Rischio e rendimento nella gestione del risparmio

Transcript

Rischio e rendimento nella gestione del risparmio
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a s s o c i a z i o n e
d e l
r i s p a r m i o
g e s t i t o
QUADERNI
DI DOCUMENTAZIONE
E RICERCA
Collana Economica
Rischio
e rendimento
nella gestione
del risparmio:
misura, controllo,
attribuzione
Autorizzazione del Tribunale di Roma
n. 627 del 10 dicembre 1988
Direttore responsabile: Guido Cammarano
a s s o c i a z i o n e
d e l
r i s p a r m i o
g e s t i t o
Rischio
e rendimento
nella gestione
del risparmio:
misura, controllo,
attribuzione
S O M M A R I O
Andrea Resti
Università di Bergamo
Dario Brandolini, Massimiliano Pallotta,
Raffaele Zenti
Ras Asset Management Sgr
Massimo di Tria, Michele Gaffo
RAS SpA
Massimiliano Burgio, Michele De Sario,
Maria Luisa Gota
Eptafund
Il risk management nell’asset management:
una breve introduzione
11
Un modello di stima del rischio e la definizione
della risk policy di una Sgr
27
Una nuova misura di rischio relativo:
Adaptive ReVaR (A_ReVaR)
45
L'attività di risk management e le peculiarità
dei diversi prodotti gestiti:
uno o più modelli di misurazione e analisi del rischio?
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Francesco Betti, Valentina Dall'Aglio
Aletti Gestielle Sgr
Rischio e performance attribution
nel processo di investimento di una Sgr
103
Domenico Mignacca, Valeria Aiudi,
Michele Ruvolato
Sanpaolo IMI Asset Management Sgr
Processo d’investimento e risk management
125
Rischi di credito e rischi operativi
in una asset management company
147
Carlo Appetiti, Patrizia Bilardo,
Massimiliano Forte
Nextra Asset Management Sgr
Carlo Appetiti
Nextra Asset Management Sgr
Il Risk management in una asset management company:
la diffusione della cultura e la nuova informativa direzionale 165
Q U A D E R N I
N O T E
S U G L I
A U T O R I
Andrea Resti è consigliere economico di Assogestioni e professore associato di Matematica Finanziaria Avanzata presso l’Università di Bergamo. È consulente di numerose istituzioni finanziarie nel
settore del controllo dei rischi e della pianificazione strategica. Ha
coordinato il gruppo di lavoro sui rischi finanziari del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e pubblicato articoli su molte riviste
scientifiche in Italia ed all’estero. Tra i suoi libri, “Misurare e gestire
il rischio di credito nelle banche” (Alpha Test) e “Decidere in banca
con la matematica e la statistica” (Bancaria).
Dario Brandolini, Massimiliano Pallotta e Raffaele Zenti operano in Ras Asset Management, la Sgr del Gruppo RAS, dove hanno
sviluppato un sistema di analisi del rischio proprietario basato sul Filtered Bootstrap ed hanno contribuito a definire le risk policy per i
portafogli in gestione. Dario Brandolini è responsabile dell'unità di
risk management & Strategy, Raffaele Zenti è responsabile dell'unità
di risk management e Massimiliano Pallotta è Senior Risk Manager.
Attualmente sono al lavoro sullo sviluppo di estensioni del loro modello interno e delle risk policy impiegate. Gli autori hanno varie
pubblicazioni al loro attivo.
Massimo di Tria opera nel team di Financial Risk Management
& Strategic Asset Allocation di RAS SpA. Precedentemente ha lavorato nel Qualitative Asset Allocation team di Fineco Investiment Sgr
SpA ed è stato collaboratore del Centro di economia monetaria e finanziaria Paolo Baffi presso l’Università Bocconi di Milano. Ha pubblicato, tra l’altro, nel Rapporto BNL/Centro Einaudi sul risparmio e sui
risparmiatori in Italia, 2002 e su Economic Notes. Michele Gaffo è responsabile del team di Financial Risk Management & Strategic Asset
Allocation di RAS spa. Precedentemente ha ricoperto lo stesso ruolo
in Fineco Investimenti Sgr ed è stato analista quantitativo presso il
risk management & Research di Banca Intesa. Le principali collaborazioni sono state con l’Università degli studi di Padova, Il Sole 24
Ore e RiskWaters.
Massimiliano Burgio è analista di risk management e Michele
De Sario è vice responsabile risk management per Eptafund. Entrambi hanno al loro attivo un master program in Economics and Finance presso l’International Center for Economics and Finance
della Venice International University. Maria Luisa Gota, dottore di
ricerca in Matematica per l’Economia presso l’Università di Trieste,
è responsabile risk management per Eptafund ed è stata ricercatore
di ruolo presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino. Ha
al suo attivo numerose pubblicazioni in volumi e riviste, in Italia ed
all’estero.
Francesco Betti è responsabile del risk management di Aletti
Gestielle Sgr Spa, Gruppo Banco Popolare di Verona e Novara. È autore di numerose pubblicazioni su tematiche finanziarie e di risk management, e del volume “Value at Risk. La gestione dei rischi e la
creazione di valore” (Il Sole 24 Ore libri). Valentina Dall’Aglio si occupa di Performance e Risk Attribution in Aletti Gestielle Sgr Spa,
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Q U A D E R N I
dove è inoltre responsabile dell’adesione agli standard internazionali GIPS. È stata relatrice in convegni su tematiche di analisi e attribuzione delle performance.
Domenico Mignacca è dottore di ricerca in Economia Quantitativa e M. Sc. in Economia e econometria presso l’Università di
Southhampton. Ha lavorato per Deutsche Bank SpA a Milano e
come responsabile dell’Analisi Quantitativa per BNL Gestioni Sgr.
Oggi è Responsabile risk management & Analisi delle Performance
presso SanpaoloImi Asset Management Sgr. Michele Ruvolato, laureato in Economia e commercio e master in Financial Economics, si
interessa di analisi delle serie storiche e di bond pricing. Dopo esperienze presso FMR Consulting e BNL Gestioni, dal 2001 si occupa di
risk management in SanpaoloImi AM. Valeria Aiudi è laureata in
Matematica e ha lavorato come analista quantitativo presso BNL Gestioni; dal giugno 2001 si occupa di gestione dei rischi in SanpaoloImi AM.
Carlo Appetiti è responsabile dell’Area risk management di
Nextra Investment Management Sgr. In precedenza è stato risk manager di Intesa Asset Management Sgr, ed ha lavorato presso la Direzione Finanza del Banco Ambrosiano Veneto, Citibank e KPMG. Coautore de “La gestione della tesoreria nelle imprese internazionali”
(Bancaria 1992. Ha pubblicato articoli su “Bancaria” e partecipato in
qualità di relatore a diversi convegni sul Risk management nel settore finanziario. È dottore commercialista e iscritto all’Albo dei Revisori Ufficiali dei Conti. Patrizia Bilardo è responsabile del Settore
Credito, Controparti, Emittenti e Contrattualistica Finanziaria (Credit Manager)coordinato allìinterno dell’Area Risk Management di
Nextra Investment Management Sgr SpA. Proviene da un’esperienza come Credit Officer nel gruppo Chase Manhattan. Massimiliano Forte è responsabile del Settore Compliance ed Operational
Risks coordinato all’interno dell’Area risk management di Nextra
Investment Management Sgr SpA. È stato responsabile della Funzione di Controllo Interno e dell’Organizzazione di Symphonia Sgr.
Ha lavorato in Consob presso la Divisione Intermediari.
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Q U A D E R N I
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Andrea Resti
Professore associato
Università di Bergamo
Il risk management
nell’asset management:
una breve introduzione
Q U A D E R N I
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Q U A D E R N I
Quando Assogestioni mi propose di curare un volume dedicato al risk management nell’asset management, fui ben felice di aderire all’invito, che mi consentiva di lavorare su una tematica della
cui attualità e rilevanza ero, e sono, profondamente persuaso. Controllo dei rischi finanziari e risparmio gestito rappresentano infatti, singolarmente presi, due dei filoni in cui più brillante e prolifica è stata la produzione tecnico-scientifica degli ultimi vent’anni:
partecipare alla stesura di un libro destinato a collocarsi all’intersezione di queste due grandi research avenues rappresentava quindi
un’occasione di studio apprezzabile e stimolante. L’invito venne
dunque prontamente accolto, a maggior ragione perché mi dava
modo di lavorare, per qualche mese, con un gruppo di practicioners
di grande livello, condividendo con loro preziose occasioni di dialogo e di confronto.
Col passare del tempo e l’incedere del lavoro, mi sono ritrovato
tuttavia prigioniero di una sensazione via via più precisa: come di essere gradualmente stretto in una sorta di morsa tra l’estrema urgenza ed attualità del tema (che, tra l’altro, consigliava di ridurre al
minimo i tempi di lavorazione del volume) e la relativa fragilità degli
approcci metodologici oggi disponibili (che avrebbe suggerito ulteriori approfondimenti, valutazioni sperimentali, affinamenti). In altri termini: l’impressione di trovarmi a lavorare su un tema ad un
tempo troppo vecchio (perché l’esigenza latente di maggiori controlli sul rischio - ancorché esplosa nel 2000 a seguito della crisi dei
mercati - rappresenta da sempre un tratto costitutivo dell’attività di
asset management) e troppo nuovo (perché solo nei prossimi anni i
modelli di risk control per i gestori guadagneranno in robustezza e
diffusione). Insomma: che era meglio aspettare, ma era già tardi per
procedere...
Credo che questa sensazione paradossale sia, in qualche misura, condivisa dalle società di gestione del risparmio italiane; in particolare, da quelle che, negli scorsi anni, si sono dotate di una struttura di risk management via via più definita, assegnandole compiti,
prerogative e obiettivi. Proprio da tale sensazione, in effetti, trae origine il taglio molto agile, rivolto al contesto applicativo, ricco di tabelle e report esemplificativi, di questa monografia. La cui unica (e
per la verità non piccola) ambizione è quella di dare al lettore qualche semplice strumento per fare oggi ciò che sarebbe meglio (se
solo fosse possibile...) rimandare a domani.
In questa introduzione, vengono ripercorse brevemente le motivazioni del volume. Per prima cosa si cerca di chiarire perché il risk
management è divenuto così importante all’interno delle Sgr (non
solo italiane), conoscendo una diffusione capillare e apparentemente inarrestabile; poi verranno messe in risalto le peculiarità del
controllo dei rischi in una asset management company (contrapposte
alle caratteristiche del risk management nel contesto bancario, dove
esso si è originariamente sviluppato); successivamente, si accen-
Introduzione
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Q U A D E R N I
nerà agli effetti che una corretta attività di misura e gestione dei rischi può esercitare sul processo di investimento e sull’attività commerciale di una Sgr; infine, verrà presentata la struttura del volume, cercando di guidare il lettore verso i singoli saggi che lo compongono.
1. Il risk management
nell’asset management:
perché è importante?
L’industria della gestione del risparmio opera, per definizione,
nell’ambito di mandati conferiti da investitori terzi. L’asset manager si
trova cioè “a distanza di braccio” dalle possibili minusvalenze che
possono insorgere per effetto della sfavorevole evoluzione delle variabili di mercato, “protetto” dalla regola contrattuale (tipica dell’attività gestoria) che limita la sua responsabilità patrimoniale al valore
di mercato degli attivi.
Si tratta di una situazione oggettivamente molto diversa da
quella del banchiere, ed in particolare dell’investment banker, che
opera con risorse proprie (conferite dagli azionisti o raccolte sul
mercato del capitale di debito) nell’intento di conseguire utili correnti o in conto capitale attraverso una superiore capacità di selezione del portafoglio.
Conseguentemente, si potrebbe pensare che il controllo dei rischi relativi a possibili perdite sui patrimoni gestiti non rientri tra le
priorità strategiche di un gestore, proprio perché tali perdite non
sono di sua diretta pertinenza, ma gravano sul cliente finale.
In effetti, è innegabile che l’industria dell’asset management si sia
accostata con un certo ritardo agli strumenti di misura prospettica
1
dei rischi impliciti in una data composizione di portafoglio, strumenti che hanno visto la propria genesi proprio presso le grandi
2
banche d’investimento .
Tuttavia, da alcuni anni ormai è in atto una diffusa presa di coscienza circa l’utilità di un’adeguata attività di risk management all’interno di una società di gestione del risparmio. Con riferimento al
nostro Paese, l’analisi Assogestioni-Intertek relativa al 2001 conferma (cfr. tavola 1) come le Sgr abbiano adottato strumenti di analisi del rischio di mercato in misura consistente, anche se solo in
tempi recenti, mentre l’adozione di metodologie per la stima dell’e-
Tavola 1
Tav 1:
Diffusione del risk management
presso un campione di Sgr italiane
Presente
Previsto
Previsto Non previsto
entro il 2002 dopo il 2002
Funzione di risk manager o equivalente
78%
7%
-
15%
Analisi del rischio di mercato
61%
23%
8%
8%
Analisi del rischio di credito
23%
50%
15%
12%
Analisi del rischio operativo
19%
39%
19%
23%
Fonte: The Intertek Group (2002)
1
Storicamente, i gestori erano soliti fare riferimento a misure di rischiosità storica
della gestione. Si pensi alla deviazione standard o al beta dei rendimenti del fondo
(utilizzati ad esempio nella costruzione degli indici di Sharpe e di Treynor) o a misure di rischiosità relativa (riferite, cioè, agli scostamenti dal benchmark) come la
tracking error volatility usata nella formula dell’information ratio (cfr. Assogestioni,
2002, cap. 12).
2
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Per tutti, cfr. J. P. Morgan e Reuters (1996), che riprende un lavoro del 1994.
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sposizione ai rischi di credito e operativi rappresenta, in molti casi,
un obiettivo per l’immediato futuro.
In altri termini, si assiste una progressiva diffusione anche nel
buy side delle tecniche di misura e controllo dei rischi finanziari originariamente sviluppate dal sell side. Le ragioni di tale diffusione
sono molteplici, ma possono essere schematizzate come segue:
1. In primo luogo, per quanto la considerazione sia banale,
giova ricordare che un’erosione del controvalore dei patrimoni amministrati, se pure non conduce nell’immediato a
perdite finanziarie, rappresenta una minaccia esiziale per
l’industria del risparmio gestito. Il “fatturato” del settore dipende infatti, in buona misura, da commissioni proporzionali agli asset under management; di conseguenza, la riduzione delle masse gestite comporta un calo dei profitti che,
data la rigidità di talune voci di costo, può addirittura risultare più che proporzionale. Qualora tale minor profittabilità venisse ritenuta di natura permanente, lo stesso valore
economico delle società di gestione del risparmio dovrebbe essere rettificato verso il basso. Esiste quindi un legame preciso, ancorché indiretto tra perdite sul patrimonio
3
dei clienti e valore del patrimonio di un asset manager .
2. Non è un caso, dunque, che il risk management abbia visto
crescere la propria importanza presso le società di gestione del risparmio proprio nell’ultimo biennio, cioè in
presenza di un trend negativo dei mercati. Come ricorda
Rhode (2000), in un simile contesto le Sgr sono “condannate” a prendere più rischi attivi rispetto al benchmark, proprio quando l’entità delle perdite subite rende la clientela
più attenta alle tematiche del rischio (e diventa fondamentale poter fornire ai gestori ed alla rete di vendita
strumenti di misura e rendicontazione del rischio stesso).
3. La rapida diffusione delle attività di controllo dei rischi
presso le Sgr è dunque giustificata anche dalla necessità di
mantenere sotto controllo la rischiosità relativa rispetto al
benchmark, che rappresenta un’importante leva competitiva, dunque un obiettivo strategico dell’attività di gestione. In effetti, dato il trend delle quotazioni di borsa
(ed a maggior ragione se tale trend è negativo), la difesa
delle quote di mercato passa attraverso il mantenimento
di un adeguato differenziale di rendimento rispetto ad
una strategia passiva “pura”; tale differenziale (sovente in4
dicato come “alfa” nella letteratura sul risparmio gestito )
consente di giustificare i costi del servizio e di accrescere
la reputazione ed il brand della società di gestione. È dunque necessario disporre di tutti gli strumenti necessari
per quantificare, controllare, gestire il rischio legato al
conseguimento di un alfa negativo, senza per questo ripiegare su una strategia d’investimento perfettamente allineata rispetto al parametro oggettivo di riferimento.
3
Un simile legame pare essere ben noto agli investitori che operano nel mercato
azionario, dove le quotazioni delle società di asset management tendono a recepire
in modo pronto e pronunciato le variazioni dell’indice generale.
4
Cfr. ad. es. Lee (2000).
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Q U A D E R N I
4. Alle fortune del risk management nelle società di gestione
italiane ha certamente concorso anche un mutamento
qualitativo della clientela. Non soltanto si è diffusa una
maggiore consapevolezza del rischio presso gli investitori
retail, ma va guadagnando spessore il mercato istituzionale che, nel nostro Paese comprende soprattutto fondi
pensione negoziali, fondazioni, assicuratori e gestori terzi
(per esempio gestori di “fondi di fondi”; cfr. tavola 2). Al
mercato dei clienti istituzionali si associa, da un lato, una
maggiore preparazione tecnica, che li porta a conferire
notevole importanza alla capacità della Sgr di misurare,
monitorare, rappresentare in modo trasparente e tempestivo il livello di rischio implicito in un determinato asset
5
mix ; dall’altro, una maggiore reattività che li conduce a
sanzionare in modo puntuale (e talvolta pesante) eventuali errori del gestore, sottraendogli il mandato ed even6
tualmente facendo ricorso alle vie legali . È evidente
quindi che tale categoria di clienti rappresenta una sorta
di “pungolo”, tale da incentivare molte Sgr a dotarsi di
moderni sistemi di controllo dei rischi.
Tavola 2
Tav 2
Alcuni dati sul denaro istituzionale in Italia
in milioni di euro
Fondi pensione*
2.757,3
Fondazioni di origine bancaria**
34645,8
Fondi di fondi***
6449.5
* Dato al 30.6.2002. Fonte: Mefop
** Dato al 31.12.2000 (totale attività finanziarie, incluse le partecipazioni). Fonte: Acri.
*** Dato al 31.10.2002. Fondi gestiti da intermediari italiani (inclusi monomarca). Fonte:
Assogestioni
Abbiamo così richiamato i principali fattori in grado di spiegare la progressiva espansione - dal sell side al buy side - delle metodologie di risk management. Va detto, tuttavia, che tale espansione
ha comportato (ma il processo è ancora in corso) una sorta di mutamento genetico in tecniche nate per rispondere alle necessità
dell’azienda bancaria, e non sempre adatte alle finalità dei gestori.
Vediamo ora lungo quali direttrici vada articolandosi questo mutamento.
5
Il segmento istituzionale, da sempre abituato a ragionare in termini di rendimento
pesato per il rischio, ultimamente ha sviluppato una crescente attenzione per la
“qualità” dei rischi assunti dal gestore, mostrando ad esempio di essere disposto a
pagare un premio in cambio di rendimenti “ortogonali”, cioè incorrelati con i principali fattori di mercato (Neuhaus, 2001)
6
A titolo d’esempio, si pensi alla causa intentata dal gruppo Unilever a Merrill
Lynch (in quanto controllante di Mercury Asset Management) per la persistente
underperformance degli attivi affidati a quest’ultima dal fondo pensioni della multinazionale chimica. L’accusa rivolta a Mercury, che ha portato alla richiesta di un risarcimento di 130 milioni di sterline, era quella di non aver posto in essere adeguati
controlli interni, in grado di evitare scommesse eccessive ed ingiustificate da parte
dei gestori (cfr. The Economist, 2000).
16
Q U A D E R N I
Come annotano Stubbs e Gupta (2002), l’adozione di metodologie di controllo del rischio da parte delle asset management companies non poteva ricalcare fino in fondo le logiche teoriche ed operative che hanno guidato la diffusione di tali algoritmi presso il settore
bancario. Ciò accade perché il comparto della gestione del risparmio ha “regole del gioco” proprie (cfr. tavola 3), in buona parte di7
stinte da quelle prevalenti nell’intermediazione creditizia .
Tra queste, merita ricordare:
1. Il diverso orizzonte temporale. Mentre il banchiere d’investimento è ancorato a orizzonti di breve termine (legati alla
possibilità di “chiudere” le posizioni esplicitando i profitti
o limitando eventuali perdite), il gestore ragiona su periodi più ampi, perché il suo cliente tende a giudicarlo su
intervalli di tempo maggiormente estesi (un trimestre,
un esercizio, o addirittura più anni). Si rende dunque necessario estendere nel tempo misure (come il VaR, o Value at Risk) nate per quantificare le perdite potenziali su
brevi orizzonti temporali. Da un lato, diventa dunque cruciale verificare che la realtà empirica giustifichi le ipotesi
di markovianità dei rendimenti che vengono solitamente
8
utilizzate per estendere nel tempo le misure di VaR ; dall’altro è necessario rimuovere l’ipotesi di media zero che,
per periodi di tempo limitati, consente di esprimere il
VaR come multiplo della deviazione standard (cfr. Rees,
2001). Alternativamente, se si ritiene che l’entità delle
correzioni da apportare al procedimento di calcolo standard del VaR per poterlo adattare a intervalli di tempo
più ampi sia eccessiva, è possibile abbandonare questa misura di rischio per sposare un approccio diverso, incentrato ad esempio su un’analisi delle dinamiche di lungo
periodo degli indici di mercato (LeGrand, 2001).
2. Il diverso ruolo della regolamentazione. Per le banche, la normativa prudenziale sul capitale minimo obbligatorio ha
rappresentato un formidabile incentivo all’adozione di
metodologie di risk management. Con il market risk amend9
ment del 1996 , il Comitato di Basilea sulla Vigilanza Bancaria ha infatti accolto il principio che un’istituzione finanziaria dotata di propri strumenti di risk management,
metodologicamente robusti, possa in qualche misura
svincolarsi dagli schemi standard di calcolo del patrimonio obbligatorio per adottare (anche a fini regolamentari) i propri modelli interni. Ciò ha indubbiamente risvegliato l’interesse degli intermediari per lo sviluppo in
house di sistemi di controllo del rischio, o per l’adozione/personalizzazione di metodologie standard offerte
sul mercato della consulenza. Per le società di gestione
del risparmio, viceversa, l’effetto della normativa risulta, a
tutt’oggi, assai meno cogente. Se è vero, infatti, che po-
2. Il risk management
nell’asset management:
perché è diverso?
7
A conclusioni analoghe giunge Garolla di Bard (2002), esaminando specificatamente il mercato italiano.
8
Cfr. ancora J. P. Morgan e Reuters (1996) e, in questo volume, il lavoro di Brandolini, Pallotta e Zenti.
9
Cfr. Basel Committee on Banking Supervision (1996).
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Q U A D E R N I
trebbe profilarsi all’orizzonte l’imposizione di un requi10
sito di capitale minimo sui rischi operativi , non esistono
invece vincoli patrimoniali associati al rischio di mercato
sulle gestioni “per conto terzi”. La misura di tale rischio risponde dunque a finalità strategiche, gestionali e organizzative proprie dei singoli asset manager, e non ad un’imposizione “dall’alto” delle autorità.
3. Una diversa (e più complessa) ripartizione della capacità decisionale. Mentre infatti la banca esercita in modo diretto e immediato il controllo sulle proprie decisioni di investimento, nell’attività di gestione le scelte di allocazione e selezione degli attivi vengono ripartite su due livelli (cliente
e gestore). Il primo detta i criteri di fondo cui deve uniformarsi l’asset manager (asset allocation strategica, stile
d’investimento, limiti di rischio) mentre il secondo opera
le proprie valutazioni e correzioni di portafoglio nell’ambito di un preciso mandato. Esiste peraltro una sorta di
correlazione inversa tra la qualità dell’informazione riceTavola 3
Tav 3:
Dalle Banche alle Asset Management Company:
come cambiano le “regole del gioco”
Caratteristica
Banche
Asset management
Cliente
Decisioni di investimento
Misure di rischio
tradizionali
Obiettivi del
controllo rischi
Dirette
Gestore
Delegate
VaR
Tracking error
Stress test
Confronti con
altri gestori
Allocazione del capitale
Ottimizzare le
Limitate
Tracking error volatilità
Controllo dei titoli in portafoglio scelte di asset allocation
Compliance con la
normativa di vigilanza
Strumenti di controllo
Accesso alle informazioni
Controllare il gestore
Limiti di VaR
Benchmarking
Regole di Stop Loss
Diversificazione
Allocazione del capitale
Aggiustamenti al
portfolio mix
Evitare perdite,
assolute o relative
al benchmark
Diversificazione
Regole di sell
Immediato
Ritardato e indiretto
Rapido e dettagliato
Breve: pochi giorni
Ampio: uno o più anni
Intermedio: un mese,
un trimestre, un anno
rilevanti
Orizzonte temporale
rilevante
Definizione delle posizioni
Posizioni composte
da investimenti e debiti
Possibilità di elevata
leva finanziaria
Diretta
Percepisce un turnover
ridotto
Diretta
Livelli di turnover
intermedi
Rotazione elevata
Fonte: nostra rielaborazione da Stubbs e Gupta (2000)
10
È infatti probabile che il Nuovo Accordo di Basilea sul Capitale (cfr. ad es. Basel
Committee on Banking Supervision, 2001) imponga ai gruppi bancari un requisito
patrimoniale sul rischio operativo (cioè sulle possibili perdite a fronte di frodi, malfunzionamenti di sistemi e procedure o eventi negativi esterni); tale requisito verrebbe esteso, almeno per quanto riguarda l’Unione Europea, anche alle imprese di
investimento. In proposito, cfr. anche il contributo di Appetiti in questo volume.
18
Q U A D E R N I
vuta (più precisa e tempestiva per il gestore che per il
cliente) e i possibili margini di autonomia. Per questo
motivo, i tempi di reazione ad una sfavorevole dinamica
dei mercati risultano più lunghi che nell’attività di investment banking, ed il controllo dei rischi deve sovente assumere per data l’impostazione generale del portafoglio.
4. Un diverso obiettivo. Anche per effetto della limitata autonomia decisionale della Sgr, l’attenzione del risk manager
si concentra (come già richiamato nel paragrafo precedente) sugli scostamenti da un benchmark che riassume
l’asset allocation di lungo periodo concordata con il cliente
(ma che potrebbe anche rappresentare, nel caso di un
cliente istituzionale che gestisce un fondo pensioni, il
flusso di liabilities che si intende garantire in futuro). Non
è quindi il rendimento assoluto ad essere oggetto di misurazione e di analisi probabilistica, bensì il differenziale di
performance rispetto a un “portafoglio di riferimento”.
L’ultima caratteristica ricordata merita qualche ulteriore approfondimento. Lo spostamento del focus dai rendimenti assoluti a
quelli differenziali costituisce infatti un mutamento suscettibile di
incidere in profondità sulle logiche di funzionamento dei modelli di
risk management. Non stupisce, quindi, che sul piano metodologico
siano stati proposti diversi approcci alternativi, che per comodità
d’esposizione possiamo ricondurre ai seguenti due:
• da un lato, è possibile considerare come variabile stocastica (cioè come grandezza incerta, di cui si vuole modellare l’evoluzione futura) l’extrarendimento rispetto al
benchmark conseguito dei singoli gestori su determinate
porzioni di portafoglio (per esempio, dai gestori che operano in azioni small cap o in obbligazioni estere). Questi
extrarendimenti individuali (che a loro volta possono derivare da una superiore capacità di stock picking, da una
maggiore esposizione al rischio di mercato o semplicemente dal caso) possono essere aggregati tra loro, all’interno di ogni asset class, utilizzando una stima della matrice di correlazione tra le prestazioni dei singoli gestori;
ad un livello gerarchico successivo, è possibile proseguire
l’aggregazione servendosi delle correlazioni tra extraren11
dimenti di asset class diverse . Un approccio simile è stato
proposto, ad esempio da Goldman Sachs (Winkelmann,
2000) e da Schroders (Scherer, 2000).
• D’altra parte, è possibile stimare gli extrarendimenti futuri ricorrendo a un artificio. Si tratta cioè di considerare
un “portafoglio differenza” i cui pesi, per ogni asset class o
fattore di rischio, siano dati dallo scostamento tra il portafoglio gestito e il benchmark. Infatti, se con q indichiamo il
vettore dei pesi usati dal gestore attivo, con b i pesi del
benchmark e con r il vettore (stocatico) dei rendimenti futuri sui fattori di mercato, allora l’extrarendimento fu11
É possibile, ad esempio, adottare l’ipotesi di correlazione nulla (che può risultare accettabile, considerato che oggetto della rilevazione non sono i rendimenti totali, ma
solo i differenziali rispetto al benchmark). Cfr. Wikelmann (2000) per un esempio.
19
Q U A D E R N I
turo può essere scritto come q’r - b’r, cioè come il rendimento di un portafoglio costruito con pesi h = q - b, la cui
volatilità (nota la matrice di varianze e covarianze tra fattori di mercato, ∑) può essere stimata come h′Σh .
Un simile approccio, adottato ad esempio da J. P. Morgan
(cfr. Mina e Watson, 2000) e noto come relative VaR (o ReVaR), consente di fare riferimento ai medesimi fattori di
rischio utilizzati per il calcolo di un VaR assoluto (ad
esempio: indici di borsa, nodi delle curve dei rendimenti,
tassi di cambio) ed è stato ripreso da molti asset managers,
12
anche in Italia . É da notare che la formula sopra richiamata si discosta dal calcolo di una tracking error volatility
storica, perché riflette l’ultima composizione aggiornata
del portafoglio attivo (oltre che eventuali ricomposizioni,
per la verità meno frequenti, del benchmark), ed utilizza la
storia passata solo per stimare la distribuzione di probabilità dei singoli fattori di rischio.
3. Il risk management
nell’asset management:
cosa cambierà?
Abbiamo brevemente ricordato i presupposti dell’introduzione
delle tecniche di risk management nelle società di gestione del risparmio e le modalità con cui tali tecniche sono state adattate alle peculiarità di questa industria. Esaminiamo ora i principali effetti dell’ingresso del risk management nelle Sgr.
Proprio perché (come accennato in precedenza) il controllo
dei rischi non rappresenta tanto la risposta ad una pressione normativa esterna, quanto ad un’esigenza interna e di mercato, è naturale che esso vada calandosi in profondità nei meccanismi di investimento dei gestori, condizionandone gli schemi operativi e
rendendo più trasparente e razionale la rendicontazione dei processi interni.
La stima del rischio totale di un portafoglio gestito è infatti solo
il primo passaggio di un’opera di misurazione ben più capillare e
ambiziosa, che mira a scomporre il rischio nei diversi fattori di mercato che l’hanno originato e a ripartirlo tra i diversi livelli di asset allocation e di gestione che concorrono alla realizzazione di un pro13
dotto o di un grande portafoglio . In questo modo, l’alfa atteso dai
singoli gestori potrà essere rapportato alla quantità di rischio che è
stato necessario assumere per ottenerlo, arrivando ad una misura di
risk-adjusted performance rivolta al futuro (forward looking) e non al passato come è tipico dell’information ratio. Un simile processo di misura
del rendimento aggiustato per il rischio, pur avendo peculiarità proprie, può essere in qualche misura accostato alle misure di stima del
rendimento sul capitale assorbito (a livello di divisioni o di singoli desk)
ormai comuni a tutte le maggiori banche.
Se poi, come punto di partenza dell’analisi, non si utilizza il ri12
Cfr. in questo volume, i contributi di Brandolini, Pallotta e Zenti; Gaffo e di Tria
(che del ReVar propongono un’estensione basata sul backtesting); Burgio, Di Sario
e Gota; Mignacca, Aiudi e Ruvolato.
13
A tal proposito, va ricordato che misure di rischio calcolate a partire da distribuzioni dei prezzi lognormali (come avviene di solito per il ReVaR) sono direttamente
proporzionali alla deviazione standard della distribuzione e consentono dunque
una scomposizione del rischio di facile costruzione e interpretazione, basata sulle
proprietà delle funzioni omogenee lineari e sul teorema di Eulero. Cfr. in proposito
il lavoro di Mignacca, Aiudi e Ruvolato in questo volume.
20
Q U A D E R N I
schio effettivamente assunto su un portafoglio gestito, bensì il limite
massimo di rischio assegnato dagli organi amministrativi della Sgr (o
concordato con un grande cliente istituzionale), allora la ripartizione di tale limite tra i diversi centri di responsabilità interni conduce ad un vero e proprio processo di risk budgeting (cfr. ad es. Scherer, 2000; Mina, 2001); in altri termini, ogni desk di gestione riceve
in dote un certo “budget di rischio” che gli consente di allontanarsi
(in modo controllato) dal suo benchmark, richiedendogli di produrre, in contropartita, un alfa positivo. Il rispetto di questa logica
operativa richiede ai gestori di non eccedere il budget assegnato, ma
anche di sfruttarlo per intero, evitando di assumere comportamenti
eccessivamente passivi.
Simili metodologie di scomposizione del rischio possono essere
rese ancora più capillari: è possibile, per esempio, ricalcolare il VaR relativo di un portafoglio con o senza una determinata operazione (e si
parla, in questo caso, di ReVaR marginale; cfr. Mina e Watson, 2000),
per vedere se i benefici attesi dalla stessa sono in grado di coprire i
maggiori rischi da essa generati. Il risk management, quindi, lungi dall’essere un “notaio” che certifica i margini di rischio impliciti in scelte
di asset allocation già prese, si troverà sempre più spesso ad esercitare un
profondo effetto di retroazione sui processi decisionali della gestione.
Infine, anche il rapporto con la clientela finale risentirà in misura spiccata dell’introduzione delle nuove misure di rischio. In effetti, nel momento in cui persino la clientela retail (alla luce delle negative performance dei mercati) è divenuta più attenta al contenuto
di volatilità delle proprie scelte di asset allocation e di stile, sarebbe impensabile non dotare la rete di vendita di semplici strumenti di rappresentazione dei profili di rischio (assoluto e relativo) impliciti nei
diversi prodotti offerti. L’opera di semplificazione, standardizzazione, distribuzione in periferia di misure di rischio che richiedono
un aggiornamento frequente ed attento, rappresenta evidentemente un compito complesso, eppure necessario, cui devono dedicarsi insieme il risk management e l’area commerciale.
La necessità di arricchire le tradizionali misure di performance
aggiungendo la dimensione del rischio richiede, ovviamente, che anche le prime vengano calcolate nel modo più possibile razionale, oggettivo, trasparente. L’avvento del risk management conduce quindi ad
una rivisitazione in profondità delle tecniche di performance measurement e attribution diffuse negli anni passati (e che rappresentano, per
la verità, un’area di analisi tutt’altro che consolidata).
Risulta dunque difficile accostarsi ai temi del risk management
nel risparmio gestito senza allargare il discorso all’argomento, collaterale e complementare, della misura delle prestazioni e della scomposizione degli extrarendimenti storici e attesi. Dalla constatazione di
questo connubio nasce la struttura del presente volume, che verrà
rapidamente presentata nel paragrafo che segue.
Misura del rischio, attribuzione della performance, partecipazione del risk management al processo d’investimento della Sgr rappresentano i tre temi principali attorno ai quali ruotano i diversi
contributi raccolti in questo libro. Non è tuttavia possibile raggrupparli nettamente attorno a questi tre poli tematici, in quanto spesso
ogni singolo saggio tocca più lati del triangolo, riconoscendone i
profondi collegamenti logici e pratici.
4. Questo libro
21
Q U A D E R N I
Il lavoro di Dario Brandolini, Massimiliano Pallotta e Raffaele
Zenti, per esempio, muove da un’importante premessa metodologica, presentando sinteticamente il modello di misura del VaR relativo adottato da Ras Asset Management e basato sul bootstrap (filtrato
per l’eteroschedasticità) dei rendimenti storici dei fattori di rischio.
Tuttavia, esso non si esaurisce in una descrizione dello strumento, ma
compie un passo oltre, immaginando come le diverse misure di rischio generate dal modello possano essere tradotte in limiti operativi,
e fornendo un’importante indicazione a favore dei limiti basati sulle
misure di Excess Return at Risk (dove il budget di rischio assegnato a un
gestore è correlato ai successi ottenuti nei mesi precedenti).
Un altro significativo contributo metodologico alla costruzione
di un modello ReVaR per la misura dei rischi di mercato ci viene poi
offerto da Michele Gaffo e Massimo di Tria di RAS SpA. Nel loro capitolo, si mostra come sia possibile utilizzare i risultati del backtesting
su un modello di VaR relativo non solo per quantificarne i margini di
precisione, ma anche per migliorarne le prestazioni “adattandolo”
senza ritardo alla maggiore o minor volatilità dei mercati. La metodologia proposta (che non a caso prende il nome di adaptive ReVar)
viene messa alla prova in maniera intensiva su un vasto dataset empirico (che comprende osservazioni giornaliere e settimanali, così
come holding period di ampiezza variabile) con risultati decisamente confortanti.
Più composito è invece il contributo di Massimiliano Burgio,
Michele De Sario e Maria Luisa Gota. La tesi degli autori è che non
esiste una procedura di misurazione del rischio ottimale, bensì
tante metodologie quanti sono i diversi sottoportafogli che ricadono sotto la responsabilità del risk manager; conseguentemente,
vengono presentati due esempi ispirati ad approcci logicamente
distinti, il primo rivolto al monitoraggio di un portafoglio azionario europeo ed il secondo destinato al controllo di un fondo di
fondi. Il focus è sulla stima ex ante dei rischi futuri ma anche, in
qualche misura, sulla rendicontazione ex post dei livelli di rischio
evidenziati nel recente passato. Il profondo legame logico tra rischio e performance conduce poi gli Autori a dedicare un approfondimento ad hoc ad un sistema di performance attribution creato da
Eptafund per il comparto obbligazionario.
Proprio al tema del rapporto tra misura dei rendimenti e risk management è dedicato il capitolo curato da Francesco Betti e Valentina
Dall’Aglio. Il capitolo prende le mosse dalla descrizione del sistema di
performance attribution sviluppato da Aletti Gestielle Sgr e rivolto in
primo luogo ai portafogli azionari; gli Autori si interrogano tra l’altro
sui possibili accorgimenti metodologici per riaggregare, su orizzonti
temporali più lunghi, misure di extrarendimento costruite su orizzonti di brevissimo termine, proponendo diverse soluzioni al problema. Successivamente, viene presentato un modello di risk attribution in grado di associare alla performance “lorda” dei diversi livelli di
asset allocation e selectivity (ad esempio: selezione del settore, del paese,
del singolo titolo) un “fattore di aggiustamento per il rischio” che consenta di isolare un extra-rendimento netto (corretto per la rischiosità
intrinseca delle posizioni). L’obiettivo è quello di far evolvere il sistema
di attribuzione della performance verso un vero e proprio strumento
di risk-adjusted performance attribution che isoli i margini di creazione
netta di valore generati ai diversi livelli del processo d’investimento.
22
Q U A D E R N I
Il contributo di Domenico Mignacca, Valeria Aiudi e Michele
Ruvolato (Sanpaolo Imi Wealth Management) presenta diverse sfaccettature. Dapprima, al fine di inserire l’attività del risk manager all’interno del processo di investimento, ripercorre i passaggi fondamentali dell’approccio di Black e Litterman, mostrando come le
opinioni (“views”) dei gestori possano essere aggiunte alle informazioni sui rendimenti di equilibrio delle diverse asset class, derivando
una nuova media “condizionale” da cui estrapolare l’asset allocation
per il periodo a venire. Quindi, si concentra sull’utilizzo di un mo14
dello di ReVaR all’interno del processo di investimento stesso , ed in
particolare sulla scomposizione del VaR in più porzioni, di pertinenza dei diversi sottoportafogli o fattori di rischio (per esempio settori o paesi). Successivamente, a questa ripartizione se ne sovrappone un’altra, che consente di suddividere il VaR relativo tra asset allocation risk, country allocation risk, sector allocation risk e security selection
risk. Questa seconda scomposizione del rischio risulta particolarmente interessante, in quanto perfettamente simmetrica alla scomposizione della performance che viene solitamente operata, sul versante del rendimento, dagli algoritmi di performance attribution (di
cui anche gli Autori ci danno un saggio nel loro capitolo). É dunque
possibile valutare la coerenza tra rendimento e rischio per diversi livelli di autonomia gestionale, pervenendo ad uno strumento di riskadjusted performance attribution simile, quanto a finalità, a quello predisposto nel lavoro di Betti e Dall’Aglio (seppur diverso sul piano
delle scelte metodologiche).
L’ingresso del risk management nel processo d’investimento e
nella cultura aziendale comporta uno sforzo continuo, da parte del
risk management, per portare le proprie analisi a contatto con l’alta direzione e con i gestori. É questo l’argomento del primo dei due capitoli firmati da Carlo Appetiti (Nextra Asset Management). Il disegno di una nuova informativa direzionale, contraddistinta da una
quantificazione del rischio quanto più possibile capillare, richiede al
risk manager uno screening dei propri potenziali clienti (amministratori, gestione, auditing, vigilanza, clienti istituzionali e rete di vendita
retail) ad una precisa conoscenza delle necessità informative di
ognuno (e delle relative tempistiche). Il lavoro riporta numerosi
esempi di report disegnati per rispondere alle diverse necessità di
rendicontazione di questi soggetti, e ne offre una lettura guidata
mettendone in risalto le potenzialità e gli eventuali limiti.
Il mercato, pur se preponderante, non rappresenta la sola
fonte di rischio che insiste su una società di gestione del risparmio.
In primo luogo, il vivace sviluppo del comparto delle obbligazioni
corporate ha imposto ai gestori di familiarizzarsi con una nuova
fonte di extra-rendimenti, ma anche di possibili perdite future, ossia
15
il rischio di credito degli emittenti privati ; esso va ad aggiungersi al
rischio creditizio connesso con la possibilità di mancata esecuzione
dei trades da parte delle controparti sul mercato dei titoli o dei
14
Gli Autori prendono a riferimento una misura di volatilità (Tracking Error Volatility,
o TEV); tuttavia, va ricordato che, se la distribuzione dei rendimenti è normale, il
VaR relativo non è altro che un multiplo della volatilità stessa. Le scomposizioni presentate nel capitolo per la TEV sono dunque direttamente applicabili, a meno di
una costante moltiplicativa, al ReVaR.
15
In materia, cfr. ad es. Poli e Holifield (2000).
23
Q U A D E R N I
cambi (rischio di controparte o di execution) e suggerisce alle Sgr di
dotarsi di un sistema di rating per censire e valutare emittenti e negoziatori, ed eventualmente imporre limiti operativi al front office. In
secondo luogo, sugli asset managers ricadono anche i rischi (cosiddetti “operativi”) che riguardano la possibilità di un malfunzionamento dei sistemi informativi, di un errore umano, di una frode o di
un evento esterno (si tratti di un terremoto o, come insegna la storia
recente, di un attacco terroristico); l’eterogeneità di tali rischi, che
rappresentano di norma eventi rari anche se molto gravi, non deve
allontanare le Sgr dall’obiettivo di censirli, controllarli, quantificarne i potenziali impatti. Ad un secondo contributo di Carlo Appetiti, scritto con Patrizia Bilardo e Massimiliano Forte, va il merito di
essersi confrontato con queste due tipologie di rischi (creditizio e
operativo), per certi versi “misconosciuti” presso molti asset managers
(e certamente di non facile inquadramento). Il capitolo propone
una possibile definizione teorica e offre alcune indicazioni concrete
su come Nextra Asset Management intenda muoversi in queste due
particolari aree del suo sistema di risk management.
A conclusione di questa panoramica, desidero ringraziare Assogestioni per essersi fatta promotrice di questa iniziativa, e naturalmente gli Autori di questo volume per aver trovato il tempo necessario a uno sforzo di riflessione che guardasse oltre le piccole necessità
contingenti del lavoro quotidiano e provasse a tracciare una prima
ricognizione, di massima, circa lo stato dell’arte del controllo dei rischi presso alcune grandi Sgr.
Lo studio dei loro contributi è risultato per me un motivo di
profondo arricchimento tecnico e professionale; confido che anche
il lettore, quando sarà giunto al termine di questo volume, vorrà
condividere questo mio sentimento di riconoscenza.
Milano, dicembre 2002
24
Q U A D E R N I
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Riferimenti bibliografici
25
Dario Brandolini
Ras Asset Management Sgr
Massimiliano Pallotta
Ras Asset Management Sgr
Raffaele Zenti
Ras Asset Management Sgr
Un modello di stima
del rischio e la definizione
della risk policy di una Sgr
Q U A D E R N I
28
Q U A D E R N I
Spinte dalla clientela istituzionale e dalle esigenze di limitare
l’entità di possibili performance negative, le società di asset management utilizzano in misura sempre maggiore strumenti di risk management. É piuttosto evidente che l’inserimento esplicito del risk management nel processo d’investimento risulta efficace soltanto se l’attività di risk management viene svolta in modo appropriato e coerente.
Per chiarire questo punto si può partire dalla suddivisione in tre fasi
del processo di risk management, ossia:
1. la stima della funzione di densità di probabilità del rendimento futuro del portafoglio, ossia la generazione degli
scenari futuri di riferimento;
2. il calcolo di statistiche descrittive di tale distribuzione di
probabilità, utilizzate come misure di rischio;
3. l’impiego di tali misure in una risk policy, cioè una politica
atta a mantenere la performance del portafoglio sotto
controllo.
Se una soltanto delle tre fasi poggia su fondamenta poco solide,
viene inficiato l’intero processo. Ad esempio, se la stima della funzione di densità avviene sulla base di ipotesi non realistiche, le misure di rischio calcolate possono risultare molto lontane dalla realtà
e potenzialmente fuorvianti. In altri casi è la misura di rischio a non
essere scelta in modo opportuno: molti asset manager, a titolo di
esempio, si concentrano solo sulla probabilità di non ottenere un
dato risultato (shortfall probability), quando invece rileva anche l’entità media della perdita (expected shortfall) nel caso in cui il risultato
sperato non venga conseguito. Infatti, se l’obiettivo è ottenere un ritorno assoluto almeno pari al 3%, è intuitivamente molto differente
avere, a parità di shortfall probability, un expected shortfall pari a 2.9% o
a -5.0%. Infine, anche se la fase 1 e la fase 2 sono soddisfacenti, la
mancanza di un’opportuna risk policy, cioè l’assenza di adeguate regole comportamentali a fronte di vari livelli di rischio, può far sì che
indicatori di rischio ben calcolati risultino del tutto inutili e non abbiano una ricaduta operativa.
La letteratura finanziaria in tema di asset management e di risk
management si è occupata principalmente della fase 1 e della fase 2.
Poca attenzione è stata finora rivolta alla definizione ed all’analisi
empirica di risk policy volte ad aggiungere valore al processo d’investimento. Un interessante contributo su tale tema è quello di Gupta
e Kartinen (2000). Utilizzando dati storici relativi ad un periodo ventennale, essi analizzano risk policy basate sul VaR, ossia sul rischio assoluto, mostrando come sia possibile definire portafogli che dominano in termini di Sharpe ratio il benchmark assegnato.
Il nostro obiettivo principale è l’analisi empirica della capacità
di differenti risk policy di creare valore aggiunto nel processo d’investimento dell’asset manager attivo. L’attenzione è dunque rivolta al
rischio relativo, legato agli excess return, e non al rischio assoluto. Per
excess return, in questo capitolo, si intende la differenza di rendi-
1. Introduzione
29
Q U A D E R N I
mento tra un portafoglio ed il benchmark (ossia un portafoglio di riferimento). Inoltre, per effettuare una valutazione statisticamente
affidabile delle differenti risk policy, viene impiegata una metodologia di tipo Monte Carlo.
La struttura del capitolo è la seguente. Nella sezione 2 viene
descritto un modello per la stima della distribuzione di probabilità
del rendimento futuro del portafoglio che a nostro parere ben si
adatta ad una Sgr. Nella successiva sezione 3 si accenna alle modalità di scelta degli indicatori di rischio. Nella sezione 4 si descrivono
varie tipologie di risk policy, la cui efficacia viene verificata empiricamente utilizzando la metodologia descritta nella sezione 5. I risultati dei test sono riportati nella sezione 6, alla quale fanno seguito le conclusioni.
2. Un modello affidabile
per gli asset manager
Non è rara fra i practicioner l’idea che il modello impiegato sia
scarsamente rilevante e che siano molto più importanti aspetti,
spesso di natura organizzativa, legati all’impiego pratico delle misure di rischio. La nostra opinione è che la stima della funzione di
1
densità di probabilità (d’ora in avanti pdf) degli excess return sull’orizzonte di stima prescelto costituisca invece una delle fasi più cruciali del processo di risk management. Infatti, ipotesi semplicistiche
circa la distribuzione futura degli excess return possono minare l’intero processo (“garbage in, garbage out”). Avendo a che fare con oriz2
zonti temporali medio-lunghi e tipicamente multipli , il problema di
stima della pdf è piuttosto complesso. Per esempio, al fine di avere
una descrizione della situazione di rischio sia su un orizzonte di 1
mese, sia su un orizzonte di 1 anno, occorre stimare in modo coerente le due pdf.
Nella scelta del modello di rischio è bene considerare alcuni
fatti, brevemente discussi nel seguito.
Nel medio-lungo termine non è prudente ipotizzare che i rendimenti siano normalmente distribuiti, con volatilità costante nel
periodo corrispondente all’orizzonte d’analisi e con media nulla. Si
tratta di ipotesi piuttosto comuni all’interno di molti software di risk
management utilizzati dalle Sgr.
Anche se è ampiamente riconosciuto dalla comunità finanziaria che i rendimenti intragiornalieri, giornalieri e settimanali non
sono normali, su orizzonti temporali maggiori, ad esempio 1 mese o
più, l’approssimazione mediante una normale è ancora ampiamente utilizzata, soprattutto nel contesto dei modelli multifattoriali.
La giustificazione è la seguente: dato che il rendimento logaritmico su un orizzonte multiperiodale è la somma dei rendimenti logaritmici giornalieri, se essi sono indipendentemente e identicamente distribuiti (i.i.d.), per il Teorema Limite Centrale essi sono
approssimativamente normali. Il Teorema Limite Centrale vale anche nel caso in cui i rendimenti non siano identicamente distribuiti,
basta che siano indipendenti. Sfortunatamente, l’evidenza empirica
1
2
Nulla cambierebbe nella sostanza se si trattasse di total return.
Parliamo di orizzonti multipli a causa del fatto che generalmente si vuole capire
quale sia la rischiosità del portafoglio tanto nell’immediato, per evitare potenziali
risultati negativi che potrebbero comportare la perdita di un mandato di gestione,
quanto nel medio-lungo periodo, che spesso costituisce l’orizzonte d’investimento
naturale di un portafoglio in gestione.
30
Q U A D E R N I
mostra che nella maggioranza dei casi la convergenza alla distribuzione normale è molto lenta e non avviene con orizzonti temporali
inferiori a 3 mesi. Spesso, anche su orizzonti pluri-mensili, la distribuzione di probabilità empirica è decisamente leptocurtica (“fat-tai3
led”). Inoltre la media è tipicamente non nulla .
Si vedano gli esempi riportati nella Tabella 1a e nella Tabella
1b. Il motivo della presenza di leptocurtosi anche su orizzonti medio-lunghi è principalmente imputabile al fatto che i rendimenti
non sono i.i.d.; essi presentano infatti volatilità e correlazioni che
cambiano nel tempo (cioè sono eteroschedastici) e spesso sono autocorrelati. Si veda la Figura 1 per un esempio.
Tab 1a
Tabella 1a
Medie dei rendimenti
Dati non annualizzati
Frequenza
dei rendimenti
MSCI World
Salomon Bros. WGBI
Limite
Stima
Limite
inferiore puntuale superiore
Limite
inferiore
Stima
Limite
puntuale superiore
Giornaliera
0.02%
0.03%
0.05%
0.02%
0.03%
0.04%
Settimanale
0.06%
0.17%
0.28%
0.09%
0.13%
0.17%
Mensile
0.26%
0.75%
1.19%
0.40%
0.58%
0.75%
Trimestrale
0.71%
2.27%
3.95%
1.09%
1.74%
2.34%
Dati annualizzati
Frequenza
dei rendimenti
MSCI World
Salomon Bros. WGBI
Limite
Stima
Limite
inferiore puntuale superiore
Limite
inferiore
Stima
Limite
puntuale superiore
Giornaliera
4.19%
8.71%
13.59%
4.93%
6.61%
8.78%
Settimanale
3.18%
9.05%
14.73%
4.82%
6.89%
8.89%
Mensile
3.06%
8.96%
14.23%
4.80%
6.92%
9.00%
Trimestrale
2.85%
9.09%
15.82%
4.35%
6.96%
9.35%
Tab 1b
Tabella 1b
Test di normalità dei rendimenti
Dati mensili
MSCI
Europe
MSCI
USA
Campione
3/’72-3/’02
3/’72-3/’02
3/’72-3/’02
1/’80-3/’02
1/’80-3/’02
1/’82-3/’02
Jarque-Bera
3459.97
160.75
47.73
41.12
24.23
72.12
0.0%
0.0%
0.0%
0.0%
0.0%
0.0%
MSCI
Europe
MSCI
USA
P-Value
MSCI
DS US
DS UK DS Japan
Far East Govt. Index Govt. Index Govt. Index
Dati trimestrali
Campione
Jarque-Bera
P-Value
MSCI
DS US
DS UK DS Japan
Far East Govt. Index Govt. Index Govt. Index
Q1 ’72-Q1 ’02 Q1 ’72-Q1 ’02 Q1 ’72-Q1 ’02
Media dei log-rendimenti di: i) l’indice azionario globale MSCI World, in divisa locale,
nel periodo dicembre 1979 - febbraio 2002
(fonte Datastream International); ii) l’indice
obbligazionario globale Salomon Bros.
WGBI, in divisa locale, nel periodo dicembre
1993 - dicembre 2001 (fonte Datastream
International). Si riportano sia stime non-annualizzate che annualizzate. Il limite inferiore
e quello superiore sono gli estremi di un intervallo di confidenza al 95% calcolato mediante bootstrap con il metodo dei percentili
di Efron, impiegando 1000 ricampionamenti. Le statistiche mostrano come le distribuzioni empiriche abbiano media significativamente diversa da zero.
Q1 ’80-Q1 ’02 Q1 ’80-Q1 ’02 Q1 ’82-Q1 ’02
121.79
72.87
0.88
17.38
1.17
12.91
0.0%
0.0%
64.5%
0.0%
55.6%
0.2%
Test di Jarque-Bera per alcuni indici azionari
Morgan Stanley e indici obbligazionari Datastream espressi in valuta locale (fonte Datastream International); il campione utilizzato
è riportato sulla tabella. Jarque-Bera è una
statistica per il test di normalità di un campione. Con l’ipotesi nulla di normalità, la statistica di Jarque-Bera è distribuita secondo
una c2 con 2 gradi di libertà. Un valore contenuto di P-value porta quindi al rifiuto dell’ipotesi nulla di normalità. Secondo il test, la
maggior parte dei rendimenti non sono normalmente distributi (con le notevoli eccezioni
dei rendimenti trimestrali delle azioni Far
East e delle obbligazioni UK).
3
L’ipotesi di media nulla nel lungo periodo non è del tutto da escludere se si analizza il portafoglio attivo in modo aggregato (cioè come se si trattasse di un’unica variabile finanziaria, senza considerare esplicitamente la distribuzione dei rendimenti delle attività finanziarie che lo compongono) e se l’oggetto dell’indagine è
un portafoglio attivo il cui gestore non si discosta dal benchmark in modo sistematicamente “aggressivo” (ad esempio puntando su titoli growth o usando, se permesso, la leva). Se si escludono le gestioni passive, la performance di lungo periodo
dovrebbe invece risultare superiore all’indice come compenso per il rischio preso.
31
Q U A D E R N I
Figura 1
Volatilità del MSCI World
35,0%
30,0%
25,0%
20,0%
15,0%
10,0%
lug-01
lug-01
lug-01
gen-01
gen-01
gen-01
gen-00
lug-00
lug-00
lug-00
lug-99
gen-00
gen-00
gen-99
lug-99
lug-98
gen-99
lug-97
gen-98
lug-96
gen-97
lug-95
gen-96
lug-94
gen-95
lug-93
gen-94
5,0%
gen-93
Stime di volatilità e correlazione per il MSCI
World e il Salomon Bros. WGBI, entrambi in
divisa locale, per il periodo gennaio 1993 dicembre 2001 (fonte Datastream International), effettuate mediante un GARCH(1,1)
bivariato. È evidente come volatilità e correlazione siano fortemente variabili nel tempo.
Ciò implica che i rendimenti non sono i.i.d.;
quindi l’eventuale utilizzo della “regola della
radice quadrata” è scorretto e può portare
ad errori nelle stime di rischio su orizzonti
temporali multipli.
Volatilità del Salomon Bros. WGBI
6,0%
5,0%
4,0%
3,0%
2,0%
1,0%
lug-98
lug-97
gen-98
lug-96
gen-97
gen-96
lug-95
gen-95
lug-94
gen-94
lug-93
gen-93
0,0%
Correlazione tra MSCI World e Salomon Bros. WGBI
1,00
0,80
0,60
0,40
0,20
0,00
-0,20
-0,40
-0,60
-0,80
lug-99
lug-98
gen-99
lug-97
gen-98
gen-97
lug-96
gen-96
lug-95
gen-95
lug-94
gen-94
lug-93
gen-93
-1,00
Una conseguenza diretta del fatto che i rendimenti non sono
i.i.d. è che l’utilizzo della cosiddetta “regola della radice quadrata”
per calcolare indicatori di rischio su orizzonti multiperiodali a partire da statistiche ricavate su dati a maggior frequenza (ad esempio
giornalieri) è errato.
Alla luce di quanto detto, un modo ragionevole di stimare la pdf
dei rendimenti (o degli excess return) consiste nel tentare di replicare,
attraverso una simulazione, il processo stocastico seguito dalle varie attività. Il modello del Filtered Bootstrap (FB), proposto da Barone-Adesi,
32
Q U A D E R N I
Giannopoulos e Vosper (1999), testato da Barone-Adesi, Giannopoulos e Vosper (2000) e da Zenti e Pallotta (2000) su orizzonti medio-lunghi, sembra una soluzione appropriata e flessibile per generare scenari
futuri e stimare così la pdf. Questo metodo consente di catturare l’eteroschedasticità condizionale, l’autocorrelazione, il trend e la non normalità presente nei fattori di rischio, ovvero la maggior parte delle caratteristiche osservate nelle serie storiche. Per approfondimenti sulle
tecniche di bootstrap in generale si veda Efron e Tibshirani (1998).
Il modo più semplice di illustrare tale modello consiste nell’applicarlo al portafoglio. Ciò consente di ridurre il caso multivariato di
un portafoglio con molte attività ad un caso univariato. Si noti tuttavia
che l’applicazione più interessante e naturale di questo modello è direttamente al caso multivariato di n attività, in quanto si possono ottenere contributi medi e marginali di rischio e si possono trattare opportunamente gli strumenti derivati non lineari mediante full valuation.
Introduciamo un concetto utile nel seguito: l’active frozen portfolio. Si tratta semplicemente del portafoglio i cui pesi attivi (cioè i differenziali di peso rispetto al benchmark) rimangono costanti nel
tempo. Ipotizzando di operare con dati giornalieri, denotiamo con
Rs(wt) il valore di excess return relativo al generico giorno (passato) s
dell’active frozen portfolio basato sui pesi attivi al tempo t. Tali pesi attivi
sono rappresentati dal vettore riga wt .
Rs (wt), d’ora in poi per semplicità di notazione Rs , è il risultato
della moltiplicazione tra il vettore riga Rs-1,s, contenente i rendimenti nell’intervallo [s-1,s] di tutte le attività incluse nell’universo
investibile del portafoglio, e il vettore (trasposto) wt . In sostanza, la
serie storica dell’active frozen portfolio è la serie storica degli excess return di un portafoglio che ha, in ogni istante del passato, la composizione corrente.
L’applicazione del modello FB prevede che la serie storica dei
rendimenti del frozen portfolio venga filtrata utilizzando un
ARMA(1,1)-GARCH(1,1), cioè:
,
et ~(0,st)
(1A)
Rt = a + bRt −1 + cε t −1 + ε t
st2 = α + βst2−1 + γε t2−1
(1B)
dove et è l’innovazione del processo ARMA e s t è la sua varianza.
Ottenuta la serie storica dei residui standardizzati zt = et / st, si applica
su di essa il bootstrap, con un orizzonte temporale T ed un numero
di scenari (“stati del mondo”) pari a N. Ciò significa che si effettua un
campionamento con reintroduzione di T residui standardizzati, i
quali sono approssimativamente i.i.d., ripetendo il campionamento
N volte, ossia tante volte quanti sono gli scenari che si intendono generare. Infine, le N traiettorie di lunghezza T ottenute per i residui
standardizzati vengono utilizzate iterativamente nella (1A)-(1B) per
simulare il processo ARMA(1,1)-GARCH(1,1) in N scenari. Si ottiene una nuova matrice che contiene T excess return giornalieri per
ciascuno degli N stati del mondo. Infine, componendo, per ciascun
stato del mondo, i T excess return giornalieri, si ottengono N scenari
finanziari. Essi sono utilizzati per stimare la pdf degli excess return di
portafoglio e, conseguentemente, gli indicatori di rischio ex-ante.
L’idea principale di questa tecnica è quella di creare una molteplicità di scenari finanziari basati su dati storici, tipicamente giornalieri, in modo da ottenere, sull’orizzonte temporale richiesto, una
2
33
Q U A D E R N I
distribuzione attesa dei valori del portafoglio, da cui si ricavano vari
indicatori di rischio. Così facendo, si utilizza il contenuto informativo dei dati giornalieri per creare scenari finanziari su orizzonti temporali arbitrari. In sostanza, il FB è un campionamento con reintroduzione da una serie storica opportunamente trattata, ossia filtrata.
Il motivo che spinge a filtrare i dati attraverso un modello ARMAGARCH è che, a fini di calcolo del rischio, il campionamento con
reintroduzione da una serie storica di excess return “grezzi” è appropriato solo se le osservazioni sono i.i.d.; in caso contrario, i risultati
risultano distorti.
Trattandosi di un modello simulativo, il FB consente di stimare
in un modo coerente la pdf su orizzonti multipli. Inoltre, campionando direttamente dalla distribuzione empirica multivariata, non è
implicita alcuna ipotesi sulla struttura di correlazione, che risulta
pari a quella effettivamente manifestatasi sul mercato. Vale ancora la
pena di sottolineare che la possibilità di trattare le opzioni mediante
full valuation è particolarmente apprezzabile quando l’orizzonte
d’investimento non è breve, come nel caso delle Sgr. In tali situazioni, la natura asimmetrica e non lineare delle opzioni è particolarmente evidente ed i metodi basati su espansioni in serie di Taylor
possono risultare fuorvianti.
3. Alcune considerazioni
sulla scelta
degli indicatori
Avendo stimato opportunamente la pdf degli excess return R
sull’orizzonte temporale desiderato, occorre individuare uno o più
indicatori di rischio. Un indicatore di rischio è una statistica descrittiva, rappresentabile come una funzione G della pdf stimata f(R):
Risk = G( f ( R))
(2)
Per esempio, il tracking error (TE), indicatore d’uso comune tra
gli asset manager, è da noi definito come la radice quadrata di:
+∞
∫ (R − µ )
R
−∞
2
f ( R)dR
(3)
dove mR è la media degli excess return. Si tratta dunque di una stan4
dard deviation .
Questa è la parte più semplice del processo, dato che, a partire
dalla pdf stimata, è possibile calcolare una grande quantità di indicatori (quantili, momenti, momenti parziali inferiori e via dicendo)
con poco sforzo computazionale. Occorre tuttavia avere l’accortezza di scegliere indicatori di rischio che siano coerenti con gli
obiettivi di gestione. Chiariamo questo punto con un esempio che
riguarda i numerosi asset manager che utilizzano il TE per gestire il
rischio di portafogli attivi. Essendo la standard deviation degli excess
return, il TE ne misura la sola dispersione, ignorando completamente il posizionamento della distribuzione, ovvero la media. La
portata di questo fatto è evidente se si pensa agli excess return di un
portafoglio A, con media mA e TE s , ed a quelli di un portafoglio B,
con media mB e TE ancora pari a s, con mA>mB. Si ipotizzi inoltre che
4
Nella pratica finanziaria il termine TE non ha significato univoco. Accanto a coloro che, come noi, definiscono il TE come standard deviation delle differenze di rendimento tra portafoglio e benchmark, vi sono molti che impiegano il termine TE
proprio per tali differenze, utilizzando poi il termine tracking error volatility per denotarne la standard deviation.
34
Q U A D E R N I
in entrambi i casi la distribuzione degli excess return sia normale.
Sebbene sia lampante che il portafoglio A domina il portafoglio B,
se si utilizza il TE come indicatore “chiave” (come è prassi in molte
Sgr), essi risultano equivalenti. Supponiamo invece di utilizzare il
ReVaR, cioè un quantile degli excess return. In generale, se F è la
funzione di ripartizione degli excess return di un portafoglio ed F-1 è
la sua inversa, il ReVaR calcolato con livello di probabilità p è dato
da F-1(p). Proseguendo l’esempio, per qualsiasi livello di probabilità
p, emergerebbe chiaramente come il rischio dei due portafogli non
sia identico, dato che si ha:
(4)
Re VaRA ( p) = µ A + q( p) ⋅ σ > Re VaRB ( p) = µ B + q( p) ⋅ σ
essendo q(p) il quantile di ordine p di una normale standard.
Pertanto, in caso di gestione attiva, cioè quando l’excess return medio
del gestore può essere significativamente diverso da zero, è bene utilizzare indicatori di rischio in grado di tenere conto di tale media,
5
evitando quindi il TE .
A conclusione di questa breve sezione dedicata agli indicatori,
si può dire che affinché il risk management possa essere efficace è opportuno utilizzare indicatori in grado di comunicare le informazioni veramente rilevanti per la gestione. Questo principio, nonostante appaia ovvio, non sempre viene applicato.
Una risk policy può essere definita come la funzione di reazione
con la quale un operatore di mercato, nel caso specifico una Sgr, reagisce a differenti livelli di rischio di portafoglio, variandone la composizione.
La definizione di una risk policy comporta:
1. la scelta di un indicatore di rischio;
2. la scelta di un orizzonte di calcolo per l’indicatore;
3. la fissazione di un target, o di un valore massimo, per tale
indicatore di rischio sull’orizzonte temporale prescelto;
4. la stima ex-ante dell’indicatore;
5. il confronto periodico e sistematico tra la stima ex-ante ed
il target e la conseguente variazione dei pesi, in modo che
il rischio del portafoglio sia in linea con il target.
In termini più formali, denotiamo con wt il vettore di pesi attivi
del portafoglio al tempo t, con wt+h i pesi attivi determinati in t e che
non saranno più oggetto di ribilanciamento fino a t+h (ossia la data
di ribilanciamento), essendo h l’orizzonte temporale della risk policy.
I pesi wt sono quindi quelli risultanti dall’applicazione della risk policy in t-h e dall’evoluzione dei rendimenti degli asset tra t-h e t.
Se Risk* è il target per il generico indicatore di rischio prescelto
e Riskt è la stima ex-ante effettuata al tempo t di tale indicatore di rischio, la risk policy può essere rappresentata schematicamente dalla
funzione RP:
(5)
w t + h = RP( Riskt − Risk ∗ , w t ),
wt + h ∈W
4. Che cos’è una
risk policy?
dove W è l’insieme dei pesi attivi ammissibili, ossia i pesi che soddi5
L’esempio non vuole in alcun modo affermare che il ReVaR sia un indicatore di rischio ottimale per gli asset manager. L’adozione del ReVaR presenta degli inconvenienti legati al fatto che non si tratta di una misura di rischio coerente nel senso di
Artzner et al. (1997): si rinvia a tale lavoro per eventuali approfondimenti.
35
Q U A D E R N I
sfano i vincoli posti dalla legge o dal management della società (può
trattarsi di vincoli di massimo/minimo, vincoli di turn-over e via dicendo). La funzione RP vede come input il posizionamento attivo
corrente e la differenza tra il livello di rischio corrente e quello desiderato. Nel seguito il target di rischio va inteso essenzialmente come
limite massimo. Sulla base di tali input ed in ottemperanza ai vincoli
di composizione del portafoglio, la funzione determina i pesi attivi
wt+h , corrispondenti per definizione ad un portafoglio il cui rischio
ex-ante calcolato al tempo t è pari a Risk*. Si ipotizza quindi che l’a6
gente si posizioni sul limite massimo di rischio ammesso . Il portafoglio verrà poi ribilanciato nell’istante t+h, reiterando il processo. In
linea di principio, qualsiasi indicatore può essere utilizzato per rendere operativa la (5). Non è inoltre necessario che l’orizzonte temporale dell’indicatore di rischio coincida con h (anche se appare
una scelta naturale).
In sostanza si può pensare al processo di ricalibrazione di portafoglio operato dal gestore come ad un processo a due fasi:
i) il gestore modifica i pesi secondo le proprie analisi del
mercato;
ii) li riscala verso il basso o verso l’alto fino a saturare il suo limite di rischio.
Nel caso in cui non vi siano altre restrizioni sui pesi attivi oltre a
quella che essi abbiano somma nulla e vi siano dei limiti superiori ed
inferiori definiti sulle singole attività, la (5) può assumere forme
semplificate, grazie al fatto che molti indicatori di rischio sono funzioni lineari omogenee di primo grado rispetto ai pesi attivi. Con riferimento a tale ipotesi, nel seguito si descriveranno alcune risk policy
che possono essere ricondotte a forme semplificate e che verranno
successivamente sottoposte a verifica empirica.
Se la risk policy si basa sul TE, denotando con TE* il target, con h
l’orizzonte temporale della risk policy e con TEt (tforward) la stima exante effettuata al tempo t del TE con un orizzonte temporale corrispondente alla data futura tforward> t , la (5) assume la forma:
wt +h = wt
TE ∗
TEt t forward
(
(6)
)
Nel caso in cui la risk policy si basi sul Relative Value at Risk (ReVaR), si ha invece
wt +h = wt
Re VaR∗
Re VaRt t forward , p
(
)
(7)
dove ReVaRt(tforward ,p) è il Relative VaR con probabilità p, ossia il
quantile d’ordine p, calcolato al tempo t con un orizzonte temporale
corrispondente a tforward , mentre ReVaR* è il target.
La scelta dell’indicatore chiave per la risk policy potrebbe cadere
sull’Expected Shortfall (ES), definito rispetto alla variabile excess return R come:
6
Ciò, si noti, è coerente con una prassi molto diffusa: il gestore vede parte della sua
retribuzione correlata positivamente all’excess return, se esso è non negativo, mantenendo la sua retribuzione fissa nel caso in cui l’excess return sia negativo. In tal caso la
parte variabile della retribuzione è assimilabile ad una posizione lunga in un’opzione call. Una strategia razionale consiste nel rendere massima la volatilità degli excess return, utilizzando tutto il budget di rischio concesso, elevando così il valore dell’opzione.
36
Q U A D E R N I
ES = E[ R R < k ]
(8)
dove k è un target di excess return. Si tratta quindi del valore atteso degli excess return condizionale al fatto che essi siano inferiori al target.
In questo caso la (5) assume la forma:
wt +h = wt
ES∗
ESt t forward , k
(
(9)
)
essendo ESt(tforward ,k) la stima in t dell’ES, con orizzonte temporale
corrispondente a tforward ed essendo ES* il target di rischio.
Un altro indicatore utilizzabile è l’Excess return at Risk (EaR),
calcolato al tempo t, con probabilità p, con orizzonte forward e backward rispettivamente pari a tforward ed a tbackward . L’EaR è definito
come:
(10)
EaRt (t forward , tbackward , p) = ER(tbackward , t ) + Re VaR(t forward , p)
dove ER(tbackward ,t) è la performance relativa effettivamente conseguita da tbackward a t. L’EaR è, in sostanza, il quantile d’ordine p (tipicamente un quantile all’1% o al 5%) della performance relativa cumulata a partire dall’istante tbackward. Una risk policy fondata sull’EaR
si basa sull’imposizione di vincoli sulla (10). Se, in modo realistico ed
operativo, si ipotizzano un target EaR* negativo ed un quantile negativo, la (5) diventa:
wt +h = wt
EaR∗ − ER(tbackward , t )
(
Re VaRt t forward , p
)
(11)
Le risk policy basate su TE, ReVaR, ES ed EaR sono state sottoposte a verifica empirica, nell’ipotesi in cui le uniche restrizioni sui pesi
attivi siano quella che essi abbiano somma nulla e che siano compresi tra un minimo ed un massimo.
Utilizzando come campione il periodo dal 17/03/1995 al
17/03/2002, abbiamo fissato una frequenza di ribilanciamento di
portafoglio pari a una settimana. In ciascuna data di ribilanciamento
(cioè una volta alla settimana) abbiamo generato 1000 portafogli attivi assolutamente casuali, utilizzando i titoli presenti a marzo 2002
nell’indice DJ Eurostoxx 50. In pratica, in ciascuna data di ribilanciamento sono stati generati 1000 vettori, ciascuno contenente 50
posizioni attive (ossia scostamenti percentuali tra portafoglio e
benchmark), comprese tra un minimo del -4% ed un massimo del
+4%, corrispondenti ai titoli presenti nell’indice.
In questo modo, ad ogni data di ribilanciamento sono stati generati 1000 portafogli attivi totalmente casuali, la cui performance
nel periodo in esame è stata calcolata utilizzando la serie storica dei
titoli costituenti l’indice. Tali portafogli sono interpretabili come il
risultato dell’operato di un gestore attivo che non dichiara esplicitamente la strategia da lui perseguita. I portafogli casuali costituiscono il parametro di raffronto per i portafogli che seguono le quattro differenti risk policy in esame. Ad ogni data di ribilanciamento,
unitamente a ciascuno di questi portafogli sono stati infatti individuati quattro portafogli che, a partire dalle stesse posizioni attive casuali, seguono le quattro risk policy delineate, riscalando linearmente le posizioni originali. L’orizzonte di calcolo degli indicatori
5. L’esperimento per
la valutazione relativa
di differenti risk policy
37
Q U A D E R N I
7
di rischio è mensile , ed i target prescelti sono stati:
• 1.44% per il TE a 1 mese;
• -2.30% per il ReVaR a 1 mese con probabilità 5%, ossia il
quantile al 5%;
• -1.07% per l’ES a 1 mese con target 0%;
• -2.30% per l’EaR, calcolato con tforward pari a 1 mese,
tbackward pari a 6 mesi e probabilità 5%.
Per assicurare coerenza, almeno in modo approssimativo, tra
i target dei differenti indicatori di rischio, si è adottato il seguente
criterio:
• si è ipotizzato che la distribuzione giornaliera degli excess
return sia una t-student con 5 gradi di libertà, un valore in
8
linea con l’evidenza empirica ;
• si è fissato il target in termini di TE e si è ipotizzato che
l’excess return atteso fosse nullo (ciò, si noti, è coerente
con il fatto che i portafogli sono casuali e dunque creati
senza particolare vantaggio informativo rispetto al bench9
mark ); il valore del TE è stato quindi utilizzato come deviazione standard della t-student (che ha media nulla);
• mediante una simulazione Monte Carlo, campionando
dalla t-student individuata, sono stati calcolati i valori di
ReVaR, ES ed EaR sull’orizzonte mensile.
La stima degli indicatori di rischio è stata effettuata utilizzando
il metodo del FB descritto nella sezione 2.0, utilizzando come campione una finestra mobile di 2 anni di dati giornalieri.
In pratica, ad ogni data di ribilanciamento, se il vettore di pesi
casuali non rispetta i suddetti limiti di rischio, viene aggiustato secondo le regole esposte nella sezione precedente, vincolando le risk
policy a non mutare il segno delle posizioni attive (cosa che in linea di
principio potrebbe accadere). In questa simulazione, per i portafogli che seguono una risk policy, è come se il gestore cambiasse composizione settimanalmente, controllasse se il portafoglio rispetta i
vincoli di rischio e aggiustasse le sue posizioni di conseguenza, attraverso una trasformazione lineare, senza cioè cambiare la struttura
del portafoglio. Alla fine del periodo, si valuta l’effetto dell’applicazione delle risk policy per tutte le traiettorie di pesi attivi generati, calcolando le performance ad esse associate e confrontandole con
quelle dei portafogli di riferimento, completamente casuali e senza
controllo del rischio.
Utilizzando una finestra mobile di 2 anni come campione per
la stima delle misura di rischio ex-ante, i risultati della verifica riguardano il quinquennio che va dal 17/03/1997 al 17/03/2002.
Avendo 1000 risultati per ciascuna risk policy e per la strategia senza
7
Si è utilizzato anche un orizzonte settimanale, cioè di lunghezza pari al periodo di
ribilanciamento: non si sono riscontrate differenze significative nei risultati. Per
brevità espositiva, quindi, si riportano solo i risultati ottenuti con orizzonte mensile.
8
Sono stati generati casualmente 1000 active frozen portfolio utilizzando l’intera serie
storica disponibile dei titoli del DJ Eurostoxx 50. Per ciascun active frozen portfolio
sono stati stimati i gradi di libertà della corrispondente t-student utilizzando la procedura delineata da Koedjik et al. (1998): la loro media è risultata di poco superiore
a 5, valore poi prescelto per la simulazione. Si è inoltre verificato che la media degli
excess return di tali portafogli casuali fosse nulla.
9
Ciò è stato verificato utilizzando la procedura brevemente descritta nella nota precedente.
38
Q U A D E R N I
controllo, sono stati calcolati i seguenti indicatori ex-post di sintesi
sui rendimenti di periodo annualizzati:
• la media;
• il quantile al 5%;
• l’indice di asimmetria (skewness);
• la downside deviation (DD), un indicatore di rischio
downside calcolato come radice quadrata del momento
parziale inferiore di ordine 2 dal polo 0, ossia
DD =
2
1 M
min(0, ceri ))
(
∑
M i =1
(12)
dove ceri è l’excess return cumulato nel periodo quinquennale nel caso i e M è pari a 1000;
• l’upside deviation (UD), un indice della capacità di generare extrarendimenti, dato dalla radice quadrata del momento parziale superiore di ordine 2 dal polo 0, ovvero
UD =
2
1 M
max(0, ceri ))
(
∑
M i =1
(13)
• il rapporto tra upside deviation e downside deviation (per
brevità, ratio UD/DD), utile per individuare le risk policy
con il miglior rapporto tra capacità di generare excess return positivi e capacità di contenere le perdite relative
(sono ovviamente preferibili risk policy con un rapporto significativamente maggiore di 1); si tratta di un’alternativa
all’Information Ratio che meglio si adatta a distribuzioni
potenzialmente asimmetriche.
Si sottolinea che i risultati dell’applicazione delle risk policy
sono stati calcolati utilizzando le serie storiche effettive dei titoli del
DJ Eurostoxx 50 (la simulazione mediante FB è stata impiegata solo
per la stima delle misure di rischio ex-ante).
I risultati principali sono riportati nella Tabella 2, che mostra gli
indicatori ex-post, calcolati sulle performance relative, per ciascun
tipo di risk policy in analisi e per i portafogli di riferimento, che non
seguono alcuna risk policy.
Un primo sguardo alla Tabella 2 mette in luce come le uniche
risk policy che mostrano apprezzabili differenze rispetto alla situazione di assenza di controlli sul rischio siano le risk policy basate sull’ES e sull’EaR. In tutti i casi, peraltro, la media è prossima allo zero.
È quindi rilevante distinguere le risk policy i cui risultati si differen-
6. I risultati
Tab 2
Tabella 2
tipo
Statistiche descrittive delle performance relative
di differenti tipologie di risk policy
media
quartile skewness
downside
upside UD/DD
(5%)
deviation (DD) deviation (UD)
Nessuna (assenza
di risk policy)
-0.01%
-3.62%
0.16
1.54%
1.60% 1.037
TE
-3.67%
0.13
1.64%
1.65% 1.006
-0.04%
ReVaR (5%)
-0.12%
-3.66%
0.15
1.68%
1.60% 0.956
ES
-0.02%
-1.56%
0.11
0.71%
0.71% 0.992
EaR
-0.06%
-2.64%
1.09
1.28%
1.65% 1.290
Statistiche descrittive delle performance relative (cioè differenziali rispetto al benchmark) delle differenti risk policy, confrontate
con il caso di assenza di controllo del rischio.
I risultati riportati nella tabella sono calcolati
sulla distribuzione dei rendimenti annualizzati delle differenti risk policy conseguiti su
un periodo di 5 anni.
39
Q U A D E R N I
ziano significativamente da quelli ottenuti nella situazione di assenza di risk policy. A tal fine si è innanzitutto effettuato un test t sulle
differenze tra i risultati medi nel caso sia presente una risk policy rispetto al caso in cui sia assente. Poiché il test t presuppone che i dati
siano normali, si è verificato tramite il test di Jarque-Bera che, con
un livello di significatività del 5%, le differenze di performance relativa sono distribuite in modo approssimativamente normale. I risultati del test t, riportati nella Tabella 3, portano ad accettare l’ipotesi
nulla che la performance media relativa non muta significativamente a causa dell’applicazione di una delle risk policy considerate.
Tabella 3
Test t applicato alle differenze tra le performance relative annualizzate di ciascuna delle
risk policy e la performance relativa associata al caso di assenza di controllo del rischio. L’ipotesi nulla è che la differenza tra le
medie sia zero, sicché un P-value superiore
al livello di significatività prescelto (5% o
10%), comportando l’accettazione dell’ipotesi nulla, indica che le medie in esame non
appaiono significativamente differenti.
Tabella 4
Test di Kolmogorv-Smirnov applicato alle
performance relative annualizzate delle differenti risk policy, ciascuna individualmente
confrontata con il caso di assenza di controllo del rischio. Il test di Kolmogorov-Smirnov (KS) si propone di determinare se due
campioni sono distribuiti in modo significativamente differente. L’ipotesi nulla è che la
distribuzione sia la stessa. Pertanto, un Pvalue basso, inferiore al livello di significatività prescelto, indica che l’evidenza statistica porta al rifiuto dell’ipotesi nulla e pertanto le due distribuzioni possono essere
considerate differenti. Il test KS-test è di tipo
non-parametrico e quindi non presuppone alcuna precisa forma per la distribuzione dei
dati in esame.
40
Tab 3
Confronto tra le medie degli excess return
tipo di risk policy
statistica T
P-value
TE vs. assenza di risk policy
0.364
71.57%
ReVaR (5%) vs. assenza di risk policy
1.125
26.07%
ES vs. assenza di risk policy
0.216
82.89%
EaR vs. assenza di risk policy
0.562
57.44%
A questo punto è naturale chiedersi se sia la forma della distribuzione a mutare, in seguito all’applicazione di una risk policy. Si è
pertanto verificato, tramite il test non-parametrico di KolmogorvSmirnov, se le distribuzioni degli excess return ottenute applicando le
differenti risk policy risultano o meno significativamente differenti
dalla distribuzione che si ha in assenza di qualsiasi controllo del rischio. Nella Tabella 4 si riportano i risultati del test di KolmogorvSmirnov. Essi mostrano come la risk policy basata sull’ES e quella basata sull’EaR siano le uniche a differenziarsi nettamente (con il 5%
di significatività), dal caso di assenza di controllo sul rischio.
Tab 4
tipo di risk policy
Confronto tra le distribuzioni degli excess return
statistica K-S
P-value
0.058
6.7%
ReVaR (5%)
0.049
17.6%
ES
0.211
0.0%
EaR
0.179
0.0%
TE
La caratteristica che noi reputiamo più importante per una risk
policy è però la sua capacità di limitare performance negative senza limitare l’attitudine a produrre performance positive. È in questo
senso che una risk policy estrinseca la sua capacità di produrre valore
aggiunto. Da un punto di vista formale questa caratteristica può essere rappresentata dal ratio UD/DD, riportato nell’ultima colonna
della Tabella 2. Tanto più alto è tale rapporto, tanto maggiore è la capacità di generare excess return positivi a fronte della capacità di limitare le perdite relative. Per analizzare in modo più dettagliato questa
caratteristica delle varie risk policy, abbiamo calcolato un intervallo di
confidenza per il ratio UD/DD mediante bootstrap con il metodo dei
percentili di Efron, una tecnica non-parametrica che non implica alcuna ipotesi sulla forma della distribuzione dei dati. La successiva
Tabella 5 riporta i risultati. Essi mostrano come la risk policy basata
Q U A D E R N I
sull’EaR sia l’unica a presentare un ratio UD/DD significativamente
e nettamente superiore a 1. Le altre risk policy presentano inoltre un
intervallo di confidenza del ratio UD/DD i cui limiti inferiori e superiori sono pressoché uguali (per la precisione leggermente minori) di quelli del caso di assenza di risk policy.
Tab 5
Tabella 5
Intervallo di confidenza per il ratio UD/DD
associato alle performance relative
tipo di risk policy
limite inferiore
(intervallo di confidenza al 95%)
limite superiore
(intervallo di confidenza al 95%)
Nessuna
(assenza di risk policy)
0.931
1.156
TE
0.908
1.113
ReVaR (5%)
0.865
1.058
ES
0.888
1.101
EaR
1.150
1.433
L’unica risk policy che porta ad ottenere una distribuzione degli
excess return asimmetrica, con una significativa diminuzione del rischio down-side, è dunque quella basata sull’EaR, cioè l’unica che
combina un indicatore di rischio ex-ante con la performance relativa ex-post. La Figura 2, confrontando la distribuzione associata a
tale risk policy con quella del portafoglio di riferimento (privo di risk
policy), consente di apprezzare in modo euristico l’impatto della risk
policy sulla forma della distribuzione. Per quanto concerne invece la
risk policy basata sull’ES, essa pur contenendo il rischio, limita sensibilmente la capacità di conseguire elevati excess return.
Limiti inferiori e superiori di un intervallo di
confidenza al 95% per il ratio UD/DD, calcolato mediante bootstrap con il metodo dei
percentili di Efron (cioè in modo non-parametrico), utilizzando 1000 ricampionamenti.
L’analisi della distribuzione del rapporto
UD/DD, effettuata grazie all’intervallo di confidenza calcolato, serve per comprendere se
il rapporto tra le potenzialità di guadagno,
rappresentate dall’UM e i rischi di perdita,
corrispondenti allo SM siano o meno favorevoli. Un ratio UD/DD, significativamente superiore a 1, come quello associato all’EaR,
indica che i potenziali guadagni più che compensano le potenziali perdite.
Figura 2
Confronto tra la distribuzione empirica di
probabilità degli excess return della risk policy basata sull’EaR e la distribuzione empirica di probabilità associata alla gestione in
assenza di controlli sul rischio.
4,5%
Frequenza relativa
4,0%
3,5%
3,0%
2,5%
2,0%
1,5%
1,0%
0,0%
-6,0%
-5,4%
-4,7%
-4,1%
-3,4%
-2,8%
-2,1%
-1,5%
0,8%
0,2%
0,5%
1,1%
1,8%
2,4%
3,1%
3,7%
4,3%
5,0%
5,6%
6,3%
6,9%
7,6%
8,2%
8,9%
9,5%
10,2%
0,5%
Excess return
Nessuna risk policy
Risk Policy basata sull'EaR
Una spiegazione circa la maggiore efficacia della risk policy basata sull’EaR può essere la seguente. Applicando tale risk policy si
consente al gestore che ha realizzato rendimenti positivi tra tbackward e t di “osare” di più, conseguendo extrarendimenti che sono invece preclusi ai gestori vincolati a misure di rischio che non tengono conto della performance passata. Il fatto di utilizzare una metrica di rischio “con memoria”, come l’EaR, permette poi di sfruttare la debole, ma spesso significativa, positiva autocorrelazione
dei rendimenti. In altri termini, è possibile trarre beneficio dalla
presenza di eventuali trend.
41
Q U A D E R N I
7. Conclusioni
42
In questo lavoro vengono esaminate e discusse le fasi essenziali
del processo di risk management, assumendo il punto di vista di una
società di asset management che effettua una gestione attiva a fronte di
un benchmark.
Si è concentata quindi l’attenzione sulla definizione della risk
policy. Sono state esaminate differenti politiche di gestione del rischio relativo, tutte basate sul medesimo modello di stima del rischio
ex-ante, il FB. Successivamente si è effettuata una verifica empirica,
considerando portafogli azionari europei che soddisfano alcune restrizioni di composizione.
L’esame dei risultati della verifica empirica sono piuttosto netti.
La risk policy basata sull’EaR, un’indicatore che combina una misura
di performance (ex-post) e una misura di rischio down-side (exante), risulta dominante rispetto alle alternative considerate. Essa
presenta infatti una più elevata capacità di generare excess return positivi, limitando al contempo il rischio down-side. In altri termini,
tale risk policy è efficace in quanto:
• diminuisce il rischio relativo down-side;
• non riduce la capacità di produrre performance migliori
del benchmark.
Le altre risk policy esaminate non hanno impatto statisticamente significativo sulle performance. Ciò vale, si noti, anche per
la risk policy basata sul tracking error. Essa, nonostante sia d’impiego
diffuso tra gli asset manager, conduce a risultati praticamente indistinguibili rispetto a quelli ottenibili senza alcuna politica di controllo del rischio.
Q U A D E R N I
Artzner, P., Delbaen, F., Eber, J.-M., Heath, D. (1997). Thinking
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Riferimenti bibliografici
43
Massimo di Tria
RAS SpA
Michele Gaffo
RAS SpA
Una nuova misura
di rischio relativo:
Adaptive ReVaR
(A_ReVaR)
Q U A D E R N I
46
Q U A D E R N I
Negli ultimi anni, seguendo il successo avuto in ambito bancario, anche nel mondo dell’asset management ha rivestito sempre mag1
giore importanza la tematica del risk management . Questo inteso sia
come strumento di supporto e controllo della gestione sia come processo a “protezione” del capitale assegnato dalla clientela alle società
di gestione del risparmio attraverso l’uso di alcuni indicatori di risk
management nel processo di scelta finanziaria.
Si è così passati da un approccio nel quale il controllo della volatilità assoluta e relativa rispetto ad un benchmark veniva fatto solamente ex-post (misure tradizionali di standard deviation e tracking
error) ad analisi molto più evolute che cercano di modellizzare e
prevedere ex-ante i rischi a cui il portafoglio sarà esposto (misure di
Value at Risk e Relative Value at Risk, nel seguito VaR e ReVaR).
Le metodologie generalmente adottate per il calcolo di queste
statistiche possono essere suddivise in tre diverse categorie:
• approccio parametrico (per esempio RiskMetrics o modelli fattoriali stile Barra)
• approccio MonteCarlo
• approccio historical
Le ipotesi sottostanti i tre approcci sono molto diverse e qui ne
diamo un breve riassunto.
Nell’approccio parametrico (RiskMetrics) vengono fatte assunzioni precise circa la distribuzione dei logaritmi dei ritorni dei fattori
di rischio (usualmente ipotesi di gaussianità) e circa l’indipendenza
e l’uguaglianza in distribuzione dei ritorni del portafoglio (nel momento in cui si ricorre alla regola della radice dell’holding period,
come verrà ripreso nel paragrafo 2.1). Questo consente di giungere
ad una funzione perdita assoluta o relativa distribuita in modo normale e quindi caratterizzata completamente dai primi due momenti. La varianza è generalmente stimata adottando una tecnica
exponential weighted moving average (EWMA).
Nei modelli fattoriali ogni asset è regredito su un insieme di fattori di rischio economico-finanziari e vengono stimate le sensibilità
rispetto ad ogni fattore considerato dal modello. Questa metodologia trova fondamento nel modello APT sviluppato da Ross. Permangono le ipotesi di normalità prima accennate; grossa attenzione va
posta circa la potenziale misspecificazione del modello fattoriale di
volta in volta adottato.
Per entrambe le metodologie svolge un ruolo cruciale la matrice di varianze-covarianze visto che la perdita è funzione dei primi
due momenti della distribuzione. Inoltre, sempre per entrambe, la
media è generalmente posta uguale a zero, almeno per holding period brevi.
1. Introduzione
1
Gli autori hanno realizzato il presente lavoro quando operavano in Fineco Investimenti Sgr Spa. Desiderano ringraziare per la preziosa collaborazione il Risk Management ed il Quantitative Asset Allocation Team di Fineco Investimenti Sgr Spa. Un ringraziamento particolare va inoltre ad Andrea Beltratti, Paolo Nasi e Andrea Resti.
47
Q U A D E R N I
L’approccio MonteCarlo rappresenta una strada semiparametrica; ad ogni asset è associata una funzione di pricing dipendente da
diversi risk factor. Viene modellizzata la struttura di volatilità e di codipendenza dei fattori di rischio solitamente tramite una distribuzione normale multivariata. A questo punto, campionando da questa distribuzione vengono generati N scenari per i fattori di rischio
ed in corrispondenza di ogni scenario viene ricalcolato il valore del
portafoglio ottenendo così in modo empirico la distribuzione della
funzione perdita.
Il modello historical è in sostanza equivalente all’approccio MonteCarlo ma gli scenari per i fattori di rischio sono scenari storici. A questo approccio sono spesso accompagnate tecniche di bootstrapping
al fine di generare un numero elevato di scenari a partire dai dati storici. Questa metodologia è non parametrica poiché non fa ipotesi
sulla forma della distribuzione dei fattori di rischio considerati. Nella
sua formulazione standard i maggiori problemi sono che usa un solo
sample path (quello storico che si è effettivamente realizzato), il rischio
ha una forte componente time varying che rischia di non essere colta
ed è potenzialmente difficile cogliere i break strutturali.
L’approccio MonteCarlo e quello historical, essendo tecniche
che prevedono la full evaluation, hanno il pregio di essere più flessibili di un approccio parametrico (soprattutto nella tipologia di strumenti finanziari analizzabili). Questa flessibilità però comporta il
prezzo della elevata onerosità computazionale che porta ad esempio
ad ottenere con una certa difficoltà misure di scomposizione del rischio ed analisi di tipo what if.
Per una approfondita analisi delle diverse metodologie ed un
loro accurato confronto rimandiamo ad Alexander (2001) e Jorion (2000).
A differenza di quanto accade nel mondo bancario, nell’industria del risparmio gestito non esistono (o perlomeno non ancora)
obblighi di comunicazione ad un organo di vigilanza circa verifiche
sul backtesting dei propri modelli di rischio. Questo provoca una potenziale sottovalutazione del problema ed una eccessiva confidenza
nei risultati di rischio ottenuti (sia tramite soluzioni interne sia attraverso utilizzo di software di terze parti). In realtà, solo attraverso una
seria attività di backtesting è possibile giudicare il buono/cattivo
comportamento del proprio modello e quindi l’aderenza delle
stime fatte ex-ante con i valori realizzati ex-post.
L’approccio che qui presentiamo (Adaptive ReVaR, sezione 2)
trae spunto dall’approccio parametrico standard ma allo stesso
tempo cerca di superare le critiche più pesanti a cui esso è soggetto.
L’obiettivo è quello di mantenere tutti i punti di forza di un modello
parametrico superandone i limiti attraverso un processo di “calibrazione” che si poggia su analisi di backtesting. Nella sezione 3 verranno messi in evidenza i punti di forza e di debolezza del modello
adottato mentre la sezione 4 è dedicata alle analisi empiriche. La sezione 5 introduce alcuni indicatori di scomposizione del rischio e la
6 è dedicata alle conclusioni ed ai futuri potenziali sviluppi.
2. Adaptive ReVaR
48
In quanto segue verrà data particolare enfasi alle misure di rischio relativo essendo l’asset management maggiormente interessato a questo tipo di indicatori (almeno per le gestioni con benchmark dichiarato). La metodologia è comunque applicabile anche
Q U A D E R N I
nel caso di analisi di rischiosità assoluta sia pure con qualche accorgimento in più. Quest’ultimo aspetto verrà approfondito nel
paragrafo 3.4.
Per tutti gli approcci parametrici è possibile individuare una
struttura comune, essi infatti generalmente pervengono ad una formula per il ReVaR del tipo:
[
]
Re VaR(T )(1−α , H ) = − zα ( p(T ) − b(T )) Σ (T )( p(T ) − b(T ))
T
1/ 2
2.1
L’approccio
parametrico "naïve"
2.2
L’Adaptive ReVaR
(A_ReVaR)
(1)
H
dove:
1-a = livello di significatività
H = Holding Period (orizzonte temporale)
za = percentile a-esimo della normale standard
p(T) = vettore pesi del portafoglio in T
b(T) = vettore pesi del benchmark in T
S(T) = Matrice varianze-covarianze in T dei fattori di rischio
Normalmente il rendimento relativo atteso m viene ipotizzato
uguale a zero (e questo costituisce fonte di critiche all’approccio tradizionale, specie per valori di H superiori ai 10 giorni).
S è spesso calcolata a partire da dati giornalieri o settimanali
con approccio EWMA e H è fissato di conseguenza. L’utilizzo della
regola della radice di H si poggia sull’ipotesi di rendimenti del portafoglio indipendenti ed identicamente distribuiti (una delle maggiori critiche all’approccio parametrico standard). Vale la pena osservare inoltre che il ricorso a questa regola implicitamente presuppone essere trascurabili le non linearità presenti in portafoglio. Per
la stragrande maggioranza dei fondi comuni a dire il vero, questa situazione è una prassi visti anche i limiti piuttosto stringenti posti
dalle autorità di vigilanza sull’utilizzo di strumenti derivati.
Il ReVaR(1-a, H) indica dunque la perdita massima rispetto a
benchmark che il portafoglio potrà subire in un orizzonte di H giorni
(o settimane) con una probabilità 1-a. Questo significa che un buon
modello dovrà sottostimare la perdita effettiva del portafoglio rispetto al benchmark nell’a.100% dei casi. Partendo da questa semplice osservazione possiamo modificare l’approccio tradizionale
come spiegato nel paragrafo successivo.
L’idea alla base del modello presentato è quella di ampliare
l’approccio parametrico tradizionale combinandolo con un approccio storico. È infatti possibile calibrare il modello sul passato ed imporre, condizionatamente a questo, un numero di eccezioni (numero di osservazioni in cui la performance relativa è minore del ReVaR) uguale a quelle teoriche attese.
L’Adaptive ReVaR assume dunque la forma:
[
]
A _ Re VaR(T )(1−α , H ) = − kr (T ) zα ( p(T ) − b(T )) Σ (T )( p(T ) − b(T ))
T
1/ 2
H
(2)
Il parametro kr(T) ha l’obiettivo di correggere il modello e
quindi di far ottenere un numero di eccezioni ex-post compatibile
con il livello a teorico.
Come si vedrà nella sezione successiva il modello è stato analizzato sia lavorando con dati giornalieri sia con dati settimanali. Per
49
Q U A D E R N I
ragioni di chiarezza espositiva qui descriviamo il processo di stima di
kr, che avviene in quattro passi, utilizzando osservazioni giornaliere,
H = 10 giorni ed a = 5%:
a) attraverso la (1) vengono calcolati i valori di ReVaR
“naïve” per X giorni precedenti (quindi da T-10 a T-10-X
+1), mantenendo costanti i vettori b(T) e p(T) e ricalcolando in corrispondenza di ogni osservazione passata una
nuova S(t) (si veda la sezione 3 per suggerimenti sulla corretta dimensione di X).
b) Sullo stesso periodo X calcoliamo le effettive performance relative realizzate dal portafoglio (p(T)-b(T)) ottenendo così le due serie storiche:
- ReVaR(t)(95%,10gg)
per t=T-10 , ... , T-10-X+1
- RePerf(t)(10gg)
per t=T-10 , ... , T-10-X+1
Si noti che nel fare questo vanno mantenuti costanti i pesi
p(T) e b(T).
c) Vogliamo che il modello garantisca il 5% di eccezioni nel
passato, quindi:
kr(T) : # RePerf(t)(10gg) < kr(T) ReVaR(t)(95%,10gg) = 5%
2
(3)
Il kr(T) così stimato sarà il valore da utilizzare per il calcolo del ReVaR(T)(95%,10gg) :
A _ Re VaR(T )( 95%,10 gg ) = −1.645 kr (T )
[( p(T ) − b(T )) Σ(T )( p(T ) − b(T ))]
T
1/ 2
10
(4)
d) Per il giorno T+1 sarà necessario ripetere il processo di
stima ma ovviamente utilizzando i nuovi pesi del portafoglio e del benchamark, p(T+1) e b(T+1) e le osservazioni
aggiornate a T+1. È ovvio dunque che kr è una funzione di:
kr = f ((p-b) , H , T , X , a )
(5)
La Figura 2.2.1 mostra graficamente come avviene il processo
di stima:
Figura 2.2.1
Rispetto al metodo tradizionale, kr ha l’obiettivo di ottenere un
modello di rischio con eccezioni out of sample vicine al livello teorico a.
Si è esposta l’analisi per la stima del kr da applicare alla coda sinistra degli extra rendimenti. In realtà allo stesso modo può essere
stimato un parametro che tenga conto della coda destra. Questo
consente di stimare una misura di Massimo Profitto Atteso. Interessanti considerazioni potrebbero sorgere dal confronto tra il valore
assoluto dell’Adaptive ReVaR ed il Massimo Profitto Atteso. Questo
tema rappresenta un futuro fronte di lavoro per chi scrive.
È importante sottolineare che l’attività di backtesting a cui i modelli dovrebbero essere soggetti non si esaurisce nel verificare il rispetto dei limiti di tracking error; non può quindi limitarsi a verifi2
50
Con la notazione # si indica “numero di casi in cui”.
Q U A D E R N I
care se la volatilità ex-ante ha ben previsto la volatilità ex-post. Questo perché solitamente i modelli lavorano nell’ipotesi di m uguale a
zero e quindi potrebbero non cogliere effetti di drift (particolarmente pericolosi quelli minori di zero). Per questo motivo una corretta attività di backtesting dovrebbe essere condotta incrociando la
perdita massima prevista con le performance relative effettivamente
realizzate. Il metodo di stima di kr utilizza i valori di perdita relativa
stimati ex-ante e quelli effettivamente realizzati ex-post. Ha dunque
anche l’obiettivo di cogliere il fatto che m è variabile ed in generale
diversa da zero.
3. Punti di forza
e di debolezza
dell’A_ReVaR
Nella sezione 2 abbiamo visto come l’A_ReVaR sia una misura
condizionata di valore a rischio, dove il fattore di correzione è stimato con un approccio storico. Il tentativo è quello di preservare i
vantaggi dell’approccio parametrico sfruttando allo stesso tempo alcune utili informazioni contenute nelle serie storiche.
Quali sono quindi i punti di forza e di debolezza dell’A_ReVaR?
Dall’approccio parametrico eredita innanzitutto la semplicità. I potenti strumenti del calcolo matriciale assicurano chiarezza ed immediatezza nell’implementazione. Un secondo vantaggio risiede nella
velocità computazionale.
Inoltre, le misure di Marginal ed Incremental A_ReVaR sono facilmente ricavabili come nell’approccio parametrico “naïve”. A questo
proposito, nella sezione 5 vedremo in dettaglio quali sono le peculiarità delle relazioni tra tali misure di rischio e l’A_ReVaR.
D’altra parte, l’approccio parametrico ipotizza rendimenti normali ed i.i.d.; le distribuzioni dei rendimenti di molte attività finanziarie però evidenziano problemi di asimmetria e di eccesso di curtosi. A questo proposito il fattore kr, che caratterizza l’A_ReVaR, fornisce una soluzione di massima al problema estrapolando dal passato le informazioni necessarie per correggere la stima del valore a
rischio in presenza di fat tails della distribuzione dei rendimenti.
Un ulteriore vantaggio dell’A_ReVaR è legato alla sua capacità
di essere uno strumento utile anche per l’allocazione del capitale di rischio. A differenza del ReVaR “naïve” infatti, esso si caratterizza per
un processo di auto-calibrazione determinato dal fattore kr. Ciò consente all’A_ReVaR di non incappare in un’altra critica generalmente
mossa all’approccio tradizionale, ossia la possibilità di sovrastimare
sistematicamente il rischio anche per lunghi periodi di tempo.
Uno dei principali problemi è invece rappresentato dall’inadeguatezza dell’A_ReVaR, così come del metodo delta-normal, a misurare il rischio di strumenti non-lineari, per esempio le opzioni. Tuttavia, come già detto, l’uso limitato di strumenti derivati per motivi regolamentari nelle Sgr italiane rende meno pesante il problema in
tale contesto.
Infine, è necessario evidenziare che la metodologia di stima di
kr si basa sull’ipotesi che il passato rappresenti correttamente l’immediato futuro. Di primo acchito questa ipotesi potrebbe apparire più
severa e criticabile di quanto non lo sia nella realtà operativa, almeno per quanto riguarda le analisi relative. Il fattore di correzione
3.1
A_ReVaR e ReVaR
"naïve" a confronto
51
Q U A D E R N I
che caratterizza l’A_ReVaR nel periodo t è calcolato in base alle eccezioni del ReVaR “naïve” su un campione rolling (t-H-X+1;t-H) di
ampiezza X. Nel caso in cui tale campione sia affetto da un numero
straordinariamente alto/basso di eccezioni, si ha che la stima dell’A_ReVaR in t è mal condizionata. Tuttavia, il calcolo di kr è condizionato al numero delle eccezioni e non alla loro entità e ciò contribuisce generalmente ad attenuare il problema. Inoltre, nel calcolo
del valore a rischio di un portafoglio rispetto al suo benchmark è
molto raro osservare un periodo particolarmente denso di eccezioni a causa del fatto che gli shock transitori (e permanenti) ai
prezzi tendono a ripercuotersi su portafoglio e rispettivo benchmark
in maniera non troppo dissimile. Nei paragrafi 3.2, 3.3 e 3.4 discuteremo in maniera dettagliata questa spinosa questione.
3.2
52
A_ReVaR, frequenza
delle osservazioni e
holding period
Il calcolo del valore a rischio può essere effettuato su diversi
orizzonti temporali. Escludendo le misure intra-day, tipicamente
vengono presi in considerazione holding period compresi tra un
giorno ed un mese. Da un punto di vista teorico, sarebbe auspicabile
che la frequenza delle osservazioni utilizzate fosse sempre coerente
con l’hoding period. Per fare un esempio, il processo di stima del valore a rischio ad una settimana dovrebbe prendere in input rendimenti a frequenza settimanale e lo stesso tipo di coerenza dovrebbe
essere richiesta per il calcolo del fattore kr. Purtroppo, però, nella
pratica operativa esistono seri problemi di scarsità dei dati e questo
spesso impone l’uso di serie storiche a frequenza giornaliera anche
in presenza di holding period più ampi.
Quindi, siamo spesso costretti ad utilizzare dati a frequenza
giornaliera sia quando vogliamo calcolare l’A_ReVaR ad un giorno
sia quando, pur in presenza di un orizzonte temporale diverso, non
abbiamo dati a sufficienza. Analizziamo i due casi separatamente.
Se il nostro holding period è di un giorno, l’utilizzo di dati a
frequenza giornaliera non presenta problemi di coerenza. Tuttavia, gli stessi dati vengono utilizzati anche per calcolare il fattore di
correzione kr e ciò potrebbe comportare alcuni problemi. Ipotizziamo di essere all’indomani di una crisi che provochi uno shock
transitorio al mercato, potremmo per esempio pensare al mese di
settembre 2001. In un simile contesto, i limiti di valore a rischio potrebbero essere superati per alcuni giorni consecutivi e ciò inficierebbe i valori di A_ReVaR dei periodi immediatamente successivi
dato che kr sarebbe calcolato su un periodo anomalo e di conseguenza condizionerebbe male il calcolo del valore a rischio. Torneremo su questo punto nei paragrafi 3.3 e 3.4 dedicati rispettivamente alle connessioni tra A_ReVaR e tracking error e all’applicabilità della nostra metodologia alla stima del VaR. Qui ci basti dire
che questo problema non inficia il calcolo dell’A_ReVaR nella pratica operativa, in quanto gli shock si ripercuotono generalmente
sia sul portafoglio sia sul benchmark annullandosi a vicenda o almeno attenuandosi fortemente nelle analisi relative. A questo proposito si veda la Figura 3.2.1 che mostra come in termini relativi gli
shock di settembre 2001 non abbiano comportato problemi nel
calcolo del valore a rischio sia nella metodologia tradizionale sia
nell’A_ReVaR, sebbene un VaR “naïve” sul benchmark dello stesso
portafoglio faccia registrare ben 5 eccezioni su 20 giorni nel medesimo periodo. Il portafoglio utilizzato in questo esempio (e nei suc-
Q U A D E R N I
cessivi della presente sezione, tranne diversa specificazione) investe il 50% nell’indice MSCI US, il 30% nel MSCI Europe ed il 20%
nel MSCI Japan e si confronta con un benchmark costituito dal
MSCI World. I parametri e le caratteristiche dei campioni utilizzati
per questo grafico e per quelli che seguiranno sono coerenti con
quanto suggerito nella sezione 4 dedicata all’analisi empirica ed all’attività di backtesting. Il livello di confidenza è pari al 95%.
Figura 3.2.1
0,008
A_ReVaR e ReVaR a confronto
Dati giornalieri -- HP 1 giorno -- TE contenuto- Liv Conf 95%
Eccezioni: A_ReVaR = 5.020% , ReVaR =
1.948%
0,006
0,004
0,002
0
-0,002
-0,004
-0,006
-0,008 gen-91
gen-92 gen-93 gen-94 gen-95 gen-96 gen-97 gen-98 gen-99 gen-00 gen-01 gen-02
Performance
ReVaR
A_ReVaR
Ipotizziamo adesso di voler calcolare l’A_ReVaR su un orizzonte temporale superiore ad un giorno, per esempio 10 giorni (2
settimane lavorative). In questo caso dovremmo utilizzare serie storiche di rendimenti a frequenza coerente o per lo meno settimanale,
ma ciò spesso non è possibile a causa della mancanza di dati. Pertanto, nella pratica operativa si tende ad utilizzare dati a frequenza
giornaliera e questa, a nostro avviso, può essere considerata una
buona soluzione per le analisi relative. Le Figure 3.2.2 e 3.2.3 mostrano ReVaR “naïve” e A_ReVaR sullo stesso portafoglio considerato nella Figura 3.2.1 nei casi in cui, ceteris paribus, i rendimenti abbiano frequenza giornaliera o settimanale.
Figura 3.2.2
0,02
A_ReVaR e ReVaR a confronto
Dati giornalieri -- HP 10 giorni -- TE contenuto- Liv Conf 95%
Eccezioni: A_ReVaR = 5.556% , ReVaR =
2.222%
0,015
0,01
0,005
0
-0,005
-0,01
-0,015
-0,02
ago-91 ago-92 ago-93 ago-94 ago-95 ago-96 ago-97 ago-98 ago-99 ago-00 ago-01ago-02
Performance
ReVaR
A_ReVaR
In entrambi i casi, l’A_ReVaR funziona molto bene ed è ben calibrato. Come vedremo nel paragrafo 3.4, invece, nelle analisi assolute (VaR) il mancato rispetto della coerenza tra frequenza dei dati
ed holding period può comportare costi non trascurabili.
Quando le serie storiche a disposizione sono abbastanza lun53
Q U A D E R N I
Figura 3.2.3
A_ReVaR e ReVaR a confronto
Dati settimanali -- HP 2 settimane (10
giorni) -- TE contenuto - Liv Conf 95%
Eccezioni: A_ReVaR = 5.104% , ReVaR =
2.204%
0,03
0,02
0,01
0
-0,01
-0,02
-0,03
feb-86 feb-87 feb-88 feb-89 feb-90 feb-91 feb-92 feb-93 feb-94 feb-95 feb-96 feb-97 feb-98 feb-99 feb-00 feb-01 feb-02
Performance
ReVaR
A_ReVaR
ghe è comunque buona norma uniformare la frequenza dei dati all’holding period.
3.3
Connessioni
tra A_ReVaR e
tracking error
Figura 3.3.1
A_ReVaR e ReVaR a confronto
Dati giornalieri -- HP 10 giorni -- TE elevatoLiv Conf 95%
Eccezioni: A_ReVaR = 4.896% , ReVaR =
1.701%
Nella sezione precedente abbiamo visto come l’A_ReVaR non
risenta particolarmente dell’incoerenza tra frequenza dei rendimenti e holding period. In particolare, nei casi in cui non abbiamo
abbastanza dati a disposizione, possiamo usare dati a frequenza giornaliera anche per orizzonti temporali più ampi. Abbiamo anche
detto che questo è possibile perché gli shock ai prezzi solitamente si
ripercuotono sia sul portafoglio sia sul rispettivo benchmark. Naturalmente questo è vero nella misura in cui il tracking error tra portafoglio e benchmark sia sufficientemente contenuto. Appare ovvio che
una gestione fortemente indipendente dal benchmark con un tracking error particolarmente alto risulterebbe meno immune rispetto
al problema dell’incoerenza tra frequenza dei dati e holding period.
Da un punto di vista empirico, tuttavia, emerge che anche ai livelli maggiori di tracking error osservabili nel mondo del risparmio
gestito, l’A_ReVaR fa registrare ottime performance a prescindere
dal fatto che sia rispettata o meno la coerenza tra frequenza dei dati
ed orizzonte temporale. La Figura 3.3.1 mostra l’andamento di ReVaR e A_ReVaR in un caso in cui il tracking error è decisamente elevato poiché il portafoglio investe il 10% nel MSCI US, il 60% in MSCI
Europe ed il 30% in MSCI Japan e si confronta con un benchmark coincidente con l’indice MSCI World.
0,06
0,04
0,02
0
-0,02
-0,04
-0,06
-0,08
ago-91 ago-92 ago-93 ago-94 ago-95
Performance
54
ago-96
ago-97 ago-98
ReVaR
ago-99 ago-00 ago-01 ago-02
A_ReVaR
Q U A D E R N I
La rischiosità relativa di questo portafoglio è circa quattro volte
quella del portafoglio precedentemente analizzato. I test sono stati
condotti anche su situazioni più estreme pervenendo comunque ad
ottimi risultati.
Finora abbiamo parlato esclusivamente di A_ReVaR, senza mai
chiederci se e come la nostra metodologia è applicabile anche alla
stima del VaR. In altri termini, ha senso proporre una misura di
A_VaR? Quali sono le principali differenze rispetto all’analisi relativa? Bisogna adottare ulteriori precauzioni per ottenere risultati
soddisfacenti dal fattore di correzione k anche in un contesto in cui
si vuole misurare il valore a rischio in termini assoluti?
L’idea di fondo della nostra metodologia è facilmente applicabile anche alla stima del VaR. Si perviene dunque facilmente alla
forma:
[
A _ VaR(T )(1−α , H ) = − kv (T ) zα p(T )T Σ (T ) p(T )
]
1/ 2
3.4
Applicabilità della
metodologia alla stima
del VaR (A_VaR)
(6)
H
Tuttavia, in questo contesto i problemi di cui abbiamo discusso
nel paragrafo 3.2 appaiono amplificati. In particolare, il rischio che
il fattore kv condizioni in maniera sbagliata la stima del valore a rischio è più pronunciato. Soprattutto quando si utilizzano dati a frequenza giornaliera, infatti, le probabilità di osservare un numero
anomalo di eccezioni contigue aumentano in maniera significativa.
Ogni shock transitorio ai prezzi può influire eccessivamente sull’A_VaR. Per esemplificare il problema, riprendiamo l’esempio
della Figura 3.3.2 calcolando questa volta il VaR e l’A_VaR sull’indice
MSCI World con dati a frequenza giornaliera, holding period di 20
giorni e livello di confidenza pari al 95%. La Figura 3.4.1 mostra che
in questo caso gli shock ai prezzi di agosto 1998 (17 eccezioni in un
solo mese nel VaR “naïve”) e di agosto-settembre 2001 (20 eccezioni
consecutive in due mesi nel VaR “naïve”) influiscono pesantemente
sulla stima dell’A_VaR nei periodi immediatamente successivi provocando in questo caso una sovrastima del rischio. Si noti inoltre
come tale sovrastima perduri nel tempo in funzione dell’ampiezza
del campione utilizzato per stimare il fattore kv.
Figura 3.4.1
0,2
A_VaR e VaR a confronto
Dati giornalieri -- HP 20 giorni -- 200 osservazioni per stimare k- Liv Conf 95%
Eccezioni: A_VaR = 6.620% , VaR =
7.601%
0,15
0,1
0,05
0
-0,05
-0,1
-0,15
-0,2
-0,25
ago-91
ago-92
ago-93
ago-94
Performance
ago-95
ago-96
VaR
ago-97
ago-98
ago-99
ago-00
ago-01
A_VaR
Per far fronte a questo problema bisogna quanto meno adottare alcune precauzioni, ferma restando l’opportunità di utilizzare
dati a frequenza coerente con l’orizzonte temporale laddove possibile. Un primo semplice accorgimento da adottare consiste nel far
55
Q U A D E R N I
variare l’ampiezza del campione utilizzato per la stima del fattore
kv in funzione dell’holding period. Esiste un trade-off tra tale ampiezza e la reattività dell’A_VaR che dipende direttamente dalla variabilità di kv. Quando l’A_VaR è una misura di valore a rischio condizionata su un set informativo più ampio, la probabilità di reagire
troppo a shock transitori dei prezzi tende ad attenuarsi, ma di contro sono ridotti i benefici del condizionamento in caso di break
strutturali o di semplici cambiamenti di regime della volatilità. La
Figura 3.4.2 è una versione modificata della Figura 3.4.1 in cui il
fattore di correzione kv è stimato su campioni rolling di 400 osservazioni giornaliere anzichè le 200 dell’esercizio precedente. Si
nota immediatamente come sia attenuata la sovrastima del rischio
nel periodo immediatamente successivo a settembre 2001, ma allo
stesso tempo si coglie un effetto smoothing che attenua il grado di
reattività dell’A_VaR.
Figura 3.4.2
A_VaR e VaR a confronto
Dati giornalieri -- HP 20 giorni -- 400 osservazioni per stimare k- Liv Conf 95%
Eccezioni: A_VaR = 6.817% , VaR =
7.420%
0,2
0,15
0,1
0,05
0
-0,05
-0,1
-0,15
-0,2
-0,25
giu-92
giu-93
giu-94
giu-95
Performance
giu-96
giu-97
VaR
giu-98
giu-99
giu-00
giu-01
giu-02
A_VaR
Un’alternativa a questo approccio è quella di stimare il k con
dati a frequenza coerente rispetto all’holding period, ma con osservazioni overlapping. Per esempio, il rendimento a 20 giorni in
t+1, costruito a partire dai dati giornalieri, ha 19 giorni in comune
con il rendimento a 20 giorni in t. Iterando il processo, si ha un
rendimento costruito senza dati sovrapposti, rispetto ai precedenti, solo dopo un numero di giorni pari all’orizzonte temporale
(nell’esempio a t+20 non avrò più osservazioni in comune con t).
In questo modo si superano i problemi di scarsità di dati, ma i risultati non sono troppo incoraggianti ed inoltre sono caratterizzati
da una sorta di effetto risonanza dovuto all’utilizzo di dati sovrapposti nella stima della matrice di varianze-covarianze.
La Figura 3.4.3, dove il fattore di correzione è stimato su un
campione di 200 osservazioni ed il livello di confidenza è pari al
95%, mette in evidenza questa singolare caratteristica.
Infine, nel caso in cui abbiamo dati a sufficienza per aggregare
i rendimenti almeno a frequenza settimanale (non overlapping), è
opportuno utilizzare tali dati aggregati eventualmente insieme alla
regola della radice quadrata per holding period maggiori. La Figura
3.4.4 riporta il caso in cui i rendimenti sono disponibili a frequenza
settimanale, l’orizzonte periodale è di 20 giorni (4 settimane lavorative) e viene usato il fattore 4 .
56
Q U A D E R N I
Figura 3.4.3
0,2
A_VaR e VaR a confronto
Dati giornalieri (5g overlapping) -- HP 20
giorni- Liv Conf 95%
Eccezioni: A_VaR = 7.524% , VaR =
8.924%
0,15
0,1
0,05
0
-0,05
-0,1
-0,15
-0,2
-0,25
mar-98
mar-99
Performance
mar-00
mar-02
mar-01
VaR
A_VaR
Figura 3.4.4
0,2
A_VaR e VaR a confronto
Dati settimanali -- HP 4 settimane (20
giorni)- Liv Conf 95%
Eccezioni: A_VaR = 4.806% , VaR =
5.736%
0,15
0,1
0,05
0
-0,05
-0,1
-0,15
-0,2
mar-90 mar-91 mar-92 mar-93 mar-94 mar-95 mar-96 mar-97 mar-98 mar-99 mar-00 mar-01 mar-02
Performance
VaR
A_VaR
L’opportunità di implementare adeguate tecniche econometriche per migliorare il processo di stima del fattore k in presenza di
rendimenti a frequenza giornaliera è un tema particolarmente interessante sul quale ci riserviamo di tornare in futuro.
4. Analisi empirica
e backtesting
Prima di addentrarci nell’analisi di backtesting dell’A_ReVaR,
mostriamo quanto sia complesso individuare la distribuzione empirica dei rendimenti. Soprattutto quando la frequenza dei dati è giornaliera, risulta particolarmente difficile accettare l’ipotesi che i rendimenti seguano una distribuzione gaussiana o un’altra tra le distribuzioni più conosciute ed utilizzate.
La Tabella 4.1.1 riporta le statistiche descrittive ed il ranking
delle distribuzioni che meglio descrivono i dati al variare della fre3
quenza degli stessi. La classificazione delle distribuzioni candidate a
spiegare i dati dipende dal valore assunto dalla statistica di Ander4
son-Darling aggiustata per tener conto del campione e dell’incertezza dei parametri (A-D adj). La prima parte della tabella evidenzia
come la skewness e l’eccesso di kurtosis caratterizzino le serie storiche
3
4
4.1
Frequenza e
distribuzione empirica
dei rendimenti
Tale classificazione è stata ottenuta tramite l’uso di BestFit (Palisade Corporation).
Per un approfondimento di tale statistica si veda Stephens (1974).
57
Q U A D E R N I
dei rendimenti. La seconda parte, invece, mostra che solo nei casi in
cui i rendimenti siano aggregati a frequenza settimanale o mensile,
la distribuzione logistica non viene rifiutata a valori critici pari a
0.025 (frequenza settimanale) e 0.15 (frequenza mensile).
In maniera analoga, la Tabella 4.1.2 mostra l’analisi dei rendimenti relativi di un portafoglio composto da 50% MSCI US, 30%
MSCI Europe e 20% MSCI Japan contro un benchmark rappresentato
Tabella 4.1.1
Tab 4.1.1: Analisi dei rendimenti dell’indice MSCI World
Dati giornalieri
1990 - 2002
Dati settimanali
1980 - 2002
Dati mensili
1970 - 2002
Statistiche descrittive
Media
0,0001
0,0015
0,0050
Moda
-0,0001
0,0025
0,0089
Mediana
0,0003
0,0022
0,0083
St. Deviation
0,0080
0,0186
0,0402
Varianza
0,0001
0,0003
0,0016
Skewness
-0,2769
-1,2300
-1,2694
Kurtosis
6,6796
7,7779
6,0538
Ranking delle distribuzioni (Anderson-Darling)
1st
Logistic (1.13e-4,4.38e-3) Logistic (1.46e-3,1.02e-2)
A-D adj=11.598958
A-D adj=2.681151
(Rejected)
(Not Rejected*)
Weibull (7.44,0.26)+ -0.24
A-D adj=1.348942
(Rejected)
2nd
Normal (1.13e-4,7.99e-3) Normal (1.46e-3,1.86e-2)
A-D adj = 31.497093
A-D adj = 7.305597
(Rejected)
(Rejected)
Logistic (5.04e-3,2.20e-2)
A-D adj = 1.571709
(Not Rejected**)
3rd
Erf (88.45)
A-D adj = 32.216312
(Rejected)
Normal (5.04e-3,4.02e-2)
A-D adj = 2.934455
(Rejected)
Beta (63.59,3.27e+2)+ -0.16
A-D adj = 9.719066
(Rejected)
* Valore critico 0.025, ** Valore critico 0.15
Tabella 4.1.2
Tab 4.1.2: Analisi dei rendimenti del portafoglio
[(50% MSCI USA+30% MSCI Europe+20% MSCI Japan)-100% MSCI World]
Dati giornalieri
1990 - 2002
Dati settimanali
1980 - 2002
Dati mensili
1970 - 2002
Statistiche descrittive
Media
0,0000
0,0001
0,0004
Moda
-0,0002
-0,0003
-0,0008
Mediana
0,0000
0,0002
0,0005
St. Deviation
0,0013
0,0030
0,0068
Varianza
0,0000
0,0000
0,0000
Skewness
0,1426
-0,2176
-0,2184
Kurtosis
8,4867
7,6363
5,5038
Ranking delle distribuzioni (Anderson-Darling)
1st
Logistic (3.54e-5,7.18e-4)
A-D adj = 11.188075
(Rejected)
Logistic (1.03e-4,1.62e-3)
A-D adj = 4.21063
(Rejected)
Logistic (4.32e-4,3.72e-3)
A-D adj = 2.197067
(Not Rejected*)
2nd
Logistic(-1.11e-2,1.11e-2,14.83) Normal (1.03e-4,2.96e-3)
3rd
A-D adj = 21.258853
(Rejected)
A-D adj = 11.562241
(Rejected)
Normal (4.32e-4,6.78e-3)
A-D adj = 5.029949
(Rejected)
Normal (3.54e-5,1.31e-3)
A-D adj = 31.419405
(Rejected)
Erf (2.39e+2)
A-D adj = 12.477317
(Rejected)
Erf (1.04e+2)
A-D adj = 5.980623
(Rejected)
* Valore critico 0.05
58
Q U A D E R N I
dal MSCI World. In questo caso le distribuzioni appaiono più simmetriche, ma l’eccesso di kurtosis persiste. Per i dati a frequenza mensile non viene rifiutata l’ipotesi di distribuzione logistica con un valore critico pari a 0.05.
A fronte delle evidenze empiriche emerse, vale la pena ricordare che un modello con volatilità variabile nel tempo è compatibile con una distribuzione non condizionata che manifesti eccesso
di curtosi.
L’A_ReVaR è un modello estremamente semplice ma allo
stesso tempo fornisce risultati robusti sotto diverse prospettive. In
questa sezione ci preme analizzare il comportamento dell’A_ReVaR al variare della frequenza dei dati e dell’holding period di riferimento.
La Tabella 4.2.1 confronta le percentuali di eccezioni
nell’A_ReVaR e nel ReVaR “naïve” per orizzonti periodali di 1, 10, 20
e 60 giorni. La frequenza dei rendimenti è giornaliera (dati da gennaio 1990 ad agosto 2002) ed il portafoglio analizzato ha un tracking
error contenuto, in quanto costituito da 50% MSCI US, 30% MSCI
Europe e 20% MSCI Japan contro un benchmark rappresentato dal
MSCI World.
4.2
Tab 4.2.1: Percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel
ReVaR "naïve" - Dati giornalieri dal 1990 -- TE contenuto
Tabella 4.2.1
1 gg
10 gg
20 gg
Lambda = 0.94
Lambda = 0.96 Lambda = 0.98
95%
95%
99%
99%
95%
99%
60 gg
Lambda = 0.99
95%
99%
A_ReVaR
5,020% 0,991% 5,556% 1,354% 6,252% 1,733% 5,208% 1,313%
ReVaR "naïve"
1,948% 0,396% 2,222% 0,556% 1,959% 0,603% 0,219% 0,000%
# giorni calcolo "k" 200
200
300
300
400
400
500
500
N (giorni)
3028
2880
2880
2655
2655
2285
2285
3028
Robustezza
dell’A_ReVaR rispetto
alla frequenza dei dati
ed all’holding period
Dalla Tabella 4.2.1 si evince che l’ A_ReVaR funziona meglio
del ReVaR “naïve” sia al 95% sia al 99%, a prescindere dall’holding
period. Naturalmente, per un banale problema di numerosità
delle eccezioni, il processo di calibrazione al 95% risulta più preciso e di conseguenza anche l’A_ReVaR è più stabile per quel livello di confidenza.
Per una miglior comprensione di questa e delle successive tabelle della presente sezione, diamo alcuni suggerimenti circa l’interpretazione delle stesse. L’ampiezza del campione utilizzato per calcolare il fattore k è indicativo e quindi i numeri da noi suggeriti a tal
proposito non sono tassativi. Consigliamo comunque di utilizzare
campioni non troppo piccoli nè troppo grandi al fine di non sminuire i benefici del condizionamento della misura di valore a rischio. Inoltre, è buona norma ampliare tale campione all’aumentare dell’holding period.
Per quanto riguarda invece il numero di osservazioni utilizzate
per stimare la matrice S (dato non riportato nelle tabelle), ci siamo
rifatti alla regola suggerita nel documento tecnico RiskMetrics (1996)
per la quale:
ln(1 − 0.99) ln(λ ) = # osservazioni per stimarela var − cov
(7)
59
Q U A D E R N I
dove l (lambda) è il fattore di decadimento nella stima EWMA della
matrice di varianze-covarianze. D’altra parte, l’utilizzo della costante 0.99 ci rende confidenti che il campione così individuato
contenga il 99% delle informazioni ritenute necessarie per la
stima. Anche in questo caso, i valori di l usati nelle tabelle sono indicativi. Ulteriori analisi, non riportate per motivi di spazio, mostrano che l’A_ReVaR è robusto anche rispetto a variazioni di tale
parametro. Il numero N(.), infine, rappresenta le osservazioni out
of sample utilizzate per calcolare le percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel ReVaR “naïve”.
Analogamente alla precedente, la Tabella 4.2.2 riporta il confronto tra le percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel ReVaR “naïve”
per orizzonti periodali di 1, 2, 4 e 12 settimane. La frequenza dei rendimenti è settimanale (dati da gennaio 1980 ad agosto 2002) e il portafoglio analizzato ha un tracking error contenuto, in quanto ha la stessa
composizione di quello sottostante alla Tabella 4.3. Ancora una volta i
risultati dell’A_ReVaR sono ottimi , anche per holding period elevati.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto giova sottolineare che l’A_ReVaR è ideale per il breve periodo e quindi il suo utilizzo per orizzonti
temporali superiori ad un mese deve essere particolarmente accorto
soprattutto in presenza di tracking error non trascurabili.
Tabella 4.2.2
4.3
Robustezza
dell’A_ReVaR rispetto
al tracking error
Tabella 4.3.1
60
Tab 4.4.2: Percentuali di eccezioni nel A_ReVaR e nel
ReVaR "naïve"- Dati settimanali dal 1980 -- TE contenuto
1 sett
Lambda = 0.94
2 sett
4 sett
Lambda = 0.96 Lambda = 0.98
95%
95%
99%
99%
95%
99%
12 sett
Lambda = 0.99
95%
99%
A_ReVaR
5,100% 0,665% 5,104% 0,464% 4,496% 0,620% 4,423% 0,491%
ReVaR "naïve"
2,328% 0,443% 2,204% 0,580% 1,550% 0,310% 0,491% 0,000%
# settimane
calcolo "k"
200
200
200
200
300
300
300
300
N (settimane)
902
902
862
862
645
645
407
407
In questa sezione mostriamo che la metodologia dell’A_ReVaR
è affidabile anche nella valutazione di portafogli ad elevato tracking
error. Le Tabelle 4.3.1 e 4.3.2 sono rispettivamente equivalenti alle
Tabelle 4.2.1 e 4.2.2, questa volta però il portafoglio analizzato ha un
tracking error decisamente più elevato. Tale portafoglio è infatti costituito da 10% MSCI US, 60% MSCI Europe e 30% MSCI Japan e si
confronta con il solito benchmark MSCI World. I risultati, molto apprezzabili per holding period contenuti, si deteriorano parzialmente per orizzonti ampi in linea con le performance del ReVaR
“naïve” e coerentemente a quanto già detto nella sezione 3.
Tab 4.3.1: Percentuali di eccezioni nel A_ReVaR e
nel ReVaR "naïve" - Dati giornalieri dal 1990 -- TE elevato
1 gg
Lambda = 0.94
10 gg
20 gg
Lambda = 0.96 Lambda = 0.98
95%
95%
99%
99%
95%
99%
60 gg
Lambda = 0.99
95%
99%
A_ReVaR
4,789% 0,892% 4,896% 1,007% 5,348% 1,281% 6,127% 2,319%
ReVaR "naïve"
2,213% 0,198% 1,701% 0,278% 1,695% 0,151% 1,269% 0,000%
# giorni calcolo "k" 200
200
300
300
400
400
500
500
N (giorni)
3028
2880
2880
2655
2655
2285
2285
3028
Q U A D E R N I
Tab 4.3.2: Percentuali di eccezioni nel A_ReVaR e nel
ReVaR "naïve" - Dati settimanali dal 1980-TE elevato
1 sett
Lambda = 0.94
2 sett
4 sett
Lambda = 0.96 Lambda = 0.98
95%
95%
99%
99%
95%
99%
Tabella 4.3.2
12 sett
Lambda = 0.99
95%
99%
A_ReVaR
4,656% 0,443% 4,872% 0,232% 4,341% 0,775% 4,668% 1,229%
ReVaR "naïve"
2,661% 0,111% 2,784% 0,464% 3,876% 1,085% 3,931% 0,737%
# settimane
calcolo "k"
200
200
200
200
300
300
300
300
N (settimane)
902
902
862
862
645
645
407
407
Nel paragrafo 3.4 abbiamo discusso, dal punto di vista teorico,
circa l’applicabilità della nostra metodologia alla stima del valore a
rischio di un portafoglio in un contesto assoluto (in assenza di benchmark). Torniamo qui sull’argomento con un approccio empirico. Le
Tabelle 4.4.1 e 4.4.2 mostrano la medesima analisi fatta nelle sezioni
precedenti, ma questa volta il portafoglio in questione coincide con
l’indice MSCI World e non si confronta con alcun benchmark. Dai risultati emerge che anche l’A_VaR fornisce una buona stima ex-ante
del valore a rischio del portafoglio, ma l’utilizzo del fattore di correzione kv in un contesto assoluto deve essere assoggettato ad ulteriori
cautele. Prima di tutto, è opportuno limitare l’uso dell’A_VaR ad
orizzonti temporali contenuti. In secondo luogo, è auspicabile lavorare ad un livello di confidenza del 95% in modo da rendere più agevole il processo di calibrazione. Infine, pur rendendoci conto di problemi inerenti la scarsità dei dati a disposizione, ribadiamo che è assolutamente preferibile adoperare dati a frequenza (almeno) settimanale al fine di evitare che shock transitori ai prezzi possano oltremodo influenzare la stima di kv.
4.4
Tab 4.4.1: Percentuali di eccezioni nel A_VaR
e nel VaR "naïve" - Dati giornalieri dal 1990
Tabella 4.4.1
1 gg
Lambda = 0.94
10 gg
20 gg
Lambda = 0.96 Lambda = 0.98
95%
95%
99%
99%
95%
99%
60 gg
Lambda = 0.99
95%
99%
A_VaR
4,888% 0,862% 5,451% 1,111% 6,817% 1,394% 9,540% 2,801%
VaR "naïve"
4,723% 1,288% 7,708% 2,813% 7,420% 2,825% 5,339% 2,101%
# giorni calcolo "k" 200
200
300
300
400
400
500
500
N (giorni)
3028
2880
2880
2655
2655
2285
2285
3028
Tabella 4.4.2
Tab 4.4.2: Percentuali di eccezioni nel A_VaR
e nel VaR "naïve" - Dati settimanali dal 1980
1 sett
Lambda = 0.94
2 sett
4 sett
Lambda = 0.96 Lambda = 0.98
95%
95%
99%
99%
95%
99%
Applicabilità della
metodologia alla stima
del VaR: l’evidenza
empirica
12 sett
Lambda = 0.99
95%
99%
A_VaR
4,878% 0,887% 5,104% 0,000% 4,806% 0,930% 7,862% 1,966%
VaR "naïve"
4,767% 1,330% 4,292% 1,972% 5,736% 2,171% 4,914% 2,457%
# settimane
calcolo "k"
200
200
200
200
300
300
300
300
N (settimane)
902
902
862
862
645
645
407
407
61
Q U A D E R N I
4.5
Il fattore k (kr e kv)
Figura 4.5.1
Andamento del fattore k rispetto all’holding
period
Dati giornalieri -- A-ReVaR
A conclusione di questa sezione, dedichiamo un apposito paragrafo all’analisi empirica del fattore k. Abbiamo già detto che tale fattore è funzione del portafoglio analizzato, del benchmark, dell’holding period, del livello di confidenza, del set informativo complessivamente disponibile e del campione stesso su cui viene calcolato.
Le seguenti Figure 4.5.1 e 4.5.2 mostrano l’andamento dei fattori k, al variare dell’holding period, nei casi in cui i rendimenti abbiano rispettivamente frequenza giornaliera e mensile. Il livello di
confidenza è pari al 95% e tutti gli altri parametri utilizzati sono gli
stessi delle Tabelle 4.2.1 - 4.4.2.
1,8
1,6
1,4
1,2
1
0,8
0,6
0,4
0,2
0
set-93
set-94
set-95
K -- 1g, 95%
Figura 4.5.2
Andamento del fattore k rispetto all’holding
period
Dati settimanali -- A-ReVaR
set-96
set-97
K -- 10g, 95%
set-98
set-99
K -- 20g, 95%
set-00
set-01
K -- 60g, 95%
1
0,9
0,8
0,7
0,6
0,5
0,4
0,3
ago-94
ago-95
K -- 1s, 95%
ago-96
ago-97
K -- 2s, 95%
ago-98
ago-99
K -- 4s, 95%
ago-00
ago-01
K -- 12s, 95%
I grafici mostrano che la volatilità delle serie storiche dei kr cresce
sensibilmente all’aumentare dell’holding period. Si nota anche che
tali volatilità sono nettamente inferiori nel caso di dati a frequenza settimanale. Infine, emerge che nelle analisi relative con tracking error
contenuto il fattore di correzione kr è generalmente inferiore a 1 e ciò
significa che il ReVaR “naïve” tende a sopravvalutare sistematicamente
il rischio relativo. Naturalmente non possiamo inferire regole generali
dalle Figure 4.5.1 e 4.5.2, ma quest’ultimo punto sembra riemergere
anche dall’analisi di altri portafogli e su campioni diversi.
Le Figure 4.5.3 e 4.5.4 riportano l’andamento dei kv calcolati
per stimare l’A_VaR sul MSCI World. La dinamica della volatilità è
palesemente in linea con quella dei grafici discussi in precedenza. In
questo caso, tuttavia, il fattore di correzione assume valori sia minori
sia maggiori di 1 e non sembra mostrare alcuna regolarità.
62
Q U A D E R N I
Figura 4.5.3
2
Andamento del fattore k rispetto all’holding
period
Dati giornalieri -- A-VaR
1,8
1,6
1,4
1,2
1
0,8
0,6
0,4
0,2
0
set-93
set-94
set-95
K -- 1g, 95%
set-96
set-97
K -- 10g, 95%
set-98
set-99
K -- 20g, 95%
set-00
set-01
K -- 60g, 95%
1,4
Figura 4.5.4
1,2
Andamento del fattore k rispetto all’holding
period
Dati settimanali -- A-VaR
1
0,8
0,6
0,4
0,2
ago-94
ago-95
ago-96
K -- 1s, 95%
ago-97
ago-98
K -- 2s, 95%
ago-99
K -- 4s, 95%
ago-00
ago-01
K -- 12s, 95%
Un’altra interessante prospettiva da cui guardare all’andamento
dei k è rappresentata dal grado di fiducia rispetto al quale l’A_ReVaR e
l’A_VaR sono calcolati. Le Figure 4.5.5 e 4.5.6 mostrano l’andamento
del fattore k sia al 95% sia al 99% quando l’holding period è pari rispettivamente ad un giorno e ad una settimana. Emerge chiaramente
che al 95% il fattore di aggiustamento è più reattivo. Inoltre, facciamo
nuovamente notare che, sia con dati giornalieri sia con dati settimanali, i valori di kv sono sistematicamente maggiori di quelli di kr ed in
media i primi sono maggiori di 1 ed i secondi minori di 1.
Figura 4.5.5
1,4
Andamento del fattore k rispetto al livello di
confidenza
Dati giornalieri
1,3
1,2
1,1
1
0,9
0,8
0,7
0,6
0,5
0,4 set-93
set-94
set-95
set-96
K--1g, 95%, A-ReVaR
K--1g, 95%, A-VaR
set-97
set-98
set-99
set-00
set-01
K--1g, 99%, A-ReVaR
K--1g, 99%, A-VaR
63
Q U A D E R N I
Figura 4.5.6
Andamento del fattore k rispetto al livello di
confidenza
Dati settimanali
1,3
1,2
1,1
1
0,9
0,8
0,7
0,6
5. Misure di scomposizione
del rischio
ago-94
ago-95
ago-96
ago-97
ago-98
ago-99
ago-00
K--1s, 95%, A-ReVaR
K--1s, 99%, A-ReVaR
K--1s, 95%, A-VaR
K--1s, 99%, A-VaR
ago-01
Oltre ad avere valori sintetici per il rischio relativo ed assoluto
del portafoglio, è cruciale sapere come il rischio è allocato tra i vari
fattori. Capire dunque quali sono le posizioni che assorbono maggior rischio, quali si comportano come coperture e dove è meglio
agire se l’obiettivo è di modificare il rischio di portafoglio. L’aver
adottato un approccio parametrico, come si vedrà, rende particolarmente agevole pervenire a queste misure.
Uno degli indicatori più interessanti è quello che consente di
individuare come il ReVaR è stato allocato tra i vari fattori di rischio:
MarginalReVaR.
MargA_ReVaRi = (p - b)i
dA _ Re VaR
d ( p − b )i
rappresenta la quantità di rischio relativo assorbita dal fattore iesimo.
Vale la pena osservare che:
2 Σ( p − b)
dA _ Re VaR
1
H
= -1.645 k r
d ( p − b)
2 ( p − b)T Σ( p − b) 1/ 2
[
]
Valgono dunque le seguenti proprietà:
i) Additività:
(p - b ) T
dA _ Re VaR
d ( p − b)
= A_ReVaR
ii) (MargA_ReVaR/A_ReVaR) non dipende da kr ma soltanto da S e da (p-b). Questo dunque deve ricordarci che
per ottenere buone misure di decomposizione del rischio
bisogna ben stimare S.
Un altro indicatore molto importante è l’IncrementalReVaR;
esso consente di capire come varierà il ReVaR al variare del vettore
pesi (p-b). Un modo veloce e preciso per determinarlo è:
• pinew = pi + 1%
• IncrA_ReVaRi = IncrA_ReVaR(newi)-IncrA_ReVaR(old)
• ripeto il calcolo per ogni fattore di rischio i
Questo consente di ordinare i fattori di rischio rispetto al loro
IncrA_ReVaR e di avere dunque una graduatoria di efficacia (e velocità) volendo modificare la rischiosità del portafoglio. Vale la pena
64
Q U A D E R N I
notare che a differenza del MargA_ReVaR, l’IncrA_ReVaR non è indipendente da kr. Con le ovvie modifiche del caso, i due indicatori
appena introdotti sono ottenibili anche nel contesto rischio assoluto, nel qual caso parleremo di MargA_VaR ed IncrA_VaR.
Altre analisi molto utili e connesse alle precedenti sono rappresentate dalle cosiddette Pre Trade Analysis. Supponiamo che ad ogni
portafoglio sia associato un universo investibile, questo consente di
stimare ogni giorno una matrice S previsiva che descrive volatilità e
correlazioni a cui il portafoglio sarà esposto. Se accompagnamo questo al fatto che ogni giorno sono noti i pesi b del benchmark e viene ristimato il parametro kr associato al portafoglio, siamo in grado di ricalcolare l’A_ReVaR al variare del vettore pesi p del portafoglio
prima che il trade venga effettivamente realizzato. Questo è possibile
nella misura in cui il portafoglio non venga stravolto dal momento
che come si ricorderà dalla (5) kr = f ((p-b), H, T, X, a ). È anche vero
peraltro che è piuttosto raro che un portafoglio venga stravolto in
una sola giornata.
È stata presentata una nuova metodologia per il calcolo del rischio relativo ed assoluto che trae spunto dall’approccio parametrico standard cercando di superarne i maggiori limiti ma continuando a beneficiare dei suoi tradizionali punti di forza. La strada
adottata è quella della calibrazione attraverso una procedura di
backtesting.
Sono state condotte diverse verifiche empiriche per testare il
comportamento del modello per vari livelli di rischio (relativo ed assoluto), diverse frequenze dati ed holding period anche piuttosto elevati. I risultati ottenuti sono più che confortanti garantendo valori di a
out of sample molto vicini a quelli teorici. I buoni risultati ottenuti anche
nel caso di uso di dati giornalieri, consentono l’applicazione della tecnica proposta anche in assenza di serie storiche molto lunghe.
Un futuro fronte di studio sarà rappresentato da approfondite
analisi di significatività degli a ottenuti out of sample attraverso il test
di Christoffersen et al. (1998, 2001). Altri due interessanti campi di
analisi potrebbero essere lo studio combinato della coda sinistra e
destra della distribuzione dei rendimenti relativi ed assoluti e l’applicazione in altri contesti della tecnica di calibrazione presentata.
6.
Conclusioni
Alexander C. et al., “Risk Management & Analysis”, Wiley (1998)
Alexander C., “Market Models”, Wiley (2001)
Christoffersen P.F., “Evaluating Interval Forecast”, International Economic Review (1998)
Christoffersen P.F., J. Hahn, A. Inoue, “Testing and Comparing Value-at-Risk Measures”, CIRANO Working Papers, 2001 s-03 (2001)
Dowd K., “Beyond Value at Risk”, Wiley (1998)
Engle R.F., Manganelli S., “Value at Risk Models in Finance”, European Central Bank Working Paper n. 75 (2001)
Jorion P., “Value at Risk”, McGrawHill (2000)
RiskMetrics Group, “Technical Document” (1996)
RiskMetrics Group, “Return to RiskMetrics Technical Document”
(1996)
Stephens M.A., “EDF Statistics for Goodness of Fit and Some Comparisons”, Journal of the American Statistical Association, vol. 69 (1974)
Riferimenti bibliografici
65
Massimiliano Burgio
Eptafund
Michele De Sario
Eptafund
Maria Luisa Gota
Eptafund
L’attività di risk
management
e le peculiarità dei
diversi prodotti gestiti:
uno o più modelli
di misurazione e analisi
del rischio?
Q U A D E R N I
68
Q U A D E R N I
L’obiettivo del lavoro è approfondire, alla luce dell’esperienza
maturata in Eptafund, alcuni temi di attualità inerenti all’attività di
risk management nelle società di gestione del risparmio. La prima
parte del saggio si sviluppa attraverso alcune considerazioni introduttive (par. 1), qualche riflessione sul tema dello sviluppo di sistemi
in contrapposizione all’acquisto degli stessi (par. 2) e un’analisi
delle ragioni che hanno condotto Eptafund a dotarsi di una pluralità
di sistemi per la misurazione del rischio (par. 3). La seconda parte
(par. 4), più tecnica, fornisce una panoramica di alcune delle soluzioni adottate in Eptafund: un modello proprietario per il calcolo
del rischio di portafogli azionari europei (par. 4.1), un approccio
alla misurazione del rischio di portafogli di fondi (par. 4.2) e un sistema proprietario di attribuzione della performance per portafogli
obbligazionari(par. 4.3).
Il notevole sviluppo dell’industria del risparmio gestito in Italia nella seconda metà degli anni ’90 (le attività gestite sono cresciute del 340% tra il 1995 e il 2000) ha avuto inevitabilmente forti
implicazioni sulla struttura organizzativa delle società di gestione
del risparmio. Il potenziamento delle aree chiave del ciclo di produzione (Front-Office, Back-Office, Organizzazione e Sistemi),
spinto dalla crescita delle masse, è stato affiancato dalla strutturazione di nuovi presidi nell’area dei controlli. Alcune disposizioni
emanate dalle autorità di vigilanza vanno eplicitamente o implicitamente in questa direzione: l’articolo 57 della Delibera Consob
11522 1/7/98 impone alle società di gestione di dotarsi di una struttura di controllo interno, mentre, per quanto riguarda l’unità di
risk management, sebbene non esista una fonte normativa che
esplicitamente ne indichi l’obbligo di costituzione, il Provvedimento Banca d’Italia 1/7/98, attribuendo la definizione delle
scelte strategiche aziendali al massimo organo amministrativo della
Sgr e prevedendo la declinazione di tale responsabilità attraverso il
conferimento di deleghe operative, apre la strada alla creazione di
un’area indipendente rispetto alla Direzione Operativa preposta a
verificare l’aderenza dell’attività gestoria alle delibere in materia di
strategia d’investimento assunte dal Consiglio d’Amministrazione.
Si può ritenere questo il passaggio normativo che ha catalizzato la
domanda di controlli di linea rimasta latente fino agli anni ’97-’98
nella maggioranza delle società di gestione.
Si assiste così, proprio in questo biennio, alla nascita della figura professionale del risk manager, nuova nel panorama delle Sgr,
e alla delimitazione del suo perimetro di azione, che include principalmente due attività: la misurazione e gestione del rischio dei portafogli e il calcolo e l’attribuzione delle performance. Se questi sono
riconosciuti unanimamente all’interno dell’industria come gli
obiettivi del servizio di risk management, non vi è altrettanta condivisione di vedute su quali siano le metodologie da impiegare. L’as-
1. Introduzione
69
Q U A D E R N I
senza di uno standard metodologico e il dibattito che ne consegue
rappresentano senza dubbio una peculiarità dell’attività di risk management nell’industria del risparmio gestito, che non trova riscontro all’interno del mondo bancario o delle società di intermediazione. Sarebbe però superficiale attribuire questo aspetto esclusivamente alla recente nascita del servizio. Andando un po’ più a fondo,
si osserva quanto la ricerca di nuovi metodi, caratterizzati da un maggiore potere esplicativo, sia riconducibile alla duplice natura del servizio stesso: da un lato assolvere alla funzione di controllo per conto
dell’alta direzione, dall’altro sfruttare la produzione orientata al
controllo per ottenere maggiori informazioni a supporto dell’attività di gestione. Se quindi la misurazione del rischio per l’alta direzione sarebbe teoricamente compatibile con una metodologia standard, avallata magari dagli organi di vigilanza, nel momento in cui se
ne vuole trarre un vantaggio competitivo l’opportunità di avere uno
standard svanisce e diviene cruciale disporre delle migliori competenze e dei più aggiornati sistemi informativi per sviluppare strumenti di analisi personalizzati.
I temi sui quali è aperto il confronto sono numerosi e molto stimolanti; vanno dalla scelta delle metodologie di cui si è fatto cenno
sopra, all’univocità delle stesse per tutti i portafogli gestiti, all’opportunità di acquistare prodotti esistenti sul mercato rispetto allo sviluppo di sistemi proprietari, alle modalità di integrazione della funzione di risk management nel processo di investimento, alla valutazione delle prestazioni di un servizio di risk management.
Il presente lavoro si propone di analizzare i primi tre aspetti. In
particolare, il par. 2 contiene alcune riflessioni sul tema dello sviluppo in house di sistemi per la misurazione e l’analisi del rischio in
contrapposizione all’acquisto di software sul mercato. Oggetto del
par. 3 è analizzare gli argomenti che hanno indotto Eptafund a dotarsi di una pluralità di sistemi anziché orientarsi verso un unico strumento. Nel par. 4 sono illustrate alcune soluzioni sviluppate da Eptafund: nel par. 4.1 è descritto un modello di analisi del rischio per portafogli europei basato su fattori macroeconomici; nel par. 4.2 è introdotto un indicatore di rischiosità per portafogli di fondi; il par. 4.3
raccoglie le caratteristiche di un modello di attribuzione delle perfomance per portafogli obbligazionari.
2. Modelli di misura
e analisi del rischio:
acquisto o sviluppo
in house?
70
La prima fondamentale riflessione da cui parte il progetto di
un sistema di risk management riguarda la scelta tra sviluppo in
house e acquisto di software disponibile sul mercato. Sono numerose e valide le ragioni a favore di entrambe le opzioni. Eptafund ha
realizzato una soluzione mista: per alcuni prodotti è stato acquistato
un sistema in via definitiva, per altri è previsto l’utilizzo del sistema
acquistato provvisoriamente e lo sviluppo proprietario in un secondo tempo, per una terza tipologia di prodotti è stato preventivato
solo lo sviluppo proprietario. Le ragioni di questa scelta nascono
dalla nostra convinzione della maggiore efficacia dei sistemi proprietari se le attività di risk management sono ben integrate nel processo di investimento (risk management on-line); in caso contrario, e
per fare un esempio concreto basta pensare ai portafogli gestiti in
delega da gestori esterni per conto della Sgr, per assolvere ai compiti
di controllo off-line, è sufficiente disporre di un buon sistema che
permetta di monitorare i rischi attivi senza avere la pretesa di farne
Q U A D E R N I
uno strumento di supporto decisionale di linea. Questo è il motivo
che ci ha spinti a pianificare soluzioni proprietarie solo per i prodotti
gestiti internamente, mantenendo il controllo su quelli gestiti in delega attraverso strumenti disponibili sul mercato. È invece riconducibile a considerazioni di timing la decisione di passare solo in un secondo tempo e per i prodotti gestiti internamente a modelli sviluppati in house. Infatti i tempi richiesti dallo sviluppo di questi modelli
non sono facilmente quantificabili e questa è una caratteristica incompatibile con la pianificazione ex novo di un sistema di risk management. Pertanto per i prodotti gestiti per i quali una software selection
ha individuato uno strumento soddisfacente, lo strumento è stato
acquistato. È chiaro che anche la messa a punto di sistemi di terzi
non è esente da spiacevoli sorprese e non si deve commettere l’errore di pensare che disporre del software equivalga ad avere le analisi desiderate, in quanto ottenere quei numeri è spesso una strada
irta di ostacoli e avara di soddisfazioni. Sulla base della nostra esperienza, i problemi più grossi sono l’alimentazione del sistema attraverso una procedura automatica e la gestione delle anagrafiche, che,
soprattutto nel caso di portafogli obbligazionari, risultano incomplete e approssimative. In conclusione, sebbene orientarsi verso l’acquisto di sistemi sia indubbiamente la soluzione più veloce per fornire risultati, anche in questo caso la messa a punto può comportare
tempi più lunghi del previsto. L’impegno di tempo non è sicuramente l’unico limite dell’opzione sviluppo in house: avere risorse di
livello con una preparazione multi-disciplinare è infatti altrettanto
fondamentale quanto l’avere tempo. La preparazione multi-disciplinare alla quale ci riferiamo deve abbracciare materie quali la Statistica, l’Econometria, la Teoria della Finanza e, inevitabilmente, una
buona dose di skill informatici, indispensabili anche solo per arrivare ad un semplice prototipo. Crediamo molto nel valore aggiunto
della multi-disciplinarietà rispetto ad una segmentazione del lavoro
tra, per esempio, statistici e programmatori, almeno nella fase di
analisi e prima implementazione; dovendo poi passare alla realizzazione di un’applicazione più professionale la segmentazione risulta
altrettanto importante.
Oltre all’investimento in tempo e risorse umane di livello, non
occorre un grande budget per poter sviluppare i propri sistemi; di
solito queste soluzioni sono di gran lunga più economiche di quelle
acquistate.
Passiamo ora agli aspetti che rendono desiderabile avere strumenti proprietari.
a) Conoscenza approfondita dei modelli sottostanti. Per
quanto i software in commercio siano accompagnati da
documentazione metodologica, il che permette di conoscere discretamente bene i modelli utilizzati, il livello di
comprensione che si guadagna sviluppando direttamente il prodotto è ineguagliabile. La conoscenza più approfondita non rimane un plus intangibile; ci sono importanti risvolti concreti: da una migliore comprensione
delle ipotesi ad una più accurata interpretazione degli
output, ad una maggior consapevolezza dell’affidabilità
del modello ottenibile grazie a tutta l’attività di backtesting.
b) Controllo del database. Il disegno e l’alimentazione del
database sono oneri di cui è inevitabile farsi carico
71
Q U A D E R N I
quando si sviluppa internamente. A fronte di questa fatica
si ha però il controllo dei dati in input dalla cui qualità dipende un buon risultato. La qualità dei dati in input è a
nostro avviso proprio uno dei punti di debolezza di molti
dei software in commercio.
c) Condivisione della metodologia. Il risk manangement
fornisce un servizio a diverse aree dell’azienda; i clienti,
dall’alta direzione fino ai responsabili di team, devono
credere nella bontà del servizio. Questo si realizza se la
metodologia è condivisa. Poter lavorare insieme ai clienti
interni per arrivare ad un sistema condiviso nelle sue fondamenta è il presupposto per costruire strumenti che aggiungano valore.
d) Flessibilità. Un’idea non nasce perfetta; ci sono sempre
margini di miglioramento. Un sistema sviluppato in
house può essere sottoposto a revisione tutte le volte che
lo si ritiene necessario. È inoltre semplice rispondere a richieste di personalizzazione. Il fatto che dai clienti interni
arrivino richieste di personalizzazione è conseguenza
della condivisione e un indicatore di buona salute del servizio: è importante poter rispondere in tempi ragionevoli.
e) Semilavorati. Alcune elaborazioni intermedie possono
essere valorizzate aldilà del fatto che conducono al risultato finale. Nei software acquistati non è previsto l’accesso
a questi semilavorati. Nei sistemi sviluppati internamente
possono al contrario essere alla base di nuove elaborazioni. Un esempio sarà dato nel par. 4.1.4.
f) Motivazione delle risorse. Le procedure di messa a punto
e, in generale, l’utilizzo ordinario di un sistema acquistato
risultano spesso demotivanti per le persone addette. Una
volta acquisito il know-how sullo strumento, il lavoro resta caratterizzato da una forte componente di routine, interrotta
da inefficienze operative che bisogna cercare di mettere a
posto interloquendo con il fornitore. Questa attività crea
frustrazione in quanto si instaura una dipendenza molto
forte nei confronti di terze parti, si lavora molto accrescendo solo marginalmente la propria conoscenza e non si
riesce a garantire la tempestività delle risposte. Sul fronte
make c’è invece l’entusiasmo della ricerca e la soddisfazione
di vedere girare il programma... Che dire di più?
3. La misura del rischio
secondo un approccio
differenziato in base
al prodotto
72
Non c’è dubbio che la prospettiva di avere un unico strumento
per misurare i rischi di tutti i prodotti gestiti eserciti un grande fascino.
Pur non essendone immuni, riteniamo che le peculiarità presentate
dai diversi prodotti richiedano una differenziazione dei metodi di
analisi adottati. L’obiettivo di fondo al quale un sistema di risk management deve rispondere è quantificare il rischio che il risultato dell’attività di gestione diverga dalle aspettative. Questo obiettivo è comune
a tutti i prodotti gestiti. Nell’ambito poi delle gestioni a rendimento relativo il rischio di non soddisfare le aspettative è sostanzialmente il rischio di produrre un rendimento inferiore a quello del benchmark
sull’orizzonte periodale di riferimento. Per le gestioni a rendimento
assoluto il rischio che si vuole misurare è quello di ottenere un rendimento negativo o inferiore ad un determinato target. Nel paragrafo 3.1
Q U A D E R N I
si argomenta perché l’obiettivo della gestione (a rendimento relativo
o a rendimento assoluto) costituisca già una primo fattore di diversità.
Un secondo elemento di differenziazione che preclude l’utilizzo di
una sola metodologia è dato dalle leve gestionali permesse dal prodotto: nel paragrafo 3.2 si spiega perché un portafoglio di fondi richieda uno strumento di analisi ad hoc rispetto ad un portafoglio di titoli. La terza discriminante che si prende in considerazione è la classe
di attività in cui il portafoglio investe: nel paragrafo 3.3 si espone la
scelta effettuata per misurare il rischio di portafogli azionari e perché
tale scelta non possa essere adattata tout court a quelli obbligazionari.
In base all’interpretazione usuale, che accredita la tracking error
volatility (nel seguito, brevemente, tracking error) quale indicatore
di rischio, se un portafoglio presenta un tracking error del 5%, ci si
aspetta che con una probabilità di circa 2/3 il rendimento si discosti
da quello del benchmark per non più del 5%. Questa lettura vale
sotto due ipotesi molto forti formulate sulla distribuzione di probabilità degli excess return: che sia normale e a media nulla. Se questa
non è la sede per disquisire sulla normalità dei rendimenti (assoluti
o in eccesso), sulla seconda assunzione (che la media sia nulla) qualcosa si può dire; se quest’ultima fosse vera, infatti, verrebbe meno la
ragione di essere della gestione attiva; trattandosi comunque di excess return è forte ma non del tutto fuorviante assumere che mediamente sia prossimo a zero. Consapevoli quindi che si tratta di un’assunzione forte, possiamo “sopportare” la lettura standard del tracking error come indicatore di rischio; ben diverso è il caso delle gestioni a rendimento assoluto dove l’indicatore equivalente al tracking error è la deviazione standard e un’interpretazione analoga
condurrebbe a sostenere che con probabilità 2/3 i rendimenti del
portafoglio cadono tra meno una deviazione standard e più una deviazione standard. In sostanza l’ipotesi di media nulla della distribuzione, nel caso di gestioni a rendimento assoluto, è inaccettabile.
Ecco quindi che nel caso delle gestioni a rendimento assoluto
non è possibile evitare di affrontare il problema della generazione
dei rendimenti. Va da sé che questa considerazione sbarra di fatto la
strada all’utilizzo per le gestioni a rendimento assoluto dei modelli
multi-fattoriali, categoria piuttosto consolidata soprattutto per i por1
tafogli azionari .
3.1
Gestioni a rendimento
relativo e gestioni a
rendimento assoluto
Portafogli di fondi e portafogli di titoli: questo è un altro elemento di differenziazione che richiede uno strumento di analisi ad hoc
per i primi. Sebbene i portafogli di fondi (gestioni patrimoniali in
fondi e fondi di fondi) siano in ultima analisi panieri di titoli, la politica
di investimento di questi prodotti si basa su un numero ridotto di leve
gestionali: se l’allocazione per classi di attività, geografica, settoriale,
per segmento di curva e per merito di credito rappresentano variabili
su cui il gestore di portafogli di fondi ha il controllo (a condizione che
la gamma di fondi di cui dispone sia ben diversificata), lo stock picking
esula dalle sue responsabilità; i suoi rischi attivi devono quindi essere
misurati sterilizzando l’effetto dello stock picking. Lo Strategy Tracking Error (STE) illustrato nel paragrafo 4.2 è stato concepito per questo scopo.
3.2
Portafogli di fondi
1
In realtà si può usare la classe di modelli multi-fattoriali, ma solo dopo aver stimato
i rendimenti attesi. Questa procedura introduce un margine a nostro avviso eccessivo di discrezionalità nei dati in input.
73
Q U A D E R N I
3.3
74
Portafogli azionari
Per analizzare il rischio dei portafogli azionari Eptafund ha
scelto l’approccio APT o multi-fattoriale. Questo approccio prevede
l’identificazione di un numero ridotto di fattori rispetto ai quali
viene scomposta la parte sistematica del rischio di portafoglio; la porzione residuale viene attribuita a elementi idiosincratici. La letteratura di riferimento è copiosa e negli ultimi due decenni si è assistito
ad una proliferazione di lavori accademici volti ad identificare i fattori col più elevato potere esplicativo. Su alcuni di essi, relativamente
ai titoli azionari, vi è un consenso pressoché unanime. Essi sono: il
mercato di appartenenza del titolo, la capitalizzazione di mercato, il
rendimento (nell’accezione di yield), il settore merceologico e il momentum. I modelli che hanno introdotto i precedenti fattori sono
brevemente indicati nel seguito:
• Modello I: CAPM, considera il premio al rischio una ricompensa per la detenzione di titoli correlati al portafoglio di mercato.
• Modello II: introdotto da Fama e French (1993) e (1995),
considera il premio al rischio una ricompensa per la detenzione di titoli correlati ai fattori di mercato, di capitalizzazione (fattore rappresentato attraverso la differenza di rendimento tra un portafoglio small cap e uno large cap) e di value (attraverso la differenza di rendimento tra due portafogli di titoli uno a elevato e uno a basso book-to-market-value).
• Modello III: Carhart (1997) aggiunge al modello precedente il rischio di momentum.
• Modello IV: Daniel e Titman (1997) aggiungono al modello precedente la sensibilità ai rendimenti dei settori.
Questi sono in linea di massima i fattori adottati da sistemi leader di mercato quali Barra, Northfield e Wilshire. Stimate le covarianze tra i fattori e la sensitività di ogni titolo, nota la composizione
del portafoglio e del benchmark, si calcola la deviazione standard
del rendimento relativo (tracking error) e come i fattori e la parte
specifica contribuiscano a tale deviazione standard. Questo approccio conduce quindi al momento secondo della distribuzione di probabilità del rendimento relativo, all’attribuzione di tale momento,
ma non all’intera distribuzione. Un ulteriore passo, possibile solo conoscendo bene la specificazione dei fattori impiegati, è la generazione di scenari sui fattori per sondare come portafoglio e benchmark reagiscano. Questo utilizzo non è previsto dai più trattati software in commercio, ma, quand’anche lo fosse, sarebbe difficile generare scenari sull’andamento del fattore legato alla capitalizzazione di mercato, oppure di quello legato al “value/growth”. Tale
doppio limite può essere superato attraverso una diversa scelta dei
fattori unitamente ad uno sviluppo in house che garantisca totale
trasparenza dei dati.
Questa è la strada seguita da Eptafund e sviluppata mediante
l’individuazione di un insieme di fattori macro-economici caratterizzati da un buon potere esplicativo. Un siffatto approccio permette di
attribuire il rischio dei portafogli a variabili che entrano nelle decisioni di investimento e consente, attraverso l’analisi per scenari, di
verificare le risposte dei portafogli a movimenti in queste variabili; in
definitiva, traduce la rischiosità del portafoglio in un linguaggio
noto al team di gestione, facendo dello strumento un utile supporto
all’attività di gestione oltre che un mezzo di controllo del rischio. Per
Q U A D E R N I
quanto attiene ai limiti di questi modelli, vale la pena sottolineare
ancora che non forniscono la distribuzione di probabilità del rendimento; lo svantaggio maggiore è però la non adattabilità tout court ai
portafogli obbligazionari. Per questi ultimi infatti, sono diversi sia i
fattori in grado di catturare la parte sistematica, sia i metodi di calcolo delle sensitività, che sono determinate analiticamente e non attraverso un’analisi di regressione. Concludendo, in virtù delle potenzialità che offre, riteniamo l’approccio multi-fattoriale un ottimo
strumento di analisi e controllo dei portafogli azionari. Per questa
ragione abbiamo sviluppato SMART, un’applicazione proprietaria
basata su fattori macro-economici per l’analisi e il controllo dei portafogli azionari. Si rimanda al paragrafo 4.2 per una trattazione più
approfondita dell’argomento.
L’obiettivo del presente paragrafo è illustrare tre strumenti sviluppati in house da Eptafund.
Il primo (par. 4.1) è un modello di analisi del rischio per portafogli azionari europei. L’estensione ad altri universi è in fase progettuale. Lo spirito di questa applicazione è di rappresentare qualcosa
di più di un mezzo di controllo: la scelta di basare l’attribuzione della
parte di rischio sistematica su variabili macro-economiche è stata
dettata dalla volontà di fornire uno strumento di supporto all’attività di gestione impiegando variabili che direzionano le decisioni di
investimento.
Il secondo (par. 4.2) è un indicatore di rischio costruito per
quantificare le scelte attive rinvenienti dall’attività di gestione dei
portafogli di fondi: poiché la selezione dei titoli esula dal controllo
del gestore di portafogli di fondi, è necessario uno strumento che
isoli questo aspetto dalle leve gestionali che effettivamente sono controllabili.
Il terzo (par. 4.3) è un modello di attribuzione delle performance concepito per portafogli obbligazionari. Scompone i rendimenti sulla base di una gerarchia che riflette l’ordine secondo cui
vengono prese le decisioni di investimento. È coerente con il tema di
questa nota in quanto rappresenta sul fronte performance anziché
sul fronte rischio in quale modo le peculiarità di un prodotto (o di
una classe di prodotti) condizionino il modello di attribuzione.
4. Le soluzioni adottate
da Eptafund
SMART è costruito su un modello APT che utilizza alcune variabili macroeconomiche per spiegare i rendimenti delle azioni; lo
strumento è stato sviluppato per analizzare portafogli azionari investiti nei sedici mercati europei ricompresi nell’indice MSCI Europe.
In considerazione del recente processo di unificazione monetaria ed economica dei principali paesi europei e della progressiva
convergenza dei mercati finanziari, il modello è costruito su dimensione europea, escludendo il Regno Unito, per il quale abbiamo peraltro selezionato fattori simili ma su scala nazionale.
I fattori impiegati sono cinque di carattere macroeconomico e
2
tre che riflettono le variazioni residuali dei mercati azionari a livello
pan-europeo, settoriale e di singolo paese. La spaccatura per settore
e per paese ricalca la classificazione MSCI, considerando pertanto i
seguenti dieci settori: Consumer Discretionary, Consumer Staples,
4.1
2
Systematic
MAcroeconomic
Risk Tool (SMART)
Le variazioni cioé che non sono spiegate dalle variabili macroeconomiche.
75
Q U A D E R N I
Energy, Financials, Health Care, Industrials, Information Technology, Materials, Telecommunication Services e Utilities; e i seguenti
paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia,
Svizzera e Regno Unito.
Per quanto riguarda le variabili economiche, un’indicazione di
massima è venuta dalla fiorente letteratura relativa ai modelli multi3
fattoriali ; i fattori ritenuti teoricamente significativi sono:
• il tasso di cambio dollaro/euro (il tasso di cambio dollaro/LST nel caso del modello UK);
• il prezzo del petrolio al barile in dollari;
• le aspettative sulla crescita economica;
• i tassi d’interesse,
• l’inflazione inattesa.
Nel paragrafo seguente sarà affrontato in dettaglio il tema della
selezione dei fattori.
4.1.1 Selezione dei fattori
Inizialmente abbiamo concentrato la nostra attenzione su quegli indici e su quegli indicatori che il mondo finanziario europeo
considera come leading indicator o rilevanti nelle decisioni di asset
allocation. Successivamente abbiamo controllato che le serie storiche delle variabili selezionate fossero sufficientemente estese (circa
dieci anni di rilevazioni) e che non presentassero interruzioni, buchi o outlier.
La significatività statistica dei fattori macroeconomici è stata verificata con riferimento ad un universo di 556 titoli azionari che
componevano l’indice MSCI Europe nel settembre 2001; i titoli ExUK sono 440 mentre quelli UK sono 156. Ogni serie storica dei
prezzi tiene conto degli eventi intervenuti nella storia del titolo
(spin-off, merge...), ed è stata analizzata graficamente e statisticamente per individuare eventuali outlier.
Le serie storiche sono considerate in rendimenti mensili, come
rapporto tra valori meno uno; in alcuni casi, vedi i tassi, abbiamo
usato le differenze prime tra valori.
La selezione dei fattori è avvenuta in base a due test particolari e
in base alla verifica di assenza di correlazione tra le variabili impiegate.
Nel primo test di significatività, regrediamo ciascun titolo sul
singolo fattore macroeconomico utilizzando 60 osservazioni mensili; stimati l’alpha e il beta, determiniamo il valore previsto per il
rendimento mensile del singolo titolo, in relazione ai tre mesi che
vanno dall’ultimo mese incluso nel periodo utilizzato per la regressione ai due immediatamente successivi; si ha così una previsione
mensile in sample e due out of sample. La stima degli alpha e dei beta
viene effettuata ogni trimestre su 60 osservazioni mensili rolling generando 46 previsioni mensili per il periodo compreso tra dicembre
1997 e settembre 2001. Il metodo di stima consiste in una weighted robust regression, che impiega un algoritmo iterativo dei minimi quadrati, ripesati mediante funzione biquadratica; tale metodo differisce dai minimi quadrati ordinari dato che attribuisce minore impor4
tanza agli outlier .
3
Cfr. Nai-Fu Chen, Richard Roll and Stephen A. Ross (1986), i primi a proporre l’approccio fondato su variabili macroeconomiche.
4
76
Un algoritmo per il calcolo di tale stima è disponibile in Matlab.
Q U A D E R N I
La selezione è avvenuta considerando la percentuale di successo riscontrata nella suddetta previsione, dove il successo si realizza quando la previsione e il rendimento attuale si collocano entrambi sopra o entrambi sotto la propria mediana di periodo; questa
è calcolata sul periodo dicembre 1997- settembre 2001 con riferimento a ciascuna delle due serie storiche di rendimenti effettivi e
previsti. Il confronto con la mediana intende catturare la capacità
previsiva del singolo fattore eliminando in un certo senso l’effetto
scala. A titolo di esempio, se la mediana dei rendimenti previsti è 3%
e quella degli effettivi 5%, ottenere sullo stesso mese un rendimento
previsto pari a 1% e uno effettivo pari a 4% è considerato già un successo in quanto in entrambi i casi la probabilità sul campione di
avere rendimenti minori è minore del 50%. Il livello critico considerato nel test di selezione è circa del 50-51%. Il test ha indotto a selezionare le seguenti variabili macroeconomiche:
• il tasso di cambio USD/Euro nel modello Ex-UK (EUR) e
il tasso di cambio USD/Lst nel modello UK (LST);
• il Brent (Brent);
• l’indice IFO (West German Business Climate Index) nel
modello Ex-UK (IFO) e l’indice CBLI (Conference
Board UK Leading Economic Indicator) nel modello UK
(CBLI);
• il German Long Rate (10yr) nel modello Ex-UK (GBund)
e lo UK Long Rate (10yr) nel modello UK (UKBond), entrambi in differenze prime.
Il test ha spinto ad escludere altre variabili quali i differenziali
tra tassi tedeschi 10yr e 2yr, generici tassi d’interesse europei (peraltro ben replicati dai tassi tedeschi), i tassi USA.
Nonostante la letteratura proponga metodi banali per calcolare l’inflazione inattesa, abbiamo preferito costruire la serie storica
utilizzando gli errori di previsione derivanti da un modello di stima
dei tassi d’inflazione Emu15 e UK. Il modello utilizzato è di tipo AR
con trend e stagionalità e viene ristimato alla fine di ogni trimestre,
generando la previsione del tasso d’inflazione nei tre mesi successivi.
Di seguito riportiamo i risultati del test di significatività dei singoli fattori macroeconomici per i due modelli.
Tabella 1
Tab 1
Fattore
Percentuale di successo
Modello Ex-UK
Percentuale di successo
Modello UK
EUR
52%
-
LST
-
52%
Brent
51%
53%
IFO
53%
-
CBLI
-
53%
GBund
52%
-
UKBond
-
53%
UNCPI
54%
-
UKUNCPI
-
52%
Il secondo test di significatività, più classico rispetto al precedente, è il cosiddetto t-test, dove andiamo a verificare che la statistica
t presenti un valore assoluto uguale o superiore a due, in altri ter77
Q U A D E R N I
mini che la sensitivity, o beta, del singolo titolo a quel determinato
fattore risulti statisticamente diverso da zero.
Di seguito riportiamo la distribuzione dei t-stat per ciascun fattore; la percentuale indica il numero di titoli sull’universo stimato
che supera il t-test. Le prime due colonne di risultati si riferiscono
alle percentuali medie sul periodo (da dicembre 1997 a settembre
2001, 46 mesi), mentre le seconde due colonne si riferiscono all’ultima data del test (settembre 2001).
Tabella 2
Tab 2
Fattore
% T-TEST
Modello Ex-UK
% T-TEST
Modello UK
% T-TEST (ultima)
Modello Ex-UK
% T-TEST (ultima)
Modello UK
EUR
18,2%
-
17,9%
-
LST
-
15,3%
-
9,4%
Brent
12,0%
11,7%
8,4%
8,4%
IFO
8,8%
-
38,8%
-
CBLI
-
17,2%
-
19,6%
GBund
14,1%
-
9,1%
-
UKBond
-
17,0%
-
15,0%
UNCPI
4,5%
-
4,0%
-
UKUNCPI
-
3,4%
-
3,74%
La teoria dei modelli APT richiede altresì che i fattori utilizzati
non siano tra loro correlati; in tale maniera si escludono problemi di
multicollinearità nella stima congiunta del modello. Nella tabella
successiva, calcoliamo la matrice dei coefficienti di correlazione tra
le serie storiche. Nel trattare le serie storiche di variabili macroeconomiche è molto probabile avere a che fare con correlazioni; i dati
riportati evidenziano dei livelli di correlazione comunque mai superiore a 0,30.
Tabella 3
Tab 3
Modello Ex-UK
Tabella 4
EUR
1.00
Brent
0.05
1.00
IFO
0.01
0.08
1.00
GBund
0.08
0.10
0.13
1.00
UNCPI
-0.01
0.28
-0.17
0.15
1.00
Tab 4
Modello UK
LST
4.1.2 Stima del modello
78
1.00
Brent
0.03
1.00
CBLI
0.13
-0.01
1.00
UKBond
-0.18
0.11
-0.13
1.00
UKUNCPI
-0.12
0.13
-0.22
-0.04
1.00
La stima dei beta dei due modelli viene effettuata regredendo
la serie dei rendimenti di ciascun titolo sui cinque fattori macroeconomici e sui tre/due fattori di mercato. Il fattore di mercato pan-eu-
Q U A D E R N I
ropeo è determinato come residuo della regressione della variabile
di mercato europeo sulle variabili economiche; gli indici di mercato settoriali e di paese vengono a loro volta regrediti sui fattori
macroeconomici e sul fattore di mercato pan-europeo. In questo
modo le variabili di mercato vengono depurate dagli effetti economici e finanziari sistematici, escludendo altresì problemi di multicollinearità tra fattori.
Il metodo di stima consiste nell’anzidetta weighted robust regression. I modelli vengono ristimati ogni trimestre utilizzando 120 dati
(dieci anni di storia) con un limite minimo di 30 osservazioni (due
anni e mezzo). Le sensitivity dei titoli con storia insufficiente vengono determinate utilizzando la media semplice dei beta dei titoli
appartenenti allo stesso settore e allo stesso paese; qualora nemmeno questa fosse disponibile, consideriamo la media dei beta a livello settoriale (con riferimento ai beta dei cinque fattori macroeconomici, dei fattori di mercato pan-europeo e settoriale) e la media
dei beta a livello di Paese (con riferimento al beta del fattore di mercato a livello di Paese).
Abbiamo verificato che nella stima congiunta del modello i singoli fattori precedentemente selezionati non perdano significatività
statistica a favore di altri; il test utilizzato è come al solito il t-test con
valore critico posto a 2. Nella tabella successiva inseriamo la distribuzione dei t-stat per ogni fattore; nella prime due colonne sono indicate le percentuali medie di periodo (da dicembre 1998 a settembre
2001, 34 stime) di titoli sull’universo stimato che presentano relativamente a quel fattore un beta statisticamente significativo, mentre
nelle seconde due colonne sono indicate le percentuali relative all’ultima stima condotta nella fase di test (settembre 2001).
Significatività dei fattori
Tab 5
Tabella 5
Fattore
% T-TEST
Modello Ex-UK
% T-TEST
Modello UK
% T-TEST (ultima)
Modello Ex-UK
% T-TEST (ultima)
Modello UK
Alpha
45,6%
14,9%
34,2%
11,2%
EUR
23,4%
-
23,5%
-
LST
-
11,7%
-
14,0%
Brent
27,5%
12,5%
18,8%
11,2%
IFO
21,0%
-
30,2%
-
CBLI
-
33,2%
-
40,2%
GBund
49,4%
-
35,7%
-
UKBond
-
36,3%
-
30,8%
UNCPI
20,6%
-
11,4%
-
UKUNCPI
-
5,3%
-
8,4%
PanEuro*
94,8%
91,3%
95,6%
92,6%
Settore
56,5%
79,6
61,0%
Paese
62,5%
59,2%
* Nel Modello UK coincide con il fattore country United Kingdom
81,3%
-
Il confronto dei diversi test (primo e secondo test di significatività sui singoli fattori, test congiunto di significatività, correlazione tra i fattori), tenuto conto dell’evoluzione nel tempo della significatività delle stime, induce a ritenere che i fattori selezionati
79
Q U A D E R N I
siano in grado di spiegare buona parte del comportamento sistematico dell’universo di titoli azionari di riferimento. Tale considerazione è anche giustificata dalle seguenti percentuali di titoli sul2
l’universo stimato che presentano un R aggiustato uguale o superiore al 0,50; come al solito, le prime due colonne sono medie di
periodo, mentre le ultime due sono le statistiche relative alla stima
di settembre 2001.
Tabella 6
Tab 6
2
2
2
2
% media R
Modello Ex-UK
% media R
Modello UK
% R (ultimo)
Modello Ex-UK
% R (ultimo)
Modello UK
34,7%
19,52%
31,6%
23,4%
Nei grafici seguenti, evidenziamo alcuni risultati e statistiche
della stima del modello effettuata nel giugno di quest’anno.
Il numero di titoli appartenenti all’universo è stato allargato a
707 per motivi di analisi di portafoglio; la stima è condotta su 678 ti2
toli e la percentuale di azioni con R aggiustato uguale o superiore
a 0,50 è pari al 20,21%.
Nei due grafici seguenti mostriamo come l’universo dei titoli
(conprendente quindi sia l’universo Ex-UK sia quello UK) si distri2
buisca per classi di R ed evidenziamo la percentuale di titoli che presentano per ogni fattore un beta statisticamente significativo; da no2
tare che circa l’80% dei titoli presenta un R aggiustato superiore
2
allo 0,30 e che la percentuale di titoli con R maggiore di 0.50 si alza
significativamente al crescere della capitalizzazione.
Figura 1
Distribuzione degli R-quadro
Percentuale di società
25,00%
20,00%
15,00%
10,00%
5,00%
0,00%
0,00
0,10
0,20
0,30
0,40
0,50
0,60
0,70
0,80
0,90
1,00
R-quadro aggiustato
Fattori Macroeconomici - Percentuale di tstat >+- 2
Fattori macro-economici
Figura 2
UNCPI
UKUNCPI
UKBOND
LST
IFO
GBUND
EUR
CBLI
Brent
0%
5%
10%
15%
20%
% campionaria significativa
80
25%
30%
35%
Q U A D E R N I
Ai fini del backtest, la nostra attenzione è stata posta sulla capacità previsiva di SMART in termini di tracking error (TE). Nelle solite
ipotesi di normalità degli extra-rendimenti, data una stima ex-ante
del TE annualizzato di un portafoglio, ci attendiamo, con una probabilità di circa due terzi (68%), che l’extra-rendimento effettivo a un
anno del nostro portafoglio non superi in valore assoluto il TE; se il
TE attuale di un portafoglio è pari al 3,5%, ci aspettiamo quindi nel
prossimo anno una sovra/sotto performance rispetto al benchmark
in valore assoluto inferiore al 3,5%, con una probabilità del 68%.
Data tale considerazione, il backtest è consistito nel calcolare
i TE di portafogli simulati rispetto al benchmark MSCI Europe e
nel confrontare tali valori con l’extra-rendimento effettivo a un
anno, andando a verificare la probabilità empirica della nostra
considerazione.
Il backtest copre un periodo di tempo che va da settembre
1998 a luglio 2001; alla fine di ogni trimestre stimiamo SMART e
determiniamo i beta dei titoli del MSCI Europe. Data la composizione dell’indice, ad esempio a fine ottobre, simuliamo 2.500 portafogli composti da 25, 50, 75 e 100 titoli dell’indice, per un ammontare complessivo di 10.000 portafogli. All’interno di ciascuna
classe di portafogli, i titoli vengono estratti casualmente data la
distribuzione empirica dei loro pesi nel benchmark, in modo che
gli asset con peso più elevato abbiano una probabilità maggiore di
essere estratti. Dati i titoli, creiamo due portafogli: il primo è
equally weighted, in altri termini, ad esempio, il peso dei titoli di
un portafoglio di classe 50 è pari al 2%; il secondo portafoglio è
generato sulla base della composizione del primo. Estraiamo casualmente dal suddetto portafoglio due titoli e stabiliamo che il
peso del primo di essi deve essere incrementato di una variazione
marginale prefissata mentre il peso del secondo dev’essere diminuito per il medesimo ammontare; le estrazioni con reimbussolamento vengono ripetute un numero elevato di volte. In questo
modo generiamo un portafoglio i cui pesi sono sufficientemente
casuali, all’interno di un limite minimo e massimo (0.01% e 8%) e
ci garantiamo che la somma degli stessi ammonti sempre ad 1 ad
ogni passaggio.
Dati i 10.000 portafogli, determiniamo il TE rispetto al MSCI
Europe, sulla base dell’ultimo modello stimato; andiamo a calcolare
l’extra-rendimento effettivo a un anno dei suddetti portafogli e verifichiamo per quanti di essi si realizza l’evento che l’extra-rendimento sia in valore assoluto inferiore o uguale al TE ex-ante. Ci
aspettiamo che la percentuale empirica dei successi si attesti intorno
al 60-70%. L’analisi è condotta con cadenza trimestrale (ad ogni
nuovo modello) per un numero di dodici periodi analizzati.
Nel grafico di Figura 3 relativo al modello stimato a fine giugno
2001, evidenziamo la distribuzione delle coppie tracking error - extra-rendimento dei 10.000 portafogli generati a fine luglio 2001; i
rendimenti si riferiscono al periodo luglio 2001- luglio 2002.
Nel successivo grafico di Figura 4 riportiamo il dato di sintesi relativo alla percentuale di portafogli con un extra-rendimento realizzato compreso nei due intervalli [-TE, +TE] e [-2TE, +2TE]; la probabilità teorica che il tracking error cada nel secondo intervallo è
circa il 95%. Come anzidetto il periodo temporale va da settembre
1998 a luglio 2001.
4.1.3 Backtesting
81
Q U A D E R N I
Figura 3
25,00%
Distribuzione Alpha - 10.000 Portafogli
20,00%
Alpha ex post
15,00%
10,00%
5,00%
0,00%
-5,00%
-10,00%
-15,00%
-20,00%
-25,00%
0,00%
5,00%
10,00%
15,00%
Tracking Error ex Ante
Figura 4
Percentuale di portafogli con excess return
realizzato in [-TE,+TE] e in [-2 TE, +2 TE]
100,00%
90,00%
80,00%
70,00%
60,00%
50,00%
40,00%
30,00%
20,00%
10,00%
0,00%
Oct
Jan
Apr
Jul
Oct
Jan
Apr
Jul
Oct
Jan
Apr
Jul
98/99 99/00 99/00 99/00 99/00 00/01 00/01 00/01 00/01 01/02 01/02 01/02
TE
2 * TE
Le percentuali più basse si presentano a cavallo del periodo che
abbraccia il 1999 e i primi mesi del 2000, in cui abbiamo assistito a un
forte incremento dei mercati azionari e altresì ad un innalzamento
nella volatilità dei rendimenti. Le stime successive del modello
hanno teso ad incorporare questa “novità” nel comportamento dei
mercati, producendo dei risultati migliori in termini di capacità previsiva di SMART.
4.1.4 I tool
Calcolo del Tracking Error
Nelle pagine successive mostriamo alcuni report relativi al calcolo del tracking error di un portafoglio rispetto al benchmark
MSCI Europe, e alla sua scomposizione nelle diverse fonti di rischio.
Il calcolo del tracking error è fatto sulla base della composizione alla data indicata del portafoglio in esame, tenuto conto dei
beta rispetto ai fattori del portafoglio e del benchmark, della volatilità idiosincratica di ciascun titolo e della matrice di varianze-covarianze dei fattori.
Tabella 7
Data Analisi
30-set-02
Fondo:xxxx
Benchmark: MSCI Europe
Factor Risk
8,5016
Stock Specific Risk
5,8308
TOTAL RISK
14,3324
TOTAL TRACKING ERROR
3,7858%
82
Assets: 58
551
Q U A D E R N I
Nella tabella precedente, il Total Tracking Error è dato dalla radice quadrata del Total Risk, che rappresenta il rischio o la varianza
del portafoglio rispetto al benchmark, generata dalla scelta dei sovra/sottopesi sui singoli titoli. La varianza è spaccata in Factor Risk e
Stock Specific Risk, dove il primo rappresenta la parte di rischio spiegata dai fattori del modello (detto anche rischio sistematico), mentre il secondo costituisce il rischio legato ai singoli asset (detto anche
rischio idiosincratico). In questo caso SMART spiega circa il 60% del
Total Risk.
Nella tabella successiva il Factor Risk è scomposto nel contributo al rischio fornito dai diversi fattori del modello. Le Exposure
rappresentano i beta del portafoglio e del benchmark rispetto ai singoli fattori, con indicazione delle esposizioni nette; nell’ultima colonna è riportata la percentuale del rischio sistematico spiegata da
ciascun fattore.
Nel grafico di Figura 5 invece rappresentiamo il contributo al
rischio sistematico per classi di fattori.
ASSET RISK DECOMPOSITION
Data:30-set-02
FactorName
Tabella 8
Fondo: xxxx
Benchmark: MSCI Europe
Portfolio Benchmark
Net
Exposure Exposure Exposure
Factor Risk 8,5016
Factor
Factor
Factor
Variance Contribution Contribution
Weight
Brent
-0,0049
-0,0073
0,0025 1648,2457
0,0022
0,026%
CBLI
-0,0869
-0,1426
0,0557
3,0043
0,0473
0,556%
EUR
-0,3443
-0,3144 -0,0299
70,8261
-0,2038
-2,397%
GBUND
-2,6614
-2,2860 -0,3754
0,5407
-0,0118
-0,139%
IFO
0,5294
0,4239
0,1055
25,3916
0,2134
2,510%
LST
-0,6670
-1,0040
0,3370
49,8981
5,1422
60,486%
UKBOND
0,5740
0,7396 -0,1656
0,7353
-0,0188
-0,221%
UKUNCPI
-0,4533
-0,0339 -0,4195
0,5038
0,0075
0,089%
UNCPI
1,3514
0,9654
0,3860
0,2412
-0,0206
-0,242%
Ex-United Kingdom 0,6438
0,5571
0,0867
244,0476
1,2454
14,649%
United Kingdom
0,2924
0,3500 -0,0577
142,6317
-0,1945
-2,287%
Austria
0,0000
0,0012 -0,0012
215,7029
0,0003
0,004%
Belgium
0,0063
0,0095 -0,0032
114,9395
0,0012
0,014%
Denmark
0,0000
0,0089 -0,0089
141,9582
0,0113
0,132%
Finland
0,0367
0,0239
0,0128
812,3819
0,1333
1,568%
France
0,1556
0,0957
0,0599
49,0641
0,1763
2,073%
Germany
0,0216
0,0638 -0,0422
66,2556
0,1178
1,385%
Figura 5
Factor
Contributo al rischio sistematico per classi
di fattori
Sector UK
Sector Ex
Country
PanEuroMarket
Macro
0%
5%
10% 15% 20% 25% 30% 35% 40% 45% 50% 55% 60% 65%
83
Q U A D E R N I
Prezzi impliciti
La stima dei beta dei titoli fornisce la possibilità di conoscere
quali rendimenti dei fattori il mercato stia scontando in un determinato periodo; in altri termini i rendimenti dei titoli contengono
un’informazione implicita, in relazione ai fattori del nostro modello. Tale informazione può essere estrapolata effettuando una regressione di tipo cross-section, dati i rendimenti dei titoli e dati i
beta.
All’inizio di ogni settimana calcoliamo i rendimenti della settimana trascorsa dei T titoli del nostro universo di riferimento; dati i
beta di tali titoli, determiniamo i rendimenti settimanali impliciti dei
fattori, in base alla seguente equazione:
Rt = at + FtB + et dove:
t
R è il vettore dei rendimenti settimanali dei T asset al tempo t;
Ft è il vettore dei rendimenti impliciti dei K fattori al tempo t;
B è la matrice dei beta dei T titoli rispetto ai K fattori.
La variazione su un determinato periodo del valore implicito
dei fattori può essere raffrontata con la variazione effettiva sullo
stesso arco temporale: disallineamenti rilevanti rappresentano un
segnale di mispricing e spesso preludono ad un movimento correttivo. Il grafico successivo illustra l’andamento della differenza tra le
variazioni mensili rolling tra valore di mercato e valore implicito del
tasso Bund a 10 anni (scala di sinistra) e il livello del tasso stesso
(scala di destra): si osserva, ad esempio, che ai minimi relativi della
differenza rilevati a novembre ‘99, maggio 2000 e novembre 2001,
ha fatto seguito un rialzo consistente del tasso considerato.
Figura 6
0,60%
Differenza tra valore di mercato e valore implicito come leading indicator
0,40%
5,4
0,20%
5,2
5,6
5
0,00%
4,8
-0,20%
4,6
Differenza
4.2
84
Strategy Tracking
Error (STE)
28 giu - 02
19 apr - 02
8 feb - 02
30 nov - 01
21 set - 01
13 lug - 01
4 mag - 01
23 feb - 01
15 dic - 00
8 ott - 00
28 lug - 00
19 mag - 00
10 mar - 00
4,2
31 dic - 99
-0,60%
22 ott - 99
4,4
13 ago - 99
-0,40%
GBUND
Lo STE è un indicatore di rischio concepito per quantificare la
perdita potenziale insita nelle scelte attive di portafoglio in termini
di classi di attività (comparto azionario, obbligazionario e monetario), aree geografiche e valutarie, settori merceologici e settori di
curva, merito di credito.
L’ambito di applicazione è circoscritto ai portafogli di fondi
(fondi di fondi e gestioni patrimoniali in fondi): è infatti estremamente importante per questa categoria di prodotti riuscire a isolare
il contributo al rischio dovuto alla strategia da quello imputabile alla
selezione dei titoli, in quanto la selezione dei titoli non è sotto il controllo diretto del gestore di portafogli di fondi, mentre la strategia
può essere calibrata in modo anche articolato dal gestore stesso.
L’applicazione puntuale di questo strumento ai portafogli di
fondi gestiti da Eptafund è resa possibile dal fatto che tutti i fondi a
Q U A D E R N I
disposizione del gestore appartengono alla scuderia Epta e pertanto
se ne conosce giornalmente la composizione. Vale la pena precisare
che anche i fondi multi-manager gestiti da Epta Global Investments
presentano lo stesso livello di trasparenza. Non è pertanto necessario fare alcun esercizio di style analysis per l’identificazione dell’indice che meglio approssima la politica gestionale del fondo.
Per definire puntualmente cosa si intende qui per strategia, occorre prima delimitare l’universo investibile di un portafoglio di
fondi. I driver che conducono all’identificazione degli elementi che
compongono l’universo investibile sono i seguenti:
Azioni
Classe di attività Obbligazioni
Strumenti monetari
Area valutaria
Settore merceologico
Area valutaria
Merito di credito
4.2.1 Universo investibile
e strategia
Settore di curva
Area valutaria
Le aree valutarie considerate sono: Euro, Sterlina inglese,
Franco svizzero, Corona svedese (come proxy dell’area Paesi Nordici), Dollaro americano (come proxy dell’area Nord America),
Yen, Dollaro australiano, Dollaro di Hong Kong (come proxy delle
valute asiatiche), Rand sudafricano (come proxy dell’area Mercati
Emergenti ex Asia). Dato il peso contenuto che rivestono i Mercati
Emergenti all’interno delle nostre politiche di investimento, non si
è ritenuto che valesse la pena frammentare ulteriormente tale area
dal punto di vista valutario.
I settori merceologici sono i dieci settori della classificazione
MSCI: Consumer Discretionary, Consumer Staples, Energy, Financials, Healthcare, Industrials, Information Technology, Materials,
Telecommunication Services, Utilities.
Il merito di credito distingue solo tra titoli governativi e titoli
corporate investment grade, senza scendere a livello di classe di rating di questi ultimi.
I settori di curva sono tre: ST (1-3 anni), MT (3-7 anni) e LT
(più di 7 anni).
Gli indici rappresentativi degli incroci risultanti sono sottoinsiemi dei benchmark di riferimento (i benchmark cioé inclusi nei
prospetti o nei contratti) più altri indici per rappresentare segmenti
non inclusi nei benchmark. Così, per esempio, l’indice rappresentativo del “mattoncino” Obbligazionario/EMU/Governativo/ST è
l’indice JP Morgan Emu 1-3 anni (sottoinsieme del benchmark dei
prodotti analizzati), mentre l’equivalente sul segmento Corporate è
l’indice Merrill Lynch EMU Corporates 1-3 anni (indice non appartenente ai benchmark utilizzati). Un altro esempio: l’indice rappresentatitivo dell’incrocio Azionario/Dollaro/Consumer Discretionary è l’indice MSCI North America Consumer Discretionary.
L’universo investibile viene così ad essere composto da “mattoncini” rappresentati da indici di riferimento secondo i criteri sopra esposti.
Una strategia è definita attraverso i pesi attribuiti a ciascun
indice.
Le scelte attive rinvenienti da una certa strategia derivano dalla
85
Q U A D E R N I
differenza di peso sugli indici che compongono l’universo investibile; quantificare la perdita connessa a queste scelte attive è l’obiettivo dello STE.
4.2.2 Calcolo e attribuzione
dello STE
Una volta individuati gli indici, si calcola la matrice V di varianze e covarianze dei rendimenti settimanali. Se Dw è il vettore che
raccoglie le differenze di peso tra strategia e benchmark, la tracking
variance è data da:
T
tracking variance = ∆w V∆w
e il tracking error è pari a:
STE =
∆w T V∆w
Lo STE, essendo una deviazione standard, acquisisce significato come indicatore di rischio sotto l’ipotesi forte di normalità
nella distribuzione degli strategy excess return. Va però sottolineato
come questa impostazione si presti a fornire anche agevolmente una
valutazione di rischiosità sulla base della simulazione storica. È infatti sufficiente congelare i pesi della strategia e del benchmark e calcolare i percentili della distribuzione dei rendimenti in eccesso che
il portafoglio congelato avrebbe avuto in passato.
Il vantaggio del metodo parametrico rispetto alla simulazione
storica è nella possibilità del primo di fornire facilmente anche
un’attribuzione dell’indicatore di rischio sui diversi driver. Il contributo del driver i allo STE è dato da:
STEi = ∆wi ∑ Vij ∆w j
j
con Vij elemento di posto ij della matrice di varianze e covarianze.
4.2.3 Esempio di report
86
L’esempio di report accluso in Figura 7 evidenzia lo STE per sei
portafogli di fondi. Per facilitare l’interpretazione dell’attribuzione
nella riga sotto lo STE è stato evidenziato il VaR al 98%; il passaggio
da un indicatore all’altro è stato fatto sotto l’ipotesi di normalità e
media nulla degli strategy excess return. L’attribuzione è riferita poi al
VaR. Prendiamo a titolo di esempio il portafoglio FoF 6. Lo STE è
pari allo 0.99% e corrisponde (sotto le due menzionate ipotesi) ad
un VaR del 2.05%. Questo significa che la perdita massima al 98%
rinveniente dalla strategia è pari a 2.05%. L’attribuzione riportata
nelle righe sottostanti fotografa il contributo al VaR dei driver di rischio considerati.
Abbiamo così che il 2.4% deriva dalla parte azionaria nel suo
complesso, mentre le parti obbligazionaria e monetaria riducono la
perdita. Nell’ambito del comparto azionario, a livello di area geografica, il Nord America presenta poi il contributo maggiore (+1.9%),
mentre a livello di settore il maggiore contributore è il settore Industrials. Nei comparti obbligazionario e monetario, lo scenario peggiore non sconta alcun contributo dalla presenza di corporate; dalla
lettura congiunta dei dati relativi alle aree valutarie e alla curva si trae
invece che non sono le scelte di curva, ma piuttosto le valute a contribuire in misura significativa al rischio della strategia.
Q U A D E R N I
Portafoglio
STE
VaR yearly
98%
FoF 1
FoF 2
FoF 3
FoF 4
FoF 5 FoF 6
0,59% 0,39% 0,56% 0,73% 0,86% 0,99%
1,21% 0,80% 1,16% 1,51% 1,78% 2,05%
Figura 7
Esempio di report
Contributi al Var
Asset Class Azionario
Azionario
Obb + Mon
0,0%
0,1%
1,0%
1,1%
1,9% 2,4%
Obbligazionario
0,3%
0,7%
0,1%
0,1%
0,0% -0,1%
Monetario
0,9%
0,0%
0,0%
0,3% -0,2% -0,3%
Emu
0,0%
0,0%
0,0% -0,1% -0,2% -0,2%
Eur X-Emu
0,0%
0,0%
0,2%
0,1%
North America
0,0%
0,1%
0,8%
1,0%
1,6% 1,9%
Japan
0,0%
0,0%
0,1%
0,1%
0,3% 0,4%
0,0%
0,0%
0,1% 0,1%
0,3% 0,4%
Pacific X-Japan
0,0%
0,0%
Emerging Markets
0,0%
0,0% -0,1% -0,1% -0,2% -0,2%
Totale
0,0%
0,1%
CONSUMER DISCRETIONARY
0,0%
0,0% -0,1% -0,1% -0,2% -0,3%
1,0%
CONSUMER STAPLES
0,0%
0,0%
0,2%
0,2%
ENERGY
0,0%
0,0%
0,2%
0,2%
0,4% 0,5%
FINANCIALS
0,0%
0,0%
0,1%
0,0%
0,0% 0,0%
HEALTH CARE
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
INDUSTRIALS
0,0%
0,0%
0,3%
0,4%
0,7% 0,9%
INFORMATION TECHNOLOGY
0,0%
0,0%
0,2%
0,2%
0,3% 0,4%
MATERIALS
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
TELECOMUNICATION SERVICES 0,0%
0,0%
0,1%
0,1%
0,2% 0,3%
UTILITIES
0,0%
0,0%
0,1%
0,1%
0,2% 0,2%
Totale
0,0%
0,1%
1,0%
1,1%
1,9% 2,4%
Governativi
1,1%
1,0% -0,1%
Corporate
0,1% -0,3%
0,2%
1,1%
1,9% 2,4%
0,3% 0,5%
0,1% -0,3% -0,3%
0,3%
0,1% 0,0%
Totale
1,2%
0,7%
0,1%
0,4% -0,1% -0,3%
EUR
0,1%
0,6%
0,1%
0,0%
USD
0,7%
0,0%
0,0%
0,3% -0,1% -0,2%
YEN
0,4%
0,0%
0,0%
0,1%
0,0% -0,1%
GBP
0,1%
0,0%
0,1%
0,0%
0,0% 0,0%
CHF
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
Altri X-EMU
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
AUD
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
Altre X-PAC
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
EM Mkts
0,0%
0,0%
0,0%
0,0%
0,0% 0,0%
Altre
-0,1%
0,0%
0,0% -0,1%
0,0% 0,0%
Totale
1,2%
0,7%
0,1%
0,4% -0,1% -0,3%
ST
0,2%
0,1%
0,0%
0,0% -0,1% 0,0%
MT
0,2%
0,3%
0,1%
0,0%
0,0% 0,0%
LT
0,0%
0,2%
0,0%
0,1%
0,1% 0,0%
Monetario (Floaters e Cash)
0,9%
0,0%
0,0%
0,3% -0,2% -0,3%
Totale
1,2%
0,7%
0,1%
0,4% -0,1% -0,3%
0,0% 0,0%
L’analisi delle performance si pone come obiettivo l’attribuzione del contributo fornito da ciascuna decisione attiva del gestore
al risultato complessivo, cioè al valore aggiunto dato dalla differenza
tra la performance lorda, di commissioni e di fiscalità, del fondo e
quella dell’indice di riferimento, o benchmark.
In questo paragrafo viene presentato un modello di analisi
delle performance da utilizzare per fondi obbligazionari multicur-
4.3
Performance
Attribution for Fixed
Income Portfolios
(PAFIP)
87
Q U A D E R N I
rency, che investono sia in titoli governativi sia in titoli del mercato
corporate, seppure limitatamente al settore investment grade (rating
non inferiore alla BBB). In tale tipo di portafoglio sono a disposizione del gestore diverse leve decisionali (divise, Paesi, posizionamento sulla curva dei rendimenti, allocazione dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi, ... ), di conseguenza il processo decisionale
stesso può essere diverso a seconda dell’impostazione data dal team
di gestione, ed è importante che l’analisi delle performance rifletta
esattamente tale processo. Nella descrizione del modello si suppone
che il processo decisionale sia il seguente: in una prima fase viene determinato l’assetto valutario del fondo rispetto al benchmark, quindi
si determina l’allocazione dei titoli corporate rispetto ai governativi,
che può non rispettare le proporzioni presenti nel benchmark. All’interno dei due segmenti, corporate e governativo, viene quindi determinata l’allocazione per Paese, ed all’interno di ciascun Paese il
posizionamento sulla curva dei rendimenti. Il segmento corporate
offre inoltre altri livelli di scelta: all’interno di ciascun settore di curva
è infatti possibile decidere l’allocazione per rating e per settore; anche in questo caso si suppone che le scelte di settore avvengano all’interno di ciascuna classe di rating, seguendo un’impostazione gerarchica su più livelli che caratterizza l’intero processo decisionale.
Nello sviluppo di un modello di analisi delle performance di
questo tipo, è cruciale l’interazione tra la funzione di risk management e l’area di gestione obbligazionaria: i risultati dell’analisi delle
performance vengono presentati alla direzione per consentirle di
valutare l’attività di gestione, ma vengono altresì utilizzati dagli stessi
gestori, quale efficace strumento per verificare se le differenti scelte
operate nelle diverse aree hanno prodotto un contributo positivo o
negativo. Un processo decisionale diverso da quello descritto comporterà la necessità di adeguare il modello di analisi delle performance, mantenendo però lo stesso approccio basato su una gerarchia su più livelli.
L’approccio utilizzato suddivide il valore aggiunto in una componente di currency selection, una di security selection ed una di market timing, e rappresenta un’estensione rispetto a quello tradizionalmente utilizzato nei modelli di analisi delle performance dei portafogli azionari. Nelle sezioni seguenti verranno trattate in modo analitico le componenti sopra indicate. Nell’Appendice sono riportati
alcuni esempi di report prodotti dal modello.
4.3.1 Currency Selection
La currency selection misura l’impatto delle differenze nell’esposizione valutaria tra il fondo ed il benchmark. Data la valuta di base
di denominazione del fondo e del benchmark, che nel caso dei fondi
comuni di investimento italiani è solitamente l’Euro, si vuole con questo effetto misurare la capacità di gestire attivamente le posizioni in valuta (dollari, yen, sterline, ...). Per ogni valuta infatti il fondo può presentare un differenziale di peso rispetto alla posizione del benchmark;
tale differenza viene moltiplicata per la differenza tra il rendimento di
quella valuta rispetto alla valuta di base, come detto l’Euro, ed il rendimento valutario complessivo del benchmark.
La currency selection viene definita come:
Currency Selection = ∑ (Wi F − Wi B ) ⋅ ( FXi − FX B )
I
i =1
88
Q U A D E R N I
dove:
• Wi F = peso degli investimenti nella divisa i nel portafoglio
I
del fondo, con ∑ Wi F = 1 ;
i =1
•
WiB= peso degli investimenti nella divisa i nel benchmark,
I
con ∑ Wi B = 1 ;
i =1
• FXi = rendimento (%) del cambio della divisa i nei confronti dell’Euro;
I
• FXB=∑ Wi B ⋅ FXi = impatto complessivo dell’effetto divisa
i =1
sul rendimento del benchmark.
Per ogni divisa il contributo fornito dalla currency selection
sarà positivo se il gestore ha sovrappesato (sottopesato) tale divisa ed
essa ha ottenuto un rendimento superiore (inferiore) rispetto al
rendimento valutario complessivo del benchmark; l’effetto currency sarà invece negativo negli altri casi.
Benchmark
Crncy Country
Weight LC Return
Tabella 9
Fund
Crncy
Weight LC Return
Crncy
Delta Delta Crncy DWeight
Weight
Return *DCrncy
YEN Japan 25.00% 0.241% -3.000% 16.00% 0.197% -3.000% -9.00% -3.250% 0.292%
LST UK
10.00% 0.305% 1.000%
USD US
30.00% -0.414% 3.000% 24.00% -0.261% 3.000% -6.00% 2.750% -0.165%
8.50% 0.289% 1.000% -1.50% 0.750% -0.011%
EUR Euro
35.00% 0.290% 0.000% 51.50% 0.193% 0.000% 16.50% -0.250% -0.041%
100.0% 0.068% 0.250% 100.0% 0.093% 0.250%
0.075%
Come si può notare il contributo dato dalla singola valuta alla
currency selection complessiva, pari nell’esempio sopra riportato a
0.075%, è il prodotto di due componenti: il differenziale di peso tra
fondo e benchmark, indicato come Delta Weight, ed il differenziale
tra il rendimento della singola valuta e quello valutario complessivo
del benchmark, indicato come Delta Crncy Return. Si nota quindi
come il sottopeso dello yen (-9.00%) abbia fornito un contributo positivo, in quanto lo yen ha ottenuto un rendimento inferiore rispetto a
quello complessivo del benchmark (-3.000% contro +0.250%); il sottopeso del dollaro (-6.00%) ha invece fornito un contributo negativo,
in quanto il dollaro ha ottenuto un rendimento superiore rispetto a
quello complessivo del benchmark (+3.000% contro +0.250%).
Nella tabella relativa all’esempio sono riportati anche i rendimenti in valuta locale (LC = Local Currency) relativi alle singole aree
geografiche: infatti, dopo aver calcolato il contributo dato dalla currency selection, il contributo complessivo della security selection
sarà calcolato in valuta locale.
La security selection misura la differenza tra il rendimento in
valuta locale del fondo e quello del benchmark, e lo scompone negli
effetti relativi all’allocazione, sui vari livelli decisionali presenti, e
nella scelta dei singoli titoli obbligazionari.
F
B
Security Selection = RLC
− RLC
4.3.2 Security Selection
dove:
F
• RLC
= rendimento in valuta locale del fondo;
B
• RLC
= rendimento in valuta locale del benchmark.
89
Q U A D E R N I
La security selection viene scomposta in due effetti principali:
effetto di allocazione, che a sua volta è dato dalla somma dei contributi dell’allocazione sui vari livelli decisionali disponibili, ed effetto
di scelta dei titoli. Dal punto di vista analitico è importante sottolineare come nel computo degli effetti di allocazione vengano considerati solo i rendimenti del benchmark, mentre nel calcolare
l’effetto relativo alla scelta dei titoli si considerino anche i rendimenti del fondo.
Effetto di allocazione
L’effetto di allocazione misura l’impatto delle decisioni di pesare i diversi segmenti del mercato di investimento in modo differente rispetto alle posizioni del benchmark. Come già indicato, i segmenti di mercato fanno riferimento alle diverse aree di scelta attiva a
disposizione del gestore; l’effetto di allocazione è calcolato su differenti livelli, che rappresentano una sorta di gerarchia che riflette il
processo decisionale seguito dal team di gestione. Supponiamo di
avere le seguenti scelte attive a disposizione: derivati, allocazione dei
titoli corporate rispetto ai titoli governativi, Paese, posizionamento
sulla curva dei rendimenti, rating, settore dei titoli corporate, industria dei titoli del settore industriale. Queste rappresentano i livelli di
decisioni attive sui quali il gestore può agire per aggiungere valore al
fondo. Dopo aver valutato l’effetto di allocazione di una componente, per calcolare quello della componente immediatamente successiva nella scala gerarchica è necessario effettuare un ribilanciamento dei pesi per neutralizzare l’effetto della decisione al livello
precedente.
Effetto di allocazione
dei derivati
Misura la capacità del gestore di utilizzare strumenti derivati,
siano essi opzioni o futures, per aumentare o ridurre l’esposizione
del fondo rispetto al mercato. Viene calcolato come differenza tra il
peso del portafoglio ed il peso del benchmark, che sarà sempre pari
a 100%, moltiplicato per il rendimento in valuta locale del benchmark.
B
Allocazione derivati = (W F − W B ) ⋅ RLC
dove:
• WF = peso totale degli investimenti nel fondo, comprensivo dell’effetto dei derivati;
• W B = peso totale degli investimenti nel benchmark
(= 100% per definizione).
Il contributo di tale effetto sarà positivo se il gestore ha aumentato (ridotto) l’esposizione al mercato mediante strumenti derivati,
in presenza di un rendimento positivo (negativo) del mercato stesso
in valuta locale.
Tabella 10
Effetto di allocazione dei titoli
corporate rispetto ai titoli
governativi
90
Benchmark
Weight LC Return
Weight
Fund
LC Return
Delta Weight
Derivatives Effect
100.00% 0.241%
105.00%
0.197%
5.00%
0.012%
Misura l’impatto delle differenze nell’esposizione sul mercato
obbligazionario corporate rispetto a quello governativo tra il fondo
ed il benchmark. Un portafoglio obbligazionario può infatti essere
scomposto a livello di classi di asset in titoli corporate e titoli obbligazionari: un titolo corporate presenta normalmente un rendimento
superiore rispetto ad un titolo governativo avente la stessa scadenza;
Q U A D E R N I
questo maggiore rendimento costituisce un premio per il rischio legato all’emittente del titolo obbligazionario. L’andamento in termini di prezzo dei titoli corporate può risultare tuttavia più variabile
rispetto a quello dei titoli governativi, risentendo spesso degli effetti
derivanti dall’andamento del mercato azionario in cui sono quotati
gli emittenti. Il gestore può decidere di allocare una quota di portafoglio ai titoli corporate superiore o inferiore rispetto alla posizione
del benchmark: il risultato di tale decisione dipenderà dall’andamento del benchmark corporate rispetto a quello governativo.
(
)(
)
F
B
B
F
B
B
Allocazione Corp vs Govt = WCorp
− WCorp
⋅ RCorp
− R B + (WGovt
− WGovt
− RB )
) ⋅ ( RGovt
dove:
• W FCorp e W FGovt sono rispettivamento il peso dei titoli corporate e governativi sul fondo;
• W BCorp e W BGovt sono rispettivamento il peso dei titoli corporate e governativi sul benchmark;
• RBCorp è il rendimento dei titoli corporate del benchmark;
• RBGovt è il rendimento dei titoli governativi del benchmark;
• RB è il rendimento complessivo del benchmark.
Tutti i rendimenti sono in valuta locale, tuttavia da questo momento ne viene omessa l’indicazione nelle formule per non appesantire la notazione. Per quanto riguarda i pesi delle componenti
nel portafoglio, questi sono ribilanciati al 100% per neutralizzare
l’effetto dei derivati, il cui contributo viene già misurato dall’allocazione in derivati.
Il contributo dell’effetto di allocazione dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi sarà positivo se il gestore ha sovrappesato (sottopesato) la componente corporate rispetto a quella governativa, ed il benchmark corporate ha ottenuto un rendimento
superiore (inferiore) rispetto al rendimento del benchmark complessivo.
Benchmark
Weight
Corporate
LC Return
Tabella 11
Fund
Weight LC Return Rebalanced
Weight
Delta Delta Bmk DWeight *
Weight
Return
DBmk
40.00%
0.153%
55.00%
0.150%
52.38% 12.38% -0.088%
-0.011%
Governativi 60.00%
0.300%
50.00%
0.229%
47.62% -12.38%
-0.007%
100.00%
0.241% 105.00%
0.197% 100.00%
0.059%
-0.018%
Come si può notare nell’esempio sopra riportato, il contributo
derivante dal sovrappeso dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi è stato negativo: ciò è dovuto al fatto che il segmento corporate
è stato sovrappesato rispetto a quello governativo (+12.38%), ed il
rendimento del segmento corporate del benchmark è risultato inferiore rispetto a quello del benchmark complessivo (0.153% vs
0.241%).
Misura l’impatto delle differenze nell’esposizione sui singoli
mercati obbligazionari geografici tra il fondo ed il benchmark. In
ognuno dei due segmenti presenti, corporate e governativi, il gestore può infatti decidere di sovra o sottopesare un Paese rispetto ad
un altro; il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento dei
singoli mercati obbligazionari rispetto al rendimento del benchmark complessivo, sia esso corporate o governativo.
Effetto di allocazione
per Paese
91
Q U A D E R N I
Allocazione Paese =
 I
 I
F
B
B
B
F 
F
B
B
B
F 
=  ∑ (WGovt
, i − WGovt , i ) ⋅ ( RGovt , i − RGovt ) ⋅ WGovt  +  ∑ WCorp , i − WCorp , i ⋅ RCorp , i − RCorp ⋅ WCorp 
 i =1
  i =1

(
)(
)
dove:
• W FGovt,i è il peso del Paese i nel segmento governativo del
I
F
fondo, con ∑ WGovt
;
,i = 1
i =1
•
W FCorp,i è
•
W BGovt,i è il peso del Paese i nel segmento governativo del
il peso del Paese i nel segmento corporate del
I
F
fondo, con ∑ WCorp
;
,i = 1
i =1
I
B
benchmark, con ∑ WGovt
, i = 1;
i =1
• W BCorp,i è il peso del Paese i nel segmento corporate del
I
B
benchmark, con ∑ WCorp
,i = 1 ;
i =1
•
RBGovt,i è il rendimento, in valuta del locale, del Paese i del
segmento governativo del benchmark;
• RBCorp,i è il rendimento, in valuta del locale, del Paese i del
segmento corporate del benchmark.
Come si può notare dalle formule sopra indicate, il peso del
segmento governativo viene ribilanciato a 100%, ed analogamente
viene fatto per il segmento corporate. Tale operazione è necessaria
per neutralizzare gli effetti dei derivati e dell’allocazione dei titoli
corporate rispetto ai governativi, già misurati in precedenza.
Tabella 12
Benchmark
Fund
Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return
Weight
Weight
Delta
Weight
Delta Country
Return Allocation
Govt EMU 15.00% 25.00% 0.250% 25.00% 50.00% 0.175% 25.00% -0.050% -0.0062%
Govt Japan 20.00% 33.33% 0.200%
Govt US
Govt UK
5.00% 10.00% 0.185% -23.33% -0.100% 0.0117%
20.00% 33.33% 0.450% 15.00% 30.00% 0.350%
5.00%
8.33% 0.250%
-3.33% 0.150% -0.0025%
5.00% 10.00% 0.180%
1.67% -0.050% -0.0004%
60.00% 100.0% 0.300% 50.00% 100.0% 0.229%
0.0025%
Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare l’area
EMU (50% vs 25% sui pesi ribilanciati) contribuisce negativamente
al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto il segmento governativo EMU ha ottenuto un rendimento inferiore rispetto al segmento governativo nel suo complesso (0.250% vs
0.300%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del peso del segmento governativo sul fondo:
Govt EMU Country Allocation=(50.00%-25.00%)*(0.250%-0.300%)*50.00%=-0.0062%
Al contrario, la scelta di sottopesare il Giappone (10% vs
33.33%) contribuisce positivamente, in quanto il segmento governativo del Giappone ha ottenuto un rendimento inferiore rispetto
al segmento governativo nel suo complesso (0.200% vs 0.300%).
Govt Japan Country Allocation=(10.00%-33.33%)*(0.200%- 0.300%)*50.00%= +0.0117%
La somma dei contributi dei singoli Paesi fornisce l’effetto di allocazione per Paese relativo al segmento governativo (0.0025%), cui
andrà aggiunto il contributo dei singoli Paesi del segmento corporate che sarà calcolato in modo analogo.
92
Q U A D E R N I
Misura l’impatto del differente posizionamento sulla curva
dei rendimenti, all’interno di ogni singolo Paese, del fondo rispetto al benchmark. In ciascun Paese il gestore può infatti scegliere una strategia di curva differente rispetto a quella del benchmark, sovra o sottopesando alcuni settori di curva rispetto ad altri;
il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento del singolo
settore di curva rispetto al rendimento del benchmark complessivo del paese di riferimento.
Effetto di posizionamento
sulla curva dei rendimenti
Allocation Curva =
I
J
(
)(
)
I
J
(
)(
)
F
B
B
B
F
F
B
B
B
F
= ∑ ∑ WGovt
, i , j − WGovt , i , j ⋅ RGovt , i , j − RGovt , i ⋅ WGovt , i + ∑ ∑ WCorp, i , j − WCorp, i , j ⋅ RCorp, i , j − RCorp, i ⋅ WCorp, i
i =1 j =1
i =1 j =1
dove:
• W FGovt,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ
F
mento governativo del fondo, con ∑ WGovt
,i, j = 1 ;
j =1
•
W FCorp,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ
F
mento corporate del fondo, con ∑ WCorp
,i, j = 1 ;
j =1
• W BGovt,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ
B
mento governativo del benchmark, con ∑ WGovt
,i, j = 1 ;
j =1
•
W BCorp,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ
B
mento corporate del benchmark, con ∑ WCorp
,i, j = 1 ;
j =1
RBGovt,i,j
è il rendimento del settore di curva j del paese i
del segmento governativo del benchmark;
• RBCorp,i,j è il rendimento del settore di curva j del paese i
del segmento corporate del benchmark.
Anche in questo caso, come già fatto in precedenza nella misurazione del contributo dato dall’allocazione per Paese, il peso dei
singoli Paesi all’interno dei due segmenti, corporate e governativo,
viene ribilanciato a 100%, in linea con l’impostazione gerarchica su
più livelli del modello.
•
Benchmark
Tabella 13
Fund
Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return
Weight
Weight
Delta
Weight
Delta TimetoMty
Return Allocation
Govt EMU 1-3 yrs 2.00%
13.33% 0.150%
2.50%
10.00% 0.100%
-3.33% -0.100% 0.0008%
Govt EMU 3-5 yrs 2.00%
13.33% 0.175%
2.50%
10.00% 0.150%
-3.33% -0.075% 0.0006%
Govt EMU 5-7 yrs 3.00%
20.00% 0.220%
5.00%
20.00% 0.170%
0.00% -0.030% 0.0000%
Govt EMU7-10 yrs 4.00%
26.67% 0.270%
5.00%
20.00% 0.190%
-6.67% 0.020% -0.0003%
Govt EMU 10+ yrs 4.00%
26.67% 0.340% 10.00%
40.00% 0.195% 13.33% 0.090% 0.0030%
15.00% 100.00% 0.250% 25.00% 100.00% 0.175%
0.0041%
Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare il settore
di curva superiore ai 10 anni (40% vs 26.67% sui pesi ribilanciati)
contribuisce positivamente al valore aggiunto del fondo rispetto al
benchmark, in quanto il settore di curva sopra i 10 anni ha ottenuto
un rendimento superiore rispetto al rendimento dell’area EMU governativa complessiva (0.340% vs 0.250%). L’effetto complessivo
tiene inoltre conto del peso dell’area EMU governativa sul fondo:
Govt EMU 10+ yrs Allocation=(40.00%-26.67%)*(0.340%-0.250%)* 25.00%=0.0030%
Qualora il peso del settore di curva sul paese sia esattamente
uguale a quello del benchmark, il contributo all’effetto complessivo
93
Q U A D E R N I
generato dal posizionamento di curva sarà naturalmente nullo,
come avviene per il settore da 5 a 7 anni nell’esempio.
La somma dei contributi dei singoli settori di curva fornisce
l’effetto di posizionamento sulla curva relativo all’area EMU del segmento governativo (0.0041%), cui andrà aggiunto il contributo degli altri Paesi del segmento governativo e di tutti quelli del segmento
corporate, che saranno calcolati in modo analogo.
Per quanto riguarda la scelta dei settori di curva (1-3, 3-5, 5-7, 710, 10+ yrs), quella indicata rappresenta la scomposizione normalmente utilizzata dai principali contributori di indici obbligazionari,
quali JP Morgan, Merrill Lynch, …
È comunque possibile effettuare un altro tipo di scomposizione
della curva dei rendimenti, aumentando o diminuendo il livello di
dettaglio rispetto all’esempio presentato.
Effetto di allocazione per rating
Misura l’impatto della differente scelta delle classi dei rating
del fondo rispetto al benchmark, all’interno di ciascun settore di
curva di ciascun paese. Tale effetto è valido solo per i titoli corporate:
per i titoli governativi avendo già misurato l’effetto Paese, non si può
avere un effetto rating in quanto per definizione tutte le emissioni
obbligazionarie governative di uno stesso paese presentano lo stesso
rating. Nel segmento corporate invece all’interno di uno stesso
Paese possono essere presenti società emittenti con rating differenti.
In ciascun settore di curva, il gestore può quindi scegliere di sovra o
sottopesare alcuni rating rispetto ad altri; il risultato di tali decisioni
dipenderà dall’andamento del singolo rating rispetto al rendimento
complessivo del settore di curva di riferimento.
I
J
K
(
)(
)
F
F
B
B
F
Allocazione Rating = ∑ ∑ ∑ WCorp
, i , j , k − WCorp , i , j , k ⋅ RCorp , i , j , k − RCorp , i , j ⋅ WCorp , i , j
i =1 j =1 k =1
dove:
• WFCorp,i,j,k è il peso del rating k del settore curva j del Paese
K
F
i dei corporate del fondo, con ∑ WCorp
,i, j , k = 1 ;
k =1
•
WBCorp,i,j,k è il peso del rating k del settore curva j del Paese
K
B
i dei corporate del benchmark, con ∑ WCorp
, i , j , k = 1;
k =1
•
RBCorp,i,j,k
è il rendimento del rating k del settore curva j
del Paese i dei corporate del benchmark.
Tabella 14
Benchmark
Corp
Fund
Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return
Weight
Weight
Delta
Weight
Delta
Rating
Return Allocation
EMU 1-3 yrs AAA 0.75%
23.08%
0.120% 0.75%
9.38% 0.100% -13.70% -0.157% 0.0017%
EMU 1-3 yrs AA
1.00%
30.77%
0.240% 1.25%
15.63% 0.260% -15.14% -0.037% 0.0004%
EMU 1-3 yrs A
1.25%
38.46%
0.360% 2.50%
31.25% 0.400%
EMU 1-3 yrs BBB 0.25%
7.69%
0.480% 3.50%
43.75% 0.550% 36.06% 0.203% 0.0059%
3.25% 100.00%
0.277% 8.00% 100.00% 0.416%
-7.21% 0.083% -0.0005%
0.0075%
Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare il rating
BBB (43.75% vs 7.69% sui pesi ribilanciati) contribuisce positivamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto
tale rating ha ottenuto un rendimento superiore rispetto a quello
del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate
(0.480% vs 0.277%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del
94
Q U A D E R N I
peso del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate sul totale del fondo:
Corp EMU 1-3 yrs BBB Allocation=(43.75%-7.69%)* (0.480%-0.277%)*8.00%= 0.0059%
Per quanto riguarda la scelta dei rating, quella indicata rappresenta una scomposizione su quattro classi di rating principali:
rispetto al maggior dettaglio presente nelle scomposizione delle
principali agenzie di rating, quali S&P e Moody, si preferisce infatti
raggruppare tra loro classi ritenute comunque omogenee (ad
esempio le classi AA1, AA2, AA3 confluiscono tutte nella classe
AA). Anche in questo caso è possibile effettuare un altro tipo di
scomposizione delle classi di rating, aumentandone eventualmente il livello di dettaglio.
Misura l’impatto della differente scelta dei settori di investimento dei titoli corporate rispetto al benchmark, all’interno di ciascuna classe di rating di ciascun settore di curva di ciascun paese. All’interno di ogni classe di rating, possono infatti essere presenti società emittenti appartenenti a settori differenti. Il gestore può
quindi scegliere di sovra o sottopesare alcuni settori rispetto ad altri;
il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento del singolo
settore rispetto al rendimento complessivo del rating di riferimento.
N
J
K
S
(
)(
Effetto di allocazione
per settore
)
F
B
B
B
F
Allocazione Settore = ∑ ∑ ∑ ∑ WCorp
, i , j , k , s − WCorp , i , j , k , s ⋅ RCorp , i , j , k , s − RCorp , i , j , k ⋅ WCorp , i , j , k
i =1 j =1 k =1 s =1
dove:
• WFCorp,i,j,k,s è il peso del settore s, del rating k, del settore di
S
F
curva j, del Paese i dei corporate del fondo, con ∑ WCorp
, i , j , k , s = 1;
s =1
•
WBCorp,i,j,k,s è il peso del settore s, del rating k, del settore di
cur va j, del Paese i dei corporate del benchmark,
S
B
con ∑ WCorp
,i, j , k , s = 1 ;
s =1
•
RBCorp,i,j,k,s è il rendimento del settore s, del rating k, del set-
tore di curva j, del Paese i dei corporate del benchmark.
Il peso di ogni classe di rating all’interno di ogni settore di curva
di ogni paese viene ribilanciato a 100%, come già abbiamo visto nella
misurazione degli altri effetti di allocazione ai punti precedenti.
Benchmark
Corp
EMU
1-3 yrs BBB Financial
Tabella 15
Fund
Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return
Delta
Weight
Weight
Weight
0.10%
32.00% 0.350% 1.00% 28.57% 0.400%
1-3 yrs BBB Utility
20.00% 0.450% 0.50% 14.29% 0.450%
0.05%
Sector
Allocation
40.00% 0.600% 2.00% 57.14% 0.650% 17.14% 0.120% 0.0007%
1-3 yrs BBB Industrial 0.08%
1-3 yrs BBB Collateral 0.02%
Delta
Return
8.00% 0.475% 0.00%
-3.43% -0.130% 0.0002%
-5.71% -0.030% 0.0001%
0.00% 0.000%
-8.00% -0.005% 0.0000%
0.25% 100.00% 0.480% 3.50% 100.00% 0.550%
0.0010%
Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare il settore
finanziario (57.14% vs 40.00% sui pesi ribilanciati) contribuisce positivamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in
quanto tale settore ha ottenuto un rendimento superiore a quello
del rating BBB del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate (0.600% vs 0.480%). L’effetto complessivo tiene
inoltre conto del peso del rating BBB del settore di curva 1-3 anni
dell’area EMU del segmento corporate sul totale del fondo:
Corp EMU 1-3 yrs BBB Financial Alloc=(57.14% -40.00%)*(0.600%-0.480%)*3.50%=0.0007%
95
Q U A D E R N I
La scelta dei settori dipende dalla classificazione dei titoli corporate che si è deciso di adottare internamente, e che deve essere naturalmente condivisa dal risk management e dal team di gestione.
Effetto di allocazione
per industria
Misura l’impatto della differente scelta dei tipi di industria del
fondo rispetto al benchmark, all’interno di ciascun settore. Tale effetto è valido solo per il settore degli industriali: questo settore si
compone infatti al suo interno di una variegata tipologia di industrie; il gestore dopo aver deciso la quota da allocare al settore industriale nel suo complesso, può al suo interno decidere una ripartizione diversa rispetto a quella del benchmark. Il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento della singola industria rispetto al
rendimento complessivo del settore degli industriali.
I
J
K
S
D
(
)(
)
F
B
B
B
F
Allocazione Industria = ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ WCorp
, i , j , k , s , d − WCorp , i , j , k , s , d ⋅ RCorp , i , j , k , s , d − RCorp , i , j , k , s ⋅ WCorp , i , j , k , s
i =1 j =1 k =1 s =1 d =1
dove:
• WFCorp,i,j,k,s,d è il peso dell’industria d, del settore s, del rating k, del settore di curva j, del Paese i dei corporate del
D
F
fondo, con ∑ WCorp
,i, j , k , s, d = 1 ;
d =1
WBCorp,i,j,k,s,d
•
è il peso dell’industria d, del settore s, del rating k, del settore di curva j, del Paese i dei corporate del
D
B
benchmark, con ∑ WCorp
, i , j , k , s , d = 1;
•
RBCorp,i,j,k,s,d
d =1
è il rendimento dell’industria d, del settore s,
del rating k, del settore di curva j, del Paese i dei corporate
del benchmark.
Tabella 16
Benchmark
Corp EMU 1-3 yrs BBB
Fund
Weight Rebalanced
LC Weight Rebalanced
LC Delta
Weight
Return
Weight
Return Weight
Delta Industry
Return Allocation
Industrial Consumer Cycl 0.031% 12.50% 0.450% 0.225% 22.50% 0.650% 10.00% 0.100% 0.0001%
Industrial Energy
0.031% 12.50% 0.550% 0.238% 23.75% 0.400% 11.25% 0.200% 0.0002%
Industrial Technology
0.031% 12.50% 0.100% 0.375% 37.50% 0.275% 25.00% -0.250%-0.0006%
Industrial Tobacco
0.031% 12.50% 0.200% 0.000%
0.00% 0.000% -12.50% -0.150% 0.0002%
Industrial Retailers
0.031% 12.50% 0.300% 0.013%
1.25% 0.216% -11.25% -0.050% 0.0001%
Industrial Communication 0.031% 12.50% 0.450% 0.025%
2.50% 0.200% -10.00% 0.100%-0.0001%
Industrial Basic Industry
0.031% 12.50% 0.150% 0.000%
0.00% 0.000% -12.50% -0.200% 0.0003%
Industrial Services
0.031% 12.50% 0.600% 0.125% 12.50% 0.383%
0.00% 0.250% 0.0000%
0.250% 100.0% 0.350% 1.000% 100.0% 0.400%
0.0001%
Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare l’industria
relativa ai tecnologici (37.50% vs 12.50% sui pesi ribilanciati) contribuisce negativamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto tale industria ha ottenuto un rendimento inferiore a
quello del settore degli industriali BBB 1-3 anni EMU (0.100% vs
0.350%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del peso del settore
degli industriali BBB 1-3 anni EMU sul totale del fondo:
Corp EMU 1-3 yrs BBB Technology Allocation=(37.50%-12.50%)*(0.100%-0.350%)*1.00%=-0.0006%
Effetto di scelta dei titoli
96
L’effetto di scelta dei titoli misura l’impatto della selezione dei
singoli titoli obbligazionari corporate e governativi all’interno delle
diverse aree di investimento disponibili. A differenza di quanto avviene nel calcolo degli effetti di allocazione, in cui si misurano le dif-
Q U A D E R N I
ferenze di peso tra fondo e benchmark per le differenze di rendimento tra i diversi comparti del benchmark, nel calcolo del contributo dato dalla selezione dei titoli è necessario comparare le differenze tra i rendimenti in valuta locale tra il fondo ed il benchmark
nelle singole aree di investimento. Tali aree sono differenti per il segmento governativo rispetto a quello corporate: nel primo caso, infatti, il livello minimo è dato dal posizionamento sul settore di curva
all’interno del Paese; per i titoli corporate, invece, è necessario considerare i singoli settori all’interno delle classi di rating dei diversi
settori di curva di ogni paese, oltre che le diverse industrie per il settore industriale. Le differenze di rendimento in valuta locale tra le
aree dei livelli più bassi così definite vanno moltiplicate per il peso
sul fondo di tali aree.
I
J
(
)
F
B
F
Scelta dei titoli governativi = ∑ ∑ RGovt
, i , j − RGovt , i , j ⋅ WGovt , i , j
i =1 j =1
I
J
K
S
(
)
F
B
F
Scelta dei titoli corporate = ∑ ∑ ∑ ∑ RCorp
, i , j , k , s − RCorp , i , j , k , s ⋅ WCorp , i , j , k , s s ≠ Industrial +
i =1 j =1 k =1 s =1
∑ ∑ ∑ ∑ ∑(R
I
J
K
S
D
F
Corp , i , j , k , s , d
i =1 j =1 k =1 s =1 d =1
)
B
F
− RCorp
, i , j , k , s , d ⋅ WCorp , i , j , k , s , d s = Industrial
Benchmark
Fund
Weight Rebalanced
LC Weight Rebalanced
LC Delta
Weight
Return
Weight
Return Return
Tabella 17
Bond
Selection
Govt EMU 1-3 yrs
2.00% 13.33% 0.150% 2.50% 10.00% 0.100% -0.050% -0.0013%
Govt EMU 3-5 yrs
2.00% 13.33% 0.175% 2.50% 10.00% 0.150% -0.025% -0.0006%
Govt EMU 5-7 yrs
3.00% 20.00% 0.220% 5.00% 20.00% 0.170% -0.050% -0.0025%
Govt EMU 7-10 yrs 4.00% 26.67% 0.270% 5.00% 20.00% 0.190% -0.080% -0.0040%
Govt EMU 10+ yrs
4.00% 26.67% 0.340% 10.00% 40.00% 0.195% -0.145% -0.0145%
15.00% 100.00% 0.250% 25.00% 100.00% 0.175%
-0.0229%
Nell’esempio sopra riportato, la selezione dei titoli nel settore
di curva superiore ai 10 anni dell’area EMU governativa è stata negativa, e tale effetto è dato dalla differenza tra i rendimenti in valuta
locale del fondo rispetto al benchmark (0.195% vs 0.340%) moltiplicata per il peso del settore di curva superiore ai 10 anni dell’area
EMU governativa sul fondo (10.00%):
Govt EMU 10+ yrs Selection = (0.195% - 0.340%) * 10.00% = -0.0145%
La somma dei contributi dei singoli settori di curva fornisce
l’effetto di selezione titoli relativo all’area EMU del segmento governativo (-0.0229%), cui andrà aggiunto il contributo degli altri Paesi
del segmento governativo e quello relativo al segmento corporate.
Il market timing misura l’impatto di tutte le operazioni effettuate dal gestore del fondo nel corso della giornata, o del periodo,
oggetto di analisi. Nella misurazione della currency selection e della
security selection si ipotizza infatti che il portafoglio investito al
tempo t rimanga tale anche al tempo t+1; le operazioni di acquisto
e/o vendita di titoli avvenute tra t e t+1, come pure l’eventuale operatività intraday su titoli e/o valute, vengono quindi misurate dalla componente di market timing. Nelle operazioni di acquisto e vendita si
confronta il prezzo al quale è stata eseguita l’operazione con il prezzo
del titolo al tempo t+1: se il gestore ha acquistato (venduto) un titolo
ad un prezzo inferiore (superiore) rispetto al prezzo di valorizzazione
4.3.3 Market timing
97
Q U A D E R N I
del titolo stesso al tempo t+1, il contributo dato dal market timing sarà
positivo; tale effetto sarà invece negativo negli altri casi.
A differenza della currency selection e della security selection,
che vengono calcolate in modo analitico, il market timing viene determinato in modo residuale:
Valore Aggiunto=Performance Lorda del Fondo-Performance del Benchmark
Market Timing=Valore Aggiunto-Currency Selection-Security Selection.
Il market timing può anche essere determinato in via analitica,
ma in tal caso è necessario utilizzare anche tutte le informazioni relative alle operazioni in titoli avvenute tra t e t+1, mentre nella determinazione in via residuale è possibile utilizzare soltanto le informazioni relative alla composizione del portafoglio del fondo alla fine
della giornata.
Data la metodologia di gestione di un fondo comune obbligazionario, in cui la componente di trading assume un peso poco rilevante, e data anche la dinamica dei prezzi del mercato obbligazionario, soprattutto quello governativo, la componente di market timing
avrà generalmente un peso ridotto nella scomposizione del valore
aggiunto.
4.3.4 La duration
nel modello di analisi
delle performance
98
Nell’analisi di un portafoglio obbligazionario un indicatore
che viene spesso utilizzato è quello relativo alla duration (Macauley)
o alla modified duration. Come si è potuto notare dalla descrizione
del modello, la duration non viene in alcun modo tenuta in considerazione in tale tipo di analisi. Infatti, le scelte relative al posizionamento sulla curva dei rendimenti sono misurate dalla componente
di allocazione relativa: vengono comparati tra loro i diversi segmenti
della curva e si valuta la capacità del gestore di investire in quelli che
rendono relativamente di più. Vi è tuttavia un effetto residuale di duration, che ricade sull’effetto dato dalla selezione dei titoli: quando
si analizza il posizionamento sul settore superiore ai 10 anni si suppone che il rendimento di tutti i titoli di tale settore sia omogeneo, a
meno di differenze specifiche legate alla peculiarità dei singoli emittenti. In realtà in quel settore di curva si trovano titoli che possono
avere scadenze, e quindi duration, differenti tra loro: si pensi al confronto di un long bond con un T-note a 10 anni. Tali effetti ricadono
quindi nella selezione dei titoli, in quanto in tal caso si confrontano i
differenziali di rendimento tra portafoglio e benchmark sul singolo
settore di curva, mettendo assieme titoli che possono avere duration
differenti, seppur trovandosi nello stesso settore di curva. Per fare
un esempio, se nel settore di curva superiore ai 10 anni del portafoglio sono presenti titoli aventi una maggiore duration rispetto all’analogo settore del benchmark, ad esempio un sovrappeso sul long
bond, ne risulterà un effetto di selezione di titoli positivo in un mercato che sale, ma tale effetto non è ponderato per il differenziale di
duration all’interno del bucket stesso.
Inserire la duration nello schema di analisi delle performance sopra delineato non risulta tuttavia immediato; piuttosto
un modo semplice per ovviare all’inconveniente sopra indicato,
consiste nell’aumentare il livello di dettaglio dei settori di curva. Se
anzichè considerare un unico settore superiore ai 10 anni, lo si suddivide in 10-15 anni, 15-20 anni, 20-25 anni, sopra i 25 anni, l’effetto della componente duration all’interno dei singoli settori
verrà notevolmente diluito.
Q U A D E R N I
Il modello di analisi delle performance descritto finora viene
elaborato su base giornaliera: per ogni giornata lavorativa si determina il valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, e si misurano i contributi forniti dalle componenti sopra indicate. La verifica
dei risultati avviene tuttavia su periodi di tempo più lunghi, quali un
mese o un anno; è quindi necessario aggregare i risultati delle singole elaborazioni giornaliere su tali orizzonti temporali.
A differenza dei tassi di rendimento, che vengono capitalizzati
nel tempo, non esiste un metodo condiviso per combinare gli effetti di
attribuzione nel tempo. Tale problema può essere meglio chiarito con
un esempio. Supponiamo che il valore aggiunto tra il rendimento di
un fondo, RtF, e quello del benchmark, RtB, su un determinato giorno
t sia scomposto in un certo numero di effetti. Considerando un periodo di più giorni, il metodo utilizzato per combinare i rendimenti è
quello di capitalizzarli tra loro. Il rendimento del fondo su T giorni è:
4.3.5 Aggregazione
temporale dei risultati
dell’analisi
delle performance
R F = (1 + R1F ) ⋅ (1 + R2F ) ⋅ L ⋅ (1 + RTF ) − 1
e quello del benchmark,
R B = (1 + R1B ) ⋅ (1 + R2B ) ⋅ L ⋅ (1 + RTB ) − 1
Se la scomposizione del valore aggiunto su un giorno è la differenza RtF- RtB, allora su un orizzonte periodale più lungo è necessario valutare la differenza RF- RB. Tuttavia, non è possibile sommare semplicemente tra loro gli effetti giornalieri, poichè la somma delle differenze di
rendimento non è uguale alla differenza tra i rendimenti composti:
R F − R B ≠ ( R1F − R1B ) + ( R2F − R2B ) + L + ( RTF − RTB )
Non è neppure possibile capitalizzare le differenze di rendimento giornaliere, in quanto il risultato non è ancora uguale alla differenza tra i rendimenti composti:
R F − R B ≠ (1 + R1F − R1B ) ⋅ (1 + R2F − R2B ) ⋅ L ⋅ (1 + RTF − RTB ) − 1
Come detto, non esiste un metodo univocamente condiviso
per aggregare le differenze nel tempo. Dato il non elevato livello in
valore assoluto dei rendimenti giornalieri di un fondo obbligazionario, come pure di un benchmark dello stessa categoria, si può affermare che il valore aggiunto di un fondo con un tracking error
non eccessivamente elevato, sia normalmente molto basso in valore assoluto, se considerato su base giornaliera. La capitalizzazione del valore aggiunto, su un periodo più lungo di tempo, genera quindi dei valori residuali relativamente bassi rispetto alla
semplice somma degli effetti in cui viene scomposto il valore aggiunto giornalmente. La soluzione che è stata scelta, quindi, consiste nell’individuare tale valore residuale e attribuirlo alle singole
componenti (currency selection, security selection, market timing) in base al peso relativo delle stesse sul valore aggiunto totale.
Tale soluzione, seppur non formalmente corretta dal punto di vista matematico, ha il pregio di risultare di facile applicabilità, oltre
a non generare particolari distorsioni, come risulta dalle verifiche
empiriche di applicazione del modello.
Il tema centrale attorno al quale è costruito il presente capitolo è
costituito dall’approccio pluralistico alla misurazione e analisi del rischio adottato da Eptafund, in contrapposizione alla scelta di avere un
5 Conclusioni
99
Q U A D E R N I
unico strumento. La stessa filosofia è alla base dei sistemi di analisi
delle performance impiegati e, sebbene non si sia voluto affrontare
estensivamente anche questo argomento, un assaggio è fornito dal
modello PAFIP presentato nel par. 4.3. La pluralità di sistemi (par. 3)
rispecchia le differenti caratteristiche dei prodotti gestiti e la convinzione che strumenti di analisi ad hoc siano capaci di catturare le dinamiche di tali prodotti più approfonditamente. Quest’ultimo aspetto
acquisisce valore giacché si ritiene che il risk management in una società di gestione del risparmio non debba essere solo una funzione di
controllo, ma anche un importante supporto alla struttura di gestione. Il gestore deve avere la possibilità di svolgere ex-ante il controllo e lo farà quanto più il sistema è condiviso. Da qui discende un altro tema affrontato (par. 2), vale a dire la preferenza accordata allo sviluppo di sistemi proprietari rispetto all’acquisto sul mercato: si arriva
alla condivisione naturalmente se lo strumento è costruito e pensato
attraverso il confronto con chi lo deve poi utilizzare. Sono state poi
presentate nel par. 4 tre soluzioni sviluppate da Eptafund: le prime
due rispondono all’esigenza di misurazione e attribuzione del rischio
per portafogli azionari e portafogli di fondi rispettivamente, la terza
consiste in un modello di scomposizione delle performance per portafogli obbligazionari. Il livello di dettaglio col quale sono state illustrate queste soluzioni intende chiarire con esempi concreti cosa si
può fare lavorando per singolo prodotto, con l’obiettivo di supportare
la tesi dell’intero capitolo.
Altri aspetti collegati all’attività di risk management nel risparmio gestito meriterebbero di essere affrontati. Penso, per fare solo
qualche esempio, ai molti e molto discussi modelli di analisi del rischio
per portafogli obbligazionari contenenti crediti, all’attività di risk budgeting, alla valutazione delle prestazioni di una struttura di risk management. L’interesse sorto intorno a quest’area e la percezione sempre
più marcata da parte dell’alta direzione che si tratti di un’area strategica, faciliterà il dibattito e quindi l’approfondimento di diversi punti
e contribuirà a far maturare il settore instradandone l’operatività su linee guide in una certa misura standardizzate. Riteniamo però che a
tendere, tanto maggiore sarà il livello di standardizzazione tanto più
forte sarà l’esigenza di andare oltre agli standard, proprio in virtù del
valore aggiunto che questa attività può dare.
Riferimenti bibliografici
100
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the Returns on Stocks and Bonds, Journal of Financial Economics 33, 3-56
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Factors in Earnings and Returns, Journal of Finance 50, 131-155
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and The Stock Market, Journal of Business, 1986, v59(3), 383-404
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Performance, Financial Analysts Journal 42-4, 39-44
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90, or 100 Percent of Performance?, Financial Analysts Journal 56-1, 26-33
Q U A D E R N I
Appendice: esempi di
report prodotti da PAFIP
Tabella 18
Valori Cumulati
Net fund return
Gross fund return
Benchmark return
0,849%
1,095%
1,531%
Difference (Gross fund - Bmk) -0,437%
Residual -0,004%
Total value added
-0,433%
Residual Security selection
-0,003%
Corporate vs Government
Effect
(b.1) -0,772%
Country Allocation
(b.2)
Govt Time-to-Maturity
Allocation
Corp / Govt Time-toMaturity Allocation
0,009%
(b.3.1) -0,111%
(b.3.2) 0,246% Time-to-Maturity
-0,115%
Currency activity
-0,001% -0,001% (a)
Corporate Rating Allocation (b.4)
-0,272%
Security selection
-0,427% -0,430% (b)
Corporate Sector Allocation (b.5)
0,117%
Market timing
-0,003% -0,003% (c)
Corporate Industry Allocation (b.6)
0,154%
Delta Currency Effect -0,002% -0,002% (d)
Country
0,009%
Corporate (All)
-0,378%
Govt Bond Picking
Corp Bond Picking
(b.7.1) 0,052% Gov Bond Picking
(b.7.2) 0,149%
0,052%
Derivatives Effect
(b.8)
-0,430% -0,435% (a)+(b)+(c)
AUS
Currency Effect
CAN
DKK
YEN
SKR
LST
-0,004%
USD
Tabella 19
EUR
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,001% 0,000% 0,000% -0,001%
(a)
Govt Country Allocation 0,000% 0,000% -0,005% 0,000% -0,005% 0,016% 0,000% 0,004%
Corp Country Allocation 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000%
0,009%
(b.2)
Govt Time-to-Maturity Allocation
under 1 year
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,006% -0,017% 0,000% -0,169%
years 1-3
0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,003% -0,008% 0,000% 0,058%
years 3-5
0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,018%
years 5-7
0,000% 0,000% 0,001% 0,000% 0,000% 0,003% 0,000% -0,001%
years 7-10
0,000% 0,000% -0,001% 0,000% 0,001% 0,004% 0,000% -0,001%
years 10+
0,000% 0,000% -0,002% 0,000% -0,002% 0,010% 0,000% -0,007%
0,000% 0,000% 0,001% 0,000% -0,004% -0,005% 0,000% -0,103% -0,110% (b.3.1)
Govt/Corp Time-to-Maturity Allocation
under 1 year
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,118%
years 1-3
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,007% 0,000% -0,026%
years 3-5
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,004% 0,000% 0,010%
years 5-7
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,005% 0,000% 0,001%
years 7-10
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,004% 0,000% 0,010%
years 10+
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,018% 0,000% 0,117%
0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,014% 0,000% 0,231% 0,244% (b.3.2)
Corporate Rating
AAA
AA
A
BBB
High Yield
Bond Picking
0,000%
-0,013%
0,029%
0,132%
0,000%
0,148%
Allocation effect
-0,077%
-0,045%
0,020%
-0,168%
0,000%
-0,270%
Security selection
-0,077%
-0,058%
0,049%
-0,037%
0,000%
-0,122%
Tabella 20
Corporate Sector
Collateral
Industrial
Financial
Utility
Bond Picking
0,010%
0,178%
-0,018%
-0,022%
0,148%
Allocation effect
0,050%
0,000%
0,016%
0,049%
0,116%
Security selection
0,061%
0,178%
-0,002%
0,028%
0,264%
Tabella 21
101
Francesco Betti
Aletti Gestielle Sgr
Gruppo Banco Popolare
di Verona e Novara
Valentina Dall’Aglio
Aletti Gestielle Sgr
Gruppo Banco Popolare
di Verona e Novara
Rischio e performance
attribution nel processo
di investimento di una Sgr
Q U A D E R N I
104
Q U A D E R N I
“As far as the laws of mathematics refer to reality, they are not certain;
and as far as they are certain, they do not refer to reality”
(Albert Einstein)
In questo capitolo presentiamo le basi teoriche per la costruzione di un modello di performance e risk attribution. Nel paragrafo 2 accenniamo alle criticità organizzative del sistema. Nel
paragrafo 3 illustriamo il modello base di performance attribution monoperiodale (3.1) e multiperiodale (3.2). Nel paragrafo 4
integriamo le analisi di performance attribution con quelle di risk
1
attribution.
1. Introduzione
Nell’implementazione di un modello di performance e risk attribution, il principale problema è rappresentato dal reperimento di
dati anagrafici e di mercato relativi ai componenti dei benchmark di
riferimento.
I benchmark hanno la natura di “portafogli effettivi” (per i
quali cioè si calcolano in maniera differenziale il rischio e la performance) ma le cui informazioni di dettaglio non sono presenti sui sistemi informativi interni all’azienda. Si rende quindi necessaria una
rilevante operazione di reperimento, organizzazione, verifica e manutenzione dei dati anagrafici, di mercato e di ogni loro modifica in
corso d’opera (corporate actions, conversioni, tassi cedolari, ecc...).
La seconda criticità riguarda l’armonizzazione delle informazioni di mercato, prima fra tutte quella riguardante i settori economici. Affinché i confronti e le successive aggregazioni di portafoglio
risultino coerenti, è necessario che ciascun titolo venga classificato
in maniera omogenea e continuativa utilizzando una stabile modalità di classificazione e recependo nel tempo le successive modificazioni (a seguito, ad esempio, di eventi societari, il core business di
un’azienda può mutare e di conseguenza anche la sua classificazione industriale).
La terza criticità riguarda infine la flessibilità dell’insieme informativo associato a ciascun titolo (azionario e/o obbligazionario).
Infatti, non solo la priorità dei fattori di investimento si modifica nel
tempo, ma spesso anche la loro stessa natura. È quindi necessario
prevedere a livello organizzativo la possibilità di inserire e/o variare
la stessa struttura delle informazioni presenti nel database (obiettivo, quest’ultimo, spesso in contraddizione con le dimensioni e la
complessità dei flussi informativi).
Nello schema che segue intendiamo sintetizzare i diversi processi organizzativi e le criticità sopra accennate:
2. Le criticità organizzative
di un modello
di performance e
risk attribution
1
Gli autori ringraziano i colleghi Andrea Grossi, Francesca Ambrosetti, Alex Poli,
Daniele Beretta e Ilaria Iodice per aver letto e criticato questo capitolo e per il supporto dato alle successive revisioni.
105
Q U A D E R N I
Figura 1
Datastream
Bloomberg
Web
Reuters
Back Office
Bench 2
Bench 3
Composite
benchmark
Riconciliazione
performance
Mapping
Riconciliazione
performance
Engine
Output
Performance Attribution
UTILIZZI
Asset class
Area geografica
Country
Currency
Industry Sector
Industry Group
Industry Subgroup
Duration band
Maturity band
Rating
...
Bench 1
ORGANIZZAZIONE
Portfolio
CALCOLO
I processi organizzativi
Risk Attribution
Abbiamo quindi una prima fase di “organizzazione” cui spetta
l’alimentazione del datawarehouse con i dati dei titoli del netted portfolio (dove con netted portfolio si intende un vettore di pesi a somma
nulla espresso come differenziali rispetto al benchmark) e delle serie storiche di mercato necessarie per le analisi di Performance e
Risk Attribution. Come già anticipato si tratta di una parte propedeutica molto delicata in cui bisogna prevedere delle batterie di test
per la verifica della correttezza delle serie storiche al fine di ottenere
analisi consistenti.
Nella fase di calcolo bisogna invece prevedere procedure flessibili per poter modificare nel tempo la gerarchia dei fattori della performance in funzione delle esigenze interne e dell’evoluzione dei
mercati e prevedere la possibilità di soluzioni metodologiche diverse
a seconda del processo d’investimento associato a ciascun portafoglio da analizzare.
Gli output di Risk e Performance Attribution rappresentano invece il dato quantitativo da utilizzare nell’ambito di un processo dinamico di asset allocation.
3. Performance
Attribution:
il modello di base
106
Con il termine “performance attribution” si intende il confronto della performance di un portafoglio rispetto a quella di un
benchmark (intese entrambe come rendimenti assoluti periodali) e
la scomposizione del delta (excess return) negli effetti di diversi fattori
dipendenti dalle decisioni degli asset manager.
I contributi teorici fondamentali sono Fama (1972) che propone una metodologia di comparazione basata sul rischio, Brinson e
Fachler (1985) il cui modello consente di scomporre la performance differenziale in diversi effetti quali la selezione dei titoli e dei
singoli settori, Ankrim (1992) che integra le conclusioni di Brinson
e Fachler con la metodologia risk-based di Fama, e infine, Allen
(1991) e Ankrim e Hensel (1994) che generalizzano i precedenti
modelli per tener conto delle fluttuazioni valutarie.
Nel prossimo paragrafo presenteremo un modello di scomposizione della performance in cui per i fattori presi in considerazione
Q U A D E R N I
(ad esempio il paese all’interno del quale il settore, e ancora al suo
interno l’industria, ecc...) si evidenzia il contributo attribuibile alle
scelte di allocazione e di selezione. In generale si danno due approcci possibili: nel primo (di tipo Top-down) il processo di investimento procede da analisi di tipo macroeconomico e consiste nel
determinare - per scelte successive - il livello di investito azionario
rispetto al benchmark, la sua successiva scomposizione settoriale,
al suo interno la scomposizione per industrie e così via. In questo
caso, ciascun livello di scelta contiene un obiettivo a sé stante, vale
a dire overperformare il benchmark in ciascuna partizione di portafoglio considerata.
Nell’approccio opposto di tipo Bottom-up, invece, la costruzione
del portafoglio avviene dal basso secondo logiche di tipo microeconomico e fondamentale (si scelgono le securities più performanti,
da ciò consegue un peso per le industrie di cui fanno parte, dei settori e - infine - del totale investito azionario). In questo caso, l’obiettivo ad ogni livello è unico, ed è overperformare il benchmark globale,
indipendentemente dal livello di scelta considerato.
Nella realtà, ovviamente, nessun processo di investimento è
puro (soltanto top-down o soltanto bottom-up): i due approcci presentati, quindi, rappresentano i mattoni di base che dovranno essere opportunamente combinati per adattarsi nella concretezza del processo di investimento di ciascuna Sgr (la combinazione dovrà corrispondere al diverso livello di rilevanza tra le scelte di tipo macro e
quelle di tipo microeconomico). È questa, in fondo, la principale
sfida procedurale di un modello di performance attribution, rispetto alla quale non si danno, purtroppo, soluzioni definitive.
Al di là del tipo di approccio prescelto, esistono in generale due
metodologie di calcolo della performance attribution in un singolo
periodo: quella aritmetica e quella geometrica. Nell’approccio aritmetico la performance relativa di ciascun periodo è definita come la
differenza prima tra la performance del fondo e quella del benchmark (PF - PB). Nell’approccio geometrico, invece, la performance
relativa è definita tramite un rapporto tra fattori di montante.
Tra le due metodologie esiste un trade-off: l’approccio aritmetico è maggiormente intuitivo ma la sua estensione a calcoli periodali più complessa; l’approccio geometrico, viceversa, è meno intuitivo ma di più facile integrazione in analisi multiperiodo.
Il problema a cui ci indirizziamo in queste pagine è come
estendere all’analisi multiperiodale l’approccio aritmetico, che si
dimostra essere - nella pratica - il più utilizzato in quanto a trasparenza e immediatezza di risultati. Rimandiamo alla letteratura esistente per gli approcci geometrici multiperiodale (ad esempio,
Menchero, 2001).
Per attribuire le performance e i rischi occorre anzitutto scomporle negli elementi di aggregazione prescelti (ad esempio il settore
economico, il paese, l’industria, le classi di rating, ecc...).
Supponiamo che a ciascun titolo presente in un portafoglio
(Tji, con i = 1, ...., n) sia associata la caratteristica j, che può assumere
valori nello spazio (j1, j2, ...., jm) (ad esempio, la caratteristica j può essere rappresentata dall’insieme dei settori economici prima incontrati: Energy, Utilities, Health Care, Industrials, ecc...).
Ciascun titolo è caratterizzato da una performance (per ora
3.1
La performance
attribution
single-period
107
Q U A D E R N I
giornaliera) Pi e da un peso Wi. Con queste informazioni possiamo
semplicemente determinare il peso e la performance di ciascuna caratteristica (il peso sarà pari alla somma dei pesi dei titoli appartenenti a quella categoria, mentre la performance sarà pari alla
somma dei prodotti peso x performance di ciascun titolo ponderato
sul peso della categoria).
Ripetendo la stessa operazione per il benchmark associato al
portafoglio, disporremo di due vettori di pari dimensione (in
quanto ogni eventuale categoria non presente nel benchmark assumerà peso nullo nel fondo e viceversa nel caso in cui sia presente nel
fondo e non nel benchmark), uno per il portafoglio e l’altro per il
benchmark del tipo:
Categoria j1:
Categoria j2:
Categoria j3:
.....
Categoria jm:
peso Wj1
peso Wj2
peso Wj3
.....
peso Wjm
performance Pj1
performance Pj2
performance Pj3
......
performance Pjm
Avendo così scomposto (riaggregando) le performance del
portafoglio e del benchmark possiamo passare all’attribuzione del
delta aggregato.
Il differenziale di performance tra il fondo e il benchmark è legato a differenze di peso (cioè di allocazione di capitale in asset appartenenti alla categoria j) oppure di performance (cioè di redditività degli asset appartenenti a quella categoria). Nel fondo, una determinata categoria j, presenta un’allocazione - un peso - pari a WF e
una performance pari a PF. Il benchmark evidenzia invece un peso
(WB) e una performance (PB). Il delta di performance che dobbiamo attribuire è:
(1)
∆P ≡ PF − PB = ∑ WFj PFj − ∑ WBj PBj
j
j
Il nostro obiettivo è quindi quello di attribuire, all’interno di
ciascun settore, il precedente delta di rendimento a due fattori:
• un fattore di allocazione (allocation), legato alla scelta di
sotto/sovrappesare il settore i rispetto all’analogo del
benchmark;
• un fattore di selezione (selection), legato alla scelta di composizione del settore (ad esempio, al modo in cui sono
stati scelti i titoli di quel comparto).
Nell’approccio aritmetico di tipo Top-down il termine allocationTD è quindi pari al prodotto tra la differenza di peso fondobenchmark del comparto j e la differenza tra la performance che il
comparto j-esimo ha avuto nel benchmark rispetto alla performance globale del benchmark. In questo modo, l’allocation misura la capacità del responsabile settoriale di sovrappesare settori
con performance superiore a quella del benchmark (overperforming) e di sottopesare settori con performance inferiore (underperforming):
allocationTD = ∑ (WFj − WBj ) ⋅ ( PBj − PB )
(2)
j
Definiamo con il termine selection il prodotto tra il peso del
fondo del comparto j e la differenza tra le performance fondobenchmark di tale comparto (cioè manteniamo costante la scelta di
108
Q U A D E R N I
allocazione e valutiamo l’effetto della decisione di composizione del
portafoglio):
(3)
selection = ∑ WFj ⋅ ( PFj − PBj )
j
Effettivamente nell’approccio top down avremo:
∆P = ∑ allocationTD
j + ∑ selection j = ∑ (WFj − WBj )( PBj − PB ) + ∑ WFj ( PFj − PBj ) =
j
j
j
j
= ∑ WFj PBj − ∑ WBj PBj − PB + PB + ∑ WFj PFj − ∑ WFi PBj = ∑ WFj PFj − ∑ WBj PBj
j
j
j
j
j
(4)
j
Passando ora all’approccio di tipo Bottom-up, dobbiamo rinunciare ad un confronto in termini relativi e assumere come obiettivo
fondamentale di ogni livello l’overperformance rispetto al benchmark
globale (non considerando più, quindi, il differenziale di performance tra la partizione del benchmark considerata e il benchmark
totale). Anche in questo approccio, il delta di performance ad un
determinato livello è espresso dall’equazione (1).
Indichiamo con il termine allocationBU il prodotto tra la differenza di peso fondo-benchmark del comparto j e la performance
che tale comparto ha evidenziato nel benchmark (cioè manteniamo
costante la scelta di composizione e valutiamo l’effetto della decisione di sovra/sotto pesare il comparto):
(5)
allocation BU = ∑ (WFj − WBj ) * PBj
j
la formula di selection è invece la medesima in entrambi gli approcci e quindi possiamo agevolmente dimostrare che:
∆P = ∑ ( allocation jBU + selection j ) = ∑ (WFj − WBj ) PBj + WFj ( PFj − PBj ) =
j
j
∑ (WFj PBj − WBj PBj + WFj PFj − WFj PBj ) = ∑ WFj PFj − ∑ WBj PBj
(6)
allocation BU = ∑ (WFj − WBj ) * PBj
(7)
j
j
j
j
Graficamente, l’allocation è pari all’area indicata in Figura 2:
Figura 2
performance P
Allocation
PB
PF
0
WF
WB
peso W
Con il termine selection indichiamo invece il seguente contributo :
(8)
selection j = WFj ⋅ ( PFj − PBj )
Graficamente, essa è pari all’area indicata in Figura 3:
109
Q U A D E R N I
Figura 3
performance P
Selection
PB
PF
0
WF
WB
peso W
Effettivamente, come illustrato nell’equazione (6) abbiamo:
∆P = ∑ ( allocation jBU + selection j )
(9)
j
Nell’equazione (6), l’effetto congiunto (differenza di peso /
differenza di performance) non può essere isolato. Tale effetto (che
graficamente è rappresentato dall’area del quadrato in alto a destra:
vedi Figura 4) è il risultato della combinazione contemporanea tra le
scelte di allocazione (ad esempio il sovrappeso di un certo settore) e
delle scelte di selezione (ad esempio l’aver costruito un settore di
portafoglio con un rendimento superiore a quello del benchmark).
L’effetto congiunto (derivante dal fatto di aver sovrappesato un settore che nel portafoglio ha poi prodotto anche un rendimento superiore) può essere isolato semplicemente calcolando:
(10)
effetto congiunto = ∑ (WFj − WBj ) ⋅ ( PFj − PBj )
j
Graficamente:
Figura 4
performance P
Interaction Effect
PB
PF
0
WF
WB
peso W
Come si evince dalle formule sino ad ora presentate, l’effetto
allocation dei singoli comparti nell’approccio bottom-up dipende dal
segno dei pesi relativi. In altre parole, un comparto sovrappesato
produrrà un “allocation” positiva anche se ha performato peggio del
benchmark, ed è per questo che il metodo può fornire informazioni
utili a comprendere e ad attribuire lo scostamento di performance
rispetto al mercato di riferimento per i fondi in cui l’attenzione è ri110
Q U A D E R N I
volta alla scelta dei singoli titoli (per cui in pratica si evidenzia l’impatto di stock selection) e non è invece idoneo per fondi in cui l’approccio di gestione è appunto di tipo top down.
In entrambi gli approcci - e nelle loro diverse combinazioni di
livello - è possibile impostare una visione “a cascata” delle scelte di asset allocation. Ad esempio, un processo di investimento potrebbe essere il seguente:
Figura 5
Delta
Performance
Asset
Allocation
Esempio di scomposizione del delta di
performance
Asset
Selection
Sector
Allocation
Sector
Selection
Industry
Allocation
Industry
Selection
Stock
Picking
Ovviamente, deve essere possibile - ad ogni stadio o per particolari prodotti - modificare il processo di analisi. Per un fondo internazionale, ad esempio, lo schema potrebbe essere:
Figura 6
Delta
Performance
Asset
Allocation
Esempio di scomposizione del delta di
performance
Asset
Selection
Geografic Area Geografic Area
Selection
Allocation
Country
Allocation
Country
Selection
Sector
Allocation
Sector
Selection
Stock
Picking
e così via.
Supponiamo ora di aver scelto per le nostre analisi una gerar111
Q U A D E R N I
chia di aggregazioni come la seguente (dall’alto al basso):
1) asset type (equity, bond, cash)
2) industry sector
3) industry group
4) single stock
Ad ogni livello, la metodologia di calcolo risulta costante. In altre parole, dovremo calcolare - per il portafoglio e per il benchmark
- il peso e la performance della categoria analizzata a partire dal peso
e dalla performance dei singoli titoli che la compongono (si ricordi
che ad ogni titolo è associato un vettore con tutte le informazioni per
la successiva aggregazione).
A puro titolo di esempio, riportiamo nella tabella che segue
un’analisi di attribuzione delle performance per i settori economici
da cui è composto un portafoglio azionario utilizzando l’approccio
bottom-up:
Tabella 1
Tab 1:
Esempio di performance attribution
nell’approccio bottom-up: settori
WF
Consumer Discretionary
PF
WB
PB Allocation Selection
Delta P
11,768% 1,776% 12,059% 1,749% -0,005% 0,003% -0,002%
Consumer Staples
9,491% 0,641%
8,790% 0,934%
0,007% -0,028% -0,021%
Energy
6,289% 2,813%
5,193% 2,799%
0,031% 0,001% 0,032%
Financials
19,635% 1,742% 18,504% 1,865%
0,021% -0,024% -0,003%
Health Care
13,328% 3,450% 12,943% 3,362%
0,013% 0,012% 0,025%
Industrials
10,167% 1,795% 10,910% 1,721% -0,013% 0,008% -0,005%
Information Technology
13,532% 1,896% 13,020% 1,839%
Materials
2,423% 1,630%
0,009% 0,008% 0,017%
2,498% 1,853% -0,001% -0,005% -0,007%
Telecommunication Services 3,774% 0,803%
3,466% 1,335%
0,004% -0,020% -0,016%
Utilities
2,615% 2,196%
0,009% -0,035% -0,026%
3,004% 1,044%
Ad esempio, il settore Financials apporta in totale un delta di
performance (Delta P) pari a -0.003%, di cui +0.021% per allocation
(il gestore ha sovrainvestito un settore con performance positiva) e 0.024% per selection (il gestore ha composto il portafoglio in modo
tale da realizzare un rendimento di 1.742% mentre l’analogo portafoglio del benchmark rende 1.865%). La stessa logica vale per l’analisi degli altri settori.
Procediamo allora nella nostra analisi spostandoci ad un livello
inferiore (industry group). Questo “spostamento verso il basso” dell’analisi ci consente di precisare il significato del termine “selection”.
Come abbiamo detto in precedenza, con il termine selection
intendiamo quella parte di delta di performance spiegata dal rendimento differenziale della porzione di portafoglio analizzata rispetto
alla omologa presente nel benchmark. Se il livello successivo di analisi fossero i singoli titoli, la selection sarebbe per definizione nulla e
lo stock picking coinciderebbe con l’indicatore di allocation.
Quando invece, come nel caso qui analizzato, il livello successivo è
una ulteriore suddivisione dei fattori di performance del portafoglio, la selection ci consente di analizzare il contributo offerto da
queste ulteriori scelte.
Per chiarire, consideriamo il caso del settore Financials. La selection del settore è pari -0,024%. Ad un livello inferiore, gli “in112
Q U A D E R N I
dustry group” che costituiscono il settore Financials sono i seguenti,
con i relativi pesi e le relative performance:
Tab 2:
Tabella 2
Esempio di performance attribution
nell’approccio bottom-up: industry group
WF
Banks
PF
7,657% 1,510%
WB
PB Allocation Selection
Delta P
6,796% 1,600%
0,014% -0,007% 0,007%
0,010% -0,012% -0,002%
Diversified Financials
7,425% 1,620%
6,847% 1,784%
Insurance
4,553% 2,331%
4,604% 2,434% -0,001% -0,005% -0,006%
Real Estate
0,000% 0,000%
0,258% 0,817% -0,002% 0,000% -0,002%
Visto in questo modo, il settore Financials ci è un po’ più
chiaro. Ora sappiamo che le scelte di allocation e selection prima viste in aggregato possono essere così analizzate: le migliori scelte in
termini di allocazione del capitale sono derivate dai sovrappesi sia
delle banche (+0.014%) che dei Diversified Financials (+0.010%),
mentre il peggior contributo in termini di selection è rappresentato
dalla composizione del sotto-portafoglio Diversified Financials (0.012%), con un rendimento finale di 1.620% contro l’1.784% del
benchmark.
Per analizzare ulteriormente questa selection dobbiamo spingerci al livello immediatamente inferiore che è questa volta rappresentato dai singoli titoli. In questo caso, quindi, la selection di 0.012% è effettivamente pari a una inefficienza nello stock picking,
cioè nella composizione del sotto-portafoglio Diversified Financials
con scelte di sovrappeso/sottopesi di alcune società rispetto ad altre.
A puro titolo di esempio, si veda nella Figura che segue la situazione
del titolo American Express Company:
Tab 3:
Tabella 3
Esempio di performance attribution
nell’approccio bottom-up: stock picking
WF
American Express Co
PF
0,000% 0,000%
WB
PB Allocation Selection
Delta P
0,506% 3,520% -0,018% 0,000% -0,018%
In questo caso, la scelta di gestione è stata di non comprare il titolo pur presente nel benchmark (cioè di sotto-investire rispetto al
benchmark). Questo ha comportato una allocazione negativa per 0.018%, qui da intendersi come stock picking. A livello di singolo titolo, la selection può essere rappresentata come differenze di rendimento giustificate da differenti fonti di valorizzazione (mispricing)
oppure da costituzione e/o alleggerimento della posizione avvenute
durante la giornata (e dunque a prezzi di carico diversi rispetto a
quelli utilizzati per la valutazione a mark-to-market del benchmark).
Il problema che dobbiamo affrontare è concatenare nel tempo
i risultati della performance attribution con approccio aritmetico.
Come detto, se nell’approccio geometrico questa operazione è
straightforward e non comporta particolari complessità, nell’approccio aritmetico (che tradizionalmente è preferito per la sua semplicità di lettura e di interpretazione) si introducono numerosi aspetti
che richiedono alcune delucidazioni. A questo problema tentiamo
di offrire alcune soluzioni facilmente praticabili.
3.2
La performance
attribution
multiperiodale
113
Q U A D E R N I
In un orizzonte multiperiodale, il rendimento del fondo e del
benchmark capitalizzati sono pari a:
N
R F = ∏ (1 + RtF ) − 1
N
R B = ∏ (1 + RtB ) − 1
e
t =1
(11)
t =1
dove RF e RB sono i rendimenti multiperiodali del fondo e del
2
benchmark ed N il numero di periodi considerati .
Mentre nel caso single-period il delta di performance è semplicemente pari alla differenza tra il rendimento del fondo e quello del
benchmark, ciò non avviene nel caso multiperiodale in cui il delta di
performance è diverso dalla somma semplice dei delta di ciascun periodo:
N
(12)
R F − R B ≠ ∑ ( RtF − RtB )
t =1
Un primo approccio consiste nel moltiplicare il fattore di destra per un termine costante a che tenga conto dei rapporti di scala
presenti nella capitalizzazione dei rendimenti:
N
R F − R B = α ⋅ ∑ ( RtF − RtB )
(13)
t =1
Il problema si sposta quindi alla determinazione di un fattore
costante a che risulti non-distorsivo (Menchero, 2000). Per fare questo esistono diverse soluzioni.
La prima è risolvere - ex-post - l’equazione precedente:
α=
RF − RB
N
∑(R
(14)
− RtB )
F
t
t =1
Questa prima soluzione è tuttavia insoddisfacente perché il fattore a non tiene conto delle effettive caratteristiche di scaling della
capitalizzazione composta. Ad esempio può accadere che il numeratore e il denominatore della precedente formula abbiano segno opposto, rendendo l’interpretazione dei risultati distorsiva: in questo
caso, infatti, potrebbe ad esempio accadere che una performance
positiva nel periodo t contribuisca negativamente alla performance
dell’intero periodo.
Una seconda soluzione consiste nel determinare il fattore di
scala a rapportando i rendimenti di ogni singolo periodo alla differenza tra le loro medie geometriche nel seguente modo:
α=


1
( RF − RB )

1
1
N
F N
B N 
1
1
(
)
(
)
+
−
+
R
R


(15)
Se i valori dei rendimenti periodali sono vicini allo zero, allora
media aritmetica e media geometrica sono simili, e così anche i loro
differenziali:
N
1+ R − 1+ R ≈
F
N
B
∑(R
F
t
− RtB )
(16)
t
N
Quindi, moltiplicando entrambi i membri per (RF-RB) si ha
che:
RF − RB ≈
1
RF − RB
N
N 1 + RF − N 1 + RB
∑(R
F
t
t
− RtB )
(17)
e dunque:
2
114
N
N
i =1
i =1
Dove RF = ∑ WFi ⋅ PFi e RB = ∑ WBi ⋅ PBi con i =1....n rappresenta la i-esima security.
Q U A D E R N I
α=
1
RF − RB
N N 1 + RF − N 1 + RB
(18)
cioè il parametro alfa che consente di garantire che:
R F − R B ≈ α ∑ ( RtF − RtB )
(19)
t
In questo modo, la condizione di positività dei parametri a è rispettata, ma permangono dei fattori residuali di distorsione. Indichiamo questi fattori con il vettore dei termini et. Il nostro problema
si risolve ora nel determinare i valori associati ai parametri et, noto il
parametro a:
N
(20)
R F − R B = ∑ (α + ε t ) ⋅ ( RtF − RtB )
t =1
Un modo per determinare i parametri et è cercare lo scalare di
valori per i quali la somma a+ et risulti il più possibile uniformemente distribuita. In termini matematici, questo significa minimizzare la somma dei quadrati dei termini residuali et sotto il vincolo
della funzione precedentemente scritta (si parla infatti anche di soluzione dell’ottimizzazione):
N
Min ∑ ε t2
N
t =1
s.t. R − R = ∑ (α + ε t ) ⋅ ( RtF − RtB )
F
B
(21)
t =1
Risolvendo il problema con il metodo di Lagrange otteniamo:
N
 F
B
F
B 
 R − R − α ⋅ ∑ ( Rj − Rj ) 
j =1
 ⋅ ( RtF − RtB )
εt = 
N


F
B
( Rj − Rj )
∑


j =1


(22)
Un approccio alternativo a quello dei parametri ottimizzati è
quello dei coefficienti logaritmici proposto da Carino (1999) in base
al quale per il periodo t si definisce un fattore kt nel seguente modo:
(1 + RtF )
= exp kt ( RtF − RtB )
(1 + RtB )
[
]
(23)
ln(1 + RtF ) − ln(1 + RtB )
( RtF − RtB )
(24)
da cui si ottiene kt:
kt =
dall’equazione (23), discende quindi:
n
n

1 + RF
(1 + RtF )
=∏
= exp ∑ Kt ( RtF − RtB )
B
B
1+ R
(
1
+
R
)
t =1
 t =1

t
(25)
da cui:
n
ln(1 + R F ) − ln(1 + R B ) = ∑ kt ( RtF − RtB )
(26)
t =1
Risolvendo otteniamo un fattore k che ci consente di concatenare i rendimenti periodali:
ln(1 + R F ) − ln(1 + R B )
(27)
k=
F
B
(R − R )
Utilizzando l’equazione (27) e l’equazione (26) possiamo facilmente ottenere:
n
k
R F − R B = ∑ t ( RtF − RtB )
(28)
t =1
k
Sostituendo e semplificando dalle espressioni di kt e k, otte115
Q U A D E R N I
niamo i seguenti coefficienti logaritmici btlog:

  ln(1 + RtF ) − ln(1 + RtB ) 
RF − RB
βtlog = 
⋅

F
B  
RtF − RtB
 ln(1 + R ) − ln(1 + R )  

(29)
I valori btlog tendono tuttavia a sovrappesare i periodi con rendimenti inferiori alla media e a sottopesare i periodi con rendimenti
superiori alla media. I coefficienti et del procedimento con ottimizzazione, invece, pesano ogni periodo imparzialmente.
4. Risk Attribution
La pura analisi di performance attribution non può essere considerata esaustiva nell’ambito di un processo di investimento in
quanto non permette di gestire l’eventuale assunzione di rischi rispetto al benchmark.
Concentrandoci sui rischi di mercato possiamo affermare che
una esauriente gestione di portafoglio richiede un’analisi di scomposizione del rischio complementare a quella della performance.
Tale analisi deve consentire di associare - per ogni livello del processo di allocazione del portafoglio - una misura di rischio/rendimento che indichi quale elemento di gestione abbia creato valore
aggiunto rispetto agli obiettivi.
Il primo esempio di integrazione tra performance e risk attribution si ha in Fama (1972). Il modello di Fama si basa sulla teoria
classica del CAPM (Capital Asset Pricing Model) e confronta la performance del fondo con quella dell’attività priva di rischio, utilizzando
però il concetto di benchmark per effettuare la scomposizione della
performance e del rischio.
Partendo dall’ipotesi che gli investitori abbiano aspettative
omogenee sulla distribuzione dei rendimenti, il rendimento del
benchmark può essere così definito:
ex-ante:
 E( Rm ) − Rrf  Cov( RB Rm )
E( R B ) = Rrf + 
 × σ (R )
m
 σ ( Rm ) 
(30)
ex-post:
 R − Rrf
R B = Rrf +  m
 σ ( Rm )
 Cov( RB Rm )
 × σ (R )
m

(31)
Il rischio del benchmark viene definito attraverso il coefficiente
b, cioè dal rapporto tra la covarianza tra i rendimenti del benchmark
(RB) e quelli del mercato (Rm), rapportata alla varianza dei rendimenti di mercato:
Cov( R B , Rm )
(32)
β=
2
σ ( Rm )
Per i portafogli gestiti, il rischio di mercato è misurato dal coefficiente bF. Il modello scompone l’extrarendimento del fondo rispetto a quello del benchmark in base al seguente schema:
Figura 7
Scomposizione del Risk Premium
Total Risk Premium
Risk Premium Due to Risk
Manager’s
Risk
116
Investor’s
Risk
Risk Premium Due to Selectivity
Diversification
Net
Selectivity
Q U A D E R N I
Possiamo quindi individuare una componente di rendimento
denominata “Risk Premium Due to Risk” che rappresenta l’extrarendimento del portafoglio che dipende dal coefficiente b e dal premio
per il rischio:
RP = bF(Rm - Rrf)
(33)
Questa componente può a sua volta essere scomposta in Manager’s Risk e in Investor’s Risk se l’investitore stabilisce un livello prefissato di rischio (bT). In questo caso l’Investor’s Risk rappresenta il risk
premium che si otterrebbe se il b di portafoglio coincidesse con il
target prefissato:
RPInvestor Risk = bT (Rm - Rrf)
(34)
Il Manager’s Risk si ottiene invece quando il gestore, in base alle
proprie aspettative di mercato, assume un livello di rischio diverso rispetto al target prefissato dall’investitore. È quindi possibile individuare quella componente di Risk Premium che è propriamente legata alle sue scelte:
RPManager Risk = (bi - bT) (Rm - Rrf)
(35)
Passiamo ora alla componente denominata “Risk Premium due to
Selectivity” che misura il rendimento dovuto all’abilità del gestore
nella selezione dei titoli, a sua volta scomponibile in Diversification e
Net Selectivity.
Per chiarire meglio questa suddivisione consideriamo due portafogli P e P’, caratterizzati entrambi dallo stesso rischio di mercato
ma con un rischio di diversificazione differente in quanto il portafoglio P non è sufficientemente diversificato mentre il portafoglio P’
giace sulla Security Market Line (quindi un portafoglio totalmente diversificato). Questo perché il gestore del portafoglio P ha fatto delle
scelte di security selection che hanno prodotto un extrarendimento
a fronte dell’assunzione di extra rischio. Supponiamo ora di avere
un terzo portafoglio P” con lo stesso rischio totale del portafoglio P,
ma rappresentato esclusivamente dal rischio non diversificabile. Il
rischio totale del portafoglio P” sarà quindi pari a (bP” s2m) e dato il
livello di rischio bP”, possiamo calcolare il livello di extrarendimento
imputabile alla pura diversificazione. Il rendimento imputabile alla
“net selectivity” si otterrà quindi per differenza.
In formule:
(36)
RPSelectivity = RPTotal − RPRisk = RPTotal − β F ( Rm − Rrf )


σ
RPDiversification =  Rrf + i Rm − Rrf  − Rrf + βi Rm − Rrf
σm


(
) [
(
)]
(37)
σ

RPDiversification = Rm − R fr  i − βi 
σm

(38)
RPNetSelectivity = RPSelectivity − RPDiversification
(39)
(
)
Graficamente:
117
Q U A D E R N I
Figura 8
La scomposizione della performance nel
modello di Fama
P
rp
r3
P’’
Return from
selectivity (rp-r2)
P’
Return from market
timing (r2-r1)
r2
r1
Return from client
risk (r1-rf)
rf
Return from
riskless rate rf
ß1
ßp
ßp’’
Questo modello non consente però di stabilire qual è stata la
posizione del fund manager in termini di asset allocation e pertanto
le analisi successive si sono concentrate sull’elaborazione di modelli
per la scomposizione del rischio integrati con le analisi di performance attribution (Risk Adjusted Performance Attribution), introducendo così nei processi di allocazione la consapevolezza dei rischi
assunti.
Il problema si traduce quindi nella determinazione del livello
atteso di remunerazione a livello di allocation e selection in grado di
compensare l’eventuale assunzione di rischi rispetto al benchmark
di riferimento.
Per il mercato azionario possiamo utilizzare il coefficiente b
della Teoria CAPM come una adeguata proxy della rischiosità di un
portafoglio. È quindi sufficiente stimare i coefficienti b del fondo e
del benchmark in relazione alla partizione di portafoglio presa in
considerazione (settoriale, area geografica, ecc...) per avere una
scomposizione della performance aggiustata per il rischio.
Riprendiamo le formule di Allocation e di Selection (a titolo
esemplificativo presentiamo una scomposizione settoriale in base al
modello bottom up) proposte nel precedente paragrafo ed integriamole con la teoria del CAPM in base alla quale il rendimento della iesima security è pari alla somma dei tre fattori:
a) il rendimento risk-free;
b) il differenziale tra il risk-free e il rendimento totale del
benchmark moltiplicato per il beta dell’i-esima security rispetto al benchmark nel suo complesso;
c) il rischio non-sistematico della security i-esima.
In formule:
(40)
Pi = Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi
dove:
Rrf = rendimento dell’attività priva di rischio
Rm = RB = rendimento del benchmark
bi = coefficiente b per catturare il rischio sistematico della iesima security
xi = coefficiente x per il rischio non sistematico della i-esima
security
Risk Allocation per il settore j
allocation = ∑ (WFj − WBj ) × ∑ WBji Pi
j
(41)
i
sostituiamo Pi con quanto evidenziato dall’equazione 40 del
118
Q U A D E R N I
CAPM ed otteniamo:
allocation = ∑ (WFj − WBj ) × (∑ WBji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi )
j
(42)
i
Se supponiamo che i pesi del benchmark siano indipendenti
dalla componente x e da bi(Rm-Rrf) allora il valore atteso dell’ef2
fetto di allocazione sarà dato da:
(
(43)
E( allocation) = ∑ (WFj − WBj ) × (( Rrf + β Bj ( Rm − Rrf ))
j
dove:
(
β Bj = ∑ i WBji × βi
(44)
rappresenta il b medio ponderato per il j-esimo settore.
Poiché la somma dei pesi ∑ WFj = ∑ WBj = 1
j
j
l’equazione relativa all’allocation attesa diventa:
(
E( allocation) = ∑ (WFj − WBj ) × (( β Bj ( Rm − Rrf ))
(45)
j
Il gestore ha quindi la possibilità di modificare il peso settoriale
in base alle sue aspettative di mercato (in particolare aumenterà il
peso dei titoli con elevato b in presenza di un trend crescente e farà
il contrario in presenza di un trend decrescente, fornendo così va3
lore aggiunto alla gestione ) per cui i termini WFj e b dell’equazione
sopra presentata non sono indipendenti e pertanto avremo:
E( allocation) = ∑ (WFj − WBj ) × ( β Bj ( Rm − Rrf ) + COV (WFJ , β˜ ( Rm − Rrf ))
(46)
j
Il secondo termine dell’equazione (46) rappresenta il valore
delle decisioni di timing del gestore. Se tale termine è positivo il gestore è stato in grado di creare valore aggiunto con le sue scelte di timing, in caso contrario - in media - la sua attività ha distrutto valore.
Il primo termine dell’equazione non riguarda il timing ma implica che il valore atteso dell’allocation aumenta quanto più il gestore sovrappesa settori a più elevato beta. Assumendo che nel lungo
periodo la media dei rendimenti sia positiva, il gestore potrà generare un valore atteso di allocation sistematicamente più elevato assumendo maggiore rischio. Per questo motivo, possiamo utilizzare
questo termine per “depurare” dalla formula di allocation il rendimento atteso dovuto all’assunzione di maggiori rischi.
Chiamiamo questo termine correttivo Allocation Adjustment
Factor.
Allocation Adjustment Factor= ∑ (WFj − WBj ) × β Bj ( Rm − Rrf ) (47)
j
dove la barra indica il calcolo dei valori medi.
La stessa logica può essere applicata ai calcoli di selection per il
settore j-esimo. Partendo dalla formula generica per individuare il
contributo della selection all’interno di un processo di investimento
abbiamo:
(48)
TotalSelection = ∑ W ⋅ ( P − P )
j
Fj
Fj
Risk Selection per il settore j
Bj
la stessa formula può essere scomposta nelle seguenti parti:
2
Questo significa che il valore atteso E(x)=0.
3
Il trend crescente deve ovviamente offrire un rendimento superiore al tasso riskfree affinché si possa parlare di valore aggiunto.
119
Q U A D E R N I
TotalSelection = ∑ j WBj ⋅ ( PFj − PBj ) + ∑ j ( PFj − PBj ) ⋅ (WFj − WBj )
(49)
dove la prima parte rappresenta il puro indicatore di selection
mentre la seconda parte rappresenta l’effetto congiunto illustrato
nell’equazione (10) e in Figura 4 del precedente paragrafo.
Per semplicità scomponiamo la formula della selection nelle due
componenti di pura selection e di interaction effect (IE) e sostituiamo a
PFj e PBj la formula del CAPM dell’equazione (40). Otteniamo così:
Selection= ∑ j WBj ∑ WFji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) − ∑ WBji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) (50)

i

i


IE= ∑ ∑ WFji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) − ∑ WBji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) ⋅ (WFj − WBj ) (51)

j
i

i
semplificando e ricordando che la somma dei pesi è uguale ad 1,
avremo che la pura selection attesa è pari a:
 


E( selection) = E ∑ ∑ WFji ( βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) − ∑ WBji ( βi ( Rm − Rrf )) ⋅ WBj 
i

 j  i

(52)


E( selection) = E ∑ ∑ WFjiξ  + ∑ WBji β Fj − β Bj Rm − Rrf
 j i
 j
(53)
(
)(
)
Il primo termine dell’equazione (52) evidenzia la capacità da
parte del gestore di selezionare titoli con un rendimento diverso rispetto al mercato: in particolar modo questo termine sarà positivo
quando è stato in grado di sovraperfomare il mercato e sarà negativo
nel caso opposto. In un mercato efficiente in media, non dovrebbero verificarsi effetti di security selection. Il secondo termine dell’equazione (52) evidenzia invece che l’impatto di pura selection può
risultare positivo anche se il gestore sceglie titoli a più elevato rischio
rispetto al benchmark all’interno dei settori con maggior peso all’interno del benchmark.
L’indicatore di performance attribution quindi evidenzia
come “valore aggiunto della gestione” l’extra rendimento medio legato all’assunzione di maggiori rischi. È quindi opportuno depurare
l’indicatore di pura Selection dell’equazione (50) da questa componente che definiremo Selection Adjustment Factor in modo tale da evidenziare solamente l’impatto legato alla scelta di titoli, premiando la
capacità di generare overperformance e penalizzando invece le cosiddette decisioni di stock picking che distruggono valore.
Selection Adjustment Factor = ∑ WBji (β Fj − β Bj )( Rm − Rrf )
(54)
j
Concentriamoci ora sulla Interaction Effect (IE) dell’equazione
(50) in cui si evidenzia quella componente di extraperformance rispetto al benchmark dovuta alle scelte di sovrappesare i settori per i
quali il gestore ha maggiori doti di stock picker.
Calcoliamo il valore atteso dell’equazione (50), semplificando
e assumendo che WBji sia indipendente da bi(Rm - Rrf) e da xi e che
∑ WFij = ∑ WBij = 1 . Otteniamo:
i
i
(


E( IE ) = E  ∑ WFj − WBj  + E WFjiξi + ∑ WFji − WBji COV WFj , β˜ Rm − Rrf
 j

j
(
(
)
)(
)(
[
+ ∑ WFj − WBj β Fj − β Bj Rm − Rrf
j
120
]
)
(
)
(
))
(55)
Q U A D E R N I
Il primo termine dell’equazione (55) misura il peso assegnato
ai settori in cui il gestore ha generato performance imputabile alla
stock selection; la seconda componente evidenzia il peso che il gestore ha assegnato ai settori in cui sono state effettuate scelte di timing rilevanti ed è quindi riconducibile ad una scelta di allocation:
entrambi questi indicatori evidenziano effettivamente la capacità
del gestore e pertanto non richiedono un fattore di aggiustamento
per il rischio. La terza componente rappresenta invece l’extrarendimento atteso in funzione dei rischi assunti rispetto al benchmark e
coincide pertanto con l’importo da sottrarre all’equazione (51) per
depurare il premio per il rischio, evidenziando quindi esclusivamente la capacità del gestore di scegliere securities con rendimenti
più elevati:
)(
(
)(
InteractionAdjustmentFactor = WFj − WBj β Fj − β Bj Rm − Rrf
)
(56)
Combinando l’equazione (54) e l’equazione (56) è facile determinare il fattore di aggiustamento riferito alla selection totale:
Total Selection Adjustment Factor = WFj * ( β Fj − β Bj )( Rm − Rrf )
(57)
Abbiamo quindi visto come è possibile calcolare indicatori di
Performance Attribution aggiustati per il rischio, in grado quindi di
evidenziare il livello atteso di performance associato al profilo di rischio assunto rispetto al mercato di riferimento.
Presentiamo ora un semplice esempio di Risk Adjusted Performance. In particolare prendiamo un tasso risk free periodale pari
all’1.2%, con un periodo di riferimento in cui il fondo ha reso
l’1.371% e il benchmark ha reso l’1.569%.
Rendimento Fondo
Rendimento Benchmark
1.371%
1.569%
Delta Rendimento
-0.198%
Risk Free Rate
1.20%
Nella Tabella 4 scomponiamo, sia per il fondo che per il benchmark, il rendimento complessivo nei diversi settori, evidenziando la
colonna dei pesi e dei rendimenti (sia assoluti che relativi).
Tab 4:
Esempio di risk attribution - dati di partenza
Settori
Consumer Discretionary
Consumer Staples
Fondo
Ddaily
12,156% 15,219% 3,063% 1,943% 1,830% 0,236% 0,279%
0,042%
WB
9,111%
WF
DW
PB
PF
Bench
6,200% -2,911% 0,705% 0,609% 0,064% 0,038% -0,026%
Energy
15,298% 15,441% 0,144% 0,654% 0,553% 0,100% 0,085% -0,015%
Financials
18,665% 18,500% -0,165% 1,833% 1,724% 0,342% 0,319% -0,023%
Health Care
13,127% 13,134% 0,007% 2,594% 2,641% 0,340% 0,347%
Industrials
10,886% 10,886% 0,000% 2,558% 1,576% 0,278% 0,172% -0,107%
Information Technology
12,207% 12,220% 0,013% 2,409% 2,313% 0,294% 0,283% -0,011%
Materials
2,602%
0,006%
2,698% 0,097% 0,825% -0,157% 0,021% -0,004% -0,026%
Telecommunication Services 3,288%
3,046% -0,242% -3,335% -5,000% -0,110% -0,152% -0,043%
Utilities
2,655% -0,006% 0,054% 0,204% 0,001% 0,005%
Totale
2,661%
Tabella 4
100,00% 100,00%
0,00%
0,004%
1,569% 1,371% -0,198%
Dopo aver calcolato sia per il fondo sia per il benchmark i coefficienti b dei singoli settori, introduciamo i fattori di Risk Adjusted
121
Q U A D E R N I
Performance per calcolare la componente di rischio degli indicatori
di allocation e total selection.
In particolare moltiplichiamo il vettore dei pesi differenziali
per i corrispondenti b settoriali del benchmark per evidenziare se il
gestore ha allocato il portafoglio nei settori più rischiosi. Calcoliamo
poi il fattore di aggiustamento per l’indicatore di allocation moltiplicando il precedente prodotto per il differenziale di rendimento
tra il benchmark (da noi assunto come rendimento di mercato nel
modello CAPM) e il tasso risk free. Sommando il dato che si ottiene
per ogni settore, otteniamo il contributo di allocation che ci si attende in base ai rischi assunti dal gestore. Nel nostro esempio ci
aspettiamo un contributo pari a +0.005%, che va sottratto al contributo di pura allocation (pari a +0.046%), portando ad un risultato
ancora positivo pari a +0.041%.
Per individuare il fattore di aggiustamento relativo al contributo di total selection bisogna calcolare per ogni settore la differenza
tra il b del fondo e quello del benchmark. Il vettore dei delta beta va
quindi moltiplicato per i pesi di ciascun settore all’interno del
fondo: la somma di questi valori indica (a seconda del segno) se il gestore in media ha selezionato titoli più rischiosi rispetto a quelli del
benchmark. Moltiplicando questo importo per il differenziale di
rendimento tra il benchmark e il tasso risk free si ottiene il contributo di total selection atteso in base ai rischi assunti dal gestore.
Nel nostro esempio otteniamo un importo pari a +0.044% che,
sottratto al puro contributo di total selection (pari a -0.2450%) dà un
valore pari a -0.289%.
Tabella 5
Tab 5:
Esempio di risk attribution
I fattori di aggiustamento
Settori
WB
Consumer Discretionary
Consumer Staples
bFj
bBj
Db
Sel. Adj
All. Adj
Sector All Sector Sel
12,156% 3,063% 1,50 1,05 0,45 0,025% 0,012%
0,060% -0,017%
9,111% -2,911% 0,54 0,55 -0,02 0,000% -0,006%
-0,021% -0,006%
Energy
15,298% 0,144% 0,59 0,56 0,03 0,002% 0,000%
0,001% -0,016%
Financials
18,665% -0,165% 1,24 1,12 0,12 0,008% -0,001%
-0,003% -0,020%
Health Care
13,127% 0,007% 0,70 0,71 -0,01 -0,001% 0,000%
0,000%
Industrials
10,886% 0,000% 1,50 1,03 0,47 0,019% 0,000%
0,000% -0,107%
Information Technology
12,207% 0,013% 1,60 1,70 -0,10 -0,005% 0,000%
0,000% -0,012%
2,602% 0,097% 0,81 0,90 -0,09 -0,001% 0,000%
0,001% -0,027%
Materials
0,006%
Telecommunication Services
3,288% -0,242% 0,90 1,20 -0,30 -0,003% -0,001%
0,008% -0,051%
Utilities
2,661% -0,006% 0,31 0,35 -0,04 0,000% 0,000%
0,000%
Totale
Tabella 6
DW
Tab 6:
100,00%
0,00%
0,044% 0,005%
0,046% -0,245%
Esempio di risk attribution - sintesi dei risultati
Attribution Effect
0,046%
Risk Adjustment
0,005%
Selection
-0,245%
0,044%
Totale
-0,198%
Allocation
0,004%
Delta
0,041%
-0,289%
-0,247%
È evidente quindi che il contributo del gestore non ha prodotto
valore aggiunto nel suo complesso: le scelte di allocazione hanno
fornito un contributo in grado di compensare i rischi assunti mentre
122
Q U A D E R N I
le scelte di selection si sono rivelate errate: il gestore ha scelto dei titoli più rischiosi di quelli del benchmark senza essere in grado di fornire un extrarendimento.
Il modello è piuttosto semplice ma fornisce un’indicazione importante per un’opportuna gestione del rischio all’interno del processo dinamico d’investimento in cui ipotizziamo che le scelte di allocazione abbiano come obiettivo quello di battere il benchmark.
L’obiettivo di un ufficio di risk management è quindi duplice:
da un lato determinare i fattori che generano rischi e dall’altro individuare all’interno del processo d’investimento i soggetti cui attribuire tale rischio in modo da evidenziare se l’assunzione dei rischi è
coerente con il rendimento prodotto proponendo, in caso contrario, le opportune modifiche al profilo di rischio del fondo.
In termini operativi, questo concetto si traduce nell’effettuare una scomposizione ex-ante del rischio (per country, sector,
duration, ecc...) che risulti complementare all’analisi ex-post di
performance attribution, al fine di contribuire attivamente al processo d’investimento, e non - come spesso avviene - di svolgere un
mero controllo dei limiti di rischio presenti nel mandato di gestione o fissati dal Consiglio di Amministrazione. Questo capitolo
ha voluto fornire un’introduzione alla modellistica di base di cui
un ufficio di risk management dovrebbe dotarsi per svolgere questo importante ruolo.
5. Conclusioni
Allen, Gregory C., “Performance Attribution for Global Equity Portfolios”, Journal of Portfolio Management, Autunno 1991, pp. 159-165
Ankrim, Ernest M., “Risk-Adjusted Performance Attribution”, Financial Analysts Journal, Marzo-Aprile 1992, pp. 75-82
Ankrim, Ernest M., Hensel Chris R., “Multicurrency Performance Attribution”, Financial Analysts Journal, Marzo-Aprile 1994, pp. 29-35
Brinson, Gary P., Fachler, Nimrod, “Measuring Non-U.S. Equity Portfolio Performance”, Journal of Portfolio Management, Primavera 1985,
pp. 73-76
Carino, David, “Combining Attribution Effects Over Time”, The Journal of Performance Measurement, Estate 1999, pp. 5-14
Fama, Eugene F., “Components of Investment Performance”, Journal
of Finance, Giugno 1972, pp. 551-567
Menchero, Jose G., “An Optimized Approach to Linking Attribution
Effects Over Time”, The Journal of Performance Measurement, Autunno
2000, pp. 36-42
Menchero, Jose G., “A Fully Geometric Approach to Performance Attribution”, The Journal of Performance Measurement, Inverno 2001, pp.
22-30
Riferimenti bibliografici
123
Domenico Mignacca
Sanpaolo IMI Asset Management Sgr
Valeria Aiudi
Sanpaolo IMI Asset Management Sgr
Michele Ruvolato
Sanpaolo IMI Asset Management Sgr
Processo di investimento
e risk management
Q U A D E R N I
126
Q U A D E R N I
In questo lavoro illustreremo lo stretto legame esistente tra il
processo di investimento e l’attività di risk management. In particolare, dopo una breve discussione delle problematiche proprie del
processo di investimento, sarà approfondito il ruolo del risk management evidenziando, tramite l’utilizzo di un approccio parametrico, la sua funzionalità per: (a)il controllo dei limiti di rischiosità attiva dei prodotti (risk budgeting), (b) la valutazione della coerenza
tra attività di gestione e stile definito per il prodotto, (c) la valutazione della coerenza tra prodotti gestiti e strategia dichiarata dal Co1
mitato Investimenti.
L’andamento negativo dei mercati finanziari, ormai in corso
dal marzo 2000, ha messo in evidenza alcuni problemi dell’industria
del risparmio gestito che in precedenza non erano considerati o percepiti. Per questo le Società di gestione del rispamio (Sgr) hanno
dato maggiore impulso alle attività di risk management cercando di
utilizzare la funzione non solo a fini passivi, cioè di controllo del rispetto dei limiti di rischio, ma come soggetto in grado di supportare
l’attività di gestione e di controllo della coerenza delle politiche di
investimento attuate.
La prima parte del lavoro è dedicata alla descrizione del processo produttivo tipico delle Società di gestione del risparmio: il processo di investimento. Sarà illustrata la relazione tra processo di investimento e stili di gestione. Passeremo a descrivere le varie componenti
del processo di investimento; tra queste compaiono sia l’attività di asset allocation che l’attività di risk management. In particolare vedremo che quest’ultima deve essere organizzata in modo che risulti
coerente con l’impostazione data al processo di investimento.
La piattaforma di risk management risulta, inoltre, utile nel valutare la rispondenza dei portafogli ai limiti di rischio definito, laddove si intendano implementare politiche di risk budgeting.
A tal proposito la parte centrale del lavoro è dedicata alla descrizione di un approccio in grado di illustrare come la suddetta
piattaforma di risk management possa essere utilizzata per: controllo dei limiti di rischiosità attiva dei portafogli, supporto ad
eventuali politiche di risk budgeting, valutazione della coerenza
dello stile di gestione del prodotto, verifica della coerenza delle
“view implicite” nei portafogli con le “view esplicite” del Comitato
Investimenti.
Nell’ultima parte del lavoro si intende valutare sia gli strumenti
che possono essere utilizzati per il backtesting sia i limiti che le verifiche possono incontrare (mispricing, trading ecc.).
Introduzione
1
Gli autori desiderano ringraziare Mario Noera, Pierpaolo Rizzi, Paolo Sartor di Sanpaolo IMI Asset Management Sgr SpA e Andrea Resti per avere direttamente e indirettamente contribuito ad alcune riflessioni esplicitate nel lavoro. Ovviamente ogni
opinione espressa deve considerarsi di esclusiva responsabilità degli autori.
127
Q U A D E R N I
1. Il processo
di investimento
Uno dei problemi fondamentali per le Società di asset management è definire il proprio processo di investimento. La definizione
di tale processo non ha come obiettivo esclusivo quello di soddisfare
esigenze di tipo normativo, dato che consente alla Società di monitorare l’efficienza della gestione nel suo complesso e di individuare
le aree dove questa può essere ulteriormente migliorata.
In periodi come l’attuale in cui i mercati e i prodotti offerti evidenziano perdite significative, l’esistenza di un processo di investimento strutturato consente di individuare e spiegare l’eventuale andamento difforme rispetto alle attese. L’evidenza “empirica” ci suggerisce che il mercato dell’asset management è stato colto impreparato e ha riscoperto l’importanza di dotarsi di un processo di produzione strutturato; a riprova di quanto detto, si nota da almeno un
anno un appiattimento dei prodotti verso uno stile di gestione sostanzialmente passivo che si può giustificare solo in due modi: (a) assenza di “idee” relativamente al benchmark, (b) assenza di un processo di investimento necessario presupposto all’assunzione di posizioni “attive” sul mercato.
Proviamo a dare una definizione di processo di investimento: se
prendiamo in considerazione un generico portafoglio (prodotto),
il processo di investimento consiste nell’insieme delle attività poste in essere per
la creazione del portafoglio “reale” e per le sue successive modifiche.
Il processo di investimento può essere:
a) esplicito (PIE);
b) implicito (PII).
Il processo di investimento (di seguito PI) viene definito esplicito
se è descritto e dichiarato dalla Società, in caso contrario viene definito implicito. Ovviamente nel momento stesso in cui vengono gestiti
dei portafogli questi sono il risultato di un PI implicito. È bene inoltre
sottolinerare la non unicità dei PIE e PII, infatti possono esistere tanti
processi quanti sono i prodotti gestiti. Logicamente l’obiettivo di ogni
Società di asset management non è solo quello di avere un PI esplicito,
ma soprattutto che questo coincida con quello implicito.
1.1
In linea generale un processo di investimento viene identificato
con uno stile di gestione, in particolare:
i) ad ogni PI corrisponde uno stile di gestione;
ii) un determinato stile di gestione può essere implementato tramite diversi PI.
Descriviamo i vari stili di gestione prendendo spunto da un quadrante che permette di distinguere gli stili a seconda dell’alloca2
zione del rischio tra Asset Allocation (AA) e Security Selection (SS).
Processo
di investimento e
stile di gestione
Figura 1
Il quadrante degli stili di gestione
Alto
Tactical Asset Allocation
Active Blend
(TAA)
(AB)
Index, Index+
Active Stock Picking
Quantitative Enhanced
(ASP)
Risk on AA
Basso
(QE)
Basso
2
Risk on SS
Alto
In questo lavoro vengono considerate decisioni di asset allocation, quelle relative
alla composizione del portafoglio che riguardano le obbligazioni, le azioni e le decisioni valutarie.
128
Q U A D E R N I
Nei quadranti della Figura 1 sono rappresentati i quattro classici macro stili di gestione identificati in funzione della attribuzione
di rischiosità attiva nei confronti del benchmark di riferimento della
gestione; tale rischiosità viene valutata con la Tracking Error Volatility (TEV). Dalla Figura risulta inoltre evidente come lo stile di gestione sia funzione dell’allocazione di rischio tra attività di scelta degli asset e attività di selezione titoli. Le varie allocazioni di rischio possono essere suddivise tra diversi attori del PI.
Occorre precisare che, in questo contesto, l’Asset Allocation
Risk comprende tutto ciò che non è Security Selection Risk. In realtà
i livelli di attività sono sostanzialmente quattro: (a) Asset Allocation,
(b) Country/Area Allocation (CA), (c) Sector Allocation (SA) e (d)
Security Selection. La rappresentazione contenuta nella Figura 1
passa per una riattribuzione di CA e SA ad AA oppure a SS. Dopo
questa doverosa precisazione descriviamo gli elementi caratterizzanti gli stili di gestione considerati:
1) Tactical Asset Allocation
Lo stile si caratterizza per il fatto che il budget di rischio attivo è speso, in modo preponderante, per decisioni di asset
allocation. I prodotti generalmente associabili allo stile
sono: bilanciati, flessibili, “total return” (i prodotti con
obiettivo total return si differenziano dai flessibili per avere
come benchmark non dichiarato il rendimento dell’attività
priva di rischio), azionari internazionali e obbligazionari.
2) Active Stock Picking
Lo stile di gestione è caratterizzato dalla prevalenza del rischio attivo per decisioni di selezione titoli, quindi le decisioni di asset allocation attive, anche quelle valutarie, devono avere dimensione marginale. I prodotti che possono essere associati allo stile sono: azionari paese/settore e azionari settoriali.
3) Index/Index plus
L’obiettivo dello stile è di replicare la performance del
benchmark di riferimento (index) o replicarlo con un
TEV molto limitato (index plus). La gestione viene prevalentemente effettuata, specialmente per gli index, tramite
metodologie quantitative quali: (a) full replication, (b)
stratified sampling, (c) analisi fattoriale e (d) analisi delle
componenti principali. In generale i prodotti associati allo
stile in questione sono quelli la cui vocazione fondamentale è quella di costituire i mattoncini elementari per ge3
stioni ad asset allocation come GPF, fondi di fondi e GPM.
4) Active Blend
Come indica lo stesso nome, lo stile combina in misura significativa decisioni attive di asset allocation e security selection. È sicuramente lo stile di più difficile implementazione perchè la logica da seguire dovrebbe essere di tipo
“full information” piuttosto che “2-step” ossia bottom-up
e top-down applicati indipendentemente e contemporaneamente. In generale possono essere associati allo stile
prodotti bilanciati, “total return” e flessibili.
3
Il mercato evidenzia una tendenza a spostarsi da prodotti ad indice verso prodotti
index plus sia a causa della naturale concorrenza rappresentata dagli ETF (Exchanged Traded Funds) che per la maggior remunerazione degli index plus.
129
Q U A D E R N I
1.2
Prerequisiti e attività
fondamentali
del processo
di investimento
2 L’asset allocation
130
In generale per poter esplicitare un processo di investimento
per un determinato prodotto occorrono alcuni presupposti fondamentali. Occorre, innanzitutto, definire il benchmark della gestione. Il benchmark costituisce quella che da più parti viene definita come l’asset allocation strategica, differente da quella tattica
che è più di pertinenza dell’area gestionale. In secondo luogo occorre esplicitare lo stile di gestione e quindi definire coerentemente
quali sono i limiti alla politica di investimento del prodotto: TEV,
universo investibile ed eventuali vincoli normativi. Nell’ottica di una
gestione dinamica, infine, occorre adottare una politica di risk budgeting che consiste nel quantificare la ripartizione del TEV per tipologia di attività e nel definire strategie di stop-loss/take-profit. Le
fonti da cui attingere possono essere diverse e tra esse annoveriamo:
la normativa, il CdA e il Comitato investimenti che può eventualmente rendere più stringenti e/o definire in modo più particolareggiato i vincoli disposti dal CdA.
La struttura del processo di investimento può essere suddivisa
in diverse attività fondamentali. Come abbiamo visto in precedenza
nella medesima struttura possono convivere contemporaneamente
diversi processi in funzione degli stili di gestione di cui si è dotata la
società. Quindi le attività che costituiscono il processo di investimento, sebbene possano essere svolte dalla medesima funzione, devono avere delle peculiarità specifiche. Le attività che si distinguono
nel processo di investimento, in generale, sono:
a) asset allocation tattica (Comitato tattico/Comitato investimenti ecc.);
b) security selection (team di gestione);
c) portfolio building;
d) trading ed execution;
e) risk management (ex-ante);
f) analisi e attribuzione della performance (ovviamente expost).
In estrema sintesi, possiamo definire il processo di investimento
come l’attività di “return and risk management”. Dalla descrizione appena fatta appare chiaro che l’attività di risk management rientra a
pieno titolo all’interno del processo di investimento; questa, quindi,
non viene considerata come un’attività di mero controllo (risk controlling), ma come un’attività strumentale all’ottimizzazione del rapporto rischio-rendimento (risk management); in particolare il processo di risk management e attribuzione della performance consente di ottenere dei feed-back sulle attività precedenti (a)/(d). In
un periodo come l’attuale, nel quale si manifesta un giustificato aumento dell’avversione al rischio, diventa più pressante l’enfasi che
viene posta sull’attività di gestione del rischio e appare più evidente
il ruolo che deve essere dato a tale attività.
Procediamo per gradi descrivendo alcune delle attività specifiche del processo di investimento.
Generalmente l’asset allocation viene confusa con il processo di
investimento. L’attività è, nell’impostazione che le abbiamo dato, solo
una parte del processo anche se risulta nella maggior parte dei casi
quella più facilmente comunicabile all’esterno. Come ribadito nel
paragrafo precedente, l’attività di asset allocation deve essere contestualizzata rispetto allo stile di gestione, per stili di tipo index/index
Q U A D E R N I
plus, per esempio, essa sarà necessariamente passiva rispetto al benchmark, mentre avrà un ruolo determinante nel caratterizzare stili di gestione di tipo tattico (stile Tactical Asset Allocation).
Il problema dell’asset allocation può essere risolto utilizzando
diversi approcci, nel presente paragrafo utilizzeremo un approc4
cio “a la” Black e Litterman . Le problematiche principali per risolvere il problema dell’asset allocation possono essere riassunte nei
seguenti punti:
i) modelli per la determinazione dei rendimenti attesi;
ii) processo di generazione e validazione delle “view” sui
mercati;
iii) generazione dei rendimenti attesi per l’ottimizzazione
mediante “blending” di (i) e (ii);
iv) determinazione dei vincoli per l’ottimizzazione;
v) scelta della funzione di utilità da massimizzare;
vi) validazione dell’asset allocation tattica mediante attribuzione del rischio sulle singole “bet”;
vii) verifica dinamica, mediante attribuzione del rischio, della
coerenza tra portafogli reali e portafoglio “tattico”.
Schematicamente possiamo aiutarci nella descrizione dell’approccio Black e Litterman (B&L) facendo ricorso alla Figura 2. Si
parte da una considerazione che possiamo definire di equilibrio: essendo il problema dell’asset allocation strettamente connesso alla
scelta di un benchmark per la gestione, si ipotizza che il benchmark
sia un portafoglio di equilibrio, ossia il portafoglio ottimo in termini
di rischio rendimento. A questo punto, attraverso una procedura di
reverse engineering (di seguito illustrata) possiamo ricavare, data
l’avversione al rischio, i rendimenti impliciti relativi al benchmark
ossia quei rendimenti che, se utilizzati per l’ottimizzazione, restituiscono come risultato esattamente il benchmark. In parallelo la Research della Società esprime le sue opinioni sui mercati (view), siano
esse qualitative o quantitative, che utilizzate congiuntamente ai rendimenti impliciti nel benchmark consentono di ottenere i rendiModello Econometrico
sui rendimenti
Rendimenti impliciti
del Benchmark
Figura 2
L’approccio Black e Litterman
View della Research
Blending delle view con rendimenti
impliciti (Bayes’ Theorem)
Rendimenti
attesi
Matrice
Varianze
&
Covarianze
Funzione di utilità da massimizzare
(es. Markowitz)
Risk Management
Vincoli di
Mandato
Limite di
Track Err.
View della
Research
Asset
Allocation
Tattica
4
Black-Litterman(1992), vedi anche Bevan-Winkelmann(1998).
131
Q U A D E R N I
menti attesi da utilizzare per l’ottimizzazione, attraverso il cosiddetto
“blending”.
Questo altro non è che l’applicazione del teorema di Bayes. La
distribuzione a priori è centrata sui rendimenti impliciti che insieme
al set informativo aggiuntivo (le “view” della Research) generano la
distribuzione a posteriori con i rendimenti per l’ottimizzazione vera
e propria.
L’approccio B&L è molto intuitivo e semplice da implementare
e risulta evidente che nel caso non ci siano opinioni sui mercati l’ottimizzatore restituisce il benchmark (se non si hanno delle opinioni
perché si deve deviare dal benchmark della gestione?). A questo
punto, prima di validare i rendimenti per l’ottimizzazione, è possibile fare uno screening attento delle view, valutando sia la significatività/probabilità dello scenario complessivo, sia l’importanza delle
singole opinioni espresse. Tale attività riveste una notevole importanza all’interno dello schema disegnato da B&L; infatti, solo dopo
5
un’attenta analisi e validazione dello scenario si può passare sia alla
definizione dell’asset allocation tattica sia all’ottimizzazione il cui
output deve essere valutato rispetto allo scenario e il cui profilo di rischio deve rispettare eventuali politiche di risk budgeting.
A questo punto descriveremo più dettagliatamente l’approccio
partendo dal problema del reverse engineering.
2.1
Il reverse engineering
L’ipotesi sottostante al modello B&L è che il benchmark sia un
portafoglio di equilibrio (nella tradizionale rappresentazione della
frontiera efficiente è quel portafoglio individuato dalla tangenza tra
la frontiera e la retta di bilancio). L’unica variabile esogena del problema è rappresentata dallo Sharpe ratio:
Sh =
q' r − rf
σq
(1)
dove: q è il vettore dei pesi degli asset che compongono il
benchmark, r è il vettore dei rendimenti attesi degli asset, rf è il tasso
risk-free e sq è la volatilità del benchmark. Definito a priori lo Sharpe
ratio, dobbiamo identificare la funzione di utilità da massimizzare;
ad esempio, possiamo utilizzare la tradizionale funzione di utilità
quadratica:
(2)
U = q' r − λ q' Σ q − γ ( q' u − c )
6
dove: g = rf , c è generalmente pari a 1 , “u” è un vettore unità
che è utilizzato per calcolare l’esposizione complessiva del portafoglio è quindi il costo dell’eventuale indebitamento, g è l’avversione
al rischio e S è la matrice di varianze-covarianze delle attività finanziarie. Massimizziamo la (2) rispetto a q:
∂U
(3)
= 0 ⇒ r − 2λΣq − r u = 0
∂q
f
Se per semplicità espositiva poniamo 2l=j, dall’equazione (3)
possiamo ricavare che:
5
L’appendice A del lavoro contiene un insieme di strumenti per la valutazione dello
scenario.
6
c > 1 quando il portafoglio non è monovaluta e la valuta viene trattata, quasi sempre, come un asset a parte, cfr. Mignacca (1999) e Mignacca-Meucci (2002). Anche
per un portafoglio multi valuta e con la valuta trattata come un asset a parte, “c” può
essere pari ad 1 nel caso in cui ci sia completa copertura del rischio di cambio.
132
Q U A D E R N I
ϕ=
q' r − rf q' u
σ q2
(4)
dove:
(5)
σ q2 = q' Σ q
è la varianza del benchmark. Risolvendo la (3) per r, otteniamo:
r=

q' r − rf q' u
(1 − q' u)rf
Σq + rf u = Sh +
2
σq
σq

 Σq
+ rf u

 σ q
(6)
Dalla (6) si evince che, definito il livello esogeno relativo allo
Sharpe ratio (Sh), è immediato ricavare il vettore dei rendimenti impliciti.
 + Σ+q + 
r = f  rf ,
, Sh
σq


(7)
L’equazione (7) ci chiarisce quali sono i fattori che influenzano
i rendimenti impliciti (o di equilibrio). È abbastanza logico che la relazione tra rendimenti di equilibrio, Sharpe ratio e risk-free rate sia
positiva, mentre per il secondo termine del funzionale occorre soffermarsi più attentamente; come vedremo in seguito nella parte relativa al risk management, il secondo termine identifica un vettore di
sensitività; esso rappresenta la derivata della volatilità del benchmark rispetto a movimenti nel vettore dei pesi del benchmark stesso.
In conclusione, con Sh fissato esogenamente >0, si ha che tanto più è
sensibile la volatilità del benchmark rispetto ad una delle attività che
lo costituiscono, tanto più il rendimento di equilibrio dell’attività
stessa ne sarà influenzata positivamente.
Abbiamo visto come ricavare i rendimenti impliciti nel benchmark sotto l’ipotesi che questo sia il portafoglio di equilibrio del
mercato. A questo punto possiamo affrontare la questione del “blending”, ossia della modifica dei rendimenti impliciti per tenere conto
delle opinioni della Research sui mercati.
Ipotizziamo quanto segue:
r~ N(r e, S)
(8)
ossia che il vettore dei rendimenti sia distribuito normalmente, con
valore atteso pari al vettore dei rendimenti di equilibrio e matrice di
varianze e covarianze pari a S. Inoltre supponiamo di avere delle
view sui mercati e che le rappresentiamo nel seguente modo:
g= Sr+z, con z~ N(0,W) e Cov(z,e)=0
(9)
dove: g è il vettore che contiene le view espresse, S è la matrice che
identifica le combinazioni lineari tra le attività finanziarie sulle quali
sono state espresse le view, z identifica l’incertezza sulle view (se si
ipotizza assenza di incertezza nelle view, allora g=Sr), e è il “noise” del
processo che genera i rendimenti e l’ipotesi che Cov(z,e)=0 sta ad indicare che l’incertezza sulle view è indipendente rispetto al “noise”
dei rendimenti. Le ipotesi contenute nelle equazioni (8) e (9) ci
consentono di ricavare la distribuzione congiunta dei rendimenti e
delle view:
r 
g
 
~
  re   Σ
ΣS' 
N   e , 

'
 Sr  SΣ SΣS + Ω
2.2
Il blending delle view
con i rendimenti
di equilibrio
(10)
utilizzando le proprietà della normale multivariata, possiamo ottenere il vettore dei rendimenti attesi per l’ottimizzazione utilizzando
133
Q U A D E R N I
il valore atteso condizionale di “r” dato il vettore delle view “g”:
−1
(11)
E(r g) = r e + ΣS' ( SΣS' + Ω) ( g − Sr e )
2.3
La funzione di utilità
da massimizzare
3. Risk management
134
La scelta della funzione di utilità deve ovviamente essere coerente con la funzione obiettivo del “massimizzante”. È il caso di sottolineare che non sempre gli interessi del “massimizzante” (società
di gestione) coincidono poi con quelli del soggetto che
beneficia/subisce i risultati della massimizzazione (sottoscrittore di
un fondo comune di investimento). Possiamo dire che in linea generale le funzioni utilizzate nella pratica possono essere ricondotte
all’approccio classico alla Markowitz.
L’introduzione del benchmark nel panorama del risparmio gestito italiano ha sicuramente contribuito a modificare la funzione
obiettivo delle Società. Innanzitutto i prodotti non vengono valutati
esclusivamente per il loro posizionamento in classifica, ma al posizionamento in questione si aggiunge una componente collegata al
differenziale di performance relativo al proprio benchmark. Altro
obiettivo che si cerca di perseguire è quello di ricercare persistenza
di comportamento dei prodotti. Una delle modifiche che possono
essere fatte all’approccio standard consiste nel massimizzare la funzione di rendimento del portafoglio tenendo in considerazione
però i risultati che sono stati conseguiti; quello che si vuole dire è che
l’asset allocation tattica sarà anche funzione del risultato conseguito
dalla gestione nel periodo precedente per cui, se il gestore avrà accumulato un’overperformance rilevante nel periodo precedente,
sarà incentivato a non correre eccessivi rischi e ovviamente può avvenire il contrario se nel periodo precedente si è accumulata una
sotto performance di rilievo; il tutto deve avvenire rispettando lo
stile di gestione (attivo/passivo) associato al prodotto; ad esempio,
in caso questo fosse in una situazione di forte overperformance e si
applicasse la logica precedente senza vincoli, il gestore avrebbe convenienza ad utilizzare uno stile di gestione fortemente passivo; è auspicabile che i prodotti gestiti con questa metodologia siano soggetti
a regole di stop/loss che ne impediscano effetti perversi di “moral
hazard” rispettando quindi lo stile di gestione stabilito.
Decisa la funzione da utilizzare per la massimizzazione, e individuati i vincoli, prima di implementare l’asset allocation tattica, si
deve verificare se essa sia coerente con lo scenario definito e se è coerente rispetto all’eventuale politica di risk budgeting. A questo
punto introduciamo il tema del risk management e facciamo notare
come questo sia parte integrante del processo di investimento.
Già in precedenza abbiamo definito il ruolo del risk management nel processo di investimento. In questo paragrafo cercheremo
di dettagliare meglio i contorni e le problematiche dell’attività concentrandoci sulla componente rischio di mercato attiva, ossia rischiosità relativa al benchmark o Tracking Error Volatility (TEV).
Descriveremo un approccio coerente con l’implementazione di un
sistema di risk budgeting che consiste nel dettagliare i limiti posti alla
gestione per macro categorie di rischio come: asset allocation risk,
security selection risk, fx risk ecc..
In generale le problematiche fondamentali nell’implementazione di un sistema di risk management sono le seguenti: (a) make vs
Q U A D E R N I
buy; (b) mapping (è la problematica relativa alla rappresentazione
del portafoglio e del benchmark), (c) costruzione di una banca dati
dei prezzi e (d) scelta del modello per la valutazione e la quantificazione dei rischi attivi.
La variabile principale di interesse in ogni applicazione di risk
management è il TEV; le modalità di calcolo di questa variabile, ovviamente, dipendono strettamente dal modello utilizzato.
In un approccio parametrico, e sotto ipotesi standard, il TEV
può essere stimato utilizzando la seguente equazione:
'
(12)
TEV = (q − b) Σ(q − b)
dove: q è il vettore dei pesi delle attività in portafoglio, b è il vettore
dei pesi delle attività nel benchmark e S è la matrice delle covarianze
tra le attività. L’equazione (12) presuppone l’adozione di un modello di riferimento particolare. Generalizziamo la (12) nel seguente modo:
(13)
TEV = f (q, b, Σ(r ), ε )
dove e è la componente stocastica del processo.
Dalla (13) osserviamo che il TEV è funzione di q, b e, indirettamente, dei rendimenti delle attività finanziare r. L’attenzione dell’accademia e dei practitioners è quasi interamente dedicata allo studio dei funzionali f(.) e S(.). Esistono però altre fonti di incertezza
che possono dare luogo a non marginali errori nella stima del TEV,
per esempio il vettore q non è univocamente determinato ma dipende dal tipo di mappatura delle “posizioni grezze” x in portafoglio; per questo motivo sarebbe meglio riscrivere la (13) nel seguente modo:
(14)
TEV = f [q( x ), b, Σ(r( P))]
La dipendenza di S dal vettore dei prezzi costituisce un’altra
fonte di incertezza, infatti esistono diverse scelte che devono essere
prese in considerazione per la determinazione dei rendimenti; tra
queste ricordiamo la frequenza delle osservazioni e la scelta di come
trattare il problema dei “missing value”. Per quanto riguarda la frequenza dei dati citiamo il problema dell’asincronia dei mercati; ad
esempio, se utilizziamo una frequenza di dati giornaliera, la correlazione tra mercato giapponese e nord americano risulta essere inficiata dal fatto che i dati si riferiscono a mercati che non sono aperti
contemporaneamente. Il lavoro di Burns et al. (1998) tratta il problema in modo approfondito suggerendo dei possibili rimedi all’inconveniente. Per quanto riguarda invece il secondo problema sui valori mancanti dei prezzi, esistono diverse tecniche utilizzabili, ad
esempio la replica del prezzo mancante con il valore precedente o
l’interpolazione del dato mancante con i dati precedenti e successivi. È intuitivo concludere che con entrambi i metodi non si tiene in
considerazione della relazione esistente tra il mercato non “osservato” e i mercati per cui invece si dispongono le osservazioni; la solu7
zione che suggeriamo è quella di utilizzare l’algoritmo EM che consiste nell’implementare la seguente procedura: (1) si inizializza la
procedura stimando una matrice di covarianze con le osservazioni a
disposizione; (2) si stimano i dati mancanti utilizzando il valore at7
Expectation-Maximization. Cfr. J.P. Morgan (1996).
135
Q U A D E R N I
teso di questi condizionato al set di osservazioni disponibili; (3) si ristima la matrice di covarianze con le osservazioni stimate in (2); (4)
si valuta la distanza tra una stima e la successiva del set di osservazioni
mancanti: se si raggiunge convergenza si termina l’algoritmo se invece non viene raggiunto il criterio di convergenza si ritorna al
punto (2).
Nei paragrafi precedenti abbiamo discusso del processo di investimento e di come l’attività di risk management ne sia parte integrante. Quest’ultima deve essere disegnata secondo criteri di coerenza rispetto al processo di investimento di cui la Società di gestione si vuole dotare; a tal fine ipotizziamo una Sgr che si è dotata di
differenti stili di gestione e che intende adottare, oltre ad un attento
monitoraggio dei limiti, una politica di risk budgeting e di verifica
della coerenza delle decisioni prese in Comitato Investimenti avallate dal CdA. L’approccio che andremo a descrivere ci consente di
soddisfare le esigenze sopra riportate. Tratteremo, in particolare,
due argomenti: uno relativo alla scomposizione del rischio e l’altro
focalizzato sull’attribuzione dello stesso.
3.1
La scomposizione
del TEV
In generale quando si vuole adottare una politica di risk budgeting e controllare il rispetto delle view strategiche dei vari comitati nei
portafogli reali, si tende a ricercare la risposta alle seguenti domande:
a) quali attività/paesi/settori/titoli generano rischio attivo
rispetto al benchmark, in questo caso parleremo di scomposizione del rischio
b) tra quali funzioni/soggetti è ripartito il rischio di cui sopra, in questo caso invece parleremo di attribuzione del
rischio.
Sia “q” il vettore dei pesi del portafoglio, “b” il vettore dei pesi relativi al benchmark, “h” il vettore delle scommesse (h=q-b) e T l’orizzonte temporale prescelto, il TEV annualizzato sa del portafoglio
può essere ricavato utilizzando l’usuale equazione:
σ a = h' ΣhT
(15)
L’assunzione di log-normalità dei prezzi delle attività finanziarie e l’ipotesi che i (log) rendimenti siano congiuntamente distribuiti normalmente ci permette di “scalare” opportunamente la
grandezza h’Sh mediante T; ad esempio se S è ottenuta a partire da
rendimenti settimanali, per ottenere una misura annualizzata T sarà
posto pari a 52, ovvero il numero di settimane in un anno. Un’ulteriore precisazione è necessaria: anche sotto queste ipotesi semplificatrici il TEV calcolato con la (15) è una misura di volatilità “locale”
valida nel momento in cui il portafoglio e il benchmark sono osservati, a meno che il portafoglio e il benchmark non siano ribilanciati
in tempo continuo: se il coefficiente di rischio viene riparametrizzato su un orizzonte temporale relativamente ampio, anche sotto l’ipotesi di log-normalità dei prezzi, la stima che ne deriva deve essere
considerata un’approssimazione.
Dalla stima sintetica di rischio attivo possiamo derivare un vettore di parametri di notevole interesse:
∂σ Σh 8
(16)
∆=
=
∂h
8
136
σ
Notare il collegamento con la (7).
Q U A D E R N I
D è un vettore di dimensione pari alla dimensione del vettore
delle scommesse. Il vettore D contiene le sensitivity del TEV rispetto a variazioni marginali delle scommesse. L’interpretazione
da dare al parametro è analoga all’interpretazione del delta di
un’opzione. Il parametro in questione può assumere valori positivi o negativi; generalmente se la bet è negativa, quindi è presente
un sottopeso del portafoglio rispetto al benchmark, il valore del
delta è negativo il che ci dice che se aumentiamo il peso nel portafoglio del titolo in questione possiamo ottenere una riduzione
9
della rischiosità relativa ; analogamente delta positivi sono generalmente legati a bet positive rispetto al benchmark. Le situazioni
più interessanti si verificano per bet positive con sensitivity negative; questo in teoria ci permetterebbe, sempre che l’opinione sul
titolo sia positiva, di aumentare la scommessa positiva e contemporaneamente ridurre il TEV.
Oltre al delta è utile avere anche a disposizione la stima del
gamma del TEV:

Σhh' Σ 
 σΣ −


σ 
∂ 2σ
Γ=
=
2
'
σ
∂h∂h
(17)
il gamma ci dà indicazioni sulla curvatura del TEV rispetto a movimenti nel vettore delle scommesse h. Il delta e il gamma possono essere utilizzati congiuntamente per avere delle approssimazioni dell’impatto sul TEV di modifiche nella struttura del portafoglio. Questa approssimazione ci consente di evitare di dover ogni volta ristimare il TEV e quindi di risparmiare tempo per l’elaborazione del risultato. Se indichiamo con h0 l’attuale struttura delle scommesse del
portafoglio e con h1 la “nuova” struttura che indentiamo verificare,
l’impatto sul TEV può essere approssimato utilizzando la seguente
scomposizione di Taylor:
σ (h1 ) − σ (h2 ) ≅ (h1 − h2 )
'
∂σ
∂h
+
h = h0
2
1
' ∂ σ
h1 − h0 )
(
2
∂h∂h'
(h1 − h0 )
h = h0
(18)
La (18) ci consente di approssimare meglio l’impatto sul TEV
di modifiche nella struttura delle scommesse. Nella pratica l’importanza del gamma è molto rilevante per portafogli con basso TEV
avendo questi notevoli problematiche legate alla convessità.
Dopo avere introdotto il concetto di delta del TEV possiamo
descrivere la quantità che indica la concentrazione del rischio attivo
per singola posizione: chiameremo questa quantità “Component
10
TEV”(CTEV) . Indichiamo con <h> la matrice quadrata che ha sulla
diagonale principale le scommesse h e al di fuori di essa tutti zero. Il
vettore dei CTEV potrà essere ottenuto nel seguente modo:
Σh
(19)
CTEV =< h >
σ
in pratica ogni elemento del CTEV è ottenuto moltiplicando scommessa i-esima per la sensitivity i-esima; anche in questo caso è da notare la similitudine tra quanto appena descritto e il delta equivalent
che viene calcolato per un portafoglio di opzioni. È inoltre facil9
Ovviamente l’estrapolazione dell'impatto sul TEV dal delta è solo un’approssimazione.
10
Esistono nella pratica diverse denominazioni per questa quantità, quella che utilizziamo in questo lavoro ci sembra quella di più immediata percezione.
137
Q U A D E R N I
mente verificabile che la somma dei CTEV è uguale al TEV; infatti,
se poniamo pari ad u il vettore somma, ossia il vettore contenente
tutti uno e di dimensione conforme ad h, abbiamo:
∑ CTEV =u CTEV = u
'
'
i
<h>
i
Σh
Σh
= h'
=σ
σ
σ
(20)
Come abbiamo dimostrato con la (20) il CTEV è sommabile
per cui siamo anche in grado di verificare la concentrazione del rischio oltre che su singole scommesse, anche su aggregati di ordine
superiore come ad esempio settori o paesi. Questa possibilità consente di poter dettagliare meglio e monitorare eventuali policy di
risk budgeting; in particolare le variabili di rischio descritte ci consentono di impiantare dei limiti di risk budgeting quali, ad esempio:
la concentrazione del rischio su una singola scommessa e il grado di
polarizzazione del rischio di portafoglio.
Gli indicatori descritti consentono di valutare la rischiosità del
portafoglio da diversi punti di vista; per valutare invece la coerenza
della composizione del portafoglio con la “view” strategica della Società, si può fare ricorso ad un concetto sviluppato da Goldman
11
Sachs e che in questo lavoro viene applicato in un contesto in cui la
gestione si confronta con un benchmark e che denomineremo Active Market Exposure (AMEX); si noti, infatti, che nel lavoro di Litterman si fa uso del termine Market Exposure ed il termine “Active”
viene tralasciato in quanto non viene fatto un confronto con il
benchmark. Il vettore contenente l’Amex delle singole posizioni in
portafoglio si ottiene con la seguente formula:
Σq
Σb
q' Σb
<q> ' −<b> '
b' Σb
q Σq
b Σb
Amex =
(21)
dove:
q' Σb
b' Σb
è il beta del portafoglio nei confronti del benchmark,
Σq
q' Σq
è il vettore dei beta delle attività presenti in portafoglio
rispetto allo stesso portafoglio e
Σb
è il vettore dei beta delle attività presenti nel benchmark
'
b Σb
rispetto al benchmark. L’Amex è un vettore il cui elemento generico
i-esimo indica quale è il contributo “probabile” alla performance differenziale del portafoglio rispetto al benchmark dato un determinato shock al benchmark; passando ad una notazione scalare ed indicando con bq,b il beta complessivo del fondo, con bi,q il beta della iesima attività rispetto al portafoglio, con bi,b il beta della i-esima attività rispetto al benchmark e con qi e bi rispettivamente il peso nel
portafoglio e nel benchmark della i-esima attività possiamo riscrivere la formula dell’Amex nel seguente modo:
Amexi = bq,bbi,q qi -bi,b bi
(22)
La somma delle Amex di tutte le attività è pari al beta di portafoglio - 1, infatti:
∑ Amex
i
i
= β q , b ∑ βi, q qi − ∑ βi , b bi = β q , b
i
i
∑q σ
i,
i
σ q2
2
i, q
−
∑b σ
i,
i
σ b2
2
i, b
= βq, b − 1
(23)
L’Amex può essere considerata un’ottima proxy della “view” implicita nel portafoglio; essendo sommabile, infatti, possiamo rica11
138
Litterman-Winkelmann(1996).
Q U A D E R N I
vare informazioni su security selection, sector allocation, country allocation ed asset allocation.
La scomposizione del TEV, come abbiamo visto, permette di
analizzare l’utilizzo attivo del budget di rischio; il problema che affrontiamo in questa sezione è relativo all’individuazione dei soggetti/attività che generano tale rischio attivo. In particolare quantificheremo i seguenti rischi:
a) asset allocation risk;
b) country allocation risk;
c) sector allocation risk;
d) security selection risk.
Prima di entrare nel dettaglio dell’attribuzione del rischio occorre introdurre alcuni concetti; consideriamo per prima cosa il
peso nel portafoglio della generica i-esima attività: qi ; tale peso dipende da una serie di decisioni (non importa se esplicite o implicite): (i) il peso deciso per l’asset cui appartiene l’attività i-esima
(qAA,i), (ii) quanto è il peso assegnato, fatto 100% qAA,i, al paese di appartenenza dell’attività i-esima (qCA,i), (iii) quanto pesa all’interno
del paese il settore di “i” (qSA,i) ed infine (iv) quanto pesa l’attività iesima all’interno del suo settore (qSS,i). Vale la pena ricordare che la
gerarchia (a), (b), (c), (d) è contemporaneamente una scelta di comodo e di “buon senso”, ma nulla vieterebbe ad esempio utilizzare
un livello decisionale gerarchico di questo tipo: (a), (c), (b), (d).
A questo punto risulta abbastanza agevole ricavare che:
qi = q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i
(24)
analogamente, per il benchmark abbiamo che:
bi = bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i
(25)
Sempre considerando l’attività i-esima, il suo contributo differenziale alla performance del portafoglio nei confronti del benchmark è ottenibile semplicemente come:
∆Perfi = (qi − bi )π i = (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i
3.2
L’attribuzione del TEV
(26)
dove piè la performance assoluta dell’attività i-esima. Con semplici passaggi algebrici, dalla(26) possiamo ottenere l’attribuzione
12
della performance per tipologia di attività :
∆Perfi = (q AA, i − bAA, i )bCA, i bSA, i bSS , iπ i + (qCA, i − bCA, i )q AA, i bSA, i bSS , iπ i +
AA
CA
+ (qSA, i − bSA, i )q AA, i qCA, i bSS , iπ i + (qSS , i − bSS , i )q AA, i qCA, i qSA, iπ i
SA
(27)
SS
Se consideriamo il nostro vettore di scommesse h=q-b, marginalizzando l’analisi rispetto a pi possiamo ottenere che:
hi = (q AA, i − bAA, i )bCA, i bSA, i bSS , i + (qCA, i − bCA, i )q AA, i bSA, i bSS , i +
AA
CA
+ (qSA, i − bSA, i )q AA, i qCA, i bSS , i + (qSS , i − bSS , i )q AA, i qCA, i qSA, i =
SA
(28)
SS
= hAA, i + hCA, i + hSA, i + hSS , i
e quindi, in forma compatta:
h = hAA + hCA + hSA + hSS
(29)
se consideriamo:
12
Asset Allocation, Country Allocation, Sector Allocation e Security Selection. Cfr.
Appendice B per i passaggi che portano alla (27).
139
Q U A D E R N I
hAA 
 In  1
h 
 I  1
CA
n
hv =  , U =   =   ⊗ In
 hSA 
 In  1
h 
I   
 n  1
 SS 
13
dove n è pari alla dimensione di h, possiamo facilmente ricavare che:
h = U ' hv
(30)
Ricordando che σ = h' Σh , abbiamo tutti gli elementi per ricavare il contributo al rischio attivo del portafoglio determinato dalle
diverse attività/soggetti che intervengono su questo. Innanzitutto,
utilizzando la (30), riscriviamo l’equazione del TEV in modo equivalente nel seguente modo:
σ = hv' UΣU ' hv = hv' Ωhv
(31)
dove:
1
1
Ω=
1
1

1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
⊗Σ
1
1
Come abbiamo visto in precedenza l’equazione (19) ci consente di scomporre il contributo delle varie attività finanziarie al
TEV. Per quanto riguarda la sua attribuzione, possiamo fare uso del
suo equivalente:
CTEVv =< hv >
Ωhv
σ
(32)
dove: CTEVv ha dimensione (4n, 1) e si può quindi scomporre il coefficiente di rischio nelle sue componenti di asset allocation, country allocation, sector allocation e security selection.
L’utilizzo di questa tecnica di attribuzione del TEV per tipologia di attività di investimento, risulta fondamentale per la valutazione di politiche di risk budgeting (in quanto ci permette di valutare dettagliatamente la ripartizione del rischio per attività e funzione) e di monitoraggio circa la coerenza tra il prodotto gestito e lo
stile di gestione che questo dichiara.
4. TEV, TE ed Expected
14
Shortfall
È abbastanza comune che si senta utilizzare indifferentemente il
termine tracking error volatility e tracking error. In questo paragrafo
cercheremo di illustrare quali sono le differenze tra alcuni indicatori
utilizzati di frequente. Partiamo per comodità dalla seguente ipotesi:
rt = µ + ε t , ε t ~ N(0,se)
(33)
dove r rappresenta l’extra-rendimento di una determinata gestione
rispetto al proprio benchmark. Dalla (33) possiamo ricavare le seguenti statistiche:
TEV = se
(34)
15
tracking error volatility, rischio non sistematico
TE = µ 2 + σ ε2
tracking error (radice quadrata del momento secondo)
13
14
15
140
ƒ è il simbolo che rappresenta il prodotto di Kronecker.
Cfr. Leibowitz et al. (1996), pp.128-131.
Cfr. Lee (2000).
(35)
Q U A D E R N I
Expected Shortfall (ES)= m-as
(36)
dove a è funzione dell’intervallo di confidenza prescelto.
Ciò che differenzia fondamentalmente il TEV dagli altri due
indicatori è che il TEV “rimuove” il problema del trend. Questo lo
rende molto “attraente” per un risk management che debba confrontarsi quotidianamente con l’area gestione. Il trend è una questione di pertinenza gestionale e difficilmente può trovare cittadinanza all’interno del risk management. In sintesi la variabile di interesse del gestore è il momento primo della distribuzione (rendimento, trend, ...) mentre il risk manager si occupa del momento
secondo della distribuzione, più precisamente la radice del momento secondo dalla media o TEV. Questo problema vale anche
per altre aree della finanza, come ad esempio il settore bancario
per il quale viene calcolato il VaR; a maggior ragione, nel caso della
valutazione della rischiosità assoluta di un portafoglio, il problema
del “trend” acquista un’importanza maggiore che però viene risolta dai “practitioners” utilizzando dei brevi orizzonti temporali. Il
VaR è molto simile al concetto di Expected Shortfall con l’unica
differenza che non tiene in considerazione il trend. Questo problema causa delle marginali distorsioni se l’holding period è relativamente breve mentre risulta non marginale per orizzonti temporali non brevi, si consideri ad esempio il caso di un Bond per il
quale viene calcolato un VaR che non tiene conto del cost-of-carry.
Un problema rilevante per il risk management è rappresentato dal backtesting. Il risk manager, infatti, deve provare che il modello che utilizza per il calcolo del TEV (il problema è ovviamente
analogo per il VaR) sia corretto, e laddove possibile la sua efficienza, in sostanza non solo il modello è adatto allo scopo ma è anche il migliore.
Da un punto di vista analitico, l’inferenza statistica ci viene incontro con una discreta batteria di test che possono essere implementati. Nella pratica però esistono diversi problemi tali da rendere di difficile interpretazione l’output degli stessi.
Proveremo ad illustrare alcuni test che ci consentono di avere
delle risposte dalla funzionalità del modello utilizzato per poi elencare tutta una serie di problemi che influenzano profondamente
l’affidabilità dei dati utilizzati.
Il primo indicatore utile alla valutazione del modello di rischio
è la cosiddetta “bias statistic”:
BS =
1 T  rt2

2
∑
T t =1  TEVt 
5. Backtesting
(37)
dove: BS è appunto la bias statistic e rt rappresenta l’excess performance del portafoglio rispetto al benchmark.
È abbastanza intuitivo ricavare che:
a) BS =1, la stima del TEV è corretta;
b) BS<1, il TEV è sovrastimato;
c) BS>1, il TEV è sottostimato.
Il vero problema a questo punto è di ricavare l’intervallo di confidenza intorno a 1 per poter dare delle indicazioni sull’eventuale
correttezza della stima del TEV. A questo proposito, si propone di
utilizzare il seguente intervallo di confidenza se si ipotizza normalità
dei residui:
141
Q U A D E R N I
1± 2T
(38)
mentre se si vuole tenere in considerazione il problema della Kurtosis della distribuzione, si può utilizzare il seguente intervallo:
κ − 1)
1± (
T
(39)
dove k rappresenta la Kurtosis della serie storica considerata.
Oltre a valutare la bontà del modello utilizzato per la stima del
TEV, è opportuno anche sottolineare che il TEV è una misura a cui è
associato un intervallo di confidenza. Prendendo un qualsiasi ma16
nuale di statistica , possiamo ricavare che l’intervallo di confidenza
del TEV è ottenibile utilizzando la seguente equazione:
ˆ 2
ˆ 2

TEV
TEV
, (T − 1)
TEV 2 ∈ (T − 1)

q1 
q2

(40)
dove: q1 e q2 sono i valori della distribuzione Chi-quadro in corrispondenza dei valori critici nelle code e TÊV è la stima del TEV.
Per concludere questo paragrafo sul backtesting, evidenziamo alcuni problemi che sicuramente ne limitano le conclusioni. Quello che
si intende sottolineare è che sebbene l’inferenza statistica ci venga incontro con tutta una serie di statistiche, esistono dei problemi che inficiano l’affidabilità dei risultati.
Alcuni dei problemi sono:
a) mispricing (portafoglio vs benchmark);
b) trading;
c) commissioni di gestione ed altri costi che gravano sul prodotto;
d) il TEV è una misura di volatilità locale;
e) errori nel mapping.
I fattori (c) e (e) sono intuitivi, per quanto riguarda invece il fattore (a), è un problema che tutte le Società di asset management si trovano ad affrontare da diversi punti di vista; nel nostro caso specifico, il
problema consiste, ad esempio, nel fatto che non sempre il portafoglio e il benchmark adottano lo stesso sistema di pricing. Il problema è
particolarmente evidente per prodotti obbligazionari che per vincoli
normativi adottano dei prezzi non allineati con quelli dei benchmark
17
sia per i titoli in portafoglio che per i valori dei tassi di cambio . Per
quanto riguarda invece (b), è evidente che l’impatto del trading non
viene registrato dal sistema di risk management specialmente se le posizioni vengono aperte e chiuse tra una rilevazione e l’altra della piattaforma di risk management. Infine, per ciò che concerne il punto
(d), il fatto che il TEV costituisca una misura di volatilità locale impedisce di fare previsioni a “lunga scadenza” sul delta di performance atteso, in quanto il dato disponibile, seppure annualizzato per comodità, è valido per un “piccolo” intervallo di tempo (fino a quando non
cambia la posizione del portafoglio relativamente al benchmark).
Conclusioni
In questo lavoro abbiamo cercato di affrontare le tematiche
principali relative al processo di investimento. Questo è stato descritto come composto da diverse attività di cui due sono state illu16
17
Cfr. W.H.Greene (1993) “Econometric Analysis”.
A volte le attività finanziarie vengono controvalutate dal back office ai fixing BCE
che differiscono dai valori utilizzati dai benchmark.
142
Q U A D E R N I
strate in modo approfondito: l’asset allocation e il risk management.
È tesi fondamentale del presente lavoro che l’attività di risk management sia una attività propria del processo di investimento descritto
sinteticamente come “return-risk management”. Non esiste un
unico approccio al risk management, la piattaforma di rischio deve
essere tarata su misura rispetto al ciclo produttivo (processo di investimento). Abbiamo descritto un approccio parametrico al risk management che, oltre a misurare il rispetto dei limiti di rischiosità attiva, consenta anche di avere gli strumenti adatti per la valutazione di
eventuali politiche di risk budgeting e di verificare la coerenza dei
portafogli con lo stile dichiarato e con le “view” tattiche della casa.
Nell’introduzione al risk management una menzione particolare
merita il discorso fatto circa l’importanza di attività a cui generalmente viene riservato poco spazio: il mapping e la stima dei rendimenti. Queste due attività possono risultare non marginali nel determinare l’alea a cui è sottoposta la stima del TEV.
Infine si è cercato di descrivere la differenza esistente tra vari indicatori di rischio e tecniche e limiti per l’attività di backtesting. È
opinione di chi scrive che l’attività di risk management svolga un
ruolo fondamentale nell’attività tradizionale di generazione delle
performance; di questo si è accorto il mercato del risparmio gestito
negli ultimi due anni. Per quanto riguarda il problema delle metodologie di calcolo del TEV, siamo convinti che sacrificare qualcosa
alla precisione del calcolo, ma ottenere una disaggregazione puntuale dei valori, consente di arricchire gli strumenti di chi deve prendere decisioni a qualsiasi livello nel processo di asset allocation.
In questa appendice proponiamo un insieme di strumenti per
la valutazione dello scenario nel suo complesso e rispetto a singole
view. Per semplicità ipotizziamo che lo scenario delineato non sia
18
“incerto”, ossia ipotizziamo che W = 0 :
−1
E(r g) = r e + ΣS' ( SΣS' ) ( g − Sr e )
(A.1)
il vettore dei log-rendimenti è distribuito per ipotesi secondo una
normale:
Sr ~ N(Sre, SSS')
(A.2)
Inoltre poniamo:
SSS' = M = G L G'
(A.3)
dove: G è la matrice contenente per colonna gli autovettori e L è la
matrice diagonale degli autovalori. Utilizzando congiuntamente la
(A.2) e la (A.3) ricaviamo che:
2
y = Λ−1/ 2 Γ' ( g − Sr e ) ~ N(0,I) ⇒ y' y ∼ χ (k )
(A.4)
Appendice A
Valutazione della coerenza
dello scenario
dove k è il numero di vincoli indipendenti (g). Il test che viene proposto per la valutazione complessiva dello scenario è un chi-quadro:
(g − Sr ) ΓΛ Γ' (g − Sr ) ∼ χ
e '
−1
e
2
(k )
(A.5)
In aggiunta al test sullo scenario, è interessante anche valutare
la relativa importanza delle diverse view sullo scenario. Ad esempio
potrebbe rivelarsi utile quantificare quale view ha maggior impatto
sullo scenario ed eventualmente fare degli approfondimenti sulla
sua natura. È abbastanza chiaro quindi che siamo interessati a fare
analisi di sensitività sulla chi-quadro. È utile prendere in considera18
Cfr. paragrafo 2.2.
143
Q U A D E R N I
zione il delta (derivata prima della chi-quadro rispetto al vettore g) e
il gamma della chi-quadro (derivata seconda) rispetto alle singole
view per poter costruire un’approssimazione di Taylor del secondo
ordine:
k

  1  k / 2  − 12 y' y 
( y' y) 2 −1 
  e
∂χ
2
( g − Sr e ) ' ΓΛ−1Γ '
= −2 
∂g
γ (k / 2)






2
(k)
(delta della chi-quadro) (A.6)
k

  1  k / 2  − 12 y' y 
( y' y) 2 −1 
2
  e
∂ 2 χ (k)
2
 ΓΛ−1Γ ' +
= −2 
∂ g ∂ g'
γ (k / 2)






k/2
 1
1
k
− y' y
 
−1
−1
+2 2
e 2 ( y' y) 2 1 + (k − 2) ( y' y) ×
γ (k / 2)
[
[
]
(gamma della chi-quadro) (A.7)
]
× ΓΛ−1Γ ' ( g − Sr e ) ( g − Sr e )' ΓΛ−1Γ '
Dove:
yi = λ−i 1/ 2γ i' ( g − Sr e ) (li è l’autovalore i-esimo e gi è l’autovettore i-esimo)
∞
γ (k / 2) = ∫ e − t t ( k / 2 −1) dt
(è la funzione gamma con parametro k/2).
0
Appendice B
Derivazione dell'attribuzione
della performance
Partendo dall’equazione (26):
∆Perfi = (qi − bi )π i = (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i
aggiungiamo e togliamo la quantità :
q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , iπ i
∆Perfi = (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i ± q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i =
(q
AA, i
− bAA, i )bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , iπ i + (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i
(B.1)
AA
Indichiamo, per comodità, il primo termine della (B.1) con
AAi. Il secondo passo consiste nell’effettuare una simile operazione
aggiungendo e togliendo la quantità : qAA,i ⋅ qCA,i ⋅ bSA,i ⋅ bSS,iπ i
∆Perfi = AAi +
+(q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i ± q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i =
= AAi + (qCA, i − bCA, i )q AA, i bSA, i bSS , iπ i + (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i
(B.2)
CA
Analogamente a quanto visto in precedenza, il secondo termine della (B.2) verrà indicato con CAi . Di nuovo, aggiungiamo e
togliamo alla (B.2) : qAA,i ⋅ qCA,i ⋅ qSA,i ⋅ bSS,iπ i
∆Perfi = AAi + CAi +
+(q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i ± q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ bSS , i )π i =
= AAi + CAi + (qSA, i − bSA, i )q AA, i qCA, i bSS , iπ i + (qSS , i − bSS , i )q AA, i qCA, i qSA, iπ i =
SA
= AAi + CAi + SAi + SSi
144
SS
(B.3)
Q U A D E R N I
Bevan, A., K. Winkelmann(1998), “Using the Black-Litterman Global Asset Allocation Model: Three Years of Practical Experience”, Fixed Income Research, Goldman Sachs, New York.
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Riferimenti bibliografici
145
Carlo Appetiti
Nextra Investment Management Sgr SpA
Patrizia Bilardo
Nextra Investment Management Sgr SpA
Massimiliano Forte
Nextra Investment Management Sgr SpA
Rischi di credito e rischi
operativi in una Asset
management company
Q U A D E R N I
148
Q U A D E R N I
L’evoluzione del risparmio gestito ha portato ad analizzare con
sempre maggiore approfondimento tutti i fattori che influenzano la
produzione di questo segmento di business.
A questi approfondimenti si è affiancato il crescente interesse
da parte delle Autorità di Vigilanza nei confronti di un settore la cui
operatività influenza sensibilmente la stabilità finanziaria del sistema sociale.
Le aziende che offrono servizi di risparmio gestito stanno assumendo caratteristiche organizzative e strutturali sempre più articolate e complesse senza perdere di vista la necessità di mantenere processi operativi snelli e veloci in maniera da adattare velocemente, anche in senso tattico, le scelte strategiche in relazione ai repentini movimenti del mercato sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta.
Si assiste quindi ad un crescente sviluppo all’interno dell’industry, di attività e professionalità, quali quelle legate all’analisi del
merito di credito che non erano del tutto od erano solo parzialmente presenti nell’industria e che in alcuni casi sono state mutuate
dall’esperienza bancaria ovvero dell’investment banking.
Altre funzioni sono del tutto innovative nel panorama osservato
e nascono per permettere l’analisi e la gestione di problematiche legate ai rischi operativi che fino a tempi molto recenti erano affrontate
nell’industria in generale con modalità molto de-strutturate.
L’obiettivo del presente lavoro è fornire un quadro di riferimento di come una Sgr complessa ed articolata approccia gli
aspetti legati al rischio di credito ed ai rischi operativi e come progressivamente i processi legati a queste attività si sono integrati nell’azienda.
Nella prima parte di questo lavoro esamineremo le problematiche legate al rischio di credito.
Nella seconda parte analizzeremo invece le principali definizioni del rischio operativo e come questa tipologia di rischi, insieme
a quelli direttamente conseguenti ovvero i rischi reputazionali, debbano essere individuati nei processi aziendali per poter essere gestiti
e controllati.
Premessa
A I rischi di credito:
le controparti, i titoli
“critici”, i sistemi
di rating interno
Innanzitutto definiamo il rischio di credito come il rischio legato alla possibilità che una controparte “latu sensu” (emittente,
broker, ecc.) possa non adempiere ai propri obblighi contrattuali
nei confronti di un veicolo di investimento (Fondo, Sicav, ecc.).
Tale inadempimento genera in capo al veicolo due ordini di
problemi:
A.1
Alcune definizioni
149
Q U A D E R N I
a) nel caso si tratti di una controparte intesa come emittente di un asset presente nel veicolo, si verifica un caso
di “default” ovvero di mancato pagamento di cedole o
capitale relativi all’asset e questo genera perdite ovvero
problemi legati alla liquidabilità dell’investimento nel
veicolo all’interno del quale si trova lo strumento osservato;
b) nel caso invece la controparte sia da intendersi come intermediario il quale avrebbe dovuto vendere od acquistare i titoli per i quali si è data apposita istruzione si corrono i seguenti rischi:
1. nel caso di vendita si rischia di aver già consegnato i titoli senza aver però avuto la liquidità derivante dalla
cessione degli stessi. Nel caso invece i titoli non siano
stati ancora consegnati alla controparte inadempiente
si rischia di dover vendere un titolo ad un prezzo meno
favorevole del prezzo stabilito per la vendita iniziale in
caso di discesa dei corsi;
2. nel caso dell’acquisto oltre al caso in cui la liquidità sia
già stata consegnata ma non si ottengano i titoli oggetto
della richiesta di acquisto, può anche presentarsi il caso
in cui pur mantenendo la liquidità, si incorre in un
esborso maggiore per l’acquisto del medesimo asset attraverso una controparte differente, a causa di movimenti di mercato sopraggiunti tra quando la controparte non ha adempiuto e quando si è identificata una
controparte alternativa cui si è dato ordine di eseguire
l’acquisto cui non era inizialmente stato dato seguito
dalla controparte inadempiente.
A seguito di quanto detto si rende necessario seguire puntualmente tutti gli eventi legati all’insolvenza od all’inadempimento
della controparte.
In questo intervento ci interesseremo di tutte le attività legate ai
due punti sopra specificati e forniremo specifici approfondimenti
sugli strumenti che possono essere definiti ed adottati all’interno
della Sgr (ad es. sistemi di “rating interno”) per mitigare soprattutto
i rischi insiti nei primi due punti precedenti.
In questa sede non intendiamo approfondire le tematiche relative al rischio di credito legato al possibile “downgrading” di emittente, che però costituisce un altro degli aspetti integranti della gestione del rischio di credito. Nel caso invece di “downgrading” della
controparte si può prevedere una revisione degli affidamenti concessi ovvero una momentanea limitazione dell’operatività con la
controparte.
È nostra opinione che le controparti da analizzare/valutare
e monitorare siano tutte, comprese le controparti utilizzate per
operatività di acquisto/vendita titoli su base di delivery-versus-payment. Questa clausola prevede tecnicamente che la consegna dei
titoli debba avvenire contestualmente al pagamento degli stessi,
ma vi sono alcuni mercati all’interno dei quali non accade esattamente questo e quindi possono verificarsi dei “salti” temporali tra
i momenti di adempimento delle controprestazioni. In tal caso, il
rischio di credito derivante dalle fluttuazioni di mercato è principalmente costituito dalla differenza fra il valore della prestazione
150
Q U A D E R N I
che la Sgr è obbligata a pagare e il valore corrente della controprestazione che la controparte è obbligata a pagare.
Questa differenza determina pertanto un rischio di credito,
rendendo necessario valutare e monitorare anche le controparti utilizzate per tale attività.
Infatti, come si anticipava, il principio della simultaneità nell’operatività su base di delivery-versus-payment non è assicurato in tutti i sistemi di clearing, (per es. mercati russi fino a due mesi a sfavore del
venditore e mercato cipriota tre giorni a sfavore del venditore) e i
differimenti temporali producono una componente addizionale di
rischio di credito, propria dell’attività su base free-of-payment.
Figura 1
Dopo aver identificato le principali tipologie di rischio di credito che si intende monitorare ed alcune modalità tecniche che
regolano l’operatività, esaminiamo velocemente i riferimenti normativi che rendono necessario il monitoraggio delle controparti e
quindi innanzitutto del rischio di credito.
La società di gestione risponde (anche giuridicamente) per la
scelta delle controparti, in relazione ai fondi gestiti direttamente
oppure la cui gestione è stata conferita in sub-delega a gestori terzi;
tale scelta deve essere effettuata con la c.d. diligenza professionale.
La Banca d’Italia, nel regolamento sui Fondi Comuni di Investimento emanato il 20.9.99, richiede che le controparti siano
in possesso di determinati requisiti quali per esempio l’elevato
standing e siano sottoposte alla vigilanza di autorità pubblica.
Ciò è espressamente richiamato, con riferimento all’operatività in strumenti finanziari derivati ed altre operazioni a termini
Nella Sezione II, Paragrafo 4.1.2.
La stessa Banca d’Italia nella Circolare n. 155 del 18 Dicembre 1991 e successivi aggiornamenti fino al IX del 12 Aprile 2000,
relativi alle “Istruzioni per la compilazione delle segnalazioni sul patrimonio di vigilanza e sui coefficienti prudenziali” per le banche, affronta il tema del rischio di controparte imponendo nella sezione
7, sottosezione 1, capitolo 1.3., paragrafo 1.3.1.3, requisiti patrimoniali ben precisi da determinarsi in relazione alla natura della
controparti. In sintesi:
A.2
Riferimenti normativi
151
Q U A D E R N I
Figura 2
A.3
I processi di analisi
e controllo
Tenuto conto di queste definizioni, il processo che è stato definito
all’interno di Nextra Investment Management Sgr prevede l’assegnazione in capo ad uno specifico Settore interno all’Area risk management, dell’analisi delle controparti (in particolare “brokers” nell’accezione comune e più in generale controparti di mercato). Questo settore ha il compito di approfondire le caratteristiche strutturali ed operative delle controparti di mercato (mediante analisi della compagine
societaria, analisi finanziaria, analisi del posizionamento strategico - ossia quota di mercato, competitors ecc., ecc.) con l’obiettivo di giungere
alla definizione di una proposta di operatività con la controparte analizzata con delle specifiche quantificazioni numeriche suddivise per tipologia di strumento finanziario (c.d. “soglie operative massime”).
Tali limiti vengono condivisi mediante appositi flussi all’interno dei luoghi aziendali (Risk Management, Comitati) deputati
dal punto di vista organizzativo a fare le necessarie proposte al CdA
della Società il quale è l’unico organo decisionale in grado di poter
concedere alle aree gestorie di operare o meno con determinate
controparti di mercato.
L’analisi delle controparti ai fini di un possibile affidamento
delle stesse non avviene soltanto con questo obiettivo e quindi con
periodicità legate alle esigenze che si manifestano, ma viene ripetuta
annualmente, ed ove necessario periodicamente per verificare che
le condizioni che hanno portato all’affidamento siano ancora presenti ovvero non siano mutate a seguito di accadimenti intercorsi.
L’affidamento alle controparti può anche essere ridotto od
addirittura ritirato qualora si verifichino modifiche ad esempio in
ordine alla catena di controllo di una delle controparti affidate che
facciano temere che in caso di inadempimento legato a qualsiasi
motivazione, possa non esservi sufficiente garanzia per riparare all’inadempimento.
A.4
Il processo di valutazione
ed i sistemi di Rating
Interno
Il processo di valutazione avviene tenendo conto principalmente dei seguenti elementi messi a disposizione dalla controparte
di mercato (la lista non è da considerarsi esaustiva):
• qualità delle risultanze economico finanziarie e dei relativi indicatori di performance economico finanziaria e di
152
Q U A D E R N I
struttura finanziario patrimoniale;
• chiarezza e completezza dell’informativa di bilancio, reputazione e disponibilità del management, struttura organizzativa;
• informazioni sui paesi di appartenenza e sui mercati in
cui le controparti sono coinvolte;
• eventuali garanzie o lettere di supporto emesse da società
garanti su richiesta;
• pegni (“Collaterals”) a garanzia di specifiche operazioni
emesse su richiesta.
Uno degli aspetti che qualificano il processo di valutazione è la
definizione di requisiti minimi della controparte di mercato: ciò
consente di raggiungere una notevole rapidità con cui, una volta impiantato, può essere condotto un primo livello di indagine che
“scremi” in brevissimo tempo uno “strato” di controparti che non
possiedono neanche i requisiti minimali per cui valga la pena approfondire le loro caratteristiche finanziarie ed operative.
Il processo di assegnazione del rating (che si basa sulla definizione di un sistema di rating interno), segue la fase del completamento dell’analisi e della valutazione della controparte.
In sintesi, il Sistema di Rating Interno:
• costituisce l’elaborazione finale e sintetica dell’insieme
dei processi di valutazione delle controparti;
• permette di determinare la soglia operativa massima (l’affidamento complessivo) di ciascuna controparte di mercato sulla base del rating interno assegnato e del patrimonio della controparte di mercato. Tale “soglia” è suddivisa
per tipologia di linea di trading (l’affidamento per strumento
finanziario tiene conto delle caratteristiche della controparte - a titolo di esempio la controparte deve essere in possesso delle caratteristiche minime richieste dalle procedure interne ma anche da
Banca d’Italia per operare in determinati strumenti finanziari);
• permette una più razionale ed efficiente allocazione delle
linee di credito (limitando quindi il rischio di concentrazione dell’operatività con poche controparti).
Questo processo può essere utilizzato, mutatis mutandis, non soltanto per le controparti di mercato, ma anche per le controparti da
intendersi come emittenti, ancorché questo compito sia attribuibile
più facilmente all’Area che ha la responsabilità della gestione.
Il principio che Nextra Investment Management Sgr ha seguito
nella definizione dell’esposizione creditizia per gli strumenti finanziari contenuti e negoziati all’interno dei veicoli di investimento gestiti, si basa sulla determinazione delle due seguenti componenti:
i) il costo di sostituzione,
ii) un “Add On” (=Esposizione potenziale) che approssima il
time value, ossia la probabilità che l’esposizione creditizia
corrente possa nel tempo aumentare e se negativa, possa
trasformarsi in una posizione creditoria (Esposizione Corrente = Costo di Sostituzione + Esposizione potenziale).
• L’esposizione creditizia è monitorata giornalmente per
verificare che le soglie operative massime, suddivise per tipologia di linea di trading e stabilite a seguito del processo di
assegnazione del rating interno, non siano superate.
A.5
Misurazione
del Rischio - Esposizione
e ponderazioni
di strumenti finanziari
153
Q U A D E R N I
Sono stati definiti ed applicati dei sistemi che permettono in
tempo semi-reale, con brevissimi sfasamenti di aggiornamento nell’arco della giornata, il monitoraggio dei limiti di esposizione con le
controparti definiti.
I gestori di portafoglio sin dalla fase di pre-imputazione dell’ordine NON possono utilizzare controparti di mercato che non siano
state preventivamente autorizzate dal CDA della Società.
Inoltre vengono assegnati dei limiti all’operatività (appunto le
sopra richiamate “soglie operative massime”) che sono maggiormente stringenti rispetto a quelli approvati dal CDA.
Nel seguito sono riepilogate, nelle figure 3, 4 e 5 della pagina
successiva, le principali considerazioni effettuate all’interno di questo paragrafo.
A.6
La contrattualistica
finanziaria
Il rischio di credito relativo all’operatività di investimento/disinvestimento in strumenti finanziari con le controparti di mercato
viene mitigato anche con il perfezionamento di contratti finanziari
che hanno anche come scopo accessorio la riduzione dei rischi operativi e che in estrema sintesi mirano a:
i) definire puntualmente i flussi operativi spettanti alle diverse parti contrattuali,
ii) prevedere le “azioni da intraprendere” in caso di occorrenza di anomalie; e
iii) in taluni casi ottenere, a corredo del contratto, garanzie.
La struttura organizzativa di Nextra Investment Management
Sgr prevede l’assegnazione in capo al risk management della negoziazione della contrattualistica finanziaria quale i contratti ISDA (a
copertura dei rischi relativi all’operatività in derivati ed in valuta),
ISMA (a copertura dei rischi relativi per l’operatività in titoli e principalmente pronti contro termine e sell/buy back of securities),
Give-up (per l’attività sui futures), ecc.
Per arrivare a quantificare il volume di operatività attribuibile
alle singole controparti, la Società ha definito internamente uno
specifico sistema c.d. di “Rating Interno” di cui si è detto al paragrafo A.4).
A.7
Gestione degli
“investimenti critici”
Gli “investimenti critici” sono investimenti per i quali le condizioni di particolare criticità di mercato ovvero dell’emittente stesso
possono riflettersi in misura assai più pronunciata rispetto alle generali proprietà finanziarie degli investimenti. Tale pronunciata caratterizzazione produce una necessità di gestione ad hoc degli investimenti, focalizzata sulle richiamate condizioni di criticità piuttosto
che sulle interazioni con gli altri investimenti del portafoglio in cui
gli investimenti indicati sono allocati.
In altre parole, gli investimenti critici sono investimenti per i
quali risulta più proficua una gestione individuale (risk position management) rispetto ad una gestione di portafoglio.
Una elevata concentrazione di questi investimenti si verifica all’interno di veicoli dedicati, quali ad esempio i prodotti cosiddetti
“high yield” od ancora, soprattutto nel recente periodo, nelle asset
classes cosiddette “corporate”. Sia per gli emittenti “High Yielders”
che per gli emittenti corporate (che non sempre coincidono) il contributo offerto dalle Agenzie di Rating indipendenti (ove presente),
potrebbe non essere sufficientemente tempestivo nell’individuare il
154
Q U A D E R N I
Figura 3
Figura 4
Figura 5
155
Q U A D E R N I
rapido deterioramento delle condizioni economico-patrimoniali
dell’emittente.
Nel caso dei veicoli di gestione del risparmio, per questa tipologia di strumenti si rende necessario un livello di attenzione addirittura maggiore rispetto a quello riservato agli altri strumenti (quali
ad esempio i titoli governativi di Aree consolidate) anche in ordine
alla loro valorizzazione all’interno dei patrimoni. Deve pertanto essere assicurato un processo decisionale estremamente veloce nel
caso di tali titoli che anche qualora si verifichino forti ed improvvise
oscillazioni di mercato ovvero accadimenti imprevisti permetta di
definire per gli stessi un prezzo di valorizzazione congruo.
Questa tipologia di titoli deve essere sottoposta ad un attento
processo di analisi e valutazione continuo e ad hoc. In particolare il
Settore preposto ad occuparsi di questa tipologia di titoli ha la capacità di concentrarsi sulla “gestione” del singolo titolo in possesso di
caratteristiche critiche che risultano particolarmente accentuate rispetto alle caratteristiche degli altri titoli presenti nel portafoglio.
Tale processo però deve vedere coinvolti anche i gestori con i quali il
risk management deve instaurare una comunicazione costante.
A nostro avviso è opportuno che la gestione di tali posizioni
spetti ad un Settore indipendente dall’Area Investimenti con un duplice obiettivo:
1) da un lato l’eliminazione di possibili conflitti di interesse
che potrebbero presentarsi qualora il gestore si trovasse
in difficoltà a gestire ad esempio il default di un asset da
lui/lei stesso acquistato;
2) dall’altro la maggiore concentrazione che per singole posizioni può avere un Settore esterno che si dedicherebbe
anche ad affrontare questioni di natura legale per le quali
il team dedicato alla gestione potrebbe non avere competenze specifiche.
Sinteticamente si espone di seguito una prima ipotesi che delinea il processo di analisi e valutazione dei titoli critici che potrebbe
essere implementato all’interno di una Sgr:
a) innanzitutto viene raccolta la popolazione di tutti i titoli
presenti nei portafogli gestiti all’interno dei vari prodotti
(Gestioni collettive, gestioni individuali, ecc.).
b) Ad ognuno di questi titoli, che ancora non sono quindi
annoverati come “critici”, vengono associati i principali
indicatori finanziari economico patrimoniali dell’emittente in oggetto. A questi sono affiancati anche indicatori
specificamente riferibili al prodotto all’interno del quale
si trovano (ad es.: nome e caratteristiche sintetiche del
prodotto, caratteristiche del benchmark, peso del titolo
analizzato all’interno del prodotto) e ove presenti i rating
assegnati dalle principale Agenzie di rating.
c) Dopodiché si procede con l’effettuazione di uno screening
delle grandezze economico finanziarie che sono state associate (e.s. utile/perdita operativa, utile/perdita netta, patrimonio netto, ROE, ecc) anche per comprendere le specifiche situazioni in cui le società emittenti possano trovarsi
(es: Chapter 11, default, situazione contabile critica ecc).
Ciò costituisce un primo tentativo di identificare, sulla base
di tali risultanze, quanto possa essere distante il momento
156
Q U A D E R N I
in cui ad esempio per una Società può essere dichiarato il
fallimento ovvero se vi è la probabilità che il debito della Società possa non essere onorato dalla stessa od ancora se l’eventuale difficile situazione contabile possa negativamente
influire sull’andamento della società.
d) Nel contempo sono analizzate ed approfondite le situazioni che riguardano gli investimenti di maggiore interesse e rilevanza all’interno dei prodotti gestiti.
e) Dopo aver identificato le situazioni maggiormente critiche,
mediante un processo che non è statico ma bensì iterativo,
si perviene ad identificare tre macro-categorie di prodotti
che vengono osservati. Una prima categoria contiene i cosiddetti “titoli critici gravi” ovvero quei titoli per i quali o ci
sono già situazioni di insolvenza dichiarate e verificatesi ovvero titoli per i quali vi sono procedure concorsuali/fallimentari già cominciate e si rende pertanto necessario seguire puntualmente l’evoluzione delle soluzioni giudiziali
ed extra-giudiziali nel rispetto della tutela dei sottoscrittori
dei prodotti all’interno dei quali tali asset si trovano.
Una seconda categoria è costituita dai “titoli critici” che
pur non integrando le fattispecie di cui alla prima categoria stanno presentando nella loro “vita finanziaria” i primi
segnali di possibile insolvenza (ad esempio, nel caso dei
prestiti obbligazionari, il mancato pagamento di alcune
cedole) oppure appartengono a gruppi in fase di ristrutturazione a causa delle condizioni precarie di solvibilità
ovvero appartengono ad aree operative sottoposte a particolari stress di mercato.
Una terza categoria contiene quei titoli che presentano, allo
stato delle cose, un peso rilevante all’interno dei prodotti gestiti e nel contempo evidenziano indicatori reddituali/patrimoniali non eccellenti che possono far ritenere altamente
probabile il verificarsi di situazioni di difficoltà per la Società
emittente. L’iter che porta un titolo ad essere giudicato “critico” è composito e non standard, ma si basa sull’utilizzo di
tutte le infos disponibili in qualsiasi momento quali, a puro titolo esemplificativo, “warnings” di rating agencies, analisi
dell’andamento degli scambi e dei prezzi, ecc.
f) Dopo aver effettuato l’identificazione dei titoli ed aver quantificato la rischiosità connessa alle posizioni medesime, viene
diffusa l’informativa correlata che evidenzia le caratteristiche salienti degli stessi titoli indicando i prodotti all’interno
dei quali tali asset si trovano. Nel contempo, come anticipato, nel caso di titoli in default o prossimi allo stesso, la gestione viene virtualmente “spossessata” da queste posizioni
in quanto per questi è necessaria una “osservazione/monitoraggio” individuale e come già accennato, potrebbero
crearsi potenziali situazioni di conflitto di interesse.
g) Da questo momento le decisioni relative alla gestione di
tali titoli passano in carico ad uno dei Comitati presenti in
azienda che, con il supporto di uno dei Settori del risk management dedicato, ha il compito di porre in essere tutti
gli interventi necessari alla gestione di queste posizioni
(alienazione dei titoli ove possibile; negoziazione con l’e157
Q U A D E R N I
mittente in ordine alle possibilità di rientro o ridefinizione delle caratteristiche del debito che potrebbero permettere il rientro delle somme secondo un determinato
piano finanziario; negoziazione con gli altri “holders” del
titolo in ordine a possibili condizioni di alienazione contestuale ovvero uscita comune dalla posizione). Uno dei
momenti più importanti, in presenza di tali posizioni critiche, è la definizione della valutazione della posizione
stessa che deve essere comunicata ai Settori aziendali che
si occupano della valorizzazione delle posizioni.
A.8
Ulteriori fattori
di potenziale mitigazione
del rischio
di controparte e
di alcuni rischi operativi
Tra i possibili fattori mitiganti il rischio di credito che possono essere definiti all’interno della Sgr possiamo identificare la presenza del
c.d. “trading desk” ovvero di uno specifico settore aziendale con il
compito di dare esecuzione sul mercato alle indicazioni di investimento/disinvestimento che provengono dall’area dedicata alla gestione. A questo desk viene tipicamente affidato il compito di scegliere
le condizioni di mercato maggiormente favorevoli all’esecuzione degli ordini ed in alcuni casi possono addirittura essere affidate le scelte
di “stock picking” ove le indicazioni provenienti dall’Area di gestione
siano guidate principalmente dalla necessità di sovrappesare/sottopesare un’area od un settore rispetto ad un’altra/altro.
Tale desk potrebbe fornire un ulteriore contributo alla riduzione
del rischio di controparte e di alcuni rischi operativi dal momento che
la costante presenza sul mercato può permettere di raffinare quotidianamente la conoscenza delle controparti che offrono il servizio migliore e quindi di perseguire obiettivi quali quello della “best execution”,
della completezza e rapidità nell’esecuzione dell’ordine.
B Il rischio operativo
e i rischi reputazionali:
i processi
maggiormente coinvolti
B.1
Alcune definizioni
e lo stato dell’arte
sul rischio operativo
I rischi operativi: una definizione
158
È ormai chiaro a tutti gli addetti ai lavori il forte interesse ed
il diretto coinvolgimento della Vigilanza su tale argomento. È
chiaro inoltre come i modelli organizzativi delle aree di risk management si stiano evolvendo verso l’individuazione di una figura
specifica, facente capo al responsabile ultimo del risk management, che si occupi di operational risk management e di tecniche
e metodologie di misurazione (risk mapping, definizione dei key
risk indicators, quantificazione delle perdite e conseguente definizione di modelli previsionali per l’identificazione del rischio
operativo potenziale al fine della revisione ed aggiustamento dei
processi più critici ovvero dell’eventuale sottoscrizione di apposita polizza assicurativa).
“The most important types of operational risk involve breakdowns in internal control and corporate governance. Such breakdowns can lead to financial losses through error, fraud or failure to perform in a timely manner or
cause the interest of the bank to be compromised in some other way, for example, by its dealer, lending officers or other staff exceeding their authority or conducting business in an unethical or risky manner. Other aspects of operatio-
Q U A D E R N I
nal risk include major failure of information technology systems or events
such as major fires or other disaster”.
Basel Committee - Operational Risk Management - September 1998
Il Comitato di Basilea ha approfondito le tematiche afferenti il
rischio operativo con specifico riferimento alle Istituzioni Finanziarie considerate nel loro complesso.
All’interno dei documenti del Comitato si fanno brevi cenni
anche all’approccio che si dovrebbe tenere con riferimento alla
quantificazione del Rischio Operativo per l’Asset Management. A
monte di tutto sta la concezione del business dell’Asset Management
come strettamente controllato dalla Capogruppo di emanazione
bancaria, il che è particolarmente vero nell’industria italiana.
Quindi anche l’Asset Management, ancorché attività considerata
storicamente “low capital intensive” assorbe capitale.
Questo assorbimento può aumentare sia a causa dell’aumento
1
dei prodotti a rendimento garantito , sia a causa dell’insorgere di rischi operativi come di seguito descritti che possono causare danni
economici per ripianare i quali la Sgr stessa può essere chiamata ad
intervenire con il proprio patrimonio.
Il Rischio operativo è, in estrema sintesi, la possibilità che si manifestino perdite finanziarie in capo alla Sgr derivanti da:
• fattori interni (breakdown o inadeguatezza dei processi, errori umani o frodi, breakdown dei sistemi informativi,
mancato rispetto di leggi e regolamenti, ecc.);
• fattori esterni all’azienda (nuovi competitors, cambiamenti
regolamentari, eventi naturali, ecc,).
Non esiste peraltro una allocazione unica e delineata staticamente di questo tipo di rischio, dal momento che questo è presente
a tutti i livelli aziendali.
Si sottolinea che questa classificazione ricomprende fattori di
rischio non univocamente delineati dal Comitato di Basilea.
Nextra Investment Management Sgr ha costituito all’interno
della propria Area di Risk management un Settore che si occupa specificamente di Operational Risks oltre che di attività di Compliance.
Con il termine Compliance si identificano, in estrema sintesi, tutte
quelle attività volte a verificare che all’interno dell’Azienda vengano
osservate le regole deontologiche, comportamentali e tecniche dettate sia da Authorities esterne che da regolamenti interni.
Si badi che il Compliance Officer non è il responsabile della
Funzione di Controllo Interno: infatti la caratteristica fondamentale che distingue le due figure è la sistematicità e quotidianità
con cui il Compliance Officer svolge le proprie attività di verifica e
controllo rispetto a tempistiche periodiche tipiche del ruolo del
Controllo Interno, oltre a quanto la normativa stessa prevede per
quest’ultima funzione.
Compito del Compliance Officer, quindi, dedicando parte del
suo tempo anche all’Operational Risk Management, è quello di
individuare le fonti di Rischio operativo e di governare il processo
di gestione di tale rischio, interagendo con l’Organizzazione
aziendale in maniera tale da definire un insieme di attività e di
controlli a presidio.
1
B.2
L’Operational Risk
Management
e la Compliance
Innovazioni di prodotto recentemente ammesse dalla normativa di Settore.
159
Q U A D E R N I
Figura 6
Cosa si intende per Operational risk management
Op
er
at
ivi
Insieme di attività volte alla:
isc
hi
Mediante
de
iR
- individuazione
ga
iti
M
- monitoraggio di tali rischi
tio
n
- valutazione
B.3
Perché è importante
l’Operational Risk
Management
nell’Asset Management:
la valutazione dei rischi
e la gestione del rischio
operativo
Questo tipo di attività deve assumere sempre maggiore rilievo
all’interno dell’ Asset Management per un insieme di ragioni che
proviamo ad esporre sinteticamente di seguito:
a) la sempre più elevata interconnessione dei processi di
front/back;
b) il principio della tutela del risparmio ribalta sulla Sgr gran
parte degli errori operativi (errori nel calcolo del Net Asset
Value, errata valorizzazione dei titoli etc.);
c) la velocità di creazione di nuovi prodotti/servizi in un’industria come quella dell’asset management, alla ricerca
di fattori di stabilità contro la ciclicità dei mercati per i sottoscrittori e per l’azionista, può essere una fonte di rischio
non immediatamente percepibile (c.d. “hidden risk”).
La gestione del rischio operativo deve essere effettuata mediante modelli organizzativi che rispecchino l’enfasi data dal Comitato di Basilea ai principi e criteri di controllo del rischio.
In particolare tre sono le linee di controllo e difesa del rischio:
a) ogni Linea di Business è responsabile della gestione dei
propri rischi;
b) è indispensabile una funzione indipendente che garantisca la gestione integrata delle differenti tipologie di rischio (risk management);
c) è necessaria una funzione che raccolga e consolidi informazioni oggettive sul livello di rischio assunto (Risk Controlling).
Figura 7
La valutazione dei rischi deve essere fatta stimando gli impatti
potenziali legati al verificarsi degli scenari sfavorevoli più probabili
Tools: matrice
decisionale del Rating
di Probabilità
Rischi da gestire
identificati
Identificazione/
generazione del
worst case
scenario (evento)
per ogni rischio
Valutazione
frequenza/
probabilità di
accadimento
X
Valutazione
impatti potenziali
Tools: matrice
decisionale del Rating
degli Impatti
160
Valutazione
importanza dei
rischi da gestire
Q U A D E R N I
La recente iniziativa del Comitato di Basilea che ha richiesto
l’invio dei “Qis3” (Quantitative Impact Study Loss Data Collection
n.3) ha richiamato l’interesse per un’analisi in profondità dei singoli
eventi di perdita sulla base dei quali le aziende classificano le perdite
operative. Sono quegli eventi/riferimento che raccolgono in categorie ogni possibile circostanza capace di procurare una perdita
operativa all’azienda.
Passandoli velocemente in rassegna è possibile qualificarli così
tenendo a riferimento la figura che segue questa enunciazione:
Eventi legati a comportamenti dolosi - anche di terzi - e all’ambiente
di lavoro (Categorie 1-2-3)
Sono eventi presenti in ogni azienda produttiva, ma nelle
aziende che “curano” i risparmi dei cittadini e che prestano loro servizi sulla base di un rapporto “fiduciario”
hanno sempre goduto del privilegio della massima riservatezza sotto la motivazione dei gravi riflessi sull’immagine aziendale e sulla percezione di “sicurezza” della
clientela e degli stessi dipendenti.
Soluzioni implementabili
• Identificazione di limiti operativi;
• separazione tra il momento della formazione della decisione e quello della sua esecuzione, ad esempio istituendo un execution desk, svincolando il gestore dal rapporto diretto con il broker;
• reclusione dell’accesso dall’esterno ai server aziendali;
• presidi oggettivi e non soggettivi (ad es. stesura e diffusione in azienda di codici etico/comportamentali riferibili ad ogni singolo dipendente per ogni ruolo aziendale;
definizione di procedure il cui funzionamento non sia
unicamente legato ai livelli di responsabilità/autorizzativi
dei singoli, ma siano il più possibile “oggettive”).
Eventi legati al rapporto con la clientela (Categoria 4)
È la prima categoria per numero di sottocategorie, a dimostrazione della necessità di qualificare le fattispecie di
eventi in stretta relazione con uno degli “asset” fondamentali di una impresa di Asset Management. Sono
eventi legati anche a errori nelle fasi prodromiche all’instaurazione del rapporto (attività di consulenza, politiche
di individuazione e affidamento).
Soluzioni implementabili
• Identificazione e definizione di procedure di contatto
con la clientela;
• introduzione di severi processi di classificazione della
clientela;
• customer relationship management.
Eventi legati al grado di qualità dell’investimento IT (Categorie 5-6)
Sono eventi che riflettono la qualità degli investimenti in infrastrutture tecnologiche (spesso sottovalutati nelle Sgr) e la
loro capacità di assorbire e di proteggere gli asset aziendali.
Soluzioni implementabili
• “IT mission strategica”, ovvero interpretazione dell’IT
non più come funzione meramente strumentale al business, ma come fulcro della veicolazione dei nuovi processi
e come “collante” delle attività “front/middle/back” e di
B.4
Le recenti iniziative
del Comitato di Basilea
161
Q U A D E R N I
parte dell’informativa verso l’esterno (Risk, rendicontazione, Vigilanza, ecc.);
• flessibilità ed adattabilità delle soluzioni informatiche
identificabili
Eventi legati al funzionamento della filiera produttiva (Categoria 7)
Sono quelli legati ai processi, alle fasi della produzione.
Soluzioni implementabili
• Ridefinizione del modello organizzativo;
• ridefinizione od affinamento delle procedure;
• sistemi informativi;
• innalzamento del livello di comunicazione interaziendale (processi di knowledge management).
Un punto fondamentale da considerare è che il rischio operativo, proprio per la sua natura, è un rischio che non può essere eliminato dal naturale svolgimento di un’azienda quale essa sia. Pertanto, nei suoi confronti si possono unicamente definire delle tecniche di mitigazione che devono vedere coinvolta “in primis” l’Alta Direzione e conseguentemente devono permeare tutti i processi aziendali nella loro definizione e nel loro svolgimento.
Figura 8
Sommario e conclusioni
162
In questo lavoro abbiamo presentato un veloce excursus delle
principali metodologie di gestione e monitoraggio del rischio di controparte evidenziandone gli elementi di processo distintivi nonché alcune peculiarità legate all’attività di controllo e gestione dei “titoli critici”. Abbiamo anche fornito un possibile indirizzo operativo per la
definizione di un sistema di “Rating interno”. Nella seconda parte del
lavoro abbiamo affrontato la problematica del Rischio operativo e di
come questo vada considerato in una Società di Asset Management
per poterlo definire e gestire in tutte le sue manifestazioni e quindi
per poterlo quantificare in maniera il più possibile precisa.
Le conclusioni cui possiamo giungere dopo questa breve disamina vogliono ribadire la necessità di investimenti in termini di strumenti di analisi e di risorse umane specializzate per la gestione delle
tipologie di rischi osservate. Il nostro lavoro non intende essere esaustivo della ricchezza di attività e di idee presenti su questi argomenti,
ma intende fornire alcuni spunti metodologici e di riflessione all’in-
Q U A D E R N I
dustria del risparmio gestito in relazione al rilievo che questa ed i
suoi processi di gestione e controllo assumono all’interno del sistema economico.
Rischi operativi
ABI - Position paper del Settore Bancario Italiano sul documento
“Sound Practice for the Management and Supervision of Operational risk”,
Marzo 2002
ABI - Position paper del Settore Bancario Italiano sul documento “Working paper on the Regulatory Treatment of Operational risk”, Novembre 2001
AA.VV., Speciale Basilea 2001 - Rischio di credito e rischio operativo, n. 4
mensile “Bancaria” (Bancaria Ed.)
Basel Committee Publications, Sound Practices for the Management and
Supervision of Operational Risk, No. 91, July 2002
Basel Committee, Operational Risk Management, BIS -, September 1998
Amanat Hussain, Managing Operational Risk in Financial Markets, Butterworth Heinemann Gennaio 2002 Ges
F. Metelli, Risk Management nel risparmio gestito, Milano, 5 giugno 2002
Convegno ASSIOM, La Gestione del Risparmio: dal Prodotto al Servizio
Gerrit Van Den Brink, Operational risk. The new challenge for banks, Palgrave, Gennaio 2002
Il sito di IFCI Risk watch (http://risk.ifci.ch/index.htm). Raccolta di documenti Iosco, BIS, Comitato di Basilea
Il sito Risk Publications (http://www.riskpublications.com/). Sito contenente una completa raccolta di riviste, giornali e libri inerenti la tematica del controllo e della gestione dei rischi finanziari
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Gordon, M., The investment, financing and valuation of the corporation,
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Guatri, L., Valore e “intangibles” nella misura della performance aziendale,
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Financiers), Recommandations sûr les procédures à suivre par les experts
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Riferimenti bibliografici
163
Carlo Appetiti
Nextra Investment Management Sgr SpA
Il Risk management in
una Asset management
company: la diffusione
della cultura e la nuova
informativa direzionale
Q U A D E R N I
166
Q U A D E R N I
I modelli organizzativi delle società di Asset Management sono
diventati progressivamente più complessi. Nei casi di società di matrice internazionale si assiste anche alla differente localizzazione di
diverse unità operative che fanno parte della medesima “fabbrica”
1
che può a sua volta trovarsi in un altro Paese .
Ciò impone la creazione e la gestione di meccanismi di governo
e di controllo sempre più articolati ed in grado di permettere una
operatività snella a tutti i livelli.
Uno dei “fattori della produzione” di ogni industria e quindi
anche dell’industria dell’Asset Management è appunto la gestione
del rischio. Questa attività è da intendersi non tanto come mera attività di controllo, ma come attività gestoria vera e propria.
Nel prosieguo del lavoro esamineremo alcune metodologie di
analisi della rischiosità in uso presso una società di Asset management unitamente alla tipologia di reportistica che può essere diffusa. Va detto che buona parte di queste metodologie sono state mutuate dalle realtà dedicate all’investment banking, dove storicamente l’attività di risk management ha preso piede in periodi precedenti. Ciò ha permesso quindi il progressivo sviluppo di tecniche e
modalità di gestione del rischio soprattutto legate al rischio di mercato ed al rischio di credito.
Illustreremo inoltre alcune metodologie di scomposizione di
uno dei rischi sottoposti ad analisi ovvero il Market Risk e forniremo
alcuni esempi sintetici di reporting direzionale/operativo per comprenderne l’importanza soprattutto all’interno di un’organizzazione articolata.
Premessa
Caratteristica propria del business di Asset Management è rappresentata dal fatto che il prenditore di rischio di prima istanza
(“risk taker”) è il sottoscrittore. Questo soggetto decide come allocare il proprio capitale in maniera autonoma e spesso con il contributo di consulenti, promotori, addetti di filiale, ecc. In linea teorica
il sottoscrittore dovrebbe manifestare le proprie preferenze in funzione dei propri obiettivi di investimento anche se la pratica ha dimostrato come non sempre questo accada.
Il concetto che sta alla base dell’attività di gestione del rischio
all’interno dell’Asset management è la consapevolezza che proprio
perché il patrimonio gestito non è di proprietà della società ma del
sottoscrittore è quindi prioritario adottare tutte quelle tecniche e
quei comportamenti atti a ridurre l’insorgere di rischi non gestiti
che possano depauperare il patrimonio dei sottoscrittori stessi.
È proprio questo l’elemento che qualifica la presenza del Risk
Management nelle compagnie di Asset Management ovvero la necessità di proteggere risorse finanziarie non di proprietà.
A La diffusione della
cultura del rischio
in una Asset
management company
1
L’autore desidera ringraziare i colleghi di Nextra Dottoressa Elena Montagna e
Dottor Carlo De Franco per il prezioso contributo dato alla stesura di questo saggio.
167
Q U A D E R N I
Paradossalmente negli anni passati questa argomentazione è
stata utilizzata al contrario ovvero si è data ridotta importanza alle
tecniche di risk management nelle compagnie di gestione del risparmio privilegiando le aree dedicate alla gestione e garantendo
che i presidi di back office fossero in grado di adempiere velocemente ad un insieme di obblighi sia verso i sottoscrittori (ad es.:
pubblicazione della quota, amministrazione della posizione dei
clienti) che verso le differenti Autorità di Vigilanza.
A.1
168
Dalla logica
dell’investment bank...
L’investment bank, in estrema sintesi, basa il proprio operato
su due macro-ordini di attività: le attività c.d. “fee based” e le attività
di trading. Tipicamente le attività “fee based” generano un rischio legato alla possibilità che un determinato “deal” possa non concretizzarsi perché le controparti non si accordano, ovvero, ad esempio,
che un’operazione di m&a possa non dare il risultato finanziario che
era stato stimato nel momento in cui la partecipazione nella società
era stata acquisita (attività, questa, non solo “fee based” ma che potrebbe dare un risultato positivo nel caso di apprezzamento nel
tempo della partecipazione acquisita).
Le attività di trading puro generano invece un insieme di rischi
che sono in capo alla banca dal momento stesso in cui la posizione
viene acquisita e possono manifestare effetti finanziari potenzialmente negativi in brevissimo tempo ovvero anche nell’arco della
stessa giornata in cui le posizioni sono state costituite. I rischi correlati a tali posizioni sono quelli di mercato e di credito (pre e post regolamento).
Nell’attività di trading, quindi, le banche di investimento investono il proprio capitale di proprietà con l’obiettivo di massimizzare
in un arco di tempo tendenzialmente limitato il ritorno delle singole
operazioni. Tali istituti inoltre non sono sottoposti a vincoli stringenti
per l’operatività quali quelli previsti per le società di asset management per le quali le Autorità di Vigilanza hanno istituito un insieme
di limiti “in primis” a tutela dei sottoscrittori dei prodotti offerti.
Le sale operative delle investment banks hanno progressivamente adottato sistemi di risk management proprietari od acquistati
da fornitori esterni, con l’obiettivo di gestire e minimizzare i rischi finanziari cui il capitale di proprietà della banca stessa viene esposto a
seguito delle attività di trading. Questi sistemi prevedono l’utilizzo di
indicatori sempre più sofisticati ed adattabili alle esigenze dei singoli
istituti, ma di solito prevedono tutti la possibilità di imporre un sistema di limiti basato sui medesimi indicatori che possa essere opportunamente diversificato per tenere conto del maggiore/minore
grado di rischiosità della tipologia di trading osservata, della maggiore o minore esperienza del trader, del tempo per cui una posizione può essere tenuta “aperta” e, nel caso dei sistemi maggiormente sofisticati, di quanto patrimonio assorbe ogni
operazione/posizione. Vi sono infatti alcuni sistemi impostati per
catturare la rischiosità “intra-day” delle posizioni prese e di quantificare se le stesse rispettano i limiti definiti o meno.
Alcuni tra i limiti richiamati sono anche definiti in termini di
massima perdita accettabile per un desk/prodotto/singolo trader,
ecc. Tipicamente si parla di limiti di “stop/loss” ovvero di limiti che
possono avere una profondità temporale anche superiore ad un
giorno e che prevedono un calcolo in tempo reale degli utili/per-
Q U A D E R N I
dite sulla posizione analizzata sia realizzati che ancora da valutazione. Se viene raggiunto un importo troppo alto di perdite (tipicamente l’indicatore è tarato sulla massima perdita), si genera un obbligo in capo al trader di chiudere in quell’istante la posizione realizzando completamente anche la perdita che fino a quel momento
era maturata solo virtualmente, oltre a quella già iscritta nei libri.
Quindi le posizioni all’interno di una sala operativa devono
tendenzialmente avere caratteristiche tali da poter essere “chiuse”
velocemente senza incorrere in ulteriori costi/perdite legati alla difficoltà di liquidazione di una posizione.
Da questo segue che nell’investment bank, una volta definiti gli
indicatori di sintesi che possono essere modellati ed utilizzati per
monitorare la rischiosità delle posizioni ed i correlati corretti presidi
operativi e di processo, su questi indicatori viene impostato un sistema di limiti.
Volendo quindi riassumere le caratteristiche di un sistema di
gestione del rischio di una investment bank con riferimento a posizioni di trading abbiamo che:
a) esistono posizioni fortemente speculative da monitorare;
b) la banca sta rischiando parte del proprio capitale con l’obiettivo di concludere operazioni che permettano dei
guadagni in conto capitale ma anche in conto interessi (al
netto del cost of carry);
c) vi sono indicatori di sintesi per monitorare con riferimento alla posizione osservata sia i rischi di mercato che i
rischi di credito;
d) solitamente all’interno di una sala operativa si parla di “rischio massimo” e di limiti correlati, a significare il livello
di perdita finanziaria massima sul capitale che l’Istituto è
disposto ad accettare dalla Sala Operativa;
e) in caso di perdite superiori a un certo livello di limite
(“trigger level”) le posizioni vanno chiuse;
f) possono essere previste delle soglie di attenzione che sollecitino l’attenzione o l’intervento di personale maggiormente senior su determinate posizioni e sull’evoluzione
dell’andamento della rischiosità e della redditività connessa a queste;
g) il risultato di una singola operazione o di un singolo desk
viene monitorato ponderandolo per la rischiosità che si è
sopportata per conseguirlo;
h) il risultato opportunamente aggiustato per il rischio entra
con questa chiave interpretativa nel più articolato meccanismo di determinazione del “quantum” assegnabile ai
singoli operatori in funzione di un sistema incentivante
pre-definito.
Nelle case di Asset management i meccanismi di gestione sia
delle posizioni sia del rischio erano inizialmente piuttosto diversi da
quelli presenti nelle Investment banks. Ma con l’aumentare dei prodotti ovvero delle caratteristiche degli stessi che in alcuni casi ne aumentano il contenuto di trading (ad es. i prodotti c.d. “flessibili” ovvero i prodotti altamente speculativi quali gli hedge funds) le tecniche di gestione e le modalità di misurazione dei rischi sono andate
A.2
... alla gestione
dei portafogli
169
Q U A D E R N I
2
sempre più avvicinandosi a quanto avviene nelle Investment banks .
Nelle società di Asset management altri livelli di difficoltà nella gestione dei portafogli e dei rischi correlati sono ravvisabili a causa
della presenza di alcuni parametri di riferimento (benchmark) che
non sempre sono proposti ai sottoscrittori in maniera univoca e che
vengono facilmente intesi come il “nemico da battere” di un prodotto, generando a volte anche atteggiamenti distorsivi nella gestione di alcuni tipi di prodotti ad opera dei gestori stessi. Molto
spesso infatti l’operato dei gestori è giudicato anche in funzione dell’avvenuto superamento meno del livello del benchmark corrispondente al prodotto per un dato periodo di tempo osservato.
A.3
Il concetto di “limite”
nella gestione
di un portafoglio
Il fatto che il patrimonio di un fondo o di un mandato non sia di
proprietà della società di gestione ha spesso fatto ritenere che, come
richiamato in precedenza, la gestione del rischio non dovesse essere
preponderante, ma che fosse invece di assoluta importanza la forza
vendita in grado di collocare i prodotti a qualunque costo. In realtà
in caso di risultati negativi da parte di uno o più prodotti, l’effetto
degli stessi può abbattersi velocemente sulla società di gestione
stessa sotto forma di richieste di rimborso dei prodotti e quindi di
progressiva erosione del margine commissionale.
Anche nell’asset management ha quindi senso parlare di limiti
di rischiosità: questo è tanto più necessario quanto più da vicino si intende monitorare la rischiosità intrinseca nei prodotti/portafogli e
nel contempo, quanto più si intende fornire alle reti distributive una
conoscenza più approfondita dei prodotti che le metta in grado di
esplicare tutta la capacità di vendita che è loro propria. In alcuni casi
i limiti di rischio vengono direttamente richiesti dalla clientela (ciò è
soprattutto vero nel caso della gestione di patrimoni istituzionali)
che li identifica a seconda delle proprie esigenze ovvero della propria avversione al rischio (ad es.: divieti di investimento in specifiche
categorie di asset od in particolari tipologie di azioni, ecc..).
Questa eventualità rende più complesso un processo efficiente
di asset allocation in quanto ne vincola i gradi di libertà: ciononostante si rende necessario creare dei portafogli modello che pur con
i dovuti vincoli permettano al gestore di operare nel rispetto dei “desiderata” del cliente.
Un punto su cui riflettere è che una delle forme in cui le necessità ed i “desiderata” finanziari del cliente prendono forma si esplicita, soprattutto nel caso dei prodotti “retail”, nell’acquisto di un
prodotto al posto di un altro. Comprendere questo concetto è fondamentale per capire come sia importante riuscire a costruire dei limiti di rischiosità che siano coerenti con il messaggio trasferito al
cliente dal prospetto del fondo stesso.
Pian piano prende quindi forma un diverso concetto di limite
di rischio applicabile ad alcuni dei prodotti del risparmio gestito ovvero il concetto di “soglia minima di rischio”. Questo può suonare
2
Sia nelle strutture di Asset Management che nelle Investment Banks va considerata
la presenza anche di rischi operativi (quali ad esempio rischi legali o di errore umano
che possono implicare risarcimenti o sanzioni in capo alla società) che devono essere
monitorati, quantificati e gestiti. Lo stesso Comitato di Basilea, pur in maniera ancora abbastanza sfumata, prevede che debba essere appositamente allocata una
quota parte delle riserve della Capogruppo a fronte appunto di questa tipologia di
rischi. Sui rischi operativi cfr. anche l’altro saggio di Appetiti in questo volume.
170
Q U A D E R N I
come una contraddizione ove si dia per assunto che un rischio va
reso minimo e non massimo, nella ricerca di un alto rendimento. Il
concetto che sta alla base di questa affermazione è la consapevolezza
che i sottoscrittori di un prodotto possono averlo voluto comprare
proprio per le sue caratteristiche di dinamicità ovvero di rischiosità e
sono quindi disposti a pagare una commissione di gestione maggiore (ed addirittura una commissione di incentivo) nella consapevolezza del rischio che si sta correndo.
A livello aziendale, la fissazione di una soglia minima di rischio
può anche permettere un monitoraggio più stringente dell’operatività del singolo gestore. Infatti il gestore di patrimoni tendenzialmente non è un “trader” e quindi attua all’interno del portafoglio o
del settore di portafoglio di cui è responsabile, delle scelte di investimento con un’ottica che non è quella del trader ma solitamente è
un’ottica di più lungo periodo. Pertanto un gestore che prende pochi rischi ma nel contempo anche poche scommesse all’interno del
portafoglio di cui è responsabile, potrebbe portare il rendimento
del prodotto a discostarsi significativamente da un rendimento
obiettivo teorico che il sottoscrittore potrebbe aver desiderato al momento dell’acquisto del prodotto.
Inoltre la fissazione di un sistema di limiti che preveda dei valori
minimi e massimi può contribuire, con le opportune attenzioni, anche a misurare la capacità del gestore di assumersi dei rischi con una
“view” chiara di indirizzo degli investimenti rispettosa delle policy definite a livello aziendale, ma nel contempo tatticamente adeguata ai
propri convincimenti sul mercato.
A fronte di quanto esposto, sono andati progressivamente sviluppandosi modelli e metodologie di gestione e monitoraggio dei rischi. In parallelo si è evidenziata anche la crescente quantificazione
di limiti di rischio che sono stati assegnati ai singoli prodotti od alle
aree di gestione con l’avallo dei massimi organi decisionali dell’azienda (CdA, ecc.).
In questo paragrafo ci soffermeremo sulle tipologie di analisi di
rischio che possono essere condotte con particolare riferimento al
market risk rimandando ad altra parte di questa raccolta di monografie la disamina delle metodologie e delle analisi legate ai rischi di
credito ed ai rischi operativi.
B La scomposizione
del rischio di mercato
ex ante ed ex post:
alcuni esempi
di scomposizione
di market-risk analysis
pesata per la
performance attribution
In prima battuta richiamiamo velocemente la dicotomia delle
forme di analisi dei rischi presente in molte organizzazioni di asset management ovvero la distinzione tra analisi “ex ante” e monitoraggio “ex
post”. A nostro avviso questa distinzione ha senso se applicata confrontando i processi di asset allocation con i processi di analisi e monitoraggio del rischio.
In effetti un processo di asset allocation, indipendentemente
dalla maggiore o minore complessità dell’organizzazione aziendale,
dovrebbe mirare ad allocare in maniera efficiente le risorse finanziarie
disponibili all’interno di uno o più portafogli nel rispetto di obiettivi di
rischio/rendimento dati: ciò avviene “ex ante”.
Pertanto nell’istante immediatamente successivo a quello in cui
la decisione di asset allocation (“ex ante”) è stata presa e debitamente
formalizzata nelle opportune sedi aziendali, questa deve essere calata
all’interno dei portafogli con maggiori o minori gradi di libertà ed ade-
B.1
Le forme
di monitoraggio
171
Q U A D E R N I
guamento tattico, ma sempre in coerenza con le macro-indicazioni
presenti. A questo punto gli strumenti di risk management disponibili
devono permettere di svolgere almeno le seguenti attività che ormai
sono tutte “ex post” ovvero successive alle decisioni di investimento:
1) verificare il rispetto all’interno dei portafogli delle indicazioni di asset allocation;
2) monitorare nei portafogli effettivi la rischiosità prospettica delle posizioni in essere (con gli indicatori giudicati
per tempo opportuni) ed il necessario grado di scomposizione della rischiosità stessa confrontandolo al medesimo
grado di rischiosità associabile alle indicazioni di asset allocation date (od in fase di implementazione: in tal caso si
misura anche l’effetto del “timing” nell’implementazione
delle indicazioni di Asset Allocation);
3) verificare il rendimento ottenuto dai singoli asset mediante
opportune attività di analisi e scomposizione della performance (performance attribution) ed effettuare un confronto tra tali dati opportunamente “scomposti”, con la rischiosità attesa delle posizioni che hanno generato tali rendimenti. Questa attività permette anche il progressivo “fine
tuning” degli strumenti di monitoraggio della rischiosità
prospettica. La medesima attività di performance attribution può poi essere associata all’organizzazione della sala
con l’ulteriore finalità di definire meccanismi di incentivazione del personale coerenti e quantitativamente affidabili;
4) monitorare il rispetto degli eventuali limiti di rischiosità assegnati ai diversi prodotti ed indicare le azioni correttive
necessarie a permettere il rispetto di tali limiti. Rileviamo
che in quest’ultimo caso il rientro di un indicatore di rischio associato ad un prodotto al di sotto del limite definito, può non essere altrettanto veloce come quanto accade su un desk di trading di una investment bank: possono
infatti essere presenti particolari tipologie di asset insite in
un portafoglio per posizioni estremamente rilevanti pur
nel rispetto dei limiti assegnati dalla Vigilanza. Per tali tipologie la movimentazione sul mercato può richiedere un periodo di tempo ampio anche, più in generale, in relazione
ai quantitativi che se immessi immediatamente ed integralmente sul mercato potrebbero causare turbative allo stesso.
Quando si parla di limiti e del loro monitoraggio a nostro avviso
è sempre opportuno fissare delle soglie di attenzione antecedenti il
superamento del limite stesso che possano quindi permettere di focalizzare maggiormente l’attenzione sulle cause dell’approssimarsi
del livello di limite e quindi sui possibili interventi correttivi che potrebbero essere immediatamente presi. Resta comunque fondamentale il monitoraggio quotidiano dell’andamento di certe grandezze di rischio finanziario, proprio alla stregua di quanto accade
nella banche di investimento: questo permette di “calibrare” sempre
meglio soprattutto i modelli di previsione del rischio che poggiano
su basi non sempre valide a causa delle repentine oscillazioni dei fattori di mercato o del grado di solidità dei modelli utilizzati.
I limiti fissati dovranno evidentemente essere sottoposti ad un
meccanismo di revisione periodica legato ad una molteplicità di fattori quali ad esempio:
172
Q U A D E R N I
• l’eventuale mutamento delle caratteristiche di base del
prodotto e quindi il probabile correlato mutamento dello
stile di gestione,
• la necessità di riconsiderare in toto lo schema di limiti e
degli indicatori con cui questi sono misurati per adottare
indicatori maggiormente sofisticati.
Non crediamo che esista una frequenza di revisione dei limiti
standard, ma reputiamo utile attuare, unitamente al consueto monitoraggio quotidiano ed ad un’attenta analisi degli scostamenti, una
revisione dei limiti almeno annuale che comunque non necessariamente deve comportare una modifica degli stessi.
Nel seguito esponiamo alcuni esempi delle analisi che possono
essere effettuate con particolare riferimento ad uno degli indicatori di
rischiosità utilizzati all’interno del mondo del risparmio gestito ovvero
la “Tracking Error Volatility” (sia calcolata “ex ante” che “ex post”). A
causa degli evidenti limiti di tale grandezza a questa si possono affiancare anche altri indicatori come ad esempio il “Value At Risk” (assoluto o “relativo” rispetto al Benchmark) il cui uso è consolidato da
tempo in molte banche di investimento.
B.2
Alcuni esempi di
“Market Risk Analysis”
Tabella 1
Tabella 2
Il livello di dettaglio della scomposizione del
T.E del portafoglio vs il benchmark e del policy benchmark (ovvero l’obiettivo di asset allocation) vs il benchmark è funzione della tipologia del prodotto, con espansione maggiore per le categorie di investimento caratterizzanti il prodotto analizzato. L’esempio riportato mostra la scomposizione applicata
ad un prodotto Bilanciato, ai Fondi di Fondi ed
ai prodotti Flessibili. Per i prodotti azionari
vengono riportati in aggiunta gli indici di
“style” (size, success,variability in the marker, value).
173
Q U A D E R N I
Nella Tabella che segue si presenta un esempio di analisi che
dettaglia, ove ve ne siano, le cause degli “esuberi” rispetto a dei possibili limiti di tracking Error che potrebbero essere fissati, fornendo
indicazione di quali sono i Settori/Aree geografiche o bucket di
curva che hanno maggiormente contribuito.
Tabella 3
Tabella 4
Tabella 5
Il livello di dettaglio della scomposizione del
Tracking Error e dell’Excess Return del portafoglio vs il benchmark e del policy benchmark vs il benchmark è in funzione della tipologia del prodotto, con espansione maggiore
per le categorie di investimenti caratterizzanti il prodotto stesso.
174
Q U A D E R N I
La Tabella 6 che segue riepiloga i controlli di Tracking Error calcolato “ex post” e quindi sul valore delle quote. Si possono definire
delle soglie di osservazione differenti ovvero delle profondità temporali diverse per cogliere più o meno immediatamente fenomeni che si
manifestano più costantemente nel prodotto osservato oppure l’insorgere di mutamenti improvvisi non verificatisi in precedenza.
Tabella 6
C L’impatto del risk
management
sull’informativa
direzionale e gestionale:
altri esempi di reporting
Nel capitolo precedente abbiamo discusso degli approcci al
monitoraggio del rischio in una casa di asset management e di alcune forme di market risk analysis che possono essere costruite ed
analizzate nel tempo unendo a queste anche analisi di performance
attribution.
Ora intendiamo focalizzare l’attenzione sul livello di informativa che una funzione di risk management deve essere in grado di
produrre. In primis dobbiamo considerare che nell’ipotesi (auspicabile) in cui la funzione di risk management sia organizzativamente
collocata in maniera indipendente rispetto alle funzioni che si occupano di gestione dei patrimoni, questa avrà quattro livelli di informazione e di analisi da predisporre.
a) Un primo livello per l’Alta Direzione intesa sia come riporto
diretto, ovvero Amministratore Delegato o Direttore Generale, che come riporto mediato (Consiglio di Amministrazione, Comitato Esecutivo, Comitato di Direzione, ecc.).
b) Un secondo livello per le aree aziendali più operative e che
si occupano della gestione dei portafogli, ma anche per
eventuali soggetti terzi (Vigilanza, Auditing, Revisori) che tipicamente per l’ottenimento di alcune informazioni nello
svolgimento dei compiti di loro pertinenza interfacciano
molto con funzioni indipendenti dalle funzioni di gestione.
C.1
I “clienti” del Risk
Management
175
Q U A D E R N I
c) Un terzo livello rappresentato dalla clientela istituzionale
ove presente.
d) Un quarto livello costituito dalla forza di vendita della
rete e che si rivolge alla clientela “retail”. In questo caso lo
sforzo informativo assume caratteristiche profondamente diverse a seconda del grado di competenza della
rete medesima ovvero della disponibilità di adeguati strumenti informativi a supporto di tale attività.
C.2
176
Le tipologie e le
tempistiche di analisi
per i diversi “clienti”
Ciò posto vi saranno evidentemente analisi che a parità di contenuti potranno essere più o meno sintetiche e che andranno indirizzate sia all’Alta Direzione che alle aree più operative ovvero ad alcuni degli altri soggetti cui si è fatto cenno. Il tutto deve essere fatto
considerando attentamente che un eccesso di reporting e di analisi
invece che creare informazione può creare confusione e senz’altro
genera disinformazione. Infatti si rischia di far perdere attenzione a
chi legge i report se non si è in grado di far distinguere immediatamente le informazioni che indicano criticità e quindi decisioni da
prendere velocemente da quelle per cui una decisione può essere
presa in tempi meno brevi.
Le analisi devono essere presentate con cadenze differenti a seconda del contenuto. Alcune analisi verranno presentate a cadenze
molto ravvicinate (ad es.: quotidiane) quando riguardano posizioni
di portafoglio di dettaglio o portafogli specifici.
Potranno invece esservi cadenze ad esempio settimanali per le
analisi che riguardano portafogli con stili di gestione meno aggressivi e con asset al loro interno che difficilmente potrebbero andare
in default o manifestare problemi in capo all’emittente.
Il reporting “ordinario” per il CdA potrebbe avere cadenza
mensile o trimestrale, salvo avere cadenze ben più ravvicinate qualora, a titolo esemplificativo, si ravvisassero deviazioni importanti all’interno dei portafogli rispetto alle strategie di investimento deliberate allo stesso CdA.
È però fondamentale “educare” i diversi livelli di lettori dei report alle grandezze che vengono presentate. Tipicamente gli utenti
“front” devono poter utilizzare il reporting prodotto percependolo
come un vero e proprio “cruscotto operativo” contenente le grandezze di loro competenza (ad es. indicatori di rischiosità finanziaria,
volumi di operatività registrati con le diverse controparti utilizzate,
commissioni medie pagate alle controparti da confrontare con
quanto concordato con le stesse inizialmente, “warning di avvicinamento” ai limiti indicati dalla Vigilanza od ai limiti di rischiosità fissati internamente, ecc.).
L’Alta Direzione ha bisogno di un cruscotto molto più sintetico
che permetta di avere in breve tempo tutti i punti di attenzione per i
quali è suggerito un approfondimento. Ad esempio l’Alta Direzione
deve avere a disposizione uno strumento che, nell’esemplificazione
dei prodotti di risparmio gestito e del connesso rischio di mercato,
possa metterla in grado di comprendere, a parità di masse, quanto
“rischio performance” sia insito nelle posizioni e quindi potenzialmente a quanto potrebbe ammontare la correlata probabilistica diminuzione delle masse e la conseguente riduzione del margine commissionale.
L’Alta Direzione, inoltre, deve sapere immediatamente se in
Q U A D E R N I
qualche luogo aziendale vengono attuati comportamenti non conformi od a regole che arrivano dall’esterno (Vigilanza, ecc.) o dall’interno (regolamenti o circolari interne, codici deontologici,
ecc.). Si rende quindi necessaria la predisposizione periodica di reportistica di “compliance” ovvero che attesti “in toto” l’aderenza dell’azienda alle diverse fonti regolamentari applicabili all’operato
della struttura.
Pertanto non solo la sala operativa ma anche il management deve
essere “educato” alla lettura delle grandezze di rischio.
Anche l’informativa per la clientela può essere arricchita dalle
analisi del risk management. Il “cliente interno” immediato dell’Area
risk management è solitamente il settore che si occupa di comunicazione alle reti.
Ma in taluni casi il “cliente diretto” del risk manager è proprio il
cliente finale; questo accade tipicamente con la clientela di matrice
istituzionale presso la quale solitamente il livello di competenza e di
sofisticazione finanziaria è elevato. Questa clientela richiede alle
case di asset management alti livelli di personalizzazione per la gestione dei propri patrimoni e l’esperienza ha dimostrato come la
presenza evidente e proattiva del risk management per l’effettuazione di un insieme di analisi e per la predisposizione di reportistica
correlata per tale clientela, abbia permesso di avere successo nell’ottenimento di alcuni mandati ovvero abbia permesso di arricchire intellettualmente il rapporto con la clientela stessa proprio grazie alla
possibilità di offrire un livello di analisi e di profondità “su misura”
che facilita la comprensione puntuale dei fabbisogni di chi ha affidato in gestione il patrimonio.
Di seguito riepiloghiamo in alcune tabelle degli esempi di reporting ed alcune ipotesi per la tempistica della loro predisposizione
e susseguente presentazione.
Gli esempi riportati riguardano analisi di coerenza delle asset
classes rispetto alle indicazioni di investimento (Tabella 7), Peer
Analysis ed analisi di performance “compatta” (Tabella 8), dettagli
sulla performance attribution e della sua suddivisione a seconda dei
prodotti osservati (Tabella 9).
C.3
Alcuni esempi
di “reporting”
Tabella 7
177
Q U A D E R N I
Tabella 8
Tabella 9
Tabella 10
178
Q U A D E R N I
Nella Tabella 10 della pagina precedente si visualizza la scomposizione di un particolare tipo di analisi di performance attribution richiamata nella Tabella precedente ovvero l’analisi per le Gestioni Individuali in Fondi (GIFF). Questo esempio vuole dimostrare come a
seconda del livello di dettaglio crescente che può essere raggiunto anche a livello organizzativo all’interno della Società, possano essere interessate le diverse aree gestionali della società (unitamente all’Alta
Direzione) per il monitoraggio del rendimento delle stesse Aree.
Le analisi come quella che segue (Tabella 11) permettono invece di scomporre alcuni indicatori di rischiosità prospettica nelle
diverse componenti elementari e successivamente, mediante appositi meccanismi di storicizzazione, di evidenziare le componenti all’interno dei portafogli osservati che manifestano con maggiore o
minore ricorrenza determinate caratteristiche di rischiosità.
Tabella 11
Questo report si propone di individuare per
ogni categoria le attività che, con maggior ricorrenza, contribuiscono in modo massimale o minimale al Tracking Error o all’Excess Return.
Di seguito (Tabella 12) forniamo un altro esempio di reportistica
utilizzabile per la clientela istituzionale e che permette di identificare
velocemente gli indicatori chiave relativi ad un singolo mandato.
Nella parte “alta” del prospetto (riportata in Tabella 12a)
Tabella 12 a
179
Q U A D E R N I
sono indicate le caratteristiche basilari del mandato (Patrimonio, conferimenti e prelievi nel periodo, Tracking Error) ed un
confronto tra la Per formance del portafoglio e quella del
benchmark con diverse metodologie di lordizzazione della
stessa ed altri indicatori che arricchiscono l’analisi.
Nella seconda parte (Tabella 12b) si forniscono indicazioni di scomposizione delle Asset class nel mandato, della performance ed analisi di Active Return.
Tabella 12 b
Conclusioni
In questo lavoro abbiamo cercato di far capire come e perché il
contributo del Risk management nell’industria dell’Asset management è diventato sempre più presente ed importante. Abbiamo voluto evidenziare come le esperienze maturate nel tempo nel mondo
del’investment banking abbiano costituito un punto di partenza per
le analisi sviluppate nell’Asset Management.
Abbiamo presentato alcuni esempi di analisi di uno dei rischi
che ogni funzione di Risk management deve monitorare ovvero il
c.d. “market risk” ed abbiamo affiancato a questo un esempio di
come si possa analizzare l’extra rendimento di un prodotto ponderando ogni componente per il rispettivo rischio.
Nell’ultima parte di questo lavoro abbiamo portato alcune
esemplificazioni di reportistica applicabili a prodotti commercializzati preso la clientela retail ed altri esempi di analisi presentabili alla
clientela istituzionale. In tutti questi casi l’obiettivo del lavoro è la diffusione dell’informativa in maniera completa e tempestiva al management ed alla clientela della Società.
Riferimenti bibliografici
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Goldman Sachs, 2000, “The Green Zone... Assessing the Quality of Returns”, Investment Management Research
Goldman Sachs, 2000, “Risk Budgeting: Managing Active Risk at the To-
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Q U A D E R N I
tal Fund Level”, Investment Management Research
Grinold, R. C., e R. N. Kahn, 1995, “Active Portfolio Management”, Probus Publishing
Jorion, P., 2000, “Value at Risk”, McGraw-Hill
J.P. Morgan/Reuters, 1996, “RiskMetrics - Technical Document”
Kupiec, P. H., 1998, “Stress Testing in a Value at Risk Framework”, The
Journal of Derivatives
181
Officine Grafiche La Commerciale
Milano
Finito di stampare gennaio 2003
www. assogestioni.it