Monotonia quotidiana e sete di vivere

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Monotonia quotidiana e sete di vivere
Monotonia quotidiana e sete di vivere
1.
In L’amore coniugale è trasparente la “languente vitalità” di Silvio Baldeschi in contrasto con
quella di Leda, “più forte di qualsiasi norma morale” (II 1287). La figura intellettuale
maschile è persuasa che sulla “vitalità” del presunto “capolavoro”, al quale ha dedicato tutto
il tempo della vacanza, non vi siano “dubbi” (II 1258), una “complessiva vitalità” assegnata,
quale caratteristica distintiva, a “qualsiasi libro” (II 1257). Agostino, a sua volta, ricorda il
“dolente lavorio della memoria” e gusta la sensazione del “ventre della madre chiuso nella
maglia fradicia, premuto contro la sua guancia, fremente e agitato da non sapeva che
vogliosa vitalità” (II 339). In Il negro e il vecchio della roncola la diciannovenne Cora, “già
formosa”, è descritta dal compagno nella “vera bellezza di quel corpo”, che “non era il dorso
ma il ventre” (“ventre spianato”, “ventre rotondo”). Cora, “come certe statue classiche,
aveva il petto piccolo ma la pancia prominente e nutrita, innocente come quella di un bimbo,
eppure possente e impetuosa, simile ad un orbe di bruna carne in cui l’ombelico scompariva
inghiottito” (II 1383). Nel racconto Falsi scopi una donna confessa che la “vitalità” le era
stata, finora, una “forza indolente, sinuosa e sorniona” “costretta” nel “corpo come in un
abito troppo attillato” (PAVB 281). La “vitalità” di lei, dunque, ha un “procedere tortuoso”
(PAVB 283). Lucio, nel romanzo 1934, riferisce che “in mancanza” di Beate, la sua “vitalità
non si esaltava più nell’amore”, “quell’eccesso di vitalità, attinto nell’amore” (1934 144).
Dovrebbe fare sesso con Sonia “unicamente per sfuggire a Beate”, cioè per scaricarsi “di
ogni energia, in modo da essere del tutto devitalizzato allorché, più tardi, nella notte” gli
sarebbe stato chiesto di dimostrare la “vitalità in maniera autodistruttiva” (1934 105).
Nell’opera di Moravia, quindi, la “vitalità” presenta le caratteristiche di un’avvolgente e
conturbante sete di vivere. Già nel 1943 il romanziere romano scriveva che “l’entusiasmo, il
fanatismo, l’oscuro slancio vitale, la volontà di agire purchessia, il desiderio del nuovo, il
generico misticismo e via dicendo” erano “fatti irrazionali”, visti con favore, e si
presentavano contro la “ragione”, considerata “meschina, infeconda e disgregatrice” (IC 7).
Nei personaggi la “vitalità” è innanzitutto prorompente sessualità e si riscontra nel racconto
La donna dalla cappa nera (C 45-64). Un uomo, dopo la morte della moglie, si rifugia a Capri e
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nel sogno cerca di ritrovarne il fantasma con un’altra donna. L’operazione di autoerotismo
che si sviluppa è spontanea, e l’eiaculazione è paragonata, enfaticamente e in modo
ridondante, “ad un’eruzione minima ma non per questo meno profonda”. La repressione è
organicistica e assume le forme della violenza vulcanica1, tematica spesso affiorante. Il
personaggio ritiene che si tratti dell’“eruzione della vitalità troppo a lungo repressa e
finalmente liberata”. La vicenda si conclude con la rappresentazione dell’attività sessuale,
“non più con una donna in carne e ossa ma con qualche cosa d’infinitamente più reale anche
se incorporeo”, ossia con il cielo di Capri e gli alberi di notte. La fantasmatizzazione
trasforma anche la vitalità sessuale.
Nel racconto Amata dalla massa una donna si analizza:
Una vitalità densa e vogliosa mi gonfiava la persona come fa la lingua ad un frutto maturo.
La sentivo, questa vitalità, nel lustro e nel movimento dei capelli, nella dilatazione luminosa
delle pupille, nell’inutilità radiosa del sorriso, nel rigoglio prepotente del seno, nell’ebbrezza
che mi saliva al cervello ad ogni passo che muovevo. (PAVB 192)
Particolarmente nei testi del periodo tra le due guerre mondiali i personaggi maledicevano la
monotonia quotidiana, aspiravano illusoriamente alla sete di vivere, ma erano catapultati
inesorabilmente nel gorgo dell’incapacità di realizzare i loro sogni. Perciò rappresentavano
l’inazione, le malattie immaginarie, la pigrizia come impotenza e acedia. Emblema di questa
abulia, secondo la quale “Agire insomma è sognare ad occhi aperti” (I 1362), era Talamone,
il protagonista del racconto I sogni del pigro.
La rivolta alla monotonia e alla banalità della vita, alla tranquillità quotidiana e alla “noia” è
palese, in diverse forme e manifestazioni. Si presenta anche come reazione alla generica
“noia”, che pervade e investe Francesco Cenci, il quale, per reazione cerca, “attraverso
l’esercizio della crudeltà”, di sentirsi “vivo” e di “scuotere i sensi in qualche modo” (T 212). I
cosiddetti “vizi” degli altri lo “scuotevano e scacciavano” dal suo “animo la noia” (T 215).
Rassomiglia a Francesco Cenci, stranamente, negli eccessi dei contrari che si somigliano, in
un rapporto vittima-carnefice, la figlia Beatrice: “il padre è eccessivo nella sua perversità,
altrettanto lo è lei nella sua innocenza” (T 231). Il Michele degli Indifferenti e l’Andreina delle
Ambizioni sbagliate, Luca della Disubbidienza e Dino della Noia, ad esempio, per dire soltanto di
alcune fisionomie artistiche più rappresentative, sono emblematici.
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Il meccanismo, quale inerte contemplazione della realtà e odio per l’azione, si ingigantisce
progressivamente, con l’avanzare degli anni, si afferma quale reazione fisiologica e psichica e
si trasforma in qualcosa di interiorizzato. Moravia respinse sempre l’azione per la
contemplazione. È accertabile in lui la condanna incessante del vitalismo di Hemigway e
dell’”estetismo dell’azione” di Goffredo Parise, come rilevava il 27 settembre 1987
discorrendo che nello scrittore trevigiano esisteva ed urgeva un “bisogno d’azione, non già
privato e segreto ma pubblico e proclamato”. Perciò lo accostava ad Hemingway per la
condivisione di un “tipico male del secolo: l’insufficienza della letteratura” (DE 124), ossia
l’avventura opposta alla sedentarietà provinciale che aveva avuto tanti predecessori, tra i
quali erano citati Rimbaud, Tolstoj, D’Annunzio e i due Lawrence. L’azione, causata dalla
sete di vivere, era rifiutata, e il lettore si imbatte in una scrittura che, in modo insistente e
ripetitivo, elabora la parte inconscia, appunto vitalistica. La zona profonda del rimosso è
neutralizzata dalla forza della scrittura. Risulta pertanto esemplare il personaggio di Pietro,
essere umano “avveduto e scaltro”, amico del protagonista del racconto Il dolore, il quale
presenta “una vitalità chiusa, repressa come un’essenza forte dentro una bottiglia” (II 1547).
La “vitalità” è anche negli oggetti. In URSS, ad esempio, osservando un “monumento” in
sfacelo Moravia scriveva della “sua vitalità misteriosa, minacciosa, grandiloquente e
malinconica; ma è la vitalità non dell’opera d’arte, bensì della rovina, come appunto in
Piranesi e nei surrealisti” (p. 63). Al romanziere-viaggiatore in Africa accadeva di pensare
che la “vitalità urbana” di una grande città moderna, “soprattutto nei momenti della sua
massima esaltazione, per esempio nelle prime ore della notte, d’inverno, si configuri come
una fuggevole, illusoria immagine di morte” (LS 74), un “miraggio funesto di una apocalisse
quotidiana”. Egli era consapevole che “la città, così vitale, con la sua folla, il suo movimento,
le sue luci”, dava “un’impressione di morte”, mentre il deserto africano, “che è sinonimo di
morte”, riusciva, “in qualche modo” ad ispirargli “un’impressione di vita” (LS 74-75). E,
annotava, descrivendo la vegetazione africana, che “la foresta è pura vitalità che si esprime in
una lotta tra pianta e pianta, tra albero e albero” (PA XII), evidenziando che la “vitalità” è
“inestinguibile”, ed è ritrovata anche in un serpente schiacciato dalle ruote dell’auto e in un
fiume che “non cesserà mai di precipitare nel suo abisso” (PA 147).
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2.
La “vitalità” – una necessità – è attivismo irrefrenabile, spinta alla vita quotidiana, a sentirsi
fluire il sangue. Perciò i personaggi rifiutano burattini, automi e marionette. Una ragazza, ad
esempio, ripete dei gesti “come un automa mal congegnato, fa le cose meccanicamente” (VI
138). Il rifiuto è dello stesso scrittore. Nell’articolo Il paese del lusso per tutti (edito sulla
“Gazzetta del Popolo” il 5 agosto 1936), all’interno di una serie di reportages sul soggiorno
per sei mesi negli Stati Uniti, Moravia, partendo da un motivo leopardiano non effimero, ma
altamente significativo, notava a New York i “rapporti stretti che corrono tra la morte e la
moda, tra la morte e il godimento, tra la morte e l’utile”, traendone la deduzione che “gli
americani hanno l’orrore del pensiero e dell’ozio e cercano più che possono di rassomigliare
ad automi infaticabili” (V 123). La diffidenza per la civiltà americana era palese, in
consonanza con tutta la cultura italiana ed europea2.
Negli anni successivi la questione acquistò maggiore densità. In un articolo dal titolo
L’amatore di automi (edito su “Oggi”, 11 gennaio 1941) ricordando il soggiorno degli anni
precedenti negli Stati Uniti, il romanziere romano ricordava la “minacciosa andatura
automatica”, che era morta in lui ogni “immaginazione”, e con la paura di “diventare
automa, per difetto di vitalità, come tutti gli altri americani; con questa differenza, che loro
l’automatismo pare inebriarli; e a me invece sembrava di morirne” (V 165). Non
dimenticava, inoltre, l’episodio di Capodanno, l’incontro con tale signor Hodgson, in una
casa nella quale erano distribuite “mensole” “gremite di fantocci con in una bottega di
giocattoli”. Da anni il signor Hodgson collezionava “fantocci, per la maggior parte molto
grandi, disposti come persone, in luoghi e atteggiamenti naturali” (V 168). Moravia
rammentava retrospettivamente tutto ciò che era avvenuto o, almeno, come lo ricordava:
“l’automa non era una grossolana e incompleta imitazione della natura, bensì addirittura, la
meta a cui tendeva l’umanità” (V 171). La metropoli era sotto l’impero dell’automatismo.
Che regolava tutto. Per lui, invece, la realtà doveva essere ribelle, irrazionale, imprevedibile.
E inorridiva, a dire il vero, per la prospettiva di un universo che, in virtù della taylorizzazione
crescente, si avviava ad un funzionamento come un orologio. Se per il signor Hogdson il
processo rappresentava la “felicità”, Moravia, invece, riteneva che l’automatismo era
imposizione, imbrigliamento e annullamento dell’individualità3. Stravolto dalla percezione di
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siffatta scoperta, non riuscì a dormire la notte e il giorno dopo fuggì in Messico. L’automa
rappresentava l’assenza di “vitalità” e in correlazione con la tematica del circo si sarebbe
dilatato in seguito al processo inarrestabile di meccanizzazione dell’individuo e del cosmo,
ossia a ciò che egli avrebbe chiamato il “Numero”. Il motivo era stato percepito già da
Michele in Gli indifferenti, nell’automatismo dal sorriso dell’imbambolamento, senza vitalità,
senza “fede”, “sincerità” senza azioni, ossia movimenti automatici dettati dall’esterno. Per
strada, nella “vetrina” di un “profumiere” anche a Roma Michele aveva visto “un fantoccio
réclame” che aveva attratto la sua attenzione, “dipinto a vivi colori, tagliato nel cartone,
raffigurato secondo un modello più umano che fantastico, aveva un volto immobile, stupido
e ilare e dei grandi occhi castani pieni di fece candida e incrollabile” (I 239). Michele aveva
notato altri dettagli, tra i quali la réclame di un rasoio con la “lieta soddisfazione della sua
faccia rosea”, ma ciò additava “la imbecillità dell’uomo”. Tale réclame ebbe su Michel un
“effetto” diverso dagli obiettivi e “Gli parve di vedere se stesso e la sua sincerità”. Provando
angoscia di diventare - nei suoi pensieri e fantasticherie - “un fantoccio stupido e roseo” del
quale rifiutava l’imbambolamento, le “piccole scosse automatiche” con il suo “radioso
sorriso” e la paura di diventare simile all’oggetto nauseabondo. Lo “spettacolo affascinante”
ma notando tra parentesi “qualche cosa di pazzo e allucinante in quel suo movimento
continuo” (I 240).
Il motivo si ripresentò in alcuni testi degli anni Trenta, emerse fragorosamente in I burattini,
racconto del 1941 con le rappresentazioni del teatrino e del fantoccio (II 1409-1415), poi si
stagliò con molta decisione, nella raccolta L’automa, nel motivo del “burattinesco” e della
“marionetta” del racconto Il feticcio (IV 590).
La “vitalità” è dinamismo, energia, esuberanza vitale, non è meccanicismo, ma neppure il
vivente di desanctisiana memoria, che era “la vita nella sua integrità”4. Moravia assisteva
impotente al passaggio dall’era agricola all’era industriale e attualmente dei servizi e della
quale si sentiva impartecipe e ribelle, contro la quale già Silvio Baldeschi era capitolato e si
rassegnava di farne parte senza convinzione, ma si adattava nella sconfitta inesorabile. Era
altrettanto il rifiuto del macchinismo e del mondo che si avviava a diventare una macchina
perfetta, un orologio, anche nella divisione del lavoro, un movimento sincrono, razionale,
che non lasciava nulla al caso e all’imprevedibile, ossia all’umano, come diceva Consolo a
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Francesco Merighi in L’attenzione (IV 1082), senza riflessione, un mondo che escludeva
ed emarginava il letterato, a detta di Consolo. Spariva il lavoro intellettuale minacciato
dall’intelligenza artificiale, dal computer e dall’algoritmo, dalla robotica5.
3.
La vecchiaia è mancanza di vitalità, come in Svégliati, nella raccolta Una cosa è una cosa. Un
vecchio sente di mancare di “vitalità che è propria della vecchiaia” e trasferisce nella vita
reale la “felice vitalità del giardino” visto dalla finestra. Nel sogno gli “pareva di ravvisare” la
sua “stessa mancanza di vitalità nelle cose tra le quali vegetavo, freddo e languente” (IV
1299). Non si era accorto di aver confuso sogno e realtà e di essere invecchiato davvero.
La progressione inesorabile del tempo impegnò la riflessione di Moravia, il quale, a detta di
uno dei suoi biografi, “non sopportava di sentirsi invecchiare”6. Il 3 maggio 1988, in Diario
europeo, discorrendo di un saggio sulla vecchiaia (si trattava di un testo di Georges Minois),
separava vecchiaia e invecchiamento, e sosteneva, tra tante osservazioni, che la prima non
era “un’età ma una vera e propria malattia”. Il vecchio era senza avvenire. Doveva vivere alla
giornata. Con una metafora paesaggistica differenziava il giovane, che aveva davanti a sé una
“sterminata pianura”, dal vecchio, che aveva una “visibilissima spiaggia oltre la quale non si
vedeva nulla perché ciò che potrebbe esservi da sempre non vuole mostrarsi, si nasconde”
(DE 188). Moravia avvertiva inoltre che il significato dell’invecchiamento era molteplice e
non in rapporto con il biologico, ma con qualcosa di più profondo, piuttosto.
L’invecchiamento, d’altronde – lo abbiamo notato anche altrove7 – in raccordo con la
modernità è sempre palese. La società industriale avanzata, infatti, rifiuta l’invecchiamento,
travolge nel consumo frenetico e nell’obsolescenza ogni vitalismo annienta la prospettiva del
futuro e relega ai margini l’assenza di produttività delle merci. Risulta invecchiato ciò che è
fallito. Invecchiare è morte e l’intera esperienza vissuta dai personaggi moraviani è sempre
una fuga dalla morte. In tal senso l’invecchiamento diventa sovrapponibile con il suicidio
collettivo del genere umano8.
4.
6
La “vitalità”, causata dall’orrore per l’inerzia e il chiuso, è anche nel movimento continuo,
nella frenesia dei viaggi, nel flusso della vita e nella fuga dalla malattia. In Le notti americane
(edito sulla “Gazzetta del Popolo” il 16 settembre 1936) Moravia esordiva con una
indicazione di poetica sul viaggio:
Viaggiare vuol dire uscire dalle abitudini, dai crucci, dalla noia profonda e crearsi dei ricordi
improbabili e fantastici come sogni sognati nelle prime ore del mattino. Vuol dire sostituire i
problemi morali con i paesaggi; la necessità con il caso; i luoghi sobri e pieni di verità con la
falsità clamorosa e un po’ triste del luna-park pieno di musiche stridule, di giostre luccicanti e
di tiri a segno dai bersagli impossibili. (V 125)
Confessò in una intervista degli ultimi anni di vita: “ancora oggi viaggiare mi distrae, mi
sblocca e mi arricchisce. Qui insorge la questione del tempo: viaggiare è un progetto librato
nel futuro che fa sì che, finché dura il viaggio, il tempo esista, sia davvero il tempo. Se invece
stai fermo, anche il tempo si ferma”9. Perciò egli fuggiva dalla sedentarietà e preferiva
muoversi ininterrottamente. Si trattava, evidentemente, anche di fuggire dalla claustrofobia,
sulla quale non mancano le osservazioni10, dalla prigione nella quale i personaggi si sentivano
rinchiusi. Risulta indissolubile la sofferenza claustrofobica – come in Arbasino – e il bisogno
del viaggio, sia reale che metaforico11.
I personaggi di Moravia fuggono dalla casa, in genere, che è un luogo chiuso (“oscurità
nera e soffocante empiva la stanza”; I 883), ma la casa, spesso luogo asfittico,
claustrofobico, è anche sostituto del “ventre materno”, luogo di riposo, nido protettivo,
come accade al protagonista de L’uomo che guarda, al quale una “camera” particolare
dell’appartamento di famiglia “ispira un senso di sicurezza quasi fosse una specie di ventre
materno nel quale posso sempre rifugiarmi al riparo dalle tempeste della vita (UG 25).
Gli spazi chiusi sono quasi sempre una prigione:
L’intonaco delle pareti era bianco e tutto punteggiato delle spoglie secche delle zanzare
schiacciate durante i mesi d’estate, due o tre ragnatele aggrappate agli angoli, l’opacità del
pavimento, l’odor di chiuso che era per l’aria facevano pensare che Cecilia pigra e frivola
estendesse raramente alla propria camera le pulizie affrettate che faceva ogni mattina
nell’appartamento. (I 888)
Anche i numerosi salotti, senza luce e senza finestre, sono in relazione la claustrofobia,
sintomo di angoscia corporea: “il salotto, luogo di tristezza e di clausura” (IL 255). E il
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motivo della finestra, studiato da Bruno Basile, e interpretato quale simbolo al modo
junghiano, è una fuga dalla claustrofobia12. Dalla finestra, dalla vista dall’alto quasi tutti i
personaggi moraviani osservano estaticamente il paesaggio13.
La claustrofobia è strutturale in questo universo immaginario. Nella prima redazione del
romanzo incompiuto I due amici Sergio era stato invitato, durante l’estate, periodo in cui si
svolgeva la vicenda, a villeggiare a Capri. Ove va e “Come a contrasto con l’angustia e il
soffocamento del luogo dove si trovava”, alla “distesa immensa del mare azzurro, luminoso
e pieno di libertà, gli si raffigurava nella immaginazione la vita nell’isola, al riparo dalla
sorprese della guerra, spensierata tra tanto dramma, vita di ozioso spettatore non attore”
(DA 38). La vita a casa della madre, per il Dino della Noia, è una sofferenza, con “una specie
di paralisi” di tutte le “facoltà”. Si sentiva “muto, apatico e ottuso”, e gli “pareva di essere
murato vivo” dentro se stesso, “come dentro una prigione ermetica e soffocante” (IV 10).
La ristrettezza degli spazi costringe alla fuga14. Fuga dalla castrazione, dunque. La
claustrofobia, appunto, è angoscia della castrazione, come accade nella sequenza del rasoio in
L’amore coniugale, è simmetrica all’agorafobia, però, che è un “mero fatto fisico” (IC 4). In
Rico, il protagonista di Io e lui, il sintomo è espresso in una similitudine14 di un “enorme
sedere bianco le cui natiche si direbbero dilatate, amplificate, allargate dalla loro stessa pulita
e deserta bianchezza” (IL 40-41), e “queste due sfere la cui vastità mi fa girare il capo come
ad un agorafobo una piazza vuota a perdita d’occhio” (IL 41). Moravia avverte l’agorafobia
in Bolivia, ove “si sente in trappola” perché il territorio non ha lo sbocco al mare (IC 155),
oppure quando un “vicolo cieco” ha l’aggravante della “claustrofobia di un involucro di
stoffa ermetica e soffocante nel quale si è chiusi da una forza misteriosa” (PA 87). Non si
trascuri la rappresentazione della Londra sotterranea (V 462) e l’opposizione luce-tenebre.
Moravia avverte la claustrofobia anche attraversando la “grande foresta” in Africa, che
“brulica” “come una folla trattenuta a stento durante la sommossa” (LS 190), con replica
(“terrificante groviglio arboreo della foresta equatoriale”; LS 191), con la pista che è “un
tunnel scavato nel vivo della foresta” (LS 191). La foresta che sia caduta dal cielo su alberi
grandi e piccoli e li abbia tutti avvolti e imprigionati”; LS 191), “labirinto di verdura”,
“foresta simile ad una immensa ragnatela”, “si leva tutt’intorno gigantesca, impenetrabile,
maestosa” (LS 198), si esce dalla foresta come da un “sotterraneo” (LS 200). Anche la
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foresta africana, “fittissima, di un verde quasi nero” (QTA 59), “grandiosa e ostile” (QTA
17), “densa, grossa, folta, pesante, lustra” (QTA 28), che incombe per tutte le “passeggiate
africane”, è guardata e osservata con paura e angoscia.
Il mondo preistorico è apparentemente affascinante e risveglia nel Moravia viaggiatore
l’arcaico, come a contatto con gli animali e con la natura. Spesso per la rappresentazione
della foresta emerge l’animalizzazione attraverso la voce verbale ribollire: “guardo alla foresta
verde e gonfia che ribolle nella sterminata marmitta del paesaggio” (PA 80). Il “groviglio dei
rami” sembra “simile ad un gonfio e spesso manto di pelliccia, riveste la terra
arrotondandone i rilievi, riempiendone le cavità” (PA 109), come “una donna gigantesca
distesa supina sulla terra” (PA 109) all’interno di un “paesaggio antropomorfo”, in un
capitolo dal titolo La foresta senza fine (“colossale groviglio”; LS 194).
Adriana in La romana si addormenta in una stanza. Al risveglio le viene “subito in mente
l’idea di una cella di prigione” (II 892) e si sforza di uscire dallo “spazio angusto”, da quel
“carcere di pietà e di angoscia” (II 893). Anche a Cesira, “quella radura chiusa tra quegli
aranceti fitti fitti” le “sembrava una prigione” (III 1463), come “quella stanzetta, resa
inabitabile dalle mosche, dalle vespe e dal caldo, dopo essere stata per l’inverno un rifugio,
adesso era diventata peggio di una prigione” (III 1362):
Quel cannone sparava sui nazisti e sui fascisti e ogni colpo che sparava era un colpo su
quella prigione di bugie e di paura che loro avevano costruito in tanti anni e questa prigione
era grande come il cielo e adesso crollava d’ogni parte sotto i colpi di quel cannone e tutti
potevano adesso respirare /…/. (III 1397)
Beatrice Cenci, a sua volta, si interroga e non riesce a spiegarsi per “quali colpe” sia stata
rinchiusa nel castello, un luogo che considera un “carcere” e una “prigione”. Perciò desidera
“tornare a Roma” (T 229). Risultano interessanti la prigione descritta dal minatore americano
(I 1418), che è un inferno, le osservazioni sui prigionieri nelle carceri di Urbino e il fascino
esercitato sul visitatore delle carceri dell’isola d’Elba15. Il canto del cuculo rappresenta il nesso di
prigioniero, prigione ed evasione (II 1446-1450). In Il cancello chiuso, tra i “racconti dispersi”
del 1939, è il diario di una visita al penitenziario di Portolongone, nell’isola d’Elba, Moravia è
attratto dagli ergastolani e si immedesima nei “pensieri di un condannato”. Si tratta di
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“antiche fantasie”, pensieri di addio alla vita libera. E dichiara di preferire questa tipologia di
prigione al carcere psicologico al chiuso nel quale era stato costretto a vivere (R 335-336). Il
motivo è espresso con lucidità anche nelle recensioni cinematografiche, ove si presenta
l’immagine di “film claustrofobici e allegorici” (CI 1145). Ed inoltre:
La società attuale è una prigione e infatti nei tre film in questione l’azione si svolge per intero
in tre ambienti chiusi nei quali non si respira. La società moderna è inoltre viziosa e infatti
ciò che avviene in quegli ambienti chiusi e irrespirabili è ripetitivo e meccanico come il vizio.
Ma al tempo stesso, stranamente, questi luoghi chiusi diventano dei templi, in cui si svolge
un rito; e questa viziosità, diventa ritualità. (CI 1085)
5.
È stato osservato che in sanatorio, alla vista della malattia e della morte, Moravia
“Disponeva di termini di confronto e dunque di ragioni per battersi e per far leva sulla
vitalità delle proprie energie”. L’atteggiamento è confrontato con il “meccanismo psichico”
che “consente di spiegare la resistenza sovrumana di certi deportati nel cuore dell’inferno
concentrazionario”16. Peccato che il biografo, però, non abbia prolungato la riflessione.
Moravia, infatti, durante la seconda guerra mondiale, e successivamente, dopo l’orrore
nazista, estese lo sguardo critico appunto ai campi di annientamento17. Già nel 1946 in
L’uomo come fine Moravia scriveva “L’immagine più coerente e più precisa del mondo
moderno ce la fornisce il campo concentramento e di sterminio” (UF 139), e che diventa
una critica immediata e risoluta alla modernità uscita dalla seconda guerra mondiale: “il
campo di concentramento è l’immagine più adatta a rappresentare il meccanismo immobile
se pure apparentemente frenetico del mondo moderno: vita eguale dolore e dolore eguale
vita” (UF 143). In un dibattito con Arrigo Benedetti, il 2 maggio 1962, Moravia stabilì una
differenza tra l’intellettuale e le “masse”, le quali “dimenticano facilmente”, mentre “lo
scrittore ricorda”, e curiosamente “non può non avere continuamente presenti alla coscienza
i campi di concentramento nazisti” (DE 67). Alla data 17 maggio 1985 del Diario europeo,
annotava di essere stato condotto in gita ad un campo di concentramento vicino Strasburgo,
in Alsazia. Con gli occhi del deportato guardò il “sistema concentrazionario nazista” e ne
ricavò la seguente riflessione: “Un’aria di infamia defunta e di tristezza eterna emana da
questo luogo di morte oggi ripulito, ordinato, elevato a monumento nazionale”. Egli pensava
che l’Europa, “dopo i campi di sterminio, non sarà mai più la stessa. Fino ai campi esclusi,
10
per analogia di civiltà, l’Europa poteva essere paragonata alla Grecia. Ma la sublime luce
greca non ha conosciuto l’eclisse tenebrosa e suicida del genocidio” (DE 41).
In L’attenzione, del 1965, nel diario che Francesco Merighi redige in vista della scrittura
romanzesca il lettore è colpito, alla data sabato 28 novembre, dal sogno (IV 1062-1066). Il
protagonista è in un giardino, considerato un Eden orientale, ma costruito sopra un campo
di concentramento nazista. Passeggiando scopre il forno crematorio ancora in funzione;
libera la figliastra che deve essere cremata. In un’altra scena totalmente diversa e poi un’altra
di una caduta nell’abisso, ma con il paracadute, il Merighi vola insieme con la figliastra, si
sveglia, ricorda il sogno ma non comprende se si era svegliato oppure se il risveglio e…
erano stati parte del sogno. Ora, si sa che i sogni sono parte integrante della scrittura
romanzesca moraviana, ma questo sogno ha il particolare della data, vista la forma diaristica
della scrittura, che è la data di nascita di Moravia. E che rappresenta, in quanto anniversario,
un dato simbolico di ripensamento fin dall’età giovanile come risulta dalle lettere18.
Le immagini si rovesciano e assumono molti significati, a partire dalla dissolvenza dell’Eden
nel campo di concentramento. Il rovesciamento può accadere da un momento all’altro,
come ogni elemento nel suo contrario e ogni idillio in tempesta.
Note
1
L’immagine del “vulcano” è frequente in Moravia. L’abbiamo riscontrata anche altrove,
mai come catastrofe geologica ma sempre sbocco ed eruzione sessuale, fuoco biologico
dell’individuo.
2
Cfr. gli Atti del convegno svoltosi a roma dal 19 al 21 maggio 2011, Alberto Moravia e
l’America, a cura di Federica Capoferri e Portia Preby, presentazione di Dacia Maraini, Roma
2012. Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, introduzione e note di Franco De Felice,
Torino, Einaudi, 1978. Michela Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Torino,
Bollati Boringhieri, 1989.
L’espressione era in Postilla al Saggio critico sul Petrarca, a cura di Niccolò Gallo, introduzione di
Natalino Sapegno, Torino, Einaudi, 1983, p. 11.
Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi, 1992, pp. 167-178 e p. 255.
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René De Ceccatty, Alberto Moravia, cit., p. 7.
Nicola D’Antuono, Forme e significati in Alberto Arbasino, Bologna, Millennium, ….
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Si veda il capitolo sul suicidio.
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Cfr. Alberto Moravia -Alain Elkann, Vita di Moravia, cit., p. 96.
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Cfr. Alberto Sebastiani, La soglia claustrofobica: la non-vita negli “Indifferenti”di Alberto Moravia,
in “Studi e problemi di critica testuale”, n. 70, aprile 2005, pp. 157-190. Il saggio è tuttavia
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insoddisfacente, anche per la limitatezza dell’orizzonte cronologico per spiegare
complessivamente il sintomo.
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Nicola D’Antuono, Forme e significati in Alberto Arbasino, cit.,
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Bruno Basile, La finestra socchiusa: ricerche tematiche…., Roma, Salerno, 2003
La finestra in Moravia non è il balcone e neppure la terrazza. La finestra fa entrare la luce,
permette di guardare all’esterno e di sottrarsi alla claustrofobia, anche quando vi sono
finestre con tendine. Alcuni spunti di riflessione si rintracciano in Silvio Curletto, Finestre.
Immagini letterarie di uno spazio perduto (Pisa, ETS, 2003) e in Vittorio Roda, Verga e le patologie
della casa (Bologna, Clueb, 2002).
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Jean Rousset, “Madame Bovary” o il libro su nulla. Un aspetto dell’arte del romanzo in Flaubert: il
punto di vista, in Forma e significato, introduzione e traduzione di Franco Giacone, Torino,
Einaudi, 1976, pp. 121-144, in particolare pp. 134-144.
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In La vita interiore non vi è più similitudine ma il “sedere”, letteralmente, l’ossessione dei
personaggi, nella vista e nell’attività sessuale. Cfr. innanzitutto il personaggio di Viola che
“aveva il sedere più bello”, nel quale “Vi si fondevano la perfezione delle forme propria
dell’età giovanile e la morbidezza della maturità”, e nei “movimenti” che erano “un invito
alla violenza” (VI 24). Cfr. anche, nello stesso testo, 158, 167, 197, 351, 356.
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Interessante – sulla scorta di Foucault – il nesso prigione e manicomio (René De Ceccatty,
Alberto Moravia, cit., p. 302. Cfr. anche Victor Brombert, La prison romantique. Essai sur
l’imaginaire, cit.
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Il 16 ottobre 1960, nella recensione al film Kapò di Gillo Pontecorvo (CI 359-361), riferiva
dell’”universo concentrazionario” di David Rousset, immediatamente tradotto in Italia con il
titolo Dio è caporale (Milano, Longanesi 1947), poi ritradotto con il titolo L’universo
concentrazionario (trad. it. di Lucia Lamberti, Milano, Baldini & Castoldi, 1997).
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Scriveva a Lélo Fiaux il 28 novembre 1934, cioè nell’anniversario del suo ventisettesimo
anno (“dans ce jour plutot fatidique”), una lettera molto autobiografica e densa di riflessioni
sul suo destino di romanziere e sul suo rapporto con la letteratura. Cfr. Alberto Moravia, Se è
questa la giovinezza vorrei che passasse presto cit., pp. 223-225.
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