L`apprendimento dell`italiano da parte di studenti giapponesi adulti

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L`apprendimento dell`italiano da parte di studenti giapponesi adulti
L’apprendimento dell’italiano da parte di studenti giapponesi
adulti in Italia: criticità e ipotesi didattiche.
1. Introduzione
Negli ultimi anni si è diffusa all’estero l’immagine dell’Italia non solo come un Paese di
cultura ma anche come il Paese della moda, della gastronomia e del buon vivere,
interessando alla nostra lingua e cultura un pubblico di stranieri sempre più vasto e
variegato tanto che, nonostante come numero di parlanti sia solo al 16° posto, l’italiano
è attualmente una lingua di grande richiamo e come L2 si attesta intorno al 4°-5° posto.
La nostra è quindi una lingua che, proprio perché studiata come seconda, terza o
quarta lingua, si studia spesso per scelta e non per necessità, si studia per il piacere di
avvicinarsi ad una grande cultura del passato ma anche per la sua immagine accattivante
di oggi.
Questo fenomeno è presente anche in Giappone dove, oltre alle motivazioni
culturali e strumentali di studio o di lavoro, è molto forte anche la domanda di italiano
legata ai diversi prodotti enogastronomici o del Made in Italy, e l’immagine della lingua
italiana è così forte che le stesse città giapponesi sono costellate di insegne che
riportano italianismi o psudo-italianismi (cfr. Vedovelli 2009).
A proposito della domanda di lingua italiana e quindi delle motivazioni sottostanti,
Zamborlin (2006 a) suddivide gli apprendenti giapponesi in esteti, persone motivate
dalla curiosità verso un Paese percepito come affascinante sotto il profilo artistico e
paesaggistico, tecnici, apprendenti con motivazioni di tipo strumentale legate allo studio
o al lavoro, e consumatori, persone attratte dai più diversi prodotti italiani, dalla moda al
calcio, dalla cinematografia al design, dall’enogastronomia all’opera lirica.
In linea con questa tendenza, in Giappone sono ormai presenti corsi di italiano in
molte università e scuole di lingua1 e molti sono gli apprendenti adulti che vengono in
Italia per un periodo di soggiorno che unisca turismo di qualità e studio della lingua.
Gli studenti giapponesi che studiano italiano nel nostro Paese sono quindi
normalmente adulti o giovani adulti che vengono in Italia per frequentare un corso di
lingua, con un livello medio di formazione e cultura comunque elevato in quanto nella
maggioranza dei casi si tratta di laureati che nel loro percorso formativo hanno
conseguito anche una competenza linguistica quanto meno scolastica in lingua inglese.2
Una volta inseriti in un corso di lingua in Italia, gli studenti nipponici - sia che si
trovino per la prima volta ad affrontare lo studio della lingua e cultura italiana, sia che
abbiano già iniziato questo studio nel loro Paese in classi omogenee dal punto di vista
linguistico e culturale con un contatto virtuale con l’italiano e la sua cultura perché
limitato al solo contesto formativo - si ritrovano in un contesto eterogeneo in classi
multilingue dove emergono spesso forti differenze rispetto agli studenti europei o
nordamericani che affollano questi corsi, differenze dipendenti da svariati fattori di
ordine linguistico e culturale che spesso condizionano pesantemente il processo di
apprendimento, rallentandolo.
1
E’ possibile trovare un’esaustiva descrizione del panorama dei corsi di lingua italiana
in Giappone in Paolo Calvetti, 2009.
2
Da un questionario riempito da 72 giapponesi adulti e giovani adulti a Roma per un
periodo più o meno lungo, emerge nella quasi totalità dei casi una formazione a livello
universitario; la maggior parte degli informanti ha dichiarato inoltre di possedere una
competenza in lingua inglese, il cui studio è obbligatorio nel sistema scolastico
giapponese, e solo 25 informanti hanno dichiarato una competenza in altre lingue oltre
l’inglese e l’italiano.
2
Questo articolo analizza i diversi aspetti che caratterizzano l’apprendente
giapponese adulto rispetto ad altri studenti di diversa provenienza, tracciandone il
profilo dal punto di vista cognitivo, culturale, neurolinguistico e pedagogico e
ipotizzando delle linee di intervento didattico che facilitino il processo di insegnamentoapprendimento.
2. Aspetti teorici
La lingua è cultura e nell’apprendimento dell’italiano L2/LS da parte di apprendenti
giapponesi questi studenti si trovano esposti ad una lingua e una cultura che si
presentano molto diverse da quelle d’origine.
Rispetto all’apprendimento nel Paese d’origine, in Italia il discente si troverà in una
situazione di immersione e avrà maggiori occasioni di esposizione alla lingua e alla
cultura target. Anche se il contesto di apprendimento misto è sicuramente un vantaggio,
grazie alla ricchezza degli stimoli sia in senso qualitativo che quantitativo, questo non
vuol dire però che la lingua e la cultura target siano sempre di facile decodifica, proprio
per la provenienza distante sia in termini linguistici che culturali.
Compito del docente di lingua LS/L2 è facilitare l’apprendimento, mettendo al centro
del suo intervento la persona, con i suoi bisogni e le sue caratteristiche. Obiettivo ultimo
del processo di insegnamento/apprendimento è rendere lo studente autonomo attraverso
lo sviluppo della competenza metacognitiva, in modo che esso stesso sia attore del
proprio processo di apprendimento: l’apprendente, con l’aiuto del docente, dovrà quindi
sviluppare quella capacità di ‘imparare ad imparare’ che gli permetterà di mantenere
vivo, anche una volta che il corso sarà terminato, il suo processo di apprendimento, in
un’ottica di life-long learning.
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Sappiamo che se in generale l’adulto non è disposto a mettere in discussione se
stesso, esso è portatore di un patrimonio di conoscenze enciclopediche che è molto
importante riuscire a valorizzare ai fini didattici, e che quindi l’apprendimento è
funzione di numerose variabili, tra cui la motivazione, la disponibilità ed attitudine ad
apprendere, l’esperienza pregressa, sia scolastica e di apprendimento in generale sia
personale, gli stili cognitivi - ovvero il modo in cui vengono percepiti, organizzati ed
elaborati gli stimoli provenienti dall’ambiente - e gli stili di apprendimento - ovvero le
strategie di acquisizione, di lettura e di memoria utilizzate nel processo di
apprendimento. Oltre a questi aspetti, entrano in gioco anche i condizionamenti di tipo
culturale, compresi i tabù e i modelli educativi tipici della cultura di appartenenza.
In un contesto di apprendimento formale di adulti e giovani adulti è quindi
essenziale, nel pieno rispetto della persona, tenere conto delle caratteristiche e dei
bisogni degli studenti, e valorizzare le occasioni di esposizione alla lingua viva e le
esperienze vissute al di fuori della classe, anche chiarendo eventuali dubbi che potranno
sorgere relativamente alle divergenze tra la lingua standard insegnata nel corso e le
forme colloquiali e sub-standard che gli studenti incontreranno nella vita di tutti i giorni.
Il processo di insegnamento-apprendimento deve comunque rispettare le sequenze di
acquisizione che si verificano in contesto di apprendimento spontaneo. Nel processo di
apprendimento lo studente elabora delle ipotesi circa le regole di funzionamento della
lingua target e – a meno che si determini il fenomeno della fossilizzazione, spesso
dovuta al mancato riconoscimento di nuovi bisogni comunicativi – egli costruisce e
ristruttura continuamente la sua interlingua, ovvero il sistema di regole che
costituiscono la sua personale grammatica della L2 che via via lo avvicina alla lingua
target, permettendo una comunicazione sempre più efficace.
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La linguistica acquisizionale, la prospettiva di studio che si occupa
dell’apprendimento linguistico in contesto spontaneo, ha messo in evidenza
l’articolazione in fasi del processo di apprendimento. Queste fasi, che caratterizzano il
processo di acquisizione della lingua, si presentano in un ordine implicazionale che è
comune a tutti gli apprendenti, indipendentemente dalla tipologia linguistica di
provenienza; il docente deve tenerne conto in modo che la proposta didattica sia
comunque in linea con i processi cognitivi dell’apprendente.
Se quindi l’ordine delle sequenze di acquisizione non cambia, la linguistica
acquisizionale ha però messo in evidenza che la distanza tipologica tra la L1 e la L2 è
un aspetto critico che condiziona pesantemente l’apprendimento. Tanto più la LM e a
LT sono tipologicamente lontane, tanto più l’apprendente incontrerà difficoltà
nell’apprendimento, mentre più la LM e a LT sono tipologicamente vicine, più i
meccanismi di funzionamento della lingua obiettivo saranno individuati e appresi con
facilità, spesso con acquisizione spontanea.
E’ importante sottolineare che l’apprendente costruisce le sue ipotesi sul
funzionamento della lingua target partendo non solo dalla L1 ma dalle sue conoscenze
linguistiche ovvero dalla sua competenza linguistica complessiva che è data non solo
dalla competenza in L1 ma dall’insieme dei sistemi linguistici precedentemente
appresi.3
Dobbiamo quindi trovare un punto da cui partire per avviare il processo di
insegnamento-apprendimento, e questo non può che essere dato dall’insieme di
conoscenze linguistiche e culturali dell’apprendente, ovvero dalla sua enciclopedia,
3
A questo riguardo dobbiamo però dire che se è vero che nel sistema scolastico
giapponese è obbligatorio lo studio dell’inglese, raramente il contatto con questa lingua
avviene attraverso lo stimolo di conoscenze procedurali e l’insegnamento avviene
soprattutto con metodo grammaticale-traduttivo (cfr. Nannini 2009).
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dalla sua conoscenza del mondo, e da qui partire per stimolare il processo di
apprendimento. Talvolta queste conoscenze possono essere fuorvianti o essere solo
stereotipi ma sono comunque lo strumento che l’apprendente utilizza nel suo processo
di apprendimento, che a sua volta porterà ad una ristrutturazione delle sue conoscenze,
in un processo ciclico.
Poiché le competenze linguistiche relative alla L1 hanno un ruolo fondamentale nella
formazione delle ipotesi circa il funzionamento della lingua target, può essere d’aiuto
conoscere almeno per grandi linee le caratteristiche della lingua giapponese per avere
un’idea più chiara di quali difficoltà incontrino questi apprendenti.
3. Principali caratteristiche morfosintattiche della lingua
giapponese
Descrivere in poche pagine una lingua non è certamente possibile, ma è possibile
individuare alcuni aspetti che differenziano profondamente il sistema linguistico
giapponese da quello italiano, aspetti che danno una misura di quanto queste due lingue
siano tipologicamente lontane e che incidono profondamente nel momento del contatto
con la lingua italiana e la relativa cultura.
Il giapponese è una lingua agglutinante nella quale si uniscono elementi invariabili –
quali radici di verbi e di aggettivi, sostantivi, avverbi, particelle – e suffissi, variabili e
non. Questi suffissi si uniscono agli elementi invariabili senza modificarsi, assumendo
una funzione grammaticale alla volta. Conseguentemente non ci sono preposizioni e la
lingua è costruita grazie ad un sistema di suffissi che vengono posposti agli altri
elementi - sostantivi, aggettivi, verbi, pronomi, avverbi ecc. - determinandone la
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funzione e il valore grammaticale; questo sistema di suffissi permette di rappresentare e
gestire il sistema di rapporti tra i vari elementi della frase.
Oltre ai diversi suffissi utilizzati all’interno della frase, sono presenti anche suffissi
utilizzati alla fine della frase che oltre a sostituire la punteggiatura, ad esempio il punto
interrogativo, permettono di esprimere anche lo stato d’animo del parlante. Talvolta
vengono utilizzati il punto interrogativo e il punto esclamativo ma si tratta di esotismi
esterni al sistema linguistico.
La lingua scritta è un sistema misto, dove con gli ideogrammi di origine cinese
convivono due alfabeti sillabici: i suffissi - variabili e non - vengono resi con uno di
questi due alfabeti (cfr. capitolo Aspetti neurolinguistici della lingua giapponese parlata
e scritta);
Il sistema vocalico è composto da cinque vocali, e diversi sono le consonanti e i
gruppi consonantici dell’italiano che mancano nella lingua giapponese.
L’unità fonetica base è la sillaba, composta da una vocale o da una consonante e una
vocale (cfr. id.) e l’unica consonante a fine parola è la N.
Questo fa sì che, oltre ad avere difficoltà nella pronuncia di alcuni suoni mancanti nella
loro lingua, i giapponesi trovano problematico pronunciare parole straniere che
terminano con una consonante. Molte parole straniere importate vengono adattate alla
fonetica locale pronunciando una O o una U deboli dopo la consonante, ad esempio la
parola inglese BED è stata adattata e trasformata in BEDDO.
A differenza dell’italiano, l’accento è tonale e non intensivo ma come l’italiano
anche il giapponese è una lingua ad isocronia sillabica.
L’ordine della frase è SOV con il verbo, la copula o predicato aggettivale sempre alla
fine della frase. Altra caratteristica fondamentale è che il giapponese è una lingua a
topic, basata sulla struttura tema-rema, topic-comment, a differenza dell’italiano che è
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invece una lingua a soggetto. Questo talvolta può rappresentare per l’apprendente una
difficoltà non trascurabile a livello cognitivo. Il tema, l’argomento del discorso, non
solo può non coincidere con il soggetto grammaticale, ma può coincidere anche con
altri complementi. Il tema è ciò di cui si parla, “in quanto a…” ed è marcato dal
suffisso WA, mentre il soggetto grammaticale è marcato dal suffisso GA.
Questa struttura fa sì che esistano frasi con un doppio soggetto. Ad esempio la frase
“oggi il tempo è bello” in giapponese diventa:
Kyoo WA tenki GA ii (desu)
Oggi WA tempo GA buono (è)
in quanto ad oggi il tempo (è) buono
dove ‘buono’ si riferisce sia al tempo che ad oggi.
Dalla struttura WA… GA…, e dal fatto che tutti gli elementi che modificano il nome lo
precedono, discende che la frase relativa – che modifica il nome cui si riferisce – lo
precede e che quindi non esistono pronomi relativi.
Il nome non è accompagnato dall’articolo e non ha né numero né genere, i quali
vengono espressi con apposite costruzioni. Non essendoci articoli, per un giapponese è
difficile comprendere che in italiano questi hanno una funzione e conseguentemente il
loro uso risulta particolarmente critico4.
L’aggettivo viene coniugato in modo simile al verbo, e come il verbo ha il tempo,
passato o non passato; un aggettivo da solo può formare un sintagma verbale, senza
essere accompagnato da nessun verbo. Quindi il corrispondente giapponese del nostro
verbo essere in realtà ha una funzione non sovrapponibile a quella della nostra copula.
4 Cfr. Mika Maruta, Acquisizione e uso degli articoli dell’italiano da parte di studenti
giapponesi, in Silvana Ferreri (a cura di) Plurilinguismo, multiculturalismo,
apprendimento delle lingue: confronto tra Giappone e Italia, Viterbo, Settecittà, 2009.
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I pronomi solo in parte si differenziano per il genere e anche in questo caso per
indicare il numero si ricorre ad apposite costruzioni; inoltre non esistono pronomi
negativi.
Il soggetto è normalmente sottinteso e c’è una tendenza generale a sottintendere, in
particolare quanto già si sa, e poiché sostantivi e verbi non veicolano l’informazione del
genere e del numero, una frase giapponese può sembrare ai nostri occhi molto meno
esplicita della corrispondente frase italiana.
La frase è sempre costruita tenendo conto del contesto relazionale. In accordo con il
contesto e i rapporti che legano le persone, cambiano vari elementi dando luogo al
linguaggio onorifico, umile, cortese o piano; sono presenti anche suffissi tipici del
linguaggio femminile e del baby-talk. Ad esempio uno studente più giovane si rivolgerà
allo studente anziano con linguaggio cortese, mentre quest’ultimo si rivolgerà al più
giovane con linguaggio piano (neutro). A fronte di un uso così codificato dei diversi stili
nella propria lingua, talvolta gli apprendenti giapponesi si trovano in difficoltà davanti
alla scelta piuttosto variabile, con differenze spesso marcate anche tra una regione e
l’altra, fatta dagli italiani tra il tu e il Lei.
I verbi non distinguono persona e numero ma tempo, aspetto, diatesi e modalità,
ovvero l’atteggiamento del parlante verso i fatti o le azioni espresse dal verbo
(asserzione, congettura, possibilità, convinzione, ecc.). I tempi verbali sono solo due,
passato e non passato, e un verbo è sempre accompagnato da un complemento. Anche
se il verbo non indica persona e numero, c’è una forte tendenza ad omettere i pronomi e
il soggetto. E’ evidente quanto possa apparire complesso il sistema verbale italiano.
La copula DESU ha una funzione diversa dal verbo essere in italiano, non è un’unità
autonoma e indica equivalenza più che esistenza; una frase è grammaticalmente corretta
anche con il solo aggettivo e DESU viene usato per marcare come linguaggio cortese
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una frase che grammaticalmente non ha bisogno della copula. Inoltre l’esistenza è
espressa con un verbo diverso se si tratta di persone o animali o se si tratta di cose
inanimate o animali morti.
Da queste poche notazioni è evidente quanto le due lingue siano profondamente
diverse e quali difficoltà di apprendimento ne possano derivare. Ma oltre alle difficoltà
puramente linguistiche dobbiamo tenere anche conto degli aspetti culturali.
4. Cultura e lingua
L’apprendimento dell’italiano in età adulta fa sì che, rispetto a quello che avviene
con i bambini, ci sia un forte legame identitario e psicologico con la lingua e la cultura
di partenza, legame che può innescare un forte filtro affettivo, limitando
l’apprendimento della L2. Questo è particolarmente vero quando la lingua e la cultura
target sono molto distanti da quelle di partenza, per cui nel momento del contatto con la
nuova lingua e cultura , invece del nascere di una terza cultura autonomamente scelta e
costruita dal soggetto, si può verificare una reazione di rifiuto.
Rifacendoci al noto modello di Hofstede, la cultura – intesa nel più ampio senso del
termine - è definibile come la programmazione collettiva della mente, programmazione
che inizia dalla più tenera infanzia nella famiglia e continua nella scuola e nella
comunità di appartenenza. La cultura in quanto condivisa è quindi un fenomeno
collettivo e in essa rientrano anche gli aspetti più quotidiani ed ordinari che
caratterizzano una collettività: i saluti, il cibo, il mostrare o meno i sentimenti, la
distanza fisica tenuta dall’altro e tutti gli aspetti fisici, compresi quelli afferenti la sfera
sessuale e l’igiene personale. Al centro di una cultura vi sono i valori, tendenze generali
a preferire un certo stato di cose rispetto ad un altro. I valori non sono visibili e quindi
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osservabili ma lo diventano nel momento in cui si estrinsecano in pratiche – simboli,
eroi e riti – che sono quindi manifestazioni visibili della cultura.
Come vedono la nostra cultura i giapponesi rispetto alla propria? Al di là del fascino
esercitato dal Made in Italy o dalla nostra arte, come ci percepiscono? Ridurre in poche
pagine un confronto culturale come questo è sicuramente riduttivo, ma l’argomento è
però rilevante ai fini dell’argomento di questo lavoro.
Sollecitata in merito a questo aspetto, una studentessa giapponese ha definito la sua
cultura come una linea continua e quella italiana come una linea formata da punti: nella
sua cultura le persone sono tra loro tutte collegate, come se si tenessero per mano,
mentre nella cultura italiana ognuno fa riferimento a se stesso, ogni individuo è
indipendente dagli altri.
Hisayasu Nakagawa, studioso dell’Illuminismo francese, in Introduzione alla cultura
giapponese, saggio di antropologia reciproca, (2005) parlando delle differenze che
intercorrono tra la cultura giapponese e quella francese fa una descrizione analoga:
A Parigi, la buona volontà giapponese non esiste.
Per esempio, quando ero professore in un' università parigina, a volte dovevo necessariamente
mettermi in contatto con un responsabile della segreteria. E la segreteria di quella università è
come un alveare, con uffici tutti indipendenti gli uni dagli altri. Telefonavo a quel tale, ed era
spesso assente. Era sostituito da una segretaria che, quando lui non c'era, era a sua volta
uscita. Per sapere quando sarebbe tornata, telefonavo ad altre persone, che sempre mi
rispondevano: «Non so».
All'università giapponese dove attualmente lavoro, invece, la segreteria della facoltà di Lettere è
insediata in un grande locale in cui lavorano una ventina di persone. Se qualcuno chiede
informazioni sul concorso di ammissione alla facoltà, e il o la responsabile è uscito/a, ci sarà
sempre qualcuno facente parte del personale di servizio o dell'economato che risponderà al suo
posto, dicendo perlomeno a che ora sarà possibile mettersi in contatto con la persona
desiderata. La segreteria reagirà dunque come un animale unicellulare, dotato di un'unica
volontà, laddove in Francia il suo omologo si comporta come un aggregato di numerosi animali
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dotati, ciascuno, di una volontà particolare. La differenza tra queste due segreterie si ritrova a
vari livelli di entrambe le società.
Questa organizzazione unicellulare giapponese, ciascun elemento della quale reagisce agli
stimoli esterni e in nome dell'organizzazione totale, veglia gelosamente a mantenere
l'uguaglianza di tutte le parti. In essa sono insomma riconoscibili l'egualitarismo e la democrazia
giapponesi, in cui regna l'uniformità. Tutti i giapponesi sono assai sensibili a questo clima
uniformatore e alla sua meravigliosa capacità di identificazione; e sono pronti ad adattarvisi
immediatamente. Tuttavia, in un clima siffatto non verrà per niente apprezzato che un individuo
si affermi come indipendente dalla totalità, la quale a volte darà prova di animosità verso colui
che se ne distingue.
Capita tuttavia di leggere nei giornali giapponesi l'elogio di ricercatori nipponici che hanno
ottenuto eccellenti risultati all'estero (in particolare premi Nobel) e constatare che i giornalisti
parlano con fierezza del successo giapponese. In realtà, però, questo fenomeno non fa che
tradurre il fallimento giapponese, dal momento che quei ricercatori non potrebbero manifestare
il loro talento nella società giapponese, il cui egualitarismo uniformatore esclude ogni forma di
originalità.
Nakagawa individua poi un’altra caratteristica della lingua/cultura giapponese che la
differenzia profondamente da quelle europee: il ‘lococentrismo’.
A differenza della lingua italiana dove l’”io” è un’entità definita a priori ed
indipendente dal contesto, in giapponese l’”io” è definito dal suo rapporto con l’altro.
Nakagawa fa il seguente esempio:
Supponiamo che un bambino sia spaventato da un grosso cane. Per rassicurarlo gli andrei
vicino e gli direi, in francese: «N'ayes pas peur, ne pleure pas, je suis avec toi (non aver paura,
non piangere, io sono con te)», In giapponese, gli direi invece, traducendo alla lettera: «Non
aver paura, non piangere, il tuo piccolo padre è con te», qualificandomi nei suoi confronti come
il suo piccolo padre (ojisan, in giapponese). L'''io'' è definito, in funzione della circostanza, dal
suo rapporto con l'altro: la sua validità è occasionale, al contrario di quanto accade nelle lingue
europee, dove l'identità si afferma indipendentemente dalla situazione.
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La stessa studentessa che ha definito la sua cultura come una linea continua e quella
italiana come una linea formata da punti ha manifestato deciso fastidio nei confronti di
quello che lei avverte come un continuo IO! IO! IO!
Queste osservazioni fanno pensare che la lingua italiana presenti delle caratteristiche
che per un giapponese possono comportare degli ostacoli all’apprendimento che vanno
ben al di là delle semplici difficoltà morfosintattiche e che il modo di vedere la realtà sia
caratterizzato in maniera profondamente diversa, comportando il rischio che si verifichi
un vero e proprio shock culturale e quindi una più o meno forte resistenza ad accettare
la cultura target.
A fronte di queste difficoltà, bisogna però dire che nella cultura giapponese è molto
rispettata l’immagine del maestro e dell’insegnante e tradizionalmente l’istruzione è
sempre stata tenuta in grande considerazione. Nell’Era Tokugawa (1603-1867), quando
il paese era completamente isolato dal resto del monto e la popolazione divisa in caste,
l’istruzione era ritenuta così importante da essere la chiave per l’ascesa sociale dalle
classi inferiori alla casta guerriera e dopo la Rivoluzione Meiji (1867-1868) che aprì il
Giappone all’Occidente una delle prime preoccupazioni del Governo fu proprio la
riforma scolastica che portò la percentuale della popolazione in età scolastica che
ottemperava all’obbligo dell’istruzione elementare dal 28% nel 1873 al 98% nel 19045.
Possiamo quindi dire che, come evidenziato dal passo di Nakagawa, la cultura
nipponica è caratterizzata da una forte tendenza ad uniformare, tendenza che talvolta si
scontra con i modelli glottodidattici più avanzati.
Per un apprendente giapponese adulto un modello didattico centrato sul docente,
vaso pieno che riempie i vasi vuoti rappresentati dagli studenti, caratterizzato da una
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Cfr. Michio Morishima, Cultura e tecnologia nel “successo” giapponese, Il Mulino, Bologna,
1982. Queste percentuali sono ancora più significative se paragonate con quelle italiane: nel
1906 in Italia solo il 53% dei bambini tra i 6 egli 11 si iscriveva alla scuola elementare (cfr. De
Mauro T., Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1963-1970).
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presentazione della grammatica deduttiva e dai classici esercizi di trasformazione, è
chiaramente più bene accetto e rassicurante di un modello che sposta il fulcro del
processo di apprendimento sull’apprendente, considerato il vero artefice del processo di
apprendimento, e che richiede un suo ruolo attivo in una classe intesa come universo di
socialità dove si realizzano quell’interazione sociale e quegli scambi comunicativi che
sono i veri fulcri del processo di apprendimento.
Infatti in Giappone il metodo di studio delle lingue straniere è essenzialmente
improntato al metodo grammaticale-traduttivo e al cosiddetto yakudoku (yaku tradurre,
doku leggere). Secondo Zamborlin (2003) lo yakudoku è più di un metodo, è uno stile
di apprendimento istituzionalizzato che viene appreso dagli studenti nei primi anni della
loro formazione scolastica e che condiziona l’approccio degli studenti giapponesi alle
lingue straniere. Lo yakudoku si presenta come una tecnica di lettura in lingua straniera
basata sulla comprensione di ogni singolo elemento della frase che viene quindi tradotta
parola per parola e poi riassemblata secondo l’ordine della frase giapponese.
Questa tecnica, così lontana da ogni approccio moderno alla lingua straniera vista
come strumento d’azione, nasce anche dalle vicende storiche di un Paese che, dopo
essere rimasto impenetrabile ad ogni scambio con l’esterno per oltre 250 anni, vedeva
nei testi tecnici e scientifici stranieri lo strumento per imparare dagli altri ed
ammodernarsi in breve tempo.
Tradurre parola per parola e ricostruire il significato in senso inverso fa perdere il
significato globale, sovverte tutte le scoperte fatte sui principi di bimodalità e
biderezionalità, e si basa sull’assunto – chiaramente non veritiero – che le differenze tra
due lingue possano limitarsi all’ordine sintattico dei rispettivi elementi. Questi limiti,
così evidenti nella lingua scritta, sono ancora più lampanti per l’ascolto, nel quale non è
chiaramente possibile ascoltare e ricostruire il senso a ritroso.
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Questi metodi e stili di apprendimento non sono stati sostituiti da altri più moderni
anche perché gli esami di ammissione all’università presentano esami di inglese basati
proprio su traduzioni dall’inglese al giapponese e test che mirano a valutare la
conoscenza delle regole grammaticali e non la competenza socio-linguistica e
pragmatica.
Però, come abbiamo visto, la figura dell’insegnante e l’istruzione in genere sono
tenuti in grande considerazione e quindi il docente può fare leva su questo aspetto per
rendere l’apprendente consapevole delle motivazioni per le quali ad un modello centrato
sul docente è preferibile un modello glottodidattico centrato sull’apprendente che miri al
saper fare con la lingua e non solo al sapere la lingua, anche se questo spesso può vuol
dire mettere in discussione e superare i modelli formativi vissuti nella propria
esperienza personale.
Ovviamente il docente dovrà raggiungere questo obiettivo in maniera graduale,
rispettando sempre lo studente nella sua individualità, quindi la cultura di provenienza,
il precedente percorso formativo e le sue esperienze.
Questo non vuol dire che gli esercizi grammaticali classici debbano essere banditi,
ma che, se gli esercizi di trasformazione possono trovare un valido utilizzo nella fase di
fissazione della regola o in quella di un eventuale rinforzo, la classe rimane il momento
centrale del processo di apprendimento, apprendimento che si realizza nel momento in
cui la lingua viene usata attivamente nell’esecuzione di attività linguistiche, quando
l’apprendente mette in atto tutte le strategie a sua disposizione per raggiungere uno
scopo comunicativo.
Da tutte le considerazioni fatte possiamo immaginare quanto lo studio dell’italiano
sia molto più complesso per un apprendente giapponese rispetto ad uno studente di
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lingua e cultura più vicine alla nostra. Egli si trova davanti un sistema linguistico e
culturale profondamente diverso sotto molti punti di vista e nell’incontro con il testo,
modello di lingua e stimolo all’apprendimento, si troverà in una posizione di svantaggio
rispetto agli altri studenti della classe, europei, anglofoni o ispanofoni, che invece
possono contare su un maggior numero di preconoscenze sia in termini di lessico, per la
presenza di un lessico comune alle lingue europee, sia in termini culturali, in quanto la
cultura di appartenenza condivide con la cultura italiana almeno una parte delle sue
radici, quali quelle giudaico-cristiane o greco-latine, permettendo quindi una più
immediata comprensione della cultura target.
Per gli apprendenti giapponesi - e specialmente per quelli che non hanno alcuna
competenza in altre lingue romanze o europee e nelle relative culture che possa fare in
qualche modo da tramite con la lingua e cultura target - il carico cognitivo, a parità di
contenuti, sarà nettamente superiore rispetto a quello degli studenti di origine
occidentale , in quanto molti saranno gli aspetti morfosintattici, lessicali e culturali che
appaiono nuovi e di difficile decodifica, per cui spesso non è sufficiente dire ‘in italiano
si dice così’ oppure ‘in Italia è così’.
In generale, nel processo di insegnamento, il docente deve scegliere con cura i
contenuti da presentare sotto tutti gli aspetti, linguistico, sociolinguistico, pragmatico e
culturale, in modo che gli elementi nuovi non siano preponderanti rispetto agli elementi
noti sì da bloccare il processo di formazione delle ipotesi sul funzionamento della
lingua. Però, in contesto formale in Italia, il docente spesso si trova a gestire una classe
multilingue e multiculturale prevalentemente formata da apprendenti che per la loro
provenienza si trovano in una posizione di vantaggio nella decodifica della lingua e
cultura target rispetto agli studenti di provenienza più distante; conseguentemente gli
apprendenti giapponesi, che nel gruppo classe rappresentano normalmente una
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minoranza, spesso si trovano in difficoltà e non sempre per il docente è agevole
conciliare le esigenze degli uni e degli altri.
Questa situazione rischia di avvalorare la convinzione diffusa tra i giapponesi di
avere una scarsa attitudine per l’apprendimento linguistico (cfr. Zamborlin 2003) e
quindi ridurre in partenza la motivazione all’apprendimento.
5. Aspetti neurolinguistici della lingua giapponese parlata e scritta
Un'altra prospettiva da tenere in considerazione è quella neurologica.
L’apprendimento in generale, e quindi anche l’apprendimento di una lingua, sia essa la
lingua madre o una lingua seconda o straniera, si realizza grazie allo strumento del
cervello: conoscere il suo funzionamento, poterlo vedere da dentro esplorando il
funzionamento dei circuiti neurali è essenziale per poter facilitare il percorso di
apprendimento. Per questo è fondamentale il ruolo delle neuroscienze che hanno
permesso di fare grandi passi avanti nella comprensione della mente umana e dei
processi di apprendimento, facendo chiarezza su convinzioni ereditate dal passato,
confermandone alcune e confutandone invece altre.
Un aspetto fondamentale del funzionamento del cervello che è stato chiarito grazie
alle neuroscienze è che non solo l’emisfero destro e l’emisfero sinistro sono
comunicanti - mentre un tempo si riteneva che non lo fossero - ma che essi comunicano
equilibrando in maniera complementare le loro funzioni.
In particolare è ormai da tutti riconosciuto che l’emisfero sinistro è specializzato nei
processi di elaborazione simbolica e analitica, compreso quindi il linguaggio, mentre
l’emisfero destro è specializzato in compiti di elaborazione spaziale e percettiva. Questa
17
lateralizzazione delle funzioni non è però assoluta e anche l’emisfero destro svolge un
ruolo importante ai fini del linguaggio, in particolare nella elaborazione del linguaggio
figurato e degli aspetti prosodici, quali l’intonazione e l’intensità. Ci si è chiesti allora
se le particolarità di un sistema linguistico possano influenzare il cervello e determinare
meccanismi di funzionamento peculiari, riscontrabili nei parlanti una certa lingua ma
non in popolazioni con diverso sistema linguistico e cultura. Questa è l’ipotesi
presentata da Tadanobu Tsunoda, un otologo giapponese che si è occupato fin dagli
anni ’60 del secolo scorso di ricerche sul funzionamento del cervello a fronte di stimoli
uditivi giungendo alla conclusione che i giapponesi elaborano tali stimoli in modo
diverso dagli occidentali a causa del loro particolare sistema linguistico che determina
una diversa distribuzione delle funzioni linguistiche tra i due emisferi.
5.1 Gli studi di Tsunoda sulla lateralizzazione degli stimoli uditivi nei
giapponesi
Tsunoda, analogamente ad altri studiosi, ha svolto ricerche sulla diversa risposta dei
due emisferi a stimoli sonori diretti alle due orecchie. Partendo dal presupposto che
l’orecchio destro è collegato con l’emisfero sinistro, ritenuto la sede del linguaggio,
mentre l’orecchio sinistro è collegato all’emisfero destro, ritenuto sede delle percezioni
globali e spaziali, Tsunoda ha sottoposto a test un gran numero di soggetti utilizzando
un’apparecchiatura appositamente progettata denominata Tsunoda key tapping test
apparatus che permette di verificare la reazione del soggetto ad uno stimolo uditivo.
L’apparato invia uno stimolo sonoro - un tono puro, un suono ‘bianco’ o una vocale
– ad entrambe le orecchie e il soggetto è invitato a replicarne il ritmo premendo un tasto
del Tsunoda key tapping test apparatus. Successivamente tale stimolo viene
gradualmente modificato per una delle due orecchie, ritardandolo o aumentandone
18
l’intensità rispetto all’altro orecchio e il soggetto viene invitato a continuare a replicare
il ritmo ignorando il secondo stimolo alterato. Via via che i due stimoli divergono,
emerge la difficoltà del soggetto di riprodurre correttamente il ritmo. Questi studi
condotti dal 1965 in poi hanno portato alla conclusione che nei giapponesi che vivono
in Giappone e che non sono esposti ad un’altra lingua di regola vi è predominanza
dell’emisfero destro per quanto riguarda l’elaborazione di toni puri e suoni bianchi, e
predominanza dell’emisfero sinistro per quanto riguarda invece le vocali, anche se una
certa percentuale dei soggetti studiati ha mostrato dati inversi e alcuni soggetti dati del
tutto asimmetrici. Inizialmente tali dati discordanti sono stati ritenuti dovuti a traumi,
ma poi si è visto che nei soggetti ritenuti normali è possibile modificare la dominanza
degli emisferi grazie a stimoli emotivi o sotto l’influenza di un’altra lingua.
Dopo alcuni anni, nel 1971, Tsunoda ebbe modo di confrontare i risultati dei suoi
studi con quelli dello studioso statunitense Liberman che aveva condotto ricerche
analoghe negli Usa. Tsunoda e Liberman scoprirono di essere pervenuti a risultati
divergenti riguardo l’emisfero coinvolto a fronte di stimoli vocali. Tsunoda, che aveva
studiato esclusivamente soggetti giapponesi, era arrivato alla conclusione che le vocali
erano processate con l’emisfero sinistro, mentre Liberman, che aveva studiato soggetti
occidentali, era arrivato alla conclusione che le vocali erano processate con l’emisfero
destro. Incuriosito dai risultati cui era pervenuto Liberman, Tsunoda ripeté i suoi
esperimenti con soggetti occidentali che vivano a Tokyo e giunse alle medesime
conclusioni del collega americano, ovvero che gli occidentali processano le vocali con
l’emisfero destro e non con l’emisfero sinistro come i giapponesi.
L’illustrazione seguente, fig. 1, tratta da Tsunoda T., 1985, The Japanese brain :
uniqueness and universality, mostra la lateralità dei giapponesi confrontata con quella
degli occidentali: la differenza principale riguarda appunto le vocali, il cervello
19
giapponese processa le vocali come un suono verbale e quindi con l’emisfero sinistro
mentre il cervello occidentale le processa come suono non verbale e quindi con
l’emisfero destro.
Fig. 1
Per capire se queste differenze fossero dovute a fattori genetici o
ambientali,Tsunoda ripeté i suoi esperimenti con giapponesi di seconda e terza
generazione che vivano all’estero, e la conclusione fu che questi soggetti presentavano
dominanza dell’emisfero destro per quanto riguardava le vocali, analogamente agli
20
occidentali. Si faceva quindi strada l’idea che questa differenza dovesse essere
determinata da aspetti linguistici e non da aspetti genetici, anche perché i giapponesi
che vivevano all’estero ma che avevano imparato la lingua giapponese prima dei nove
anni di età presentavano relativamente alle vocali una dominanza dell’emisfero sinistro
come i giapponesi in Giappone.
Altro risultato interessante fu che anche i giapponesi non vedenti, che quindi non
potevano né leggere né scrivere in giapponese, presentavano lo stesso schema dei
soggetti giapponesi normali, per cui la conclusione fu che questo particolare schema
cerebrale era dovuto alla lingua parlata e non alla lingua scritta.
Tsunoda arrivò alla conclusione che questa diversa lateralità riscontrata nei
giapponesi è dovuta alla particolare rilevanza delle vocali nella lingua giapponese. In
questa lingua – a parte la sola lettera N – nessuna consonante viene pronunciata da sola
(cfr. par. 3) , e i giapponesi hanno difficoltà a pronunciare correttamente le parole
straniere che presentano sillabe chiuse, mentre esistono un gran numero di parole,
sostantivi, aggettivi e verbi, composti da sole vocali, oltre a moltissime parole composte
da una vocale più una consonante più una vocale. Tsunoda si chiese quindi se
esistevano altre lingue con un analogo uso delle vocali e poiché la lingua polinesiana
presenta tali caratteristiche Tsunoda sottomise ai suoi test alcuni polinesiani e maori che
avevano imparato l’inglese dopo i nove anni di età, riscontrando la stessa
lateralizzazione normalmente evidenziata nei soggetti giapponesi.
Quindi Tsunoda ha concluso che sia per i giapponesi che per i polinesiani le
vocali sono suoni verbali e come tali vengono elaborati dall’emisfero sinistro, mentre
per gli occidentali le vocali sono suoni non verbali e quindi vengono elaborate
all’emisfero destro.
21
Inoltre Tsunoda è arrivato alla conclusione che se il soggetto viene esposto a due
suoni diversi contemporaneamente, per il nostro cervello il suono percepito come
verbale è predominante rispetto al suono percepito come non verbale: per i giapponesi
sia una sillaba che una vocale, percepite entrambe come stimoli sonori verbali,
risultano predominanti rispetto ad un tono puro o un suono bianco, mentre per un
occidentale la sillaba è predominante sia rispetto ai toni puri e ai suoni bianchi sia alle
sole vocali.
Successivamente Tsunoda, superando la prassi di laboratorio che utilizza per
questo genere di studi solo suoni artificiali, ha ripetuto i suoi test utilizzando suoni della
natura, quale il canto dei grilli, il rumore del vento o dello onde ed è giunto alla
conclusione che i giapponesi processano anche questi suoni con l’emisfero sinistro,
come se si trattasse di suoni con rilevanza verbale.
Nelle seguenti illustrazioni tratte da Tsunoda T., 1985, The Japanese brain :
uniqueness and universality è illustrata la diversa lateralizzazione dei suoni tra i due
emisferi così come si presenta nei giapponesi e negli occidentali.
22
Fig. 2 – Diversa lateralizzazione nei giapponesi e negli occidentali
23
Quindi Tsunoda ne ha dedotto che nei giapponesi l’emisfero sinistro (the Verbal
brain) è molto più carico di informazioni rispetto all’emisfero destro (the Musical brain)
rispetto a quanto si riscontra negli occidentali, i quali elaborano con l’emisfero sinistro
solo le parole e le sillabe, ovvero i suoni da loro percepiti come verbali.
In conclusione, questi studi dimostrano che la lateralizzazione delle funzioni
cerebrali non dipende solo da aspetti genetici, da meccanismi insiti nel cervello stesso,
ma che può essere modificata anche da fattori esterni, ambientali, quali la lingua parlata,
e che nella ricezione orale l’emisfero sinistro dei parlanti giapponesi in maniera diversa
da quello che avviene per i parlanti di altre lingue.
5.2 Peculiarità del sistema di scrittura giapponese
Le particolarità della lingua giapponese non si fermano però alla lingua parlata e
come Tsunoda si è occupato delle relazioni tra funzioni cerebrali e stimoli sonori, altri
studiosi si sono interessati agli aspetti neurologici connessi al particolare tipo di
scrittura di questa lingua.
Il sistema di scrittura della lingua giapponese si caratterizza per l’uso di tre sistemi
simbolici, il sistema dei Kanji o ideogrammi cinesi e i due alfabeti sillabici dei kana,
Hiragana e Katakana (fig.3)
24
Fig. 3 – da Mecacci L., 1984, Identikit del cervello
Questi tre diversi sistemi vengono usati nel giapponese scritto in combinazione tra
loro, insieme all’alfabeto latino e ai numeri arabi, non come sistemi alternativi, ma
congiuntamente, cosicché per scrivere e leggere questa lingua è necessario conoscere sia
il sistema degli ideogrammi cinesi che i due alfabeti sillabici Hiragana e Katakana, con
un notevole sforzo di apprendimento per i giapponesi stessi. L’impegno per dominare
un sistema così complesso è tale che la conoscenza degli ideogrammi è evidentemente
correlata al livello di scolarizzazione e di cultura del singolo.
Kana
A differenza dei kanji che rappresentano un concetto, i kana sono caratteri grafici
che rappresentano una sillaba formata da una vocale o da una consonante più una
vocale, e a parte limitate eccezioni vi è una perfetta corrispondenza biunivoca tra segno
grafico e pronuncia. Esistono due alfabeti sillabici, Hiragana e Katakana (fig.3),
perfettamente equivalenti nel rappresentare le sillabe ma diversi nell’ambito uso: il
sistema sillabico Katakana è usato per la trascrizione di parole straniere, compresi i
nomi propri, nonché per dare enfasi a frasi o singole parole, analogamente a quanto
25
avviene per l’italico o il grassetto nelle lingue occidentali, mentre il sistema sillabico
Hiragana è utilizzato in tutti gli altri casi in cui si scrive una sillaba e non un Kanji.
Kanji e kana sono entrambi indispensabili: se è vero che si può scrivere qualsiasi parola
in kana – cosa che però di fatto fa solo un bambino all’inizio della prima elementare –
non tutto può essere scritto in kanji.
Fig. 3 – Hiragana e Katakana
26
In generale il sistema sillabico Hiragana è utilizzato per rappresentare congiunzioni
e morfemi grammaticali (suffissi, flessioni verbali). Alcune parole, ad esempio alcuni
avverbi, possono essere scritte con uno o più kanji più un kana, o interamente con i
kana, operando una scelta di tipo stilistico: in ambito formale si preferisce l’utilizzo
degli ideogrammi, in ambito informale si ricorre più facilmente ai kana. Solo alcune
parole possono essere rese con un solo ideogramma, normalmente una parola viene resa
con due o più ideogrammi, e solo alcune parole vengono scritte in kana perché non
esiste un kanji corrispondente. Questo sistema Kanji/Kana è quindi caratterizzato da un
effetto legato al ruolo delle diverse componenti, dove i kanji rappresentano sostantivi o
radici di verbi e aggettivi e i kana rappresentano morfemi grammaticali.
Anche se qualsiasi parola può essere scritta in kana, scrivere in kana ciò che è
scritto normalmente in kanji porta ad un effetto di straniamento e spesso a difficoltà di
comprensione del testo, anche perché un’altra peculiarità del giapponese scritto è il non
utilizzo degli spazi tra una parola e l’altra, per cui non è possibile applicare al
giapponese la definizione di parola come “ciò che appare tra due spazi”. Proprio perché
è difficile definire cosa si intende per parola, in ambito accademico si parla di saggi di
un determinato numero di caratteri, così come in occidente si parla di saggi di un
determinato numero di parole.
Un’altra caratteristica peculiare del giapponese è la possibilità di essere scritto
indifferentemente sia verticalmente dall’alto verso il basso procedendo da destra verso
sinistra, sia secondo l’ordine occidentale, in orizzontale, da sinistra a destra e dall’altro
verso il basso. La scelta dipende da molti fattori, tra cui il grado di formalità del testo,
l’età dello scrivente o il contesto, ad esempio scolastico o letterario.
27
Kanji
Kanji significa letteralmente caratteri (Ji) degli Han (Kan) ed infatti il sistema degli
ideogrammi è stato mutuato dalla dinastia cinese Han a partire dal V secolo d.C.
I giapponesi non avevano un sistema di scrittura proprio ed adottarono il sistema di
scrittura cinese adattandolo alla grammatica e alla fonetica proprie. Nel tempo poi Cina
e Giappone hanno semplificato in modo diverso gli ideogrammi e attualmente gli
ideogrammi giapponesi sono più vicini al cinese classico di quanto non lo siano gli
ideogrammi attualmente utilizzati in Cina.
Un kanji normalmente non rappresenta una parola, ma un concetto, ovvero un kanji
è portatore di un significato, con trasparenza semantica. Solo in alcuni casi per scrivere
una parola è sufficiente un solo ideogramma, normalmente ogni parola è composta da
due o più ideogrammi, ed un kanji può essere utilizzato per indicare la radice di un
verbo o di un aggettivo.
I kanji hanno due ordini di lettura dette on-yomi (lettura on) di origine cinese e kunyomi (lettura kun) di origine giapponese. La lettura on deriva dalla lettura cinese dei
kanji ed è utilizzata nei composti ovvero nelle parole formate da più di un ideogramma.
La lettura kun viene utilizzata quando l’ideogramma viene utilizzato come parola
autonoma a sé stante. In pratica la lettura on di origine cinese viene utilizzata per
formare i composti, così come nelle lingue europee vengono utilizzati elementi latini e
greci.
Un esempio può essere rappresentato dalle seguenti parole giapponesi:
28
Parola
Pronuncia
in kanji
恐水病
kyoosuibyoo
Significato
Corrispondente
Etimologia
Corrispondente
letterale
inglese
inglese
italiano
Paura-acqua-
hydrophobia
Greco
idrofobia
aquarium
latino
acquario
water wheel
anglosassone
ruota idraulica
malattia
水族館
suizokukan
Acqua-famigliacostruzione
水車
suisha
Acqua-ruota
In tutte e tre queste parole composte appare, abbinato ad altri, il kanji 水, acqua,
portatore della lettura on-yomi ‘sui’ e della lettura kun-yomi ‘mizu’. Il meccanismo di
creazione delle parole con più di un ideogramma è particolarmente evidente nella
traduzione del termine italiano idrofobia, 恐水病, kyoosuibyoo, composto dagli
ideogrammi paura-acqua-malattia, dove appare evidente la trasparenza semantica degli
ideogrammi.
Sempre in relazione all’aspetto semantico, un'altra particolarità dei kanji è di essere
classificati in base ai radicali. Un radicale è una parte del kanji la quale deriva da un
altro kanji (in taluni casi radicale e kanji coincidono), può essere un kanji stilizzato, o
scritto in piccolo. Il radicale è fondamentale sia per la classificazione del kanji sia
perché è la parte che dà al kanji il valore semantico. Ad esempio l’ideogramma 水,
acqua, come radicale viene stilizzato in 氵 e tutti gli ideogrammi che lo comprendono
hanno una qualche relazione con l’acqua. Ad esempio il kanji 流 che contiene questo
radicale indica la corrente.
La figura 4, tratta da Paradis Michel, Hagiwara Hiroko, Hildrebrandt Nancy, 1985,
Neurolinguistic Aspects of the Japanese Writing System, illustra diversi casi che
29
normalmente si possono presentare, parole composte da un solo kanji, parole composte
da un kanji più un suffisso in hiragana, parole composte da due kanji più un suffisso in
hiragana, parole composte da due kanji, parole composte da due kanji con lettura
‘irregolare’, abbinando la lettura on e la lettura kun.
Fig. 4
Però la regola un ideogramma/un significato/una lettura on/una lettura kun non è
sempre vera, e molti ideogrammi hanno più di una lettura con una diversa accezione e
30
dei 2000 caratteri principali, quasi tutti hanno almeno una lettura On e il 38,1 % non ha
la lettura Kun.
La relazione tra carattere, suono e significato quindi in realtà è molto complessa e,
come evidenziato dalla fig. 6 tratta da tratta da Paradis Michel, Hagiwara Hiroko,
Hildrebrandt Nancy, 1985, Neurolinguistic Aspects of the Japanese Writing System , si
possono presentare numerosi casi:
(1) parole scritte con un solo carattere
(2) parole composte da più caratteri semanticamente trasparenti con lettura
regolare
(3) parole composte da più caratteri semanticamente trasparenti con lettura
arbitraria
(4) parole composte da più caratteri con significato e lettura entrambi arbitrari
(5) parole composte da più caratteri con lettura regolare (fonetica) e significato
arbitrario
(6) casi ibridi, con lettura parzialmente irregolare.
31
Fig. 4
32
Di fatto un parlante giapponese sceglie la lettura attivando una serie di strategie
anche in base al contesto. L’importanza del contesto per scegliere la pronuncia corretta
è dimostrata anche dai numerosi studi condotti riguardo il modo in cui un soggetto
giapponese legge un ideogramma a sé stante. Di fatto questi studi hanno concluso che il
soggetto decide come leggere un ideogramma a sé stante scegliendo per ogni singolo
carattere la lettura più frequente tra Kun e On, oppure in una lista di caratteri sempre la
lettura Kun o la On, se entrambe disponibili, oppure chiedendo all’esaminatore quale
leggere. Questo dà una misura di quante elaborazioni e scelte debba effettuare un lettore
giapponese davanti al testo scritto, sia per leggerlo sia per produrlo. Anche tralasciando
i casi più complessi e considerando solo le parole semanticamente trasparenti con
pronuncia regolare, per scrivere e leggere il giapponese gli ideogrammi sono essenziali
e non è possibile scrivere con i soli kana in quanto questa lingua è particolarmente ricca
di omofoni. Questo perché le pronunce on usate per i composti, di origine cinese, sono
monosillabiche o al massimo bisillabiche e conseguentemente esistono moltissimi
omofoni. Quindi se un kanji rappresenta chiaramente il significato, esistono molti
ideogrammi con stessa pronuncia ma significato diverso che combinandosi tra loro
danno origine a parole omofone con significati assai diversi. Ad esempio in un
vocabolario medio sono riportate otto parole che si leggono ‘kooki’, ma che, composte
da ideogrammi diversi, hanno significati completamente diversi. Ad esempio entrambe
le parole 後期 e 好機 si leggono ‘kooki’ ma la prima significa secondo semestre e la
seconda vuol dire invece buona occasione. Quindi oltre a pensare il suono è necessario
pensare anche il ‘disegno’ corrispondente per poter richiamare alla mente il
corrispondente significato.
Ma come viene elaborato tutto questo a livello celebrale? Adesso, con i progressi
fatti in campo neurologico, sappiamo che se un giapponese pronuncia un ideogramma,
33
non solo dovrà pronunciarlo con l’emisfero sinistro, ma dovrà anche immaginarlo con il
destro, mentre con una lingua occidentale è coinvolto il solo emisfero sinistro. Questa
lateralizzazione dei giapponesi apparve evidente già nel 1914 quando venne scoperto un
caso di afasia di un uomo giapponese colpito da una lesione dell’emisfero sinistro. Il
paziente aveva perso la capacità di leggere i kana ma avendo l’emisfero destro intatto
poteva leggere i kanji. In seguito sono stati condotti numerosi studi a questo riguardo
che hanno confermato questa diversa lateralizzazione, anche se alcuni studiosi ritengono
che la dominanza dell’emisfero destro valga solo per i kanji che rappresentano cose
concrete, e non per i kanji che rappresentano concetti astratti. A tale conclusione è
giunto lo studio di Jeffrey L. Elman, Kunitoshi Takahashi and Yasu-Hiko Tohsaku,
Department of Linguistics, University of California, San Diego, USA, Lateral
asymmetries for the identification of concrete and abstract Kanji. Questi stessi autori
inoltre ritengono che aggettivi e verbi sarebbero elaborati dall’emisfero sinistro.
Quindi, anche se alcuni aspetti devono ancora essere chiariti, possiamo dire che
anche per quanto riguarda il linguaggio scritto, la lateralizzazione dei giapponesi è
diversa da quella degli occidentali, e ciò conferma ancora una volta l’influenza di fattori
esterni sui meccanismi delle funzioni cerebrali.
Queste considerazioni sugli aspetti neurolinguistici della lingua giapponese parlata e
scritta delineano meccanismi di funzionamento diversi riguardo il modo di concepire
una lingua e una diversa lateralizzazione degli emisferi cerebrali rispetto a quanto
avviene per gli occidentali. In particolare l’emisfero sinistro elabora come linguistiche
più informazioni e quindi risulta più impattato rispetto a quanto avviene in un
occidentale.
34
6. Ipotesi didattiche
Come per noi italiani il Giappone appare un Paese esotico, così agli occhi dei
giapponesi il nostro appare un Paese lontano e diverso che offre di sé un’immagine
positiva stimolando l’interesse e la curiosità. Spesso è proprio la curiosità che porta
l’apprendente ad avvicinarsi alla nostra lingua e cultura, curiosità per i più diversi
aspetti, quali ad esempio la moda, la cucina, il paesaggio, l’arte, l’architettura.
Come abbiamo visto, però, l’apprendente giapponese proviene da un sistema
linguistico e culturale molto diverso dal nostro, e molto diverso anche da quello degli
altri apprendenti europei o anglofoni che compongono la classe in cui egli si trova
inserito. Questo lo mette in una condizione di difficoltà in quanto tanti aspetti linguistici
e culturali che gli altri studenti almeno in una certa misura colgono con una certa facilità
o addirittura condividono con la lingua e cultura target, per un giapponese sono di
difficile decodifica.
La moderna glottodidattica, in linea con il Framework, pone al centro del processo
di apprendimento il discente, con i suoi bisogni e le sue caratteristiche, ma in questo
caso ci troviamo davanti a studenti che a causa della loro provenienza linguistica e
culturale così diversa presentano caratteristiche ed esigenze spesso molto diverse.
Non si tratta però di tornare indietro e rinunciare alla classe: questa, universo di
socialità, rimane comunque il momento centrale del processo di apprendimento. Si tratta
invece di dare risposte a queste esigenze particolari salvaguardando quelle dell’intera
classe e lavorare su ipotesi didattiche che facilitino per quanto possibile il grande sforzo
richiesto a questi studenti nell’apprendimento della nostra lingua, senza rinunciare agli
stimoli sia linguistici che culturali che la dimensione sociale dell’apprendimento offre.
35
6.1 - La motivazione
La motivazione può essere definita come l’insieme di quei fattori personali che
fanno sì che un soggetto decida di iniziare e continuare nel tempo un determinato
comportamento diretto al raggiungimento di uno scopo. Se ci atteniamo a questa
definizione, la motivazione non è immutabile nel tempo e può essere ricondotta
essenzialmente a tre aspetti (cfr. Balboni, 2002):

il dovere

il bisogno

il piacere
Anche solo per esperienza personale sappiamo tutti che quando lo studio è imposto
per dovere, le informazioni apprese restano nella nostra disponibilità solo per il tempo
del test o dell’esame per poi svanire: sono rimaste nella memoria a breve termine senza
passare nella memoria a lungo termine.
Anche il bisogno non è il miglior motore per la motivazione, è necessario
innanzitutto che venga percepito e agisce solo fin quando esso sussiste: nel momento in
cui ritengo di averlo soddisfatto ecco che il mio impegno viene meno.
Solo la motivazione intrinseca legata al piacere di realizzarsi e di realizzare il
proprio progetto di vita può sostenere un impegno duraturo e protratto nel tempo.
Per sostenere la motivazione è importante fare leva sul piacere di apprendere,
evitando di sottolineare e sanzionare l’errore che deve essere invece presentato come il
normale e naturale prodotto di un processo che si basa su tentativi ed inevitabili errori.
Come abbiamo visto molti studenti giapponesi si avvicinano alla nostra lingua spinti
dalla curiosità per la moda, la cucina, l’arte. Sostenere continuamente questa curiosità,
36
alimentarla con stimoli continui e sempre diversi è fondamentale per mantenere sempre
viva la motivazione intrinseca laddove già esiste e farla sorgere quando non esiste. A
questo riguardo è essenziale l’analisi dei bisogni degli apprendenti: sapere cosa li spinge
ad affrontare lo studio di una lingua e una cultura per loro così lontane e complesse può
aiutarci ad individuare tematiche che risultino interessanti e stimolanti e proporre
materiali che suscitino l’interesse predisponendo all’apprendimento.
Inoltre per gli apprendenti adulti anche la sistematizzazione grammaticale può
essere considerata un piacere e coinvolgerli nella scoperta dei meccanismi di
funzionamento della lingua permette agli studenti anche di acquisire e far crescere la
capacità di ‘imparare ad imparare’ e diventare autonomi nel processo di apprendimento
in un’ottica di life-long learning.
Sostenere, far emergere, far nascere una motivazione intrinseca legata al piacere è
importante anche perché si ricollega alla sfera emozionale che gioca un ruolo
importante nella memorizzazione e nei processi cognitivi.
In conclusione, il docente deve fare leva sulla motivazione e se possibile non su un
solo tipo ma su vari tipi di motivazione al fine di mantenere costante nel tempo
l’impegno richiesto per l’apprendimento linguistico.
6.2 - Riflessione linguistica e fissazione delle regole
Proprio per la distanza tipologica, gli studenti giapponesi presentano una maggiore
lentezza nell’acquisizione delle regole morfologiche. Come abbiamo visto questa lingua
è strutturata in maniera profondamente diversa dalla nostra e per questi studenti
acquisire la necessaria padronanza per esprimersi fluentemente è particolarmente
37
impegnativo, da cui la necessità di un maggiore ricorso alla riflessione grammaticale. E’
fondamentale che il docente guidi lo studente alla scoperta dei meccanismi di
funzionamento della lingua evitando di presentare la grammatica come un insieme di
regole da apprendere ed applicare. La riflessione sulla lingua richiede tempo e una
partecipazione attiva da parte dell’apprendente ma permette allo studente sia di fare
propri i meccanismi che via via andrà scoprendo, sia di porre l’attenzione anche su
quegli aspetti che altrimenti potrebbero essere non focalizzati. Probabilmente questi
studenti sono stati abituati ad un metodo deduttivo, dalla regola grammaticale alla sua
applicazione, dal generale al particolare: è importante che essi siano resi consapevoli del
fatto che se anche un approccio basato sulla scoperta dei meccanismi di funzionamento
della lingua richiede tempi più lunghi, questa è la strada obbligata per una acquisizione
duratura.
Deve poi seguire il riutilizzo e la fissazione delle regole, fasi particolarmente
delicate e necessarie. Oltre ai classici esercizi di manipolazione, che spesso questi
studenti prediligono perché rassicuranti ed in linea con le loro esperienze precedenti, si
può ricorrere a semplici attività di tipo comunicativo che permettano di utilizzare e
fissare le regole per poi passare, ai livelli intermedi, ad attività di riordino testi per
lavorare sulla coesione testuale, aspetto critico dovuto alla diversa struttura del periodo
nella L1.
6.3 - Il clima e le attività nella classe
L’apprendimento in Italia si presenta come apprendimento misto, combinazione tra
l’apprendimento guidato in ambiente formale con input controllato e graduato dal
38
docente e apprendimento spontaneo in ambiente naturale, con input non graduato e non
controllato. In questa situazione, oltre a poter contare su un input ricco e variegato, lo
studente ha la possibilità di utilizzare in reali situazioni comunicative quanto appreso
formalmente in classe ed è questa la condizione migliore per l’apprendimento.
Ovviamente nel caso dell’apprendimento in ambiente misto il docente può incidere
solo su quanto avviene in aula, non su quanto avviene al di fuori.
Un aspetto molto importante su cui il docente può agire è l’atmosfera che si respira
in classe, atmosfera che si costruisce già nel momento della scelta dei testi e degli
argomenti da portare all’attenzione degli studenti, testi ed argomenti che non devono in
alcun modo far sentire a disagio gli apprendenti. Per questo è importante valutare
sempre cosa presentare e come trattare il materiale che si è scelto, in un confronto
sempre aperto e rispettoso delle diverse culture che si incontrano nell’universo di
socializzazione rappresentato dalla classe.
Un clima positivo, rilassato, non conflittuale, dove gli obiettivi del processo di
insegnamento-apprendimento siano ben chiari e dove i bisogni dello studente trovino la
giusta considerazione, permette di abbassare il filtro affettivo, migliorare
l’apprendimento, contrastare la possibile tendenza all’isolamento e facilitare la
produzione orale e lo scambio dialogico, anche nel caso di adulti particolarmente
insicuri.
Sappiamo che in generale l’apprendente adulto non gradisce perdere la faccia né
davanti al docente, né davanti ai suoi pari. Questo aspetto è ancor di più rilevante
quando sono presenti apprendenti che per la loro provenienza culturale sono poco
abituati ad un approccio didattico che implica uno scambio tra pari e preferiscono
invece il modello tradizionale della lezione frontale. Per questo è essenziale condividere
39
con gli studenti le motivazioni che sono alla base di quelle attività che comportano una
loro partecipazione attiva, così che queste siano più facilmente accettate.
Un altro aspetto cruciale è l’errore che non deve essere mai presentato come
qualcosa di negativo da evitare a tutti i costi, come risultato del mancato apprendimento
e come tale da stigmatizzare, ma come il normale esito del processo di apprendimento
che si svolge inevitabilmente per tentativi ed errori, via via che l’apprendente costruisce
le sue ipotesi sul funzionamento della lingua. Sdrammatizzare l’errore ha quindi
l’effetto di ridimensionare quello che altrimenti viene vissuto come un perdere la faccia
davanti agli altri.
Anche se razionalmente si rende conto della validità di metodi e approcci più
moderni, l’adulto tende a privilegiare i modelli educativi che ha sperimentato nella
propria formazione scolastica: proprio per questo è opportuno rendere gli studenti
partecipi delle scelte didattiche attuate, spiegando la funzione di tutte le attività e di tutte
le tecniche che richiedono una loro partecipazione attiva in un continuo flusso
comunicativo non solo con il docente ma anche con i pari. Sapere cosa si fa e perché lo
si fa genera un maggior senso di sicurezza e quindi una migliore predisposizione
all’apprendimento da parte dello studente.
Bisogna dire però che lo scambio comunicativo attuato nella classe viene talvolta
vissuto dall’apprendente giapponese con difficoltà. Come abbiamo visto, in generale
l’adulto non gradisce questo esporsi e ciò è ancor più vero per gli studenti che per
motivi svariati non si sentono all’altezza e avvertono un senso di inadeguatezza. Per lo
studente giapponese adulto oltre a queste considerazioni dobbiamo inoltre tenere conto
del particolare significato e rilievo che assume in questa cultura il silenzio.
Se per altre culture il silenzio è un qualcosa da evitare perché assume un significato
negativo di rifiuto dell’altro, e spesso si ricorre a scambi senza particolare senso che
40
hanno il solo scopo si colmare il vuoto, nella cultura giapponese avviene esattamente il
contrario. Non solo i valori più significativi sono collegati alla reticenza per cui una
persona di poche parole appare più degna di fiducia di una che parla troppo, ma il
silenzio è spesso un modo per mantenere buoni rapporti con il gruppo, creando armonia
ed evitando contrapposizioni dirette, specialmente con i superiori, insegnanti compresi.
In questa cultura dove è fondamentale mantenere l’armonia con i vari elementi del
gruppo di riferimento, non è ben visto né chi insiste sul proprio punto di vista prima che
si sia raggiunto un accordo condiviso da tutti, né chi ostenta la propria abilità o
conoscenza (cfr. Davies R.J., Ikeno O., 2007) e non sono ben viste le interruzioni e le
sovrapposizioni.
Agli occhi di un occidentale la cui cultura privilegia invece una comunicazione più
chiara e diretta, questo silenzio può risultare difficile da comprendere, può confondere,
o addirittura può essere interpretato come un rifiuto6.
Lo stesso docente rischia di interpretare questi silenzi come un rifiuto o come
una mancanza di impegno o partecipazione alle attività della classe ed essere indotto a
forzare lo studente ad intervenire, con il rischio di ottenere invece un irrigidimento. E’
invece essenziale essere coscienti del fatto che in ogni cultura vigono regole diverse
anche riguardo lo scambio dialogico e tenerne conto nell’organizzazione e gestione
delle attività, rispettando eventuali silenzi che dovrebbero quindi essere gestiti con
rispetto della persona e sempre con gradualità.
Alla luce di queste considerazioni appare logica la preferenza manifestata dagli
studenti giapponesi per le attività di coppia (cfr. Maggia F., Quaglieri A.). Oltre a
6
Tralasciamo qui i problemi che nascono da quello che si può dire in una cultura ma che
invece non è ammissibile in altre: ad esempio per un giapponese, per il quale sono importanti le
relazioni con il gruppo di appartenenza, sono del tutto normali domande dirette relative alla
sfera personale del tipo “Quanti anni hai?”, domande che invece sono poco accettate o
addirittura inconcepibili in altre culture.
41
massimizzare i flussi comunicativi, queste attività risultano preferite alle attività in
gruppo o in plenaria perché riducono la paura di esporsi e perdere la faccia davanti
all’intero gruppo classe, presentando minori problematiche di tipo relazionale.
Analogamente nella correzione degli errori questi apprendenti (cfr. idem) manifestano
una certa preferenza alla correzione degli errori da parte del docente rispetto al controllo
in coppia. Ciò può essere imputato sia al minor disagio per la perdita della faccia, sia
per una visione del rapporto docente-apprendente che vede comunque il docente come
superiore. E’ quindi importante tenere conto del modo di stare in classe di questi
studenti al fine di proporre loro attività che siano produttive ai fini dell’apprendimento
proprio perché in linea con le caratteristiche e preferenze.
6.4 – La competenza lessicale
Negli stadi iniziali dell’apprendimento linguistico, sia che si tratti di lingua materna
che di lingua seconda o straniera, la comunicazione è essenzialmente affidata alle parole
piene. L’apprendente costruisce un suo repertorio lessicale formato essenzialmente da
parole portatrici di significato e su queste basa le sue produzioni; solo in un secondo
momento appaiono più o meno stabilmente le parole funzionali, gli elementi con
funzione grammaticale, articoli, copula, pronomi personali, preposizioni.
La competenza lessicale è stata per lungo tempo trascurata dalla teoria e dalla
pratica glottodidattica, liquidando l’argomento con generiche linee operative che
possono essere riassunte in due principi generali: il lessico non si può apprendere con
liste da memorizzare e deve essere contestualizzato. Solo nei primi anni ’90 è stato
elaborato il Lexical Approch, basato sulla considerazione che la lingua è lessico
42
grammaticalizzato e non grammatica lessicalizzata, per cui è proprio a cominciare dal
lessico che si deve iniziare.
Che il lessico sia il punto di partenza del processo di scoperta della lingua è ben
chiaro agli studenti che cercano di memorizzare quante più parole possono nella
convinzione che quante più parole si padroneggiano, tanto più è possibile ricostruire e
trasmettere il senso, anche se non si conosce bene la grammatica.
Ma cosa intendiamo per lessico? È evidente che il lessico non è solo l’insieme delle
parole utilizzate in una lingua, come se si trattasse di singole tessere unite a formare un
mosaico. Le parole non sono isolate le une dalle altre, sono invece entità legate tra loro
secondo dei legami di significato ben precisi, che si uniscono e si combinano anche
dando luogo a nuove entità, si pensi alle unità polirematiche. Per questo imparare una
lingua non vuol dire imparare singole parole isolate ma combinazioni di parole,
collocazioni, metafore.
Saper cogliere questo aspetto è particolarmente importante nel caso degli
apprendenti giapponesi che vengono da una tradizione di studio delle lingue
caratterizzata da una ricostruzione letterale del senso che parte dai singoli elementi del
testo in lingua straniera riordinandoli poi secondo l’ordine della sintassi giapponese (cfr.
cap. 4. Cultura e lingua).
Spesso però il contesto didattico non tiene conto delle problematiche connesse con
una tale impostazione. Come abbiamo visto, a parte situazioni particolari come il
Progetto Marco Polo per l’insegnamento dell’italiano a cinesi e le classi organizzate in
Italia per gli studenti delle università americane, normalmente nelle scuole di lingua le
classi sono multilingue e multiculturali, con una prevalenza di studenti europei,
anglofoni o ispanofoni e i libri di testo più diffusi sono pensati prevalentemente per
questo pubblico genericamente ‘europeo’. Questi manuali considerano buona parte del
43
lessico contenuto nei testi proposti come ‘facile’ perché presenta spesso una radice
comune con la lingua d’origine grazie alla quale fare inferenze e cogliere il senso. In
sostanza il lessico non viene considerato una criticità, come se fosse scontato che
l’apprendente possa facilmente comprenderlo, acquisirlo e memorizzarlo con poca
fatica ed essendo l’italiano una lingua altamente flessiva, l’attenzione viene focalizzata
soprattutto sulle strutture morfosintattiche: il lessico proposto viene inserito in quella
determinata unità didattica perché necessario in quel determinato contesto ed
argomento. Ma poiché il manuale adottato in classe passa poi a presentare un’altra
situazione a sua volta caratterizzata da un altro lessico, una volta presentato spesso il
lessico non viene più riproposto, con il risultato che troppo frequentemente non si ha
memorizzazione, non si produce intake, specie quando questo incontro è avvenuto solo
in fase ricettiva e non anche in fase di reimpiego: le parole, che sono i principali
elementi portatori di significato, passano senza lasciare alcuna traccia.
Ovviamente anche in questo caso ad essere svantaggiati rispetto ai compagni di
corso sono proprio gli studenti di provenienza linguistica più lontana il cui vocabolario
ha ben poco in comune con quello italiano7.
D’altra parte, nell’esperienza di tutti noi, è ben chiaro che devono esserci delle
motivazioni profonde, dei meccanismi precisi che fanno sì che se talora facciamo subito
nostra senza alcuno sforzo una parola incontrata anche una sola volta, per altre, anche se
si tratta di parole di uso frequente, dobbiamo ritornarci più e più volte prima di
memorizzarle e ‘conquistarle’.
7
Si potrebbe obiettare che il giapponese contiene termini stranieri e quindi anche termini
comuni a molte lingue europee. Questo è certamente vero, ma si tratta di un numero di parole
pur sempre limitato che per di più l’adattamento alla fonetica locale stravolge cosicché cogliere
il legame con il corrispondente termine italiano non è immediato.
44
Dobbiamo quindi trovare una strada per facilitare questa conquista del lessico su cui
si basa il processo di apprendimento e in ultimo la comunicazione stessa.
Ovviamente non si tratta di fornire ai nostri studenti liste e liste di parole, si tratta
invece di legare le parole ad altre parole e legare queste parole ad una cultura e ad una
logica differente, costruendo valenze profonde, affettive, che permettano un
coinvolgimento cognitivo ed emotivo su cui basare l’apprendimento.
Dare un significato profondo alle parole le fa diventare nostre, permettendoci di
avvicinarci alla lingua target e cogliere più facilmente i nessi tra i diversi elementi del
testo, facendo tutte quelle ipotesi che ci permettono di scoprire le regole di
funzionamento della lingua.
Questo, soprattutto nelle prime fasi, vuol dire scegliere attentamente il lessico da
proporre secondo parametri sia quantitativi che qualitativi. Non è possibile esporre lo
studente ad un lessico quantitativamente eccessivo, superiore alle sue ragionevoli
possibilità di memorizzazione, perché forzare questo limite oltre a non favorire
l’apprendimento ha solo l’effetto di generare frustrazione e senso di inadeguatezza. È
necessario scegliere le parole anche qualitativamente, tra quelle del vocabolario di base,
selezionandole quanto più vicine al vissuto e all’esperienza dello studente, parole che
possano essere sentite come proprie, non estranee, parole che si incontrano anche
nell’esperienza al di fuori della classe e che proprio per questo assumono una valenza
profonda, affettiva, parole realmente vissute come significative.
E lo studente avverte come vicine, oltre alla parole del proprio vissuto, anche le
parole relative al suo specifico campo d’interesse. Spesso lo studio dell’italiano viene
intrapreso per un passione particolare, culturale, o per motivi di lavoro o di studio e
proprio questo lessico può diventare il punto di partenza dal quale iniziare la scoperta
della lingua italiana.
45
Il lessico non deve essere percepito come un qualcosa di statico, di freddo ed
impersonale ma deve essere vissuto ed acquisito come qualcosa da manipolare, da
scomporre e ricomporre, anche alla ricerca dei legami etimologici, sempre in maniera
adeguata al livello degli studenti8.
E se concepiamo la grammatica come grammatica pedagogica che si sviluppa a
spirale e cresce in ampiezza e profondità con il livello dei nostri studenti, anche il
lessico può essere presentato come un qualcosa che via via si amplia e si espande con i
progressi linguistici dei nostri apprendenti, anche tornando su situazioni e contesti già
proposti, cambiando il punto di vista e il livello di approfondimento, per scoprire come
esistano più espressioni per concetti simili.
Un’attenzione particolare merita il dizionario, strumento potente e valido alleato
ma solo se utilizzato correttamente. L’uso del dizionario in classe da parte del singolo
studente è spesso per lui rassicurante ma lo estranea dal flusso comunicativo della classe
e come tale dovrebbe essere scoraggiato. Più proficuamente il lessico può essere
affrontato in chiave cooperativa con la partecipazione di tutta la classe ed è lo stesso
insegnante che deve fornire chiarimenti ed esempi per coglierne i significati, i modi
d’uso e i collegamenti.
Il dizionario è invece fondamentale quando lo studente lavora sul testo in
autonomia. In questa fase però è presente il rischio di fermarsi alla prima definizione,
assumendola in blocco. È quindi importante guidare lo studente ad un uso consapevole
del dizionario, focalizzando l’attenzione sulle frasi d’esempio che permettono di
cogliere i diversi significati e usi nei vari contesti.
8
E’ interessante notare che le stesse etimologie greco-latine suscitano un grande interesse
negli studenti nipponici anche perché in esse il meccanismo di formazione delle parole è
analogo a quello della lingua giapponese dove gli ideogrammi si uniscono dando luogo a nuove
parole (cfr. cap. 5.2 Peculiarità del sistema di scrittura giapponese). Ad un livello non più
elementare è quindi possibile lavorare proficuamente anche sulle etimologie greco-latine.
46
Questa può sembrare un’ovvietà ma questo rischio, già presente nel caso di dizionari
cartacei, è ancora più forte nel caso dei dizionari elettronici, molto diffusi in Giappone, i
quali presentano le frasi d’esempio in una sezione a parte per cui spesso proprio queste
non vengono nemmeno prese in considerazione. In questo modo sfuggono all’attenzione
dello studente proprio quegli gli usi e quelle combinazioni che sono fondamentali per
l’apprendimento del lessico e quindi delle diverse sottocompetenze – linguistica,
discorsiva, referenziale, socioculturale, strategica – che compongono la competenza
lessicale.
6.5 – L’utilizzo di audiovisivi
Un’analisi approfondita dell’utilizzo degli audiovisivi in glottodidattica esula
dall’ambito di questo lavoro ma possiamo prendere in considerazione alcuni aspetti che
rendono particolarmente interessante il loro uso nel caso degli studenti nipponici.
Sappiano che per il docente la preparazione e presentazione di materiale audiovisivo
è decisamente più impegnativa rispetto al materiale cartaceo, e che al contrario questo è
invece molto apprezzato dagli studenti che trovano il film altamente motivante anche
perché nel vederlo si sentono paragonati ad un nativo.
In generale i testi audiovisivi offrono innumerevoli vantaggi, con un audiovisivo:

l’insegnante ha modo di anticipare contenuti, portare in aula il mondo
esterno, affrontare le più diverse tematiche ed avviare un confronto
interculturale;
47

sono coinvolti più canali e le informazioni veicolate dal canale visivo e
quelle veicolate dal messaggio verbale concorrono insieme alla costruzione
di senso;

le diverse componenti del testo audivisivo - voci, suoni, musiche, immagini coinvolgono emotivamente gli studenti permettendo quindi di agire sulla
sfera emozionale che tanta parte ha nell’apprendimento;

consente di mostrare diversi modelli linguistici autentici contestualizzati sia
dal punto di vista comunicativo che culturale;

grazie alla componente visiva consente anche la presentazione di ambienti,
comportamenti e codici non verbali tipici della nostra cultura che altrimenti
non potrebbero essere mostrati adeguatamente;

viene rispettato il principio di direzionalità e bimodalità di Danesi: il
messaggio viene colto inizialmente nella sua globalità dall’emisfero destro e
solo in un secondo momento il messaggio verbale viene analizzato
dall’emisfero sinistro, rispettando così la sequenza naturale di
apprendimento.
Ai livelli più bassi verranno preferite sequenze e film nei quali il messaggio è
veicolato prevalentemente dalle immagini e la lingua fornisce il commento
interpretativo, ai livelli intermedi potremo proporre sequenze e film nei quali lingua e
immagine concorrono insieme a costruire il senso integrandosi a vicenda, mentre a
livelli più alti potranno essere presentati audiovisivi in cui il messaggio è reso
essenzialmente dalla lingua e l’immagine rappresenta uno sfondo situazionale ma non
funzionale.
48
Queste considerazioni sono valide per gli studenti di qualsiasi provenienza ma nel
caso degli studenti giapponesi possiamo aggiungere che questa cultura ha da sempre
dato importanza alle immagini, si pensi a pittori del passato come Hokusai e Hiroshige
per arrivare fino ai videogiochi ed anime dei giorni nostri e in effetti (cfr. Maggia F.,
Quaglieri A., 2009) gli studenti giapponesi in Giappone dichiarano di apprezzare
particolarmente gli audiovisivi.
Però, oltre che per motivi estetici, legati anche all’apprezzamento del cinema
italiano in Giappone, questa preferenza per l’audiovisivo può essere ricondotta al fatto
che questo tipo di testo va incontro alle difficoltà incontrate da questi studenti nella
ricezione orale. L’audiovisivo infatti si presta allo sviluppo di questa abilità grazie alla
possibilità di contestualizzare e anticipare il messaggio attivando l’Expectancy
Grammar, la grammatica dell’anticipazione che ci permette di prevedere cosa può
accadere in una data situazione, il lessico che verrà utilizzato, il tipo di testo e di genere
comunicativo che si realizzerà e la sintassi utilizzata (cfr. Balboni 2002).
Un altro aspetto molto importante è che l’audiovisivo si presta molto bene allo
sviluppo della competenza lessicale proprio perché la lingua, l’atto linguistico, vengono
presentati all’interno del contesto in cui si concretizza l’evento comunicativo e proprio
grazie al contesto le parole instaurano tra di loro rapporti di significato. Affinché il
lessico possa passare adeguatamente nella memoria a lungo termine, il percorso
didattico deve articolarsi oltre che nelle fasi di motivazione ed elicitazione delle
conoscenze, di visione e verifica della comprensione e di attività sul testo, anche sulla
sintesi e riutilizzo di quanto appreso.
Possiamo quindi dire che, oltre ad incontrare il gradimento degli apprendenti,
spezzoni di film o fiction, di pubblicità e filmati in genere possono essere proficuamente
49
impiegati proprio al fine di sostenere lo sviluppo dell’abilità di ricezione orale e il
miglioramento della competenza lessicale che spesso risultano critici per questi studenti.
6.6 - La fonetica
L’italiano viene percepito dagli apprendenti nipponici come una lingua dal suono
‘facile’ al punto che proprio per questo motivo spesso gli studenti universitari la
includono nel loro curriculum di studi, preferendola ad altre lingue. Però, seppur
percepita come facile almeno nella pronuncia, anche grazie al fatto che entrambi gli
idiomi sono ad isocronia sillabica, la lingua italiana presenta numerosi suoni non
rintracciabili in quella giapponese (cfr. capitolo Principali caratteristiche
morfosintattiche della lingua giapponese).
Queste difficoltà si presentano ovviamente anche nel contatto con altre lingue, in
particolare con l’inglese, lingua obbligatoria nel sistema scolastico locale. Per aggirare
le difficoltà relative alla pronuncia, è molto diffusa la trascrizione fonetica in Katakana:
le sillabe Katakana vengono scritte accanto alla parola straniera per indicarne la
pronuncia, che viene quindi adattata al sistema fonetico locale.
Questa prassi, che soprattutto in una prima fase può essere rassicurante, presenta
però evidenti svantaggi in quanto lo studente non impara a discriminare e produrre i
nuovi suoni della LS/L2. Far abbandonare questo sistema non è però semplice anche
perché è visto come ovvio e del tutto naturale dato che la lingua giapponese è
particolarmente ricca di termini stranieri importati ed adattati alla fonetica locale
proprio utilizzando il katakana. E’ quindi opportuno far riflettere gli studenti
sull’importanza di non ricorrere alla trascrizione in kana e cercare invece di concentrarsi
sulla fonetica italiana, anche se all’inizio sembrerà particolarmente difficile.
50
6.7 - Attività di rinforzo
Il docente in Italia si trova normalmente a gestire una classe multilingue e
multiculturale e anche nel caso abbia una certa conoscenza della lingua e della cultura
giapponese, dovendo gestire l’intera classe, difficilmente potrà dare adeguato spazio e le
necessarie risposte alle difficoltà che i singoli apprendenti giapponesi potranno
incontrare. Se la classe fosse monolingue, come avviene nelle classi all’estero, molte
difficoltà sarebbero comuni e quindi sarebbe ipotizzabile e proficuo dedicare parte della
lezione a momenti di approfondimento in un’ottica contrastiva ma ovviamente in un
corso in Italia con studenti di diversa provenienza geografica questo non è possibile.
Un’ipotesi didattica realizzabile è quella di organizzare, al di fuori del normale
orario di corso, dei momenti dedicati espressamente agli apprendenti giapponesi,
durante i quali analizzare con gli studenti tutte quelle strutture e quegli aspetti della
nostra lingua e cultura che risultano loro particolarmente difficili. Questi momenti
dovrebbero essere opportunamente presentati come un’opportunità formativa offerta in
aggiunta al corso in classe che rimane comunque il momento centrale del processo di
insegnamento-apprendimento, in quanto la classe rappresenta quell’universo
irrinunciabile di socialità dove vengono in essere quei rapporti e flussi di
comunicazione essenziali ai fini dell’apprendimento. Gli studenti devono essere resi
consapevoli del fatto che la classe rimane il momento formativo centrale e che queste
attività sono pianificate come un’occasione di approfondimento volta a superare le
difficoltà incontrate, in un’ottica di confronto linguistico e culturale e di apprendimento
cooperativo in cui lo scambio avvenga non solo tra il docente e gli apprendenti ma
anche tra gli apprendenti stessi.
51
Questi momenti permettono di trattare le difficoltà comuni agli studenti
giapponesi dedicando loro quell’attenzione che non è possibile dedicare nella classe
multilingue e multiculturale. Il confronto in piccoli gruppi, tra apprendenti che
condividono il medesimo retroterra linguistico e culturale e quindi anche le medesime
difficoltà, facilita anche la partecipazione degli studenti più insicuri e quindi più
propensi ad isolarsi. Inoltre quegli studenti che in una classe eterogenea si sentono
inadeguati più facilmente si sentono a loro agio in un tale contesto e manifestano con
maggiore naturalezza dubbi e richieste di chiarimenti, proprio perché sanno di
condividere con altri tali incertezze.
E’ importante far percepire la lingua italiana e la sua cultura come qualcosa a
volte di non immediata comprensione ma comunque di decodificabile, e che il processo
di apprendimento è sempre un processo ciclico, ogni volta nuovo, anche se si ritorna su
passi già percorsi.
Per questi momenti di rinforzo sarebbe utile che il docente avesse almeno una
conoscenza di base della lingua e della cultura giapponese in modo da poter partecipare
attivamente a queste attività dove i primi attori dovrebbero essere gli studenti stessi, che
in questo modo avrebbero la possibilità di confrontarsi tra loro e condividere difficoltà
ma anche capacità e risorse. Questi momenti potrebbero essere organizzati a vantaggio
di studenti anche di livelli leggermente diversi per affrontare insieme strutture ed usi
che spesso si rivelano critici in quanto non c’è una precisa corrispondenza tra le due
lingue, come ad esempio nel caso dell’uso dei verbi andare e venire, la costruzione della
preposizione relativa o i tempi verbali del passato prossimo e dell’imperfetto.
Il momento centrale dell’apprendimento rimane comunque la classe e il suo
microcosmo di socialità.
52
7. Conclusioni
Grazie all’immagine positiva dell’Italia e dei prodotti italiani dei più diversi settori, a
partire dagli anni ’80 del secolo scorso la domanda di lingua italiana in Giappone è
progressivamente aumentata portando ad un incremento sia del numero degli studenti
che studiano la lingua e cultura italiana nel Paese d’origine, sia di quelli che vengono in
Italia per studiare in contesto formale la lingua e cultura italiana.
Volendo tracciare il ritratto dello studente nipponico medio, possiamo dire che si
tratta di una adulto o giovane adulto con interessi e bisogni spesso molto differenziati.
A differenza di quanto avviene in Giappone, dove le classi sono omogenee per
provenienza linguistica e culturale degli apprendenti, nel caso del contesto di
apprendimento formale in Italia questi studenti si trovano inseriti in classi multilingue e
multiculturali. In questo universo comunicativo gli studenti giapponesi si confrontano
con studenti di provenienza europea o di lingua e cultura anglo-europea rispetto ai quali
risultano essere svantaggiati per la provenienza linguistica e culturale distante che
indubbiamente è una delle cause del lento e faticoso processo di apprendimento.
Oltre alle caratteristiche tipologiche distanti, devono poi essere considerate alcune
peculiarità neurolinguistiche tipiche dei parlanti di questa lingua cosicché i meccanismi
di funzionamento degli emisferi celebrali si differenziano almeno in parte rispetto a
quanto avviene nel caso dei parlanti lingue occidentali.
La rilevanza ai fini linguistici anche delle sole vocali fa sì che queste siano elaborate
– analogamente ai suoni naturali – dall’emisfero sinistro che conseguentemente elabora
più informazioni di quanto avviene nel caso delle altre lingue, risultandone quindi
maggiormente impattato. Inoltre il particolare sistema di scrittura porta a dover
53
immaginare come scrivere le parole: non basta pensare un suono ma è necessario anche
immaginare un simbolo grafico per dare pieno senso alla lingua. Questo fa sì che il
modo di concepire la propria lingua differenzi profondamente un parlante giapponese
dai parlanti di altre lingue.
Un ulteriore aspetto che deve essere considerato è la cultura di riferimento.
Questa gioca un ruolo fondamentale sia nel momento del contatto con la cultura target,
che essendo lontana appare di difficile decodifica, sia per quando riguarda
l’accettazione dei modelli pedagogici ormai affermati nella glottodidattica moderna.
La cultura di provenienza assume una rilevanza particolare proprio nel caso
dell’apprendente adulto perché questi non sempre è disposto a mettere in discussione le
proprie esperienze, anche formative, e la propria visione del mondo che è data in buona
parte da quella programmazione collettiva della mente che caratterizza ogni popolo.
Una didattica centrata sull’apprendente più che sul docente e le dinamiche di classe
caratterizzate da continui flussi comunicativi non più unidirezionali – dal docente ai
discenti – ma tra tutti i soggetti che fanno parte di questo universo di socializzazione
che è la classe spesso sono lontane dai modelli conosciuti dall’apprendente giapponese
che ha conosciuto nel percorso formativo soprattutto metodi di studio orientati più al
conoscere la lingua che al saper fare con la lingua.
Possiamo quindi dire che, a parità di contenuti linguistici e culturali proposti, gli
studenti giapponesi incontrano maggiori difficoltà nella decodifica del messaggio
linguistico e culturale in quanto la lingua e la cultura di provenienza forniscono poche
informazioni utili alla decodifica del nuovo, e queste difficoltà sono particolarmente
evidenti quando gli studenti non possono contare su competenze in altre lingue/culture
romanze o europee che possano fare da tramite. A questo si aggiunge talvolta anche una
scarsa familiarità con i modelli didattici più utilizzati nei corsi di lingua che implicano
54
una partecipazione alle attività e dinamiche di classe che talvolta si scontrano con le
regole sociali della cultura di provenienza.
Queste difficoltà nel loro complesso portano spesso a più lenti ritmi
nell’apprendimento che a loro volta possono spingere lo studente ad isolarsi e non
partecipare alle attività del gruppo classe e in ultimo portare al fallimento del progetto
formativo.
Tale rischio deve essere contrastato agendo sulla motivazione che deve essere
sempre sostenuta e alimentata attraverso input stimolanti e vicini agli interessi
dell’apprendente, utilizzando audiovisivi così da contestualizzare il contenuto
linguistico e culturale e facilitando la comprensione, curando l’atmosfera della classe e i
flussi comunicativi che in essa si realizzano tenendo conto della preferenza per le
attività in coppia e con un’attenzione particolare al diverso modo di stare in classe di
questi apprendenti per i quali il silenzio non vuol dire mancanza di partecipazione.
È poi importante sostenere il processo di appropriazione del lessico con opportune
attività e, proprio perché ci troviamo davanti ad apprendenti adulti caratterizzati da
capacità d’astrazione e sistematizzazione delle conoscenze, dovremo guidare gli
studenti alla scoperta attiva dei meccanismi di funzionamento della lingua e alla
sistematizzazione di quanto appreso. Seguirà poi il loro reimpiego e fissazione,
organizzando dove possibile momenti di rinforzo dedicati agli studenti di madre lingua
giapponese, che tengano conto delle difficoltà incontrate e di esplicite richieste anche in
ottica contrastiva. Questo rinforzo potrebbe essere svolto da docenti con competenza in
lingua giapponese utilizzando sì la lingua italiana ma qualora se ne ravvisi la necessità
anche la lingua degli studenti con l’effetto di abbassare il filtro affettivo a tutto
vantaggio dell’apprendimento.
55
L’obiettivo del processo di insegnamento-apprendimento darà quindi lo sviluppo
dell’autonomia del soggetto, la capacità di ‘imparare ad imparare’ per essere in grado di
continuare il processo di apprendimento anche una volta finito il corso, in un’ottica di
life-long learning e di sviluppo dell’individuo nel senso più ampio del termine, in linea
con lo stesso Quadro comune europeo di riferimento per le lingue.
La meta ultima rimane sempre la crescita della persona nel rispetto delle sue
caratteristiche personali in uno scambio vicendevole che non può che arricchirci.
56
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