I Il 1° maggio 1910, un uomo magro, dai tratti

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I Il 1° maggio 1910, un uomo magro, dai tratti
I
Il 1° maggio 1910, un uomo magro, dai tratti austeri, salì
sul treno delle Alpi nella stazione di Grenoble. Portava vestiti da lavoro che odoravano di foresta e teneva tra le mani un
barattolo di vetro pieno di segatura.
Per aprire lo sportello depositò con precauzione il suo fardello sulla banchina e si sbarazzò del sacco di juta che gli
pesava sulle spalle. Così facendo causò un rumore di ferraglia.
Nello scompartimento c’erano un prete, che quando lo
vide assunse un’aria annoiata, e una ragazza che si strinse
ancora di più nel suo angolo. Le avevano insegnato a temere
gli estranei magri e scuri che odoravano di foresta. Il nuovo
venuto però ignorò la sua presenta e non salutò neanche il
prete. Si sistemò il più lontano possibile dai suoi due compagni di viaggio.
Una signora indaffarata, in fronzoli di poco prezzo, volle
approfittare dello sportello aperto, ma la vista del viaggiatore mal vestito non piacque neanche a lei. Fece dietrofront.
Rimasero soli: il parroco, la ragazza e l’uomo. Il convoglio
si mosse.
Man mano che salivano verso il Truièves, la primavera
fioriva attorno al treno verde in una profusione di odori.
Negli scompartimenti vicini i bambini celebravano la partenza con esclamazioni di gioia. Anche il prete e la giovane
guardavano sfilare attraverso lo sportello gli alberi cangianti al vento. Solo l’uomo col barattolo teneva gli occhi fissi
sulla parete di fronte a lui. Ogni tanto, dietro la mano che
teneva incollata alla bocca, diceva una parola, sempre la
stessa...
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A Claix, a Vif, al Monestier-de-Clermont alcuni viaggiatori impazienti si issarono sul predellino ma, alla vista dell’uomo, si diressero verso altre vetture. Il suo sguardo fisso
allarmava tutti.
Eppure prese vita. Quando la cima del Mont-Aiguille
oscurò il sole, l’uomo si alzò a metà e si sporse verso il vetro.
Il convoglio rallentò e sfilò davanti a un viale di aceri sotto
il quale apparve il pannello blu di una stazione.
Il treno si fermò. Sul marciapiede un ferroviere urlava a
scatti il nome del paese:
– Saint-Michel-les-Portes! Saint-Michel-les-Portes!
Dietro a quella voce annoiata se ne sentiva un’altra recitare piano una specie di antifona, sempre sullo stesso tono:
– Generoso! Generoso!
Sentendola, lo sconosciuto abbassò il vetro e si sporse
con il busto verso l’esterno. In cima alla banchina stava arrivando uno zoppo vestito di alpaca nera che ripeteva con
pazienza quel nome bizzarro come se chiedesse l’elemosina.
– Orlando! – gridò il viaggiatore. – Sono qui! Venga!
Sono qui!
Afferrò il vaso e saltò a terra. L’uomo si fermò davanti a
lui. Sia l’uno che l’altro erano scuri. Tra i baffi mal curati, un
lungo sorriso accennato che però non illuminava i loro visi.
Il viaggiatore fece una domanda. Lo zoppo annuì con la testa.
Estrasse dalla tasca una scatola di pasticche Valda e lo sconosciuto aprì il barattolo.
Benché entrambi avessero alzato le natiche dal sedile per
vedere meglio, né il parroco né la ragazza poterono appurare
la natura di ciò che si stava maneggiando tra la scatola di
Valda e il barattolo, ma quello che immaginarono bastò a
renderli pensierosi.
Quando il treno si rimise in movimento la distanza tra
l’uomo e i compagni di viaggio era aumentata. Il sacerdote
aveva riavvicinato il libro al viso e la ragazza si tamponava
il naso con un fazzoletto di lino bianco che stava diventando
nero.
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“Generoso!” si disse il prete. “Questo nome non figura
neanche nel martirologio! Che madre ignorante glielo ha
affibbiato?”
L’uomo ora teneva ben dritto sulle cosce il barattolo di
vetro, come se trasportasse il santissimo Sacramento. Ogni
tanto lo riprendeva il tic di coprirsi la bocca con la mano.
Allora ripeteva quell’unica parola che la ragazza, a forza di
aguzzare l’udito, finì per cogliere distintamente.
La sera si riversava nelle valli. Dai finestrini lembi di primavera triste venivano a morire sulle pareti verdi dei vagoni.
Nelle stazioni che attraversavano, i viaggiatori si affrettavano guardinghi verso le loro fattorie.
L’uomo era immobile. Nel barattolo, ogni tanto, la
segatura si muoveva. La ragazza lo sbirciava con sguardo
obliquo. Nascosto dietro il breviario, il prete rimaneva in
guardia. Ogni tanto alzava la testa verso la leva dell’allarme. Una volta posò persino uno sguardo insistente sul
suo vicino. Inutile. L’uomo ignorò i compagni fino alla
fine.
Quando il treno delle Alpi entrò nella stazione di Veynes,
il viaggiatore raccolse la sacca con la ferraglia e la sistemò a
cavalcioni sulla nuca.
Scese lasciando lo sportello aperto. Il parroco e la ragazza si precipitarono simultaneamente a richiuderlo, ma la giovane fu più veloce. Si rincantucciarono ognuno al proprio
posto con un sospiro di sollievo.
– Signor parroco, – disse la ragazza, – mi scusi, cosa vuol
dire accidente 1? Quell’uomo lo ripeteva continuamente
coprendosi la bocca...
– Oh! – esclamò il sacerdote. – Bambina mia, è una brutta parola che non bisogna mai dire!
Pur continuando a seguire con lo sguardo l’uomo col
barattolo che passava vicino a un treno fumante sul marcia1
Così nel testo.
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piede accanto, il sacerdote rifletté alcuni istanti prima di
richiudere il messale con un colpo secco:
– Credo voglia dire ‘disgrazia’, – aggiunse.
Quando Generoso scese a Sisteron dall’altro treno che
aveva preso, erano già passate le undici di sera. Trovò il lampista, a cui chiese la strada per Cruis.
– Ci sono cinque ore di cammino, – disse l’uomo in tuta
blu. – Domani mattina alle sette c’è una vettura per SaintEtienne. Farebbe meglio a...
– Andrò a piedi, – disse il viaggiatore.
Il lampista lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava.
“Strano bagaglio,” pensò. Aveva badato solo al vaso che
l’uomo reggeva. Annusò l’aria. Attraverso l’odore di petrolio
che l’impregnava, riuscì a sentire un profumo di foresta.
L’uomo camminò per cinque ore sulla strada. Passando
svegliava i cani di tutte le fattorie. Alcuni si avvicinarono alle
sue brache di velluto sbattendo le fauci. Non fece un gesto
per scacciarli. Non manifestò nessuna paura. Il suo passo
rimase uniforme e rapido e lo sguardo fisso come la sera
prima, mentre era seduto in treno.
Quando entrò a Cruis il campanile suonava le quattro. Una
sola luce filtrava da un lucernario. Era quella di un forno. La
porta era aperta su un cortile lastricato. Generoso, da lontano,
chiamò il fornaio per non spaventarlo e gli chiese la strada.
– La... di Combe-Madame? Per dove devo andare?
– Accanto alla fontana... Vada su sempre dritto!
Il forno odorava di pane caldo.
– Non ne avrebbe un po’ già pronto? – disse Generoso.
– Ma certo! Ho delle micche...
Gliene portò due paia.
– Ne metta una in ogni tasca, – disse Generoso. – In fondo
ci sono degli spiccioli.
Teneva il barattolo con tutte e due le mani.
– Non si può sbagliare, – ripeté il fornaio. – A destra...
accanto al lavatoio.
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Si udiva in lontananza la fontana. Brillava nella notte
chiara. Generoso abbordò la salita avvolto in quell’odore di
pane caldo che lo rassicurava un poco. Le bisacce di juta gli
pesavano sulle spalle. Dentro, la ferraglia risuonava come la
campana di un caprone.
Al limitare dei boschi raggiunse un convoglio di quattro
carri che salivano a caricare i tronchi.
– Attilio Mosca! – gridò loro. – Lo conoscete?
– Es d’amoun d’Aoù! – gli rispose il più anziano indicando in lontananza la Combe-Madame.
Ma chi teneva la frusta di comando gli spiegò meglio:
– Le altre cataste! Sullo strapiombo di Plan Soubran! Non
ti puoi sbagliare! Sono quelle più basse!
Generoso alzò le spalle brontolando:
– Come sempre!
Gli gridarono ancora:
– Ne hai per quattro ore!
Prima di inoltrarsi nel sottobosco, osservò il Lure. Un crepuscolo cupo precedeva il sorgere del giorno. Su tutte le cupole della montagna si innalzavano i fumi azzurri delle carbonaie.
Ondulavano, esitanti, cercando il vento su cui appoggiarsi. Ma
l’aria era immobile e i fumi ricadevano fiacchi su se stessi.
Generoso sospirò. Era di nuovo su quella montagna! Non
l’amava. Non c’erano uccelli, né erba, né acque. Gli abitanti dicevano che era la più vecchia del mondo. Bel guadagno!
Era un ammasso di pietre piatte a perdita d’occhio.
L’humus e la pioggia scorrevano fra quei sassi come attraverso un colabrodo per riunirsi, inutili, a cinquecento metri
di profondità, in fondo alle doline. Sugli spigoli aguzzi di
quelle lastre instabili, in tre mesi ci si consumava un paio di
scarpe. Solo le querce pubescenti ci crescevano senza difficoltà. Ma erano poi degli alberi? Gonfiati, torturati da ulcere
e nodi, curvati dal vento impetuoso, s’increspavano verso le
cime nude, come supplici in ginocchio.
Generoso percorse un sentiero inconsistente dove le pietre sfuggivano sotto i suoi passi man mano che avanzava.
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Erano più di vent’anni che frequentava quella montagna e
non si era mai abituato alle sue distanze massacranti. Sul
Lure non si vede l’orizzonte, si hanno sempre davanti due o
trecento metri di sentiero in apparenza senza sbocco e il cui
seguito si rivela solo alla curva successiva per una distanza
equivalente. Si fanno chilometri nell’incertezza totale.
Generoso avanzava a testa bassa, attento solo a tenere in
equilibrio il suo vaso. Senza accorgersene, raggiunse così il
limite dove il Lure diventa un’altra montagna e la foresta un’altra foresta. Non c’erano più querce. I faggi chiari si ergevano
lungo i pendii in ranghi serrati. Alcune betulle ne interrompevano l’armonia. In fondo al fogliame c’era anche un acero solitario che aveva i germogli color ferro, prima di diventare grigi.
Il sentiero che portava alle cime arrotondate era ricoperto
di foglie morte. Sotto gli alberi si era scavata una galleria.
Generoso alzò gli occhi. Un odore di fuoco umido stagnava sotto il fogliame. Sopra la comba i tornanti ripidissimi
salivano fino alle carbonaie di suo fratello. Generoso scalò lo
scivolo levigato da dove i tagliatori scaricavano i fusti.
Comparve davanti all’indescrivibile disordine che conosceva
bene e di cui aveva vergogna.
“Non è cambiato,” pensò. “Mucchi di roba dappertutto...
cumuli di legna crollati; sacchi sparsi in tutti gli angoli...
L’avena del mulo che si mescola allo sterco... I bambini che
giocano con le scuri, invece di spaccare i ceppi più piccoli...
La moglie incinta... naturalmente... Che salame!” pensò.
“Vorresti che in un anno fosse cambiato?”
Accovacciato su una catasta di legna tutta verde di
muschio tenero, una specie di enorme barbaro dai peli neri
sembrava suonare uno strumento. In realtà si spolmonava in
una cerbottana di pino che funzionava da mantice. Attizzava
la catasta che si rifiutava di prendere fuoco. Il fumo gli faceva colare le lacrime nella barba dai riccioli arruffati.
– At-tilio! – gridò Generoso. – At-tilio!
Le due “t” ben separate schioccavano nell’aria come
colpi di frusta.
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– Roso!
Il colosso si rialzò sulla carbonaia. Sul volto annerito i
denti bianchi brillarono in un sorriso di gioia. Si precipitò giù
dalla catasta per stringere Generoso fra le braccia. Con la sua
mole lo dominava in altezza e larghezza, ma il fratello protese la mano per tenerlo a distanza.
– Testa de rementa! – sospirò. – Non mi abbracciare! Sei
il più rompiscatole tra tutti i miei fratelli!
– Cosa ho combinato ancora? – gemette Attilio. – Ti
aspettavo solo il mese prossimo. Ti ho fatto scrivere dal tuo
figlioccio...
– Appunto! È stata la tua lettera che mi ha costretto a
venire!
Posò il barattolo sul tavolo con i cavalletti e si afflosciò
su un ceppo di faggio, sotto la tettoia della capanna.
– Cosa ti dicevo di tanto urgente?
– Che avresti fatto della polvere.
– E allora?
– Allora, ti avevo detto di aspettarmi! Non ti ricordi, a
Larche? Lassù ti ho detto: “Se fai la polvere, sii prudente!
Bisogna aggiungerci qualcosa!”
– Sì, ma non mi hai detto cosa...
– Non lo sapevo ancora. Solo Orlando lo sapeva. Per questo ti avevo detto di aspettare.
Attilio alzò le spalle con disinvoltura e fece il broncio.
– Cosa c’era poi da aggiungere?
– Questo! – disse Generoso.
Il suo dito teso indicava il barattolo.
– Speravo fosse qualcosa di buono da mangiare, – disse
Carmonita.
La donna occupava tutto l’ingresso della capanna. Era
stata molto bella quando Attilio l’aveva accalappiata, appena
in tempo, sulla soglia del convento dove lei voleva entrare;
ma dopo avere partorito quattro figli, di cui due morti, solo il
suo viso era sopravvissuto al naufragio. Generoso la guardò
con compassione.
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– No, Monita... non è buona da mangiare. Tilio, porta il
mortaio e la tua polvere che facciamo la miscela.
– La mia polvere? Ma... non ce l’ho più. Non hai incrociato il tuo figlioccio? È uscito a recapitarla...
– Recapitarla? Non vorrai mica dire che... l’hai venduta?
– Cosa vuoi, i bambini hanno le scarpe bucate... avevo
bisogno di soldi. Allora, nel fare le consegne, ne ho parlato
un po’ con i ricchi. Oh, velatamente! E, perbacco, ce ne sono
quattro o cinque...
– Quattro o cinque? Chi?
– Chi? Ho dato la lista a Rosito...
– Ma io ne ho una copia! – affermò Carmonita.
Tuffò la mano tra i seni per estrarre il pezzo di carta che
vi era imprigionato. Aveva tracciato con fatica i nomi a matita e accanto a ognuno di loro, aveva scritto: “un luigi”.
Generoso afferrò il foglio.
– Basta che arrivi in tempo... – disse, – ...basta che non la
usino subito...
– È uscito alle cinque. Ah, mi avevano raccomandato tutti
di consegnarla oggi...
– Perché oggi?
– È San Pancrazio. I ricchi ci fanno le loro preghiere ai
santi di ghiaccio 2. Per via della vigna... perché quei santi
sono capricciosi. La mattina la messa, la sera i bagordi... Non
si sa cosa piaccia di più a quei santi... Insomma, ecco, la festa
è oggi...
– Oggi, – sbuffò Generoso. – Proprio oggi, bruta Madona! Ed è andato via alle cinque! E ne rimangono almeno
dieci!
– Undici! – precisò Carmonita. – Ascolta! Suonano a
Saint-Etienne...
– Tira fuori la mula! – ordinò Generoso.
2 Saints de glace: i santi Mamert, Pancrace e Servais (11, 12 e 13
maggio) giorni in cui la temperatura spesso si abbassa.
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Andò a staccare la bestia.
– Ehi! Non la prenderai mica? Stasera devo fare una consegna al convento dei frati Minimi...
Generoso aveva già messo il basto alla mula.
– Farai la consegna più tardi, – disse. – Bisogna che raggiunga Rosito... perché se non arrivo in tempo...
– Oh! – esclamò Attilio. – Cosa vuoi che possa capitare a
quelli?
– Moriranno... e in modo così orrendo che, benché ricchi,
tutti li piangeranno!
Fece volare la mula verso i boschi di Défends. Sparì sotto
Combe-Brémond, verso Saint-Etienne.
Il bambino sul suo asino seguiva cantando la strada che
va da Man a Saint-Michel. Fra il suo petto liscio e la camicia, scricchiolavano i cartocci grigi confezionati con cura
da Carmonita. Nella tasca dei calzoncini sentiva il contatto incoraggiante del luigi che aveva già guadagnato.
Diceva tra sé: “Quando sarò grande farò il commerciante
di cartocci.”
Sua madre gli aveva raccomandato a lungo: “Mi raccomando non mangiare quello che c’è dentro!” Non c’era pericolo. Quando chinava la testa verso il petto gli saliva al naso
un odore pungente di topo essiccato. “Che porcherie riescono a mangiare i ricchi!” pensava.
Era allegro come la luce della primavera. Aveva voglia di un
cavallo. Le grandi distese di erica di Porchère l’invitavano a caracollare. A volte, non avendo un destriero, speronava l’asino con
le scarpe ferrate. Il somaro eseguiva due o tre salti da pecorone,
ma il bambino stringeva bene le gambe e non faceva che ridere.
Tutto solo sulla strada, rideva di cuore, a grandi scoppi.
Mai portatore di morte era stato così ingenuo.
Suo padre gli aveva detto: “Sulla tua sinistra troverai una
quercia carbonizzata. Entra nel viale. L’ingresso non ha cancello. Dài due cartocci al padrone. Capisci? Due cartocci! E
al padrone! A nessun altro!”
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