Testo - Azienda Ospedaliera S.Camillo

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Testo - Azienda Ospedaliera S.Camillo
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
Contenuto
EDITORIALE
Mycobacterium tuberculosis "dormiente": nuove sfide all'infezione tubercolare latente
L. FATTORINI
Dormant mycobacterium tuberculosis: a new challenge to latent TB
ARTICOLO ORIGINALE
Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici
F. BELLI
Liver transplantation: microbiologic and infectious features
EVIDENZE A CONFRONTO - LOMBOSCIATALGIA: RMN O TC?
Il parere dell'ortopedico
F. PALLOTTA
Il radiologo e la RM
A. BELLELLI
Il parere del radiologo
M. GALLUZZO
RASSEGNA
Prevenzione cardiovascolare: stile di vita in rapporto ad alimentazione,
attività fisica e fumo - Parte II
G. OLIVA, S. CURTI, B. DI RIENZO, R. PRINCIPE
Cardiovascular prevention: lifestyle about nutrition, physical activity and smoke - Part II
FOCUS - MALATTIE POLMONARI RARE
G. SCHMID
Fibrosi polmonare idiopatica
G. FARINELLI
Sarcoidosi
E. LI BIANCHI
Markers di infiammazione e severità di malattia nella sarcoidosi
G. PAONE
Localizzazioni polmonari delle connettiviti
S. ANTONELLI
L'istiocitosi polmonare a cellule di Langherans (PLCH) e la protezione alveolare
F. FIORUCCI
Il ruolo della broncoscopia e del BAL
G. GALLUCCIO, G. LUCANTONI
Il decisivo ruolo del patologo nelle malattie polmonari rare
P. GRAZIANO
Il ruolo delle immagini nelle interstiziopatie
G. PEDICELLI
RECENSIONE "POSTUMA" DI UNA PREFAZIONE INEDITA
MARIO CALVANI
Guardare per vedere, vedere per capire
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“La Rivista è stata selezionata da
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per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS”
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
Editoriale
MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS “DORMIENTE”:
NUOVE SFIDE ALL’ INFEZIONE TUBERCOLARE LATENTE
DORMANT MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS:
A NEW CHALLENGE TO LATENT TB
LANFRANCO FATTORINI
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate
Istituto Superiore di Sanità, Roma
Parole chiave: Mycobacterium tuberculosis. Tubercolosi latente. Farmaci antitubercolari
Key words: Mycobacterium tuberculosis. Tubercolosis latent. Antitubercular agents
Riassunto: Si stima che due miliardi di persone siano infettate in maniera latente con Mycobacterium
tuberculosis (Mtb). In questi pazienti Mtb può trovarsi in uno stato di persistenza non replicativa (dormienza) soprattutto in lesioni poco ossigenate dei polmoni (noduli caseosi o tubercolomi). Allo scopo di mimare
questa situazione in vitro, vengono prodotte colture ipossiche di Mtb secondo il protocollo di Wayne in cui
le cellule dormienti mostrano una aumentata espressione dei geni del regulone DosR, ispessimento della
parete cellulare, sensibilità ai farmaci per anaerobi. In risposta ai farmaci antitubercolari si sviluppano
cellule dormienti fenotipicamente tolleranti ai farmaci (persisters). In circa il 10% dei patienti con infezione
tubercolare latente si ha la riattivazione a tubercolosi attiva. La chemioprofilassi riduce fino al 90% il rischio
di riattivazione ma non lo elimina completamente. È pertanto importante conoscere meglio la biologia di Mtb
dormiente e la ricerca di farmaci che sterilizzino sia le forme anaerobie che i persisters.
Abstract: Two billion people are estimated to be latently infected with Mycobacterium tuberculosis (Mtb).
In these individuals, Mtb is presumably to lie in a nonreplicating (dormant) state, particularly in the caseous
nodules of the lungs known as tuberculomas, i.e. lesions with little access to oxygen. These observations
provided a guideline for the “Wayne model” of Mtb dormancy in oxygen-limited cultures, characterized by
upregulation of genes within the DosR regulon, cell wall thickening, susceptibility to drugs for anaerobes.
Antitubercular drugs may favor the development of specialized dormant bacilli phenotypically tolerant to
drugs (persisters). In about 10% of patients with latent infection dormant Mtb reactivates giving rise to
active tuberculosis. Chemoprophylaxis can reduce the risk of reactivation by as much as 90% but does not
completely eliminate the development of disease. Overall, a better knowledge of the biology of dormant Mtb,
and search for drugs killing both anaerobic and persistent bacilli is an urgent need.
I numeri della tubercolosi e dell’ infezione tubercolare latente
La tubercolosi (TB) è una malattia
infettiva causata da Mycobacterium tuberculosis (Mtb), un batterio descritto per
la prima volta da Robert Koch nel 1882.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità
stima che ogni anno 8-10 milioni di individui si ammalino di TB e che circa 2 milioni
(5000 al giorno) muoiano a causa di essa,
di cui il 98% nei paesi poveri1-2.
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
A livello individuale la TB è abbastanza controllabile con farmaci specifici ma la
terapia dura 6 mesi, di cui 2 con rifampicina, isoniazide, pirazinamide, etambutolo
o (streptomicina), e 4 con rifampicina e
isoniazide1. L’OMS compie sforzi enormi
per diffondere quanto più possibile in
Africa, Asia e nei paesi dell’ex Unione Sovietica la cosiddetta “terapia direttamente
osservata” allo scopo di assicurare che i
pazienti assumano veramente i farmaci.
La scarsa aderenza alla terapia è uno dei
motivi per cui soprattutto nei paesi poveri è in aumento la TB causata da ceppi
MDR (multi-drug resistant, ovvero resistenti almeno a isoniazide e rifampicina,
i due farmaci anti-TB più potenti) e XDR
(extensively-drug resistant, ceppi MDR
resistenti anche a un fluorochinolone ed a
un farmaco iniettabile (amikacina, kanamicina o capreomicina)1-2. Molti studi sono
in corso per la ricerca di nuovi farmaci in
grado di ridurre a 3-4 mesi o meno la durata della terapia ed alcune nuove molecole (R207910, PA-824, OPC 67683, LL-3858
ed altre) vengono attualmente valutate in
studi clinici di fase I o II nell’uomo. Anche
sul fronte vaccini si sta facendo molto, con
almeno 5 vaccini in trials di fase I o II3. Al
momento l’unico vaccino in uso è ancora
il Bacillus Calmette-Guérin (BCG) che
protegge i bambini nei primi 5-10 anni di
vita soprattutto verso la TB miliare e meningea ma che non funziona negli adulti
né per la prevenzione della TB polmonare
né per impedire la riattivazione della LTBI (Latent Tuberculosis Infection), o TB
latente, a TB attiva3-5.
Occorre infatti ricordare che circa 2
miliardi di persone (un terzo dell’umanità) sono affette da LTBI, ovvero albergano Mtb in forma non replicativa
o “dormiente” da qualche parte nei loro
tessuti, rivelata dalla positività all’intradermoreazione con un estratto proteico di
Mtb noto come tubercolina (PPD, purified
protein derivative)4-5. Si stima che il 5%
dei tubercolino-positivi sviluppi la TB polmonare entro 2-5 anni dall’infezione (TB
primaria) e che un altro 5% si ammali di
TB nel corso della vita per riattivazione
di Mtb “dormiente” (TB post-primaria).
In considerazione dell’enorme serbatoio di
Mtb presente in forma latente nell’uomo
si comprende come, per il controllo globale
della TB sia essenziale conoscere meglio
la biologia del bacillo in fase “dormiente”
allo scopo di sviluppare nuovi strumenti
diagnostici (per ora limitati al test alla tubercolina e/o alla determinazione di IFN-γ
nel sangue) e terapeutici (profilassi con
isoniazide per 9 mesi) per la LTBI, con il
fine ultimo di eradicare la malattia tubercolare dall’uomo4-5.
Patogenesi della TB primaria,
post-primaria e dell’infezione tubercolare latente
La TB può interessare qualsiasi organo
ma nella maggior parte dei casi (≈ 80%)
è una malattia tipicamente polmonare3-7.
Mtb entra con l’aria inspirata e se riesce
a raggiungere gli alveoli viene fagocitato
dai macrofagi e trasportato nel parenchima polmonare. Anche se in teoria un solo
micobatterio è sufficiente ad infettare una
persona, è probabile che solo l’esposizione
prolungata agli aerosol (1-10 µm di diametro) prodotti con la tosse dai pazienti
con TB polmonare determini la trasmissione di Mtb dai malati ai contatti sani,
assicurando la trasmissione interumana
del germe. All’osservazione microscopica
dell’espettorato dei malati mediante colorazione di Ziehl-Neelsen il bacillo di Koch
appare come un bastoncello di 3-4 µm di
colore rosso, a seguito della capacità del
germe di trattenere la carbolfucsina, un
colorante specifico per i batteri alcool-acido resistenti.
I macrofagi alveolari che hanno fagocitato Mtb migrano nel parenchima polmonare dove richiamano altre cellule fino a
formare lesioni caratteristiche (granulomi) contenenti nella parte centrale macrofagi attivati (cellule epitelioidi) e cellule
giganti multinucleate originate dalla fusione di macrofagi (cellule di Langherans)
e, in periferia, da uno strato di linfociti
e fibroblasti allo scopo di circoscrivere il
campo di battaglia tra fagociti e germi
mediante una capsula fibrosa3-7. I granulomi primari si formano maggiormente alla
base del polmone (TB primaria) e sono
L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente
spesso associati a linfoadenopatia ilare
(complessi di Ghon). Reperti autoptici
hanno mostrato che il 66% delle lesioni
primarie calcificate si trovano nella metà
inferiore del polmone mentre solo il 12% è
sopraclavicolare4-5. Nel 95% delle persone
infettate con Mtb le lesioni primarie guariscono spontaneamente e possono calcificare mentre nel restante 5%, soprattutto
bambini e immunodepressi, possono causare una forma tubercolare localizzata (ad
esempio pleurite) o sistemica (meningite o
TB miliare) entro 2 anni dall’infezione. In
studi sui contatti stretti non trattati con
terapia anti-TB si è calcolato che il rischio
di ammalarsi si azzera dopo 8 anni indicando che la risposta immunitaria umana controlla bene l’infezione primaria4-5.
L’intradermorazione con tubercolina, che
dimostra l’avvenuto incontro del paziente
con il bacillo di Koch, si positivizza dopo
3-8 settimane dall’infezione primaria.
Mtb può diffondere per via ematica e/o
linfatica dal complesso primario verso le
regioni apicali del polmone, in cui si ha la
formazione di granulomi post-primari e,
in minor misura, verso sedi extrapolmonari (linfonodi, meningi, milza, reni, osso)4-5.
Si pensa che i bacilli tubercolari persistano per tutta la vita in forma “dormiente”
nei granulomi e che il 5% dei pazienti con
LTBI sviluppi la TB post-primaria per
riattivazione di Mtb dalla fase dormiente
a quella di crescita attiva. Molti di questi
casi riguardano individui adulti e anziani
dei paesi a bassa endemia tubercolare. La
riattivazione in sede apicale potrebbe essere favorita dalla maggior tensione di ossigeno in questa area del polmone rispetto
alle regioni basali4-5. Nei paesi a più alta
incidenza di TB, oltre alla riattivazione
dell’infezione latente, si può avere re-infezione e malattia da ceppi di Mtb esogeni
diversi da quello che ha causato l’infezione
primaria, come dimostrato con metodi di
tipizzazione molecolare4-5.
Sulla localizzazione di Mtb “dormiente”
nei tessuti dell’ospite non si hanno ancora
informazioni definitive. Nei casi piuttosto
rari in cui si ha negativizzazione dell’intradermoreazione con tubercolina si pensa
che i bacilli siano stati eliminati dall’ospite4. Viceversa, Mtb può moltiplicarsi nel
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granuloma e rilasciare antigeni che inducono il sistema immunitario a lisare i
macrofagi infarciti di bacilli determinando
la formazione, nella parte più interna del
granuloma, di un materiale solido o semisolido, acellulare e amorfo, dovuto alla
cosiddetta necrosi caseosa (caseum). Se
il granuloma si circonda di una capsula
fibrosa e il caseum va incontro a fibrosi
e calcificazione (“closed cavity” o tubercoloma), i micobatteri possono venire uccisi
o permanere in uno stato “dormiente”,
caratterizzato, fra gli altri, dalla difficoltà
di Mtb di replicarsi nei terreni di coltura.
A questo proposito vanno ricordati alcuni
studi pionieristici condotti fin dagli anni
’50 su campioni biologici ottenuti dopo resezione chirurgica del polmone in pazienti
trattati con terapia anti-TB8; in queste
ricerche i bacilli alcool-acido resistenti
venivano osservati all’esame microscopico delle sezioni polmonari ma non dopo
coltivazione per 3-8 settimane in terreno
liquido o solido. La discrepanza tra microscopia e colture era particolarmente
evidente nei materiali ottenute da cavità
chiuse ma non da quelle aperte, dalle
quali i micobatteri crescevano normalmente9-10. Prolungando l’incubazione delle
colture da 8 settimane fino a 8-10 mesi
era però possibile evidenziare la crescita
di colonie anche dalle cavità chiuse dimostrando l’esistenza di poche cellule di Mtb
in grado di sopravvivere alla terapia e al
sistema immunitario e di causare la riattivazione della malattia. In ricerche molto
più recenti sono state confermate queste
osservazioni. Ad esempio nell’articolo del
2004 di Ulrichs e colleghi sui resecati
polmonari le cavità chiuse (tubercolomi)
vengono descritte nei casi di TB non progressiva in cui i pazienti, pur avendo un
esame batteriologico e colturale negativo
dell’espettorato albergano nel polmone sia
batteri non coltivabili nei terreni di coltura solidi (dormienti), che batteri coltivabili
(103-107 CFU/gr di polmone); tali lesioni
erano state individuate mediante chirurgia esplorativa in pazienti asintomatici o
trattati con farmaci anti-TB6. Nella forma
progressiva (TB polmonare contagiosa)
si avevano invece esame batteriologico e
colturale positivo dell’espettorato e cavità
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
polmonari aperte con molti batteri coltivabili (104-109 CFU/gr di polmone). Lo studio
di Ulrichs e colleghi è interessante anche
perché mette in relazione la non progressione verso la TB polmonare con la buona
vascolarizzazione del parenchima intorno
ai granulomi6. Mentre le cavità aperte presentano scarsa vascolarizzazione dell’infiltrato periferico, i tubercolomi hanno una
parete ben organizzata e sono circondati
da un tessuto molto vascolarizzato, con
una risposta imunitaria maggiore dì quella osservata nel caso delle lesioni aperte.
Tale attività è concentrata in strutture follicolari (“active follicle-like centres”,
contenenti linfociti T CD4+ e CD8+, linfociti B e macrofagi) adiacenti al granuloma
iniziale che determinano un “cross-talk”
cellulare potente e continuo tra Mtb e
sistema immunitario6. Ciò è forse quello
che accade nel 95% degli individui con
LTBI che non si ammalano, indicando che
il sistema immune dell’uomo (a differenza
di quello di alcuni animali di laboratorio
quali il topo e la cavia, che fanno poca e
troppa caseosi, rispettivamente) è sensibile all’infezione ma molto resistente alla
malattia tubercolare. Secondo l’interpretazione di Ulrichs e colleghi il granuloma
post-primario può diventare una specie di
campo di battaglia abbandonato mentre
la battaglia immunologica vera e propria
avverrebbe soprattutto in queste strutture follicolari satelliti, anch’essi contenenti
micobatteri6. Non è chiaro però se i due
tipi di lesione, chiusa o aperta, rappresentino stadi patologici distinti presenti
nei pazienti con LTBI o TB attiva, rispettivamente, o se entrambi i tipi coesistono
nel polmone dello stesso paziente con TB
polmonare.
Nell’uomo la formazione della necrosi
richiede una grandezza minima del granuloma di 0.1 mm3. Nel lavoro di Ulrichs
e colleghi si è visto che il rapporto tra il
volume del mantello linfocitario e della
necrosi centrale dei granulomi è elevato
nei granulomi piccoli e tende a 1 in quelli
grandi (≥ 20 mm3)6. Questo significa che
l’espansione del granuloma è dovuta ad
un incremento della necrosi centrale a
spese dello strato linfocitario periferico
contenente linfociti T CD4+ e CD8+. Il ca-
seum contenuto all’interno dei granulomi
è un materiale instabile e, se il granuloma
si trova in vicinanza di una ramificazione
bronchiale ricca di ossigeno tende a liquefare ed a riversare i micobatteri nell’albero bronchiale lasciando delle cavità vuote,
le cosiddette caverne tubercolari. Come
conseguenza di questo processo di svuotamento Mtb viene espulso nell’ambiente
esterno con l’espettorazione, la tosse, lo
sternuto o il semplice parlare e, diffondendosi nell’aria, può essere inalato dalle persone che entrano in contatto con il malato.
Il micobatterio espulso dalle cavità “aperte” del paziente bacillifero rimane sospeso
nell’aria per molto tempo nei cosiddetti
“droplet nuclei” e può sopravvivere per
anni in ambienti chiusi, contribuendo alla
trasmissione per via aerea della TB da un
individuo ad un altro.
Ma dove si trovano esattamente i micobatteri dormienti? In studio del 2007
Lenaerts e colleghi hanno mostrato che
in cavie infettate con Mtb e trattate con
un potente farmaco anti-TB in fase sperimentale (R207910) i pochi micobatteri
sopravvissuti (“persisters”) sono extracellulari e si trovano in strato acellulare
ipossico con una pressione parziale <10
mm/Hg (dimostrata mediante colorazione
con pimonidazolo, un marker di anaerobiosi) compreso tra il centro caseoso del
granuloma e il mantello linfocitario; non
ci sono invece micobatteri nella parte
centrale calcificata11. Anche Ulrich e colleghi, usando un anticorpo anti-M.bovis
BCG, hanno osservato che Mtb si trova
nella parte esterna del centro necrotico
dei granulomi e nelle strutture follicolari
adiacenti al granuloma iniziale, mentre
il centro necrotico iniziale è sterile6. Ancora una volta questi studi non fanno che
confermare osservazioni pubblicate fin
dall’era pre-antibiotica quali ad esempio
il lavoro del 1927 di Opie e Aronson in cui
in 169 pazienti deceduti per cause diverse
dalla TB, campioni ottenuti dal 76% di
lesioni fibrocaseose degli apici polmonari
(e solo il 29% da lesioni fibrocalcificate e
il 50% da quelle fibrocaseose calcificate)
causavano TB nelle cavie12. Questo lavoro è particolarmente interessante perché
mostra che anche il tessuto polmonare
L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente
“normale” (senza TB della base, apici o
linfonodi bronchiali) contiene Mtb, come
dimostrato dal fatto che il 25-36% delle
cavie inoculate con materiali bioptici di
“pazienti normali” si ammalavano di TB.
Dopo 73 anni dalla pubblicazione di questo
lavoro, nel 2000 anche Hernandez-Pando
e colleghi, mediante PCR in-situ hanno
trovato il DNA di Mtb nel 35% di campioni
necroscopici di tessuto polmonare “normale” prelevato da abitanti di paesi ad alta
endemia tubercolare deceduti per cause
diverse da TB 13. In particolare, il DNA di
Mtb è stato ritrovato non solo in macrofagi
alveolari e interstiziali ma anche in altre
cellule quali pneumociti di tipo II, cellule
endoteliali, fibroblasti. Ad ulteriore sostegno della tesi che Mtb “dormiente” possa
essere presente nei tessuti senza dare
patologia non solo a livello extracellulare
intorno al caseum dei granulomi ma anche
in fagociti non professionisti ci sono le recenti osservazioni del 2006 di Neyrolles e
colleghi i quali hanno mostrato mediante
PCR in situ che il DNA di Mtb è presente
nel tessuto adiposo di rene, linfonodi, peritoneo, mediastino cuore e pelle in pazienti
deceduti per cause diverse dalla TB14. In
modelli di infezione ex vivo, questi autori
hanno osservato che Mtb persiste in uno
stato non replicativo in adipociti di topo
coltivati in laboratorio. Dato che il tessuto
adiposo costituisce fino al 25% del peso
corporeo dell’uomo si comprende come la
persistenza di Mtb in tessuti diversi dal
polmone possa essere molto importante
per l’acquisizione di conoscenze e interventi completamente nuovi sulla LTBI.
Dormienza e resuscitazione di Mtb
Mtb può rimanere per decenni nei
tessuti in uno stato di “dormienza” o persistenza non replicativa (nonreplicating
persistence, NRP) e questa sua capacità di
resistere al sistema immune e ai farmaci
rappresenta la causa più importante della
durata incredibilmente lunga della terapia anti-TB e dell’incapacità, a distanza
di 65 anni dalla scoperta della streptomicina, di eradicare questa malattia così
temibile per l’uomo. Si pensa che i fattori
9
che determinano la “dormienza” possano
essere molteplici tra cui variazioni di pH,
ipossia, carenza di nutrienti. Il tessuto
necrotico ha un pH di circa 6,5, ottimale
per la crescita di Mtb15. Altre sostanze che
potrebbero indurre la “dormienza” sono
l’anidride carbonica, che aumenta l’effetto
micobattericida dell’anaerobiosi, e l’ossido
nitrico, prodotto dai macrofagi attivati
da citochine di tipo Th1, in particolare
IFN-γ15. Un denominatore comune della
necrosi caseosa è però l’ipossia. Mtb è un
microorganismo tipicamente aerobio ma
la diminuzione improvvisa della pressione
di questo gas è letale per questo germe
a meno che la diminuzione non avvenga
in maniera graduale15. In questo modo il
bacillo tubercolare passa lentamente, come probabilmente avviene in vivo, da una
condizione aerobia e replicativa ad una
microaerofila/anaerobia e non replicativa
adattando le sue strutture a persistere per
decenni nei tessuti dei pazienti con LTBI.
Nell’uomo non esistono dati sulla pressione parziale di ossigeno nei granulomi
tubercolari, ma per fortuna negli animali si
hanno maggiori conoscenze. Nel 2008 Via e
colleghi hanno pubblicato un lavoro in cui
veniva determinata la pressione di ossigeno in topi, cavie, conigli e scimmie infettati
con Mtb sia misurandola direttamente
nei granulomi con una microsonda, che
trattando gli animali con pimonidazolo, un
marker di anaerobiosi usato nelle ricerche
sui tumori16. Da queste osservazioni si è
visto che mentre i granulomi del topo sono
poco ipossici, quelli del coniglio (0,1-5 mm
di diametro) lo sono molto di più, così come
quelli della cavia e della scimmia. In particolare, la pressione parziale di ossigeno
nel tessuto normale o infettato del coniglio
è circa 60 mm/Hg, mentre nel granuloma è
2 mm/Hg. Per contro la pressione di ossigeno nel granuloma del topo è relativamente
elevata (37 mm/Hg) indicando che questo
animale non è adatto per studi sull’ipossia
nella TB.
Sono stati pubblicati vari lavori sulla possibilità di preparare in laboratorio
Mtb “dormiente” in varie condizioni quali
quelle indotte da anaerobiosi stretta (atmosfera di azoto), mancanza di nutrienti (trasferimento dei batteri in tampone
10
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
fosfato), fase stazionaria, esposizione a
ossido nitrico, ma il metodo più noto è sicuramente il metodo descritto da Lawrence Wayne, un ricercatore statunitense che
fin dagli anni ‘60 si era dedicato a studi
sulla fisiologia e la biochimica di Mtb in
differenti condizioni di crescita17. Nel 1996
Wayne e Hayes descrissero il protocollo
per la preparazione di Mtb “dormiente”
in terreno liquido coltivando il germe in
provette agitate con un magnetino e con
il tappo perfettamente chiuso17. In queste
condizioni la pressione di ossigeno nelle
colture diminuisce gradualmente a causa
della moltiplicazione del germe fino a raggiungere una condizione in cui le cellule
non si replicano più. Il batterio entra in
una prima fase non-replicativa microaerofila che Wayne chiama (nonreplicating
persistance) NRP-1, quando la concentrazione di ossigeno è pari a circa l’1%,
seguita da una seconda fase, anaerobia o
NRP-2, quando l’ossigeno è ≤ 0,06%.
Le cellule in fase NRP-1 (3-5 giorni dopo l’inoculo) sono caratterizzate da varie
modificazioni strutturali e metaboliche
tra cui: i) inibizione della replicazione
cellulare e del DNA; ii) ispessimento della parete cellulare dovuto alla iperproduzione della proteina α-cristallina; iii)
aumento di isocitrico liasi, un enzima che
determina la produzione di ATP a partire
dagli acidi grassi attraverso lo shunt del
gliossilato quando il germe non può usare
il ciclo di Krebs per mancanza di glucosio;
iv) uso dei nitrati al posto dell’ossigeno
come accettori di elettroni per la produzione di ATP, confermato dall’aumentata
sintesi di nitrato reduttasi e trasportatori
di nitrato/nitrito7, 17.
Una delle caratteristiche più importanti della fase NRP-2 (10-12 giorni dopo
l’inoculo) è la sensibilità a farmaci quali il
metronidazolo, un farmaco che in microorganismi anaerobi come Giardia intestinalis viene attivato dalla piruvato ferredoxin
ossidoreduttasi (PFOR), un enzima che
lo trasforma in radicali liberi in grado di
danneggiare il DNA del microrganismo7,
18
. Non è noto se il metronidazolo funzioni
nello stesso modo in Mtb anche se è stato
osservato un aumento dei messaggeri di
Rv2554c e Rv2455c, due geni con por-
zioni di sequenza simili alle subunità di
PFOR18. Le cellule NRP2 sono resistenti a
isoniazide e ciprofloxacina e parzialmente
sensibili a rifampicina. Wayne ha descritto
un effetto sinergico tra rifampicina e metronidazolo17. Dati recenti hanno mostrato
che le fasi molto tardive delle colture dormienti (26 giorni dall’inoculo) vengono sterilizzate in vitro da rifampicina più metronidazolo17. È difficile confrontare la pressione parziale del granuloma tubercolare
del coniglio (2 mm Hg) con la percentuale
di ossigeno presente nel terreno di coltura
di Wayne (Dubos Medium Albumin) per le
fasi NRP1 e 2 (0,1 e 0,06%, rispettivamente)16. Via e colleghi hanno però osservato
che in conigli infettati con Mtb e trattati
con metronidazolo (20 mg/kg, 2 volte al
giorno) o rifampicina (10 mg/kg, 1 volta
al giorno) per 28 giorni, il numero delle
unità formanti colonia (CFU, colony forming units) diminuisce di circa 1 log10 in
entrambi casi, dimostrando che i) il metronidazolo funziona in vivo in un modello di
TB molto simile a quello dell’uomo, e che
ii) la fase NRP2 descritta da Wayne (in
cui funziona il metronidazolo) mima una
situazione in vivo in cui il farmaco agisce
bene16. Gli stessi autori hanno trovato che
il trattamento di colture NRP2 con 7.5 ug/
ml di metronidazolo per 7 giorni determina un calo di 1,3 log10 nel numero delle
CFU in vitro, similmente a quello visto nel
coniglio. La possibilità che il metronidazolo possa avere un futuro come farmaco
per la profilassi della LTBI nell’uomo in
sostituzione dell’isoniazide resta però del
tutto aperta. Purtroppo il metronidazolo
si è dimostrato inefficace nel topo (come
atteso) e, recentemente, nella cavia; in
quest’ultimo caso il metronidazolo era addirittura tossico quando somministrato in
combinazione con rifampicina + isoniazide
+ pirazinamide19. Maggiori informazioni
sulla possibilità di usare il metronidazolo
nell’uomo dipenderanno dai risultati di un
trial in corso in Corea su 60 malati di TB
MDR trattati con metronidazolo e farmaci
di seconda scelta.
L’ipossia ed altri segnali inducono in
Mtb l’attivazione di una cascata di eventi
controllati da un regulone specifico (regulone della dormienza) che comprende
L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente
48 geni tra cui un regolatore (DosR) e
due sensori, DosS (sensore redox) e DosT
(sensore di ipossia), questi ultimi presenti nella parete cellulare del batterio20.
In esperimenti in vitro si è visto che la
diminuzione della pressione di ossigeno
e l’aumento di ossido nitrico (NO) e/o di
ossido di carbonio (CO) attivano DosS e/o
DosT. Questi segnali vengono trasmessi al
regolatore intracellulare DosR che attiva i
48 geni del regulone della dormienza.
Tra gli eventi maggiormente caratterizzanti il programma di dormienza,
oltre a quelli già citati, va ricordata la
capacità di Mtb “dormiente” di overesprimere diacilglycerol aciltransferase e
accumulare vacuoli contenenti trigliceridi
come riserve di energia, similmente agli
animali che vanno in letargo. In linea con
queste osservazioni, le colture “dormienti” che hanno accumulato trigliceridi, se
sottoposte ad affamamento sintetizzano
una lipasi codificata dal gene lipY molto
efficiente nell’idrolizzare queste sostanze
ad acidi grassi21. Questi vacuoli sono stati
osservati anche da Neyrolles e colleghi all’interno degli adipociti e suggeriscono che
il tessuto adiposo può essere un ambiente
privilegiato per la persistenza di Mtb nell’uomo14.
Ovviamente le colture ipossiche di Wayne sono un modello con cui mimare in
laboratorio la risposta di Mtb all’ipossia.
Questo modello è però utile anche per capire come fa il batterio “dormiente” a “resuscitare”, ovvero a causare la riattivazione
da LTBI a TB attiva; ciò è possibile semplicemente aprendo il tappo delle provette
ipossiche e studiando le caratteristiche
fenotipiche e genotipiche della ricrescita
a vari tempi, ma al momento sono pochissimi i ricercatori che hanno intrapreso
questi studi. Conoscere meglio la biologia
della resuscitazione sarebbe sicuramente
importante anche per lo studio di nuovi
farmaci e vaccini22. Mtb produce cinque
proteine della resuscitazione codificate da
altrettanti geni (rpf A-E) ed uno di queste
proteine (rpf B) ha proprietà simili ai lisozimi e alle transglicosilasi solubili, enzimi
coinvolti nella idrolisi del peptidoglicano
della parete cellulare. Le proteine della
resuscitazione vengono prodotte da molti
11
microrganismi e sono state studiate particolarmente in Micrococcus luteus, che ne
secerne una sola. In base al confronto delle
sequenze nucleotidiche di proteine della
resuscitazione di vari batteri, rpf C e D
di Mtb potrebbero essere proteine secrete
mentre le altre tre potrebbero essere legate
al peptidoglicano della cellula produttrice.
Le proteine della resuscitazione agiscono
a concentrazioni picomolari e, similmente
alle citochine delle cellule eucarotiche, agiscono come segnali intercellulari; se una
cellula viene “svegliata” secerne queste
proteine in modo da svegliare altre cellule.
Non si sa se il peptidoglicano delle cellule
dormienti abbia una struttura diversa da
quello delle cellule vegetative; si pensa ad
esempio che le proteine della resuscitazione possano agire sul macchinario proteico
che regola il setto del micobatterio dormiente inducendo così il germe a riprendere la divisione cellulare quando la pressione di ossigeno aumenta. Al momento non
si hanno informazioni né sui sensori né
sui messaggeri intracellulari che avviano
la ricrescita.
Perché la terapia antitubercolare
è così lunga?
La lunga durata della terapia anti-TB
è dovuta a vari fattori tra cui l’enorme numero di batteri presenti nelle pareti delle
caverne tubercolari (fino a 1011 CFU/gr)
e la recalcitranza con cui Mtb si oppone
all’azione sterilizzante degli antibiotici23.
Per quanto riguarda il primo punto è noto
che le caverne possono contenere mutanti
di resistenza spontanea (1/106 e 1/108 per
isoniazide o pirazinamide e rifampicina,
rispettivamente) che obbligano a trattare
il paziente con molti farmaci. L’assunzione di farmaci singoli porta infatti allo
sviluppo di ceppi resistenti a causa della
formazione di mutazioni in geni bersaglio
specifici quali ad esempio katG e inhA per
isoniazide, rpoB per rifampicina, pncA per
pirazinamide. A ciò si aggiunge il fatto
che Mtb cresce molto lentamente (circa
un giorno per ogni ciclo di replicazione
e tre settimane per la crescita di colonie
in terreno solido) per cui anche i farma-
12
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
ci maggiormente battericidi (isoniazide e
rifampicina) impiegano settimane per negativizzare la coltura dell’espettorato nei
pazienti con TB polmonare. Occorre inoltre ricordare una certa peculiarità d’azione dei farmaci anti-TB. Così ad esempio
streptomicina e isoniazide uccidono soprattutto cellule in attiva replicazione,
rifampicina uccide quelle a crescita lenta,
pirazinamide solo cellule a lenta moltiplicazione e a pH acido; etambutolo è invece
un farmaco batteriostatico. Per tutte queste ragioni si comprende perchè occorre
usare quattro farmaci nei primi due mesi
e due farmaci nei quattro mesi successivi.
Questa terapia incredibilmente lunga per
una malattia batterica (paradossalmente
nota come “Short Course Chemotherapy) è
però molto efficace nel controllare la TB e,
se seguita pedissequamente dai pazienti,
non determina fallimenti terapeutici significativi. Purtroppo in molti paesi in via
di sviluppo in Asia, Africa e ex Unione Sovietica i farmaci non vengono assunti per
periodi così lunghi per varie ragioni (problemi economici, discontinuità nelle disponibilità dei farmaci, scarsa compliance da
parte dei pazienti) determinando così lo
sviluppo di ceppi con un elevato numero di
resistenze (TB MDR e XDR)1-2.
Oltre a questi motivi occorre però ricordare che la causa più importante per
comprendere a fondo la lunga durata
della terapia antitubercolare è la grande
refrattarietà di alcune sottopopolazioni di
Mtb agli antibiotici23. Gli studi più recenti
tendono infatti a far ritenere che anche
in questo microrganismo esistano cellule specializzate a persistere (persisters)
ovvero cellule genotipicamente sensibili
ma fenotipicamente resistenti (tolleranti) ai farmaci23. L’esposizione ai farmaci
determina l’arricchimento in persisters
all’interno di una popolazione. Tale fenomeno non è nuovo in microbiologia. La
resistenza fenotipica in vivo è infatti una
delle cause maggiori di cistiti da Escherichia coli o endocarditi da Staphylococcus
aureus23. In E.coli sono stati descritti
persisters di tipo I e II24. I persisters di
tipo I sono una popolazione preesistente
di cellule non replicanti generate nella
fase stazionaria, quelli di tipo II sono rare
cellule della fase logaritimica che passano spontaneamente dalla fase di crescita
normale alla non crescita o ad una crescita
lentissima. Resta da capire se i persisters
abbiano o meno un metabolismo sia pur
lentissimo, magari limitato a pochi geni,
perché questo potrebbe essere utile per la
ricerca di nuovi farmaci e vaccini. Studi
recentissimi su singole cellule di E.coli
hanno dimostrato un periodo di vulnerabilità agli antibiotici in persisters di tipo
I25. Per quello che concerne Mtb è stato
visto che persisters ottenuti per esposizione di sedimenti di colture di 100 giorni
(fase stazionaria) ad alte concentrazione
di rifampicina (100 µg/ml) sono coltivabili
in brodo ma non in agar, ed esprimono
rRNA 16S e mRNA di vari geni26. Il pensiero prevalente è che i persisters di Mtb
respirino senza replicarsi7. Molti studi
sono in corso allo scopo di identificare i
geni implicati nella persistenza, allo scopo
di caratterizzare bene questo stato basale
di sopravvivenza che rende così difficile
l’eradicazione della TB.
I persisters di altri microorganismi possono formare biofilms, come ad esempio
Pseudomonas aeruginosa nel caso della
fibrosi cistica23. Anche nel caso della LTBI
si comincia a pensare che le cellule “dormienti” presenti nelle lesioni tubercolari
possano essere incluse in qualche forma di
biofilm. Recentemente è stato dimostrato
che Mtb forma biofilms contenenti acidi
micolici (alcuni dei costituenti maggiori
della parete micobatterica) dei quali ci sono cellule tolleranti ai farmaci27. Non si sa
se Mtb possa produrre biofilms in vivo, ma
questa è un’ipotesi proposta recentemente
da Lenaerts e colleghi per spiegare il fatto
che solo 46 micobatteri su 223000 venivano ritrovati in un’area ipossica intorno al
centro caseoso dei polmoni di cavie trattate per 28 giorni con R207910, un potente
farmaco anti-TB in corso di sperimentazione clinica11. È possibile che se i “dormant
persisters” sono extracellulari ma si trovano all’interno di una matrice costituita da
acidi micolici o trigliceridi (come nel caso
degli adipociti) diventerà difficile stanarli.
Sappiamo però che non sono come le spore ma hanno un minimo di metabolismo
e questo potrebbe essere il loro tallone
L. Fattorini: Mycobacterium tuberculosis “dormiente”: nuove sfide all’ infezione tubercolare latente
di Achille. Occorrerebbe pertanto trovare
nuovi farmaci e/o combinazioni di farmaci
in grado di uccidere in tempi ragionevoli
in vitro e in vivo tutte le fasi biologiche
di Mtb, aerobiche, ipossiche, persistenti28.
Per il momento è noto che un certo numero di farmaci hanno un certa attività sia
pure parziale sulle cellule generate nel
modello in coltura ipossica di Wayne. Tra
questi ricordiamo sia farmaci già in uso
per la TB o altre malattie quali rifampicina, rifabutina, moxifloxacina, amikacina,
capreomicina, metronidazolo, clofazimina, tioridazina, econazolo, niclosamide, o
nuovi farmaci alcuni dei quali in studi di
fase 1 quali PA-824 o R207910, ma resta
da vedere la loro attività perlomeno in
modelli di infezione nell’animale29-30. Paradossalmente, l’isoniazide che viene usata
da decenni per il trattamento profilattico della LTBI è inattiva verso le colture
ipossiche17. Tuttavia questo farmaco, se
assunto per 9 mesi è in grado di impedire la riattivazione della LTBI in circa il
90% degli individui tubercolino-positivi a
rischio di riattivazione; una possibile spiegazione è che l’isoniazide (che lisa i bacilli
in attiva replicazione) uccida i micobatteri
dormienti che escono dal centro caseoso
e che cercano di moltiplicarsi. Occorre
però considerare che come nel caso della
terapia della TB, la terapia della LTBI è
lunghissima e che pochi pazienti assumono veramente l’isoniazide per 9 mesi, come
raccomandato dalle norme statunitensi.
Un’alternativa all’isoniazide è l’assunzione di rifampicina per quattro mesi, soprattutto nel Regno Unito. È pertanto urgente
individuare terapie alternative allo scopo,
idealmente, di trattare rapidamente sia
TB attiva che LTBI, per eradicare tutte
le forme biologiche di Mtb. Per quanto
al momento questo sembri impossibile
dobbiamo considerare un fattore a nostro
favore ovvero il fatto che, se si escludono
i casi di tubercolosi bovina, il serbatoio
di Mtb è nell’uomo stesso mentre in altre
malattie infettive il reservoir microbico è
quasi sempre nell’ambiente, rendendone
praticamente impossibile l’eradicazione.
Da queste considerazioni si comprende
come l’acquisizione di nuove conoscenze
sulla dormienza di Mtb intesa sia come
13
stato non replicativo in condizioni di bassa
tensione di ossigeno (microaerofila e anaerobia) che come difesa fenotipica verso
gli antibiotici (persisters) possa costituire
una nuova frontiera per il miglior controllo della TB, una delle cause di mortalità
più importanti nei paesi poveri.
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2008 Jul 14
Per corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. Lanfranco Fattorini
Dipartimento di Malattie Infettive,
Parassitarie e Immunomediate
Istituto Superiore di Sanità,
Viale Regina Elena 299, 00161 Roma
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
Articolo originale
TRAPIANTO DI FEGATO: ASPETTI
MICROBIOLOGICI ED INFETTIVOLOGICI
LIVER TRANSPLANTATION: MICROBIOLOGIC
AND INFECTIOUS FEATURES
FRANCESCO BELLI
Laboratorio Microbiologia e Virologia
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: HBV. HCV. Rigetto. Recidiva
Key words: Hepatitis B Virus. Hepatitis C Virus. Rejection. Relapse
Riassunto: Il trapianto di fegato è ormai considerato una procedura basilare per affrontare quadri di insufficienza epatica, acuta o cronica, in fase terminale. Le indicazioni più frequenti nell’adulto sono rappresentate dalle epatopatie croniche cirrogene HCV correlate e, da alcuni anni, dopo l’introduzione di nuove strategie
di gestione immunologica e terapeutica, anche dalle forme HBV correlate.
La scelta del momento ottimale in cui intervenire è uno step fondamentale nella fase decisionale pre-trapianto, cui concorrono numerosi specialisti, ognuno con le proprie competenze. In quest’ambito microbiologo
e infettivologo svolgono un ruolo importante: 1) valutando indicazioni e controindicazioni nell’inserimento
dei pazienti in lista di trapianto; 2) nella gestione delle complicanze infettive opportunistiche post-trapianto;
3) nella prevenzione e gestione delle reinfezioni o recidive della malattia di base.
Abstract: Liver transplantation is now a fundamental surgical intervention to treat acute or chronic hepatic
insufficiency in last stage. The most frequent indications in adults are HCV-related chronic cirroghenic liver
diseases and, in the last years, with the introduction of new immunologic and therapeutic procedures, also
in HBV-related diseases.
The choice of optimum time to transplant is a fundamental step in pre-transplant determination phase:
several specialists contribute with their competences.
In this sphere microbiology and infectious disease specialists have an important role: 1) to asses indications
and controindications for patient introduction in transplant list; 2) to manage the opportunistic infections
after transplantation; 3) to prevent and manage the reinfections and relapses of primary disease.
Introduzione
La sostituzione del fegato originale,
malato, con un organo sano si è trasformata, da procedura sperimentale riservata a
pazienti terminali, in intervento che può
salvare la vita, anche precocemente: indi-
spensabile è la scelta ottimale della fase
in cui intervenire, nella storia naturale
dell’epatopatia.
L’approccio preferito e tecnicamente
più avanzato è il trapianto ortotopico, nel
quale l’organo nativo viene rimosso e quello del donatore inserito nella stessa sede
16
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
anatomica. Poco utilizzato è il trapianto
eterotopico, in cui il fegato del donatore
viene trapiantato senza che venga rimosso
quello del malato: richiede, in attesa di
trapianto, la perfusione extracorporea con
fegato bioartificiale. Sperimentali sono il
trapianto di epatociti e lo xenotrapianto
(organo non umano geneticamente modificato).
Nonostante la morbilità e la mortalità
peri e post-operatorie ancora apprezzabili,
le difficoltà tecniche e di gestione e i costi,
il trapianto di fegato è divenuto una procedura medico-chirurgica di scelta in pazienti selezionati con epatopatia cronica o
acuta rapidamente progressiva, associata
a prognosi infausta e refrattaria alle terapie convenzionali.
La storia del trapianto di fegato inizia
negli anni ’60 del secolo passato, precedendo di poco quella relativa ai trapianti
di cuore, ma con una risonanza di gran
lunga inferiore a questi ultimi: mentre i
cardiochirurghi occupavano le prime pa-
gine dei giornali e i titoli d’apertura dei
notiziari radiotelevisivi, divenendo popolari al pari dei divi del cinema, i pionieri
del trapianto di fegato lavoravano spesso
nell’anonimato e lontano dalla cassa di risonanza dei mass-media: anzi, tanto dalla
comunità scientifica quanto dai non addetti ai lavori il trapianto di un viscere quale
il fegato era visto ora con scetticismo, ora
con sufficienza, talora con disgusto. Il
retaggio di ancestrali credenze popolari e
religiose su quest’organo ha sopravvissuto
a lungo nella cultura e nei comportamenti
di alcune popolazioni: come non ricordare
che per gli antichi egizi il fegato era la
sede dell’anima1, ove avveniva la comunicazione tra mondo spirituale e fisico (non
a caso era conservato, dopo eviscerazione
del defunto, in un canopo, l’unico a testa
umana, protetto da Imesty, figlio del grande Horo – Fig.1 -), oppure che gli etruschi
e i primi romani dal fegato o da sue copie
bronzee traevano auspici per la vita sociale e religiosa2: sono esempi di credenze e
antiche saggezze che oggi, a noi
occidentali smaliziati e talora
“ignoranti” del passato ci fanno
sorridere, ma che hanno a lungo
influenzato soprattutto le culture orientali e pertanto non deve
sorprenderci il distacco o persino la negazione di una pratica
medico-chirurgica che oggi si sta
affermando in quei contesti che
andremo a discutere.
Il primo trapianto di fegato
nell’uomo fu effettuato nel 1963
a Denver da Thomas Starlz3,
ma ci vollero diversi anni per
ottenere risultati clinici soddisfacenti con una medio-lunga
sopravvivenza dopo trapianto.
In Europa i primi interventi
risalgono al 1968 in Gran Bretagna e da allora la pratica si è
diffusa dapprima agli altri paesi
occidentali, quindi in Giappone
e Asia, da ultimo ai paesi del-
Fig. 1 - Tomba di Aye: i guardiani
ei visceri reali, tra cui il fegato.
Tebe, Valle dei Re
F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici
l’est europeo; in Italia il primo trapianto
è stato effettuato nel 1982, a metà degli
anni ’90 i centri abilitati erano 8, oggi sono
più di 20, diffusi prevalentemente al centro-nord. Il centro di riferimento a livello
internazionale è quello di Pittsburgh, fondato e intitolato allo stesso Starlz.
Fra il 1968 e il 2006 sono stati eseguiti
in Europa oltre 65.000 trapianti di fegato,
con una crescita costante fino al 20024: da
quell’anno le statistiche denunciano un
decremento che nel 2007 è stato anche in
Italia di circa il 3%; se è vero che alcuni
protocolli e criteri di inserimento dei pazienti sono stati rivisti o sono in via di
revisione, è soprattutto da ascrivere alla
difficoltà di reperire organi idonei per il
trapianto, problema condiviso da numerosi paesi, la flessione evidenziata nell’ultimo quinquennio.
In Italia dai 200 trapianti l’anno effettuati agli inizi degli anni ’90 si è passati ai
1089 del 2006 e ad un decremento del 3,3%
nel 20075.
Attualmente il decorso post-operatorio
dei trapiantati di fegato ha un andamento sovrapponibile a quello di altri organi,
con una morbilità e mortalità elevate nei
primi 12 mesi, ove si perde circa il 30% dei
pazienti, per complicanze infettive, rigetto
o problematiche connesse a reinfezione o
recidiva della malattia di base (*); ricordiamo che negli anni ’70-’80 a 12 mesi dal
trapianto la sopravvivenza non superava
il 40%. Dopo un anno le curve di sopravvivenza si stabilizzano e si registra il 74% di
trapiantati viventi al quarto anno (e l’82%
di questi lavorano o sono in condizione di
farlo), il 67% al quinto e diversi casi a 10 o
più anni dall’innesto. Tutto questo è dovuto
al miglioramento delle tecniche di supporto
intensivistiche ed anti-infettive, all’affinamento delle tecniche chirurgiche e della
conservazione degli organi, al miglioramento delle metodiche di controllo del rigetto,
(*) La reinfezione è un evento praticamente “universale” che si verifica entro il primo mese dal trapianto; la recidiva si osserva invece nel 50-70% dei
trapiantati fino a due anni. Tuttavia, specie dagli
Autori inglesi, i due termini sono spesso usati indifferentemente o è preferita in ogni caso la dizione di
recidiva.
17
alla selezione del paziente e alla scelta del
momento ottimale del trapianto.
Oggi l’indicazione al trapianto di fegato6
è posta per numerose forme di insufficienza epatica cronica in fase terminale (malattie colestatiche croniche, cirrosi postepatitiche, cirrosi post-alcoolica, malattie
metaboliche, cirrosi criptogenetiche, carcinoma epatocellulare, in casi limitati) e per
forme selezionate di epatite fulminante.
L’indicazione più frequente, attualmente,
nell’adulto è rappresentata dalla cirrosi
epatica HCV-relata e l’introduzione di
nuove strategie di gestione immunologia
e terapeutica (Ig anti-HBV) nelle forme
HBV-relate ha modificato in positivo il
trend di risultati anche in questi pazienti,
fino a poco tempo fa o non trattati con il
trapianto o solo in pochi centri e casi limitati. Il numero di pazienti elegibili per
trapianto (a fronte della cronica difficoltà
di reperire organi idonei) e lo sviluppo dei
centri autorizzati per numero e per attività è in continuo progresso.
Negli ultimi anni, per far fronte alla
grande sproporzione tra la disponibilità
di organi trapiantabili ed il sempre più
elevato numero di pazienti inseriti in lista
d’attesa, sono stati sviluppati due nuovi
approcci7: da una parte vi è stata una
revisione dei criteri di utilizzo di organi
che prima venivano scartati a priori in
quanto non standard (per età, instabilità
emodinamica, quadro infettivologico, parametri biochimici) e talora utilizzabili in
casi particolari, controllati e selezionati,
dall’altra è stata perfezionata e sempre
più utilizzata la tecnica chirurgica del
prelievo e successivo innesto di una parte
di fegato da donatore vivente.
La scelta del momento più adatto per
eseguire il trapianto è d’importanza critica: secondo Dienstag8, l’abbinamento tra
la scelta ottimale della fase di malattia
in cui eseguire il trapianto e la selezione
dei pazienti, ha contribuito a migliorare
i risultati del trapianto stesso più della
combinazione di tutti i miglioramenti tecnici ed immunologici. Tale scelta richiede
una valutazione coordinata tra epatologi,
chirurghi, anestesisti, specialisti dei servizi di supporto, infettivologi, microbiologi
ed immunologi.
18
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Tabella 1 - Principali indicazioni attuali al
trapianto di fegato
Tabella 2 - Controindicazioni al trapianto di
fegato
BAMBINI
Atresia delle vie biliari
Epatite neonatale
Fibrosi epatica congenita
Malattia di Alagille
Malattia di Byler
Deficit di alfa-1-antitripsina
Fibrosi cistica
Malattie ereditarie del metabolismo:
– Malattia di Wilson
– Tirosinemia
– Glicogenosi
– Malattie da accumulo lisosomiale
– Protoporfiria
– Malattia di Crigler-Najjar tipo I
– Ipercolesterolemia familiare
– Ossalosi ereditaria
– Epatite trasfusionale e insufficienza epatica
negli emofilici
ASSOLUTE
Malattia epatica grave con importante interessamento multiorgano
AIDS
Neoplasie non epatobiliari
Cardiopatie, pneumopatie severe
Colangiocarcinoma
Infezione epatobiliare non controllata
Sepsi non trattata o non responder alla terapia
Anomalie congenite non curabili che limitano la
durata di vita
Abuso di alcool o droghe
Metastasi epatiche
Malattie sistemiche
ADULTI
Cirrosi biliare primitiva
Cirrosi biliare secondaria
Colangite sclerosante primitiva
Malattia di Caroli
Cirrosi criptogenetica
Epatite cronica attiva con cirrosi
Sindrome di Budd-Chiari
Epatite fulminante (non l’epatite acuta alcoolica)
Cirrosi alcoolica
Epatite virale cronica
Casi selezionati di neoplasie epatocellulari primitive
Adenomi epatici
Nelle tabelle n. 1 e 2 abbiamo illustrato
le principali indicazioni e controindicazioni, al momento attuale, al trapianto di
fegato; trattasi di una materia in continuo
divenire: tra le prime, il trapianto viene
attuato con successo in patologie pediatriche, per quanto rare, come malformazioni
congenite o malattie metaboliche e tesaurismosi, a prognosi infausta. Nell’adulto,
come riferito, le epatiti croniche cirrogene
da HCV (ed oggi anche da HBV) rappresentano i 2/3 dei casi avviati al trapianto;
il rimanente è costituito da anomalie delle
vie biliari o dei vasi e da forme limitate di
neoplasie primitive.
Sono soprattutto i criteri relativi alle
controindicazioni che vengono continuamente rivisti, in base a nuovi parametri
sociodemografici (aumento dell’età media
della popolazione), nuove acquisizioni metaboliche e biochimiche, mutate condizio-
RELATIVE
Età > 60-65 anni, comunque in rapporto alla valutazione delle condizioni cliniche del paziente
Gravi disturbi psichiatrici
Trombosi dell’asse spleno-mesenterico-portale e della vena porta
Ipertensione polmonare
Precedenti interventi chirurgici a livello epatobiliare
Insufficienza renale
Precedenti neoplasie extraepatiche
Obesità grave
Stato di grave malnutrizione
Non osservanza delle prescrizioni mediche
Colangite
Grave ipossiemia secondaria a shunt intrapolmonari destra-sinistra
HIV+ (vedi testo)
ni infettivologiche e nuovi approcci terapeutici. L’esempio più eclatante riguarda
l’infezione da HIV: se l’AIDS conclamato
rimane una controindicazione a qualsivoglia trapianto, nei soggetti coinfettati
HIV-HCV, con epatopatia cronica rapidamente evolutiva verso l’insufficienza
epatica e qualora il paziente risponda
positivamente alla terapia antiretrovirale
HAART con viremia HIV ridotta e controllata, il trapianto di fegato è oggi previsto
ed anche in Italia è stato allestito un protocollo specifico; fra il 2002 e il 2006 23
sono stati i soggetti HIV+ trapiantati e 18
di questi sopravvivono a tutt’oggi9.
In Europa, secondo i dati forniti dall’
European Liver Transplant Registry, la
cirrosi epatica, perlopiù conseguente ad
un’epatite virale cronica, costituisce la
principale indicazione al trapianto (57%),
seguita dall’insufficienza epatica acuta
F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici
post-epatitica o tossica (12%), dalle patologie colestatiche (12%), dai tumori epatici
(11%) e dalle malattie metaboliche (4,5%).
In Italia il 60% dei trapianti è realizzato
per epatopatia terminale conseguente ad
infezione virale: di questi, oltre i 2/3 per
infezione da HCV, i rimanenti da HBV
(avviata al trapianto solo negli ultimi anni) e, nel 4% dei casi, da coinfezione B+C.
Epatite B e trapianto
Le epatiti acute da HBV sono clinicamente rare e solo in casi eccezionali
esitano in un trapianto di fegato: in un’indagine condotta dall’ “United State Acute
Failure Study Group” fra il 1998 e il 2002
in 24 ospedali americani, su 467 casi di
epatite acuta, solo 34 – 7,28% - erano da
attribuire ad HBV; 9 ebbero una risoluzione spontanea, 7 un esito infausto, 18 furono trapiantati con una sopravvivenza ad
oggi dell’ 80%10. In queste forme di epatite
acuta HBV-correlata, negli USA, era predominante il genotipo D (Wai, 2005)11.
Per quanto riguarda le ben più frequenti infezioni croniche, le forme osservabili
nelle varie aree geografiche sono differenti, a causa della circolazione di diverse
specie, ceppi e genotipi; in Italia nel 90%
dei casi predominano forme HBeAg-, con
livelli viremici contenuti perlopiù tra 104
e 108 copie/ml, indici di citonecrosi epatica
fluttuanti, discontinui e non marcatamente persistenti, danno necroinfiammatorio
da moderato a severo. Le restanti forme,
HBeAg+, simili alle più diffuse epatiti croniche HBV-correlate osservabili in altre
aree come quelle asiatiche, sono più aggressive: la carica viremica può raggiungere o superare le 1010 copie/ml, gli indici
di citonecrosi persistentemente elevati,
il danno necroinfiammatorio rilevante.
Ricordiamo come nell’infezione da HBV i
livelli di DNA virale circolanti correlano
con la gravità della malattia.
Nelle forme croniche avviate o meno
al trapianto, gli obiettivi terapeutici sono
diversi e possono essere così riassunti: 1)
Soppressione o controllo durevole della replica virale, evidenziati dalla riduzione di
HBV-DNA < 106 copie/ml e dalle sierocon-
19
versioni HBeAg→HBeAb e HBsAg→HBsAb; 2) Remissione della malattia epatica,
segnalata dalla normalizzazione di ALT
e dalla riduzione dello score necroinfiammatorio; 3) Miglioramento della prognosi,
che si traduce in riduzione del rischio di
sviluppare, a seconda dello stadio clinico,
cirrosi, insufficienza epatica o epatocarcinoma nonché nel miglioramento della sopravvivenza e della qualità della vita (Antonucci, 200512). Predittori di una risposta
clinico-terapeutica positiva sono l’abbassamento dei livelli sierici di HBV-DNA,
il riscontro, con metodiche istochimiche
nelle biopsie epatiche, di basse aliquote
di HBcAg, l’innalzamento, specie nelle
prime fasi della terapia con interferon, di
ALT, elevati punteggi “HAI grading” alle
biopsie. Predittori negativi sono l’età (i
pazienti pediatrici rispondono poco o affatto alle terapie) e la provenienza da aree
geografiche quali l’Asia centro-orientale,
ove circolano i ceppi virali più aggressivi
(Craxi, 200313).
I problemi di gestione di un paziente con epatite cronica HBV-correlata, in
rapporto ai parametri viremici, sono argomenti cruciali per l’epatologo e l’infettivologo. In base all’ “European Consensus
Conference”14 e all’ “American Consensus
Conference” del 200215, un valore di HBVDNA di 105 copie/ml è da considerare come
soglia per discriminare condizioni di portatore silente ed epatite cronica. Tuttavia
anche valori inferiori possono essere correlati ad un’epatite cronica, soprattutto casi
HBeAg-: indispensabile è la correlazione
con il quadro clinico, quello istologico e la
ripetizione seriale dei livelli di HBV-DNA.
Valori di DNA pari a 104 copie/ml, secondo
alcuni gruppi, costituirebbero già un indice predittivo indipendente di evoluzione
verso la cirrosi e/o l’epatocarcinoma.
Oltre il 50% dei pazienti trattati con lamivudina (prima o dopo trapianto) sviluppa resistenza al farmaco e presenta quadri
più evolutivi: importante è il riscontro di
mutanti YMDD lamivudino-resistenti per
indirizzare verso nuovi farmaci.
L’identificazione genotipica è oggi eseguita soprattutto a scopi epidemiologici: la
correlazione con la clinica, con le resistenze agli antivirali e con la risposta terapeu-
20
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
tica è ancora da valutare compiutamente,
anche in relazione ai costi dei test. Ricordiamo che nell’ Europa centro-occidentale
predomina il genotipo A (sottotipi adw2,
ayw1) e nell’area mediterranea il genotipo
D (sottotipi ayw2/3). Tuttavia studi più
recenti dimostrano la possibilità di una
qualche correlazione di rilievo, specie in
Asia: ad esempio, il genotipo B, nelle epatiti croniche HBeAg+, è associato ad una
sieroconversione Ag/Ab più precoce rispetto al genotipo C e il dato può spiegare la
minor progressione di malattia nei pazienti con genotipo B (Chu, 200216).
Epatite C e trapianto
La diagnostica di laboratorio dell’infezione da HCV si avvale di numerosi ausili
virologici, da impiegare in tappe successive o insieme, ma nessuno di questi è
indicativo dell’entità del danno epatico o
ha significato prognostico. Se la sierologia
esaurisce il suo ruolo alla fase diagnostica
(ricerca degli anticorpi e, con esito e significato discusso, dell’antigene), il reperto
istologico coadiuva in questa fase ma
soprattutto contribuisce alla stadiazione
e ad impostare, in alcuni casi, la terapia.
Ma è il supporto della biologia molecolare
che oggi è imprescindibile: il dosaggio di
HCV-RNA qualitativo (in alcune diagnosi
controverse e nella stadiazione) e quantitativo (impostazione della terapia, monitoraggio e follow-up del paziente, eventuale
gestione post-terapia) accompagna ogni
fase del lavoro dell’epatologo nel management del singolo caso clinico; importante è
anche la genotipizzazione per contribuire
ad impostare e monitorare il trattamento
farmacologico.
Pertanto la mancanza di metodiche
di isolamento virale e i limiti di sensibilità dei test sierologici sono oggi suppliti
dall’impiego della biologia molecolare: la
determinazione qualitativa di HCV-RNA
permette di identificare anche soggetti
scarsamente viremici per una bassa replicazione virale o per effetto della terapia e
pertanto coadiuva o sostituisce la sierologia nella diagnosi di epatite C acuta, cronica o materno-fetale, anche se perman-
gono difficoltà nell’identificare viremie
elevate o molto basse, vicine ai limiti di
determinazione del metodo.
La determinazione quantitativa di
HCV-RNA consente una più corretta impostazione e gestione dei trattamenti antivirali, nonché il monitoraggio e il followup del paziente in trattamento.
L’uniformità dei risultati, l’indipendenza dalle metodiche utilizzate e lo sviluppo
di standard di riferimento sono garantiti
da linee-guida e raccomandazioni internazionali (ad esempio, NIH Consensus Statement on Management of HCV, 200217).
La determinazione dei genotipi è importante per studi epidemiologici (distribuzione geografica), ma anche per contribuire ad una valutazione dell’andamento
dell’infezione e della risposta alla terapia;
ricordiamo, per quanto riguarda l’impostazione della terapia, che solo i pazienti
HCV-RNA+ sono potenziali candidati al
trattamento con PEG-interferon e/o ribavirina. I soggetti con genotipi 2 e 3 hanno
di solito una buona risposta terapeutica
alla ribavirina con dosaggi ridotti e trattamenti di breve durata, mentre i genotipi
1, 4, 5 e 6 necessitano di dosi più elevate e
per più tempo.
Dopo 12 settimane di trattamento (per
alcuni gruppi anche meno) con PEG-interferon e/o ribavirina, la mancata riduzione
della viremia è un fattore predittivo sfavorevole molto sensibile.
Ruolo del microbiologo e dell’infettivologo in caso di trapianto di
fegato
L’interesse di questi specialisti al trapianto di fegato è molteplice; in un’ottica
multidisciplinare la loro competenza è
richiesta nell’iter trapiantologico in tre
momenti principali: 1) Inserimento dei
pazienti in lista di trapianto, nel senso
di contribuire a stabilire le indicazioni
(quando la malattia di base è un’epatite
fulminante, una cirrosi o, più di rado, una
neoplasia post-epatitica) e le controindicazioni (situazione infettivologica preesistente o concomitante) al trapianto stesso,
in senso assoluto o relativo; 2) Gestione
F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici
delle complicanze infettive opportunistiche post-trapianto; 3) Prevenzione delle
reinfezioni o delle recidive della malattia
infettiva di base (epatite virale).
Una valutazione molecolare dei virus
epatitici è indispensabile nell’ambito dei
numerosi accertamenti clinici del ricevente
prima del trapianto; i pazienti HBsAg+ sono
inseriti in lista anche se HBV-DNA+, ma
vengono sospesi dalla lista attiva fino a che
i valori di DNA non si abbassano < 100.000
copie/ml sotto terapia antivirale. I pazienti
HDV+ sono immessi in lista di trapianto
se HBV-DNA-. I pazienti HCV-RNA+ sono
ammessi in lista di trapianto senza preclusioni.
Gli organi ottenuti da donatori con
morte cerebrale accertata, ritenuti idonei
per tutti gli altri parametri (età, condizioni fisiologiche ed emodinamiche), sono
accettabili, da un punto di vista microbiologico:
– in assenza di infezioni batteriche e micotiche in atto;
– in assenza di infezione da HIV 1/2 (indicazione assoluta!);
– in assenza di infezione da HBV e HDV,
con alcune eccezioni limitate riguardanti donatori HBsAg+ e/o HBcAb+
(vedi oltre);
– in assenza di infezione da HCV: alcune
eccezioni di provata gravità e urgenza
sono consentite e regolate in caso di
positività da protocolli specifici;
– in assenza di altre infezioni selezionate: toxoplasmosi, sifilide, virosi da
varicella zoster, herpes simplex 1-2,
cytomegalovirus, Epstein-Bar.
Numerosi sono i patogeni che possono
essere trasmessi da un fegato candidato
al trapianto (Panichi et Al, 200518): batteri
(enterobatteri, ps.aeruginosa, st.aureus,
bact.fragilis), miceti (candida albicans,
histoplasma capsulatum, criptococco), micobatteri (tuberculosis, chelonae), protozoi
(toxoplasma gondii, str.stercoralis), virus
(herpes 1, 2, 8, cytomegalovirus, adenovirus, Epstein Bar, HBV, HIV). Diverso il
discorso per HCV: è sì trasmissibile mediante un fegato infettato, ma altri tessuti
e cellule, come quelle emolinfopoietiche,
possono essere un altrettanto importante
fonte e non dobbiamo dimenticare mai il
21
carattere di infezione generalizzata e sistemica che HCV può determinare.
Le più frequenti complicanze del trapianto di fegato sono senz’altro quelle
infettive: circa il 70% dei pazienti, ancora
oggi, sviluppa tal complicanza nel corso
del primo anno dal trapianto. Per contro,
la letalità direttamente attribuibile ad
una causa infettiva è andata progressivamente riducendosi dal 50% negli anni ’70,
al 25 – 35% negli anni ’80, fino all’attuale
10%. Le infezioni rimangono comunque
la principale causa di morte nel paziente
sottoposto a trapianto di fegato e sono oggi
strettamente correlate, più che allo stato
infettivologico del donatore, ampiamente
controllato, a fattori inerenti l’iter trapiantologico e fattori legati al ricevente,
quali le sue condizioni cliniche generali,
il tempo d’attesa in lista di trapianto, l’intervento chirurgico di per se, l’anestesia, il
tempo di ripresa funzionale del fegato, la
permanenza in terapia intensiva, l’abbassamento delle difese immunitarie: deficit
delle difese meccaniche, dovuti a salti di
barriera per alterazioni della cute e delle
mucose secondari all’intervento chirurgico
e alle procedure di terapia intensiva, e deficit più specifici per la situazione di base
che ha condotto il paziente al trapianto e
la successiva terapia immunosoppressiva
per il controllo dei fenomeni di rigetto.
Complicanze extraepatiche e sistemiche di natura infettivologica e immunologica. Importante è l’attenzione
scrupolosa alle potenziali fonti e siti di
infezione tanto del donatore (oggi più
difficile ma sempre possibile è la trasmissione di infezioni virali o batteriche dall’organo trapiantato) quanto del ricevente.
Fondamentali sono la diagnosi precoce e
una terapia immediata: nel primo periodo
post-operatorio viene attuata comunque
una profilassi antibiotica e somministrati
farmaci verso agenti opportunisti, come,
ad esempio, Pneumocystis jiroveci.
Le infezioni batteriche prevalgono nel
primo periodo post-operatorio: polmoniti,
infezioni della ferita chirurgica, raccolte
infette intraaddominali, infezioni delle vie
urinarie, dei cateteri endovenosi, delle vie
biliari. Le forme micotiche (da aspergillus, nocardia, candida, criptococco), quelle
22
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
parassitarie (pneumocystis, toxoplasma),
perlopiù da agenti opportunisti, quelle virali (herpes, cytomegalovirus) e da batteri
intracellulari (micobatteri, specie MOTT,
listeria, legionella) sono tutte più tardive,
ad un mese e più dal trapianto.
Oggi con i controlli infettivologici attuati sia a carico del donatore e del ricevente
che del sangue ed emoderivati da trasfondere, sono assai infrequenti le infezioni
trasmesse dall’organo impiantato, con le
procedure di trapianto e a seguito di trasfusione di emocomponenti. Nella tabella
n. 3 abbiamo correlato gli agenti patogeni
e il tempo dal trapianto nel determinismo
delle complicanze infettive.
Collegata alle terapie antinfettive e
antirigetto è la nefrotossicità di numerosi
antibiotici impiegati a dosi massicce e soprattutto di immunosoppressori quali la
ciclosporina.
Un quadro immunologico particolare è
l’anemia emolitica autoimmune che può
insorgere con la mediazione di linfociti intraepatici del donatore che riconoscono gli
antigeni A e B sulle emazie del ricevente:
è transitoria e si risolve quando il fegato
trapiantato si ripopola con linfociti prodotti dal midollo osseo del ricevente.
Complicanze epatiche del trapianto di fegato di natura infettivologica
ed immunologica. Alcuni quadri sono
comuni ad altri interventi chirurgici rilevanti, quali l’ipoperfusione del fegato in
corso di sepsi, evento precoce o l’epatite
post-trasfusionale, tardiva e oggi rara. Ma
le due situazioni più importanti, frequenti
e di grande impatto clinico sono il rigetto,
acuto o cronico e la recidiva della malattia
epatica primitiva.
Rigetto
Rigetto acuto. È ancora oggi un’evenienza frequente, nonostante la terapia
immunosoppressiva, specie 1-2 settimane dopo l’intervento. I segni clinici e di
laboratorio, da soli, difficilmente sono
in grado di permettere una diagnosi
differenziale da altre complicanze, quali
l’ostruzione biliare, il deficit funzionale primitivo, un’alterazione vascolare,
un’epatite virale, un’infezione da cytomegalovirus, la recidiva della malattia
di base (importanti sono i test virologici
tradizionali e molecolari per una diagnosi di esclusione), un’epatotossicità da
farmaci. Il quadro istologico da biopsia,
per alcuni aspetti, ricorda la “graft versus
host disease” e la cirrosi biliare primitiva.
La terapia consiste nel cortisone in boli
endovena, anticorpi anti-Cd3+ o le globuline policlonali antilinfociti.
Rigetto cronico. È raro, può verificarsi
primitivamente o conseguire a più episodi
di rigetto acuto. Richiede per la diagnosi
la biopsia epatica, in cui diversi aspetti
sono simili a quelli di un’epatite virale
cronica. Le terapie farmacologiche hanno
scarsa efficacia e talora si rende necessario un nuovo trapianto.
Tabella 3 - Correlazione tra agenti patogeni e tempo dal trapianto di fegato nel determinismo di
complicanze infettive
Tipo di infezioni
0-30 Giorni
31-180 Giorni
> 180 Giorni
Batteriche
(33-68%)
Polmoniti nosocomiali
Infezioni da CVC
Ascessi addominali
Tubercolosi
Nocardiosi
Polmoniti comunitarie
Listeriosi, nocardiosi
Rodococcosi
Micotiche
(2 – 4%)
Aspergillosi invasiva
Mucormicosi
Candidosi Invasiva (10-25%)
Asp. Invasiva
Pn. jiroveci
Criptococcosi
Pn. Jiroveci (4-10%)
Virali
Herpes simplex (3-14%)
HH6
Parvovirus B19
CMV (22-29%),
EBV, HHV8,
HBV, HCV
Parvovirus b19
Adenovirus, RSV,
Virus influenzali,
VZ (5-10%), EBV, HBV, HCV
Toxoplasmosi
Leishmaniosi
Protozoarie
(da: G.Panichi, G.Ferretti, Congresso SIMIT, Fiuggi, 2005, modificata)
F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici
Recidiva, dopo trapianto, della
malattia epatica primitiva: le epatiti virali
Epatite virale A. Può recidivare dopo il trapianto per epatite fulminante da
HAV, ma questa reinfezione acuta non ha
conseguenze cliniche gravi.
Epatite virale da HBV. In riceventi
HBsAg+ la reinfezione, senza profilassi,
si verifica in > l’ 80% dei casi, soprattutto
con livelli viremici > 5 log: vi è pertanto
una precisa indicazione ad abbattere la
viremia pre-trapianto e a considerare trapiantabili solo i soggetti con carica virale
< 5 log. La profilassi pretrapianto (vedi
oltre) è poco efficace in portatori della variante YMDD, lamivudino-resistente o di
ceppi “wild virus”.
I pazienti con viremia tra 2 e 4 log (portatori della variante e-minus o coinfettati
B+D) recidivano in percentuale minore,
tra il 20 e il 40%, abbattibile mediante
profilassi.
Coloro che non recidivano, si trasformano nel post-trapianto in HBsAg- e
HBcAb+ e bassi livelli di HBV-DNA, con
la necessità di proseguire la profilassi a
tempo indeterminato.
In riceventi HBsAg-/HBcAb+ il rischio
di reinfezione del graft è alto, anche precocemente, con una situazione subdola,
poiché i livelli viremici si mantengono bassi, fluttuanti, talora appena apprezzabili
e l’evidenza clinica si rende manifesta in
non più del 5% dei casi.
Il trapianto di fegato proveniente da un
soggetto HBsAg+ comporta un rischio di
trasmissione dell’infezione praticamente
assoluto: in Italia il Ministero della Salute
lo autorizza, nell’ambito di un protocollo
sperimentale, solo in casi di provata urgenza e necessità, purchè il donatore sia HDV
Ag-, HDV IgM- e HDV Ig totali negativo o
positivo a basso titolo, in riceventi HBsAg+
e HDV-, sottoposti a profilassi al momento
del trapianto (organo salvavita!).
Qualora il donatore sia HBcAb+ il rischio di reinfezione varia dal 10 al 20%
in riceventi con marcatori di pregresso
contatto con HBV, sino al 70% in riceventi
“naive”; pertanto è preferibile destinare
questi organi a pazienti HBsAg+ sotto-
23
posti a profilassi, come seconda scelta a
soggetti HBsAg-/HBcAb+ e solo in casi di
assoluta necessità a pazienti “naive”: in
tutti i casi è fondamentale la profilassi con
Ig anti-HBV + farmaci antivirali, secondo
posologie e tempi ancora suscettibili di
dibattito.
La profilassi. Mentre la recidiva dopo
trapianto per epatite fulminante B non
era e non è frequente, in caso di trapianto
per epatite cronica terminale B questa evenienza era praticamente la norma quando
alla terapia immunosoppressiva antirigetto (che contribuisce quasi sempre ad un
aumento della viremia), non si associava
una profilassi antivirale pre e peri/posttrapianto. In questi casi la sopravvivenza
era bassa per il sopraggiungere di un’epatite fulminante o di una grave epatite
cronica con elevati livelli viremici o di una
epatite colestatica fibrosante, caratterizzata da infarcimento e soffocamento degli
epatociti da parte di massicce dosi di proteine di origine virale. Altre complicanze
erano la pancreatite e la sepsi. Inefficaci si
sono dimostrate misure profilattiche quali
la vaccinazione anti-HBV, la terapia pre
e post-trapianto con interferone, l’impiego
di Ig anti-HBV a breve termine, misure
impiegate con i farmaci immunosoppressori che non ridussero né il rischio di reinfezione né la mortalità.
La svolta radicale si è avuta con l’impiego delle immunoglobuline anti-HBV a
lungo termine (almeno 6 mesi): il rischio
di reinfezione si è ridotto dal 75 al 35%
e la mortalità dal 50 al 20%. I protocolli
impiegati, diversi per durata e dosaggio,
prevedono comunque la titolazione di HBsAb (titolo ottimale: 200-400 mUI/ml) e di
continuare o riprendere la terapia qualora
il valore scenda < 100 mUI/ml.
Un ulteriore miglioramento del decorso
post-trapianto si è avuto affiancando alle
Ig anti-HBV antivirali quali la lamivudina e l’adefovir dipivoxil; la prima, somministrata prima del trapianto, previene la
recidiva, dopo, controlla le recidive stesse
e blocca il decorso infausto dell’epatite
colestatica fibrosante. Il farmaco riduce i
livelli di replicazione di HBV, talvolta con
eliminazione dell’antigene di superficie,
riduce le transaminasi e gli indici di flogo-
24
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Fig. 2 - Incidenza e progressione della resistenza alla lamivudina nell’epatite cronica
da HBV
si. Il problema maggiore è rappresentato
dallo sviluppo di resistenze, cui si associa inevitabilmente un peggioramento del
quadro virologico e clinico; nella figura n.
2 è riportata l’incidenza di resistenza alla
lamivudina nell’epatite cronica B.
L’adefovir dipivoxil si impiega nei casi che hanno sviluppato una resistenza
alla lamivudina e pertanto trattasi di un
farmaco di salvataggio nei pazienti con recidiva e scompenso epatico dopo riacutizzazione e resistenti alla lamivudina. Meno
utilizzati, a tutt’oggi, sono il ganciclovir e
il famciclovir.
In conclusione, l’attuale gold standard19
della profilassi-terapia delle recidive dell’infezione da HBV dopo trapianto è la
somministrazione di Ig anti-HBV con l’aggiunta di un antivirale (lamivudina o adefovir) o altri in sperimentazione.
La coinfezione HBV-HDV. Ai riceventi con questa situazione si applicano gli
stessi schemi terapeutici e profilattici illustrati nel precedente paragrafo: tuttavia costoro mostrano minor frequenza di
recidive rispetto ai pazienti infettati dal
solo HBV.
Epatite virale da HCV. La malattia
epatica terminale da HCV è oggi l’indicazione più frequente al trapianto (>40%),
ma recidiva universalmente in quasi tutti
i pazienti – in particolare in coloro che
hanno un’attiva replicazione virale pretrapianto, > 106 copie/ml -, come evidenziato da indagini virologiche molecolari
sensibili. La recidiva si manifesta come
danno epatico acuto o cronico, con ripercussioni cliniche soprattutto nei primi 5
anni dal trapianto. Il 50% di questi pa-
zienti sviluppa un’epatite cronica di grado
medio-elevato e il 10% di questi evolve
verso la cirrosi, con sopravvivenza < 12
mesi; anche nei soggetti che sviluppano
un’epatite di grado moderato l’evoluzione
verso la cirrosi è frequente20.
L’istituzione di una terapia con interferon pegilato + ribavirina, alla comparsa
dei segni clinici, funzionali e virologici di
recidiva, riduce il danno epatico HCV-correlato ma la risposta non si prolunga nel
tempo, così come il controllo della carica
viremica; inoltre l’impiego protratto dei
farmaci è limitato dalla ridotta tollerabilità. Sono allo studio protocolli che prevedono l’inizio della terapia antivirale sempre
e comunque subito dopo il trapianto o
addirittura prima come profilassi, anche
se alcuni studi hanno dimostrato una
correlazione tra aumento del rigetto dell’organo e precocità d’inizio della terapia
con interferone.
Segni prognostici sfavorevoli, per la
comparsa di recidive in tempi brevi dopo
il trapianto, sono livelli viremici elevati o
in aumento e il riscontro di genotipi quali
1b. La dose di immunosoppressori è importante: tanto più è elevata quanto maggiore è il grado di immunodepressione che
si instaura con associato un aumento di
replicazione di HCV: sono i pazienti che,
rischiando o andando effettivamente incontro ad episodi di rigetto acuto o cronico,
ricevono più dosi di farmaci immunosoppressori e manifestano una tendenza più
precoce allo sviluppo di recidive. Pertanto
è importante valutare questa sequela prognosticamente sfavorevole: rigetto-terapia
immunosoppressiva-immunodeficit-aumento replicazione virale-recidiva.
Gestione immunologica post-trapianto: i farmaci immunosoppressori impiegati e la loro azione
Nell’ambito della nostra trattazione,
per completezza, riportiamo alcune caratteristiche d’ azione, d’impiego e possibili
complicanze dei farmaci immunosoppressori utilizzati nei trapiantati di fegato, argomento che coinvolge la figura professionale del microbiologo e dell’immunologo.
F. Belli: Trapianto di fegato: aspetti microbiologici ed infettivologici
Ciclosporina. Introdotta agli inizi degli
anni ’80, agisce a livello immunologico
su più fronti: blocca l’attivazione precoce dei linfociti T (Cd3+HLADr+), blocca
l’interazione dei Cd3+ con i propri recettori, interferendo con la trasduzione del
segnale Ca-dipendente, inibisce i geni che
codificano per le citochine prodotte dai
Cd3+, sia di tipo Th1 (IL2), che di tipo Th2
(IL4) che proinfiammatorie (TNFα), inibisce alcune funzioni dei linfociti B, ma non
interferisce con le cellule midollari che
si dividono rapidamente e precocemente
nel post-trapianto, come le mieloidi: ciò
spiega la relativamente bassa frequenza
di infezioni batteriche sistemiche dopo il
trapianto stesso.
Il principale effetto collaterale del farmaco è la nefrotossicità.
Tacrolimus (e i nuovi derivati, sirolimus, everolimus). È un antibiotico macrolide isolato da Streptomyces tsukubaensis;
ha praticamente gli stessi meccanismi
d’azione della ciclosporina, ma molto più
potenti. Riduce la frequenza sia del rigetto
acuto che di quello cronico e il numero di
episodi di infezioni batteriche e da cytomegalovirus. Può essere somministrato oralmente, ma il suo impiego è condizionato
dall’effetto nefrotossico, ancor più marcato
rispetto alla ciclosporina e dalla neurotossicità. Inoltre va tenuto conto delle
interferenze con altri farmaci che possono
essere impiegati nei trapiantati in caso di
complicanze infettive: la rifampicina, che
riduce i livelli plasmatici sia della ciclosporina che del tacrolimus, eritromicina,
fluconazolo, chetoconazolo, clotrimazolo,
itraconazolo che invece li aumentano.
Anticorpi anti Cd3+. Si impiegano nell’induzione o nel mantenimento della terapia immunosoppressiva qualora ciclosporina e tacrolimus non possono essere impiegati o vanno sospesi; l’indicazione maggiore
è nel trattamento del rigetto acuto post-trapianto, soprattutto nei casi che non rispondono ai boli di metilprednisolone. In corso
di terapia con anti-Cd3+ sono abbastanza
frequenti le infezioni batteriche, fungine
e da cytomegalovirus: per queste ultime è
utile la profilassi con ganciclovir.
Di recenti sono stati intrapresi nuovi
trattamenti con anticorpi anti Cd25+ (re-
25
cettore per IL2), acido micofenolico (che è
causa tuttavia di leucopenia) e la rapamicina, un inibitore “long action” dei Cd3+.
Conclusioni
Il trapianto di fegato è ormai da considerare come una procedura basilare per
affrontare quadri di insufficienza epatica,
acuta e soprattutto cronica, in fase terminale e come atto medico salvavita. La
scelta del momento giusto in cui intervenire è uno step fondamentale nella fase
decisionale pre-trapianto, che deve essere
gestita comunque multidisciplinarmente
anche al fine di una corretta impostazione
delle fasi peri e post-trapianto.
Infettivologo e microbiologo, nell’equipe
di specialisti coinvolti, giocano oggi un
ruolo primario:
1) nella valutazione infettivologica del donatore e del ricevente pre-trapianto e
nell’indicare eventuali controindicazioni o limiti in tal senso;
2) nella gestione delle complicanze infettive dopo l’intervento e nel prosieguo;
3) nella prevenzione delle recidive della
malattia di base (epatiti virali B o C).
Pertanto, pur restando una misura
terapeutica “estrema”, la sicurezza, la sopravvivenza e la qualità di vita in questi
pazienti hanno raggiunto oggi livelli impensabili fino a qualche anno fa: si sono
costituite, anche nel nostro paese, equipe
di grande livello ed è ormai terminata la
fase sperimentale del trapianto di fegato o
l’opera pionieristica di pochi decenni fa.
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Per corrispondenza e richiesta estratti:
Dr. Francesco Belli
Lab. Microbiologia e Virologia
Ospedale C.Forlanini, Roma.
P.za C.Forlanini1. 00151 Roma.
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
“Evidenze a confronto”
Una nuova rubrica: presentazione di Francesco Belli
Inizia con questo primo numero del 2009 una nuova rubrica, peraltro già apparsa, sia pur con diverse sfumature, in altre riviste medico-scientifiche italiane ed internazionali. L’obiettivo è insito nel
titolo: nel mondo della comunicazione, dei dibattiti, degli scambi culturali è sempre più rimarchevole l’esigenza del confronto, dello scambio di idee ed esperienze, della conoscenza di ogni aspetto
della prassi medica nelle sue varie sfaccettature. Talora spendidi lavori scientifici rimangono fini a
stessi o in attesa di un commento o di una replica che sulle pagine di una rivista può non arrivare
mai. Ecco perchè, su parere di diversi redattori e membri del comitato scientifico, ma anche di lettori ed abbonati, cogliamo l’invito per aprire una rubrica-confronto che porti contemporaneamente
all’attenzione due o più aspetti di un percorso diagnostico o terapeutico od assistenziale. Lo scopo è
anche e soprattutto di stimolare i nostri prossimi Autori a confrontarsi e ad offrire il frutto della propria esperienza ed attività quotidiana ad un ulteriore analisi critica da parte dei lettori: un modo,
secondo noi, moderno di fare cultura scientifica. Primo argomento proposto è una patologia di larga
diffusione ed impatto nella pratica quotidiana: la lombosciatalgia, della quale offrono il proprio contributo ed esperienza illustri ortopedici e radiologi in fase di approccio diagnostico.
LOMBOSCIATALGIA: RMN O TC?
LUMBAR ISCHIALGIA: RM OR TC?
Parole chiave: Lombosciatalgia, RMN, TC
Key words: Lumbar ischialgia, RMN, TC
IL PARERE DELL’ORTOPEDICO
FRANCESCO PALLOTTA
U.O.S.D. Ortogeriatria
Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma
Quando viene chiesto ad un clinico, ortopedico, neurochirurgo o neurologo, se in
una lombosciatalgia sia meglio una TAC
od un RMN la risposta più ovvia che si può
ottenere è “dipende da cosa si sta cercando”, infatti occorre sempre tenere a mente
che la lombosciatalgia non è una diagnosi
ma bensì un sintomo. Lombosciatalgia è
un termine unico che indica un dolore (algia) in sede lombare (lombo) che si irradia
all’arto inferiore lungo il decorso del nervo
sciatico ma nulla aggiunge alla causa che
determina tale sintomatologia clinica.
Una domanda frequentemente seguita
da bocciatura nelle Scuole di Specializzazione di Ortopedia è: “Cause di lombosciatalgia”: infatti dopo che il canditato ha
esposto con dovizia di particolari le cause
legate a patologia della colonna vertebrale egli dimentica, per inesperienza, di
citare le cause legate a patologie di organi
addominali. Di recente ho osservato un signore anziano con lombosciatalgia ribelle
alle terapie ed esame TAC ed RMN mirati
alla colonna vertebrale che evidenziavano
un grave quadro di artrosi, sicuramente
28
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Tabella 1
Fanuele, Jason C. MS *; Birkmeyer, Nancy J. O. PhD
+; Abdu, William A. MD ++; Tosteson, Tor D. ScD [S];
Weinstein, James N. DO, MS *++/; The Impact of Spinal
Problems on the Health Status of Patients: Have We Underestimated the Effect? Spine. 25(12):1509-1514, June
15, 2000.
compatibile con il quadro clinico lombosciatalgico, che però era conseguente
ad un grave aneurisma dell’aorta addominale diagnosticato solo in un secondo
momento.
Un lavoro multicentrico publicato su
SPINE (2000) ha esaminato 17.774 soggetti affetti da lombosciatalgia con età
compresa fra i 17 ed i 98 anni (47,5 anni
di età media) ed ha stilato una classifica
delle prime 10 cause (Tab. 1).
Appare pertanto evidente che le cause
di lombosciatalgia possono essere le più
diverse e che il clinico non solo deve dare
una esatta indicazione sulla più giusta
metodica strumentale da eseguire ma a
mio avviso dovrebbe anche porre dei quesiti o meglio sospetti diagnostici al radiologo esecutore dell’esame richiesto.
Quindi la scelta più appropriata di un
indagine strumentale si deve avvalere di
un attento esame clinico basato sull’accurata anamnesi e sull’esame obiettivo che
deve sempre porre una sospetta diagnosi.
Un recente trauma lombare, con comparsa di dolore improvviso lombosciatalgico
in un soggetto femminile in menopausa e
affetta da osteoporosi, pone una probabile
diagnosi di frattura vertebrale che, se solo
sospettata con la radiografia convenzionale, può essere confermata con un esame
tac; al contrario una lombosciatalgia recidivante in assenza di evento traumatico in
un soggetto in età compreso fra i 20-40 con
positività ai tests che indicano un impegno
e/o deficit radicolare può far supporre una
diagnosi di ernia del disco ed indicazione
ad un esame RMN.
Per concludere, in genere si preferisce
una TAC quando si sospetta una diagnosi che coinvolge la struttura ossea della
colonna vertebrale: fratture vertebrali,
spondilolisi e spondilolistesi, stenosi vertebrale, tumori vertebrali, ecc., mentre la
RMN dà maggiori indicazioni sulle parti
molli della colonna vertebrale: ernie discali, neurinomi, alterazioni della morfologia
e calibro del canale spinale e delle radici
nervose, raccolte di natura infettiva quali
quelle ascessuali, ecc.
Va infine ribadito che la scelta di una
metodica piuttosto che di un’ altra si basa
su un sospetto diagnostico che si deduce
da un attento esame clinico che spesso può
anche evidenziare la non necessità di un
approfondimento diagnostico strumentale.
Infatti ritengo che, ancora ai nostri
giorni sempre più spesso vengono richieste, in maniera superficiale e affrettata,
indagini strumentali inutili, che aumentano i costi della Sanità e le liste di attesa
a danno di quei pazienti che invece hanno
una reale e/o necessità di una particolare
indagine strumentale.
IL RADIOLOGO E LA RM
ALBERTO BELLELLI
U.O.C. di Radiologia Diagnostica ed Interventistica
Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma
Di fronte ad un Paziente con dolore al
rachide nella regione lombare e di tipo
sciatalgico la domanda diagnostica pone
al Clinico e di conseguenza al Radiologo
l’obbligo della scelta della tecnica di imaging idonea. Nel corso degli anni la RM
si è sempre di più affermata come tecnica
di I scelta rispetto alla ben nota e, molto
29
Evidenze a confronto
utile, Tomografia Computerizzata. I vantaggi che mi fanno scegliere la prima sono
molteplici: primo l’assenza di radiazioni
ionizzanti e quindi la possibilità di studiare una fascia più ampia di Pazienti, ad
esclusione dei pochi con controindicazioni
assolute (quali i portatori di Pace Maker
cardiaco, in cui la TC rappresenta l’unica
vera alternativa diagnostica), secondo la
possibilità di differenziare le molteplici
componenti tessutali della regione in studio, sulla base delle modifiche del segnale
di RM, tipizzando il tessuto adiposo, il
liquido, il sangue, il materiale discale, le
strutture nervose, gli spazi meningei, le
ossa e la spongiosa ossea e, soprattutto,
la possibilità di effettuare tutto questo
in maniera molto accurata su tutti e tre i
piani dello spazio con enormi vantaggi di
caratterizzazione anatomica. Non va assolutamente trascurata, anzi è un punto
di forza della tecnica RM, la possibilità di
estendere l’indagine allo studio delle radici del plesso lombare e lungo il decorso
del nervo sciatico nel contesto del bacino
e lungo i carrefour ossei, osteotendinei e
muscolo-tendinei. In queste sedi si possono riscontrare le patologie non discali che
possono essere la causa del dolore compressivo; altrettanto nelle Pazienti donne
la possibilità di uno studio della pelvi
con la conseguenza di svelare la presenza e la sede anatomica di origine di una
massa pelvica, causa della compressione
sul plesso lombare. Esiste una clinica
profondamente diversa tra dolore tipico
dell’ernia discale e riscontro obiettivo clinico e compressione dello sciatico a livello
extra-rachideo, ma spesso tale differenza
non viene apprezzata e la richiesta di indagini diagnostiche arriva con la dicitura
aspecifica di lombalgia di ndd. In questi
casi comunque la RM rimane nettamente
superiore alla TC per i motivi appena ricordati. Darei uno spazio elettivo alla TC
nel caso di studio di dettaglio del canale
vertebrale nell’eventualità di una stenosi rachidea osteo-legamentosa ipertrofica
su base acquisita e nei casi di terapia
interventistica TC guidata per il dolore
lombarem mediante infiltrazioni farmacologiche mirate, che attualmente mostrano
risultati molto promettenti a condizione
di una tecnica corretta e di indicazioni
rigorose, nella selezione dei Pazienti da
trattare.
IL PARERE DEL RADIOLOGO
MICHELE GALLUZZO
Radiologia D.E.A.
Ospedale San Camillo - Forlanini, Roma
Il dolore lombare, molto frequente nella
popolazione occidentale, a causa dell’aumento della vita sedentaria e dell’aumento del numero degli obesi, colpisce almeno
una volta nella vita una percentuale significativa della popolazione, specie quella
giovane - adulta, con significative conseguenze sui bilanci sociali, a causa di
assenze, spesso prolungate, dai luoghi di
lavoro.
Negli ultimi anni si è inoltre osservato
un incremento del numero dei praticanti
l’attività sportiva soprattutto amatoriale,
con un incremento del numero di traumi e
delle sintomatologie sport specifiche.
La lombalgia, secondo diverse statistiche, rappresenta uno dei principali motivi
di richiesta di visite ambulatoriali e prestazioni diagnostiche altamente specialistiche.
Il “low back pain”, per gli anglosassoni,
può essere schematicamente classificato in
spondilogenica o neurogena, quando prende origine dai costituenti del rachide, ed
in viscerale, vascolare o psicogena quando
determinata da cause extrarachidee.
Clinicamente è spesso difficile l’inquadramento dei pazienti e distinguere quelli
in cui la sintomatologia è dovuta a cause
intrinseche alla colonna, da quelli in cui
30
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
il quadro clinico è dovuto a patologie più
complesse con coinvolgimento della colonna vertebrale (5% dei casi).
Le cause che possono determinare l’insorgenza della sintomatologia sono diverse e, per tale motivo, la diagnostica per
immagini può fornire informazioni fondamentali per il clinico ai fini della diagnosi
e della successiva scelta terapeutica.
In letteratura sono presenti linee guida
elaborate con l’obiettivo di sistematizzare
quale sia il percorso diagnostico cui dovrebbe essere sottoposto il paziente affetto
da dolore lombare, e lavori da cui emerge
che come spesso non ci sia un significativo grado di correlazione fra la clinica
del paziente e le anaomalie riscontrabili
radiologicamente.
È noto che la radiologia tradizionale
è frequentemente utilizzata quale metodica di primo approccio al paziente con
sintomatologia dolorosa lombare, grazie
alla sua facile reperibilità ed ai costi contenuti.
Dalla letteratura emerge che la risonanza magnetica può essere definita
metodica di “elezione” nel paziente con
dolore lombare, e che si possono prevedere
in futuro sviluppi molto interessanti dagli
studi “sottocarico”.
All’interrogativo circa il ruolo della TC
nel paziente affetto da dolore lombare, è
doveroso rispondere a seguito di alcune
considerazioni.
Negli ultimi anni l’evoluzione tecnologica è stata rapidissima ed in breve tempo
dalla introduzione della TC “spirale” si
è passati all’introduzione di macchine a
tecnologia spirale “multistrato”, che hanno richiesto al mondo dei radiologi un
grande impegno culturale per conoscerne
le potenzialità diagnostiche e sfruttarne al
meglio le potenzialità diagnostiche.
Con la TC multistrato (TC ms) il tempo
di esecuzione dell’esame è brevissimo, e
le immagini ottenute possono essere rapidamente ricostruite su piani sagittali e
coronali e successivamente rielaborate in
ricostruzioni tridimensionali di elevatissima qualità.
Circa le applicazioni della metodica a
livello del rachide, la TC rappresenta il
“reference standard” nello studio e nella
classificazione delle spondilolisi, specie
nella ricerca di piccole alterazioni a livello
dell’arco vertebrale e nella valutazione
della morfologia dell’ampiezza del canale
rachideo.
La TC ms ha un ruolo fondamentale, in
urgenza, nello studio del rachide traumatico, attraverso una definizione accurata
del numero, della sede, della morfologia
delle fratture e dei rapporti con il canale
spinale.
È da considerare metodica fondamentale nello studio di patologie tumorali
dell’osso e nella ricerca di eventuali calcificazioni paravertebrali.
Può essere talvolta utilizzata per valutare l’evoluzione ed i tempi di guarigione
di una frattura e nello studio di patologie
infettive.
Si può impiegare come guida in caso di
procedure interventistiche, con particolare riferimento alla vertebroplastica e nello
studio di alcune patologie rotazionali del
rachide nella fase pre e postchirurgica.
Va sempre ricordato che la metodica
prevede l’uso di radiazioni ionizzanti, di
cui bisogna sempre tener conto, anche in
riferimento alle recenti normative sulla
radioprotezione.
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
Rassegna
PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE:
STILE DI VITA IN RAPPORTO AD ALIMENTAZIONE,
ATTIVITÀ FISICA E FUMO - Parte II
CARDIOVASCULAR PREVENTION:
LIFESTYLE ABOUT NUTRITION, PHYSICAL ACTIVITY AND SMOKE - Part II
GIUSEPPE OLIVA, STEFANO CURTI, 1BRUNONE DI RIENZO, 2ROSASTELLA PRINCIPE
Dipartimento Cardiovascolare, U.O. Cardiologia Riabilitativa; 1Dipartimento Cardiovascolare,
Servizio Centrale di Cardiologia e PS; 2Dipartimento Malattie Polmonari,
3
U.O. Pneumologia Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
Parole chiave: Stile di vita. Prevenzione cardiovascolare
Key words: Lifestyle. Cardiovascular prevention
Riassunto – In questa rassegna gli AA propongono le regole di un corretto stile di vita in rapporto all’attività fisica ed al fumo per contrastare gli effetti dei fattori di rischio cardiovascolare. Il rischio cardiovascolare è notevolmente ridotto da un’attività fisica costante, come dimostrano i vari studi osservazionali e
d’intervento. Riguardo alla lotta contro il fumo, gli AA riportano le strategie d’intervento sulla popolazione
e sul singolo individuo.
Abstract – This review explains the rules of a correct lifestyle about physical activity and smoke in order
to fight the cardiovascular risk factors. The cardiovascular risk is reduced by a constant physical activity,
as proved by osservation and intervention research. In regard to fight against smoke, the authors report the
actual strategies of massive intervention and on individual subject.
Attività fisica e prevenzione
cardiovascolare
Cenni di fisiologia cardiocircolatoria
Negli ultimi decenni è stato dimostrato
che uno stile di vita basato su un’attività
fìsica pianificata e ripetitiva può contrastare lo sviluppo dell’arteriosclerosi ed, in
particolare, della cardiopatia ischemica.
Non è stata riscontrata alcuna correlazione tra esercizio fisico esclusivamente
anaerobico e prevenzione dell’arteriosclerosi, mentre con l’esercizio fisico aerobico
viene contrastata l’azione di mediatori
metabolici ed infiammatori coinvolti nel-
la patogenesi dell’arteriosclerosi1-3. Con
il termine esercizio fisico di tipo aerobico
si intende un’attività fisica pianifìcata,
strutturata, ripetitiva e di intensità submassimale tale da prevenire l’accumulo
di acido lattico attraverso l’ossidazione
di una miscela quasi paritaria di glucosio
e di acidi grassi grazie alla maggiore o
minore capacità di trasportare l’ossigeno
(O2) ai muscoli (VO2max). Il consumo di O2
aumenta proporzionalmente con l’intensità dello sforzo, che varia da soggetto a
soggetto (“potenza aerobica”). Ad intensità
superiori al 50% del VO2 max e con intervalli di esecuzione inferiori alle 72 ore si
instaurano progressivamente (3-6 mesi)
32
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
importanti modificazioni nei muscoli e negli apparati cardiocircolatorio e respiratorio, che sono il risultato dell’allenamento
fisico (Tabelle 1-6)1-3.
La capacità degli apparati cardiocircolatorio e respiratorio di fornire O2 durante
attività fìsica prolungata viene valutata
Tabella 1 – Definizione di allenamento fisico
L’allenamento fisico e’ l’insieme di attività compiute
dal soggetto allo scopo di migliorare la propria capacità di prestazione lavorativa o sportiva con una
intensità submassimale e con continuità (ad intervalli
inferiori alle 72 ore).
Tabella 2 – Effetti dell’allenamento fisico sui
muscoli
•
•
•
•
•
•
Sviluppo dei capillari
Aumento della sintesi di mioglobina
Aumento del numero e del volume dei mitocondri
Modificazione dell’attività di alcuni enzimi
Ridotta deplezione di glicogeno muscolare dopo
esercizi fisici aerobici submassimali
Soglia anaerobica spostata ad un carico lavorativo
più elevato
con il test ergospirometrico, mentre la capacità di trasporto di O2 può anche essere
espressa in MET, che è l’equivalente metabolico (Tab. 7)3. La VO2max raggiunge i
valori più elevati fra i 20 ed i 30 anni e poi
tende a ridursi con l’età, di circa 1% l’anno.
Tra la sesta e la settima decade di vita la
VO2max si riduce di circa il 40% per riduzione della frequenza cardiaca massimale
(Tab. 8), diminuzione della massa muscolare e ridotta utilizzazione di O2. Questo
declino può essere rallentato o addirittura
arrestato da un’attività fisica costante di
tipo aerobico4. Infatti in un soggetto maschio sedentario di 40 anni la VO2max è
intorno a 35 ml/kg/min e con l’allenamento aerobico può aumentare anche del 3050%: l’obiettivo da raggiungere nelle persone oltre i 50 anni è una VO2max di circa
35 ml/Kg/min negli uomini, 29 ml/Kg/min
Tabella 5 – Effetti dell’allenamento sul letto
coronarico
•
•
•
Tabella 3 – Effetti dell’allenamento fisico sull’apparato cardiovascolare a riposo
•
•
•
•
•
Riduzione della frequenza cardiaca per aumento
del tono vagale
Aumento della gittata cardiaca
Riduzione della pressione arteriosa sistemica (2-5
mmHg nel normoteso, 5-15 mmHg nell’iperteso)
Riduzione della pressione arteriosa polmonare
Riduzione dell’indice tensione-tempo nel miocardio
Tabella 4 – Effetti dell’allenamento sugli apparati cardiovascolare e respiratorio durante
l’esercizio
Nel soggetto allenato, allo stesso carico lavorativo,si
riscontrano, rispetto al soggetto non allenato:
• minor incremento della FC e della PA
• aumento della gittata cardiaca
• riduzione relativa delle resistenze periferiche
sistemiche
• aumento del volume corrente respiratorio
• riduzione marcata della frequenza respiratoria
Tutto ciò si traduce in una riduzione del lavoro
cardiaco e quindi del consumo miocardio di ossigeno
allo stesso carico.
•
Ampliamento del lume delle arterie coronariche
maggiori
Aumento del flusso coronarico massimale
Riduzione della reattività coronarica agli stimoli
vasocostrittori
Miglioramento del trasporto di ossigeno
Tabella 6 – Effetti benefici dell’attività fisica
nella prevenzione dell’arteriosclerosi
•
•
•
•
•
•
Riduzione del grasso viscerale
Riduzione dei trigliceridi
Aumento del colesterolo HDL
Aumento della sensibilità insulinica
Aumento dell’attività antitrombotica ed antiflogistica a livello endoteliale
Prevenzione del diabete mellito di tipo 2
Tabella 7 – Definizione di MET
MET = unità di intensità equivalente alla spesa
energetica a riposo (pari a 3,5 mL/Kg/ m di O2 o a
circa 1 Kcal7Kg/ora in un soggetto di 70 Kg).
MET-ora = unità di misura quantitativa dell’esercizio fisico: si moltiplica l’intensità dell’esercizio (in
MET) per la durata (in ore).
MET-ora-settimana = dispendio energetico settimanale ottenuto con l’attività fisica
33
G. Oliva et al.: Prevenzione cardiovascolare
Tabella 8 – Frequenza cardiaca massimale
teorica
Età
FC 50-75%
FC max teorica
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
100-150
98-146
95-142
93-138
90-135
88-131
85-127
83-123
80-120
78-116
75-113
200
195
190
185
180
175
170
165
160
155
150
nelle donne, perché è stata documentata
una correlazione inversa tra VO2max e
mortalità da tutte le cause, in particolare
quella coronarica. Il passaggio da uno stile
di vita sedentario ad un regime di attività
fisica giornaliera di media intensità (5-7
MET) deve essere graduale, con esercizi di
intensità tale da indurre un aumento della frequenza cardiaca (FC) fino al 50-60%
di quella massima teorica nei primi giorni,
non oltre il 75% dopo una settimana (Tab.
8). Nella Tab. 9 è illustrato un program-
ma semplice ed efficace di attività fisica
continuativa e gradualmente crescente
fino a raggiungere un’efficienza fisica tale
da poter praticare qualsiasi sport a livello
amatoriale. Tale programma può essere
integrato in combinazioni infinite con altri
esercizi d’intensità variabile (Tab. 10), a
seconda della situazione socio-economica
di ognuno e delle sue attitudini psico-fisiche. Comunque qualsiasi impegno fisico
giornaliero, anche se di modesta entità,
può determinare effetti benefici a lungo
termine, soprattutto a livello degli apparati cardiocircolatorio e respiratorio5,6.
È dimostrato infatti che l’esercizio fisico
regolare esercita degli effetti protettivi
nei confronti dell’arteriosclerosi attraverso
molteplici azioni a livello cardiovascolare e
metabolico (Tab. 2-7).
Il sistema endocrino ed il metabolismo
sono profondamente influenzati dall’attività fisica: durante l’esercizio fisico si riduce l’insulinemia e aumentano gli ormoni
controregolatori (catecolamine, glucagone,
growth hormone, cortisolo), i quali stimolano la glucogenesi e la lipolisi, mentre
nelle ore successive all’esercizio fisico viene
Tabella 9 – Programma di attività fisica progressiva (American Hearth Association)
Riscaldamento
Obiettivo
Settimana 1
Camminare 5 min.
Settimana 2
Camminare 5 min.
Settimana 3
Camminare 5 min.
Settimana 4
Camminare 5 min.
Settimana 5
Camminare 5 min.
Settimana 6
Camminare 5 min.
Settimana 7
Camminare 5 min.
Settimana 8
Camminare 5 min.
Settimana 9
Camminare 5 min.
Settimana 10
Camminare 5 min.
Settimana 11
Camminare 5 min.
Settimana 12
Camminare 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 7 min.
Camminare
per 9 min.
Camminare
per 11 min.
Camminare
per 13 min.
Camminare
per 15 min.
Camminare
per 18 min.
Camminare
per 20 min.
Camminare
per 23 min.
Camminare
per 26 min.
Camminare
per 28 min.
Camminare
per 30 min.
Raffreddamento
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
con passo rapido
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
Camminare
per 5 min.
lentamente
Durata
Totale
15 minuti
lentamente
17 minuti
lentamente
19 minuti
lentamente
18 minuti
lentamente
21 minuti
lentamente
23 minuti
lentamente
25 minuti
lentamente
28 minuti
lentamente
33 minuti
lentamente
36 minuti
lentamente
38 minuti
lentamente
40 minuti
34
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Tabella 10 – Livello energetico delle diverse attività
Molto leggero:
< 3 MET
< 4 Kcal
Leggero:
3-5 MET
4-6 Kcal
Moderato:
5-7 MET
6-8 Kcal
Pesante
7-9 MET
8-10 Kcal
Molto
pesante
> 9 MET
> 10 Kcal
Attività
domestiche
• igiene personale
•scrivere
• cucinare
•pulizia delle finestre e
dei pavimenti
•verniciare
•portare pesi
(7-15 kg)
•salire le scale
lentamente
•giardinaggio
•pesi (15-30
kg)**
• salire le scale
a media velocità
•segare la legna
•portare pesi
(30-45 kg)**
•salire le
scale rapidamente o portando pesi**
•spalare la
neve (10 palate/minuto)**
•portare pesi
(>45 kg)**
Attività
lavorative
•lavoro impiegatizio
•stare in piedi
•guidare un camion*
•lavori manuali artigianali
•montare uno
pneumatico**
•lavori di muratura**
•scavare la
terra con la
pala**
•taglialegna**
• manovale**
Attività
sportive
•
•
•
•
•ballo
•golf (a piedi)
•vela
•ippica (trotto)
•tennis (doppio)
•tennis (singolo)
•sci(discesa)
•basket/pallavolo
•calcio
•pattinaggio
•ippica (galoppo)
•canoa**
•alpinismo**
• scherma**
•pallamano
•squash
• sci (fondo)**
•qualunque
sport a livello
agonistico**
Allenamento
fisico
•camminare
(3-4 km/h)
•cyclette (resistenza molto leggera)
• ginnastica molto leggera
•camminare
(5-7 km/h)
•bicicletta
(9-13 km/h)
•ginnastica
moderata
•camminare
(8-9 km/h)
•bicicletta
(14-16 km/h)
• nuoto (rana)
•jogging (9-10
km/h)
•nuoto (stile
libero)
•canottaggio
• bicicletta (20
km/h)
•corsa
(>10 km/h)
•bicicletta
(>20 km/h
o in salita)
pesca
biliardo
tiro con l’arco*
golf (con cart)
* può provocare stress psicologico con incremento del consumo miocardico di O2
**si può verificare aumento del consumo miocardico di O2 in caso di esercizio isometrico o di impiego delle braccia
Modificata da: Haskel WL: Design and Implementation of cardiac conditions programs. In: Wenger NK, Hellerstein HK
(eds.). Rehabilitation of the coronary patient. New York, John Wiley 1978; 208 (214)
stimolato l’anabolismo proteico per l’azione
combinata del growth hormone e del testosterone: la sintesi proteica muscolare in
presenza di un pasto contenente aminoacidi può aumentare di oltre il 100%7. L’effetto
lipolitico del growth hormone e delle catecolamine si esplica soprattutto sul grasso
viscerale, con conseguente riduzione della
circonferenza vita, la quale è fortemente
predittiva di eventi cardiovascolari. La
riduzione della massa grassa e l’aumento
della massa magra determinano una aumentata sensibilità insulinica: a parità di
glicemia l’insulinemia dei maratoneti è
inferiore di circa il 50% rispetto a quella dei
sedentari8. L’aumentata sensibilità insulinica e la riduzione della massa magra ri-
ducono l’apporto di acidi grassi esterificati
al fegato e la produzione delle VLDL (very
low density lipoproteins) ricche in trigliceridi. La trigliceridemia si riduce fino al 5070% ei valori basali dopo un’attività fìsica
costante e diminuisce nel plasma il passaggio dei trigliceridi dalle VLDL alle LDL7. Il
risultato finale è l’aumento delle HDL e la
riduzione delle LDL piccole e dense7,8.
L’attività fìsica continuata riduce anche
le concentrazioni di diversi mediatori o
markers di infiammazione coinvolti nella formazione della placca aterosclerotica (proteina C reattiva, amiloide
A, globuli bianchi, fattore chemiotattico monocitario o MCP-1, interleuchina8,9,10.
G. Oliva et al.: Prevenzione cardiovascolare
Studi osservazionali e di intervento
L’esercizio fisico è molto importante
anche nella prevenzione del diabete mellito tipo 2. Infatti nel Malmo study11 vari
programmi basati su dieta ed esercizio
fisico continuato hanno ridotto del 40-60%
l’incidenza di nuovi casi di diabete in soggetti con l’intolleranza ai carboidrati. Nel
Diabets Prevention Program12, condotto su
3.234 soggetti in 25 centri degli Stati Uniti, 1’end-point era quello di determinare se
la terapia farmacologica con metformina
e/o il cambiamento dello stile di vita fossero in grado di ridurre l’incidenza di nuovi
casi di diabete in soggetti con IGT. L’intervento sullo stile di vita, eseguito in 1079
partecipanti, aveva l’obiettivo di ridurre
del 7% il peso corporeo e di aumentare di
almeno 700 kcal/settimana il dispendio
energetico con attività fìsica (camminare
a passo svelto almeno 150 minuti a settimana): con l’ausilio di personale specializzato (dietiste, istruttori di educazione
fìsica) si utilizzavano strategie di tipo
cognitivo-comportamentale per promuovere il cambiamento dello stile di vita. Lo
studio è stato interrotto prima del termine
previsto per motivi etici: nel gruppo di
intervento con lo stile di vita si è verifi-
35
cata una riduzione del 58% di nuovi casi
di diabete rispetto al placebo e del 41% di
sindrome metabolica in un periodo medio
di 2,8 anni, nel gruppo con l’aggiunta di
metformina si è avuto il 31% di riduzione
del diabete ed il 17% di sindrome metabolica solo nei soggetti obesi.
In molti studi epidemiologici, sia prospettici che retrospettivi, è stata dimostrata una correlazione inversa tra attività fìsica ed incidenza di cardiopatia ischemica
e/o mortalità cardiovascolare mediante
due approcci metodologici diversi: il rilievo
dell’attività fìsica con questionario o la
misurazione effettiva dello sforzo con test
ergometrico (cicloergometro o treadmill).
Nel primo approccio rientra il famoso
studio sugli allievi del College di Harvard,
nel quale fra il 1962-1966 sono state raccolte le abitudini di 21.582 allievi (iscritti
fra il 1916 ed il 1950) e 15 anni dopo (nel
1977) sono stati registrati i cambiamenti
dello stile di vita di 10.269 allievi (45-84
anni di età). Il follow-up negli anni successivi (1977-1985) ha consentito di rilevare
una correlazione inversa tra intensità
dell’attività fìsica e mortalità da tutte le
cause (Fig. 1)13.
Tra gli studi che hanno utilizzato il test
ergometrico il più ampio per casistica è
1’Aerobics Center Longitudinal Study, nel
quale è stato utilizzato il test al treadmill
in 2 occasioni a distanza di
5 anni in 9.777 uomini ( 2 0 8 2 anni di età) con followup nei successivi 1-18 anni
(in media circa 5 anni) per
correlare l’effetto delle variazioni della capacità fìsica su
mortalità totale e cardiovascolare14: dai dati di questo
studio È emerso che la mortalità totale e cardiovascolare è inversamente correlata
con la capacità fisica e che,
nei soggetti che al primo test
Fig. 1 – Riduzione della mortalità in relazione al grado di
attività fisica. Rischio relativo
di mortalità
36
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
avevano una scarsa capacità funzionale e
la miglioravano al secondo test grazie ad
un aumento dell’attività fisica giornaliera,
la mortalità risultava significativamente
ridotta rispetto a quelli costantemente sedentari. Pertanto l’effetto sulla mortalità
non può essere attribuito a una favorevole
o sfavorevole predisposizione genetica, ma
è strettamente dipendente da una costante
attivività fisica.
Altri studi15-17 hanno dimostrato che
capacità fìsica e riduzione della frequenza
cardiaca dopo un periodo di attività fìsica
costante riducono la mortalità indipendentemente da diabete mellito, ipertensione arteriosa, obesità, dislipidemia, fumo
ed età. Nello studio di Myers la capacità
fìsica ha un valore predittivo molto alto in
quanto l’incremento di 1 MET riduce del
12% il rischio di mortalità16. Un obiettivo
ragionevole per un paziente di 40-50 anni
è l’aumento della sua massima capacità
fìsica ad almeno 9-10 MET, che equivale
ad una VO2max di 30-35 mL/kg/min.
Recentemente Di Loreto e coll.18 hanno
verificato gli effetti di diversi livelli di attività fìsica sul rischio cardiovascolare in un
gruppo di 179 pazienti che sono stati seguiti per due anni: l’attività fìsica volontaria
del tempo libero è stata documentata ogni
tre mesi mediante un diario settimanale ed
i pazienti sono stati suddivisi in 6 gruppi,
utilizzando come unità di classificazione
il dispendio di 10 MET-ora a settimana
che era l’obiettivo dell’intervento e che è
la quantità minima di attività fìsica consigliata da varie società scientifiche interna-
zionali1-3. I risultati dello studio (Tab. 11)
confermano che i fattori di rischio cardiovascolare classici si possono modificare con
almeno 10 MET-ora/settimana di esercizio
e che l’aumento di attività fìsica riduce
ulteriormente il rischio cadiovascolare e la
spesa per farmaci e ricoveri. Pertanto ogni
MET di dispendio energetico quotidiano ed
il camminare per 4 km al giorno potrebbero
ridurre il rischio coronarico rispettivamente dello 0,08% e del 2,2%.
Tabagismo: strategie di intervento
Tra le cause di morte evitabili il fumo
di tabacco è la principale: in tutto il mondo
esso è responsabile del decesso di un adulto
su dieci (uno ogni 6,5 secondi, pari a circa
5 milioni ogni anno, che raddoppieranno
entro 20 anni se non saranno presi provvedimenti efficaci), causato, nella maggior
parte dei casi, da malattie cardiovascolari
e da neoplasie polmonari19.
Dai dati ISTAT relativi all’anno 2007
risulta che in Italia i fumatori sono oltre
11 miolioni, pari al 21,3% della popolazione superiore ai 14 anni (28,2% maschi,
16,5% femmine)20. In Italia l’abitudine al
fumo è responsabile di 85.000 decessi l’anno20,21, pari al 15-20% di tutti i casi di morte (1 persona su 6), tra i quali il 36% (circa
29.000 morti, cioè un decesso ogni 20 minuti) è dovuto ad alterazioni morfologiche
e funzionali dell’apparato cardiovascolare,
provocate essenzialmente dalla nicotina22.
Essa determina liberazione di catecolami-
Tabella 11 – Modificazione di vari parametri della sindrome metabolica e del rischio coronarico
dopo 2 anni di attività fisica a diversi livelli rispetto ai soggetti di controllo17
P<0,05
Peso kg
Cm vita
HBA1c
PA max mmHg
PA min mmHg
COL tot mg %
COL LDL mg %
COL HDL mg %
TG MG %
CHD %
O
I-X
XI-XX
XXI-XXX
XXXI-KL
>XL
0,8
1
0,03
-1,8
-4,6
-3,8
-4,5
0,1
3,4
0,1
0,6
1
-0,06
-1,5
-2,4
-5,6
-7,1
1,1
2,1
-0,3
0,1
-0,9
-0,44
-6,4
-2,9
-10,2
-3,4
2,9
-48,2
-2,6
-2,2
-3,8
-0,88
-5,5
-4,8
-10,7
-5,3
5,6
-55,2
-3,7
-3
-5,5
-1,11
-6,6
-5,3
-7,4
-6,3
10,4
-57,4
-4,8
-3,2
-7,1
1,19
-9,2
-7,1
-10,9
-7,7
6,3
-68,4
-4,3
G. Oliva et al.: Prevenzione cardiovascolare
ne dalle terminazioni nervose simpatiche
e dalla midollare del surrene: ne consegue
aumento della pressione arteriosa per 2040 minuti e della FC del 30-40% ad ogni
sigaretta fumata e quindi aumento del
consumo miocardico di O2 (effetto alfaadrenergico). Questi meccanismi di tipo
“funzionale” spiegano la frequenza di infarto miocardico con coronarie pervie e di
angina vasospastica nei fumatori, mentre
la morte improvvisa è attribuita all’effetto
proaritmico dell’ossido di carbonio, degli
acidi grassi liberi e delle catecolamine in
eccesso22.
Interventi sulla popolazione
La storia naturale di molte malattie
fumo-correlate può essere modificata da
un efficace trattamento del tabagismo: per
raggiungere questo obiettivo è necessario
conoscere i presupposti teorici e l’operatività della lotta contro il fumo di tabacco.
La scelta di focalizzare l’attenzione su
sospensione dal fumo, abitudini di vita e
comportamenti è spesso più efficace rispetto alla scelta di smettere di fumare come
unico obiettivo dell’intervento terapeutico.
Pertanto occorre impedire o ridurre l’iniziazione al fumo degli adolescenti, far nascere nei fumatori attivi la motivazione a
smettere, mantenere l’astinenza dal fumo
negli ex-fumatori. In alcune nazioni sono
stati ottenuti risultati positivi nel ridurre
la prevalenza dei fumatori attraverso tre
interventi prioritari23:
1) Programmi di intervento a livello scolastico - Sono stati usati soprattutto negli
Stati Uniti per prevenire il fumo nei
giovani e si basano di solito su un training per imparare a riconoscere le influenze esterne che spingono a fumare,
a darsi delle regole, a promettere o impegnarsi pubblicamente a non fumare,
con particolare attenzione allo sviluppo
della personalità23. Questi programmi
di intervento devono iniziare tra i 4 e
gli 8 anni attraverso un linguaggio pedagogico adatto per quelle fasce di età
ed essere rivolti ad insegnanti motivati,
al fine di evitare il consolidamento di
modelli di comportamento verso il fumo.
37
2) Campagne di informazione - Radio, spot
TV, giornali e cinema influenzano notevolmente usi e costumi attraverso
messaggi di tipo comportamentale. È
ormai dimostrato che la televisione è
capace di modificare la percezione del
mondo reale e dei comportamenti sociali
accettabili da parte dei giovani, di contribuire alla definizione di norme culturali e di creare una immagine negativa
dell’abitudine al fumo anche attraverso
l’individuazione critica delle pubblicità
subdole che spingono al fumo23. Purtroppo i costi di tali campagne pubblicitarie
sono molto elevati e le case produttrici di
sigarette hanno avuto negli anni passati
il sopravvento con una pubblicità esattamente contraria. Dall’ottobre 2006
le disposizioni di legge della Comunità
Europea hanno vietato la pubblicità diretta ed indiretta del tabacco.
3) Interventi mirati da parte delle istituzioni - Consistono essenzialmente
in: restrizione della vendita di tabacco
a soggetti di età inferiori ai 16 anni;
aumento del prezzo delle sigarette in
modo da ridurre il consumo di sigarette da parte dei ragazzi; creazione
di luoghi per fumatori; convegni sul
problema del fumo e sulle attività antifumo, con la partecipazione attiva di
personaggi famosi; divieto di fumare
in tutte le strutture pubbliche (es.
ospedali, uffici postali, banche); manifestazioni di promozione della salute;
istituzione di centri per la terapia del
tabagismo23.
Terapia antifumo individuale o di gruppo
Per quanto riguarda la terapia antifumo sul singolo individuo sono stati proposti i seguenti metodi:
– intervento minimo;
– terapia cognitivo-comportamentale individuale o di gruppo;
– terapia farmacologica della dipendenza
da nicotina.
L’intervento minimo è quello richiesto
soprattutto al medico di famiglia, poiché
anche il solo consiglio verbale “breve”
(2-3 minuti) si è dimostrato efficace nel
promuovere la motivazione del fumatore a
38
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
smettere e nell’aumentare la percentuale
di coloro che smettono definitivamente24.
Si tratta di un intervento standardizzato denominato nei paesi anglosassoni
con la sigla 5°A: Ask (chiedere se fuma);
Advice (raccomandare di smettere); Assess (identificare i fumatori motivati a
smettere); Assist (aiutare a smettere con
un programma terapeutico); Arrange (pianificare incontri futuri). Se questo tipo di
intervento non è sufficiente e soprattutto
se il paziente è già affetto da una malattia
fumo correlata, è opportuno rivolgersi ad
un centro antifumo, dove tale intervento
sarà svolto in modo più ampio.
La terapia cognitivo-comportamentale
deve essere svolta da uno psicologo o da un
pneumologo esperto di questi problemi25.
Il trattamento farmacologico della dipendenza da nicotina consiste essenzialmente nella cosiddetta terapia sostitutiva
della nicotina a base di cerotti, gomme da
masticare, inalatori e capsule sublinguali26. Inoltre si sono rivelati efficaci nella
disassuefazione al fumo il bupropione27 e,
più recentemente, la vareniclina, la quale
agisce sui recettori nicotinici28.
Conclusioni
Un corretto stile di vita può ridurre l’incidenza di malattie cardiovascolari
di oltre l’80%29. Su quest’argomento così
importante molto è stato scritto e detto
a tutti i livelli (riviste mediche specialistiche e non, congressi, rotocalchi, televisione, ecc.), ma poco è stato fatto da parte
della sanità pubblica (ospedali, cliniche
universitarie, ASL, ecc.). Attualmente la
classe medica si limita a dare istruzioni
più o meno mirate sullo stile di vita solo ai cardiopatici con fattori di rischio,
mentre i soggetti sani con o senza fattori
di rischio sono abbandonati a se stessi.
La prevenzione primaria delle malattie
cardiovascolari viene effettuata soltanto
da qualche medico volenteroso e motivato
che, con molta fatica e soltanto con progetti a termine riesce ad ottenere dalle
istituzioni i mezzi necessari (attrezzature,
locali, personale, agevolazioni economiche
e burocratiche per la popolazione).
In considerazione del fatto che le malattie cardiovascolari sono la principale
causa di morte, è auspicabile l’istituzione
di strutture ambulatoriali idonee ad un’efficace prevenzione primaria attraverso
un’attenta e mirata strategia di popolazione, simile a quella attualmente in vigore
per altre patologie (neoplasie dell’utero e
della mammella).
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Per corrispondenza e richiesta estratti:
Dr. Giuseppe Oliva
Via G. Carini, 71
00152 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
Focus
(Extendend abstracts del corso ECM, Ospedale San Camillo - Forlanini, Roma, 19/11/2008)
MALATTIE POLMONARI RARE
RARE PULMONARY DISEASES
GIOVANNI SCHMID
già Direttore II Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Respiratorio,
Università “La Sapienza” Roma
Parole chiave: Polmone. Malattie rare
Key words: Lung Rare diseases
Introduzione
Il concetto di malattia rara deriva da un
fattore numerico: si definisce come rara una
malattia che colpisce cinque cittadini su diecimila nella popolazione comunitaria.
Il registro delle malattie rare tenuto dalla
NIH (National Institute for Health) comprende moltissime tipologie di malattie rare, per
cui, nella pratica identificazione di queste
malattie, esistono, in realtà, criteri molto variabili. Ad esempio, lo stesso NIH, nella relazione dell’Agosto 2006, informa che oggetto di
programmi di ricerca nell’ambito polmonare
sono state le seguenti malattie rare:
1) Sindrome di avanzata fase del sonno
(ASPS) - 2) Deficit di alfa- l-antitripsina 3) Asbestosi - 4) Displasia broncopolmonare
(BTP) - 5) Sindrome da ipoventilazione centrale congenita (CCHS) - 6) Ernia diaframmatica
congenita - 7) Fibrosi cistica - 8) Fibrosi polmonare idiopatica - 9) Linfangioleiomiomatosi
- 10) Narcolessia - 11) Ipertensione polmonare
persistente del neonato (PPHN) - 12) Discinesia ciliare primaria (PCD) - 13) Ipertensione
polmonare primaria (PPH) - 14) Proteinosi
alveolare del polmone (PAP) - 15) Sarcoidosi.
Una emanazione del BTS (British Thoracic
Society): il BOLD (British Orphan Lung Disease) prevede le seguenti patologie polmonari
rare:
1) Fibrosi polmonare idiopatica
2) Proteinosi alveolare
3) Amiloidosi bronchiale o polmonare
4) Sindrome di Churg-Strauss
5) Discinesia ciliare
6) Istiocitosi a cellule di Langerhans
7) Linfangioleiomiomatosi
8) Neurofibromatosi con coinvolgimento polmonare
9) Ipertensione polmonare primaria
10) Tumori primitivi della trachea
11) Malformazioni arterovenose polmonari
14) Malattie cutanee rare con coinvolgimento
polmonare
15) Malattie digestive con coinvolgimento polmonare
16) Teleangectasia emorragica ereditaria (Malattia di Rendu-Osler)
17) Endometriosi pleuropolmonare
18) Sclerodermia con coinvolgimento polmonare
19) Deficit di alfa- l-antitripsina
20) Miopatie idiopatiche infiammatorie con
coinvolgimento polmonare
21) Pneumopatia organizzata con coinvolgimento peribronchiolare
22) Pseudotumori infiammatori polmonari
gravi.
Nell’identificazione italiana delle malattie rare come da decreto ministeriale del
18/05/2001 n. 279 (allegato 1 del Ministro
della Sanità) le malattie polmonari come tali
non compaiono e l’unica citazione in proposito
è nell’ambito dell’eventuale coinvolgimento
polmonare delle collagenopatie.
Da tutto ciò deriva che, rispettando il criterio numerico della definizione di malattia
rara (5/10.000), si può proporre, considerata la
tipologia dell’Azienda Ospedaliera, le afferenze per patologia e la localizzazione geografica,
un elenco di malattie rare polmonari come
appresso specificato:
1) Fibrosi polmonare idiopatica (FPI)
2) Sarcoidosi
3) Localizzazioni polmonari delle collagenopatie
4) Istiocitosi X e Proteinosi alveolare.
41
G. Schmid: Malattie polmonari rare
Metodologia
Hanno preso parte allo studio i Dr. Fabio
Fiorucci, Enrico Li Bianchi, Gregorino Paone (del CUBE-Forlanini); Salvatore Antonelli
(della Reumatologia-San Camillo), Gianfranco
Farinelli (della 3° UOC- Forlanini), Giovanni
Galluccio (della Endoscopia toracica-Forlanini), Paolo Graziano (dell’Anatomia patologicaForlanini).
Le diagnosi sono state ricavate dall’archivio
centrale dell’azienda usando la classificazione
ICD (International Classification of Diseases) e
ricavando le informazioni attraverso la scheda
di dimissione ospedaliera (SDO). Un particolare elemento di difficoltà è stato rappresentato
dalla identificazione della FPI in quanto questa malattia è stata sottoposta a una revisione
classificatoria (Idiopatic Pulmonary Fibrosis
–International Consensus Statement in Am J
Respir Crit Care Med 2000; 161:646-664) che
ha cercato di riorganizzare su rigorosi criteri
anatomo-clinici le innumerevoli varianti e
dizioni con le quali questa patologia è stata in
passato riconosciuta.
La identificazione più pertinente della
FPI, rispetto a quella a dell’elenco sistematico delle malattie, è stata quella di Alveolite fibrosante idiopatica (codice 5163).
L’esistenza, peraltro, di altre denominazioni
come quella di “Altre pneumopatie alveolari
e parieto-alveolari specificate” (codice 5168)
e “Pneumopatie alveolari e parieto-alveolari
non specificate” (codice 5169) e ancora quella
di “Fibrosi polmonare post infiammatoria”
(codice 515) hanno determinato una percentuale di diagnosi errate abbastanza considerevoli cosicché si è reso necessario uno studio
analitico delle varie diagnosi richiamando le
cartelle originali.
La revisione sistematica delle cartelle relative alle altre diagnosi di malattie polmonari
rare ha invece dimostrato percentuali di diagnosi errate notevolmente più contenute.
Nel caso della Ipertensione polmonare primitiva, infine, la percentuale di casi nei quali
la presenza di cardiopatie e/o di pneumopatie
primitive è risultata, sulla base clinica e dei
dati di laboratorio, così elevata da impedirci di
valutare con attendibilità l’ incidenza di tale
malattia nella casistica dell’ospedale.
Fibrosi polmonare idiopatica (FPI)
L’andamento dei ricoveri per tale patologia
nel quinquennio 2002-2006 è riportato nella
Tabella 1.
Tabella 1 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per FPI
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
Totale: Ordinario +DH
2002
141
92
233
2003
120
108
228
2004
129
97
226
2005
155
100
255
2006
114
30
144
Totale
659
427
1086
Naturalmente molti pazienti hanno avuto,
nel quinquennio, ricoveri ripetuti; pertanto nella Tabella 2 sono indicati i rapporti tra “ricoveri” e “casi” in funzione del “livello” di diagnosi.
Dal punto di vista della frequenza dei ricoveri per FPI risulta evidente un andamento
abbastanza omogeneo dei ricoveri negli anni
2002-2005 ed un discreto calo di questi nell’anno 2006. Le spiegazioni di tale fenomeno
possono essere molteplici: per un verso l’andamento generale dei ricoveri è stato più basso in
quell’anno per la riduzione di posti letto (pl) su
base regionale imposta per il riequilibrio dello
“sforamento” della spesa sanitaria. Inoltre nel
2006 la ristrutturazione di vari reparti all’interno dell’Azienda ha richiesto ulteriori tagli
temporanei di pl.
Il calo più accentuato dei ricoveri in DH nel
2006 è invece la diretta conseguenza dei nuovi
criteri di accettazione dei pazienti in DH: molto più restrittivi rispetto agli anni precedenti.
A conferma di tale interpretazione vi è anche il
calo dei ricoveri in DH nel primo semestre del
2007, in confronto con quelli dell’anno precedente: ricoveri DH del 1° semestre 2006: 8821
vs 6604 del 1° semestre 2007.
Nel grafico 1 si può notare che il calo dei
ricoveri per FPI nel 2006 ha interessato tutte
le UOC “mediche”. Invece in chirurgia toracica
vi è un trend in aumento, confermato anche
nel 2006 Grafico 1 - Distribuzione negli anni
dei casi di FPI nelle 5 UOC con maggiore frequenza di casistica.
Tabella 2 – FPI - Rapporto tra Ricoveri e casi
in funzione del tipo di diagnosi
Tipi di diagnosi
Ricoveri
Casi
Diagnosi principale
1° Diagnosi secondaria
2° Diagnosi secondaria
3° Diagnosi secondaria
4° Diagnosi secondaria
5° Diagnosi secondaria
793
237
37
16
2
1
482
195
37
15
2
1
Totali
1086
732
42
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Tabella 3 – FPI: stima delle diagnosi “errate”
su 732 casi
Casi
Grafico 1 – Distribuzione negli anni dei casi
di FPI nelle 5 UOC con maggiore frequenza
di casistica
Ciò è dovuto alla sempre maggiore frequenza con cui si ricorre alla biopsia polmonare
a cielo aperto, mediante “minitoracotomia”,
ovvero mediante videotoracoscopia, per ottenere una diagnosi istologica di FPI, essendo
il pattern istologico di UIP (Usual Interstitial
Pneumonia) quello più significativamente correlato a questa patologia.
Vi è da aggiungere, peraltro, che solo una
minoranza di pazienti, in tutte la casistiche
mondiali, è in condizioni cliniche che consentano una procedura diagnostica invasiva poichè
spesso il sospetto clinico è tardivo e avviene in
fase di avanzata insufficienza respiratoria.
In ogni caso una diagnosi clinica di FPI
è accettabile qualora si rispettino i quattro
criteri maggiori previsti dalla Letteratura internazionale:
1) esclusione di altre cause di malattia interstiziale polmonare;
2) deficit ventilatorio restrittivo, spesso associato ad ipossiemia;
3) HRCT con opacità a “vetro smerigliato” o
reperto di “polmone ad alveare”;
4) biopsia transbronchiale o BAL escludenti
altre ipotesi diagnostiche ed almeno 3 criteri minori: età >di 50; progressiva dispnea
da sforzo; durata dei sintomi > di 3 mesi;
rantoli crepitanti basali.
Per tale notevole complessità di diagnosi
clinica (anche strumentale), nonché per le già
accennate ambiguità della classificazione ICD,
nella nostra casistica, in una considerevole
percentuale di casi la diagnosi di dimissione
di Alveolite fibrosante idiopatica (Codice 5163)
non era ragionevolmente confermabile. Nella
Tabella 3 sono indicate le cause maggiori di
tali diagnosi “errate”agnosi “errate”.
Pertanto, nel quinquennio, dalla revisione
sistematica della casistica risultano ricoverati
419 “veri” casi di Fibrosi Polmonare Idiopatica.
Si tratta di una casistica molto cospicua, ove si
consideri che il Registro Italiano delle Pneumopatie Innfiltrative Diffuse (RIPID), cui afferiscono 79 Centri in 20 Regioni italiane, ha censito in
4 anni (dal 2000 al 2004) 864 casi (Sarcoidosis
Vasc Diffuse Lung Dis 2005; 22 Suppl 1: S4-8).
Esami insufficienti
Altre interstiziopatie:(a
lveolite desquamativa,
BOOP,)
Altre cause “infiammatorie”: (HIV polm interstiziale, bronchiettasie)
Collagenopatie e
vasculiti
Polmone da stasi
Fibrotorace
post Tbc
Connesse a neoplasie:
fibrosi da reggi e/o chemioterapia
Sarcoidosi
Totale
146
43
% su diagnosi
“errate”
46
13
% su tutte
le diagnosi di FPI
20
6
30
10
4
22
7
3
21
21
7
7
3
3
17
6
2
13
313
4
100
2
Analizzando le principali associazioni morbose della FPI (Tab. 4) si può rilevare che esse
sono “in sintonia” con l’età medio-avanzata di
insorgenza della malattia e con le conseguenze
funzionali e cliniche –anche a livello cardiovascolare- di una patologia polmonare fibrosante
e progressiva.
Sarcoidosi
Nella Tabella 5 sono riportati i ricoveri per
sarcoidosi nei vari anni.
Tabella 4 – FPI: principali associazioni morbose in %
Fibrosi: associazioni morbose
Insufficienza respiratoria
Diabete tipo II
Dispnea
Ipertensione e cardiopatia ipertensiva
Cuore polmonare cronico
Cardiopatia ischemica
%
12
7,5
5,6
4
2,9
2,9
Tabella 5 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per Sarcoidosi
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
50
40
36
38
63
227
60
93
124
122
18
417
Totale:
Ordinario
+DH
110
133
160
160
81
644
43
G. Schmid: Malattie polmonari rare
Analogamente a quanto osservato per la
FPI, anche per la Sarcoidosi nel 2006 si è registrato un importante diminuzione dei ricoveri
(circa la metà, rispetto ai 2 anni precedenti)
con una redistribuzione dei ricoveri a favore
della Degenza Ordinaria, vista la difficoltà di
ricorrere al DH.
Nel Grafico 2, relativo alle 5 UOC in cui i
Ricoveri per Sarcoidosi sono stati maggiori, è
evidenziato il trend di crescita dei Ricoveri per
Sarcoidosi fino al 2005 e il calo dei Ricoveri nel
2006 (con l’eccezione della Chirurgia Toracica). I motivi di tale andamento sono verosimilmente gli stessi invocati per la FPI.
Nella Tabella 6 sono indicati i rapporti tra
Ricoveri e Casi in funzione dei diversi livelli
di diagnosi.
Per la Sarcoidosi i Ricoveri multipli sono risultati percentualmente maggiori rispetto alla
FPI, verosimilmente in funzione dei frequenti
controlli durante il trattamento steroideo e
dei successivi ripetuti follow-up per verificare
eventuali recidive di malattia.
In ogni caso il numero di casi di Sarcoidosi
nel quinquennio (338) è di tutto rispetto nei
confronti dei 1063 casi censiti dal RIPID su
scala nazionale in un quadriennio.
Anche per la Sarcoidosi si è proceduto ad
una “verifica” delle diagnosi richiamando le
cartelle cliniche. In questo caso però tutte le
diagnosi sono risultate corrette (salvo 4 errori
di codifica e 2 casi di successiva diagnosi di
Grafico 2 – Distribuzione negli anni dei ricoveri per Sarcoidosi nelle 5 UOC con maggiore
frequenza casistica
Tabella 6 – Sarcoidosi - Rapporto tra Ricoveri
e casi in funzione del tipo di diagnosi
Tipi di diagnosi
Diagnosi principale
Ricoveri
583
Casi
285
1° Diagnosi secondaria
45
38
2° Diagnosi secondaria
8
7
3° Diagnosi secondaria
6
6
4° Diagnosi secondaria
1
1
5° Diagnosi secondaria
1
1
644
338
Totali
Grafico 3 – Sarcoidosi: principali associazioni
morbose; in %
(Ipertens = Ipertensione arteriosa; Osteopor = Osteoporosi; Bronch cr = Bronchite cronica; Insuff res = Insufficienza respiratoria; Gozzo = Gozzo nodulare)
Tbc) e ciò in quanto nel 98% dei casi si è trattato di diagnosi istologiche.
Nel Grafico 3 sono indicate le frequenze
percentuali delle principali associazioni morbose con la Sarcoidosi.
Come si può notare, con l’eccezione del
gozzo si tratta di patologie verosimilmente
secondarie al trattamento steroideo protratto
ed alla evoluzione verso il rimodellamento
e la fibrosi di alcune forme a localizzazione
polmonare.
Localizzazioni polmonari delle connettiviti
Sclerosi Sistemica-Sclerodermia (SS)
con interessamento pleuro-polmonare
Nel quinquennio, i casi di SS con interessamento polmonare sono riportati nella Tabella 7.
Sul totale di 193 ricoveri per sclerodermia/
sclerosi sistemica ad interessamento polmonare, tenendo conto dei ricoveri ripetuti, i casi
nel quinquennio sono stati 107. Di questi 86
femmine e 21 maschi.
Le principali associazioni morbose sono
riportate nella Tabella 8.
Dermatomiosite-Polimiosite
I ricoveri per Dermatomiosite-Polimiosite
dal 2002 al 2006 sono indicati nella Tabella 9.
Tabella 7 – Andamento nel quinquennio dei Ricoveri per SS con interessamento polmonare
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
17
23
30
46
22
138
2
25
13
8
7
55
Totale:
Ordinario
+DH
19
48
43
54
29
193
44
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Tabella 8 – SS con interessamento polmonare:
principali associazioni morbose
SS a loc polm: associazioni
morbose
Raynaud
Ipertensione polmonare
Ipertensione arteriosa
Osteoporosi e fratture vertebrali
patologiche
Esofagite da reflusso
Casi stimati
19
22
16
8
9
Tabella 9 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per Dermatomiosite-Polimiosite
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
3
5
9
3
9
29
4
8
10
5
6
33
Totale:
Ordinario
+DH
7
13
19
8
15
62
Tenendo conto dei ricoveri ripetuti i casi di
Dermatomiosite-Polimiosite nel quinquennio
sono stati 32. Di tali 24 erano femmine e 8 maschi. Le principali associazioni morbose sono
riportate nel Grafico 4.
Sindrome di Sjögren
Nella tabella 10 sono indicati i ricoveri per
Sindrome di Sjögren
Tenendo conto dei ricoveri multipli i casi
di Sjögren nel quinquennio sono stati 150. Di
questi le femmine erano 144 e i maschi 6.
Le principali associazioni morbose sono
indicate nel Grafico 5.
Lupus Eritematoso Sistemico (LES)
L’andamento dei ricoveri nel quinquennio è
riportato nella Tabella 11.
Tabella 10 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per Sjögren
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
22
34
24
18
13
111
20
21
24
23
9
97
Grafico 4 – Dermatomiosite-Polimiosite: principali associazioni morbose: in %
Totale:
Ordinario
+DH
42
55
48
41
22
208
(Ipertens = Ipertensione arteriosa; Fratt vert = Fratture
vertebrali patologiche; Br cron = Bronchite cronica; Fibr
polm = Fibrosi polmonare)
Grafico 5 – Sjögren: principali associazioni
morbose; in %
(Iprtens = Ipertensione arteriosa; Paraprote = Paproteinemia monoclinale; Tiroidite = Tiroidine linfocitaria).
Tabella 11 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per LES
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
41
53
49
53
36
232
62
70
66
63
42
303
Totale:
Ordinario
+DH
103
123
115
116
78
535
Tenendo conto dei ricoveri ripetuti i casi di
LES nel quinquennio sono stati 225. Di questi
casi 202 erano relativi a femmine e 23 a maschi. Nella Tabella 12 sono indicate le principali associazioni morbose.
Tabella 12 – LES: principali associazioni morbose su 535 ricoveri
LES: associazioni morbose
Nefropatie o insufficienza renale cronica
Ipertensione arteriosa
Complicanze pleuro-polmonari
Raynaud
Arterite non specifica
Diabete tipo II
Anemia sideropenica
Osteoporosi
Frattura patologica vertebrale
Casi
64
42
35
19
16
16
13
20
14
45
G. Schmid: Malattie polmonari rare
Com’è noto nelle collagenopatie le femmine
prevalgono nettamente sui maschi: nel Grafico 6 sono riportate le differenze per singola
malattia.
Istiocitosi a cellule di Langherans (Istiocitosi X).
Nel quinquennio si sono avuti 23 ricoveri
la cui distribuzione annuale è indicata nella
Tabella 13.
Tenendo conto dei ricoveri successivi il numero dei casi di Istiocitosi X nel quinquennio
è di 14, così distribuiti nelle varie UO: 3 casi
dalla Chirurgia plastica; 2 casi da Broncopneumologia e da Epatologia; 1 caso da Ematologia, Malattie dell’Apparato digerente, Dietologia, Neurologia, Neurochirurgia,Chirurgia
d’urgenza, Pediatria.
Proteinosi alveolare
Nel quinquennio si sono avuti 20 ricoveri
la cui distribuzione annuale è indicata nella
Tabella 14.
Tenendo conto dei ricoveri successivi il numero dei casi di Proteinosi alveolare nel quinquennio è di 7, così distribuiti nelle varie UO:
Grafico 6 – Numero di femmine per ciascun
maschio nelle varie collagenopatie
Tabella 14 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per Proteinosi alveolare
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
1
0
1
3
13
18
1
1
0
0
0
2
Totale:
Ordinario
+DH
2
1
1
3
13
20
Tabella 13 – Andamento nel quinquennio dei
Ricoveri per Istiocitosi X
Anno
Ricovero
Ordinario
Ricovero
DH
2002
2003
2004
2005
2006
Totale
8
4
2
5
1
20
0
0
1
1
1
3
Totale:
Ordinario
+DH
8
4
3
6
2
23
2 casi dall’Endoscopia toracica ed uno ciascuno
da STIRS, 2 Broncopneumologia, 6 Broncopneumologia, TIRER, Chirurgia toracica.
Conclusioni
Nell’Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini molte delle cd “Malattie polmonari rare”
non lo sono affatto, a conferma dell’importanza
e del richiamo dell’Azienda nell’ambito delle
malattie respiratorie. 1086 ricoveri per Fibrosi polmonare idiopatica e 644 per Sarcoidosi,
nel quinquennio, rappresentano una casistica,
rispetto a quella del Registro Italiano delle
Pneumopatie Infiltrative Diffuse (RIPID) di
circa la metà (per la FPI) e di circa il 25% (per
la sarcoidosi).
Inoltre un alto riscontro di frequenza emerge dalla casistica del coinvolgimento polmonare nelle malattie del connettivo nonché
dalla Casistica di Istiocitosi X e Proteinosi
alveolare.
Questi risultati sono il frutto di un’ intensa
collaborazione e tra le UOC di Pneumologia,
di Reumatologia, di Chirurgia toracica, di Radiologia, di Anatomia patologica di Endoscopia
toracica e di molti altri. È auspicabile che tale
collaborazione sia mantenuta in seguito alla
prevista redistribuzione, con accorpamento,
delle UOC all’interno del solo Ospedale S.
Camillo.
46
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
FIBROSI POLMONARE IDIOPATICA
GIANFRANCO FARINELLI
III UO Pneumologia, Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma
La Fibrosi Polmonare Idiopatica (IPF) viene
definita(Consensus Steatment ATS/ERS 2002)
come una forma di polmonite interstiziale fibrosante cronica da causa sconosciuta, limitata al
polmone, associata ad un quadro istopatologico
di UIP (Usual Interstitial Pneumonia). La malattia è caratterizzata clinicamente da dispnea
da sforzo e tosse stizzosa ad esordio cronico, e
da insufficienza ventilatoria di tipo restrittivo
che porta ad un progressivo deterioramento
funzionale. Essa manifesta purtroppo una cattiva prognosi: la maggioranza degli studi riporta infatti una mediana di sopravvivenza di
circa 4 anni dall’inizio dei sintomi, più ridotta
se valutata dal momento della diagnosi
La IPF appartiene a quel gruppo di patologie polmonari conosciute come malattie
interstiziali polmonari (ILD: interstitial lung
diseases, o anche DPLD: diffuse parenchymal lung diseases). In particolare fa parte
del sottogruppo delle Polmoniti Interstiziali
Idiopatiche, di cui rappresenta la forma di
più frequente riscontro. Come detto la IPF è
la malattia che si associa al pattern anatomopatologico conosciuto come Usual Interstitial Pneumonia (UIP), e per tale motivo è
correntemente definita anche con il termine
di IPF/UIP. Incidenza e prevalenza sono difficilmente valutabili Si tratta comunque di una
malattia “rara”, di cui si ritiene siano affette
circa 5 milioni di persone al mondo. I dati più
affidabili indicano una incidenza presumibile
del 10,7 per 100.000 per gli uomini e del 7,4
per 100.000 per le donne, mentre la prevalenza è stimata rispettivamente al 20,2 e al 13,2
per 100.000. I dati dell’ultimo decennio stanno
ad indicare un deciso aumento di incidenza in
tutto il mondo.
La malattia si manifesta comunemente fra
la quinta e la settima decade di vita; meno di
frequente sono colpiti individui <ai 40 anni,
assai raramente i bambini. Sono descritti casi
familiari.
L’eziologia rimane tuttora pressoché sconosciuta. Alcuni fattori ambientali sono stati
chiamati in causa; tra questi il fumo di sigaretta, anche se non ne è stato ancora stabilito
l’esatto ruolo patogenetico. La patogenesi non
è ancora sufficientemente chiarita: attualmente si ipotizza che alla base della malattia non
vi siano fenomeni puramente infiammatori
–come precedentemente ritenuto- bensì un
danno diffuso e ripetuto dell’epitelio alveolare che si accompagna ad un’ alterazione dei
meccanismi di riparazione cicatriziale e che
conduce ad un incontrollato processo di trasformazione fibrotica.
La diagnosi
La classificazione delle IIP è basata su
criteri istologici (pattern istologici). Secondo
le Linee Guida ATS/ERS la diagnosi finale
di ciascuna forma si raggiunge attraverso la
stretta correlazione fra dati clinici, aspetti
radiologici (pattern radiologico) ed aspetti
istopatologici (diagnosi clinico-radiologico-patologica). La distinzione fra IPF/UIP e le altre
forme di polmonite interstiziale (in particolare
la NSIP, molto simile alla IPF per aspetti morfologici) è di fondamentale importanza, poichè
la IPF/UIP è la forma che presenta la prognosi
di gran lunga più grave rispetto alle altre.
L’algoritmo diagnostico prevede la raccolta
dei diversi elementi clinici e strumentali, anche
con il ricorso ad indagini invasive o seminvasive (in particolare la Fibrobronoscopia con
BAL e Biopsia Transbronchiale, e la Biopsia
polmonare chirurgica) per poter differenziare
la IPF da tutte le altre forme di interstiziopatia
polmonare. È da rilevare che pattern morfologici assai simili a quelli della IPF possono essere
riscontrati in altre condizioni, come le localizzazioni polmonari di malattie collageno-vascolari,
le polmoniti da ipersensibilità, le pneumopatie
da farmaci e alcune di quelle da esposizione
ambientale; tutte queste forme secondarie devono essere escluse con criteri clinici.
Aspetti clinici
Il sintomo fondamentale è costituito dalla
dispnea da sforzo, progressivamente ingravescente, associato a tosse stizzosa. L’ intervallo
fra comparsa della sintomatologia e diagnosi è
in genere fra i 6 e i 24 mesi. Sintomi generali
(dimagramento, febbre, artralgie…) non sono
usuali, e orientano verso forme secondarie. In
circa il 90% dei casi paucisintomatico. Dita a
bacchetta di tamburo si riscontrano in circa il
50% dei pazienti. Il reperto ascoltatorio è costituito dai crepitii inspiratori, prevalentemente
basali (tipo velcro). Nelle forme avanzate è frequente l’ipertensione polmonare, e il quadro
47
G. Schmid: Malattie polmonari rare
clinico è quello dell’insufficienza respiratoria
cronica, cui può associarsi cuore polmonare.
Non esistono specifiche anormalità nei parametri di laboratorio; è frequente il riscontro
di positività a basso titolo del fattore reumatoide e dell’ANA, di significato aspecifico.
Dal punto di vista funzionale si osserva:
deficit ventilatorio restrittivo, riduzione della
capacità di diffusione del CO (DLCO) assai
precoce (spesso precede la riduzione dei volumi), ipossiemia con normo-ipocapnia, il cui
grado correla con l’entità e l’evoluzione della
malattia. La tolleranza allo sforzo, valutabile
con il test del cammino, è ridotta.
degli scambi gassosi; -HRCT dimostrativa di
un pattern “confident” o possibile di IPF.
In assenza di biopsia la diagnosi rimane
incerta, ma può essere formulata sulla base di
diversi criteri (definiti dalle Linee Guida come
maggiori e minori), i più importanti dei quali
sono quelli radiologici (pattern HRCT tipico),
funzionali (deficit restrittivo, ipossiemia) e clinici (dispnea, crepitii, età>50 anni, esclusione
di condizioni patologiche note), quando BAL e
Biopsia Transbronchiale non supportino diagnosi alternative.
Aspetti radiologici
La IPF può avere decorso variabile, L’andamento tipico descritto è cronico, con graduale declino della funzione respiratoria; in
alcuni casi però si osserva una progressione
molto veloce con un rapido exitus. In genere
l’evoluzione procede “a gradini”, con periodi
di relativa stabilità intervallati a successive
fasi di peggioramento legate a fenomeni di
riacutizzazione. Frequenti gli eventi sovrapposti: complicanze infettive, tromboembolia
polmonare, scompenso cardiaco, carcinoma
broncogeno. Sono definite “esacerbazioni acute” o “fasi accelerate” della IPF gli episodi di
improvviso peggioramento della malattia in
assenza di fattori scatenanti che comportano
peggioramento del quadro clinico-funzionale e
HRCT con gli aspetti caratteristici della forma
definita AIP (acute interstitial pneumonia), e
che conducono spesso a exitus.
Per monitorare decorso e risposta alla
terapia è necessario controllare nel tempo
l’evoluzione dei dati funzionali (PFR, DLCO,
emogasanalisi, test del cammino) e del quadro
HRCT. Diversi parametri sono stati individuati come predittori prognostici, principalmente
le variazioni della FVC, della DLCO, del test
del cammino, del quadro HRCT.
La Rx torace standard è generalmente alterata, ma con aspetti poco specifici (quadri
reticolonodulari). Le alterazioni radiologiche
caratteristiche della IPF possono riscontrarsi
con la HRCT, e sono costituite da: -Ispessimento fibrotico del piccolo interstizio con
opacità a chiazza prevalentemente periferiche,
subpleuriche, bibasali, di tipo reticolare – Honeycomb subpleurico - Bronchiettasie e bronchioloectasie da trazione - Enfisema parafibrotico e da trazione-Sovvertimento strutturale
- Riduzione volumetrica dei lobi. L’associazione di ispessimento dei setti ad interessamento
subpleurico, honeycomb e bronchiettasie è altamente diagnostico e assolutamente specifico
della IPF (confident IPF pattern). Va esclusa
la presenza di aspetti non caratteristici che
orientino verso differenti diagnosi: groundglass predominante, infiltrati nodulari, adenopatie significative.
Aspetti istopatologici
La biopsia polmonare chirurgica (VATS o
toracotomica) rappresenta il gold standard per
la diagnosi ed è raccomandata in tutti i casi
sospetti. Il pattern istopatologico è come detto
quello definito Usual Interstitial Pneumonia
(UIP), caratterizzato da: zone di fibrosi di
aspetto eterogeneo, con disomogeneità spaziale
e temporale delle lesioni (alternanza di aree di
parenchima normale e aree colpite); presenza
di foci fibroblastici; aree di honeycomb. Un
pattern UIP è riscontrabile anche in forme secondarie: malattie del collageno, pneumopatie
da farmaci o da ipersensibilità, asbestosi, sindrome di Hermansky-Pudlak.
La diagnosi certa è possibile solo con dati
istopatologici, e richiede: -pattern istopatologico UIP; -esclusione di malattie da cause note;
-deficit ventilatorio restrittivo e/o riduzione
Decorso
Terapia
Non esiste tuttora una terapia che possa
considerarsi realmente efficace nel migliorare la sopravvivenza o la qualità della vita.
La strategia “classica”, in assenza di valide
alternative, prevede un trattamento immunosoppressivo con steroidi + azatioprima o ciclofosfamide; la sua efficacia però non è supportata da evidenze scientifiche. Sulla base delle
attuali conoscenze patogenetiche (preminenza
di disordini fibroploriferativi piuttosto che
infiammazione) sono stati sperimentati nuovi
farmaci per la prevenzione o il blocco della
fibrosi, per i quali sono già disponibili risultati
48
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
di trials clinici. L’Interferon gamma-1b è quello che ha suscitato il maggior interesse e sono
emersi in diversi studi risultati incoraggianti
in quanto a sopravvivenza e decadenza funzionale, risultati che non sono però stati confermati dall’ultimo trial clinico randomizzato.La
N-acetilcisteina al dosaggio di 1800 mg/die –in
associazione alla terapia immunosoppressivasi è dimostrata efficace nel preservare i para-
metri funzionali. Il Pirfenidone ha dimostrato
risultati promettenti su parametri funzionali
ed è attualmente in corso di sperimentazione
su larga casistica. Altre molecole sono state
già oggetto di sperimentazione, senza però
evidenza di provata efficacia. Per il momento, quindi. il trapianto di polmone costituisce
l’unica strategia terapeutica in grado di prolungare la sopravvivenza.
SARCOIDOSI
ENRICO LI BIANCHI
Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti (CUBE)
Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
La Sarcoidosi è una malattia multisistemica, ad eziologia ignota, ad impronta granulomatosa, che frequentemente colpisce il
polmone e può, in alcuni casi, evolvere verso
la fibrosi polmonare. Nel polmone si manifesta
con una adenopatia ilare bilaterale ed infiltrati polmonari, spesso si associa a lesioni oculari
e cutanee ma gli organi colpiti sono anche
le ghiandole salivari, i linfonodi, il fegato, la
milza, il cuore, le ossa, i muscoli ed anche il
sistema nervoso. Il granuloma non caseicante
è la lesione diagnostica fondamentale della
malattia.
Caratterizza la malattia una esagerata
reattività immunologica locale di tipo TH1
(helper inducer) CD4+ per la produzione di
IFN-γ ed IL-2. Associata all’attivazione immunologica locale, può presentarsi una depressione sistemica della reattività immune
T cellulare, che esprime una linfopenia CD4,
con depressione della reattività tubercolinica,
in contrapposizione ad una attivazione policlonale della reattività immune di tipo B, che
si evidenzia con esagerata attività anticorpale
contro diversi antigeni e la presenza di immunocomplessi.
Epidemiologia
Nonostante il grande numero di studi
immunologici ed anatomopatologici condotti l’epidemiologia della Sarcoidosi presenta
problematiche irrisolte, favorite sicuramente
dalla variabilità della presentazione clinica,
dalla mancanza di un test diagnostico preciso,
associato all’assenza di una precisa definizione di malattia e di procedure diagnostiche
standardizzate.
La malattia può colpire persone di qualsiasi razza, sesso ed età, tuttavia mostra una
consistente predilezione per gli adulti di età
inferiore ai 40 anni, con prevalenza per la fascia compresa tra i 20 e i 29 anni. In Giappone
e nei paesi scandinavi si evidenzia un secondo
picco di incidenza tra le donne di età superiore
ai 50 anni.
Per quanto concerne la distribuzione per
razza, numerosi studi mostrano che gli Afroamericani mostrano forme più acute e gravi
rispetto ai pazienti Caucasici, che frequentemente manifestano forme cliniche asintomatiche o ad andamento cronico.
La mortalità per Sarcoidosi è stimata tra
1 e il 5%.
Genetica
La possibilità di trasmissione della malattia e l’esistenza di una causa ambientale
sono stati evidenziate in alcuni studi epidemiologici, mentre altri hanno mostrato, come
per la tubercolosi, una maggiore espressione
della malattia alla fine del periodo invernale e
durante la primavera. È stata evidenziata, in
numerosi studi, l’esistenza di cluster familiari
di malattia, tra i fratelli in Irlanda e Giappone
e tra gli Afroamericani in USA, suggerendo
una suscettibilità ereditaria della malattia.
Lo studio del Complesso Maggiore di Istocompatibilità HLA evidenzia come il rischio di
malattia sia legato ad una espressione multigenica, in particolare è stata evidenziata una
associazione tra la malattia e i geni HLA-B8 e
HLA-DR3, HLA-DR5 e HLA-DP
Nello stadio I l’esordio acuto e la risoluzione spontanea di malattia nei soggetti di razza
49
G. Schmid: Malattie polmonari rare
Caucasica si associa la presentazione dei geni
HLA-B8 e HLA-DR3, mentre sia nei Caucasici che negli Asiatici, i geni HLA-DR5, DR14
e DR15 si associano agi stadi II e III che non
risolvono e mostrano progressione. È stato
riscontrato recentemente che le forme che
tendono alla risoluzione presentano frequentemente HLA-DRB1*03, mentre nelle forme
ad andamento cronico frequente si associa
HLA-DRB1*15. Ed ancora sembrano esistere
degli alleli legati alla possibilità di indurre
la malattia, come HLA-DR11, 12, 14, 15, 17,
ed altri quali HLA-DR9 ad azione protettiva
per gli scandinavi e gli HLA-DR1, HLA-DR4
e HLA-DQ*0202 protettivi per molte popolazioni.
Due sono le ipotesi sul ruolo dei geni nella
risposta immune nella Sarcoidosi, nella prima,
i geni HLA funzionano come regolatori della
risposta immune nel rispondere alla stimolazione di antigeni o superantigeni, con esagerata espansione di cloni TH1 ed esagerata e
continua risposta immune che è tipica della
malattia, nella seconda ipotesi i geni HLA-B8
e HLA-D3 agiscano non nella selezione e presentazione dell’antigene ma, avendo espressione per vicinanza ai loci HLA di classe II sul
cromosoma 6, al gene polimorfico del TNF-α,
una citochina in grado di regolare l’intensità e
il tipo di risposta immune, che con un suo allele TNF2 legato al HLA-DR3 contribuisce ad
indurre esaltata risposta caratteristica della
malattia in stadio I e della frequente risoluzione spontanea. Nei pazienti HLA-DR5, il TNF1
contribuirebbe allo sviluppo di una reazione
più torpida, con caratteristiche dell’esordio in
stadio II e III legate ad una minore guarigione
spontanea.
Eziologia
Per quanto l’eziologia della malattia rimanga sconosciuta ci sono tre differenti aspetti
che esprimono l’idea che la Sarcoidosi sia
il risultato di una esposizione a particolari
agenti ambientali, in soggetti geneticamente
predisposti alla reazione, quali gli studi epidemiologici già citati, la risposta infiammatoria
che, nei pazienti con Sarcoidosi, esprime un
modello di produzione di citochine nel polmone
più accentuata verso la risposta TH1 innescata da un antigene ed infine i diversi studi sui
recettori delle cellule T (TCR) nei pazienti con
tale malattia. Sul ruolo dei diversi antigeni,
in grado di stimolare la risposta immune caratteristica del quadro patologico, la lista dei
responsabili si è continuamente ampliata nel
corso degli anni: tra gli agenti infettanti Virus
(Herpes, Epstein Barr, Retrovirus, Cytomegalovirus, Coxsakie B), la Borrelia burgdorferi,
il Mycoplasma, il Propionibacterium acnes, la
Nocardia, la Chlamydia, il Mycobacterium tubercolosis ed altri Mycobatteri; tra le sostanze
inorganiche il Talco, lo Zirconio e l’Alluminio
mentre tra le sostanze organiche sono stati
ipotizzati il polline del Pino e l’Argilla.
Immunologia
L’alterazione immunologia che caratterizza la malattia è rappresentata dall’accumulo
di linfociti CD4+ di tipo Th1 e di Macrofagi,
Tale espressione è caratteristica dell’alveolite
essudativa con marcato aumento dell’ ELF
(epithelial lining fluid), presente negli spazi
aerei e nell’interstizio polmonare, come evidenziato dallo studio del BAL. Il rapporto
CD4/CD8 risulta aumentato, fino oltre il 20:1.
I Linfociti attivati esprimono spontaneamente il gene dell’ IL2, con rilascio di IL2 e produzione di IFNγ, citochine che caratterizzano
la risposta immune granulomatosa TH1, ciò
determina una attivazione dei Macrofagi e
trasformazione in cellule giganti. I Macrofagi, fenotipicamente caratterizzati come di
provenienza dal circolo ematico, sono capaci
di presentare l’Ag, di stimolare la proliferazione linfocitaria e di indurre risposta TH1.
I Macrofagi esprimono un elevata densità di
molecole HLA di classe II ed esprimono una
capacità di presentazione degli Ag più marcata rispetto ai normali Macrofagi. La secrezione di IL2 e IFNγ da parte de CD4 e la successiva produzione di IL12 e 18, determina una
esaltata reazione T mediata, ulteriore rilascio
di citochine e chemiochine con attivazione
di cellule infiammatorie cui consegue, nelle
sedi di lesione, la formazione dei granulomi. I
Macrofagi attivati, con la produzione di citochine proinfiammatorie quali IL12, 6 e TNFα
che partecipano alla formazione e mantenimento del granuloma, vengono secreti fattori
di crescita per i fibroblasti che intervengono
nel processo della fibrosi. La reazione granulomatosa si spegne in un periodo compreso
tra i 3 e i 5 anni, probabilmente per l’azione
inibente esplicata dai CD8 e dalla IL10 che
inibisce la reazione infiammatoria, non è ancora del tutto chiaro come in alcuni soggetti
la malattia si risolva rispetto ad altri dove il
processo continua ne come tale persistenza
conduca alla fibrosi, si ritiene che il passaggio da una espressione TH1 ad una TH2, con
produzione di IL4 e 10, favorisca il persistere
della malattia e il successivo determinismo
della fibrosi.
50
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Anatomia Patologica
Il granuloma sarcoideo può esprimersi in
una lesione di noduli millimetrici o in conglomerati di diversi centimetri, caratteristico
è l’aspetto a catenelle, distribuiti lungo il
decorso dei linfatici che nei polmoni hanno
distribuzione subpleurica, settale, pervasale e
peribronchiale. Nella fase avanzata di malattia sono evidenti conglomerati, fibrosi e cisti.
Le cellule epitelioidi, di derivazione macrofagica, voluminose con citoplasma eosinofilo e
attività metabolica, a volta fuse a formare cellule giganti con caratteristici nuclei periferici.
Sono presenti inclusi cellulari, quali i corpi di
Schaumann e i corpi steroidi, espressione dell’invecchiamento cellulare.
Al centro del granuloma sono disposti i
CD4 e i Macrofagi attivati mentre in periferia
si evidenziano i CD8 e i Macrofagi con attività
di presentazione dell’Ag. I granulomi possono
risolversi completamente o lasciare una cicatrice fibro-ialina.
Clinica
La malattia può avere un esordio asintomatico, acuto o subacuto, nella forma asintomatica la diagnosi occasionale viene posta successivamente ad una rx del torace, mentre nelle
forme acute si manifestano astenia, febbricola,
artralgie, calo ponderale, tosse e dispnea, A
livello cutaneo può presentarsi eritema nodoso
che se associata ad adenopatia ilare, febbre
e artralgie qualifica la sindrome di Löfgren.
A volte nelle forme croniche gli unici sintomi
sono la tosse stizzosa e la dispnea da sforzo
ingravescente. La manifestazione polmonare
rappresenta il 90% dei casi; la classificazione internazionale suddivide la malattia in
4 stadi, 0 con rx normale, I linfoadenopatia
ilo-mediastinica bilaterale, II adenopatia ilare
ed infiltrati interstiziopatici polmonari, III
infiltrati polmonari talvolta ad aspetto fibrotico. Il quadro della funzionalità respiratoria
mostra un sindrome disventilatoria restrittiva
e una riduzione del trasporto alveolo capillare
dei gas (DLCO), può associarsi iperreattività
nel test alla metacolina. Raro il versamento
pleurico. Le lesioni oculari (uveite) è presente
in una percentuale variabile tra 11 e 83%.
L’interessamento cutaneo è presente nel 25%
dei casi, mentre il fegato può presentare lesioni in una percentuale fino al 50-80% ed il
coinvolgimento cardiaco è presente nel 5%. La
Neurosarcoidosi è presente in meno del 10%
dei pazienti, raro l’interessamento dei muscoli
ed ossa ma frequente è la presenza di artralgie, mentre le ghiandole salivari presentano
interessamento in circa il 10% dei pazienti.
Diagnosi
L’accertamento di malattia si avvale: di
una corretta anamnesi, per raccogliere l’eventuale esposizione ambientale o occupazionale,
lo studio radiologico del torace fino all’esecuzione di una HRCT, i test di funzionalità
respiratoria, gli esami ematici, sierologici e
delle urine,ECG, PPD, la visita oculistica, la
diagnosi istologica delle lesioni ottenuta con
biopsia intratoracica o mediante biopsia transbronchiale, il lavaggio broncoalveolare con
studio delle sottopopolazioni linfocitarie CD4
e CD8, la scintigrafia con Ga67.
Terapia
In considerazione dell’alta percentuale di
guarigione spontanea della malattia nello stadio I il trattamento farmacologico va riservato
allo stadio II con presenza di sintomi e/o progressione radiologica o deficit della funzione
respiratoria, allo stadio III, alla sarcoidosi
extratoracica con localizzazioni pericolose e
di fronte ad una severa astenia o perdita di
peso.
Gli steroidi per via sistemica rappresentano la terapia di elezione, lo Statement ATS/
ERS/WASOG raccomanda prednisone 20-40
mg/die per 30-90 gg con successiva riduzione a
5-10 mg/die e prosecuzione per un anno. Nelle
forme resistenti sono raccomandati, in alternativa o in associazione agli steroidi, i farmaci
immunosoppressori: Methotrexate 10-25 mg/
week, Azathioprina 50-200 mg/die, Cyclofosfamide 50-150 mg/die o 500-2000 mg ogni 2
settimane ev. , Clorochina 200-400 mg/die.
Attualmente sono in atto studi controllati
con Inflixamab.
51
G. Schmid: Malattie polmonari rare
MARKERS DI INFIAMMAZIONE E SEVERITÀ
DI MALATTIA NELLA SARCOIDOSI
GREGORIO PAONE
Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti (CUBE)
Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
La Sarcoidosi è una malattia granulomatosa sistemica ad eziologia sconosciuta caratterizzata da una risposta immunitaria di tipo
T-helper-1 con accumulo di linfociti CD4+ e di
macrofagi attivati con conseguente formazione di granulomi. Può colpire qualsiasi organo
ma rivela una particolare predilezione per il
distretto toracico (polmone e stazioni linfonodali). Dal punto di vista clinico si caratterizza
per la notevole variabilità di manifestazioni
che sembra essere dovuta non tanto all’agente
eziologico (peraltro a tutt’oggi sconosciuto) ma
soprattutto alla risposta dell’ospite. In altre
parole è il nostro patrimonio genetico che
determina la predisposizione alla malattia, la
sua manifestazione clinica, la sua evoluzione e
la sua sensibilità o meno alla terapia.
A tale proposito è ampiamente riportato
in letteratura che tra le diverse etnie esistono
differenze nella presentazione, nella severità e
nel decorso della malattia. Per esempio è stato
evidenziato che la Sarcoidosi si presenta nella
razza nera in modo più severo, mentre nei
bianchi è più frequentemente asintomatica o
non progressiva. Per quanto riguarda le manifestazioni cliniche è stato osservato che l’uveite
è più frequente negli afro-americani, l’eritema
nodoso negli scandinavi, il lupus pernio nei portoricani, mentre le manifestazioni cardiologiche
si presentano soprattutto nei giapponesi.
Anche per quanto riguarda la storia naturale della patologia si è osservato che una quota
di pazienti va incontro a remissione spontanea
(20-50%), una parte di essi (15-25%) ha bisogno di terapia e ancora in qualcuno la malattia
progredisce nonostante l’utilizzo ottimale di
regimi terapeutici appropriati.
Nel corso degli anni sono stati sviluppati
numerosi studi genetici alla ricerca di geni
candidati per la sarcoidosi. I loro prodotti sono
proteine o gruppi di proteine che hanno importanza biologica nella malattia. Va sottolineato
che non sempre esiste una relazione lineare tra
gene, proteina e malattia, a volte il gene può
essere legato ad un altro gene che è il vero “responsabile” o “co-responsabile” della patologia.
Oggi è chiaro che, numerosi geni, (come
quelli che regolano l’espressione degli antigeni
di istocompatibilità –HLA- o che codificano
molecole coinvolte nei meccanismi immunologici), regolati in modo polimorfico, contribui-
scono alla suscettibilità ed alle modalità di
presentazione della sarcoidosi (Tab. 1).
La possibilità di sapere “ a priori” i pazienti che regrediranno spontaneamente o quelli
che avranno bisogno della terapia o ancora
che tenderanno a non rispondere ad essa, ha
stimolato una serie di ricerche per individuare
biomarkers capaci di predire l’evoluzione di
tale disordine.
Nel 1999 lo Statement on Sarcoidosis dell’American Thoracic Society fornendo un preciso scenario dello stato dell’arte su questa
patologia fa il punto “cosa noi sappiamo” e
“cosa ci piacerebbe sapere” su questo disordine . Nell’elenco dei desiderata uno dei primi
posti viene occupato dall’identificazione di test
capaci di predire l’eventuale progressione di
malattia o la sua non risposta alla terapia.
Se prendiamo in esame la storia naturale
della patologia ci rendiamo conto probabilmente di due cose: la prima è che di fronte alla
elevata possibilità di guarigione spontanea il
primo interrogativo è quali pazienti trattare; la
seconda è che probabilmente trattiamo più pazienti di quanti in realtà ne avrebbero bisogno.
Questo spiega perché nel corso degli anni
sono stati effettuati innumerevoli studi (più di
1500 pubblicazioni) allo scopo di identificare
markers di evoluzione della sarcoidosi.
Tabella 1
Recettori antigenici dei linfociti T e B
• Iperespressione di Va2.3 TCR (nella sarcoidosi acuta)
• Immumoglobulin-G heavy chain (effetto protettivo del
fenotipo Gm sulla suscettibilità alla malattia)
Regolatori ella presentazione e processazione antigenica
• Tap (transporte associated with antigen processing)
regola suscettibilità alla malattia
• Erythocyte complement receptor 1 (CR1) (il genotipo
Pro1827 Arg aumenta la suscettibilità a sviluppare
sarcoidosi)
Chemochine
• CCR2-641 allele (effetto protettivo sulla suscettibilità a
sviluppare la malattia)
• CCR5 δ 32 (la delezione aumenta la suscettibilità)
Molecole proinfiammatorie
• IL1 (aumenta rischio)
• IL18 (aumenta rischio)
• TNFα (S. di Loefgren)
• TNFβ (sarcoidosi acuta)
52
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Lo studio delle molecole implicate nella
patogenesi della sarcoidosi ha portato sicuramente un notevole avanzamento delle nostre
conoscenze sui meccanismi di tale patologia e
potrebbe rivelarsi utile nella ricerca di “indicatori” di comportamento di questo disordine.
Nel corso degli anni molte citochine sono state
evidenziate come possibili indicatori di evoluzione di malattia (IL-2, TNF-alfa IL-8 , IL-12,
IL-18,IL-10), a volte anche con risultati non
del tutto concordanti.
La sarcoidosi è stata la patologia più ampiamente studiata attraverso l’analisi del liquido di lavaggio bronchiale dall’avvento di
tale metodica e lo studio del profilo cellulare
e della componente molecolare ha contribuito
all’individuazione di markers con un qualche
potenziale utilizzo clinico.
Per quanto riguarda lo studio della componente cellulare nel corso degli anni è stata
evidenziata di volta in volta l’importanza di
linfociti, neutrofili, eosinofili e cellule natural
killer come markers diagnostici, prognostici e
di risposta alla terapia.
Se gli studi effettuati su cellule e sarcoidosi
sono stati nel corso degli anni molto numerosi,
la letteratura abbonda di articoli che propongono indicatori molecolari in grado di predire il
decorso clinico di tale patologia con particolare
attenzione allo stato di attività della stessa.
Nel corso degli anni si è passati da molecole
“storiche” come l’angiotensin converting enzyme (ACE) a molecole del tutto recenti come la
chitotriosidasi, la CC chemokine ligand 18, gli
anticorpi anti-cellule endoteliali e le defensine. Ognuna di queste molecole si è dimostrata
utile nel monitorare questa patologia ma purtroppo una elevata sensibilità e specificità si è
dimostrata possibile solo per alcune.
Un notevole miglioramento è stato possibile attraverso l’impiego di pannelli di marcatori
usati in combinazione.
Nuovo e carico di speranze è senz’ altro l’approccio proteomico che consente di analizzare
contemporaneamente il profilo proteico di un
determinato campione biologico, permettendo
in questo modo di caratterizzare uno specifico
pattern proteico per ogni patologia. Si è potuto
osservare in tal modo che alcune proteine correlano con la stadiazione della sarcoidosi.
Allo stato attuale è presto per dire quale
proteina o gruppo di proteina possa rivelarsi
utile come marker diagnostico o di evoluzione
della sarcoidosi ma le differenze osservate tra
sarcoidosi e altre patologie interstiziali come la
fibrosi polmonare idiopatica fanno pensare che
in futuro tale approccio possa essere usato con
successo.
In conclusione, dopo molti anni di ricerca
non è stato individuato un marker sufficientemente sensibile e specifico per la diagnosi di
sarcoidosi (solo il rapporto CD4/CD8 sembra
essere d’aiuto), per la prognosi (esiste una discreta correlazione tra clinica , chitotriosidasi
e sIL-2R), per il rischio di fibrosi ( sembra correlare con TNF-alfa e CCL18).
Sono passati circa 10 anni da quando gli
esperti di ATS/ERS nel loro statement auspicavano lo sviluppo di markers capaci di predire
la progressione di malattia e ad oggi possiamo
dire di non essere ancora in grado di rispondere esaurientemente a questa domanda.
Molti sforzi sono stati fatti e molti progressi sono stati ottenuti ma ad oggi il miglior
marker di malattia sembra essere ancora
il monitoraggio dei cambiamenti funzionali
indotti dalla sarcoidosi negli organi coinvolti
…. Senza dimenticare però che nella ricerca
scientifica quello che alcuni anni prima sembrava confinato ad una “mera” speculazione è
diventato oggi parte integrante di una pratica
diagnostica sicuramente avanzata ma ormai
interamente acquisita …
Alcuni geni coinvolti nella patogenesi della
sarcoidosi.
LOCALIZZAZIONI POLMONARI DELLE CONNETTIVITI
SALVATORE ANTONELLI
U.O.C. di Reumatologia, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
L’impegno polmonare in corso di malattie
del tessuto connettivo è sicuramente una complicanza temibile sia per la prognosi, spesso
sfavorevole, che la scarsa efficacia dei presidi
terapeutici attualmente a disposizione. Nonostante il polimorfismo dei quadri clinici e istopatologici, a cui la localizzazione polmonare
può dar luogo, è possibile identificare alcuni
pattern peculiari: polmonite interstiziale usuale (UIP), polmonite interstiziale non specifica
(NSIP), danno alveolare diffuso (DAD), bronchiolite obliterante polmonare organizzativa
(BOOP), capillarite necrotizzante, emorragia
polmonare, polmonite interstiziale linfocitaria
(LIP), linfomi MALT, noduli reumatoidi.
In corso di Lupus Eritematoso Sistemico
(LES) il coinvolgimento dell’apparato respiratorio può essere suddiviso in tre gruppi:
pleuropolmonare primitivo, pleuropolmonare
secondario, complicanze infettive. Tra le prime
53
G. Schmid: Malattie polmonari rare
la più frequente è la pleurite che ricorre nel
40-60% dei casi, risente favorevolmente della terapia rappresentata prevalentemente da
cortisone e antimalarici e può quindi contare
su una prognosi favorevole. Il secondo gruppo
è rappresentato dalla polmonite interstiziale
cronica (5% dei casi), dalla polmonite lupica
(4%), dall’emorragia alveolare (1%), dall’ipertensione polmonare (1%). Si tratta di evenienze
per fortuna rare ma estremamente severe, che
conducono spesso il paziente a morte, sia per
la gravità del quadro clinico che per la scarsa
responsività alla terapia. Per completezza ricordiamo infine il deficit restrittivo di origine
extrapolmonare (Shrinking Lung Syndrome),
la tromboembolia (tipica della sindrome da
anticorpi antifosfolipidi associata a LES), la
bronchiolite obliterante (BO) e la bronchiolite
obliterante con polmonite in fase di organizzazione (BOOP), l’ipossiemia acuta reversibile
e la sindrome da distress acuta dell’adulto
(ARDS). La terapia prevede l’uso di cortisone
ad alte dosi (compresa la somministrazione di
boli e.v.) e di immunosoppressori (azatioprina,
ciclofosfamide). Nelle forme particolarmente
gravi è prevista l’intubazione e la ventilazione
meccanica assistita.
La pneumopatia sclerodermica viene distinta
in due quadri: l’alveolite fibrosante (AF) e l’ipertensione polmonare (IP) secondaria a vasculopatia. La prima ricorre prevalentemente nella
sclerosi sistemica a forma cutanea diffusa (ScScd), compare nei primi 4 anni e si caratterizza
per la presenza dell’anticorpo anti Scl-70. L’IP
è più frequente nella sclerosi cutanea limitata
(ScScl), si manifesta a 10-20 anni dall’esordio
della connettivite ed è sostenuta dalla cosiddetta “lesione plessiforme”, caratterizzata da zone
di vasi disorganizzati nel cui interno si rilevano
cellule endoteliali, muscolari lisce e miofibroblasti. La terapia della AF è costituita dall’associazione di steroidi e ciclofosfamide mentre nell’IP
si è soliti somministrare calcio-antagonisti, pro-
staciclina e suoi analoghi, bosentan (antagonista recettoriale dell’endotelina-1).
La sindrome di Sjogren (SS) primitiva, malattia sistemica autoimmune rappresentata da
compromissione delle ghiandole salivari esocrine e talvolta associata a sviluppo di malattie
linfoproliferative a partenza dai linfociti B, si caratterizza per un impegno polmonare, secondario al coinvolgimento dell’epitelio tracheo-bronchiale o ad infiltrazione interstiziale con quadri
di polmonite interstiziale, alveolite linfocitaria,
localizzazione da linfomi. La pleurite, l’amiloidosi, il granuloma plasmacellulare e la miopatia
diaframmatica sono lesioni di raro riscontro.
L’impegno polmonare in corso di Dermatomiosite/Polimiosite è tutt’altro che infrequente
e spesso di entità così rilevante da rappresentare una importante causa di invalidità e/o di
morte. I quadri più frequenti sono rappresentati da interstiziopatia, da complicanze di natura
infettiva favorite dalla terapia rappresentata
da steroidi e immunosoppressori, da polmoniti
provocate da aspirazione di materiale gastrico,
da insufficienza respiratoria secondaria a lesione dei muscoli respiratori, infine da ipertensione polmonare. Caratteristica è la correlazione
tra l’interstiziopatia e la presenza dell’anticorpo anti Jo-1. Il trattamento prevede l’uso dei
corticosteroidi e immunosoppressori tra cui
trova indicazione preminente la ciclofosfamide.
Nella Connettivite Mista (CM) il quadro
polmonare più temibile è costituito dall’ipertensione polmonare, la cui presenza è stimata tra
il 23 e il 30%. Seguono la pleurite e la fibrosi
polmonare. Rare manifestazioni sono rappresentate dalla tromboembolia polmonare (associata alla presenza di anticorpi antifosfolipidi) e
dalle polmoniti da aspirazione. La terapia della
CM è sovrapponibile a quella in uso nelle altre
connettiviti: cortisone e immunosoppressori.
Nell’IP è indicato l’impiego di vasodilatatori,
anticoagulanti, analoghi delle prostaglandine e
antagonisti del recettore dell’endotelina-1.
L’ISTIOCITOSI POLMONARE A CELLULE DI LANGHERANS
(PLCH) E LA PROTEZIONE ALVEOLARE
FABIO FIORUCCI
Centro Universitario Broncopneumopatie Emergenti (CUBE)
Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
Istiocitosi polmonare (PLCH)
È definita come una rara malattia granulomatosa ad eziologia sconosciuta, che si
riscontra in giovani adulti fumatori, prevalentemente di sesso maschile, caratterizzata
da accumulo di cellule di Langherans (LCs).
Rappresenta meno del 5% delle interstiziopatie polmonari.
Costituisce la forma, prevalentemente localizzata, di un gruppo di malattie, dette istiocitosi, la cui definizione si è andata delineando
solo negli ultimi anni.
54
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
La cellula di Langherans, da questi scoperta nel 1868, è un istiocita specializzato, che si
trova nello strato malpighiano ed ha il compito
di captare antigeni, processarli e presentarli ai
linfociti T presenti sulla cute.
Ha positività per antigeni CD1a, CD68 e
HLA-Dr e la proteina S-100
Nel 1961 venivano scoperti con il microscopio elettronico i granuli di Birbeck, ritenuti uno
specifico marker delle cellule di Langherans.
Le Istiocitosi (LCH)
Farber nel 1941 trovava caratteristiche
anatomo patologiche simili in tre malattie,
definite istiocitosi X, e riteneva che queste
fossero espressione dello stesso disordine immunologico, con diversa espressione clinica ed
interessamento di organi diversi:
1. Malattia di Letterer Siwe
2. Malattia di Hand-Schuller- Christian
3. Granuloma eosinofilo dell’osso.
Malattia di Letterer-Siwe: nei bambini.
È una forma diffusa, con interessamento di
polmoni, ossa, fegato, milza, linfonodi. Ha un
decorso rapidamente infausto.
Malattia di Hand-Schuller-Christian:
nell’infanzia o adolescenza. Si manifesta con
esoftalmo, diabete insipido e lesioni osteolitiche del cranio. Progressione lenta.
Granuloma eosinofilo dell’osso: interessa le ossa degli adulti, con prognosi favorevole.
A queste 3 forme nel 1973 Hashimoto e
Pritzker aggiungevano una quarta malattia,
con il nome di Reticolo-istiocitosi congenita,
una forma di istiocitosi presente alla nascita e
localizzata alla cute (Malattia di Hashimoto
e Pritzker).
In 1987, la Histiocyte Society proponeva
il termine Langerhans cell histiocytosis per
definire le histiocytosis X. I pazienti con LCH
si dividono in:
(a) quelli con interessamento di un singolo
organo;
(c) quelli con interessamento di più organi.
Inoltre anche le forme isolate possono avere
evoluzione diversa, cioè diffusa.
Tuttavia la maggioranza dei pazienti con
interessamento polmonare ha malattia localizzata al polmone.
(Favara BE, Feller AC, Pauli M, et al.
Contemporary classification of histiocytic disorders: the WHO Committee on Histiocytic/
Reticulum Cell Proliferations. Reclassification
Working Group of the Histiocyte Society Med
Pediatr Oncol 1997; 29:157).
Le cellule che si trovano in queste malattie
sono uguali a quelle di Langherans della cute,
infatti:
– sono cellule istiocitarie contenenti i granuli
di Birbeck, cioè strutture citoplasmatiche
presenti anche nelle cellule dell’epidermide
(Nezelof 1973)
– presentano reazioni immuno-istochimiche
identiche agli stessi tipi cellulari dell’epidermide.
Tuttavia a differenza di queste:
Hanno un numero più elevato di granuli di
Birbeck:
– Si colorano più intensamente con il CD1a
ed esprimono più antigeni, più molecole
leucocitarie e molecole di adesione.
– Conclusione: si tratta di cellule attivate.
Il danno tissutale è dato dall’interazione
con macrofagi e linfociti e la formazione di
granulomi.
A livello polmonare la proliferazione cellulare può essere ritenuta di tipo neoplastico? In
realtà l’evoluzione maligna è rara ed il tasso di
proliferazione è per lo più basso.
Eziologia: il fumo
L’associazione con il fumo di tabacco è presente con frequenza elevata, vicina al 100%.
Le lesioni iniziali hanno sede peribronchiale, come nel danno da fumo. Nel BAL dei
fumatori si trovano cellule di Langherans in
numero più elevato rispetto ai non fumatori.
La PLCH rappresenta una risposta immune
non controllata ad antigeni esogeni sconosciuti
nella quale le LCs si comportano come cellule
accessorie nell’attivazione di T linfociti. L’attivazione cellulare sembra dovuta ad aumentata produzione di citochine quali in particolare
il GM-CSF, il TNF. Infatti l’evoluzione delle
lesioni è quella tipica di una risposta immune,
con predominanza iniziale di linfociti e LCs, e
finale di fibrosi con scarsa cellularità. (Gerald
F. Abbott,et al. Pulmonary Langerhans Cell
Histiocytosis. RadioGraphics 2004; 24:821).
Anatomia patologica
Le lesioni caratteristiche sono granulomi
mal definiti, costituiti da C. di Langerhans
attivate, associate a cellule infiammatorie,
come linfociti, macrofagi ed eosinofili. Un numero elevato di eosinofili, in particolare nelle
lesioni ossee, è all’origine della denominazione
di Granuloma eosinofilo utilizzata per le forme
localizzate.
L’aspetto delle lesioni dipende dallo stadio:
le lesioni precoci (fase attiva) sono granulomatose, composte essenzialmente da numerosissi-
55
G. Schmid: Malattie polmonari rare
me CL raggruppate, morfologicamente simili
alle CL normali, fatta eccezione per la presenza
di un numero maggiore di granuli di Birbeck.
Clinica
Interessa giovani adulti con età media di
20-40 anni. Il quadro d’esordio è variabile,
asintomatico con riscontro occasionale nel 25%
dei casi. I sintomi sono aspecifici.
BAL
La cellularità totale è aumentata, con modesto aumento dei neutrofili e degli eosinofili;
nella malattia in fase attiva aumentano anche
i linfociti, con riduzione del rapporto CD4:CD8.
Le cellule di Langerhans nel BAL possono essere identificate mediante uno specifico anticorpo
monoclonale (MT-1) per la loro positività CD1
(OKT-6); vengono inoltre marcate da anticorpi
diretti contro la proteina S-100; altro dato importante è la presenza dei granuli di Birbeck,
visibili in microscopia elettronica.
Diagnosi
Un valore di cellule di Langerhans superiore al 5% nel BAL è fortemente suggestivo. La
biopsia transbronchiale presenta un’alta percentuale di falsi negativi, devono essere pertanto attuate tecniche più invasive, come la biopsia
polmonare toracoscopica o toracotomica.
Funzionalità respiratoria
Le alterazioni variano a seconda dello stadio e dell’estensione della malattia.
In fase iniziale:
Riduzione della DLCO, attribuibile ad una
distruzione della membrana alveolo-capillare
più che ad un suo ispessimento, al coinvolgimento vascolare ed alla conseguente alterazione del rapporto ventilazione-perfusione.
Inizialmente i volumi polmonari statici
sono normali anche in presenza di alterazioni
radiologiche Nell’evoluzione si ha riduzione
della capacità vitale (CV) e della capacità polmonare totale (CPT); quest’ ultima può anche
risultare normale, in seguito ad un aumento
del volume residuo (VR), conseguenza dell’intrappolamento aereo nelle cisti.
Prognosi
Non prevedibile: frequenti le remissioni
spontanee, ma anche il progressivo peggioramento, con lo sviluppo di insufficienza respiratoria; mortalità variabile dal 2% al 30% nelle
differenti casistiche.
Indici prognostici sfavorevoli:
1. un’età più avanzata al momento della diagnosi (>26 anni),
2. l’interessamento di più organi,
3. una storia clinica più lunga,
4. la presenza di numerose cisti alla TAC,
5. la riduzione del DLCO all’atto della diagnosi,
6. un quadro funzionale di tipo ostruttivo con
iperdistensione parenchimale e la persistenza del fumo.
Terapia
Sospensione dal fumo: possibili remissioni
spontanee.
La pleurodesi nei pazienti con pneumotorace spontaneo può comportare benefici.
Gli steroidi, solo nei casi di malattia progressiva e caratterizzata da grave compromissione clinico-funzionale; pur non essendo
disponibili dati univoci sulla loro reale efficacia.
In associazione o in alternativa agli steroidi alcuni autori utilizzano differenti farmaci:
citostatici alchilanti (come la ciclofosfamide),
antimetaboliti o alcaloidi della vinca, prevalentemente nelle forme di malattia diffusa;
mancano, tuttavia, dati univoci sul loro utilizzo nelle forme ad esclusivo interessamento
polmonare. In letteratura sono presenti segnalazioni sporadiche di terapie alternative,
soprattutto in forme diffuse e steroido-resistenti, come ad esempio la penicillamina, la 2clorodeossiadenosina o il trapianto di midollo
allogenico. Nei pazienti non responsivi alla
terapia medica e caratterizzati da una severa
insufficienza respiratoria il trattamento elettivo è il trapianto polmonare.
La proteinosi alveolare
È una pneumopatia infiltrante, diffusa,
rara, caratterizzata dal riempimento alveolare di materiale ricco di proteine e lipidi, PAS
positivo, che ricorda il surfactante.
Interessa soggetti di età media, prevalentemente maschi ( rapporto M/F = da 2 a 4/1), ma
può trovarsi in bambini molto piccoli.
Un’alterazione della clearance del surfactante, insieme ad anomalie dei macrofagi
alveolari, porta all’accumulo di frazioni di surfactante anormale
In lavori recenti messo in evidenza il ruolo
del GM-CSF.
Si distinguono:
Forme primitive: ad eziologia non determinata, sono le più frequenti.
56
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Forme secondarie, dovute a:
1. Inalazione di polvere. Malattie ematologiche (linfomi, leucemie), od immunitarie
(deficit immunologici come aplasia timica
nei bambini o AIDS negli adulti).
2. Nei bambini: deficit ereditario di proteina
B del surfactante.
3. Infezioni, come la nocardiosi e la TBC.
Sintomatologia
Radiologia
– Opacità a vetro smerigliato bilaterali.
– Aree di consolidamento ad aspetto di noduli
o chiazze nelle zone centrali e che tendono a
confluire nelle zone inferiori.
– d.d. con edema polmonare.
– Raramente forme asimmetriche.
– HRCT: patologica anche in Rx normali.
– Aspetto a “pavimentazione pazza”.
Diagnosi
1. Nel 30% assenza di sintomi (scoperta casuale).
2. Dispnea da sforzo ingravescente, ipossia ed
ipocapnia.
3. Tosse secca o con espettorato gelatinoso od a
blocchi come un “calco bronchiale”.
4. Emottisi rara.
5. Sintomi sistemici come astenia, febbricola.
BAL
– Nel 70% aspetto lattescente.
– Presenza di materiale amorfo, PAS positivo.
– Cellularità aumentata.
– Diminuzione dei macrofagi, lieve aumento
di linfociti e neutrofili.
– Presenza di grossi corpi eosinofili acellulari
su un fondo di materiale basofilo.
– Livelli elevati di proteine del surfactante.
– Presenza di un quadro radiologico compatibile con edema polmonare, in presenza di
sintomi scarsi e non compatibili.
– BAL: liquido lattiginoso, materiale proteinaceo PAS positivo.
Terapia
L’evoluzione della malattia è molto variabile con remissioni completa in oltre 1/3
dei pazienti. La terapia si basa su lavaggi
polmonari localizzati, effettuati con il fibrobroncoscopio, o diffusi, in anestesia generale. I
risultati di questo trattamento portano ad un
miglioramento nella quasi totalità dei casi, con
aumento della PO2.
Possibili le recidive. La prognosi può essere
infausta in presenza di forme secondarie a
malattie ematopoietiche (E. Briens et al. Lipoproteinose alveolare polmonaire. Rev Mal
Respir 2002; 19:166).
IL RUOLO DELLA BRONCOSCOPIA E DEL BAL
GIOVANNI GALLUCCIO, GABRIELE LUCANTONI
U.O di Endoscopia Toracica, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
La broncoscopia riveste un ruolo fondamentale nella raccolta di materiale cito-istologico
per la diagnosi delle malattie polmonari rare,
con particolare riguardo alle interstiziopatie.
Le tecniche principalmente utilizzate sono
il Lavaggio Bronco-Alveolare (BAL), la biopsia
transbronchiale (BTB), l’Ago-aspirato transbronchiale (TBNA) e la biopsia transcarenale
(BTC).
Si ritiene che nella storia naturale delle
patologie interstiziali del polmone il primo
processo anatomicamente riconoscibile sia l’alveolite cioè l’aumento del numero di cellule a
funzione infiammatoria ed immunitaria nell’interstizio e anche all’interno dell’alveolo. Il
BAL rappresenta una possibilità importante
per conoscere le popolazioni cellulari presenti
nell’ambiente alveolare durante l’evoluzione di
una interstiziopatia. Alcuni pattern cellulari
sono tipici di forme particolari di interstiziopatia anche se tranne rari casi non possono
essere considerati in assoluto definitivi per la
diagnosi ma vanno interpretati nel contesto
della storia della malattia, e del quadro complessivo clinico-radiologico.
Il lavaggio broncoalveolare (BAL) consiste
nella instillazione di soluzione fisiologica in
piccole quote ripetute nelle vie aeree distali
e nel recupero dell’aspirato per l’analisi delle
componenti cellulari e non cellulari.
Si tratta di una tecnica che differisce concettualmente dal semplice aspirato bronchiale
in quanto la instillazione ed il recupero di
materiale riguardano il tratto bronchiolo-al-
57
G. Schmid: Malattie polmonari rare
veolare le cui cellule e i vari componenti non
cellulari sono rappresentativi del sistema infiammatorio ed immunitario di tutto il tratto
respiratorio inferiore.
Quadro cellulare normale nel BAL
Il liquido del Bal presenta in genere una
percentuale di macrofagi intorno al 92%, il 7%
di linfociti e meno dell’1% di altre cellule (neutrofili, eosinofili, basofili). Per quanto riguarda
i linfociti va precisato che pur assumendo il numero masiimo normale intorno al 10-15% sono
possibili in soggetti sani incrementi transitori
del loro numero senza che questo rifletta una
situazione patologica. Nei fumatori il numero
totale di cellule può essere tre volte superiore
a quello dei soggetti normali e il numero di
macrofagi anche 4 volte superiore rispetto ai
non fumatori con aumento percentuale anche
in rapporto alle altre cellule. Anche i neutrofili
sono aumentati nei fumatori (circa 6 volte) e
inoltre rimangono elevati anche negli ex fumatori (circa il doppio dei non fumatori).
Analizzando i sottotipi di linfociti del BAL
si rileva che il 73% sono linfociti T, il 7% linfociti B e il rimanente 19% non è classificabile
con i marcatori di superficie. Il rapporto normale tra linfociti Th e Ts è di 1,6-1,8. Il rapporto H/S è inoltre inferiore nei fumatori.
Utilità clinica del Bal
La utilità diagnostica è molto limitata. Nella
Istiocitosi X le cellule di Langherans CD1+ aumentano oltre il 4%. Nella emorragia alveolare
la quantità di emosiderina correla con la gravità
del sanguinamento. Notevole valore riveste il
BAL nella proteinosi alveolare dove il liquido
recuperato è tipicamente lattiginoso e contiene
macrofagi schiumosi, detriti cellulari, globuli
extracellulari positivi alla colorazione con PAS.
Nel paziente immunocompromesso con sospetto di infezione opportunistica il BAL è la
metodica di scelta per raccogliere campioni
dalle vie aeree distali e in caso di infezione da
P. Carinii la sensibilità supera il 95%.
Sarcoidosi
I linfociti sono aumentati e in particolare
aumentano i CD4 che sono considerati i marcatori dell’alveolite in fase acuta. Il rapporto
CD4/CD8 è aumentato e valori tra 3,5 e 4,0
sono virtualmente diagnostici ma sempre in
relazione al quadro clinico complessivo in
quanto la diagnosi di sarcoidosi rimane ancora
legata alla definizione istologica. Va inoltre
ricordato che al momento della diagnosi il 30%
dei pazienti ha un rapporto CD4/CD8 normale e il 10% può avere un rapporto diminuito.
Nella sarcoidosi avanzata (quadro fibrotico)
si può riscontrare un aumento della conta dei
neutrofili. Un aumento del numero di mastociti oltre lo 0,5% sembra indicare una tendeza
evolutiva negativa.
Fibrosi polmonare
Nella fibrosi polmonare idiomatica non esistono quadri cellulari di conferma diagnostica,
piuttosto il BAL può servi re ad escludere altre
patologie infatti normalmente non si rileva un
aumento dei linfociti che se presente dovrebbe
orientare verso altre patologie come la sarcoidosi o l’alveolite allergica estrinseca. Il quadro
cellulare più suggestivo è rappresentato da un
aumento dei neutrofili e degli eosinofili ma la
diagnosi definitiva dovrebbe prevedere l’esame
istologico con metodica chirurgica in quanto le
biopsie transbronchiali non assicurano materiale sufficiente per l’evidenziazione dei pattern
istologici diagnostici come i fibroblastic foci.
Alveolite allergica estrinseca
Il lavaggio broncoalveolare è la metodica
più sensibilenella diagnosi di AAE. Si rileva
in questi casi una aumento dei linfociti (anche
a livelli superiori al 60%) con inversione del
rapporto CD4/CD8, la presenza di plasmacellule, di macrofagi schiumosi e un aumento
dei mastociti. È possibile anche un aumento
dei neutrofili in particolare se l’espozione all’antigene è recente, inoltre la percentuale di
mastociti tende a diminuire con l’allontanamento dall’esposizione e quindi lavaggi seriati
possono essere utili per monitorare e verificare
l’allontanamento dall’esposizione all’antigene.
I linfociti invece tendono a rimanere elevati anche in pz asintomatici non più esposti
all’antigene e quindi non rappresentano un
marker di malattia attiva.
La biopsia transbronchiale ,in genere eseguita con pinze bioptiche di piccole dimensioni, giunge a prelevare campioni di tessuto
polmonare posto tra due bronchioli ramificati
oppure frammenti di parete bronchiolare e,
per tale motivo, questa metodica è particolarmente indicata in caso di malattie interstiziali, alveolari, miliari o nodulari.
Individuata la zona della lesione con l’ausilio delle immagini TC, si introduce il broncoscopio flessibile nel bronco segmentario e lo si
incannula; si procede quindi all’introduzione
delle pinze nel canale dilavoro. È possibi-
58
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
le anche utilizzare una guida radioscopica,
con la quale si può raggiungere con maggiore sicurezza la zona da sottoporre a prelievi
bioptici.
Processi della più svariata natura possono
colpire i linfonodi mediastinici: infettivi, granulomatosi, linfoproliferativi, neoplastici. Una
delle sedi che per la sua particolare posizione
risulta essere facilmente aggredibile a fini
diagnostici dall’endoscopista è quella sottocarenale.
Tale sede può essere raggiunta mediante
puntura transbrochiale con ago flessibile attraverso il canale operativo del broncoscopio
flessibile che consente di prelevare materiale
citologico o anche istologico (a seconda del tipo
di ago 21 o 19 Gouge). La metodica endoscopica più efficace rimane comunque quella con
broncoscopio rigido. In tal modo sarà possibile
introdurre nel lume dello strumento aghi rigidi taglienti, con o senza parte terminale a
ghigliottina, di grosso calibro (inferiore ai 20
Gouge), che consentono il prelievo di carote di
tessuto adeguate alla lavorazione istologica.
L’importanza di poter effettuare un prelievo
sufficientemente grande sono intuitive secondo il giusto principio che maggiore è la quantità di tessuto patologico asportata migliori
sono le probabilità per il patologo di fare una
corretta diagnosi istologica.
IL DECISIVO RUOLO DEL PATOLOGO
NELLE MALATTIE POLMONARI RARE
PAOLO GRAZIANO
Servizio Anatomia e Istologia Patologica, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
Le interstiziopatie polmonari (IP) rappresentano un ampio gruppo di pneumopatie che
possono condividere caratteristiche morfologiche, cliniche e radiologiche.
In quest’ambito, il patologo riveste un ruolo decisivo nell’individuazione delle lesioni
elementari utili alla definizione di ciascuna
singola entità nosologica.
Solo occasionalmente, le biopsie bronchiali,
trans bronchiali o polmonari, forniscono al
patologo informazioni di per sé diagnostiche e
specifiche per una determinata eziologia. Infatti, a causa del limitato numero di possibili
modificazioni citoarchitetturali osservabili nel
distretto polmonare, i patterns patologici nelle
differenti IP, tendono a sovrapporsi.
Pertanto, il raggiungimento di una corretta
diagnosi ed il conseguente adeguato trattamento terapeutico, devono essere il frutto
dell’integrazione multidisciplinare clinico-radiologica-patologica.
Ciò nonostante, l’analisi microscopica del
materiale bioptico da parte di un patologo dedicato, consente di ottenere informazioni rilevanti circa l’eziologia, l’attività, la reversibilità
e la prognosi di ciascuna IP.
L’approccio per pattern alla diagnosi di IP
tiene conto della cronologia della patologia in
esame (danno polmonare acuto, subacuto o
cronico) e la integra con le caratteristiche delle
lesioni elementari microscopiche osservate e la
loro relativa distribuzione nel contesto dell’architettura polmonare.
La presenza di edema, necrosi epiteliale,
essudato fibrinoso negli spazi alveolari, con o
senza membrane jaline, è il pattern caratteristico del danno alveolare diffuso (DAD), che in
via di organizzazione, esita in proliferazione
di pneumociti di tipo II, riassorbimento delle
membrane jaline e degli essudati alveolari e
conseguente proliferazione fibroblastica, sia
negli spazi alveolari che nell’interstizio. Questo determinato pattern sottende una serie di
differenti eziologie (es: infezioni, tossicità farmacologica o da raggi, malattie del collagene
associate, sindromi emorragiche od idiopatica), alla cui corretta individuazione il clinico è
chiamato attraverso l’integrazione tra esame
obiettivo, anamnesi ed i dati di laboratorio
(Fig.1A).
Al contrario, la presenza di fibrosi interstiziale avanzata comporta un’irreversibile
alterazione della microstruttura polmonare
ed individua, se associata alla presenza di
focolai di fibrosi attiva (fibroblastic foci) e di
honeycombing microscopico, l’archetipo delle
IP fibrosanti rappresentato dalla polmonite
interstiziale idiopatica (UIP).
Ricordando che il patologo individua pattern e non entità cliniche, è necessario rammentare che IP con pattern UIP comprendono
pneumopatie interstiziali ad eziologia nota (es:
pneumoconiosi, polmonite da ipersensibilità in
fase cronica, malattie sistemiche del collagene, polmonite eosinofila cronica organizzata,
sarcoidosi, istiocitosi a cellule di Langerhans,
reazioni croniche a farmaci od a radiazioni), il
cui corretto riconoscimento comporta prognosi
significativamente migliori rispetto alla forma
idiopatica (Fig.1B).
59
G. Schmid: Malattie polmonari rare
Quando poi, la lesione elementare è rappresentata dalla presenza d’infiltrazione diffusa del parenchima polmonare da parte di
linfociti e plasmacellule, il pattern morfologico
osservato ha come prototipo la polmonite interstiziale non specifica (NSIP).
È all’interno di questo pattern che lo pneumologo può frequentemente svelare sottostanti patologie sistemiche del collagene (Fig.1C)
od autoimmuni (artrite reumatoide, lupus,
scleroderma, polimiosite o dermatomiosite,
sindrome di Sjogren, cirrosi biliare primitiva,
tiroidite di Hashimoto o glomerulonefriti),
polmoniti da ipersensibilitào malattie linfoproliferative.
Il pattern, invece, sottolineato dal consolidamento del parenchima polmonare, in forma
diffusa o parziale, abbraccia IP differenti sia
in termini cronologici che qualitativi, tra cui
la polmonite interstiziale diffusa (DIP), la
bronchiolite respiratoria (RB) associata o me-
no a fibrosi interstiziale (RBILD), il polmone
emorragico, la polmonite eosinofila e le forme
infettive polmonari acute od in via d’organizzazione. È proprio il riconoscimento microscopico degli elementi caratteristici, cellulari o
non, che coinvolgono le cavità alveolari, che
consentono al patologo di discriminare all’interno di una varietà di IP a differente prognosi
e terapia.
Purtroppo, differenti IP si possono manifestare con uguale pattern di consolidamento
polmonare che non è quasi mai specifico, se
non con l’eccezione della proteinosi alveolare (materiale granulare proteinaceo endoalveolare) e della polmonite cronica eosinofila
(macrofagi, fibrina ed eosinofili nelle cavità
alveolari).
Infatti, l’individuazione di un pattern a tipo
polmonite in via di organizzazione (OP), rappresentato dal riconoscimento di gettoni polipoidi
di proliferazione miofibroblastica all’interno
A: Danno alveolare diffuso (infezione da B: Pattern fibrosante UIP in Lupus Sistemico
Eritematoso
Pneumocistis Carinii)
C: Pattern fibrosante NSIP in scleroderma
D: Pattern organizing pneumonia in tossicita
da amiodarone
Fig. 1.
E: Granulomi bronchiolocentrici in polmonite F: Linfangioleiomiomatosi polmonare
da aspirazione
60
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
dei bronchioli terminali, dei dotti alveolari ed
alveoli, è molto comune e sottintende una varietà di cause. Tra le principali, si rammentano
la forma infettiva, da aspirazione (Fig. 1D), da
tossicità farmacologica, da ostruzione delle vie
aeree, associata a malattie del collagene ed infine, solo dopo aver escluso clinicamente tutte
le precedenti, la forma idiopatica.
È utile ancora una volta ricordare come non
bisogna riferirsi al quadro istopatologico come
ad una sentenza diagnostica, ma come ad un
elemento di un puzzle in cui solo l’incastro con
i tasselli della clinica e della radiologia consente il corretto inquadramento diagnostico.
Il distintivo pattern nodulare, riconoscibile
anche radiologicamente, restringe la diagnostica differenziale delle IP a lesioni polmonari
frequentemente ad eziologia infettiva, ma che
possono comprendere anche la sarcoidosi e la
berilliosi, la silicosi, l’istiocitosi a cellule di
Langerhans e la granulomatosi di Wegener.
La puntuale descrizione morfologica della
distribuzione e della qualità delle lesioni no-
dulari, ancor più se rappresentate da granulomi, consentono di suggerire ipotesi infettive
rispetto alla sarcoidosi, alla pneumoconiosi o
malattie da aspirazione (Fig.1E) o da iniezione
endovenosa.
In ultimo, è proprio l’abilità del patologo
dedicato che consente di supportare una diagnosi di IP anche in occasione di una biopsia
polmonare apparentemente “normale”.
Infatti, in corso di patologia veno-occlusiva
polmonare, malattia delle piccole vie aeree
(small airway diseases), linfangioleimiomatosi
(Fig.1F), le lesioni possono essere impalpabili
anche microscopicamente, ma se inserite in un
adeguato contesto clinico-radiologico, consentono il raggiungimento di una diagnosi specifica.
In conclusione, la capacità di riconoscere e
correttamente inquadrare le IP, passa attraverso il superamento della logica monodisciplinare
e si deve avvalere del contributo delle singole
professionalità coinvolte, attraverso l’analisi, la
condivisione e l’integrazione delle informazioni
cliniche, radiologiche e patologiche.
IL RUOLO DELLE IMMAGINI NELLE INTERSTIZIOPATIE
GIOACCHINO PEDICELLI
Direttore UOC Radiologia Forlanini, Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
Quello delle interstiziopatie è stato da sempre uno dei capitoli più confusi della diagnostica
medica. Altrettanto confuso è stato il linguaggio e le numerose classificazioni prodotte dalla
letteratura. Un formidabile aiuto nel creare
ordine in materia è derivato dall’impiego clinico
corrente della TC ad alta risoluzione (HRCT)
che ha contribuito a costruire dei pattern anatomo-radiologici, con l’obiettivo di tipizzare in
vivo, in modo non invasivo, alcune fra le più
comuni forme di patologia polmonare interstiziale. Di particolare interesse risulta l’attuale
classificazione delle polmoniti interstiziali idiopatiche basata sulla diagnostica HRCT.
Volendo fare una ricostruzione storica della
evoluzione del concetto di interstiziopatie, possiamo risalire ai primordi della radiologia con
l’espressione “accentuazione della trama”,
che aveva un significato vago e che tuttavia
continua ad essere usato ancora oggi quale
elemento di semeiotica radiologica senza alcun corrispettivo concreto. I primi tentativi di
descrivere in modo concreto l’impegno interstiziale del polmone risalgono al 1930 con la elaborazione della prima classificazione radiografica delle pneumoconiosi. Negli anni
’70 la semeiotica radiologica sente l’esigenza
di stabilire caratteri distintivi fra alterazioni
di tipo interstiziale rispetto a quelle di tipo
alveolare, facilitando con ciò il riconoscimento
delle patologie interstiziali. In realtà una tale
distinzione non trova un corrispettivo adeguato rispetto ai dati dell’anatomia patologica
poiché ci si rende conto abbastanza rapidamente del fatto che le alterazioni di tipo alveolare frequentemente fanno parte di uno stadio
evolutivo delle interstiziopatie. In sostanza, a
tutte le interstiziopatie viene riconosciuta una
patogenesi comune che va dalla alveolite fino
all’ “end-stage lung”.
Pertanto il tentativo, sicuramente utile di
distinguere le lesioni di tipo prevalentemente
interstiziali da quelle di tipo prevalentemente
alveolare, inevitabilmente va incontro ad un
parziale insuccesso, ma determina una forte
spinta verso una migliore conoscenza delle
interstiziopatie che, tuttavia, continuano a
configurarsi nel loro insieme come il gruppo
più confuso della patologia polmonare (Fig.
1). Uno degli sforzi maggiori di quei tempi,
nell’ambito delle interstiziopatie, era quello
di distinguere le lesioni del piccolo interstizio rispetto a quelle del grosso interstizio.
Peraltro lo sviluppo della ricerca, particolarmente negli anni ’80 - condotta in sintonia fra
radiologi, clinici e patologi - porta ad una pro-
G. Schmid: Malattie polmonari rare
61
gressiva chiarificazione nell’ambito di alcuni
gruppi di malattie (ad esempio le “polmoniti
interstiziali croniche”).
La sensazione di sconforto, dominante fra
gli specialisti, comincia a migliorare decisamente con la disponibilità della TC ad alta
risoluzione (HRTC). Con questa nuova metodologia di studio nasce un riferimento anatomico preciso costituito dal lobulo secondario:
con esso si distingue nettamente l’interstizio
intralobulare rispetto al grosso interstizio o
extra-lobulare. Nasce una nuova semeiotica,
condivisa dai clinici e dai patologi, basata su
pattern di riferimento con i quali vengono confrontate tutte le possibili interstiziopatie.
Il pattern (Fig. 2) non è una diagnosi ma
un modello caratterizzante gruppi di malattie
e rappresentativo di eventi patologici colti in
una determinata fase evolutiva, dei loro aspetti
Fig. 1 - L’immagine riportatarappresenta una domorfologici e dei relativi rapporti anatomici.
cumentazione caricaturale della incertezza diagnoL’avanzamento maggiore, dal punto di vista clinico, è stato ottenuto a favore di uno dei
stica legata al tema delle interstiziopatie alla fine
capitoli più difficili della diagnostica polmodegli anni ’70
nare, costituito dalle polmoniti interstiziali
idiopatiche, malattie gravate da
elevata mortalità. Fra queste si
distingue, per frequenza e gravità,
la fibrosi polmonare idiopatica la cui storia naturale resta in
gran parte sconosciuta (Fig. 3). Gli
aspetti radiologici, che si avvalgono prevalentemente dell’impiego
della HRCT, stanno diventando
familiari sia ai radiologi che ai clinici. Tali aspetti consentono spesso
di tipizzare la malattia senza dover
ricorrere all’esame bioptico. Tuttavia abitualmente è richiesta una
diagnostica differenziale rispetto ad altre polmoniti dello stesso
gruppo, prima fra tutte la NSIP
(Non Specific Intertitial Pneumonia) (Fig. 4).
L’atteggiamento attuale degli
specialisti (clinici, radiologi e patologi), nella procedura di tipizzazione delle varie malattie che
possono configurarsi come interstiziopatia, è quello di stabilire
una convergenza di “compatibilità diagnostica”. Seguendo
questo modello, ormai diffuso in
tutto il mondo, la diagnostica delle interstiziopatie va progressivamente migliorando ed assumendo,
più opportunamente, la dizione di
malattie infiltrative diffuse.
Fig. 2 - I quattro principali pattern radiologici delle interstiziopatie: A = reticolare, B = alveolare, C = cistico, D = nodulare
62
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
Fig. 3 – La sequenza delle immagini riassume una storia clinica che
può configurarsi come la storia
naturale della FPI (Fibrosi Polmonare Idiopatica) , in un soggetto femminile di anni 72, trattato
fin dall’inizio per una diagnosi di
“bronchite cronica”. Le immagini
HRCT, che seguono, evocano il
quadro di una polmonite interstiziale idiopatica, con la proposta
di diagnosi differenziale fra UIP
e NSIP. Il reperto di ispessimenti
fibrotici di aspetto reticolare e, soprattutto, la ricca presenza di honey-combing con scarso groundglass, depongono per una diagnosi
di UIP, a prognosi infausta.
Bibliografia
Fig. 4 – Nella NSIP domina
il reperto di tenue consolidazione (opacità ground- glass),
unitamente ad ispessimenti
lineari e reticolari. Il reperto
honey-combing è raro. La tipizzazione a favore di questa
malattia configura una prognosi più favorevole.
1. American Thoracic Society /
European Respiratory Society
International Multidisciplinary
Consensus Classification of the
Idiopathic Interstitial Pneumonias, Am J Respir Crit Care Med
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2. Hiromitsu Sumikawa, et al.
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and Chronic idiopathic Interstitial Pneumonia: Analysis of
CT Appearance in 92 Patients.
Radiology 2006; 241, 1: 258-266
3. Baskaran Sundaram, et al. Accuracy of High- Resolution CT
in the Diagnosis of Diffuse Lung
Disease: Effect of Predominance
and Distribution of Findings.
AJR 191: 1032-1039
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 1, Gennaio - Marzo 2009
Recensione “postuma” di una Prefazione inedita
La recente scomparsa del Prof. Mario Calvani, insigne Primario Pediatra Emerito dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini di Roma, Accademico della prestigiosa Accademia Lancisiana di Roma e figura di spicco nazionale della Specialità, Fondatore e Presidente di quella che
è attualmente divenuta la Società di Pediatria Ospedaliera, nonchè per 15 anni Primario della
Divisione Pediatrica dell’Ospedale San Camillo, fornisce a chi, come noi, lo ha avuto non soltanto
Maestro di vita professionale, ma anche esempio di Direzione scientifico-giornalistica, l’occasione
di ricordarne il Suo grande talento nell’insegnamento clinico, talento che ha saputo trasferire anche nella quasi decennale Direzione della Rivista “Ospedale San Camillo”, che ha costituito una
delle due “costole”, da cui sono nati gli “Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini”.
A testimonianza della Sua profonda e rigorosa dedizione a trasfondere esperienza e cultura medica e doti di umanità, soprattutto in tutti noi Colleghi dei due grandi Ospedali romani unificati
nell’Azienda Ospedaliera di rilievo nazionale e di alta specializzazione, si riporta qui di seguito
la Sua “Prefazione” a un Volume che aveva iniziato a scrivere, tuttora non pubblicato,
Prefazione di cui il Suo figlio Pediatra, Mauro ha concesso la pubblicazione sulla nostra Rivista.
Giovanni Minardi e Franco Salvati
“GUARDARE PER VEDERE, VEDERE PER CAPIRE”
MARIO CALVANI
Primario Pediatra Emerito
dell'Azienda Ospedaliera S. Camillo - Forlanini, Roma
Viviamo ormai nell’era della biologia
molecolare, di una tecnologia diagnostica e terapeutica sempre più avanzata.
La medicina dell’ultimo secolo e dell’ultimo cinquantennio in specie ha fatto
passi da gigante. Non passa giorno che
non siano individuate nuove entità morbose e che le concezioni patogenetiche
di affezioni note non siano modificate,
sovvertite,soppiantate dal progredire delle conoscenze. Bagaglio di conoscenze che
si raddoppia ogni 22 mesi e che rende difficile non dico poter seguire ma nemmeno
sfiorare ciò che la ricerca ci viene prospettando, giorno dopo giorno.
Tutto ciò ha giustificato la necessità di
super subspecializzazioni nell’ambito delle
singole branche mediche, che hanno condotto ad una parcellizzazione dello scibile
medico; ha permesso di raggiungere traguardi meravigliosi, addirittura insperati;
ma ha anche avuto purtroppo, specie per i
più giovani, quattro aspetti negativi pesanti nella loro pratica medica quotidiana:
1) La mancanza di una visione di insieme del malato, nel rispetto della im-
prescindibile unità biologica dell’essere
vivente;
2) la perdita progressiva nell’approccio
diagnostico a letto del malato della
ricerca di segni e sintomi orientativi
per affezioni specifiche o gruppi di affezioni, ricavabili sia da una anamnesi
attenta e mirata che da un ancora più
attento esame obbiettivo.
3) il mancato insegnamento delle nozioni
teoriche e della metodologia pratica
della semeiotica clinica che è stato alla
base della formazione medica fino a un
ventennio fa e che da sempre, anche
oggi, è alla base dell’approccio ad una
diagnosi clinica;
4) la tendenza erronea attuale, specie
da parte dei più giovani, di cercare di
giungere alla diagnosi, non attraverso
la clinica, ma con una serie di esami,
molto spesso non mirati, spesso richiesti addirittura dai malati o dai genitori
dei più piccoli.
Fino al paradosso di reputare più bravo chi più ne prescrive, e non chi invece,
come dovrebbe essere, cerca conferma
64
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 1, 2009
alla diagnosi clinica già posta, quando il
caso lo richieda, in quell’unico o pochissimi esami dirimenti. C’è da riconoscere
obiettivamente che molti dei segni di cui
era ricchissima la semeiotica clinica della
seconda metà dell’Ottocento e della prima
metà del novecento, sono stati giustiziati
dalle tecnologie moderne che ne hanno
dimostrata l’inconsistenza o la mancata
correlazione con la patologia presunta.
Può sembrare perciò almeno strano se
non addirittura privo di ogni utilità clinica
ripresentarsi, alle soglie del 2000, con un
libro su segni, sintomi e sindromi nella
diagnostica pediatrica.
La sindromologia occupa quasi tutti i
campi della medicina. L’1% circa dei neonati ha anomalie multiple o sindromiche.
Di questi, solo il 40% può esser diagnosticato come avente un sindrome riconosciuta. L’altro 60% è costituito da entità
sconosciute che necessitano di essere ulteriormente delineate. Nonostante alcune
sindromi siano individualmente rare, nel
loro complesso costituiscono una parte significativa della medicina clinica.
Nonostante tutto e con molta umiltà, ho
voluto riproporre le basi di un approccio
diagnostico secondo le regole della vecchia
medicina classica che molti ritengono definitivamente superata, sulla base di alcuni
dati di fatto e per rispondere a tre esigenze
:1) È stato il mio modo di fare il medico ed
il pediatra in tanti anni di attività clinica
e di ricerca applicata alla clinica, intra
ed extra-ospedaliera. Il malato è un libro
aperto in cui è essenziale voler e saper
guardare per poter vedere, ciò per capire.
Egli ci offre con l’anamnesi e l’esame obiettivo, solo sintomi e segni. Possono essere
eclatanti o appena sfumati. Ma soprattutto bisogna conoscerli, conoscerne il significato, cercarli e saperli cercare. Non si può
diagnosticare ciò che non si conosce.
2) Il primo impatto diagnostico lo ha il
pediatra pratico del territorio e dell’ospedale che deve poter e saper porre,
nel suo interesse, ma soprattutto del
piccolo malato che in quel momento sta
visitando, un primo orientamento diagnostico corretto soprattutto sulla base
della clinica e con qualche indispensabile esame di laboratorio.
3) La patologia clinica, e quindi il sintomo
o il segno, è solo l’espressione di una al-
terata anatomo-fisiologia, molto spesso
già a partenza dalla vita intrauterina.
Ha quindi una sua validità scientifica
e pratica solo se sostenuta, in ogni età,
ma soprattutto in quella pediatrica,
dalla conoscenza e dal ricordo dei substrati embriologico ed anatomo-fisiologico che sottintendono la normalità.
Dove è alterata l’anatomia e la fisiologia umana normale, è patologia. Il
segno, il sintomo, la sindrome ne sono
l’espressione. Conoscendone il significato, è naturale prospettarsene le possibilità patogenetiche ed etiologiche che
ne sono alla base. Per tale motivo mi è
sembrato indispensabile la premessa di
brevissimi ricordi anatomici, fisiologici
ed embriologici, che molto spesso, se
non si rinfrescano di continuo, svaniscono con il passare degli anni. Per lo
stesso motivo ogni sintomo o segno è
immediatamente ricordato nelle possibili associazioni sindromiche per un
più immediato orientamento diagnostico-differenziale. Nei limiti concessi dal
tempo e dallo spazio,e soprattutto della
mia umana conoscenza, ho cercato di
aggiornarli alla luce dell’attuale progresso scientifico.
4) Negli aspetti sindromici la conoscenza
della comunione embriologica e fisiopatologica di sintomi e segni può e deve
indurre a ricercarne altri, al momento
assenti o asintomatici, permettendo di
porre in atto tempestivamente norme
diagnostiche, profilattiche o terapeutiche, successivamente possibilmente
tardive ed inefficaci.
5) Libri di semeiotica infantile cosi concepiti e redatti, non sono numerosi o
addirittura non mi risultano esistere.
6) Ultimo, ma non ultimo, se l’ho fatto, è
stato solo per rispondere alla richiesta
di quelle migliaia di giovani medici che
mi hanno seguito nei miei 40 anni di attività ospedaliera nelle corsie a letto del
malato e nei miei corsi di diagnostica e
terapia pediatrica e che per tanti anni
mi hanno pregato di mettere per iscritto ciò che andavo loro dicendo. Non ho
mai avuto il coraggio di mettere mano
a un lavoro cosi’ improbo e globale e
contenuto in una mole relativamente
ridotta. Ora l’ho fatto. Spero solo di non
averli delusi.