conversazione di Silvia Bizio con Steven Spielberg
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conversazione di Silvia Bizio con Steven Spielberg
IL MITO DELL’ETERNO MOVIMENTO NEL CINEMA DI STEVEN SPIELBERG DA ‘DUEL’ A ‘THE TERMINAL’ Una conversazione di Silvia Bizio con Steven Spielberg David Mann e Viktor Navorski: due personaggi emblematici delle suggestioni e del pericolo intrinseco alla dimensione itinerante in America. Un regista, Steven Spielberg, che con “Duel” (1971), suo debutto registico nel lungometraggio, e “The Terminal” (2004), la tragicommedia su un turista in transito bloccato per mesi all’aeroporto di New York, analizza il rapporto dell’uomo con il tempo e lo spazio in un mondo in costante movimento. Il Mann di “Duel”, l’uomo qualunque e vittima designata (Dennis Weaver nel film), percorre alla guida della sua auto una semideserta highway californiana quando si ritrova inseguito e perseguitato da un minaccioso Tir, il cui rabbioso autista rimane senza volto. In “The Terminal”, la cui storia è ispirata al caso vero di un viaggiatore iraniano che da anni vive nella lounge di transito dell’aeroporto Charles De Gaulle a Parigi, il forestiero Navorski (Tom Hanks), si vede negare il visto d’ingresso in Usa dalle autorità, in questo caso l’Homeland Security, e fa del terminal dei voli internazionali la sua temporanea dimora. “Duel”, divenuto un cult-movie e decostruito ad nauseam soprattutto dagli intellettuali europei che nell’odissea di Mann vedevano la sofferenza del proletario oppresso da un potere ubiquo e sinistro, ebbe il merito di reinventare il genere “on the road”. Un genere che nel passato, e ancora dopo Duel, è stato molto caro ai registi, che hanno usato le strade americane come sfondo di innumerevoli film. “Il nucleo tematico di quel mio primo film faceva perno sul grosso camion, metafora dell’onnipotenza anonima del potere,” ricorda Spielberg, 60 anni, premio Oscar per “Schindler’s List” (1993) e “Salvate il soldato Ryan” (’98). “Mann rappresenta il senso di perdita di controllo dell’individuo alienato sulla propria vita. La strada aperta rende facile preda il cittadino indebolito dall’esistenza urbana. Nemmeno il chiuso della stazione di sosta protegge chi si avventura nella giungla stradale. L’’eroè di Duel è il tipico americano piccolo-medio borghese isolato dalla modernizzazione metropolitana. Il tema dell’uomo comune sopraffatto dalla tecnologia e dall’iper-dinamismo sociale ritorna in molti dei miei film.” Nel 2004 Spielberg ha congiunto di nuovo le forze col suo attore preferito, Tom Hanks, già protagonista di “Salvate il soldato Ryan” e “Prova a prendermi” (2002), per la realizzazione di “The Terminal”. Il Navorski di Hanks atterra a New York dalla sua nativa Krakozhia, paese fittizio situato probabilmente nell’est europeo balcanico. Durante il volo la sua nazione viene sconvolta da un violento colpo di stato. Navorski diventa cittadino di “stato illegittimo”, dunque senza valido passaporto secondo le autorità americane di confine. Deve rimanere nel terminal di JFK finchè la situazione politica in Krakozhia non si sia ristabilita. Il progetto del film era stato sviluppato originalmente prima dell’11 settembre, ma l’unico vero cambiamento apportato al film è stato che Spielberg ha sostituito alla sicurezza dell’aeroporto quella dell’Homeland Security, che proprio in quel periodo il governo americano stava ancora definendo. Per la scenografia del film, ricreato in un hangar di Palmdale, proprio vicino a dove Spielberg girò Duel, lo scenografo di The Terminal Alex McDowell si è ispirato agli scali di Denver, Francoforte e Norita a Tokyo, “pieni di cose di design, grafica e arte attinenti all'aeroporto dei sogni”, dice il regista. “A quel punto io ho idealizzato il terminal normale di un comune aeroporto nel miglior aeroporto possibile del mondo, e tutta quella fantasia è entrata nell’hangar di un 747 a Palmdale.” “Secondo me quella di ‘The Terminal’ è una storia semplice, ” continua Spielberg, che dopo questo film ha diretto “Munich” e “La guerra dei mondi”, ed è ora alle prese con la produzione dell’attesissimo e più volte posticipato “Indiana Jones 4”. “È la storia di un uomo che col suo ottimismo, la sua joie de vivre e generosità crea un ambiente magico in un luogo altrimenti freddo e impersonale, infondendo allegria in tutti coloro che incontra nel terminal. In quel senso tutti sono contenti nel terminal una volta che Viktor Navorski diventa un personaggio in quel posto. È quello che lui infonde in quell’ambiente, lasciando del magico alle spalle. Non la magia dell’alchimista, ma la magia del suo comportamento e della sua personalità che ne risente, e l’aeroporto comincia a diventare un posto più felice per via della sua esistenza in quel terminal. Ma attenzione, aggiunge Spielberg: “Dentro un contesto leggero ho cercato tuttavia di riflettere su un argomento serio, ovvero sul modo in cui gli Stati Uniti si stanno allontanando dal grande ‘melting pot’ delle loro radici immigratorie eteroclite, per muoversi verso un processo di tribalizzazione.” “Mi spiego meglio: stiamo attraversando un periodo isolazionista che i sociologi definiscono di auto-segregazione. Sarà pur vero, ma se per caso capiti in una sala di transito di un grande aeroporto internazionale sembra invece che le circostanze suggeriscano il contrario. In fondo facciamo tutti le stesse cose. Aspettiamo, ci preoccupiamo, ci chiediamo come proseguirà il viaggio, e intanto ci vestiamo, compriamo e ci nutriamo allo stesso modo. La terra di nessuno di una ‘transit loungè è in realtà la terra di tutti. Nel terminal il senso del tempo è aleatorio: qualcuno arriva con un volo non-stop da Hong Kong a Los Angeles e crede che sia ora di colazione, un altro atterra da Vancouver ed è pronto per la cena”“’The Terminal” contiene insomma un messaggio positivo sull’America di oggi, afferma convinto Spielberg. “Quell’originario melting pot etnico e razziale sopravvive in luoghi d’aggregazione come i terminal aeroportuali. È dove incontriamo gente di tutto il mondo, persone di diverse nazionalità, culture e religioni che iniziano a comunicare tra di loro. I terminal sono arcobaleni esemplari su come il mondo può andare d’accordo pur di fronte alle avversità, come le soste forzate, i ritardi e le cancellazioni dei voli. Un terminal non ha storia, tradizione, dialetto, ma prende a prestito pezzetti di tutto ciò da tutti coloro che vi transitano. È l'esempio lampante di metropoli post-moderna: gente disparata gettata dentro lo stesso spazio ristretto, costretta a convivere e magari a comunicare." Secondo Spielberg, gli aeroporti sono diventati dei microcosmi a se stanti, biosfere e laboratori sperimentali per le ultime forme di commercio, gastronomia, intrattenimento, informazione. “Il terminal è ora un gigantesco shopping center,” dice, “rassicurante nel suo dispiego di marchi globali. Come puoi temere d’incappare nel prossimo Bin Laden se davanti a te c’è uno Starbucks o un Gap?” Ciò non toglie che dopo l’11 settembre l’atmosfera di innocente allegria e del fascino per l’avventura negli aeroporti sia stata rimpiazzata da un profondo sentore di sospetto e sottesa circospezione. “Se non sono più luoghi emananti simpatia, gli aeroporti per me rimangono luoghi interessanti dal punto di vista sociologico e umano, che è ciò su cui volevo riflettere con ‘The Terminal’,” afferma Spielberg, il successo del cui film ha confermato l’attrazione del grande pubblico per l’intramontabile filo narrativo rappresentato dal viaggio on-the-road, e della storia d’amore sulla strada aperta. “In una nazione d’immigranti come la nostra,” dice Spielberg, “priva di grandi cattedrali o mitologie locali, la strada è la metafora creazionista della fondazione, sfondo e controfigura per il tragitto individuale di rinascita e autorivelazione. La sala di transito è il nuovo falò intorno a cui le varie tribù siedono pacificamente, e con amichevole pazienza scoprono il sè nell’altro.” Silvia Bizio NOTA BIOGRAFICA Silvia Bizio, nasce a Roma, laureata in lettere moderne, ha due master e PhD in sociologia e comunicazioni di massa alla UCLA. Vive a Los Angeles da trent’anni. Giornalista, scrive attualmente per la Repubblica e L'Espresso ed è membro della Hollywood Foreign Press Association. Ha scritto numerosi volumi sul cinema americano, fra cui il libro Gli italiani di Hollywood (Gremese, 2002) sulla storia del cinema italiano agli Oscar. Dal 2004 ha creato e dirige Cinema Italian Style, rassegna di cinema italiano contemporaneo a Los Angeles.