Cinerama 2.2

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Cinerama 2.2
IL VIZIO DI PAUL
DA Advanced style - Le signore dello stile A WHIPLASH PASSANDO PER VIZIO DI FORMA.
LE RECENSIONI PUBBLICATE SULLA RIVISTA FILMTV
DI TUTTI I FILM USCITI A FEBBRAIO 2015.
Il Cinerama (dal greco κινεσις =
movimento e οραω = vedere), è
un sistema di ripresa e proiezione atto ad offrire un’immagine
di grandi dimensioni (sino a 28
m x 10 m) su uno schermo curvo di 146 gradi di ampiezza e
55 gradi di altezza. Tale immagine è perciò molto simile alla
percezione dell’occhio umano
(visione periferica).
Cinerama è anche il raccoglitore digitale delle recensioni PUBBLICATE SUL SETTIMANALE FilmTv. BUONA LETTURA!
INDICE ALFABETICO DELLE RECENSIONI DEI FILM USCITI A FEBBRAIO 2015
CINERAMA2.2
CLICCA SUL TITOLO PER APRIRE LA RECENSIONE
Advanced style - Le signore dello stile di Lina Plioplyte
Automata di Gabe Ibáñez
Birdman di Alejandro González Iñárritu
Cinquanta sfumature di grigio di Sam Taylor-Johnson
Dancing with Maria di Ivan Gergolet
THE Iceman di Ariel Vromen
Jupiter il destino dell’universo di Andy Wachowski, Lana Wachowski
Kingsman: secret service di Matthew Vaughn
L’Oriana di Marco Turco
Le LEggi del desiderio di Silvio Muccino
Leoni di Pietro Parolin
Life itself di Steve James
Love is all di Kim Longinotto
Lupin III vs. Detective Conan di Hajime Kamegaki
Maraviglioso Boccaccio di Paolo Taviani, Vittorio Taviani
Mortdecai di David Koepp
Motel di David Grovic
Mune il guardiano della luna di Alexandre Heboyan, Benoît Philippon
Noi e la Giulia di Edoardo Leo
Non c’è 2 senza te di Massimo Cappelli
Non sposate le mie figlie! di Philippe de Chauveron
INDICE ALFABETICO DELLE RECENSIONI DEI FILM USCITI A FEBBRAIO 2015
CINERAMA2.2
CLICCA SUL TITOLO PER APRIRE LA RECENSIONE
Patria di Felice Farina
UN Piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson
LA Piramide di Grégory Levasseur
Pokèmon: Diancie e il bozzolo della distruzione di Kunihiko Yuyama
THE President di Mohsen Makhmalbaf
Rembrandt di Kat Mansoor
THE Repairman di Paolo Mitton
Romeo & Juliet di Carlo Carlei
IL Segreto del suo volto di Christian Petzold
Selma - La strada per la libertà di Ava DuVernay
IL Settimo figlio di Sergey Bodrov
Shaun - Vita da pecora di Richard Starzak, Mark Burton
Spongebob - Fuori dall’acqua di Paul Tibbitt, Mike Mitchell
Taken 3 - L’ora della verità di Olivier Megaton
Timbuktu di Abderrahmane Sissako
Triangle di Costanza Quatriglio
Vizio di forma di Paul Thomas Andersoni
Whiplash di Damien Chazelle
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ADVANCED STYLE - LE SIGNORE DELLO STILE
REGIA DI LINA PLIOPLYTE
di Alice Cucchetti
Una grossa porzione di storia del cinema e sei stagioni di Sex and the City hanno
assegnato alla Grande mela il titolo di capitale della moda; prima che per gli eventi, le maison e le sfilate, per lo stile variegato, anticipatore e a volte provocatorio
di molti newyorkesi. Tra questi, ci sono le “signore dello stile”: hanno dai 60 agli
oltre 90 anni, non mettono il naso fuori casa senza infilarsi in una mise impeccabile e coordinata fino all’ultimo accessorio, non intendono lasciarsi intimidire dagli
sguardi degli altri né da un presente che eleva la giovinezza a valore assoluto. A
rintracciarle, un fotografo di strada, Ari Cohen, che le ha messe al centro con successo del proprio blog, Advanced Style, da cui il doc di Plioplyte prende le mosse. E
seguendo otto tra loro nella vita privata, ribalta prima di tutto la nostra prospettiva
quotidiana: la bellezza perfetta e fresca che popola incessantemente il panorama mediatico non si vede mai, solo qualche volta spunta per sbaglio ai margini
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dell’inquadratura, rivelando in quest’assenza l’irrealtà artificiosa dell’universo televisivo e pubblicitario. Peccato che il film sia un prodotto esplicitamente pensato
per il piccolo schermo e che denunci un’origine promozionale: chiuso dentro direttrici standard, soffoca e disperde molti potenziali nodi d’interesse, dall’angoscia
del tempo che passa alla resistenza al tempo che fa. Per fortuna l’entusiasmo
delle protagoniste non ha bisogno dei riflettori per brillare.
ADVANCED STYLE - LE SIGNORE DELLO STILE
REGIA DI LINA PLIOPLYTE
USA · 2014 · DOCUMENTARIO · DURATA: 72’
CON JOYCE CARPATI, ARI COHEN, LYNN DELL, ZELDA KAPLAN
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 19 febbraio
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AUTOMATA
REGIA DI GABE IBÁÑEZ
di Ilaria Feole
Nel 2044 l’uomo ha spremuto la Terra come un limone e la popolazione mondiale ammonta a 20 milioni di anime, compresse fra ampie zone di deserto radioattivo. Jacq Vaucan, un Deckard più dimesso e impiegatizio, verifica i danni subiti
dai Pilgrim 7000, il più diffuso modello di robot-manovale, scoprendo che alcuni
automi sono stati modificati in modo da oltrepassare i propri limiti di intelligenza
artificiale. Violando il “secondo protocollo” (variazione sulle leggi della robotica di
Asimov) possono evolversi con rapidità fulminea; ma c’è posto per gli uomini
nel loro futuro? Il madrileno Ibáñez, già autore di effetti speciali per Álex de la
Iglesia, si inserisce nel solco della sci-fi umanistica alla Duncan Jones, facendo di
bassissimo budget virtù: il disastro energetico immaginato dal plot comporta una
regressione tecnologica, occasione per dispiegare un immaginario di modernariato, dove l’eroe Banderas comunica tramite cercapersone e fax. Dalla poetica
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di Jones, Ibáñez preleva anche l’idea chiave di una rivoluzione che escluda l’uomo: sono i robot (vintage anche loro: realizzati in animatronica e telecomandati)
a rompere il circolo vizioso, uscendo dalla modalità “default” per cui sono programmati. Un B movie onesto e volenteroso, con uno script non all’altezza delle
intuizioni di messa in scena e qualche simbolismo forzato (i robot pellegrini, di
nome e di fatto, nel deserto), che persegue un’idea di fantascienza non becera.
AUTOMATA
REGIA DI GABE IBÁÑEZ
SPAGNA / USA · 2014 · FANTASCIENZA · DURATA: 109’
CON ANTONIO BANDERAS, BIRGITTE HJORT SØRENSEN, MELANIE GRIFFITH, DYLAN MCDERMOTT
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 26 febbraio
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BIRDMAN
REGIA DI Alejandro González Iñárritu
di Giulio Sangiorgio
C’è stato un tempo, nella storia del cinema, in cui il pianosequenza era la lingua
del vero. Perché, come a ricordarsi del suo significato di rivestimento, la pellicola
preservava e perpetuava lo scorrere continuo del mondo, la durata effettiva del
reale, anche se messo in scena. Poi ci sono stati Jancsó e Angelopoulos, De Palma e Sokurov, Haneke e Cuarón a farne strumento di critica della storia, figura
della crisi dello sguardo, elogio della bugia digitale. Per Birdman la questione è
esistenziale: perché nel raccontare la storia di un attore hollywoodiano in cerca di
redenzione intellò sui palchi di Broadway, dell’incombere degli spettri spettacolari
del proprio passato su una pièce tratta da Carver, ricorre a un unico pianosequenza che non è interessato a restituire la durata reale dei fatti. Ma quella di un
reale mediato e a misura di ego, colmo d’ellissi anche se esente da stacchi, che
s’allucina nella traccia psichica e s’affossa nel flusso interiore, che si perde nel
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coacervo di info e sbanda sull’ottovolante dell’eccesso di stimoli, che salta dal pop
all’élite, dal vero al teatro, dal dramma al comico, e confonde la posa e l’autentico. Rigurgitando Keaton in Riggan, Birdman in Batman. E riversando, dunque,
il privato nel pubblico, come prassi social 2.0, come fa il comparabile Afterlife di
Spike Jonze (videoclip per gli Arcade Fire): un dramma privato d’amore, la fuga
in un set a forma di sentimento, infine lo sfogo del tutto nel puro spettacolo, di
fronte agli occhi del mondo (super realismo, si dice). Birdman è (come Maps to
the Stars e L’amore bugiardo) un film, un film-nevrosi, sul controllo della propria
immagine, oggi: Riggan può manipolare il suo reale/digitale, può muovere gli
oggetti con il pensiero, può, ma il suo potere è limitato. Perché se Carver e i suoi
personaggi vogliono «solo poter dire di essere amati, sentirsi amati sulla terra»,
qui quest’amore dev’esser di massa, ridotto alla fama, al consenso, sacrificato al
panopticon, al “Mi piace” del pubblico («sai che Farrah Fawcett è morta lo stesso
giorno di Michael Jackson»? si dice, come in Il regista di matrimoni, come Luc
Moullet che in Le prestige de la mort muore lo stesso giorno di Godard). Se nei
film precedenti Iñárritu cercava il mélo nella logica del mercato globale, qui dal
macro passa al micro, dal mondo alla mente: ma riflette sempre su quel che lega
merce e sentimento.
BIRDMAN
REGIA DI Alejandro González Iñárritu
USA · 2014 · COMMEDIA · DURATA: 119’
CON MICHAEL KEATON, LINDSAY DUNCAN, EDWARD NORTON, EMMA STONE
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
C
CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO
REGIA DI SAM TAYLOR-JOHNSON
di Alice Cucchetti
Una copia è una copia è una copia, ma nell’operazione l’inchiostro si consuma e il
foglio resta bianco, al massimo grigio. Se la Twilight saga di Stephenie Meyer era
in partenza una fan fiction mascherata (ne esistono anche di buone, intendiamoci,
ma non è questo il caso), le Cinquanta sfumature di EL James sono una fan fiction dichiarata (di Twilight, appunto), rivelatasi inaspettatamente uno spropositato
successo di vendite. E se l’adattamento cinematografico di Twilight (come quelli
di altri fenomeni young adult) è prolungamento del franchise su altro medium e
di conseguenza non può discostarsi troppo dalla pagina scritta, lo stesso tocca
al film di Sam Taylor-Johnson, con l’inghippo di un contenuto che - almeno in
teoria - scotta e che difficilmente si sposa a una platea generalista: l’educazione
sessuale di una studentessa impacciata e vergine a opera di un multimiliardario
tenebroso che lo fa solo sadomaso. La situazione (più Harmony che erotica), già
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nella fonte di partenza, non si evolve granché: vorrei, non vorrei, ma se vuoi, le
frustate sì, le cinghiate no, una sculacciata in cambio di una cena fuori, l’infinita
disquisizione dei termini di un contratto capace di soffocare pure i più accesi bollori. Contesto patinatissimo, interpreti spaesati, sesso (meccanico) quanto basta
a non farsi vietare anche ai minori di 18, e la morale pruriginosa ma rassicurante
della crocerossina che redime la bestia. Sfumature zero, e di un grigio stinto.
CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO
REGIA DI SAM TAYLOR-JOHNSON
USA · 2015 · DRAMMATICO · DURATA: 125’
CON JAMIE DORNAN, DAKOTA JOHNSON, RITA ORA, LUKE GRIMES
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 12 febbraio
C
DANCING WITH MARIA
REGIA DI IVAN GERGOLET
di Alice Cucchetti
«Io sono la gamba di mia madre». Così si descrive Maria Fux: discendente di migranti russi scampati a un pogrom, figlia di una donna costretta a un’amputazione in seguito a un’infezione, cresciuta a Buenos Aires e folgorata dalla biografia
di Isadora Duncan, divenuta ballerina di fama internazionale prima e innovativa
danzaterapeuta poi. Oggi è un’ultranovantenne che non smette mai il sorriso sincero, scivola tra corridoi che assomigliano alle quinte di un teatro, tesse con la
voce e con le mani un universo nuovo per i tanti allievi dei suoi seminari. La danza
è, per certi versi, l’opposto del cinema, così Ivan Gergolet, all’esordio nel lungometraggio, più che catturare l’impossibile prova a raccontare, componendo per
frammenti, come in un puzzle, il mondo parallelo evocato da Maria Fux. Inclusivo
e insieme intimo, spirituale ma concreto: Fux restituisce il ritmo del ballo e il privilegio del movimento a chiunque, a chi viene da lontano per guardarla e ascoltarla
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e a chi è affetto da disabilità (fisica o psichica), perfino a chi non sente e non parla
(la storia di Maria Garrido, orfana india sordomuta trovata in una grotta e ritenuta
incapace di comunicare, è potente ed esemplare). La figura di Maria Fux, occhi
giganteschi e giunture consumate ma vive, è insieme maestra e allieva di se
stessa, colta da Gergolet nell’ennesima transizione della sua vita: se il regista a
tratti si lascia sopraffare dalla sua luce, è un peccato più che perdonabile.
DANCING WITH MARIA
REGIA DI IVAN GERGOLET
ITALIA / ARGENTINA / SLOVENIA · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 72’
CON MARIA FUX, MARIA SERBAN, MARCOS RUIZ, MACARENA BATTISTA
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 26 febbraio
C
THE ICEMAN
REGIA DI ARIEL VROMEN
di Claudio Bartolini
Ci sono storie in cui le ombre sono più significative delle luci. Ariel Vromen comprende quanto la biografia criminale di Richard Kuklinski - sicario con all’attivo
oltre 100 vittime tra gli anni 70 e 80 - abbia dominanti oscure, e adegua la messa
in scena iconografica del suo gangster movie ai toni dell’esistenza di un uomo
dall’interiorità inafferrabile. Kuklinski, appena dopo avere compiuto il primo omicidio, si allontana di spalle in un vicolo buio, illuminato dalla fioca luce dei lampioni
che ne amplificano i contorni. La sua figura è imponente, la prossemica marmorea. L’inquadratura è immobile, la profondità di campo non lascia dubbi: questo
è cinema noir, destinato a raccontare un protagonista avviato verso le nebulose
della propria esistenza e di una città (Jersey City) la cui topografia è restituita con
filologia, attraverso sale da gioco maleodoranti, locali notturni al sangue, cinema
a luci rosse in cui chiudere affari e uffici dei boss irrorati dal fumo di sigarette e
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camere di scoppio. «Hai mani grandi. Sei un boscaiolo?» «No, sono polacco»:
Kuklinski uccide per mantenere moglie e figlie, uniche sue ragioni di vita, tenute all’oscuro proprio della gran parte di questa vita. Personaggio minimale nei
dialoghi, nei gesti e nella morale nichilista, cerca il paradiso familiare perduto
nell’infanzia, scandita dai flashback sulle cinghiate del padre e dall’incontro con
un fratello stupratore di minorenni rinnegato dal derivato codice etico, che non
contempla l’uccisione di donne e bambini. La sceneggiatura è essenziale e segue verticalmente la gerarchia della malavita, tagliandola obliquamente con la
predilezione biografica per Iceman (soprannome dovuto alla prassi di congelare
le vittime per occultarne la data del decesso), il cui corpo è sempre al centro della
messa in scena. Vromen sa quando impaginare in camera fissa e quando, invece, muovere la macchina da presa per liberarla in inseguimenti e frenesie comunque realistiche. Il linguaggio segue l’andamento emotivo del protagonista,
incarnato dal monumentale Shannon con sottorecitata, ma vibrante intensità.
Attorno a lui si muovono tough guys (Liotta, Davi), mezze tacche (Franco, Dorff)
e laidi scarti dell’umanità (Evans, Schwimmer), per un B movie di genere ragionato e pensante che trova un’autorialità di stampo classico in strade lastricate di
morti.
THE ICEMAN
REGIA DI ARIEL VROMEN
USA · 2012 · DRAMMATICO · DURATA: 98’
CON MICHAEL SHANNON, CHRIS EVANS, JAMES FRANCO, WINONA RYDER
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
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JUPITER - IL DESTINO DELL’UNIVERSO
REGIA DI ANDY WACHOWSKI, LANA WACHOWSKI
di Giona A. Nazzaro
Sorprendente, nonostante le voci che lo annunciavano come un disastro. Con
Jupiter i Wachowski radicalizzano la loro inarrestabile decostruzione del blockbuster. Purissimo cinema transgender, cosa che si era iniziata a intuire intorno al
secondo Matrix, teorizzata in Speed Racer e messa in scena come genesi alternativa in Cloud Atlas, Jupiter è un cinema sensuale e sovversivo. In grado di
abolire la differenza oppositiva maschio/femmina per ipotizzare una dimensione
schiettamente insurrezionale, intesa come trasvalutazione dell’immaginario erotico: scandalosamente fluido, come Un sogno lungo un giorno post-blockbuster,
è cinema d’avanguardia in grado di porsi dialetticamente in dialogo con la retorica
young adult e blockbuster. Nella favola di una regina del mondo che sorge dalle
fila dei sottoproletari più umili (di origini russe…), nella moltiplicazione mutante dei corpi (evidente l’influenza esercitata da Babel-17 di Samuel R. Delany), i
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Wachowski creano un impero dei segni gioiosamente ludico e teorico. Parabola
antiliberista, visionaria, space opera rutilante come se Philip J. Farmer ed Edgar
R. Burroughs avessero concepito lo script in tandem. E poi Channing Tatum, in
laser rollerblade, spinto verso l’inorganico (con omaggio al John Phillip Law di
Barbarella), licantropo con le orecchie a Spock che anela il corpo della sua padrona. Jupiter è l’oltre-cinema più filmico mai immaginato. Un erotismo tutto nuovo.
Popolare e democratico.
JUPITER - IL DESTINO DELL’UNIVERSO
REGIA DI ANDY WACHOWSKI, LANA WACHOWSKI
USA · 2015 · FANTASCIENZA · DURATA: 125’
CON CHANNING TATUM, MILA KUNIS, SEAN BEAN, EDDIE REDMAYNE
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
C
KINGSMAN: SECRET SERVICE
REGIA DI MATTHEW VAUGHN
di Alice Cucchetti
«Perché sei così serio?» chiedeva il Joker di Nolan, e lo stesso si chiede Matthew
Vaughn, che dei cinecomix ama soprattutto la parte di stiloso cazzeggio. L’ultima risposta, Kingsman: Secret Service, è strafottente e insieme entusiasta, proprio come il suo protagonista Eggsy, ragazzotto di periferia piombato tra agenti
segreti/cavalieri della tavola rotonda devoti alla regina e alle buone maniere. Si
esalta per gli implausibili gadget da spionaggio anni 60, si bulla che è un piacere
nelle tante scene action, canta i pregi dell’eleganza british, ma si cuce su misura
un abito coloratissimo al sapore di plastica. La trama, linearmente complicata,
apparecchia i colpi di scena con telefonata diligenza, perché tanto a stupire ci pensano gli effetti speciali, Samuel L. Jackson e soprattutto due o tre sequenze girate
con evidente (e divertita) maestria: la danza macabra di Colin Firth, che sgozza
un’intera setta di nazi-cristiani al ritmo di Free Bird senza neppure stropicciarsi
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l’abito, è uno spasso. Al filone spionistico, Vaughn applica la stessa ricetta di KickAss (violenza cartoonesca, citazionismo esasperato e innocua irriverenza) sommandole una patina di nostalgia per l’antico cinema d’evasione pura (che però
finisce per stridere con gli insistiti discorsi sul classismo e l’emergenza climatica,
degradati solo a grimaldelli narrativi). Il giocattolo è tanto autoconsapevole, pure
troppo: a forza di strizzate d’occhio allo spettatore, rischia di perdersi di vista.
KINGSMAN: SECRET SERVICE
REGIA DI MATTHEW VAUGHN
USA / REGNO UNITO · 2015 · AZIONE · DURATA: 129’
CON COLIN FIRTH, TARON EGERTON, SAMUEL L. JACKSON, MICHAEL CAINE
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 25 febbraio
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L’oriana
REGIA DI MArco turco
di Pedro Armocida
Né (tanta) rabbia, né (tanto) orgoglio. Nella versione cinematografica di L’Oriana
(106 minuti, la metà di quella per la tv), il ritratto della più famosa giornalista del
secolo breve appare sbiadito in un lungo flashback episodico. Non si può non tenere conto sia della necessità di dover raccontare una vita in pochi minuti sia della
committenza televisiva che, per esempio, appiattisce il problema delle diverse lingue utilizzando solo l’italiano come fosse l’esperanto, nel giudicare un film che cerca disperatamente un’aderenza agli avvenimenti storici con una messa in scena
inusuale, perché estremamente ricercata, tanto da non sfigurare in una proiezione
in sala. Il film è stato girato nei luoghi che racconta, come il Vietnam, anche se poi,
quando dovremmo essere ad Atene, compare uno scorcio riconoscibile del romano quartiere Della Vittoria. Il vero problema sta nella scelta di non raccontare fino in
fondo un personaggio forte, nella sua cattiveria, nella sua antipatia, nella sua parti-
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gianeria, che l’interpretazione di Vittoria Puccini, dal carattere più fragile (in questo
senso era più convincente la breve apparizione di Maria Rosaria Omaggio/Oriana
Fallaci in Walesa - L’uomo della speranza di Andrzej Wajda), non riesce mai a far
venire veramente fuori. E, in fondo, non viene neanche celebrata la sua vera passione, il giornalismo, rappresentato sempre in maniera bozzettistica senza l’epica
che in quel momento storico indubbiamente aveva.
L’ORIANA
REGIA DI MARco tuRco
ItALIA · 2015 · BIoGRAFIco · DuRAtA: 208’
coN VIttoRIA PuccINI, VINIcIo MARchIoNI, StéPhANE FREISS, FRANcEScA AGoStINI
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 2 febbraio
C
LE LEGGI DEL DESIDERIO
REGIA DI SILVIO MUCCINO
di Claudio Bartolini
«Prima regola del successo: il cambiamento». Al suo terzo film, Muccino Silvio si
è messo in gioco per davvero, ha variato registro e, a suo modo, ha vinto. In accordo con l’editore del suo libro e un network, il Canton da lui interpretato - brutta
copia del life coach di Magnolia - sceglie tre cavie e si prende sei mesi per indurle
a realizzare i loro desideri: ci sono un attempato ex rappresentante, una bigotta di
mezza età che sotto la scrivania di segretaria in Vaticano si diletta scrivendo storielle erotiche e una editor che vorrebbe il cuore - il resto lo ha già - del suo direttore. La sfida è chiara fin dal prologo: usare un linguaggio filmico che scolli il prodotto dalla antiquata, ormai preistorica, (com)media nostrana e volga lo sguardo
oltreoceano, trovando l’America in casa dopo decenni di appiattimenti su standard da fiction Rai. In effetti, la squallida umanità italiota che popola il film prende
forma in un montaggio incalzante, che sfrutta una macchina da presa sempre
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mobile - tra pianisequenza e semplici panoramiche - per traghettare in porto
le singole storie ora in parallelo, ora intersecandole. Su una tempesta verbale e
gestuale si innestano gag spassosi, personaggi compiuti (i comprimari Mattioli
e Signoris) o lacunosi (i protagonisti Muccino e Grimaudo), sviluppi sentimentali
mortiferi (il pavido finale) e un familismo che, oggi, pare quasi anticonformista.
Le leggi del desiderio è un fresco, imperfetto, entusiasta atto di coraggio.
LE LEGGI DEL DESIDERIO
REGIA DI SILVIO MUCCINO
ITALIA · 2015 · COMMEDIA · DURATA: 105’
CON SILVIO MUCCINO, NICOLE GRIMAUDO, PAOLA TIZIANA CRUCIANI, MAURIZIO MATTIOLI
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 26 febbraio
C
LEONI
REGIA DI PIETRO PAROLIN
di Adriano Aiello
La commedia antropologica italiana si “arricchisce” geograficamente inglobando
nel paesaggio ridanciano il poco illustrato Veneto, privato della solita opposizione
con il meridione - o quasi: c’è uno strozzino camorrista in quota disagio economico. Il Veneto lavoratore, cinico e disilluso. Il Veneto del Prosecco e del Valpolicella;
della retorica leghista e del dialetto respingente. Infine, e in particolare, il Veneto di una famiglia nobile che resiste al suo decadimento con qualsiasi mezzo,
ma la certificazione della crisi è ovunque, strillata senza garbo. Il protagonista è
Gualtiero Cecchin, ex ricco, sfaticato: pronto a tutto (anche a produrre crocifissi in
plastica riciclabile, purtroppo esplosiva...) pur di non lavorare. Matrimonio fallito
e figlio rigoroso che si sporca le mani, come il compianto nonno. La mamma,
invece, vegeta a letto, da dove tiene in scacco la città grazie alle sue amicizie influenti. Poi c’è la sorella, insegnante che si trascina dietro un poliziotto scemotto e
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sterile, ossessionato da Gualtiero, al quale vorrebbe sottrarre il ruolo familiare. E
nel quadretto c’è spazio anche per una banchiera bona con il vizio del sadomaso.
Insomma un bel teatrino, con predicozzo sociologico annesso, che finisce anche
per raccontare l’Italia un po’ più delle commedie in voga. Ma il tono farsesco con
cui vengono sottolineate le bassezze (in un omaggio, in minore, a Monicelli) è
ripetitivo, come le musiche e la solita voce off per analfabeti dell’immagine.
LEONI
REGIA DI PIETRO PAROLIN
ITALIA · 2015 · COMMEDIA · DURATA: 95’
CON NERI MARCORÈ, STEFANO PESCE, PIERA DEGLI ESPOSTI, ANNA DALTON
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
C
LIFE ITSELF
REGIA DI STEVE JAMES
di Mauro Gervasini
Il regista Steve James lavora a un film insieme a Roger Ebert, ma quest’ultimo si
ammala gravemente, così James decide di fare un documentario su di lui. Ma lui
chi? Ebert, scomparso nel 2013, è stato il più importante critico cinematografico
statunitense dopo Pauline Kael e Andrew Sarris, che erano però di un’altra generazione. «Star e regista assoluto della sua vita», un premio Pulitzer e mezzo secolo di carriera al “Chicago Sun-Times”, lontano da Hollywood Ebert s’inventa una
professione che fino a lui quasi non era tale (Kael e Sarris erano prima di tutto
intellettuali), trasformandola in un sistema di comunicazione popolare, la critica
come diffusore di amore per il cinema. Stile brillante, a volte un po’ cialtrone (in
senso buonissimo), con il collega Gene Siskel conduce per anni un programma
tv di cinema concepito tipo una sitcom, dove i due giornalisti battibeccano in una
sala come fossero Laverne e Shirley, ma su Scarface o Apocalypse Now. Il do-
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cumentario ne segue la carriera con testimonianze assortite, secondo un procedimento professionale, però molto codificato (interviste e materiali di repertorio
- specie televisivi - in montaggio alternato). Certo, parliamo di un personaggio
eccezionale, punto di riferimento di ogni cinefilo, ma non si capisce bene a chi Life
Itself sia rivolto, specie in Italia dove Ebert è poco conosciuto fuori dalla cerchia
degli addetti ai lavori.
LIFE ITSELF
REGIA DI STEVE JAMES
USA · 2014 · DOCUMENTARIO · DURATA: 112’
CON ROGER EBERT
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 19 febbraio
C
LOVE IS ALL
REGIA DI KIM LONGINOTTO
di Ilaria Feole
Il cinema è il medium perfetto per raccontare l’amore: al netto delle parti noiose,
delle ingerenze dal fuoricampo, la macchina da presa può ignorare l’ordinario
e inquadrare solo l’ardore e il desiderio. Kim Longinotto approfondisce il senso
totalizzante della passione su grande schermo con un documentario di montaggio dall’intento ibrido, fra intrattenimento e ricostruzione storica. Minuziosamente
scelti fra i titoli di oltre un secolo di produzione cinematografica britannica, con
l’apporto di video amatoriali d’epoca, i segmenti cuciti insieme mettono in scena non solo il sentimento, ma, come esplicita il titolo originale, anche i rituali di
corteggiamento, che evolvono nello scorrere dei decenni, dalle caste passeggiate
di inizio Novecento alla rivoluzione sessuale nella Swinging London, fino all’amore omosessuale e interrazziale di My Beautiful Laundrette. A livellare i numerosi salti avanti e indietro nel tempo sono i brani del cantautore inglese Richard
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Hawley, che solo a tratti lasciano trapelare i dialoghi originali, scelta ingombrante
che ribalta i rapporti di forza tra suono e immagini, mettendo queste ultime al
servizio della musica. Producendo così, nella lunga durata di un lavoro che fa
scorrere sotto gli occhi del pubblico oltre cento anni di illusione amorosa nella
settima arte, l’effetto di assistere a un lunghissimo videoclip, troppo spesso più
frivolo che incisivo rispetto alla materia selezionata.
LOVE IS ALL
REGIA DI KIM LONGINOTTO
REGNO UNITO · 2014 · DOCUMENTARIO · DURATA: 70’
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 14 febbraio
C
LUPIN III VS. DETECTIVE CONAN
REGIA DI HAJIME KAMEGAKI
di Ilaria Feole
Non è la prima volta che l’incorreggibile ladro e il super detective con gli occhiali si
incontrano: era già avvenuto nel tv movie omonimo del 2009, la cui trama si rivela
presupposto cruciale per capire l’intricato plot di questo crossover cinematografico. Di incontro, più che di scontro, si tratta, nonostante il “vs” del titolo: coinvolti
nel furto di un brillante e nel nebuloso tentativo di attentare alla vita di un celebre
cantante pop, i due testardi e geniali divi dei rispettivi show sono comunque troppo buoni e intelligenti per non allearsi contro una banda di cattivoni. Fra Lupin,
bambinone nel corpo di uomo che prende il crimine come il più spassoso dei giochi, e Conan, ragazzo intrappolato nel corpo di bimbo, la complicità è questione di
affinità elettiva. Il film risponde alle esigenze del pubblico aggiornate all’epoca del
web, delle fan fiction e dei mash-up su YouTube: comprime all’interno della medesima narrazione sia i tratti grafici distintivi (spesso stridenti fra loro) di ciascuno
C
dei due anime sia le situazioni topiche, in un amalgama troppo macchinoso per
funzionare in modo efficace sulla durata di un lungo. Nonostante qualche godibile sequenza d’azione (inseguimenti fra terra, cielo e mare tengono alto il ritmo)
e il consueto, acrobatico scoperchiarsi di doppi, tripli e forse perfino quadrupli
giochi da parte dei protagonisti, il film poco aggiunge alle due saghe e si limita a
intrattenere spettatori già fidelizzati.
LUPIN III VS. DETECTIVE CONAN
REGIA DI HAJIME KAMEGAKI
GIAPPONE · 2013 · ANIMAZIONE · DURATA: 110’
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 10 febbraio
C
MARAVIGLIOSO BOCCACCIO
REGIA DI Paolo Taviani, Vittorio Taviani
di Fabrizio Tassi
È un Boccaccio poco boccaccesco quello immaginato dai Taviani, se intendiamo
l’aggettivo per ciò che è diventato nei secoli. Luttuoso più che licenzioso. Teatrale
nella messinscena. Percorso da toni e accenti che a tratti fanno pensare all’opera
(buffa e mélo) più che alla novella. Cinque storie scelte tra le cento del Decamerone, dentro la cornice filologica dei dieci narratori e della peste del 1348 a Firenze.
In realtà tutti i personaggi vivono in una dimensione senza tempo, quella propria
dell’immaginazione e dell’amore. Anche nel macabro prologo sembra di stare in
ogni luogo ed epoca in cui una peste abbia devastato i corpi e gli animi, uccidendo
la voglia di vivere. Spazi “metafisici”, ambienti fiabeschi (tra la Toscana e il Lazio),
movimenti coreografici dentro il quadro, campi medi e lunghi “affrescati”, una regia
che fa del modernismo retrò. Il risultato più che “maraviglioso” è straniante. Lo
sarebbe di più - e forse dovrebbe esserlo - se non fosse per la parata di interpreti
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(troppo) noti, con le loro performance troppo personali e a volte stonate. Si indicano la bellezza, il desiderio, la passione come rimedi alla peste. Si evoca il passaggio tra il Medioevo ieratico e la nascita dell’individuo, l’umanesimo - soprattutto la
nascita della donna, omaggiata nel suo diritto alla scelta, nel coraggio e la nobiltà
dei sentimenti. Ma rimane più che altro l’intreccio irredimibile di amore e morte,
oltre al senso di incompiutezza (inevitabile?) dell’operazione.
MARAVIGLIOSO BOCCACCIO
REGIA DI PAolo TAvIAnI, vITToRIo TAvIAnI
ITAlIA · 2015 · DRAMMATICo · DURATA: 123’
Con JAsMInE TRInCA, KIM RossI sTUART, MIChElE RIonDIno, KAsIA sMUTnIAK
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 26 febbraio
C
MORTDECAI
REGIA DI David Koepp
di Andrea Fornasiero
Johnny Depp si cala nei panni del trafficante d’arte Mortdecai, protagonista di una
serie di romanzi di Kyril Bonfiglioli (edita in Italia da Piemme). Coinvolto in un intrigo internazionale dove un quadro di Goya è nel mirino di trafficanti e servizi segreti,
Mortdecai deve anche cercare di riguadagnare l’affetto della moglie, respinta dai
suoi amati e ridicoli baffi a manubrio. Dandy in un mondo di zotici, il personaggio
letterario era un truffatore spregiudicato e irresistibile, mentre nel film si riduce a
vittima inetta che reagisce, per lo più malamente, alle situazioni in cui si trova, dunque senza il fascino di una brillante intelligenza. Depp vorrebbe reinterpretarlo con
la devastante idiozia dell’ispettore Clouseau di Peter Sellers, ma il suo campionario ormai stravisto di smorfie, più o meno esagerate e a cui è sconosciuto il valore
della pausa, non gli guadagna simpatia. Una vera débâcle per l’attore, considerato
poi che si tratta del suo terzo recente e disastroso flop dopo The Lone Ranger e
C
Transcendence. Anche il tentativo di dare un tono sofisticato al film, con la trasformazione del bestiale agente Malnard del romanzo nel delicato e innamorato Ewan
McGregor, non sortisce effetto, perché, a conti fatti, nel climax si punta su gag a
base di vomito, come in un film dei Farrelly, ma senza spontaneità. E non bastano
ricercati costumi e cambi di scena in CGI a salvare lo stile.
MORTDECAI
REGIA DI David Koepp
USA · 2015 · CoMMEDIA · DURATA: 106’
CoN JohNNy DEpp, GwyNETh pAlTRow, EwAN MCGREGoR, pAUl BETTANy
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 19 febbraio
C
MOTEL
REGIA DI DAVID GROVIC
di Ilaria Feole
Diretto da un esordiente con curriculum da attore, su script originale di un altro attore (James Russo), Motel è un divertissement in cui a divertirsi sono solo
i nomi del cast & crew. Ingolositi dall’idea di giocare, per l’ennesima volta, con
l’icona di boss della mala di Robert De Niro, calandolo in ormai consunti panni
caricaturali: quelli di Dragna, pezzo grosso in odore di psicolabilità che affida al
suo uomo migliore, Jack, un incarico di semplicità disarmante. Deve solo ritirare una borsa e consegnargliela, senza guardare al suo interno. Il trucco c’è e si
vede anche benissimo, dal momento che nel giro di poche ore Jack, borsa alla
mano, si ritrova asserragliato in una camera di motel ai margini delle paludi della
Louisiana, incastrato dal suo debole per una prostituta nei guai e sotto il mirino
di un buon numero di brutti ceffi armati. John Cusack, a sua volta impegnato in
un gioco metatestuale (prendendo in giro il suo ruolo di sicario dal cuore d’oro
C
del cult anni 90 L’ultimo contratto), ce la mette tutta per sostenere uno script pigramente adagiato su stilemi pulp che risultavano vecchi già un paio di decenni
fa: humour nero, criminali grotteschi, furbate tarantiniane con ammiccamenti
lynchani e una buona dose di violenza da stemperare nel registro ironico. Un
pasticcio compiaciuto, col pedale del trash mai pigiato a tavoletta, nonostante
l’apporto sopra le righe dell’incontenibile De Niro.
MOTEL
REGIA DI DAVID GROVIC
USA · 2014 · THRILLER · DURATA: 110’
CON JOHN CUSACK, ROBERT DE NIRO, REBECCA DA COSTA, CRISPIN GLOVER
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al cinema dal 26 febbraio
C
MUNE - IL GUARDIANO DELLA LUNA
REGIA DI ALEXANDRE HEBOYAN, BENOÎT PHILIPPON
di Alice Cucchetti
A scorrere i curriculum di chi ha lavorato a Mune - Il guardiano della luna si ritrova
gran parte del cinema d’animazione recente: Kung Fu Panda, Mostri contro alieni,
Dragon Trainer, Rapunzel, Hotel Transylvania, Ralph Spaccatutto, Azur e Asmar,
L’illusionista, Cattivissimo me. Francese di nome, cosmopolita di fatto, la storia di
Mune si svolge in un tempo sospeso tra fiaba e mito, in cui luna e sole sono oggetti magici e misteriosi trascinati per il mondo dai rispettivi guardiani, incaricati
di mantenere così la necessaria armonia terrestre. Mune, cui viene affidata la luna
“per errore”, ha le orecchie di Stitch e gli occhioni da anime giapponese, mentre
i suoi autori lo definiscono un mix tra Bambi e Spider-Man e gli costruiscono
attorno un mondo che omaggia Avatar e Miyazaki. Le regole della narrativa per
l’infanzia impongono, naturalmente, che un cattivo turbi l’equilibrio e che l’eroe
possa intraprendere il proprio viaggio di formazione verso l’happy ending; ma
C
Mune - Il guardiano della luna riesce nell’impresa sorprendente di bilanciare le
sue tante ispirazioni, contrappuntandole con qualche idea originale, visivamente
affascinante (i templi viventi, la ragazza di cera), incastrando frammenti di puzzle
lontani nella creazione di un paesaggio nuovo, giocando con tecniche distanti,
fino a srotolare un universo immaginifico illuminato di passione e meraviglia.
La convenzionalità dell’intreccio è per i più piccini; per tutti, invece, il piacere dello
sguardo.
MUNE - IL GUARDIANO DELLA LUNA
REGIA DI ALEXANDRE HEBOYAN, BENOÎT PHILIPPON
FRANCIA · 2015 · ANIMAZIONE · DURATA: 86’
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
C
NOI E LA GIULIA
REGIA DI EDOARDO LEO
di Simone Emiliani
C’è una strada diversa nel cinema italiano per raccontare la crisi di una generazione. L’aveva già indicata intelligentemente Smetto quando voglio. E le tracce di
quell’anomalo e attraente realismo allucinato, che scivola in derive fantastiche,
segnano Noi e la Giulia, ulteriore processo di maturazione di Edoardo Leo come
regista dopo i già convincenti Diciotto anni dopo e Buongiorno papà. Tratto dal
libro Giulia 1300 e altri miracoli di Fabio Bartolomei, il film vede protagonisti tre
quarantenni insoddisfatti delle loro esistenze, uniti nell’impresa di aprire un agriturismo. A loro si uniscono un cinquantenne invasato e una ragazza incinta fuori
di testa. Pur essendo minacciati dalla camorra, decidono di non stare al suo gioco.
Un cinema della terra, come quello del miglior Rubini regista, con la trovata della
macchina sepolta e dell’autoradio che funziona ancora. La continua alternanza
tra illusione e fallimento richiama invece Adua e le compagne di Pietrangeli, forse
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l’unica traccia di un cinema che finalmente non spaccia i suoi punti di riferimento,
che sa scivolare dalla comicità all’amarezza con un istinto naturale e non calcolato, dove le battute sembrano sottovoce ma poi risultano fulminanti, come quella
esilarante di Giuseppe Verdi connesso a un coro da stadio della Roma. Leo fa le
cose semplici, ma le fa bene. È capace di tirare fuori il meglio dai suoi attori senza
snaturarli. E Anna Foglietta è una specie di angelo sceso dal cielo.
NOI E LA GIULIA
REGIA DI EDOARDO LEO
ITALIA · 2015 · COMMEDIA · DURATA: 115’
CON EDOARDO LEO, CARLO BUCCIROSSO, LUCA ARGENTERO, ANNA FOGLIETTA
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 19 febbraio
C
NON C’È 2 SENZA TE
REGIA DI MASSIMO CAPPELLI
di Claudio Bartolini
È uno spinoff spurio, quello cui dà vita Cappelli a partire dai due gay che in Cado
dalle nubi davano ospitalità a Checco. Stesso orientamento, stesso equilibrio di
coppia, solo nomi diversi. Il teatrino delle macchiette è palesato in un prologo
festaiolo che parodizza la celebre sequenza di La grande bellezza, prima che Moreno metta in dubbio la propria pluridecennale omosessualità al primo sguardo
rivoltogli dalla bella Laura, travestita da collegiale, bagnante, sexy vigilessa e suora per giustificare l’ingaggio di Belén Rodriguez agli occhi del maschio alfa. Morale di partenza: basta il sorriso di una femmina per riportare il “deviato” sulla “retta
via”. Domanda spontanea: in che secolo (e in che luogo) ci troviamo? A Torino,
nel 2014, ma è come se fossimo nella Puglia del Dopoguerra, tra omosessuali
impegnati a nascondere la loro (fragile, così pare) natura o a metterla in ridicolo
a suon di isterismi, orecchie di peluche e spettacolini en travesti da insegnare al
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nipotino per la recita scolastica. Il sottotesto, che emerge tra giochi di parole vetusti (le ganasce diventano bagasce, per dirne uno), rare prese di coscienza («Ue’
raga, anch’io sono gay, ma non faccio mica tutto ‘sto casino») e una provocazione lanciata alla contemporaneità (la donna italiana, oggi, preferisce il maschio
effeminato alla minacciosa virilità?) è: o sei etero, o sei una caricatura. Qualcuno
spieghi ai nostri eroi che l’omosessualità è (anche) una cosa seria. E reale.
NON C’È 2 SENZA TE
REGIA DI MASSIMO CAPPELLI
ITALIA · 2015 · COMMEDIA · DURATA: 95’
CON DINO ABBRESCIA, FABIO TROIANO, TOSCA D’AQUINO, SAMUEL TROIANO
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
C
NON SPOSATE LE MIE FIGLIE!
REGIA DI PHILIPPE DE CHAUVERON
di Mauro Gervasini
Comédie potache quant’altre mai. Dal termine gergale “potache”, intraducibile in
italiano, ma che fa riferimento al mondo goliardico studentesco. Il rimando è a un
umorismo non greve, non volgare, appena pungente e tutto sommato innocuo.
Il primo film potache della storia del cinema è il primo film (a soggetto) della
storia del cinema: L’arroseur arrosé (L’innaffiatore innaffiato) dei fratelli Lumière,
del 1895. Chiaro che da allora qualunque variazione sul tema venga accolta dai
francesi con favore. I film più visti da sempre del cinema d’oltralpe (fa in parte
eccezione Quasi amici) sono appunto potache: da In famiglia si spara a Le folli
avventure di Rabbi Jacob a Giù al nord, fino a questo Non sposate le mie figlie! (in
originale Qu’est-ce qu’on a fait au bon Dieu?) che in patria ha richiamato in sala
ben 12.237.274 spettatori (per fare un confronto, Sole a catinelle, da noi, 8.022.000).
Christian Clavier e Chantal Lauby, coppia di brillanti attori, interpretano marito e
C
moglie francesissimi, lui gollista, lei parrocchiana devota, alle prese con tre figlie
già legate rispettivamente a un ragazzo ebreo, uno cinese e un magrebino musulmano. Sperano nella quarta, la più giovane, che ama invece un nordafricano.
Il matrimonio tra questi due è il lieto evento intorno al quale si coagulano famiglie eterogenee, perché anche per il padre dello sposo accettare una parentela
francese non è facile come bere un bicchier d’acqua. Il film ha una sceneggiatura
semplice, ben congegnata, forte dell’accumulo di stereotipi che quasi si annullano tra loro invece di risultare offensivi. Per dire: il marito ebreo chiama i due
cognati Bruce Lee e Gheddafi, il cinese Woody Allen e Arafat, il magrebino Jackie
Chan e Popeck. Di fronte al presepe sono tutti un po’ d’accordo che Gesù sia
personaggio «sopravvalutato», ma fingono devozione per quieto vivere e per preservare le coronarie del povero suocero, uno che va a pescare commuovendosi
se sente Douce France di Trenet (nella scena più bella del film: «Douce France...
Cher pays de mon enfance...»). Alla fine trionferanno, come da copione, i buoni
sentimenti, la tolleranza anche politica e le affinità di genere (la complicità virile dei consuoceri sfiderà qualunque diffidenza, anche con l’aiuto del vino...). Non
sposate le mie figlie! diverte il giusto, a patto che non ci si aspetti chissà che. Del
resto il limite, o forse il pregio, della commedia potache è proprio quello di essere
sempre “nella media”.
NON SPOSATE LE MIE FIGLIE!
REGIA DI PHILIPPE DE CHAUVERON
FRANCIA · 2014 · COMMEDIA · DURATA: 97’
CON CHRISTIAN CLAVIER, CHANTAL LAUBY, ARY ABITTAN, MEDI SADOUN
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 5 febbraio
C
PATRIA
REGIA DI FELICE FARINA
di Mauro Gervasini
Dopo l’annuncio della chiusura della fabbrica, l’operaio Pannofino sale su una torre per protesta. Lo segue il sindacalista Citran, che vorrebbe impedirgli di fare
scemenze. Sono uniti da anni di “lavoro” insieme e separati da ideologie demodé,
di destra il primo, di sinistra il secondo. Li raggiunge il guardiano Gabardini, che
in modo un po’ ossessivo cita, a beneficio del dibattito tra i due e dello spettatore,
gli eventi che hanno cambiato l’Italia dal 1978 (anno della sua nascita e dell’affaire
Moro) al 2010 (con ancora Berlusconi dominus della scena). In gran parte rivissuti
e rivisti attraverso inserti documentaristici. Felice Farina con coraggio da leoni si
ispira al libro di Enrico Deaglio Patria, e per renderlo il più possibile narrativo, s’inventa la cornice, la torre, i due personaggi manichei più uno borderline. L’idea di
concentrare su tre uomini diversamente marginalizzati dalla storia la coscienza
(perduta, mantenuta o ritrovata) degli eventi che quella stessa storia hanno mo-
C
dificato, in peggio, è interessante. Rende anche più umanista l’impianto drammaturgico altrimenti (solo) programmatico. Resta però espediente debole rispetto
all’ambizione di raccontare al cinema un libro-monstre come quello di Deaglio,
magmatico e contraddittorio come possono (e forse devono) essere le letture di
un periodo così complesso ed esteso come quello italiano degli ultimi 30 anni.
PATRIA
REGIA DI FELICE FARINA
ITALIA · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 89’
CON FRANCESCO PANNOFINO, ROBERTO CITRAN, CARLO GABARDINI
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 26 febbraio
C
UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE
SULL’ESISTENZA
REGIA DI ROY ANDERSSON
di Giulio Sangiorgio
«Ed è così che il mondo finisce», volume ennesimo. Per Roy Andersson, surrealista venuto dal freddo di Svezia, l’apocalisse non è una questione di schianti,
né di piagnistei: è una serie di 39 pianisequenza fissi come le vignette di una
bande dessinée, 39 quadri di algido pallore, indipendenti ma tenuti insieme da
rime e rimandi, attraversati da due venditori che ricordano coppie comiche d’altri
tempi, ma non riescono a vendere a nessuno i propri ridicoli prodotti per far ridere. Andersson chiude la trilogia «sull’essere un essere umano» con 39 piccoli
teatri dell’assurdo in cui non s’aspetta Godot ma il denaro che manca, un balletto
meccanico di uomini vuoti che il respiro lungo dell’inquadratura mette in ridicolo,
una danse macabre tragicomica, disperata e rassegnata, che racconta l’agonia
della crisi e una fine lentissima. Non c’è un barlume d’affetto se non palesemente
mimato (al telefono si ripete, occhi nel vuoto: «Sono contento di sapere che vada
C
tutto bene»), l’umanità è una bestia chiusa in gabbia, il popolo è schiavo (di un re
di un altro tempo, di decrepiti intrattenuti dal canto di un nuovo forno crematorio),
i corpi sono marionette svuotate, mere estensioni di un capitalismo stremato. E
alla fine di tutto, Andersson mette in abisso il suo privilegio d’artista: è giusto ridere del dolore degli altri, goderne come spettacolo? Comico, (auto)critico, politico.
Leone d’oro a Venezia 2014.
UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA
REGIA DI ROY ANDERSSON
SVEZIA · 2014 · COMMEDIA · DURATA: 101’
CON HOLGER ANDERSSON, NILS WESTBLOM, CHARLOTTA LARSSON, BIKTOR GYLLENBERG
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al cinema dal 19 febbraio
C
LA PIRAMIDE
REGIA DI GRÉGORY LEVASSEUR
di Adriano Aiello
Una squadra di archeologi americani scopre l’esistenza di un’antica piramide sepolta sotto il deserto egiziano. Decisi ad analizzarla, quattro di loro rimangono
intrappolati in profondità, rendendosi conto di essere prede di una creatura misteriosa. Tre righe di sinossi per uno degli horror, ovviamente in soggettiva, più
avaro di spunti di riflessione degli ultimi tempi. «Siamo intrappolati qui dentro
come il cibo in una ciotola» chiosa dopo i primi assalti dei gattini cannibali (ebbene
sì, ci sono i gatti cannibali che sopravvivono da millenni mangiandosi tra loro) il
cameraman inusitatamente logorroico di La piramide. E sin dall’incipit, la sua si fa
metafora della condizione dello spettatore, incastrato in una visione senza guizzi,
momenti cult (o anche scult) da terza serata su Italia 1. Un horror di tante parole,
con spiegoni archeologici (perfino sulla massoneria), spaventi facili e un mostro
ben congegnato ispirato ad Anubi: il mezzo uomo mezzo sciacallo, figura centrale
C
della religione egizia. Il film di Grégory Levasseur - ma dovrebbe essere la produzione di Alexandre Aja, di cui è usualmente sceneggiatore, il grande hype del
prodotto - è tutto all’insegna della medietà: dagli interpreti, allo sviluppo che ricalca The Descent - Discesa nelle tenebre senza eguagliarne mai le vette, alla scelta
del finto found footage, fatta per pura consuetudine, giustificata solo dalle riprese
a scopo scientifico e mai realmente coerente ai punti di vista dei personaggi.
LA PIRAMIDE
REGIA DI GRÉGORY LEVASSEUR
USA · 2014 · HORROR · DURATA: 89’
CON ASHLEY HINSHAW, JAMES BUCKLEY, DENIS O’HARE, DANIEL AMERMAN
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 18 febbraio
C
Pokèmon: Diancie e il bozzolo della distruzione
REGIA DI KUNIHIKO YUYAMA
di Alice Cucchetti
Giganteschi occhi rosa, modi leziosi, telepatia e capacità di materializzare dal
nulla pietre preziose (ovviamente rosa) caratterizzano la principessa Diancie,
Pokémon leggendario, sovrana di un regno sotterraneo che si autodistruggerà se
lei non sarà in grado di creare il fondamentale Diamante del cuore. Diancie parte
alla ricerca di Xerneas, un Pokémon ancor più leggendario e dotato del potere di
donare (non solo) la vita; sulla strada, oltre a una molteplicità di ladruncoli attirati
dal suo allettante talento, incontra Ash, Pikachu e compari: è istantanea amicizia
e reciproco aiuto. Al lungometraggio numero 17 - di un universo multimediale
che conta sei generazioni di videogame, una popolare serie anime, diversi manga, giochi di carte collezionabili, parchi a tema, accuse di satanismo, attacchi da
associazioni animaliste e perfino una fatwa - i mostriciattoli tascabili ideati da
Satoshi Tajiri non hanno interesse alcuno ad ampliare il proprio pubblico: Diancie
C
e il bozzolo della distruzione è impacchettato direttamente per gli adepti, grandi o
piccini che siano, insieme al nuovo (doppio) gioco Pokémon X e Y. All’irresistibile
Pikachù affianca una protagonista di stucchevole essenza kawaii, ai fondali ricalcati in esterna su panorami canadesi sovrappone l’azione standardizzata di un
diluito episodio per la tv, gonfiando un “viaggio dell’eroe” ridotto all’osso con semplicistici riferimenti nientemeno che a Miyazaki. Per bimbi, fan e nessun altro.
Pokémon: Diancie e il bozzolo della distruzione
REGIA DI KUNIHIKO YUYAMA
GIAPPONE · 2014 · ANIMAZIONE · DURATA: 95’
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 21 febbraio
C
THE PRESIDENT
REGIA DI MOHSEN MAKHMALBAF
di Giulio Sangiorgio
In un luogo che non ha nome - ma solo perché potrebbe essere ovunque, in
ogni tempo - un dittatore gioca con il nipotino. Insieme spengono e accendono,
a piacimento, le luci della città. Come se di fronte a loro ci fosse solo e soltanto
un’immagine del mondo, una cartolina, come se in gioco non ci fossero gli altri.
On/off, vita/morte: è il gioco del potere quello che mette in scena quest’ultimo
Makhmalbaf. L’abuso come forma di intrattenimento, che il cinema oggi continua
a raccontare, dai nani di The Wolf of Wall Street agli schiavi di Django Unchained.
Poi esplode la rivoluzione. Il meschino presidente è costretto alla fuga, a confrontarsi con il reale miserevole che ha prodotto, che non l’ha mai toccato e che non
ha mai guardato. E a mascherare - agli occhi del bambino e con La vita è bella
negli occhi - le brutture del mondo, come fossero elementi di un gioco. Un altro?
Lo stesso. Dall’esilio londinese (e su set georgiano) il maestro iraniano riflette
C
sulle primavere arabe, raccontando in una semplice e semplicistica parabola il
paradosso di una rivoluzione violenta quanto la dittatura che combatte. E se si
concentra sulle domande del bimbo e le mistificazioni del presidente, se il filtro
del gioco è tanto centrale, è perché la questione è, prima di tutto, ideologica: violento è chi è incapace di guardare il reale, di comprenderlo. Morale di una favola
pamphlet, allegoria politica naïf, elementarmente dimostrativa.
THE PRESIDENT
REGIA DI MOHSEN MAKHMALBAF
GEORGIA · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 115’
CON MISHA GOMIASHVILI, DACHI ORVELASHVILI
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 17 febbraio
C
REMBRANDT
REGIA DI Kat Mansoor
di Elisa Bonazza
Tutti conosciamo il nome di Rembrandt, ma quanti sono in grado di riconoscere il
suo stile e le sue opere? Kat Mansoor ci aiuta a comprendere meglio il pittore con
un film - nuovo tassello nel lavoro di distribuzione operato da Nexo Digital per traghettare nelle sale italiane esposizioni di standard superiore, altrimenti lontane dal
nostro paese: in questo caso, dalla National Gallery di Londra e dal Rijksmuseum
di Amsterdam - che porta lo spettatore alla scoperta dell’ultimo periodo produttivo
dell’artista, tramite i quadri raccolti in una pregevole mostra grazie all’eccelso lavoro curatoriale di Betsy Wieseman e Jonathan Bikker. Sul grande schermo si gode
dei più piccoli particolari delle tele, delle rughe che circondando occhi che hanno
visto molto e dei preziosi richiami di tessuti fiamminghi. L’ultima fase creativa di
Rembrandt è quella più interessante, perché è il momento in cui approfondisce
l’aspetto psicologico dei personaggi ritratti senza scendere a compromessi, in
C
contrasto con una nuova moda che cambia il gusto dei mecenati. Anticipatore di
uno stile che non vedremo prima di un altro secolo con Goya e dopo ancora con
Manet, Rembrandt è un genio in grado di trasformare scene quotidiane in drammi.
È commovente la passione con cui i curatori e il personale che sta a contatto con le
sue opere trasmettono in un racconto che tiene incollati alla poltrona.
REMBRANDT DALLA NATIONAL GALLERY DI LONDRA E DAL RIJKSMUSEUM DI AMSTERDAM
REGIA DI KAt MAnsooR
REGno UnIto, olAnDA · 2014 · DocUMEntARIo · DURAtA:125’
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 9 febbraio
C
THE REPAIRMAN
REGIA DI PAOLO MITTON
di Adriano Aiello
Scanio vive con lentezza. Ha un volto simpatico, una camminata buffa e un’attitudine che nasconde male la sua inadeguatezza verso il mondo circostante e verso
gli amici che lo vogliono più attivo, o lo spingono a darsi al sesso. Vorrebbe essere
lasciato in pace e dedicarsi al suo talento irrisolto: aggiustare oggetti meccanici. D’improvviso perde il lavoro come riparatore di macchine del caffè, ma trova
l’amore di una giovane inglese, anche se non sembra accorgersi di entrambi i
fatti, ossessionato dalla costruzione di uno strumento che allontani le onde elettromagnetiche e affievolisca la sua insonnia. Opera prima fluttuante e riflessiva,
volutamente inerte, senza grida e strizzate d’occhio. In cerca di se stessa come il
suo protagonista. The Repairman (perché questo titolo in inglese, che evoca anche suggestioni da thriller sinistro?) è la biografia di un outsider assoluto costruita
come un flusso di coscienza per capitoli tematici, con un minimalismo narrativo
C
che guarda al cinema dello straniamento lunare a stelle e strisce. Però ha uno
sguardo diverso e sincero ed è un bell’elogio del vivere fuori dagli argini della frenesia, abile a schivare le trappole della sociologia spicciola e pedante. Tentazione
che condiziona anche la messa in scena, pigra e adagiata sulla solita, ossessiva
voce off: un espediente abusato di cui troppo cinema italiano non riesce proprio
a liberarsi.
THE REPAIRMAN
REGIA DI PAOLO MITTON
ITALIA / REGNO UNITO · 2013 · COMMEDIA · DURATA: 89’
CON DANIELE SAVOCA, HANNAH CROFT, PAOLO GIANGRASSO, FRANCESCA PORRINI
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 26 febbraio
C
ROMEO & JULIET
REGIA DI CARLO CARLEI
di Alice Cucchetti
Romeo e Giulietta è una storia di giovani contro vecchi: il sentimento assoluto si
sposa al ribellismo adolescenziale, la tragedia ribalta le regole avvizzite di una
società in decadenza, l’iconografia romantica di amore & morte tocca una vetta
inarrivabile dopo le svolte fatali di un plot infallibile. Carlo Carlei e la produzione
di quest’ennesima versione cinematografica del capolavoro shakespeariano non
devono avere, però, una grande stima dei giovani, se per ripropinarci la love story
più frequentata di sempre (e con la motivazione ufficiale di far conoscere il testo
ai ragazzi) sentono il dovere di offrirci un Romeo super model con camiciola spalancata sui pettorali e di modificare le liriche del Bardo quel tanto che basta ad
aggirare la tentazione del dizionario. Se il ballo in maschera sembra una festa a
tema di Gossip Girl, se i protagonisti tengono costantemente la bocca semi aperta e l’aria sognante, se i mortali duelli all’arma bianca sfondano ripetutamente
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il ridicolo, può succedere che i grandi interpreti (da Paul Giamatti/frate Lorenzo
a Stellan Skarsgård/principe di Verona, passando per Lesley Manville/balia) finiscano per fare la figura di quelli fuori posto. Così come l’ambientazione, tutta
italiana (Verona e Mantova, ma anche Subiaco nel Lazio e Cinecittà): per quanto le
nostre storiche strade possano corrispondere a quelle indicate sulla carta, l’effetto
è quello di una parata rievocativa. Posticcia e smorta.
ROMEO & JULIET
REGIA DI CARLO CARLEI
ITALIA / USA · 2013 · DRAMMATICO · DURATA: 118’
CON HAILEE STEINFELD, DOUGLAS BOOTH, ED WESTWICK, CHRISTIAN COOKE
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 12 febbraio
C
IL SEGRETO DEL SUO VOLTO
REGIA DI CHRISTIAN PETZOLD
di Claudio Bartolini
Nel cinema di Petzold, l’universale ricade sempre sull’individuale. Le ferite sul volto dell’ebrea Nelly, di ritorno a Berlino dal lager di Auschwitz - inquadrato soltanto
in un flashback onirico, che smentisce il ricordo per attestare la rimozione - sono
quelle di ogni perseguitato. Il suo corpo è il corpo della Storia. All’annientamento
dell’Io subito nel campo corrisponde il desiderio di riappropriazione della propria
immagine identitaria riposto in una plastica facciale, grazie alla quale tornare da
un marito che (inconsciamente) non la riconosce, ma ha bisogno di “una Nelly”
per appropriarsi dell’eredità. Irrompe il paradosso della Storia: Nelly, in una costruzione drammaturgica abissale, per tornare a essere Nelly deve interpretarla.
Dal piano estetico, la questione identitaria scivola su quello etico, mentre Petzold
impagina una Berlino che prende corpo da fassbinderiani toni noir postbellici, per
poi maturare una consapevolezza formale geometrica, essenziale, assertiva.
C
Oggetti residuali da inquadrare in camera fissa, come brandelli di una memoria che si rifiuta di affermarsi. Rigore fotografico, sottrazione di colonna sonora,
personaggi dispersi sul viale della dimenticanza. Epifanie implose nella cesura
del movimento di macchina, con stacchi di montaggio netti, brutali, a smentire la
fluidità del ricordo. Il segreto del suo volto è un film inesauribile, l’ennesimo di un
cineasta cui aggrapparsi disperatamente.
IL SEGRETO DEL SUO VOLTO
REGIA DI CHRISTIAN PETZOLD
GERMANIA · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 110’
CON NINA HOSS, RONALD ZEHRFELD, NINA KUNZENDORF, UWE PREUSS
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 19 febbraio
C
SELMA - LA STRADA PER LA LIBERTÀ
REGIA DI AVA DUVERNAY
di Alice Cucchetti
«Selma racconta il movimento per i diritti civili, che ha funzionato perfettamente
e ora è tutto okay»: è la battuta con cui Amy Poehler e Tina Fey presentano il film
durante la cerimonia dei Golden Globe 2015 e illumina in un ghigno, ironico suo
malgrado, le ambiguità dell’opera di DuVernay. Che difficilmente potrebbe essere
più politicamente corretta (e dunque, forse, più innocua) di com’è, precisa nella
ricostruzione storica, calibrata tra scintille d’indignazione e precognizioni di rassicurante speranza, attenta a tratteggiare villain senza chiaroscuri (il governatore
Wallace di Tim Roth, il capo della polizia, ovviamente il burattinaio J. Edgar Hoover) e a pennellare d’umanità gli eroi consegnati alla Storia (Martin Luther King
e Lyndon B. Johnson). Ma Ava DuVernay (che viene dall’indie), se non può/vuole
inseguire la sovversione scioccante di 12 anni schiavo, evita con successo le insopportabili semplificazioni di un The Butler o la frivola stucchevolezza di un The
C
Help, concentrandosi, come Lincoln, su un momento cruciale preciso e circoscritto, sovrapponendo l’icona (il dottor King interpretato con mimesi personale
da David Oyelowo) all’immagine dell’uomo comune (e dunque allo spettatore).
Selma è cinema classico, tradizionale, solido: retorico quando serve, commovente quanto basta. Eppure necessario: l’autorappresentazione di un popolo, da
sempre relegato ai margini dello schermo, può passare anche per il canone.
SELMA - LA STRADA PER LA LIBERTÀ
REGIA DI AVA DUVERNAY
REGNO UNITO · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 123’
CON DAVID OYELOWO, TOM WILKINSON, GIOVANNI RIBISI, TIM ROTH
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 12 febbraio
C
IL SETTIMO FIGLIO
REGIA DI SERGEY BODROV
di Giulio Sangiorgio
Lui, Jeff Bridges, è l’ultimo dei maghi, vecchio, alcolizzato, un mix tra Gandalf e
Il grande Lebowski, cavalier resistente alle malie del Male. Lei, Julianne Moore,
nel film dei Coen spargeva mestruo su tela in nome dell’arte, qui attende la luna
piena di sangue per far calare le tenebre sul mondo: è la madre di ogni strega,
sedotta & abbandonata, ora in cerca di vendetta contro il Bene. Mago vs strega,
maschio contro femmina, soap opera e guerra culturale: i due han fatto di una
questione sentimentale uno scontro tra fondamentalismi, con in gioco il destino
della Terra e - prima di tutto, perché dover di young adult - quello di due giovani
e belli. Aka Ben Barnes e Alicia Vikander, stregone fallito e megera a metà, una
seconda generazione meticcia tesa a superare a suon di meltin’ pot ogni cieco
integralismo. Ennesimo episodio 1 di saga fantastica letteraria (da Joseph Delaney) adattata per il cinema e in cerca di successo e seguiti, un pastiche tra il serio
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e il faceto, girato da un tamarro con talento per l’action come Bodrov (in trasferta
americana) e con sceneggiatura (firmata anche dal Knight di Locke) che accumula a rotta di collo combattimenti e alleggerimenti, con nessun senso e nessun
tempo per epica, dramma e ironia. E con un’estetica che esagera con la CGI per
metterla in attrito con gli scenari naturali, in cerca di un digital/medievale kitsch e
spartano, in odor di B movie. Maestranze doc, interesse zero: paccottiglia.
IL SETTIMO FIGLIO
REGIA DI SERGEY BODROV
GRAN BRETAGNA / USA · 2014 · FANTASY · DURATA: 102’
CON JEFF BRIDGES, JULIANNE MOORE, KIT HARINGTON, BEN BARNES
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al cinema dal 19 febbraio
C
SHAUN - VITA DA PECORA
REGIA DI RICHARD STARZAK, MARK BURTON
di Ilaria Feole
Non è un gesto rivoluzionario come quello di Galline in fuga, l’evasione del gregge capitanato da Shaun: qui la valenza non è politica, ma tutta emotiva. Anche
l’amore fra un fattore e le sue pecore, inevitabilmente, cede ai colpi del tempo e
della consuetudine, così dopo anni di ripetitive e serrate tabelle di marcia quotidiane, l’affetto è sfiorito nella routine e gli ovini, stressati, vorrebbero solo un giorno libero. Ma il fato e tre maiali ci mettono lo zampino: Shaun si ritrova a dover
recuperare il fattore colpito da momentanea amnesia nella Big City, una Londra
immaginaria, con un accalappiatore maniaco alle calcagna. Fra le peripezie urbane di Babe va in città e l’umorismo stralunato del cartoon Ovino va in città,
il lungometraggio ispirato alla serie tv Aardman mantiene la formula che vede
umani e bestie ugualmente privi di parola e, senza avvalersi di una riga di dialogo,
costruisce con ritmo sapiente e un mucchio di plastilina un’avventura fruibile da
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pubblico di qualsiasi età. Guardando alle scorribande cinematografiche beatlesiane di Richard Lester (i Fab Four sono citati esplicitamente con tanto di strisce
pedonali), ma sfumando lo spirito british in gag corporali degni di John Belushi
(uno su tutti, quello ambientato al ristorante dove il gregge scambia i menù per
portate succulente), la Aardman eleva a potenza l’efficacia stilizzata di una serie
pensata per la breve durata e dà una lezione sulla differenza fra semplicità e
banalità.
SHAUN - VITA DA PECORA
REGIA DI RICHARD STARZAK, MARK BURTON
GRAN BRETAGNA / FRANCIA · 2015 · ANIMAZIONE · DURATA: 81’
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 12 febbraio
C
SPONGEBOB - FUORI DALL’ACQUA
REGIA DI PAUL TIBBITT, MIKE MITCHELL
di Adriano Aiello
Mentre l’apocalisse e l’oscurità avvolgono Bikini Bottom - improvvisamente devastata dal furto della ricetta dell’amato hamburger Krabby Patty a opera del pirata in live action Banderas - l’anteprima milanese di SpongeBob - Fuori dall’acqua
(allargata ai bambini) presenta numerosi spunti istruttivi. In sala si odono pargoli
entusiasti, intenti a saltare come grilli, altri più riflessivi e concentrati, quasi spaventati dal flusso esplosivo e disorganico di immagini e suoni. Eppure, quelli più
felici sembrano essere gli adulti: sghignazzano, più o meno tra i denti, di fronte
a improbabili macchine del tempo, duelli stile Avengers, delfini che rappano, sacrifici pagani per recuperare la dea polpetta, accodandosi alla giostra lisergica e
beatamente post-pedagogica che anima da sempre la serie. E ancora di più le
vicende raccontate in questo secondo lungometraggio dedicato a SpongeBob,
Plankton (ineditamente al fianco del rivale storico), Mr. Krabs, Squiddi Tentacolo
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e tutto il resto della ciurma acquatica. In effetti, si vede un po’ di tutto, perfino
Banderas sbagliare i raccordi digitali mentre parla con gli uccelli, in un divertente
accumulo di situazioni tra western, post-apocalittico e grottesco, con una morale
sul valore dell’amicizia buttata nel mucchio, alla fine, senza crederci nemmeno
tanto. Va tutto bene, ma alla fine ci si stanca un po’, finendo con lo stato d’animo
di chi non vuole guastare la festa agli altri, ma sbircia l’orologio per capire quanto
manca ancora.
SPONGEBOB - FUORI DALL’ACQUA
REGIA DI PAUL TIBBITT, MIKE MITCHELL
USA · 2015 · ANIMAZIONE · DURATA: 92’
CON ANTONIO BANDERAS, SLASH, CRISTOPHER BACKUS, JESICA AHLBERG
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al cinema dal 26 febbraio
C
TAKEN 3 - L’ORA DELLA VERITÀ
REGIA DI OLIVIER MEGATON
di Adriano Aiello
Terzo (e ultimo?) sterminio di massa compiuto dall’ex agente operativo Bryan
Mills/Liam Neeson, questa volta alle prese con chi gli ha brutalmente ucciso la
moglie, incastrandolo e costringendolo alla fuga tra fogne, scuole e strade sterrate, braccato da tutte le forze dell’ordine. Oltre che dal solito poliziotto di valore
(l’usuale versione di maniera di Al Pacino in Heat - La sfida, ma con Forest Whitaker con espressione da cane bastonato), che lo comprende e lo rispetta, nonostante sia determinato a fermarlo a qualsiasi costo. Prima di un lungo quadretto
familiare tutto bei sentimenti e fotografia smarmellata (Neeson va in giro con
bagel appena sfornati e parla con un panda di peluche), si parte con un’intro in cui
russi fanno le solite cose da russi mafiosi, coatti e spietati, uccidendo un povero
cristo e attivando una trama inutilmente cervellotica. Seguono indagini, parentesi
spionistiche, duelli corpo a corpo confusionari, spiegoni indigesti e una caterva di
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inseguimenti parossistici che confermano la stanchezza della “saga”. Sulla linea
del precedente (sempre diretto da Megaton, un nome un programma), un altro
esempio di cinema sfrontatamente reazionario, senza paletti o interrogativi morali minimamente stimolanti, con una sceneggiatura stanca e noiosa, le usuali
vittime necessarie e una visione dell’eroe seriosa, senza sfumature e vecchia
come il cucco. Che deflagra in un finale francamente ridicolo.
TAKEN 3 - L’ORA DELLA VERITÀ
REGIA DI OLIVIER MEGATON
FRANCIA · 2015 · AZIONE · DURATA: 107’
CON LIAM NEESON, FAMKE JANSSEN, MAGGIE GRACE, FOREST WHITAKER
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 12 febbraio
C
TIMBUKTU
REGIA DI ABDERRAHMANE SISSAKO
di Giulio Sangiorgio
Se il titolo dell’ultimo Abderrahmane Sissako è Timbuktu, è perché si tratta di un
film che è oltre la logica del singolo, un cinema-città in cui si mappano quartieri
e frammenti sociali che coesistono, falde che s’allargano, incontri che producono
sismi. Nell’uomo («Sono io, il terremoto», asserisce una folle), in un luogo - il
Mali, che sta per ogni paese - nello spirito di una religione (l’Islam). Ispirato da
una storia reale (la lapidazione di due conviventi rei di non esser sposati), Sissako
preferisce al cronachistico, al facile dramma ricattatorio, un quadro complesso,
composto da quadri in attrito. La storia vera, qui, è una tra le altre. Perché Timbuktu è un film corale, che narra di un paese sottoposto alle regole integerrime di
una jihad che intimidisce e reprime, che spara sugli idoli per riscrivere il folclore,
che ricopre le donne e oscura il buon senso, che pretende d’aver fatto i conti con
la parola di Dio. Un film che coglie la tragedia dell’uomo e cerca il paradosso
C
del potere, commuove di realismo come Rossellini e coglie l’assurdo di regime
come Suleiman. Un cumulo di storie e personaggi, lirismo dolente e umorismo
vignettistico, realismo scioccante e simbolismo elementare: Sissako, con la fotografia del Sofian El Fani di La vita di Adele, restituisce le forme con cui si dispiega
la legge ottusa dell’integralismo. E sa fare, di queste macerie, senso materiale
su cui fondare poesia.
TIMBUKTU
REGIA DI ABDERRAHMANE SISSAKO
FRANCIA · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 100’
CON IBRAHIM AHMED, TOULOU KIKI, ABEL JAFRI, HICHEM YACOUBI
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PROGRAMMAZIONE
al cinema dal 12 febbraio
C
TRIANGLE
REGIA DI COSTANZA QUATRIGLIO
di Mauro Gervasini
Cineasta importante, Costanza Quatriglio, che già con il precedente Con il fiato
sospeso (2013) aveva dimostrato di saper coniugare la ricerca espressiva all’impegno civile. Triangle, Premio Cipputi al Torino Film Festival 2014, prende il titolo
dal nome di una fabbrica che un secolo fa, a New York, venne distrutta da un
pauroso incendio. Morirono tra le fiamme 146 operaie, molte delle quali soffocate
nei corridoi perché le porte erano chiuse dall’esterno così che nessuna, durante
l’orario di lavoro, potesse allontanarsi. Cent’anni dopo, a Barletta, un altro maglificio crolla. Sotto le macerie restano in cinque, tutte donne anche questa volta.
L’unica superstite, Mariella, è di fatto la narratrice, incalzata dall’autrice. La sua
testimonianza inquadra condizioni di lavoro abusive e pericolose, oltre a una realtà, quella dei laboratori fantasma, molto diffusa nel nostro paese, non soltanto
al sud e non solo nelle comunità cinesi. Benché la parte contemporanea del film
C
appaia un po’ più convenzionale (la radicale originalità di Con il fiato sospeso ci
aveva abituati bene...), il lavoro di ricerca e di montaggio “a specchio” delle immagini d’epoca, quelle appunto del Triangle e delle operaie dei primi del Novecento,
è impressionante. A bruciare maggiormente però non è l’idea estetica, quanto il
parallelo tra due eventi così lontani nel tempo. Oggi chi lavora muore a colori, ma
rispetto a ieri sembra l’unica differenza.
TRIANGLE
REGIA DI COSTANZA QUATRIGLIO
ITALIA · 2014 · DOCUMENTARIO · DURATA: 63’
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al cinema dal 12 febbraio
C
VIZIO DI FORMA
REGIA DI PAUL THOMAS ANDERSON
di Mauro Gervasini
Con Journey Through the Past di Neil Young nelle orecchie riflettiamo, seduti su
un ramo, sul nuovo film di P.T. Anderson, Vizio di forma. La canzone viene ripetuta
due volte nel corso della lunga avventura (quasi due ore e mezza) del detective privato strafatto Larry “Doc” Sportello, ingaggiato dall’ex fidanzata Shasta per
sventare la presunta macchinazione ai danni del suo nuovo boyfriend miliardario,
perpretrata dalla di lui moglie + amante “guida spirituale”. La canzone sembra
un’utile “mappa” per questo viaggio cinematografico nel passato, implicazioni politiche, psichedeliche, letterarie comprese. Il libro di riferimento è a dire il
vero contemporaneo, il penultimo di Thomas Pynchon. Non un granché, per chi
scrive, perché si può pensare al noir come strumento per dire altro, ma lo straniamento postmoderno caro allo scrittore finisce per allontanare ogni tragicità
(di personaggi e situazioni) respingendo chiunque la consideri condicio sine qua
C
non affinché il genere conservi specificità, spessore e persino dignità. Anderson
dichiara fedeltà al testo (pare esista un primo copione con il libro sceneggiato
frase per frase) ma non è Pynchon e la sua versione finisce per essere diversa,
più chandleriana (vivaddio: il riferimento quasi preciso è al romanzo incompiuto
Poodle Springs). Doc attraversa un’epoca nel suo cruciale passaggio dal miraggio di libertà degli anni 60 alla reazione dei 70, con Altamont, Nixon, Reagan (governatore della California), Cambogia e Vietnam dietro l’angolo a segnare il passo
e il nuovo spirito del tempo. Al netto delle diverse dipendenze (erba in quantità
industriale al posto dell’alcol), Doc è come Philip (Marlowe), o meglio il suo ritratto
speculare, uguale e contrario al modello. Un’impresa eccezionale di “riscrittura”,
riuscita: il personaggio sullo schermo ha l’anima che invece ci pare manchi nel
romanzo di Pynchon, dove è puro pre-testo, un McGuffin semovente. Merito anche di Joaquin Phoenix, magnifico. Dell’intricatissima vicenda, alla fine, tutti i nodi
vengono al pettine, ma sembra comunque di non aver capito nulla (noi spettatori
e loro protagonisti). Poco importa: la geniale ultima scena (luce in faccia a Doc,
sguardo in macchina) dà la giusta chiave di lettura del film. Che non è un capolavoro, non sposta l’asticella della storia del cinema, ma diverte confermando il
talento del suo autore.
VIZIO DI FORMA
REGIA DI PAUL THOMAS ANDERSON
USA · 2014 · GIALLO · DURATA: 148’
CON JOAQUIN PHOENIX, BENICIO DEL TORO, REESE WITHERSPOON, OWEN WILSON
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al cinema dal 26 febbraio
C
WHIPLASH
REGIA DI DAMIEN CHAZELLE
di Ilaria Feole
Prima di essere un Flashdance con la batteria o un Full Metal Jacket al conservatorio, l’opera seconda di Damien Chazelle è un film sul compromesso. Su
quanto in là ci si possa spingere per fare arte secondo le proprie ambizioni, proteggendone la purezza da qualsiasi limite esterno. Sono parimenti alter ego del
regista i due protagonisti: il giovane batterista deciso a sacrificare affetti e salute
per raggiungere il top, e il maniacale docente che usa l’umiliazione per cavare
il massimo dai musicisti. La grandezza del film, costruito come un duello - letteralmente - sanguinoso, è nella scintilla di riconoscimento fra simili che i due
antagonisti vedono scattare, loro malgrado: sono uguali, ugualmente cultori di
un’idea di arte che non scenda a compromessi. Chazelle, classe 1985, cresciuto
a pane e Cassavetes, viene da un esordio (Guy and Madeline on a Park Bench)
che con disinvolta arroganza innestava aperture da musical hollywoodiano su un
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dispositivo da Nouvelle vague; è anche sceneggiatore di un altro film-concerto
incardinato sul rapporto fra musica e umane ossessioni (Il ricatto). Whiplash - il
più basso incasso mai arrivato alla nomination all’Oscar, girato e montato in 10
settimane, con un attore (Miles Teller, ottimo) che suona dal vivo e versa vero
sangue sul set - è il suo manifesto, un’opera che grida le sue convinzioni, dilatando le performance live fino all’esaurimento, rivendicando il diritto di credere a
un cinema duro e puro.
WHIPLASH
REGIA DI DAMIEN CHAZELLE
USA · 2014 · DRAMMATICO · DURATA: 106’
CON MILES TELLER, MELISSA BENOIST, J. K. SIMMONS, AUSTIN STOWELL
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al cinema dal 12 febbraio
CINERAMA RITORNA DA VOI Il 3 APRILE CON LE RECENSIONI DI TUTTI I FILM
USCITI IN SALA NEL MESE DI MARZO 2015.
CINERAMA È UNA PUBBLICAZIONE TICHE ITALIA SRL.
IMPAGINAZIONE A CURA DI GIULIA CIAPPA E LUCA GRIFFINI
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