Essere, avere un padre materno

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Essere, avere un padre materno
Simona Argentieri – Estratto da “Il padre materno da San Giuseppe ai nuovi mammi”, Meltemi Editore, 1999
Essere, avere un padre materno
La riflessione teorica psicoanalitica intorno al fenomeno dei nuovi padri è appena
cominciata. Ma mentre noi ci interroghiamo e tentiamo ipotesi e speculazioni, la mutazione è
ormai avvenuta a largo raggio, ad ogni livello sociale e – giova ripeterlo – con generale
soddisfazione.
Tanti giovani uomini si stanno rivelando non solo perfettamente in grado di svolgere le
funzioni materne primarie, ma anche di trarne un profondo, intimo appagamento.
Ciò sembra testimoniare che – al di là del valore positivo delle battaglie femminili, che
hanno conquistato ormai solidamente per le donne il diritto ad un'esistenza completa di
intelletto e di affetti – anche i maschi, sia pure dopo drammatici travagli, hanno beneficiato di
questa rivoluzione. A loro volta, hanno acquistato la possibilità di vivere simmetricamente una
parte di sé negletta e ripudiata per secoli: quella della sensualità primitiva, della tenerezza, dei
livelli simbiotici arcaici senza conflitto. (Proprio quelle quote che – come ci insegna
l’esperienza psicoanalitica – talora i maschi non riescono a convogliare nel rapporto amoroso
adulto.)
Ma questa funzione materna è esercitata in modo differente da uomini e donne? È davvero
utile edificare la questione dell’esistenza o meno di un ‘istinto paterno’, così come a suo tempo
ci siamo estenuati a stabilire limiti biologici e culturali del cosiddetto ‘istinto materno’?
Personalmente, penso che conti abbastanza poco come i papà cullano i bambini, come li
tengono in braccio, con quale timbro di voce cantano la ninna nanna. Nella prima infanzia il
bisogno è quello di cure costanti e poco importa il sesso anagrafico di chi le fornisce e di chi le
riceve.
I veri problemi semmai sono altri.
In questo nuovo assetto, infatti, non è facile per nessuno trovare la giusta misura. Per un
uomo, ad esempio, condividere l’esperienza delle cure primarie ai figli senza spodestare la
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mamma, svolgere talvolta le di lei funzioni senza usurparne l’identità. Poter essere, insomma,
un padre materno senza diventare un mammo.
Così pure, talvolta, nelle coppie si possono stabilire delle nuove collusioni inconsce;
secondo le quali le donne sfuggono alle ansie del rapporto primario col neonato (parti in
anestesia, separazione precoce madre-bambino, rinuncia all'allattamento al seno...) mentre gli
uomini occupano prontamente questo spazio vacante, "risolvendo" in modo apparentemente
pacifico la loro invidia ed eludendo clandestinamente la fatica di esprimere la loro incerta
mascolinità.
Passando dal livello sociologico a quello psicologico, non possiamo infatti nascondere
l'inquietudine che di queste conquiste venga fatto un uso distorto.
I padri hanno conquistato aspetti autentici del rapporto con i bambini, ma talora a spese, temo,
di altri livelli: quelli delle funzioni paterne, che un tempo (a torto) si consideravano
specificamente maschili. In realtà si tratta delle funzioni adulte, al servizio del conflitto sano e
vitale, delle passioni, della strutturazione della personalità e della crescita psicologica (che gli
uni e le altre hanno oggi difficoltà ad esercitare).
Nella attuale difesa collettiva verso l'indifferenziato, uomini e donne sono disponibili a fare
le mamme, ma nessuno fa più il padre.
Chi interverrà oggi, come accadeva un tempo grazie alla figura paterna (quando c’era) a
interrompere la magica fusione madre (o padre)/bambino? Chi fungerà da ‘secondo oggetto’,
insegnando il verbo e la legge?
Come ha sintetizzato maliziosamente Adolfo Pazzagli, sembra che gli uomini – a fronte
della responsabilità di diventare padre – pratichino essenzialmente tre soluzioni: o fuggono, o
fanno i bambini, o fanno le mamme.
Aggiungiamo inoltre che sempre più spesso vediamo famiglie cosiddette monogenitoriali,
nelle quali i figli – o magari l’unico figlio – cresce con un genitore solo, quasi sempre una
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mamma ‘single’, a sua volta priva di modelli consolidati, che deve svolgere come sa e come
può tutte la funzioni, con l’aiuto alterno ed episodico di nonne, tate, baby sitter…
Due desideri che non si incontrano
Fin dalle prime pagine di questo libro abbiamo sottolineato la differenza tra uomini che
fanno le mamme – fenomeno precipuamente moderno – e la fantasia di ciascuno di noi,
maschio o femmina di tutti i tempi, di godere di un padre dolce e protettivo: ‘essere’ un padre
materno o ‘avere’ un padre materno.
L’epoca attuale – complicazioni di coppia a parte – sembrerebbe dunque offrire la
realizzazione felice di due sogni speculari. Ma purtroppo non è così.
L’uomo che fa la mamma ad oltranza si identifica segretamente con una madre idealizzata,
ma al tempo stesso si identifica con il bambino. La fantasia inconscia è di essere lui quel
piccolo adorato e di appagare attraverso le cure che gli profonde il proprio inesauribile
nostalgico bisogno di regressione senza conflitto. Una ambiguità fascinosa che –sia detto ad
onor di giustizia- per secoli, troppo spesso, hanno esercitato impunemente le madri.
Passata la prima infanzia, anche il mammo più devoto diventerà però deludente. Tenero sì,
ma forte? Quale autentica protezione potrà continuare ad offrire rispetto agli insulti della
realtà?
L’idillio, come ogni rapporto basato sull’idealizzazione, è destinato ad una inesorabile
delusione e il prezzo del disinganno può essere allora molto oneroso: carico di rabbia e di
sterili rivendicazioni da parte dei figli; di umiliazione, depressione, risentimento da parte del
padre, che non si vede più rispecchiato come perfetto.
Il genitore migliore, infatti, secondo le concezioni psicoanalitiche, non è quello perfetto, ma
quello “sufficientemente buono”, che prepara gradualmente il figlio alle frustrazioni della vita.
L’esperienza clinica e quella quotidiana testimoniano che per molti giovani non ha più
molto senso sfidare l’autorità di genitori che, da almeno due generazioni, sembrano avere
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abdicato non solo dall’autorità e dall’autorevolezza; ma anche dalla funzione adulta normativa,
punitiva e protettiva. Il paradosso è che se il superamento dell’asimmetria tra genitori e figli ha
prodotto significativi vantaggi sul piano della libertà e del rispetto umano, per contro ha
smorzato la spinta propulsiva verso l’uccisione simbolica, quell’aggressività sana che favorisce
la crescita.
In conclusione, mi sembra inutile – ed anche sostanzialmente ingiusto – continuare ad
alimentare il coro delle lamentazioni sul padre assente, sull’uomo debole. In una società di
eterni adolescenti, senza “padri della patria”, senza padri celesti, proprio dai giovani uomini – e
solo da loro – dovremmo pretendere l’esercizio della norma e della legge, della funzione
‘ortopedica’normativa, del saldo argine all’aggressività altrui?
I più onesti, i più intelligenti, i più sensati tra gli uomini moderni hanno già fatto
abbondantemente le loro autocritiche; non hanno alcuna voglia di riprendersi il peso di un
potere tanto scomodo e neppure di sentirsi perpetuamente in debito per le colpe dei loro avi.
Posso citare, ad esempio, il coraggioso libro di Carlo Mattacchini, psicoterapeuta, che si
intitola appunto “Potere maschile. Un potere usurpato?”, nel quale finalmente si tenta una
riflessione sulla crisi dei rapporti tra i sessi dal versante di un maschio.
Padri e madri, biologici o adottivi, uomini e donne, nonni e tate, coppie e ‘single’,
omosessuali od eterosessuali… Questa è ormai la società nella quale viviamo, con strutture
familiari sempre più variabili ed atipiche. La psicoanalisi, d’altronde, non ha e non può avere
una teoria normativa su come debbano essere le relazioni “giuste”; può solo indagare ciò che
accade ai livelli profondi, interpersonali ed intrapsichici, dietro le trasformazioni
comportamentali.
In tale contesto, è naturale e necessario –e comunque è già accaduto- che ciascuno di noi,
per vivere e praticare un reciproco aiuto, svolga tante funzioni, dinamicamente variabili ed
interscambiabili, non più rigidamente codificate dal sesso e dalle generazioni come avveniva
un tempo.
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Tutto ciò offre a donne ed a uomini possibilità nuove di costruirsi una identità ricca e
completa, libera dalle mutilazioni e dalle scissioni del passato; ma, come è inevitabile, fa anche
correre il rischio di rifugiarsi in soluzioni regressive, verso l’indifferenziazione come difesa.
Un benvenuto, dunque, ai nuovi padri che fanno le mamme, se non usano questo ruolo per
spodestare le madri e per eludere il compito paterno; ma sarà giusto che si aspettino dalle loro
compagne altrettanta duttilità e la disponibilità a condividere la fatica di svolgere le funzioni
adulte.
A margine, rientra in questa cornice problematica, anche la vecchia questione del sesso
dello psicoanalista; se per questo o quella paziente sia preferibile un terapeuta maschio o
femmina.
Meglio di una lunga discussione, ci offre una risposta un piccolo esempio clinico, che mi è
stato gentilmente offerto da una collega. Una paziente (donna) il giorno di San Giuseppe, per
celebrare la ricorrenza, ha portato in dono alla sua analista (donna) una rosa rossa...
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