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Un disgelo improbabile
Nonostante la simpatia reciproca fra Trump e Putin, a Washington altri poteri si
oppongono e rendono improbabile un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia – Si
prospetta una strategia geopolitica americana ondivaga
/ 09.01.2017
di Lucio Caracciolo
Barack Obama ha speso le sue ultime settimane alla Casa Bianca nell’intento di rendere la vita del
suo successore la più complicata possibile. In particolare, si è concentrato sulla politica estera,
disegnando in extremis un profilo geopolitico degli Stati Uniti per molti versi opposto a quello che
Donald Trump promette di scolpire.
Il lascito geopolitico più significativo di Obama è lo scontro con la Russia, che è anche (non solo)
frutto della sua personale allergia per Putin. In questo, il presidente uscente segue gli umori e le
abitudini degli apparati di Washington, delle strutture militari e di intelligence, della maggioranza
del Congresso, al di là della stessa partizione democratici/repubblicani. L’idea di fondo è che esista
una incompatibilità strutturale fra gli interessi e i valori dell’impero russo e di quello americano. La
causa occasionale è il presunto hackeraggio compiuto su ordine di Mosca a scapito di Hillary Clinton
e del Partito democratico per favorire la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali. Su
questo il battage mediatico, specie del «New York Times» – che in questa come in altre vicende si è
schierato apertamente con il presidente, quindi con Hillary – è stato assordante, con toni da guerra
fredda.
La decisione di espellere 35 diplomatici russi voleva essere il segno tangibile della profondità della
crisi nei rapporti tra Mosca e Washington, già drammaticamente peggiorati soprattutto a fronte
della guerra in Ucraina. Come è ovvio, più che di diplomatici si trattava di spie. Obama si attendeva
una risposta parallela di Putin, che non c’è stata. Con mossa abile, da vero scacchista, il presidente
russo ha evitato di espellere per rappresaglia 35 diplomatici – leggi: spie – americani, come
formalmente suggerito dallo stesso ministro degli Esteri Lavrov. Così limitando gli effetti della scelta
di Obama e favorendo il promesso riavvicinamento con Washington, non appena Trump si sarà
installato alla Casa Bianca (20 gennaio).
Fra l’altro, Putin è un ex agente del secondo direttorato del Kgb, dunque ha una certa esperienza sul
mondo delle spie. E sa che con l’espulsione di massa delle spie russe la Cia e le altre agenzie di
intelligence americane hanno perso un tesoro: infatti conoscevano vita e miracoli di coloro che
Obama ha voluto cacciare dagli Stati Uniti, mentre dovranno ricominciare da zero non appena
arriveranno i loro sostituti. Al contrario, i russi possono continuare serenamente a spiare le spie
americane – travestite da diplomatici – a Mosca, loro vecchie conoscenze.
Resta da capire fino a che punto la possibilità di un disgelo Mosca-Washington diventerà concreta
sotto Trump. Non dimentichiamo che Obama stesso volle inaugurare la sua presidenza con il «reset»
– affidato a Hillary Clinton, non proprio famosa per le simpatie pro russe – salvo poi finirla in un
clima gelido con Putin. È molto probabile che nei primi mesi di Trump vi sia fra Mosca e Washington
un’ampia gesticolazione e anche qualche intesa minore. In specie nella lotta al terrorismo e sul
fronte mediorientale, dove si può trovare una parziale coincidenza di interessi fra le due potenze
storicamente rivali. Difficilmente invece qualcosa potrà muoversi anche sul fronte delle sanzioni cui
la Russia è sottoposta in seguito all’annessione della Crimea e della penetrazione in Ucraina.
Ma è difficile che qualcosa di davvero sostanziale possa accadere. Perché alla fine i poteri del
presidente sono limitati. La sua agenda russa sarà in gran parte dettata dal Pentagono, dalla Cia e
dal Congresso. Qui l’atteggiamento prevalente è semmai quello di irrobustire lo sbarramento
geopolitico anti-russo e di rafforzare lo schieramento Usa-Nato in Europa. La politica di Washington
verso Mosca rischia per conseguenza di apparire alquanto erratica. Alla simpatia e alle aperture fra
Trump e Putin non seguiranno insomma necessariamente passi concreti.
Il secondo fronte anti-Trump aperto in extremis da Obama riguarda Israele. Come spesso accade ai
presidenti americani in scadenza di mandato, Obama ha improvvisamente inasprito la sua già poco
amichevole linea sullo Stato ebraico. Astenendosi per la prima volta su una risoluzione del Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite che condanna in termini forti la politica degli insediamenti ebraici
illegali in Cisgiordania – cioè in quello che dovrebbe essere il nucleo del futuro Stato palestinese –
gli Stati Uniti ne hanno consentito il varo. Certo, si tratta di parole. La situazione sul terreno non ne
sarà mutata. Ma in geopolitica anche le parole pesano, specie nell’èra delle comunicazioni di massa
e dei social media. La reazione di Netanyahu è stata prevedibilmente furiosa.
Tutto questo va contro le intenzioni dichiarate di Trump, deciso a imprimere una svolta nettamente
pro-israeliana alla politica mediorientale di Washington. A cominciare dall’annunciato spostamento
dell’ambasciata americana da Tel Aviv a quella che per Israele è la sua capitale una e indivisibile,
Gerusalemme. Smarcandosi su questo sia dagli alleati europei – su cui Trump non fa gran conto – sia
da tutti gli altri paesi che contano. Rispetto alla Russia, le posizioni sono rovesciate: mentre gli
apparati appoggiavano Obama nella linea dura anti-Putin, qui sono allineati con Trump nel sostegno
a Israele, senza se né ma.
In ogni caso gli Stati Uniti avranno difficoltà a delineare una strategia geopolitica chiara sotto
Trump. La confusione sotto il cielo di Washington è notevole. Al nuovo presidente provare a mettere
un po’ d’ordine in un ambiente avvelenato dalle rivalità e dalle polemiche intestine.