pacifica che ha spezzato di slancio cinismi e ipocrisie per cambiare la nostra visione del mondo. L’autore Mario Capanna è nato a Città di Castello nel 1945. Laureato in Filosofia, presidente della Fondazione Diritti Genetici, scrittore, giornalista pubblicista, coltivatore diretto, apicoltore. Leader studentesco nel Sessantotto, segretario nazionale di Democrazia Proletaria fino al 1987, esponente ambientalista e pacifista, è stato consigliere regionale della Lombardia (1975-80), comunale di Milano (1980), parlamentare europeo (1979-84) e deputato nazionale per due legislature (1983-92). Tra i suoi libri, editi da Rizzoli: Arafat (1989), Speranze (1994), Formidabili quegli anni (Rizzoli, Bur 1998), Il fiume della prepotenza (1996, Bur 2000), Lettera a mio figlio sul Sessantotto (1998), L’Italia viva (2000), L’uomo è più dei suoi geni (curatore, 2001). Con Baldini Castoldi Dalai editore: Verrò da te. Il mondo presente e futuro (2003, Supernani 2004), Lettera a mio figlio sul Sessantotto (2005), Coscienza globale. Oltre l’irrazionalità moderna (2006). Rosa Maria Virgili Nadia Saifi Federica Campanile Greta Maldera