storie_di_successo_web731 KB

Transcript

storie_di_successo_web731 KB
Storie di Successo
Storie
di Successo
Giovanni Clementoni
Irene Pivetti
Annarita Pilotti
Marco Bartoletti
Storie
di Successo
Giovanni Clementoni
Irene Pivetti
Annarita Pilotti
Marco Bartoletti
© 2015
Asset Banca Spa
Via 3 Settembre, 210
47891 - Dogana
San Marino (RSM)
www.ab.sm
Tel. +378.943.611
Fax +378.943.688
indice
Introduzione
Michele Cucuzza _ 5
Le Storie di Successo
e la passione
per il futuro _ 7
Giovanni Clementoni _ 13
Irene Pivetti _ 19
Annarita Pilotti _ 25
Marco Bartoletti _ 29
Vede nella notte
chi dà lavoro
a un disabile
Gina Garavelli _ 37
Il lavoro?
Una cosa bella
cui dedicarsi
ogni giorno
Barbara Tabarrini _ 41
|3
4|
Introduzione
Michele Cucuzza
L’idea degli ‘Incontri di successo’ è nata a San Marino,
dopo che il Presidente di Asset Banca, Stefano Ercolani,
aveva deciso di assegnare, attraverso la Fondazione Valori
Tattili, un premio a Roberto Valducci e Francesco Polidori,
imprenditori illuminati e innovativi, in grado – con le loro
storie – di contribuire a scuotere, perché ritrovasse vitalità,
il sistema economico della Repubblica: nel novembre del
2014 la crisi mordeva ancora in Italia e in Europa, era difficile persino intravederne la fine.
Siamo partiti da qui, dal desiderio di andare avanti, di
conoscere altre storie, avere nuovi incontri, ascoltare ancora
per tornare a concederci pensieri positivi, visioni, speranze.
Per applaudire la concretezza di chi ha avuto successo, fronteggiando la recessione, rigenerando l’idea che volendo si
può, alimentando scambi virtuosi con la realtà sociale del
loro territorio, del Paese.
In un mondo che confonde il riconoscimento della
competenza con l’apparire in televisione, è stato bello conoscere imprenditori di successo in gran parte estranei al circo
mediatico, oppure deliberatamente lontani dopo averne
fatto parte a pieno titolo, concentrati nel proprio lavoro,
nel progetto che ha permesso loro di emergere, chi come
seconda generazione che ha continuato e innovato il precorso tracciato dalla prima, chi ha dato il suo contributo
|5
decisivo per fare della globalizzazione una grande opportunità, chi stupisce e entusiasma per l’interpretazione vincente dell’imprenditore come riformatore sociale, interrogando la politica che si arena negli annunci.
Questo non vuol dire prediligere i circuiti di nicchia:
abbiamo bisogno di esempi convincenti, li dobbiamo proporre ai giovani. Il destino è nelle nostre mani, anche al
tempo del disincanto, del pensiero corto, della superficie,
della frantumazione sociale. Lavoro, inventiva, sapere, progettualità, trasparenza, solidarietà – grazie ai protagonisti
di questa prima raccolta, cui speriamo di poterne affiancare
presto molti altri – come portatori sani del successo duraturo. Convengono, sono gli strumenti dei vincenti, della
modernità che ha fascino. Siamo pronti a accoglierne la
sfida?
6|
Le Storie di Successo
e la passione per il futuro
A dare il la alle Storie di Successo è stato un imprenditore del passato che tuttavia appartiene al nostro presente,
che sempre ispira il nostro futuro. È Adriano Olivetti. Forse
il suo destino era già scritto in quel nome così altisonante,
Adriano. Il nome dell’imperatore che meglio interpretò la
civiltà romana al suo apice quando essa era però a un passo
dal declino. Adriano Olivetti era troppo intelligente per non
intuire che quella storia si sarebbe ripetuta, che dopo di lui
ci sarebbe stato un ritorno al passato. Ma non c’era in lui
alcun pensiero rivolto al passato, egli era piuttosto affamato
di futuro.
“È vero – era solito dire – non siamo immortali, ma a
me pare di avere davanti un tempo infinito. Forse, perché
non penso mai al passato, perché non c’è passato in me”.
Venne purtroppo smentito dai fatti e morì all’improvviso nel
1960, colpito da una trombosi celebrale mentre si trovava
sul direttissimo Milano-Losanna, trascinando con sé molto
futuro, non solo quello dell’Olivetti. Scompariva un imprenditore visionario, ambizioso e determinato che ad Ivrea
aveva disegnato una realtà industriale a misura d’uomo, la
cui fama sarebbe diventata internazionale essendo Adriano
Olivetti il padre dei moderni computer (prima dei ragazzi
della Silicon Valley).
|7
8|
Come più tardi farà anche Steve Jobs, Adriano Olivetti
pensò e agì in un modo completamente differente. Amò la
cultura e le arti che non intese mai in maniera disgiunta
dall’attività imprenditoriale (la bellezza dei luoghi doveva
ispirare il lavoro ben fatto). Così non si dedicò a fare del
bene nel modo tradizionale, devolvendo cioè parte delle sue
ricchezze ad associazioni e fondazioni ma si impegnò direttamente in quelle attività che riteneva utili alla comunità.
In primo luogo fondò e diresse una casa editrice e si occupò
dei servizi sociali e della formazione dei propri dipendenti.
Pose per primo i problemi dell’ambiente, della tutela del territorio, dello sviluppo compatibile. “Può l’industria darsi dei
fini? – disse rivolgendosi ai lavoratori – Si trovano questi fini
semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è, al di là del
ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama
ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di
una fabbrica”? Ebbe i più contro di sé ma il suo grande pro-
getto non passò inosservato e di Adriano Olivetti scrissero
molti contemporanei. Tuttavia il ritratto più autentico e più
‘familiare’ è quello che emerge dalla lettura di Lessico famigliare, il romanzo di Natalia Ginzburg dove ella raccontò la
storia della sua famiglia di cui l’Olivetti faceva parte avendone sposata la sorella. Ci si stupisce, leggendo la Ginzburg,
delle maniere semplici di questo grande protagonista del
Novecento ma soprattutto ci si stupisce che Adriano Olivetti
non abbia avuto epigoni in Italia. Pare dunque di vederlo
ancora andare solo, “col suo passo randagio e gli occhi perduti nei suoi sogni perenni”.
Gli Olivetti avevano, a Ivrea, una fabbrica di macchine
da scrivere. Non avevamo mai conosciuto, fin allora, degli industriali […] Gli Olivetti erano i primi industriali che vedevamo
da vicino; e a me faceva impressione l’idea che quei cartelloni
di réclame che vedevo per strada, e che raffiguravano una macchina da scrivere in corsa sulle rotaie d’un treno, erano stret-
|9
10 |
tamente connessi con quell’Adriano in panni grigio-verdi, che
usava mangiare con noi, la sera, le nostre insipide minestrine
[…] si sapeva che erano ricchi, ma avevano tuttavia delle abitudini semplici, erano vestiti modestamente, e andavano in
montagna con degli ski vecchi, come noi. Avevano però molte
automobili, e offrivano ad ogni istante di accompagnarci in
un luogo o nell’altro; e quando andavano in automobile per la
città e vedevano un vecchio camminare con passo un po’ stanco,
fermavano e lo invitavano a salire; e mia madre non faceva che
dire com’erano buoni e gentili.
Adriano era ormai un grande e famoso industriale. Conservava tuttavia ancora, nell’aspetto, qualcosa di randagio,
come da ragazzo quando faceva il soldato; e si muoveva sempre
col passo strascicato e solitario d’un vagabondo. Ed era ancora
timido; e della sua timidezza non sapeva giovarsi come d’una
forza, al modo dell’editore, perciò usava ricacciarla indietro,
in presenza di persone che incontrava per la prima volta: fossero autorità politiche, o poveri ragazzi venuti a domandargli un posto alla fabbrica, buttava indietro le spalle, raddirizzava la testa e accendeva i suoi occhi d’uno sguardo immobile,
freddo e puro.
Lo incontrai a Roma per la strada, un giorno, durante
l’occupazione tedesca. Era a piedi, andava solo, col suo passio randagio: gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li
velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma
sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo
stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava.
La storia di Adriano Olivetti è di sicuro unica ma forse
non irripetibile. Lo abbiamo toccato con mano qui in Asset
Banca a seguito di alcune non superficiali ricerche che ci
hanno portato alla scoperta di storie che ci è parso avessero
la stessa sostanza di quella del grande Olivetti. Una sostanza
fatta prima di tutto di sogni ma intrisa allo stesso tempo di
una realtà a portata di mano e non più da guardare al di là
del vetro come si guardano i pesci nell’acquario. Ne abbiamo
fornito la mappa invitando a parlare quegli imprenditori che
più di altri, per intrinseca disposizione, incarnavano il pensiero modernizzatore, la grinta rivoluzionaria, la volontà di
innescare lo sviluppo.
Sono venuti qui e ci hanno insegnato che il lavoro
non è un modo qualsiasi per procacciarsi da vivere, che non
viene assunto per caso, che non è piccolo e grigio.
E con il loro entusiasmo ci hanno mostrato che molte
sono le cose da fare, che occorre rimboccarsi le maniche con
la certezza però di volere e potere farle.
| 11
12 |
Giovanni Clementoni
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La
gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era
inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il
salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere
ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti
del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua
stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo
della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che
quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia
che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione
delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle
cattedrali. Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Peguy
L’imprenditore si vede dal coraggio, dall’altruismo,
dalla fantasia. E tuttavia arrivare in vetta è un’operazione
non solo di estro ma anche di disciplina. Ci vuole controllo
della paura, rispetto del tempo e un preciso senso dei propri
limiti, per riuscire a superarli. La cultura d’impresa poi va
tramandata di generazione in generazione, i giovani devono
| 13
essere orientati e ispirati in termini di atteggiamento verso il
lavoro. Occorre far leva su alcuni fattori che sono le chiavi di
volta del successo dell’impresa. La creatività – è vero – è un
attributo individuale ma non basta se non ci sono abnegazione, capacità di applicarsi, grinta. È fondamentale imparare anche a lavorare con altri e a coordinarne il lavoro. Di
questo si è parlato assieme a Giovanni Clementoni, protagonista di una straordinaria intervista condotta dal giornalista
Michele Cucuzza.
■
14 |
La storia della Sua azienda, quella fondata
da suo padre Mario Clementoni e di cui Lei è Ad,
è una storia di successo, la prima che vorremmo
raccontare. Ce la vuole raccontare Lei?
“È una storia fatta di successi, certo, ma fatta soprattutto di persone che quel successo lo determinano facendo
squadra. Mi preoccupo sempre di parlare al plurale perché
solo così quel che facciamo ha un senso, solo così è possibile
portare a casa i risultati. Anche le idee che nascono magari
individualmente, non possono, per essere realizzate, che
trovare la strada della condivisione.
Serve il contributo di tutti e soprattutto serve che quel
contributo sia dato con passione, con la consapevolezza di
rappresentare un valore aggiunto, di fare una cosa importante per sé e per la società. E poi occorre credere in se
stessi, nel proprio valore. Questo è ciò che mi ha insegnato
mio padre, Mario Clementoni, che ha creduto tanto nelle
proprie idee da scommettere su di loro assumendosi tutto il
rischio, senza sicurezze né paracaduti. Ricordo che il primo
grosso investimento in pubblicità mio padre lo fece quando
ancora vivevamo in affitto, quando non avevamo nemmeno
la casa di proprietà. E da allora è stato sempre così, abbiamo
guardato costantemente avanti, attraversando il futuro con
fiducia”.
■
Lei parla del futuro della Clementoni e a me viene
in mente quello dell’Italia.
“Voglio essere franco con lei, il futuro della nostra
azienda sì, lo vedo, noi abbiamo continuato anche negli
anni di crisi ad investire sulla formazione e sulle nuove tecnologie e questo ci ha garantito il successo. Sul resto ho un
po’ di dubbi, soprattutto perché lo Stato impone ai privati
di camminare con il freno dell’auto tirato quando altrimenti
molti avrebbero le potenzialità di muoversi a gran velocità.
E poi c’è un altro aspetto che preoccupa ed è la disaffezione
al lavoro.
Noi ci siamo e probabilmente ci saremo ancora per
molto ma è inevitabile pensare al dopo, all’eredità che lasceremo e a chi la lasceremo. L’azienda non è di chi l’ha fondata o di chi la dirige, essa ha una funzione prima di tutto
sociale e per questo appartiene alla collettività. Ma quella
collettività oggi ha orecchi solo per gli svaghi e di lavoro non
vuol più sentir parlare. Si parla di svaghi e di vacanze e guai
a nominare il lavoro fuori dall’orario prestabilito. Parlare
di lavoro è diventato un tabù. Per me non è mai stato così
visto che la Clementoni è un’azienda-famiglia, attorno alla
quale è sempre ruotato tutto. Ricordo che si tornava a casa
e a tavola si parlava di lavoro, con piacere, senza tensioni.
Prima di parlare di futuro occorrerebbe riscoprire il valore
del lavoro”.
| 15
■
Stupisce davvero sentirla parlare così,
dire che la sua azienda non è sua ma
che appartiene a tutti.
“Anche se nell’immaginario collettivo non è così un’azienda non può che appartenere a coloro che ci lavorano,
ai suoi utenti, ai tanti stakeholers. E poi appartiene anche
al futuro e questo implica la responsabilità dei grandi orizzonti, del pensare fuori di sé, della consapevolezza di essere
utili ma mai indispensabili”.
16 |
18 |
Irene Pivetti
Morire per una religione è più semplice che viverla con
pienezza; lottare in Efeso contro le fiere è meno duro (migliaia
di martiri oscuri lo fecero) che essere Paolo, servo di Gesù
Cristo: un atto è meno che tutte le ore di un uomo.
La battaglia e la gloria sono cose facili
Borges
Irene Pivetti è stata protagonista di un’attesa intervista di Michele Cucuzza. E lei è l’imprenditrice che non ti
aspetti, il suo successo le deriva principalmente dalla sua
umanità, dal suo senso civico, dal suo carattere orgoglioso e
indipendente, dalla personalità forte ed energica. C’è in lei
una naturale partecipazione civile e umana e tutto ciò che
fa, lo fa con ironia, con intelligenza, con una grande perizia. Ha ricoperto vari ruoli e li ha interpretati tutti sfidando
e ottenendo il successo.
■
Il racconto di sé inizia respingendo la parola
successo.
“È una cosa bella che prima o poi mi auguro di raggiungere perché avrei l’ambizione di essere ricordata come
una persona che nel suo piccolo ha avuto successo. Ora
| 19
però sto ancora cercando di raggiungerlo, non posso dire di
essere arrivata. Non mi sono mai sentita così anche se sono
onorata di essere stata scelta come relatrice del ciclo Storie
di Successo.
La mia azienda Only Italia non è differente dalle altre
che si trovano a fare i conti con la congiuntura, l’obiettivo di
tutti e anche il nostro è non morire, cercare di restare vivi
e trovare il modo di crescere. Non nego che sia difficile ma
credo si possa fare e invece quel che proprio non sopporto
sono i piagnistei. In Italia ovunque ci si giri c’è gente che
piange e che non si rimbocca le maniche, che non è disposta
a ripartire da zero. Io così non lo sono mai stata, ho sempre
creduto che la cosa migliore fosse andare avanti portando
con me la ricchezza del mio passato”.
■
20 |
E sul passato?
“Non rinnego nulla di ciò che ho fatto, il mio unico
rimpianto semmai è il male che ho fatto se l’ho fatto (e poi
anche qui se ne avessi il tempo mi piacerebbe aprire una
parentesi). Devo solo dire che per esempio la politica è eredità talvolta scomoda perché nell’immaginario collettivo si
attribuiscono a te colpe commesse da altri.
Circa il futuro invece lo attraverso con grande entusiasmo e con molto impegno. Se non ci si impegna non si
ottiene nulla e non si va da nessuna parte. La mission di
Only Italia per esempio è quella di internazionalizzare
il made in italy (sono coinvolti un po’ tutti i settori, dalla
moda al cibo), di esportarlo nei mercati asiatici.
E si fa una gran fatica visto che non basta la qualità,
non basta la promozione ma serve soprattutto la cono-
scenza di quei mercati e della loro burocrazia che spesso
non è meno difficile di quella italiana. E poi occorre conoscere le persone con le quali si va a trattare entrando con
loro in sintonia e imparando a rispettare la loro cultura, talvolta la mancanza stessa di cultura.
Mi capita, ora che ho un’esperienza, di parlare con
persone cinesi ed essere in grado di offrir loro ciò di cui
hanno bisogno pur non sapendo chiederlo, pur ignorando
perfino di avere quella specifica necessità.
Ciò che poi sorprende in loro è l’abnegazione per il
lavoro, la consapevolezza che ciascuno ha che quello sia
veicolo di riscatto per i propri figli e i propri nipoti, che grazie a quel lavoro un giorno avranno la preziosa opportunità
di studiare. È ciò che da noi si è perso: noi si piange e basta.
Così non posso dire di essere attratta dalla Cina per
i suoi monumenti o per la sua cultura, ne sono attratta per
il suo fervore, per ciò che si respira lì, per l’importanza di
esserci ora”.
■
Ma l’aria della Cina non è sempre facile da
respirare, non solo metaforicamente parlando.
“Certamente questo è vero, le città son grigie ed inquinate anche se occorrerebbe riflettere sul fatto che ci sono
città del Sudamerica altrettanto insalubri. Di qui l’importanza di esserci e la bellezza dell’economia che alla fine dei
conti è proprio vero che è un gioco a somma positiva. Noi
abbiamo spiegato alla Cina che può far soldi anche ripulendo le sue città ed è su questo che soprattutto sta investendo. Noi non diciamo soltanto che la Cina è inquinata,
noi lavoriamo perché presto non lo sia più”.
| 21
■
E sulla qualità della vita?
“Parlo di quel che so perché l’ho visto. A proposito di
lavoro adottare gli stessi parametri tra noi e loro sarebbe
impossibile però sta passando il messaggio che anche investire sulla sicurezza è un business. Solo quando vedrò gli
operai con il caschetto smetterò di farmi il segno della croce
ogni volta che passo su un ponte. Si tratta di strutture solidissime per noi sulle quali però si immagina qualcuno ci abbia
lasciato anche la pelle: nessuno è legato né porta il casco”.
■ E sulla giustizia sociale in generale?
“È un Paese che sta crescendo in fretta, dove il capitalismo è a socio unico, dove spesso è lo Stato a decidere il
destino di un imprenditore. Se si hanno capacità imprenditoriali si può essere catapultati a dirigere aziende gigantesche
arrivando a gestire capitali inimmaginabili. Ho conosciuto
una donna che sette anni prima era stata una contadina e
alla quale ho venduto aerei perché quello è l’unico modo
che ha di controllare i suoi campi, le sterminate proprietà
che è stata chiamata a guidare. La sua cultura è la stessa di
quando era contadina, mi ha ricevuto con emozione indossando l’abito della festa senza peraltro saperlo portare. Le
mancava lo stile di un manager italiano ma non la testa e
non l’umiltà che qui a volte si perde”.
■ Oltre all’Asia?
22 |
“Siamo stati anche in Libia ma questo è un capitolo
a parte e vorrei non essere fraintesa e subito dico che è un
Paese pericoloso e che bisogna fare attenzione e non farsi
prendere dalla mania di essere avventurieri. Noi là siamo
estremamente rispettosi, a Tripoli dialoghiamo con i sindaci, le autorità regolarmente elette. E proponiamo ciò di
cui c’è bisogno, senza provocare né dare nell’occhio, con
l’ambizione di portare democrazia e dare una mano a quel
Paese un po’ come si era fatto in Albania. Poi ha concluso:
Ringrazierò sempre Dio per avermi creata così, un animale
a sangue caldo. E di avermi mostrato il lato miracoloso della
vita donandomi i miei figli. Non posso immaginare il mio
mondo senza loro e credo che tutto quel che ho fatto e farò
sarà sempre e solo una palestra dove imparare a fare la cosa
che più conta: crescerli”.
Questo pensiero mi fa sentire in pace con me stessa. Il
lavoro è come il Sole, mette in moto l’azienda con il suo personale, i fornitori, la banca, i clienti, riattiva il mercato, rimpolpa le casse dello Stato. Se manca, si ferma tutto. Non voglio
perdere la speranza, non voglio rinunciare a tutto ciò che ha
costruito mio padre e che abbiamo fatto crescere con mio fratello».
(un’imprenditrice italiana)
| 23
24 |
Annarita Pilotti (Loriblu)
Una storia, la sua, senz’altro di successo cominciata
come benzinaia e proseguita prima come maestra d’asilo e
poi come imprenditrice quando entra in Loriblu, azienda
fondata da suo marito, leader nella produzione di calzature
gioiello, rappresentazione del bello senza eccessi e simbolo
indiscusso di eleganza ed accuratezza nel design.
Il punto di vista è dunque importante, è quello di chi
al fare business attribuisce un valore prima di tutto ideale.
“La realtà quotidiana va intrisa di valori – ha detto Annarita
Pilotti – va intessuta di azioni semplici che rendano reale la
propria visione strategica. Alla fine sono le idee che cambiano
il mondo, ma solo quelle che col mondo sanno trovare un collegamento concreto, solo quelle che sanno incidere sulla realtà”.
Come a dire che non si deve rimanere bloccati ad una
posizione mentale. E che occorre cogliere l’onda. “V’è una
marea – scrive Shakespeare nel suo Giulio Cesare – negli
affari umani tale che, se cogli l’onda, arrivi al successo, se
invece perdi l’attimo, il viaggio della vita si arena in disgrazie e bassifondi”.
La storia di questa imprenditrice è diversa da tutte
quelle che conosciamo nella sfera della moda. Le Storie di
Successo come quella di Loriblu vogliono spronare le persone a dare il meglio di sé, a credere nei propri sogni e nel
| 25
proprio lavoro, soprattutto nel futuro. “Essi sono capaci –
scriveva Virgilio – perché pensano di essere capaci”.
■
“Io senza lavoro non ci starò mai”.
“Sono rimasta orfana di padre a soli 18 anni e così mi
sono messa ad aiutare la mamma con la nostra pompa di
benzina. Allora avevamo poco, anzi pochissimo ma con quel
poco ragionavo già su come avrei potuto strutturare un’attività futura. Sentivo in cuor mio che avrei potuto svolgere
qualsiasi mansione, ero certa che non sarei mai rimasta
senza lavoro”.
■
26 |
Quel lavoro che Annarita Pilotti nella vita
si è sempre inventata facendo prima la
benzinaia poi la maestra d’asilo per diventare
successivamente la prima poliziotta donna
delle Marche.
“Ho lasciato due lavori statali e con niente in mano ho
cominciato a pensare che la piccola azienda di mio marito
sarebbe diventata grande. Sono cresciuta credendo nella
possibilità che volere è potere, che il lavoro se lo si cerca lo
si trova sempre. Oggi invece è tutto dovuto, per questo i miei
quattro figli li stiamo crescendo all’insegna della responsabilità, vogliamo che rispettino i loro genitori toccando con
mano l’ impegno quotidiano, i sacrifici che stanno dietro
la serietà di un brand, l’unica garanzia per restare sul mercato. E poi i figli sono tutti nostri, a quelli dei dipendenti
ad esempio diamo l’opportunità di lavorare in azienda e di
ricevere uno stipendio. Tutti gli anni a maggio c’è la possibi-
lità di presentare la domanda e poi durante l’estate tengo i
ragazzi sotto la mia ala protettrice e insegno loro il mestiere
che più si attaglia alle rispettive attitudini. Alcuni pensano
che far lavorare i ragazzi non sia giusto, io credo invece che
in questo modo si offra loro l’opportunità di non restare
indietro e di crearsi un futuro”.
■
La posizione di Loriblu oggi
“Partita dal basso e senza risorse la Loriblu vanta
oggi 18 punti vendita in Italia e negozi a Londra, a Parigi,
a Dubai, ad Abu Dhabi, in Qatar, in Kuwait, a San Pietroburgo, a Pechino, solo per citare qualche capitale”.
■
La sua raccomandazione per San Marino
“Le cose normali ormai le fanno tutti e ci sarebbe una
concorrenza spietata, la guerra sarebbe persa in partenza. Il
vostro è un Paese votato alle cose esclusive, su queste dovreste scommettere”.
Parola di Annarita Pilotti eletta, poco tempo dopo l’intervista di aprile, Presidente di Assocalzaturificio Italia.
| 27
28 |
Marco Bartoletti
“La vita non è facile per nessuno di noi. E allora?
Noi dobbiamo perseverare e soprattutto avere
confidenza in noi stessi. Dobbiamo credere che siamo dotati
per qualcosa e che questa cosa deve essere raggiunta.”
Marie Curie
Ultimo protagonista della prima edizione di Storie di Successo è stato Marco Bartoletti l’imprenditore lontano mille miglia dalla febbrile voracità dell’accumulazione, dall’ignorante avventurismo dell’azzardo, dallo
spreco che tuttora contagia tanti altri imprenditori. Lui è
l’imprenditore che dà lavoro ai disabili, ai malati di tumore,
agli esodati. È colui che taglia per primo tutti i traguardi
senza però lasciare indietro nessuno. Così accanto a lui ci
si sente improvvisamente più aperti a considerare le esigenze dell’altro e ci si sente spinti a migliorare i propri pensieri, ad abbandonare le incoerenze, a buttar via i pregiudizi. E si comprende anche che felicità e ricchezza non sono
in antitesi, che il capitalismo può concorrere a produrre felicità, che può dare a chi lo merita e lo desidera l’opportunità di dimostrare il proprio valore. L’incontro con Bartoletti
è dunque valso a segnalare una svolta possibile, egli ci ha
| 29
insegnato una prospettiva indicando una via, un passaggio
sicuro nel bosco delle decisioni difficili.
■
30 |
Con lei si tocca con mano la gioia di poter credere
in un cambiamento rivoluzionario, in una nuova
umanità.
“Io non sono un benefattore, sono un imprenditore
che bada al profitto. Nasco come assicuratore ma era un
mestiere per il quale non ero tagliato, verso cui non provavo alcuna passione. Così ho pensato di mettermi in proprio, di fare quello in cui noi italiani siamo più bravi. Con
pochissimo a disposizione ho cominciato la mia collaborazione con le principali case di moda del mondo. All’inizio a
dire il vero avevo un solo tornio e un solo operaio e si lavorava sotto un tendone.
Quando mi chiesero di poter visitare l’azienda perché
il prodotto era completamente al di sopra delle aspettative
me ne feci prestare una da un amico: producevano jet. La
camuffai per l’occasione e da quel momento ottenni sempre
più lavoro senza mai andare a cercare i clienti, erano sempre loro a venire a trovare noi. Poi svelai l’aneddoto dell’azienda che non era mia e li conquistai. L’umanità è sempre
importante nelle relazioni anche se occorre tenere a mente
che prima di tutto per tenersi un cliente è necessario offrire
un prodotto che sia perfetto sotto ogni punto di vista. A ben
vedere sei tu che fai il prezzo e detti le regole. A quel punto
puoi dire che si tratta di un risultato ottenuto anche grazie
al lavoro di persone cosiddette disabili. Se invece ti presenti
ai clienti anteponendo il fatto di dare lavoro a persone disabili, se ne fai un cartello, presto vai incontro all’insuccesso”.
■
Di persone disabili dal 2000 ad oggi Marco
Bartoletti ne ha assunte molte. Non per accedere
ai contributi statali che ha sempre rifiutato
ma perché convinto che essi non rappresentino
un costo per l’azienda bensì un valore aggiunto.
“Il profit ha bisogno del non-profit, un’azienda per
essere solida deve essere etica, deve invertire la scala di
valori, deve essere generosa. Questo soltanto le darà la
garanzia di esistere anche in futuro e di esser solida. La
forma mentis di troppi imprenditori deve essere cambiata:
temono la crisi e di perdere tutto perché la loro azienda
spesso si basa sul nulla. Questo è ciò che a noi non accadrà
mai”.
“Sorrido sempre – ha continuato Bartoletti – quando
mi soffermo a pensare alla modalità in cui tradizionalmente vengono assunte le persone. Si fanno esami per toccare con mano la buona salute del futuro dipendente e poi
ci si ritrova con l’azienda piena di dirigenti affetti dalle peggiori turbe psichiche.
È capitato anche a me quando ho assunto una psicologa che si è rivelata l’unica dipendente inefficiente dell’azienda. Io ai miei dipendenti non chiedo di essere in buona
salute ma di dare il massimo sul lavoro, di essere creativi, di
far parte di una squadra vincente. Non mi importa che una
persona che deve dipingere non abbia le gambe, non è un
buon motivo per non farla lavorare in azienda. Da un lato
infatti chi ha delle difficoltà fisiche investe sul lavoro più
energie, mostra più attaccamento alla squadra, mi fa guadagnare più quattrini e dall’altro lato il lavoro è terapeutico, fa guarire dalle malattie del corpo e della mente.
| 31
Ricordo che una delle prime volte che assunsi un
malato di tumore mi chiamarono dall’Università per tenere
una lezione, avevano visto con i loro occhi il cambiamento
di un malato che sembrava fosse già morto, tornare a
vivere. La mia è stata prima un’intuizione e poi è diventata
una vera e propria filosofia. Ora dedico quasi tutti i sabati
mattina a fare colloqui e nelle assunzioni privilegio sempre
chi ha più difficoltà perché sono coloro che mi garantiscono
più di altri il risultato.
Ai miei ingegneri raccomando sempre di non limitarsi
a prendere le misure di un oggetto, esso è un piccolo capolavoro, una borsa può arrivare a costare un milione di dollari, vale a dire che è un’opera d’arte, che come tale va ‘sentita’ con passione, a colori, con poesia. Come sanno ‘sentire’
i disabili non sa ‘sentire’ nessun altro.
Eppure assumerli all’inizio non è stato facile. Ho
dovuto guerreggiare a lungo con le varie istituzioni. Alle
prime porte sbattute in faccia avrei potuto fare quel che
in molti fanno: fermarmi avendo guadagnato la coscienza
pulita.
Ma il mondo è pieno di gente che spende l’alibi del
non fare, io non volevo essere tra quelli. Ho provato a sperimentare il cambio di marcia, ho fatto casino, ho battuto il
chiodo fintanto che non sono riuscito ad appendere il quadro.
Le istituzioni del resto vanno spronate se non proprio
forzate. Mi avevano consigliato di stare attento perché avrei
potuto essere accusato di sfruttamento mentre io pago i
miei ragazzi profumatamente. Così hanno trovato una formula ad hoc per me: ‘residua capacità lavorativa’”.
32 |
■
Marco Bartoletti tuttavia non è tipo da pensiero
utopico. Egli sa che la sua azienda non è
un modello ripetibile altrove e per questo dice
“gli imprenditori dovranno continuare a concentrarsi sul profit, contestualmente però visto che sono loro
ad avere le risorse ciascuno dovrà adottare una onlus e non
più limitarsi soltanto ai regali di Natale. Si dovrà investire
su un impegno costante. Penso che dovremmo introdurre il
‘quarto settore’”. Ha poi parlato della ricchezza “nella nostra
società quelli come me rischiano molto. La ricchezza va
metabolizzata mentre ancora oggi è impossibile recarsi per
esempio alla stazione di Milano indossando un capo firmato
senza rischiare il linciaggio. Per questo abbiamo bisogno del
non-profit. Per dimostrare che la ricchezza è il risultato di
un percorso buono che ha creato posti di lavoro e offerto
opportunità. A quel punto non ci si vergogna più di avere
per esempio la Ferrari che io effettivamente ho”.
■
E ha poi concluso
“Sono tornato dall’Austria per partecipare a questa
serata. Ho apprezzato l’umanità dell’invito, la passione con
cui mi è stato rivolto. Da tempo non rilasciavo più interviste temendo che il mio lavoro e la mia azienda potessero
essere strumentalizzati. Poi è arrivato questo invito da una
Banca che io non conoscevo. Ho pensato a come in genere
gli inviti rispettino tutti degli equilibri, magari ti chiamano
perché sei socio o hai un conto e sei un cliente importante.
Qui è avvenuto tutto senza badare agli equilibri e ai giochi di
potere. Così ho detto sì dopo aver avuto l’onore di incontrare
| 33
anche Michele Cucuzza. Mi sono definitivamente convinto a
venire a San Marino dopo aver visto lo spot della Banca dove
ho sperimentato la corrispondenza di intenti tra le nostre
attività. Si va veloci, è vero. Ma andare veloci non significa
lasciare chi ha più difficoltà per strada altrimenti si rischia
di arrivare al traguardo da soli, di farsi il vuoto attorno. E
poi a San Marino ora si parla di polo del lusso che è proprio
il mondo da cui dobbiamo ripartire. Quello che ci permetterà in futuro di investire sulle persone, sul loro benessere.
■
34 |
È l’Austria la nuova frontiera del business
di Bartoletti.
È recente l’apertura di una BB austriaca, Marco Bartoletti ha infatti eletto l’Austria come Paese nel quale investire risorse e creare un’azienda gemella di quella con sede a
Calenzano di Firenze.
“Ho scelto l’Austria – ha detto – perché è un Paese con
poche leggi chiare e sintetiche, tutto l’opposto dell’Italia.
Inoltre là mi hanno accolto con entusiasmo, al mio arrivo c’erano addirittura le bandiere italiane e quando ho detto che
col tempo avrei assunto disabili e malati non c’è stato alcun
sussulto. Sono previsti anche dei contributi europei che contrariamente a quanto faccio in Italia prenderò fino all’ultimo
centesimo. Non sono andato in Austria poi senza imporre
le mie regole. Ho assunto come era giusto che fosse dipendenti del posto, austriaci, tuttavia ho imposto per contratto
che frequentino un corso di italiano. Di qui a breve nella mia
azienda parleranno tutti italiano”. Tornano in mente, ascoltando Bartoletti, le parole dell’inno di Mameli, l’Italia era
ancora nella sfera d’influenza dell’impero austro-ungarico
ma non rinunciava a cantare Già l’Aquila d’Austria le penne
ha perdute. Potere della cultura e delle idee di proclamare
la propria indipendenza e supremazia, di non doversi sottomettere ad altre regole che non siano le proprie.
Non solo i sogni ma anche la realtà di nuovo appare
a portata di mano, non più al di là del vetro e complessa,
segreta, indecifrabile.
| 35
36 |
Vede nella notte chi dà lavoro
a un disabile
Gina Garavelli
È da quando scrivo per Tribuna che posso dire di
avere un lavoro, prima quello di lavorare era stato soltanto
un sogno. Un sogno così a lungo sognato che quasi quasi mi
sentivo impreparata. Ma sono stata accolta come una vera
collega, come se non fosse importante che nei primi cinquant’anni della mia vita non avessi mai lavorato a causa
della mia disabilità. Di darmi un lavoro infatti non è mai
passato a nessuno nemmeno per l’anticamera del cervello.
Per Tribuna invece ciò che conta è il fatto che io sappia scrivere, il resto non viene nemmeno preso in considerazione. Del resto il fatto che il mio corpo sia inchiodato
alla sedia non impedisce alla mia mente di viaggiare (viaggio come Pascoli ‘immobilmente’…e non è poco!). Sono
dunque molto felice e mi ritengo anche fortunata, solo non
posso fare a meno di rimpiangere il passato.
E mi fa bene leggere di Marco Bartoletti (nella foto in
mezzo al Presidente e al Direttore generale di Asset Banca),
sapere che c’è un imprenditore in Italia che dà lavoro a disabili e malati di tumore. Da loro dice di saper ottenere il massimo impegno e sacrificio, di essere capace di spronarli a
dare il meglio, approdando al risultato incredibile di produrre piccoli capolavori e vere e proprie opere d’arte come le
borse gioiello che possono arrivare a costare svariati milioni
di euro. Non fatico a credere che sia così perché il lavoro è
| 37
per l’anima fonte di sopravvivenza, polla a cui tutti dovrebbero potersi abbeverare. Per molti disabili questo resta un
sogno, il più grande della vita e ci si deve accontentare che
resti tale.
Poi c’è chi invece, vedendo nella notte, sa forzare le
porte del mondo reale e farvi entrare il sogno.
E’ accaduto a me e non ringrazierò mai abbastanza chi
ha trovato il coraggio di forzare quelle serrature. Anche se
non dimentico i tanti che un lavoro l’avevano e poi l’anno
perduto. Immagino non sia facile, soprattutto quando si
ha una certa età e una famiglia da mantenere rinunciare al
lavoro e ai suoi frutti.
Però son certa che prima o poi il sogno entri nel
mondo reale di tutti, occorre solo il coraggio di continuare
a crederci.
38 |
40 |
Il lavoro? Una cosa bella
cui dedicarsi ogni giorno
Intervista al Direttore Generale di Asset Banca,
Barbara Tabarrini, alla vigilia dell’inaugurazione
delle Storie di Successo
Sempre più il nostro mondo tende a rimpicciolirsi, a
dimenticare quegli stimoli vitali che sono gli ideali, le passioni,
le libertà ampliate, dilatate, espanse. È allora importante, per
guadagnare un nuovo senso del futuro, creare occasioni dove
potersi confrontare con i più alti modelli della nostra imprenditoria. È questo il significato delle interviste di Michele
Cucuzza agli imprenditori di successo: spingere un poco più
in là le frontiere del possibile, tenere a battesimo la gemma del
cambiamento.
■
Da cosa nasce la voglia di raccogliere
le testimonianze degli imprenditori?
Lo abbiamo chiesto al Direttore di Asset Banca,
la dott.ssa Barbara Tabarrini
Quando si è in crisi, quando si viene colpiti, si fa mente
locale e il primo pensiero va alle riserve cui si deve inevitabilmente attingere. Esistono patrimoni materiali e patrimoni immateriali. E purtroppo c’è scarsa consapevolezza
che la storia dell’imprenditoria è il patrimonio più prezioso,
che è un bene pubblico da condividere e mettere a valore.
| 41
■
Quando inizierete con le interviste?
In realtà abbiamo già iniziato lo scorso novembre
con il Premio Valori Tattili che abbiamo assegnato a due
imprenditori, il sammarinese Roberto Valducci e l’italiano
Francesco Polidori. Premio istituito con l’intento di ridare
vitalità al sistema economico sammarinese e rappresentato dalla scultura della venere fecondatrice come simbolo
benaugurante di una cerimonia che ambisce ad essere propiziatoria per il contesto economico.
■
E la scelta di Giovanni Clementoni?
Da tempo qui in Asset parliamo ai nostri ragazzi della
necessità di ampliare gli orizzonti, di non considerare il
lavoro soltanto un insieme di regole da applicare ma raccomandiamo loro di far tesoro di una dote tra tutte: quella
della fantasia. La vita è sogno ma lo è anche il lavoro, non
è soltanto un dovere, è piuttosto un gioco, una cosa bella
cui dedicarsi ogni giorno per realizzare il bene di tutti. Chi
meglio di Giovanni Clementoni potrà parlarci della cultura
del gioco e del successo?
■
42 |
Se ho ben capito ogni forza in campo agisce
su un unico fronte, rendere il mondo un posto
migliore. È una filosofia realmente compatibile
con il lavoro che si è chiamati a svolgere
nella cornice di una Banca?
La ringrazio per la domanda, è più di un’impressione
il costante pregiudizio sulle banche. Eppure esse rappresen-
tano la linfa vitale del sistema economico. Sono come il sangue per il corpo umano e come la benzina per l’automobile.
Sentiamo la responsabilità di chi rappresenta uno
strumento indispensabile alla vita aziendale e alla crescita
che sta alla base del successo e della felicità delle persone.
■
Dunque per essere felici è necessario avere
successo?
Sì, certo. Avere successo non significa necessariamente diventare famosi o ricchi. Significa avere un progetto
e avere il coraggio e gli strumenti per realizzarlo e portarlo
a termine. Lo diceva già Artistotele che l’uomo felice è colui
che vive bene ed ha successo.
| 43
Impaginazione
G.D.G. Edizioni srl
Stampa
Pazzini Stampatore Editore srl
Finito di stampare
Ottobre 2015
Storie di Successo
Storie
di Successo
Giovanni Clementoni
Irene Pivetti
Annarita Pilotti
Marco Bartoletti