La casa a Vapore - Hardwaregame.it
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JULES VERNE LA CASA A VAPORE Viaggio attraverso l'India settentrionale Disegni di Leon Benett incisi da Ch. Barbant, Th. Delangle, Th. Hildibrand Copertina di Giuseppe Laganà U. MURSIA & C. MILANO TITOLO ORIGINALE DELL'OPERA LA MAISON À VAPEUR VOYAGE À TRAVERS L'INDE SEPTENTRIONALE (1879) Traduzione integrale dal francese di Giuseppe Mina Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy © Copyright 1970 U. MURSIA & C. 1040/AC U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29 PRESENTAZIONE Questo è forse uno dei più insoliti romanzi di Jules Verne. Sembra quasi che lo scrittore abbia voluto offrire qui un saggio di tutti gli elementi che solitamente concorrono ad animare le sue narrazioni e che abbia voluto mostrarci tutte le risorse di cui è ricca la sua fantasia, facendo appello all'ambiente geografico, ricorrendo a vicende storiche complesse che si arricchiscono di motivi persino leggendari, sfruttando quel gusto per la scienza e per la tecnica che caratterizza tanti suoi libri e dando libero corso a quella sua straordinaria inventiva romanzesca che sa conferire realtà anche a personaggi e a intrecci imprevedibili. C'è, prima di tutto, il suo culto per la tecnica e per il progresso (quel culto che ha fatto di lui un pioniere della fantascienza), ma che qui si presenta quasi in tono minore, non senza una punta di compiacente malizia, nella costruzione di un gigantesco giocattolo: il Gigante d'Acciaio. Adeguandosi all'ambiente favoloso in cui si svolge l'azione del racconto anche la tecnica sembra qui porsi al servizio della fiaba. E in realtà, questo Gigante d'Acciaio è un mostro ingenuo e innocuo. Non a caso è stato costruito per la gioia e per il divertimento di un fantasioso rajah, che però è passato a miglior vita prima di poterlo usare. Il Gigante d'Acciaio in questione è un treno che corre sulle strade comuni, senza bisogno di rotaie; è costituito da due grandi carrozze a forma di bungalow e di pagoda, trainate da una locomotiva a vapore, che il costruttore ha genialmente rivestito delle forme dì un gigantesco elefante. Più che un treno è dunque una strana, pittoresca casa che viaggia: la Casa a vapore. L'ingegner Banks, che l'ha costruita su commissione del rajah, alla morte di questi resta in possesso dello straordinario giocattolo e progetta di fare con esso un viaggio attraverso l'India settentrionale, da Calcutta a Bombay. Già questo viaggio, insolito per il mezzo di locomozione e avventuroso per i luoghi che attraversa, introduce il secondo elemento che contribuisce a rendere avvincente il romanzo: l'elemento geografico che qui si identifica con l'India misteriosa del secolo scorso, con il suo paesaggio sconfinato, estremamente vario e suggestivo, con la sua civiltà millenaria, la sua gente, i suoi usi e costumi. Né poteva mancare un terzo elemento, che caratterizza tanti libri di Verne: quello storico. L'idea del viaggio sorge nell'ingegner Banks per un vivo sentimento umanitario: egli vuol distrarre un suo amico, il colonnello sir Edward Munro, dallo stato di profonda depressione morale in cui è piombato per la scomparsa della sua giovane moglie, Laurence, avvenuta durante i gravi disordini provocati dalla rivolta dei Sepoys (o Cipays, come scrive Verne). Egli pensa che Laurence sia stata uccisa dal capo dei ribelli, il tristemente famoso Nana Sahib, e in cuor suo ha giurato vendetta (e lo stesso ha fatto del resto anche Nana Sahib, la cui compagna è stata uccisa in battaglia e proprio per mano di Munro). Ma come vendicarsi se il capo dei Sepoys, dopo la clamorosa sconfitta, si è reso irreperibile? Qualcuno dice sia morto, altri raccontano che, come un eroe da leggenda, continui ad apparire ora in questa ora in quella regione, per cercar di suscitare nuovi incendi di distruzione e di morte. Per distrarre il colonnello Edward Munro dalla sua cupa ossessione, l'ingegner Banks progetta dunque il suo viaggio; ma il tragico antecedente offre a Verne il pretesto per ricostruire a grandi linee la rivolta dei Sepoys. Un episodio sanguinoso, realmente accaduto nel 1857, quando appunto i Sepoys, i soldati indigeni che costituivano l'esercito nazionale indiano, aizzati e guidati dal nababbo Dandu-Pant, divenuto famoso appunto con il nome di Nana Sahib, insorsero contro il dominio inglese. Pagine di storia che, per essere rivissute da personaggi vivamente compromessi nella vicenda, risentono del calore e 'della passione dei loro stessi protagonisti. Tutti questi motivi, nella fantasia dello scrittore, si intrecciano e sì congiungono in quell'unica, singolare realtà che è l'opera narrativa. Ed è proprio su questo terreno che Verne si rivela ancora una volta molto abile nel tessere i fili della vicenda, nel caratterizzare situazioni e personaggi, nel costruire un intreccio che tiene avvinto il lettore fino alla fine. Sulla Casa a vapore, insieme con l'ingegner Banks e il colonnello Munro, ci sono anche altri viaggiatori, come il giovane francese Maucler, il capitano Hod e il suo attendente Fox, appassionati ed esperti nella caccia alla tigre, l'ameno signor Parazard, lo chef negro che regna sulla cucina e sulla dispensa della Casa a vapore, il taciturno sergente Mac Neil; e poi ecco Mathias Van Guitt, anch'egli cacciatore, ma che vuol catturare vive le belve per poter rifornire gli zoo di Londra e di Amburgo, l'indù Kâlagani, coraggioso ma misterioso e infido. Il gruppo, nel suo complesso, è vario e pittoresco quanto basta per movimentare il viaggio, e sembra messo insieme con arte proprio per permettere a Verne di toccare tutti i registri (dal drammatico, all'umoristico e al grottesco) che caratterizzano il suo modo di raccontare. Tra le scene più drammatiche, basterà ricordare la fuga precipitosa della Casa a vapore davanti a una mandria di elefanti infuriati (e veri!), lanciati al galoppo in prossimità del lago Puturia. Tra gli episodi più divertenti, la strana caccia a... Mathias Van Guitt, caduto in una delle sue innumerevoli trappole. Il viaggio, secondo un piano calcolato, conduce il colonnello Munro nella regione in cui è stata segnalata la ricomparsa del suo nemico, il ribelle Nana Sahib, e qui si ha lo scontro frontale, con agguati, fughe, inseguimenti reciproci, ma avviene anche il colpo di scena finale, che svela all'improvviso il mistero della scomparsa di lady Laurence Munro, mistero su cui poggia la tensione psicologica dell'intero romanzo. Un libro, come si vede, orchestrato con straordinaria abilità, in uno scenario grandioso e affascinante, e in un periodo tra i più contrastati e turbolenti della storia dell'India. La fantasia tecnica dell'elefante d'acciaio che trascina due pittoresche carrozze non è che un ingegnoso pretesto cui si intrecciano motivi storici e geografici, ma su cui si innesta soprattutto una vicenda patetica, estremamente mossa e avventurosa, raccontata con quella disinvoltura e con quella varietà di toni in cui Verne è maestro. Pubblicato nel 1880, quando lo scrittore era già affermato, venne subito riconosciuto come uno dei suoi libri più curiosi e caratteristici; né il giudizio è mutato a distanza di tanti anni, i quali, anzi, ancora una volta hanno confermato le qualità anticipatrici dei romanzi di Verne. L'elefante d'acciaio, visto oggi, sembra infatti un fantasioso modello dei moderni automi; come Casa a vapore, poi, sembra un prototipo delle moderne roulottes. E il fatto che fosse più ingombrante non ha certo importanza se si pensa che veniva «parcheggiato» ai piedi dell'Himalaya. JULES VERNE nacque a Nantes, l'8 febbraio 1828. A undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone. La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari - I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina di romanzi o racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica. Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905. Indice PRESENTAZIONE................................................................................................3 LA CASA A VAPORE ...........................................................11 PARTE PRIMA ......................................................................13 Capitolo I...............................................................................................................13 UNA TAGLIA SU UNA TESTA......................................................................13 Capitolo II .............................................................................................................24 IL COLONNELLO MUNRO............................................................................24 Capitolo III ...........................................................................................................38 LA RIVOLTA DEI CIPAY...............................................................................38 Capitolo IV............................................................................................................52 NELLE GROTTE DI ELLORA........................................................................52 Capitolo V .............................................................................................................63 IL GIGANTE D'ACCIAIO ...............................................................................63 Capitolo VI............................................................................................................74 PRIME TAPPE..................................................................................................74 Capitolo VII ..........................................................................................................87 I PELLEGRINI DEL PHALGU........................................................................87 Capitolo VIII.......................................................................................................101 ALCUNE ORE A BÉNARES .........................................................................101 Capitolo IX..........................................................................................................114 ALLAHABAD ................................................................................................114 Capitolo X ...........................................................................................................124 VIA DOLOROSA ...........................................................................................124 Capitolo XI..........................................................................................................134 IL CAMBIAMENTO DI MONSONE ............................................................134 Capitolo XII ........................................................................................................145 TRIPLICI FUOCHI.........................................................................................145 Capitolo XIII.......................................................................................................157 PRODEZZE DEL CAPITANO HOD .............................................................157 Capitolo XIV.......................................................................................................170 UNO CONTRO TRE ......................................................................................170 Capitolo XV ........................................................................................................184 IL «PÀL» DI TANDÎT....................................................................................184 Capitolo XVI.......................................................................................................192 LA FIAMMA ERRANTE ...............................................................................192 PARTE SECONDA ..............................................................201 Capitolo I.............................................................................................................201 IL NOSTRO «SAMTARIUM» .......................................................................201 Capitolo II ...........................................................................................................210 MATHIAS VAN GUITT ................................................................................210 Capitolo III .........................................................................................................225 IL «KRAAL»...................................................................................................225 Capitolo IV..........................................................................................................238 UNA REGINA DEL TARRYANI ..................................................................238 Capitolo V ...........................................................................................................257 ASSALTO NOTTURNO ................................................................................257 Capitolo VI..........................................................................................................273 L'ULTIMO ADDIO DI MATHIAS VAN GUITT..........................................273 Capitolo VII ........................................................................................................285 IL PASSAGGIO DEL BETWA ......................................................................285 Capitolo VIII.......................................................................................................302 HOD CONTRO BANKS.................................................................................302 Capitolo IX..........................................................................................................312 CENTO CONTRO UNO.................................................................................312 Capitolo X ...........................................................................................................327 IL LAGO PUTURIA .......................................................................................327 Capitolo XI..........................................................................................................341 A FACCIA A FACCIA ...................................................................................341 Capitolo XII ........................................................................................................354 ALLA BOCCA DI UN CANNONE ...............................................................354 Capitolo XIII.......................................................................................................365 IL GIGANTE D'ACCIAIO .............................................................................365 Capitolo XIV.......................................................................................................373 LA CINQUANTESIMA TIGRE DEL CAPITANO HOD..............................373 LA CASA A VAPORE PARTE PRIMA CAPITOLO I UNA TAGLIA SU UNA TESTA «Si PROMETTE un premio di duemila sterline a chi consegnerà, vivo o morto, uno degli ex capi della rivolta dei Cipay,1 la cui presenza è stata segnalata nella presidenza di Bombay, il nababbo Dandu-Pant, più noto sotto il nome di...» Ecco la notizia che gli abitanti di Aurangabad potevano leggere la sera del 6 marzo 1867. L'ultimo nome, nome esecrato, per sempre maledetto dagli uni, segretamente ammirato dagli altri, mancava al manifesto che era stato recentemente affisso sul muro di un bungalow in rovina, in riva al Dudhma. Se quel nome mancava, era perché l'angolo inferiore del manifesto, dove era stampato a grossi caratteri, era stato strappato dalla mano d'un fachiro che nessuno aveva potuto scorgere sulla riva allora deserta. Con quel nome era pure scomparso quello del governatore generale della presidenza di Bombay, controfirmante quello del viceré delle Indie. Quale era stato mai l'intento del fachiro? Strappando il manifesto sperava forse che il ribelle del 1857 potesse sfuggire alla pubblica vendetta e alle conseguenze del decreto emanato contro di lui? Poteva credere che una così terribile celebrità dovesse svanire con i frammenti di quel pezzetto di carta ridotto in polvere? 1 Si conserva qui e altrove la grafia di Verne, pur facendo notare che la grafia esatta sarebbe sepoys. (N.d.T.) Sarebbe stata pazzia. Infatti, altri manifesti, sparsi a profusione, campeggiavano sui muri delle case, dei palazzi, delle moschee, degli alberghi di Aurangabad. Inoltre, un banditore percorreva le vie della città, leggendo ad alta voce il decreto del governatore. Gli abitanti delle più miserabili borgate della provincia sapevano già che un'intera fortuna era promessa a chiunque avesse consegnato quel Dandu-Pant. Il suo nome, inutilmente soppresso, sarebbe corso prima di dodici ore per tutta quanta la presidenza. Se le informazioni erano esatte, se il nababbo aveva veramente cercato rifugio in quella parte dell'Indostan, non c'era alcun dubbio che sarebbe caduto entro poco tempo in mani fortemente interessate a operarne la cattura. A quale sentimento aveva dunque obbedito il fachiro, nel lacerare un manifesto già stampato in molte migliaia d'esemplari? A un sentimento di collera senza dubbio, forse a un qualche pensiero di disprezzo. Ad ogni modo, dopo essersi stretto nelle spalle, egli si cacciò nel quartiere più popoloso e più malfamato della città. Si chiama Deccan quell'ampia parte della penisola indiana compresa fra i Ghati occidentali ed i Ghati del mare del Bengala. È il nome che vien dato comunemente alla parte meridionale dell'India, di qua dal Gange. Questo Deccan, il cui nome sanscrito significa «Sud», comprende, nelle presidenze di Bombay e di Madras, un certo numero di province. Una delle principali è la provincia di Aurangabad, la cui capitale fu un tempo persino quella dell'intero Deccan. Nel secolo XVII, il celebre imperatore mongolo Aurangzeb trasferì la sua corte in questa città, che era conosciuta agli inizi della storia dell'Indostan sotto il nome di Kirkhi. Essa aveva allora centomila abitanti. Oggi non ne ha che cinquantamila, sotto la dominazione degli inglesi, che l'amministrano per conto del Nizam dell'Haiderabad. Tuttavia, è una delle città più sane della penisola, risparmiata finora dal tremendo colera asiatico, e che non è mai visitata nemmeno dalle epidemie di febbri, così temute nell'India. Aurangabad ha conservato magnifici resti del suo antico splendore. Il palazzo del Gran Mogol, eretto sulla riva destra del Dudhma, il mausoleo della sultana favorita dello Shah Jahan, padre di Aurangzeb, la moschea copiata dall'elegante Tadje di Agra, che innalza i suoi quattro minareti intorno ad una cupola graziosamente arrotondata, e ancora altri monumenti artisticamente costruiti, riccamente decorati, attestano la potenza e la grandezza del più illustre dei conquistatori dell'Indostan, che portò quel regno, al quale aggiunse il Cabul e l'Assam, ad un incomparabile grado di prosperità. Benché, dopo questo periodo, la popolazione di Aurangabad fosse stata considerevolmente ridotta, come si è detto, un uomo poteva facilmente nascondersi ancora in mezzo ai tipi tanto differenti che la compongono. Il fachiro, vero o falso, mescolato a tutta quella folla, non se ne distingueva in nessun modo. I suoi simili abbondano in India. Essi formano con i sayed una corporazione di mendicanti religiosi, che chiedono l'elemosina a piedi o a cavallo, e sanno pretenderla, quando non viene loro fatta spontaneamente. Non sdegnano neppure la parte di martiri volontari, e godono di grande credito presso le caste inferiori del popolo indù. Il fachiro di cui si parla era un uomo di alta statura che misurava più di cinque piedi e nove pollici inglesi. Se egli aveva passato la quarantina, poteva essere di un anno o due, al massimo. Il suo volto ricordava il bel tipo maharajto, soprattutto per lo scintillio degli occhi neri sempre all'erta; ma si sarebbero difficilmente ritrovati i lineamenti tanto fini della sua razza sotto le mille cicatrici del vaiolo che gli crivellavano le guance. Quell'uomo, ancora nel pieno dell'età, sembrava agile e robusto. Segno particolare, gli mancava un dito alla mano sinistra. Con i capelli tinti di rosso, procedeva seminudo, senza calzature ai piedi, con un turbante in capo, coperto appena da una malconcia tunica di lana a righe, stretta alla cintola. Sul suo petto apparivano a vivi colori gli emblemi dei due principi, conservatore e distruttore, della mitologia indù, la testa di leone della quarta incarnazione di Vishnu, i tre occhi e il tridente simbolico del feroce Siva. Frattanto, un turbamento reale e ben comprensibile agitava le vie di Aurangabad, più in particolare quelle in cui si affollava la popolazione cosmopolita dei quartieri bassi. Là essa formicolava fuori delle catapecchie che le servono come abitazione. Uomini, donne, fanciulli, vecchi, europei o indigeni, soldati dei reggimenti reali o dei reggimenti locali, mendicanti di ogni tipo, contadini dei dintorni, si avvicinavano, discorrevano, gesticolavano, commentavano la notizia, calcolavano le probabilità di guadagnare l'enorme premio promesso dal governo. La sovreccitazione degli animi non avrebbe potuto essere maggiore in occasione dell'estrazione di una lotteria, il cui primo premio avesse avuto un valore di duemila sterline. Si può anzi aggiungere che, questa volta, non c'era nessuno che non potesse prendere un buon biglietto con buone probabilità: quel biglietto, era la testa di Dandu-Pant. Però bisognava essere tanto fortunati da incontrare il nababbo, e tanto audaci da impadronirsene. Il fachiro, evidentemente l'unico fra tutti che non fosse tentato dalla speranza di guadagnare il premio, passava in mezzo ai gruppi arrestandosi talvolta, per ascoltare quello che si diceva, da persona che potrebbe forse approfittarne. Ma se egli non si mescolava affatto ai discorsi degli uni e degli altri, se la bocca rimaneva muta, i suoi occhi e le sue orecchie erano attenti. — Duemila sterline per scoprire il nababbo! — esclamava uno alzando al cielo le mani adunche. — Non per scoprirlo, — rispondeva un altro, — ma per prenderlo, che è ben differente! — Infatti non è tipo da lasciarsi prendere senza difendersi risolutamente! — Ma, non si diceva, ultimamente, che era morto di febbre nelle jungle del Nepal? — Niente di tutto ciò è vero! L'astuto Dandu-Pant ha voluto farsi credere morto per vivere in maggior sicurezza. — Era persino corsa voce che fosse stato sepolto al centro del suo accampamento alla frontiera! — Falsi funerali per ingannare meglio. Il fachiro non aveva battuto ciglio udendo affermare quest'ultimo fatto in modo che non ammetteva dubbi. Tuttavia, la sua fronte si corrugò involontariamente, quando udì un indù, uno dei più accesi del gruppo a cui si era mescolato, dare i seguenti particolari, troppo precisi per non essere veritieri: — Quel che è certo, — diceva l'indù, — è che nel 1859 il nababbo si era rifugiato con suo fratello Balao Rao e con l'ex rajah di Gonda, Debi-Bux-Singh, in un campo ai piedi di una montagna del Nepal. Là, stretti da vicino dalle truppe inglesi, decisero tutti e tre di varcare la frontiera indocinese. Ora, prima di superarla, il nababbo e i suoi due compagni, perché venisse dato maggior credito alla voce della loro morte, si sono fatti fare il funerale; ma quanto di essi è stato sepolto è unicamente un dito della mano sinistra, che si sono tagliato al momento della cerimonia. — E come lo sapete? — domandò uno degli ascoltatori a quell'indù, che parlava con tanta sicurezza. — Ero presente ai funerali, — rispose l'indù. — I soldati di Dandu-Pant mi avevano fatto prigioniero, e sono riuscito a fuggire soltanto sei mesi dopo. Mentre l'indù parlava in modo tanto deciso, il fachiro non lo perdeva d'occhio. Un lampo gli accendeva gli occhi. Egli aveva prudentemente nascosto la mano mutilata sotto il lembo di lana che gli copriva il petto. Ascoltava senza dire parola, ma le sue labbra fremevano scoprendo i denti aguzzi. — Dunque, voi conoscete il nababbo? — domandò qualcuno all'ex prigioniero di Dandu-Pant. — Sì, — rispose l'indù. — E lo riconoscereste senza esitare, se il caso vi mettesse faccia a faccia con lui? — Così come riconoscerei me stesso! — Allora avete qualche probabilità di guadagnare il premio di duemila sterline! — ribatté uno degli interlocutori, non senza un sentimento d'invidia poco dissimulato. — Forse... — rispose l'indù, — se è vero che il nababbo ha avuto l'imprudenza di avventurarsi nella presidenza di Bombay, il che mi sembra molto inverosimile! — E che cosa ci sarebbe venuto a fare? — Senza dubbio per tentare di provocare una nuova sollevazione, — disse uno degli uomini del gruppo — se non fra i Cipay, almeno fra le popolazioni delle campagne del centro. — Poiché il governo afferma che la sua presenza è stata segnalata nella provincia, — riprese uno degli interlocutori appartenente alla categoria di coloro che pensano che l'autorità non può mai sbagliare, — è segno che il governo è bene informato in proposito. — Sia! — rispose l'indù. — Voglia Brahma che Dandu-Pant passi sul mio sentiero, e la mia fortuna è fatta! Il fachiro arretrò di alcuni passi, ma non perdette d'occhio l'ex prigioniero del nababbo. Era notte buia, eppure l'animazione delle vie di Aurangabad non diminuiva. Sul conto del nababbo circolavano dicerie sempre più numerose. Qui si diceva che era stato visto addirittura in città; là che ormai era lontano. Si affermava pure che una staffetta, mandata dal nord della provincia, avesse appena portato al governatore la notizia dell'arresto di Dandu-Pant. Alle nove di sera, i meglio informati sostenevano che egli era già chiuso nelle prigioni della città insieme con alcuni Thug che vi vegetavano da oltre trent'anni, e che sarebbe stato impiccato l'indomani all'alba, senza tante formalità, come si era fatto con Tantia-Topi, suo celebre compagno di ribellione, sulla piazza di Sipri. Ma, alle dieci, un'altra notizia contraddittoria. Si spargeva la voce che il prigioniero aveva potuto fuggire quasi subito, il che rese un po' di speranza a quanti erano allettati dal premio di duemila sterline. In realtà, tutte quelle varie dicerie erano false. I meglio informati non ne sapevano più di chi era informato meno bene o assolutamente male. La testa del nababbo valeva sempre la sua taglia. Era sempre da prendere. Frattanto l'indù, per il fatto che conosceva personalmente DanduPant, era in grado meglio di chicchessia di guadagnare il premio. Pochi, soprattutto nella presidenza di Bombay, avevano avuto occasione d'incontrare il feroce capo della grande insurrezione. Più a nord e più al centro, nel Sindhia, nel Bundelkund, nell'Oudh, nei dintorni di Agra, di Delhi, di Cawnpore, di Lucknow, sul teatro principale delle atrocità commesse dietro suo ordine, le popolazioni intere si sarebbero sollevate contro di lui e lo avrebbero consegnato alla giustizia inglese. I parenti delle sue vittime, sposi, fratelli, figli, mogli, piangevano ancora quelli che il nababbo aveva fatto trucidare a centinaia. I dieci anni passati non erano bastati a spegnere i più legittimi sentimenti di vendetta e di odio. Perciò non era possibile che Dandu-Pant fosse stato tanto imprudente da arrischiarsi in quelle province in cui il suo nome era votato all'esecrazione di tutti. Se dunque, come si diceva, egli aveva ripassato la frontiera indocinese, se qualche motivo ignoto, progetto d'insurrezione o altro, lo aveva indotto ad abbandonare il rifugio introvabile, il cui segreto sfuggiva ancora alla polizia anglo-indiana, non c'erano che le province del Deccan che potessero, con il campo libero, permettergli una qualche sicurezza. Si vede, tuttavia, che il governo aveva avuto sentore della sua apparizione nella presidenza, e aveva messo subito una taglia sulla sua testa. Tuttavia, bisogna far osservare che ad Aurangabad gli appartenenti alle classi più elevate, magistrati, ufficiali, funzionari, dubitavano un po' delle informazioni raccolte dal governatore. Si era già sparsa troppe volte la voce che l'inafferrabile Dandu-Pant era stato visto, e anche preso! Erano corse sul suo conto tante notizie false, che si era formata una specie di leggenda sul dono dell'ubiquità posseduto dal nababbo e sulla sua abilità nell'ingannare i più abili agenti della polizia; il popolino, invece, non aveva nessun dubbio. Fra i meno increduli figurava, naturalmente, l'ex prigioniero del nababbo. Quel povero diavolo d'indù, illuso dall'esca del premio, animato d'altra parte da un bisogno di rivincita personale, non pensava che a mettersi in campo, e considerava quasi come certa la riuscita. Il suo piano era semplicissimo. Fin dal giorno seguente egli si proponeva di offrire i propri servigi al governatore; poi, dopo aver appreso esattamente quanto si sapeva di Dandu-Pant, ossia, su che cosa si basavano le informazioni date dal manifesto, si proponeva di recarsi sul luogo stesso in cui il nababbo fosse stato veduto. Verso le undici di sera, dopo aver udito tante dicerie diverse, che, pur confondendosi nel suo animo, lo facevano più saldo nel proposito, l'indù pensò finalmente di andare a riposarsi un poco. Aveva come unica abitazione una barca ormeggiata ad una delle rive del Dudhma, e si diresse da quella parte, fantasticando, con gli occhi semichiusi. Senza che egli se ne avvedesse, il fachiro non lo aveva lasciato; gli si era messo dietro, facendo in modo di non richiamare la sua attenzione, e seguendolo solamente nell'ombra. Verso l'estremità di quel popoloso quartiere di Aurangabad, a quell'ora, le vie erano meno animate. La sua arteria principale portava a dei terreni abbandonati il cui limitare formava una delle rive del Dudhma. Era come una specie di deserto alla periferia della città. Alcuni passanti tardivi lo superavano ancora, non senza affrettarsi, e rientravano nelle zone più frequentate. Il rumore degli ultimi passi non tardò a farsi udire; ma l'indù non si rese conto di essere rimasto solo nel seguire la riva del fiume. Il fachiro lo seguiva sempre e sceglieva le parti più scure del terreno, ora al riparo degli alberi, ora camminando rasente alle tetre mura delle abitazioni in rovina sparse qua e là. La precauzione non era inutile. Era sorta la luna, che gettava una luminosità incerta nell'atmosfera. L'indù avrebbe dunque potuto accorgersi d'essere spiato, anzi seguito da vicino. Quanto a udire i passi del fachiro, sarebbe stato impossibile. Questi, a piedi nudi, scivolava piuttosto che camminare. Nessun rumore rivelava la sua presenza sulla riva del Dudhma. Passarono così cinque minuti. L'indù ritornava, macchinalmente per così dire, alla miserabile barca nella quale soleva passare la notte. Il percorso che egli seguiva non poteva spiegarsi altrimenti. Egli camminava da uomo abituato a frequentare ogni sera quel luogo deserto; era completamente assorto nel pensiero di quel passo che si proponeva di fare il giorno seguente, presso il governatore. La speranza di vendicarsi del nababbo, che non era certamente stato tenero con i suoi prigionieri, unita al bramoso desiderio di guadagnarsi il premio, lo rendevano contemporaneamente cieco e sordo. Perciò non aveva coscienza del pericolo che le sue parole imprudenti gli facevano correre. Non vide il fachiro avvicinarsi a poco a poco. Ma, all'improvviso, un uomo gli si avventò addosso come una tigre, con un lampo in mano. Era un raggio di luna che si rifletteva sulla lama di un pugnale malese. L'indù, colpito al petto, cadde pesantemente a terra. Tuttavia, benché il colpo fosse stato dato da un braccio sicuro, il disgraziato non era morto. Qualche parola smozzicata sfuggiva dalle sue labbra con un fiotto di sangue. L'assassino si curvò, afferrò la vittima, la sollevò, e mettendo il proprio viso in piena luce lunare: — Mi riconosci? — disse. — Lui! — mormorò l'indù. E il terribile nome del fachiro stava per essere la sua ultima parola, quando egli spirò in un convulso soffocato. Un istante dopo, il corpo dell'indù spariva nella corrente del Dudhma, che non doveva mai più restituirlo. Il fachiro aspettò che il rumore delle acque fosse cessato. Allora, ritornando indietro, riattraversò i terreni abbandonati, poi i quartieri che incominciavano a spopolarsi, e, con passo rapido, si diresse verso una delle porte della città. Ma, nel momento in cui egli vi giungeva, quella porta veniva chiusa. Alcuni soldati dell'esercito reale occupavano il posto di guardia che ne difendeva l'ingresso. Il fachiro non poteva più lasciare Aurangabad, come aveva pensato di fare. — Eppure bisogna che ne esca, e questa notte stessa... o non ne uscirò più! — mormorò. Perciò ritornò sui suoi passi, seguì il cammino di ronda, all'interno delle mura, e, duecento passi più in là, si arrampicò sulla scarpa, in modo da raggiungere la parte superiore del bastione. La cresta, esternamente, si elevava una cinquantina di piedi al di sopra del livello del fossato, scavato fra la scarpa e la controscarpa. Era un muro a picco, senza tiranti sporgenti o asperità adatte a fornire un punto d'appoggio. Sembrava assolutamente impossibile che un uomo potesse lasciarsi scivolare sulla superficie del suo rivestimento. Una corda avrebbe, senza dubbio, permesso di tentarne la discesa, ma la cintura che cingeva i fianchi del fachiro misurava solo pochi piedi, e non poteva permettergli di giungere al piede della scarpata. Il fachiro si fermò un istante, gettò uno sguardo intorno a sé e rifletté a quanto doveva fare. Sulla cresta del bastione si arrotondavano alcune scure cupole di verzura formate dal fogliame dei grandi alberi che circondano Aurangabad come con una cornice vegetale. Da quelle cupole si proiettavano fuori lunghi rami flessibili e resistenti di cui sarebbe stato forse possibile servirsi per giungere, non senza grande pericolo, in fondo al fossato. Il fachiro, appena gli venne tale idea, non esitò. Si portò sotto una di quelle cupole, e riapparve poco dopo, all'esterno del muro, sospeso a un terzo d'un lungo ramo che si piegava a poco a poco sotto il suo peso. Quando il ramo si fu curvato tanto da toccare l'orlo superiore del muro, il fachiro si lasciò scivolare lentamente, come se avesse tenuto fra le mani una corda. Poté così scendere fino a mezza altezza della scarpa; ma una trentina di piedi lo separavano ancora dal suolo che doveva raggiungere per assicurarsi la fuga. Egli era dunque là, dondolante, sospeso per le braccia, cercando con il piede qualche fessura che gli potesse dare un punto d'appoggio... Ad un tratto, alcuni lampi solcarono il buio. Si udirono degli spari. Il fuggitivo era stato scorto dai soldati di guardia. Questi gli avevano fatto fuoco addosso, ma senza colpirlo. Tuttavia una pallottola colpì il ramo che lo sorreggeva, a due pollici sopra la testa di lui, e lo scalfì. Venti secondi dopo, il ramo si rompeva, e il fachiro piombava nel fossato... Un altro si sarebbe ucciso, egli rimase sano e salvo. Rialzarsi, risalire il pendio della controscarpa, in mezzo a una seconda grandinata di proiettili che non lo colpirono, sparire nel buio, non fu che un gioco per il fuggitivo. Due miglia più in là, egli rasentava, non visto, l'accantonamento delle truppe inglesi, acquartierate fuori Aurangabad. A duecento passi da quel luogo si arrestava, si voltava, la sua mano mutilata si tendeva verso la città, e dalla bocca gli uscivano queste parole: — Disgrazia a quanti cadranno ancora nelle mani di Dandu-Pant! Inglesi, non l'avete ancora finita con Nana Sahib! Nana Sahib! Quel nome di battaglia, il più temuto fra quanti erano diventati sanguinosamente famosi nella rivolta del 1857, veniva gettato ancora una volta dal nababbo come una sfida suprema ai conquistatori dell'India. CAPITOLO II IL COLONNELLO MUNRO — EBBENE, caro Maucler, — mi disse l'ingegner Banks — non ci parlate del vostro viaggio! Si direbbe che non abbiate ancora lasciato Parigi! Come trovate l'India? — L'India! — risposi — ma per parlarne con un certo fondamento, bisognerebbe almeno averla vista. — To'! — ribatté l'ingegnere, — ma se avete attraversato la penisola da Bombay a Calcutta, e a meno di esser cieco... — Non sono cieco, caro Banks, ma, durante questa traversata, ero accecato. — Accecato?... — Sì, accecato dal fumo, dal vapore, dalla polvere, e, meglio ancora, dalla rapidità del mezzo di trasporto. Non voglio dir male delle ferrovie, poiché il vostro mestiere è costruirne, caro Banks, ma ficcarsi nello scompartimento di un vagone, non avere altro campo visivo che il vetro degli sportelli, correre giorno e notte a una velocità media di dieci miglia l'ora, ora su viadotti, in compagnia delle aquile o dei gipeti, ora sotto gallerie in compagnia dei topi o dei ratti, fermarsi solo alle stazioni, che si assomigliano tutte, delle città vedere solo l'esterno delle mura o le sommità dei minareti, passare in quell'incessante fracasso dei muggiti della locomotiva, dei fischi della caldaia, dello stridore delle rotaie e del gemito dei freni, si chiama forse viaggiare? — Ben detto! — esclamò il capitano Hod. — Rispondete un po', se vi riesce, Banks! Che cosa ne pensate, colonnello? Il colonnello, al quale il capitano Hod si era rivolto, chinò leggermente il capo e si accontentò di dire: — Sarei curioso di sapere che cosa potrà rispondere Banks al nostro ospite signor Maucler. — La cosa non mi imbarazza minimamente, — rispose l'ingegnere, — e confesso che Maucler ha ragione in tutto e per tutto. — Allora, — esclamò il capitano Hod, — se la cosa sta così, perché mai costruite ferrovie? — Per permettervi di andare in sessanta ore da Calcutta a Bombay, quando avete fretta, capitano. — Io non ho mai fretta! — Ebbene, allora, prendete il Great Trunk Road, — rispose l'ingegnere. — Prendetelo, Hod, e andate a piedi. — È precisamente quello che voglio fare! — Quando? — Quando il colonnello acconsentirà a seguirmi in una bella passeggiata di otto o novecento miglia attraverso la penisola. Il colonnello si accontentò di sorridere, e ricadde in una di quelle lunghe fantasticherie da cui i suoi migliori amici, tra i quali anche l'ingegner Banks e il capitano Hod, facevano tanta fatica a strapparlo. Ero giunto in India da un mese, e, avendo preso il Great Indian Peninsular, che collega Bombay a Calcutta via Allahabad, non conoscevo assolutamente nulla della penisola. Ma era mia intenzione percorrerne prima di tutto la parte settentrionale, al di là del Gange, visitarne le grandi città, studiarne i principali monumenti, e dedicare a questa esplorazione tutto il tempo necessario a farla completa. Avevo conosciuto l'ingegner Banks a Parigi. Da alcuni anni eravamo legati da un'amicizia che un'intimità più profonda non poteva che aumentare. Gli avevo promesso di venirlo a trovare a Calcutta non appena il completamento del tronco dello Scind Punjab and Delhi, di cui egli era incaricato, lo avesse lasciato libero. Ora, i lavori erano stati ultimati. Banks aveva diritto a un riposo di alcuni mesi, e io ero venuto a chiedergli di riposarsi affaticandosi a correre per l'India. Egli aveva accettato la mia proposta con entusiasmo, si intende! Perciò dovevamo partire entro poche settimane, appena la stagione fosse divenuta favorevole. Al mio arrivo a Calcutta, nel mese di marzo 1867, Banks mi aveva fatto fare conoscenza con uno dei suoi bravi compagni, il capitano Hod; poi, egli mi aveva presentato al suo amico, colonnello Munro, in casa del quale avevamo passato la serata. Il colonnello, che aveva allora quarantasette anni, abitava una casa piuttosto isolata, nel quartiere europeo, e, di conseguenza, lontano dal movimento che è caratteristico di quella città mercantile e di quella città nera da cui è composta in realtà la capitale dell'India. Quel quartiere è stato chiamato a volte la «Città dei palazzi» e, infatti, i palazzi non vi mancano, se pure si può dare questo nome a degli edifici che di un palazzo hanno solo i portici, le colonne e le terrazze. Calcutta è il punto d'incontro di tutti gli ordini architettonici dei quali il gusto inglese generalmente si giova nelle sue città dei due mondi. Quanto all'abitazione del colonnello, era il bungalow in tutta la sua semplicità, un edificio eretto su una base di mattoni, provvisto solamente di un pianterreno, coperto da un tetto a forma di piramide. Una veranda o varanga, sorretta da leggere colonnine, ne faceva il giro. Sui lati, cucine, rimesse, dipendenze ne formavano le due ali. Il tutto era situato in un giardino con begli alberi e cintato di muri poco alti. La casa del colonnello era quella di un uomo che gode di grande agiatezza. La sua servitù era numerosa, come comporta il servizio delle famiglie indo-inglesi nella penisola. Arredamento, materiale d'uso, sistemazioni interne ed esterne, tutto era ben disposto e in ottimo stato di manutenzione. Ma si sentiva che a quelle varie disposizioni era mancata la mano di una donna. Per la direzione della servitù, per il governo generale della casa, il colonnello si affidava completamente a uno dei suoi vecchi compagni d'arme, uno scozzese, un conductor dell'esercito reale, il sergente Mac Neil, con il quale aveva fatto tutte le campagne dell'India, uno di quei bei cuori che sembrano battere nel petto di coloro ai quali si sono votati. Mac Neil era uomo di quarantacinque anni, robusto, alto, barbuto, come gli scozzesi delle montagne. Tanto per gli atteggiamenti e la fisionomia, quanto per il costume tradizionale, egli era rimasto un highlander anima e corpo, benché avesse lasciato il servizio militare contemporaneamente al colonnello Munro. Entrambi si erano ritirati dal servizio fin dal 1860, ma invece di ritornarsene presso i glens del paese, fra i vecchi clans dei loro avi, erano rimasti entrambi in India, e vivevano a Calcutta, in una specie di riservatezza e di solitudine che occorre spiegare. Quando Banks mi presentò al colonnello Munro, mi fece una sola raccomandazione: — Non fate nessuna allusione alla rivolta dei Cipay, — mi disse, — e soprattutto non pronunciate mai il nome di Nana Sahib! Il colonnello Edward Munro apparteneva a una vecchia famiglia della Scozia, i cui antenati si erano distinti nella storia del Regno Unito. Fra i suoi avi era quel sir Hector Munro che comandava l'esercito del Bengala nel 1760, e che dovette appunto domare una ribellione che i Cipay, un secolo più tardi, dovevano riprendere per proprio conto. Il maggiore Munro represse la rivolta con spietata energia, e non esitò a far legare lo stesso giorno ventotto ribelli alle bocche dei cannoni, spaventoso supplizio, rinnovato spesso durante l'insurrezione del 1857, e di cui l'avo del colonnello era stato forse il terribile inventore. All'epoca della rivolta dei Cipay, il colonnello Munro comandava il 93° reggimento di fanteria scozzese dell'esercito reale. Fece quasi tutta la campagna sotto gli ordini di sir James Outram, uno degli eroi di quella guerra, colui che meritò il nome di «Baiardo dell'esercito delle Indie», come lo proclamò sir Charles Napier. Il colonnello Munro si trovò perciò con lui a Cawnpore; prese parte alla seconda campagna di Colin Campbell, in India; prese parte all'assedio di Lucknow, e lasciò quell'illustre soldato solo quando Outram fu nominato a Calcutta membro del Consiglio dell'India. Nel 1858, il colonnello sir Edward Munro era cavaliere maestro dell'ordine della Stella dell'India, «the Star of India (K. C. S. I.)». Veniva nominato baronetto, e sua moglie avrebbe portato il titolo di lady Munro, 2 se, il 27 giugno 1857, la sventurata non fosse morta 2 Una donna non titolata, che sposi un baronetto o un cavaliere, prende il titolo di lady davanti al nome del marito. Ma tale titolo di lady non può precedere il nome di battesimo, poiché, in questo caso, è riservato unicamente alle figlie dei pari. (N.d.A.) nello spaventoso eccidio di Cawnpore, eccidio compiuto sotto gli occhi e per ordine di Nana Sahib. Lady Munro — gli amici del colonnello non la chiamavano mai altrimenti, — era adorata dal marito. Aveva solo ventisette anni quando scomparve con le duecento vittime di quell'orrenda carneficina. Mistress Orr e miss Jackson, salvate quasi miracolosamente dopo la presa di Lucknow, erano sopravvissute al marito e al padre. Lady Munro, invece, non aveva potuto essere restituita al colonnello Munro. Era stato impossibile ritrovare i suoi resti, confusi con quelli di tante vittime nel pozzo di Cawnpore, e dar loro sepoltura cristiana. Sir Edward Munro, disperato, ebbe allora un solo, unico pensiero, ritrovare Nana Sahib che il governo inglese faceva cercare dovunque, e spegnere, con la propria vendetta, una specie di sete di giustizia che lo divorava. Per essere più libero delle proprie azioni, si ritirò dal servizio. Il sergente Mac Neil lo seguì in ogni suo passo ed azione. Quei due uomini, animati dallo stesso spirito, vivendo d'uno stesso pensiero, mirando all'identico scopo, si lanciarono su tutte le piste, presero in esame tutte le tracce, ma non furono più fortunati della polizia anglo-indiana. Il Nana sfuggì a tutte le loro ricerche. Dopo tre anni di sforzi inutili, il colonnello e il sergente dovettero sospendere temporaneamente le loro investigazioni. Del resto, a quell'epoca era corsa per tutta l'India la voce della morte di Nana Sahib, e sotto un tale aspetto di veridicità, quella volta, che non c'era motivo per metterla in dubbio. Sir Edward Munro e Mac Neil allora tornarono a Calcutta, dove si sistemarono in quel bungalow isolato. Là, senza leggere libri o giornali, che avrebbero potuto ricordargli il tempo sanguinoso dell'insurrezione, senza lasciare mai la propria abitazione, il colonnello visse da uomo la cui vita è senza scopo alcuno. Pure, il pensiero di sua moglie non lo abbandonava mai. Sembrava che il tempo non avesse nessun potere sopra di lui e non potesse mitigare il suo rimpianto. Bisogna aggiungere che la notizia della ricomparsa del Nana nella presidenza di Bombay, notizia che circolava da alcuni giorni, sembrava essere sfuggita alle ricerche del colonnello. Ed era un bene, altrimenti egli avrebbe lasciato immediatamente il bungalow. Ecco quanto mi aveva detto Banks, prima di presentarmi in quella casa, da cui qualsiasi gioia era bandita per sempre. Ecco perché bisognava evitare ogni allusione alla rivolta dei Cipay e al più crudele dei suoi capi, Nana Sahib. Due amici soltanto, due amici provati, frequentavano assiduamente la casa del colonnello. Erano l'ingegner Banks e il capitano Hod. Banks, come ho detto, aveva appena terminato i lavori di cui era stato incaricato per la costruzione della ferrovia Great Indian Peninsular. Era un uomo di quarantacinque anni, nel pieno vigore dell'età. Doveva avere una parte importante nella costruzione del Madras Railway, destinato a collegare il mare Arabico con il golfo del Bengala, ma non era probabile che i lavori potessero cominciare prima di un anno. Nel frattempo egli si riposava a Calcutta, pur occupandosi di vari progetti di meccanica, perché era uno spirito attivo e fecondo, continuamente alla ricerca di qualche nuova invenzione. Dedicava tutto il suo tempo che esulava dalle occupazioni al colonnello, cui era legato da una ventennale amicizia. E così trascorreva quasi tutte le serate sotto la veranda del bungalow, in compagnia di sir Edward Munro e del capitano Hod, che aveva allora ottenuto una licenza di dieci mesi. Il capitano apparteneva al 1° squadrone dei fucilieri dell'esercito reale e aveva fatto tutta la campagna del 1857-1858, inizialmente con sir Colin Campbell nello Oudh e nel Rohilkhand, poi con sir H. Rose nell'India centrale, campagna che finì con la presa di Gwalior. Il capitano Hod, cresciuto a quella dura scuola dell'India, uno dei membri più notevoli del Club di Madras, di capelli e barba biondorossicci, non aveva più di trent'anni. Benché appartenesse all'esercito reale, lo si sarebbe preso per un ufficiale di quello indigeno, tanto si era indianizzato durante la sua permanenza nella penisola. Se vi fosse nato non avrebbe potuto essere più indù di quel che era. L'India gli pareva il paese per eccellenza, la terra promessa, il solo posto dove un uomo potesse e dovesse vivere. Là, infatti, egli trovava da soddisfare tutti i suoi gusti. Soldato nell'anima, gli si presentavano continuamente le occasioni per battersi. Cacciatore emerito, non si trovava forse nel paese in cui la natura sembra aver riunito tutte le fiere della creazione e tutta la selvaggina grossa e piccola dei due mondi? Scalatore impavido, non aveva forse a portata di mano quella grandiosa catena del Tibet che possiede le più alte vette del globo? Viaggiatore intrepido, chi gli impediva di porre il piede là dove nessuno lo aveva ancora messo, nelle regioni inaccessibili della frontiera dell'Himalaya? Maniaco arrabbiato per le corse dei cavalli, gli sarebbero forse venuti meno quei campi di corse dell'India, che ai suoi occhi valevano quelli della Marche o di Epsom? A questo proposito, poi, Banks e lui erano in disaccordo completo. L'ingegnere, nella sua qualità di meccanico puro sangue, si interessava ben poco alle prodezze ippiche dei Gladiator e delle Fille-de-l'air. Anzi, un giorno che il capitano Hod insisteva su questo punto, Banks gli rispose che, secondo lui, le corse sarebbero state veramente interessanti a una sola condizione. — Quale? — domandò Hod. — Che fosse bene stabilito, — rispose serio Banks — che il jockey ultimo arrivato fosse fucilato al palo della partenza, seduta stante. — È un'idea!... — replicò semplicemente il capitano Hod. Senza dubbio egli sarebbe stato uomo da correre quel rischio di persona. Questi erano i due commensali assidui al bungalow di sir Edward Munro. Al colonnello piaceva sentirli discutere su ogni cosa, e le loro eterne discussioni richiamavano a volte una specie di sorriso sulle sue labbra. Desiderio comune di quei due bravi compagni era indurre il colonnello a un qualche viaggio che potesse distrarlo. Molte volte gli avevano proposto di partire per il nord della penisola, di andare a trascorrere qualche mese nei dintorni di quei sanitarium nei quali la ricca società anglo-indiana si rifugia volentieri durante la stagione dei grandi caldi. Il colonnello aveva sempre rifiutato. A proposito del viaggio che Banks e io ci proponevamo d'intraprendere, gli si era già detto qualcosa. Anche quella sera venne di nuovo trattata la questione. Si è visto che il capitano Hod parlava nientemeno che di fare a piedi una grande escursione nel nord dell'India. Se a Banks non piacevano i cavalli, Hod non amava le ferrovie. Erano pari. La via di mezzo sarebbe stata, senza dubbio, viaggiare in carrozza o in palanchino, a piacere, nelle ore più comode, cosa abbastanza facile sulle grandi vie ben tracciate e ben tenute dell'Indostan. — Non mi parlate dei vostri carri a buoi, dei vostri zebù gibbosi! — esclamò Banks. — Senza di noi, sareste ancora ridotti a questi veicoli primitivi, di cui in Europa non si voleva più sentir parlare cinquecento anni fa! — Eh! Banks, — ribatté il capitano Hod, — questo si addice anche ai vostri vagoni imbottiti e alle vostre Crampton! 3 Dei grandi buoi bianchi che sostengono perfettamente il galoppo e che si cambiano alle stazioni di posta ogni due leghe... — E che trascinano delle specie di tartane a quattro ruote dove si è sballottati più aspramente di quel che sono i pescatori nelle loro barche, su un mare scatenato! — Passi per le tartane, Banks, — rispose il capitano Hod. — Ma abbiamo delle carrozze a due, a tre, a quattro cavalli, che possono gareggiare in velocità con i vostri «convogli degni veramente di portare questo funebre nome! Io preferirei anche il semplice palanchino... — I vostri palanchini, capitano Hod, proprio delle bare, lunghe sei piedi, larghe quattro, dove si sta sdraiati come cadaveri! — Verissimo, Banks, ma niente sballottamenti, niente scosse; si può leggere, si può scrivere e si può dormire a proprio agio senza essere svegliati a ogni stazione! Con un palanchino portato da quattro, o sei Gamals 4 bengalesi si fanno anche quattro miglia e mezzo 5 all'ora, e non si rischia, come nei vostri spietati espressi, di arrivare prima di essere partiti... quando si arriva! 3 Nome dato ad alcuni tipi di locomotive veloci, dal cognome dell'ingegnere inglese Thomas Russel Crampton (1816-1888) che ne fu l'inventore. (N.d.T.) 4 Nome dei portatori di palanchini nell'India. (N.d.A.) 5 Circa otto chilometri. (N.d.A.) — Il meglio, — dissi io allora, — sarebbe senza dubbio portare la casa con sé! — Lumaca! — esclamò Banks. — Amico mio, — risposi, — una lumaca che potesse lasciare il suo guscio e rientrarvi a piacere, non sarebbe forse tanto da compiangere! Viaggiare nella propria casa, una casa che cammina, sarà probabilmente l'ultima parola del progresso in fatto di viaggi! — Forse, — disse allora il colonnello Munro; — muoversi pur restando in mezzo al proprio «home», portare con sé il proprio ambiente e tutti i ricordi che lo costituiscono, mutare successivamente il proprio orizzonte, modificare il proprio panorama, l'atmosfera, il clima, senza cambiare nulla della propria vita... si... forse! — Niente più quei bungalow destinati ai viaggiatori! — rispose il capitano Hod, — nei quali il comfort lascia sempre a desiderare, e nei quali non si può soggiornare senza un permesso dell'amministrazione locale! — Niente più orrende locande, dove, moralmente e fisicamente, si è scorticati in tutti i modi! — feci osservare io, non senza le mie buone ragioni, — Il carrozzone dei saltimbanchi! — esclamò il capitano Hod, — ma un carrozzone modernizzato. Che sogno! Fermarsi quando si vuole, partire quando pare e piace, camminare al passo quando si vuole passeggiare, correre di galoppo appena lo si desideri, portare con sé non solo la camera da letto, ma anche il salotto, la sala da pranzo, la sala da fumo, e soprattutto la cucina e il cuoco: ecco il progresso, amico Banks! Questo è cento volte meglio delle ferrovie! Osate smentirmi, ingegnere che siete, osatelo! — Eh! eh! amico Hod! — rispose Banks, — sarei assolutamente del vostro parere, se... — Se?... — fece il capitano crollando il capo. — Se, nel vostro slancio verso il progresso, non vi foste bruscamente fermato per via. — C'è dunque ancora qualcosa di meglio da fare? — Giudicate voi. Voi trovate la casa che cammina molto superiore al vagone, anche al wagon-salon, persino allo sleeping-car delle ferrovie. Avete ragione, capitano, se si ha tempo da perdere, se si viaggia per divertimento e non per affari. Siamo tutti d'accordo su questo punto, vero? — Tutti! — risposi. Il colonnello Munro abbassò il capo in segno di approvazione. — Siamo intesi, — rispose Banks. — Bene. Proseguo. Vi siete rivolto a un carrozziere che è anche architetto, ed egli vi ha costruito la vostra casa che cammina. Eccola, ben salda, ben disposta, rispondente alle esigenze di chi ama i suoi comodi. Non è troppo alta, il che le impedirà di capovolgersi; non è troppo larga, così da poter passare per tutte le strade; è ingegnosamente sospesa, in modo che la via le riesca facile e dolce. «Bene, bene! È stata fabbricata per il nostro amico colonnello, suppongo. Egli vi ci ha offerto ospitalità. Andremo, se lo vorrete, a visitare le regioni settentrionali dell'India, da lumache, ma da lumache che non sono inseparabilmente legate per la coda ai gusci. Tutto è pronto. Non si è dimenticato nulla... nemmeno il cuoco e la cucina, tanto cari al cuore del capitano. Il giorno della partenza è venuto, si sta per partire! All right!... E chi la trascinerà, la vostra casa viaggiante, mio ottimo amico? — Chi? — esclamò il capitano Hod, — ma muli, asini, cavalli, buoi?... — A dozzine? — disse Banks. — Degli elefanti! — ribatté il capitano Hod, — degli elefanti! Sarebbe una cosa superba e maestosa! Una casa trascinata da un tiro d'elefanti, ben addestrati, con un portamento fiero, che corressero, galoppassero come i migliori palafreni del mondo! — Sarebbe magnifico, capitano! — Un corteo da rajah in campagna, ingegnere! — Sì, ma... — Ma... che cosa? C'è un altro ma! — esclamò il capitano Hod. — Un grosso ma! — Oh! questi ingegneri! Non sono capaci che di vedere difficoltà in ogni cosa!... — E di superarle, quando non sono insuperabili, — rispose Banks. — Ebbene, superate! — Supero, ed ecco come. Caro Munro, tutti i motori di cui il capitano ha parlato, camminano, trascinano, tirano, ma si stancano anche. Sono restii, si ostinano, e, soprattutto, mangiano. Ora, non appena i pascoli vengono a mancare, siccome non è possibile tirarsi dietro cinquecento acri di praterie, il tiro sì arresta, si stanca, cade, muore di fame, la casa viaggiante non si muove più, e rimane immobile come il bungalow nel quale discutiamo in questo momento. Ne consegue dunque che questa casa sarà pratica solo il giorno in cui diventerà una casa a vapore. — Che correrà su delle rotaie! — esclamò il capitano alzando le spalle. — No, su delle strade, — rispose l'ingegnere, — e trascinata da qualche locomotiva stradale perfezionata. — Bravo! — esclamò il capitano, — bravo! Dal momento che la vostra casa non correrà più su delle rotaie e che si potrà dirigerla a piacere, senza seguire la vostra imperiosa linea di ferro, ci sto. — Ma, — feci osservare a Banks, — se muli, asini, cavalli, buoi ed elefanti mangiano, anche una macchina mangia, e, se mancherà il combustibile, si fermerà per strada. — Un cavallo-vapore — rispose Banks, — eguaglia in forza tre o quattro cavalli naturali, e questa forza può essere aumentata ancora. Un cavallo-vapore non va soggetto né alla stanchezza né alla malattia. Con qualunque tempo, sotto tutte le latitudini, sotto il sole, la pioggia, la neve, cammina sempre, senza stancarsi mai. Non deve nemmeno temere gli assalti delle fiere né il morso dei serpenti né la puntura dei tafani e d'altri temibili insetti. Non ha bisogno del pungolo né della frusta del conduttore. Il riposo gli è inutile, non ha mai sonno. Il cavallo-vapore, uscito dalla mano dell'uomo, è, dato il suo scopo, e purché non ci si aspetti da lui che possa un giorno essere cotto allo spiedo, superiore a tutti gli animali da tiro che la Provvidenza ha messo a disposizione dell'uomo. Un po' d'olio o di grasso, un po' di carbone o di legna, ecco quanto esso consuma. Ora, lo sapete, amici miei, non sono le foreste che mancano nella penisola indiana, e la legna vi appartiene a tutti. — Ben detto! — esclamò il capitano Hod. — Evviva il cavallovapore! Vedo già la casa viaggiante dell'ingegner Banks, trascinata sulle strade principali dell'India, che penetra attraverso le jungle, si caccia sotto le foreste, si arrischia fino nei covi dei leoni, delle tigri, degli orsi, delle pantere, dei leopardi, e noi che, al riparo delle sue mura, facciamo ecatombi di belve da far rabbia a tutti i Nemrod, Anderson, Gerard, Pertuiset, Chassaing del mondo! Ah! Banks, mi viene l'acquolina in bocca, e voi mi fate rimpiangere parecchio di non poter nascere fra una cinquantina d'anni! — E perché mai, capitano? — Perché fra cinquantanni, il vostro sogno sarà realizzato, e la carrozza a vapore si farà. — È fatta, — rispose semplicemente l'ingegnere. — Fatta! e fatta da voi, forse?... — Da me, e, a dir la verità, dovrei temere una sola cosa per lei, cioè che non debba superare il vostro sogno... — In viaggio, Banks, in viaggio! — esclamò il capitano Hod, che si alzò come sotto l'effetto di una scarica elettrica. Egli era pronto a partire. L'ingegnere lo calmò con un cenno; poi, con voce più grave, rivolgendosi a sir Edward Munro: — Edward, — gli disse, — se metto a tua disposizione una casa viaggiante, se, fra un mese, quando la stagione sarà adatta, verrò a dirti: «Ecco la tua camera che si muoverà e andrà dove tu vorrai andare, ecco i tuoi amici, Maucler, il capitano Hod e io, che non domandiamo altro che di accompagnarti in un'escursione nel nord dell'India», mi risponderai: «Partiamo, Banks, partiamo, e il Dio dei viaggiatori ci protegga»? — Sì, amici, — rispose il colonnello Munro, dopo aver riflettuto un istante. — Banks, metto a tua disposizione tutto il denaro necessario. Mantieni la tua promessa! Procuraci quest'ideale di casa a vapore che supererebbe i sogni di Hod, e noi attraverseremo l'intera India! — Hurrah! hurrah! hurrah! — esclamò il capitano Hod, — e guai alle belve delle frontiere del Nepal! In quel momento, il sergente Mac Neil, attirato dagli hurrah del capitano, apparve sulla soglia della casa. — Mac Neil, — gli disse il colonnello Munro, — fra un mese si parte per il nord dell'India. Sarai dei nostri? — Necessariamente, colonnello, poiché ci andate voi! — rispose il sergente Mac Neil. CAPITOLO III LA RIVOLTA DEI CIPAY POCHE parole faranno conoscere che cosa era l'India al tempo in cui comincia questo racconto, e più particolarmente che cosa fu quella terribile insurrezione dei Cipay, di cui bisogna narrare qui i fatti principali. Fu nel 1600, sotto il regno di Elisabetta, in piena razza del sole, in quella Terra Santa dell'Aryavarta, in mezzo a una popolazione di duecento milioni d'abitanti, centododici milioni dei quali appartenevano alla religione indù, che venne fondata l'onorevolissima Compagnia delle Indie, nota sotto il nomignolo inglese di «Old John Company». Inizialmente, era una semplice «associazione di mercanti, che facevano il traffico con le Indie orientali», alla testa della quale fu posto il duca di Cumberland. Già verso quel tempo la potenza portoghese, dopo essere stata grande nelle Indie, cominciava a declinare. Perciò gli inglesi, approfittando di questo stato di cose, fecero un primo tentativo di amministrazione politica e militare in quella presidenza del Bengala, la cui capitale, Calcutta, sarebbe diventata il centro del nuovo governo. Prima di tutto venne ad occupare la provincia il 39° reggimento dell'esercito reale, mandato dall'Inghilterra. Da ciò deriva il motto che esso porta ancora sulla bandiera: Primus in Indiis. Frattanto, pressappoco nel medesimo periodo, si era fondata, sotto il patronato di Colbert, una compagnia francese. Essa aveva lo stesso scopo della compagnia dei mercanti di Londra. Da questa rivalità dovevano nascere conflitti d'interesse. Ne seguirono lunghe lotte con successi e insuccessi, che diedero lustro ai Dupleix, ai Labourdonnais, ai Lally-Tollendal. 6 Alla fine, i francesi, schiacciati dal numero, dovettero abbandonare il Carnatic, quella parte della penisola che comprende un tratto della sua costa orientale. Lord Clive, liberatosi dai concorrenti, non temendo più nulla né dal Portogallo né dalla Francia, si occupò allora di assicurare la conquista del Bengala, di cui lord Hastings venne nominato governatore generale. Riforme furono introdotte da un'amministrazione abile e perseverante. Ma, da quel giorno, la Compagnia delle Indie, così potente, anzi così assorbente, venne colpita direttamente nei suoi interessi più vivi. Alcuni anni più tardi, nel 1784, Pitt introdusse ancora delle modifiche alla sua primitiva costituzione. Il suo scettro dovette passare nelle mani dei consiglieri della Corona. Risultato di quel nuovo ordine di cose: nel 1813, la Compagnia avrebbe perduto il monopolio del commercio delle Indie, e, nel 1833, il monopolio del commercio della Cina. Tuttavia, se l'Inghilterra non doveva più combattere contro le associazioni straniere nella penisola, dovette sostenere difficili guerre, sia con gli antichi padroni del suolo sia con gli ultimi conquistatori asiatici di quel ricco dominio. Sotto lord Cornwallis, nel 1784, vi fu la lotta contro Tippo Sahib, ucciso il 4 maggio 1799, nell'ultimo attacco sferrato dal generale Harris contro Seringapatam. Vi fu la guerra contro i Maharatti, popolo di grande schiatta, potentissimo nel secolo XVIII, e la guerra contro i Pindarri, che resistettero tanto coraggiosamente. Vi fu poi la guerra contro i Gurgkha del Nepal, quegli arditi montanari che, nella durissima prova del 1857, dovevano rimanere fedeli alleati degli inglesi. Infine vi fu la guerra contro i Birmani, dal 1823 al 1824. 6 Joseph Francois Dupleix (1697-1763), governatore generale delle Indie Orientali francesi, conquistò Madras e l'Haiderabad; Bertrand Francois de La Bourdonnais (1699-1755), ufficiale di marina, contribuì validamente alla conquista di Madras; Thomas Arthur Lally de Tollendal, generale francese, ultimo governatore delle Indie francesi. (N.d.T.) Nel 1828, gli inglesi erano padroni, direttamente o indirettamente, di una gran parte del territorio. Con lord William Bentinck cominciò una nuova fase amministrativa. Dopo il riordinamento delle forze militari nell'India, l'esercito aveva contato sempre due contingenti ben distinti: il contingente europeo e il contingente nativo o indigeno. Il primo costituiva l'esercito reale, composto di reggimenti di cavalleria, di battaglioni di fanteria e di battaglioni di fanteria europea al servizio della Compagnia delle Indie; il secondo costituiva l'esercito indigeno, il quale comprendeva battaglioni di fanteria e battaglioni di cavalleria regolari, ma indigeni, comandati da ufficiali inglesi. A questo bisognava aggiungere l'artiglieria, il cui personale, appartenente alla Compagnia, salvo poche batterie, era europeo. Quali erano gli effettivi di questi reggimenti o battaglioni, come sono chiamati indifferentemente nell'esercito reale? Per la fanteria millecento uomini per battaglione nell'esercito del Bengala, e otto o novecento negli eserciti di Bombay e di Madras; per la cavalleria seicento sciabole in ogni reggimento dei due eserciti. Insomma, nel 1857, come stabilisce con gran precisione il signor Valbezen nella sua pregevolissima opera Nuovi studi sugli inglesi e sull'India, «la forza totale delle tre presidenze poteva essere valutata a duecentomila soldati indigeni e a quarantacinquemila soldati europei». Ora, i Cipay, pur formando un corpo regolare comandato da ufficiali inglesi, sentivano una certa velleità di scuotere l'aspro giogo della disciplina europea, che era loro imposto dai conquistatori. Già nel 1806, forse anche sotto l'istigazione del figlio di Tippo Sahib, la guarnigione dell'esercito indigeno di Madras, acquartierata a Vellore, aveva massacrato la granguardia 7 del 69° reggimento dell'esercito reale, incendiato le caserme, sgozzato gli ufficiali e le loro famiglie, fucilato persino i soldati malati nell'ospedale. Qual era stata la causa di quella ribellione, la causa apparente, per lo meno? Una pretesa questione di baffi, di pettinatura e di orecchini. In fondo era l'odio dei vinti contro gli invasori. 7 Posto della guardia principale in una fortezza, città o accampamento: dà il cambio ai piccoli posti. (N.d.T.) Quella prima ribellione fu prontamente soffocata dalle forze reali acquartierate ad Ascot. Una ragione analoga (anch'essa un pretesto) doveva pure provocare il primo moto insurrezionale del 1857, moto ben altrimenti temibile, che avrebbe forse distrutto la potenza inglese in India, se vi avessero preso parte le truppe indigene delle presidenze di Madras e di Bombay. Prima di tutto, però, bisogna mettere bene in chiaro che quella rivolta non fu nazionale. È certo che gli indù delle campagne e delle città non vi presero assolutamente parte. Per di più essa restò limitata agli Stati semi-indipendenti dell'India centrale, alle province del nord-ovest e al regno di Oudh. Il Pendjab rimase fedele agli inglesi, con il suo reggimento di tre squadroni del Caucaso indiano. Rimasero fedeli anche i Sikh, operai di casta inferiore, che si distinsero particolarmente nell'assedio di Delhi: fedeli i Gurgkha, condotti in dodicimila all'assedio di Lucknow dal rajah del Nepal; fedeli infine i maharajah di Gwalior e di Pattyalah, il rajah di Rampore, la rhani di Bhopal, fedeli alle leggi dell'onore militare, e, per usare l'espressione dei nativi dell'India, «fedeli al sale»8 Al principio dell'insurrezione, lord Canning era a capo dell'amministrazione come governatore generale. Forse quello statista si illuse circa l'importanza del movimento. Già da alcuni anni, la stella del Regno Unito era visibilmente impallidita nel cielo indiano. Nel 1842, la ritirata di Cabul aveva sminuito il prestigio dei conquistatori europei. E più di una volta, durante la guerra di Crimea, il comportamento dell'esercito inglese non era stato all'altezza della sua reputazione militare. Così venne il momento in cui i Cipay, i quali sapevano benissimo ciò che accadeva sulle rive del Mar Nero, pensarono che una rivolta delle truppe indigene avrebbe potuto avere successo. Del resto, mancava solo una scintilla per infiammare degli animi già ben preparati, che i bardi, i bramini, i mulvis, eccitavano con le loro prediche e con i loro canti. L'occasione si presentò nell'anno 1857, durante il quale, per necessità dipendenti dalle 8 Si allude qui ad una famosa usanza indiana (e peraltro comune a molti popoli dell'antichità): due persone (o due popoli) che avessero mangiato insieme il sale sarebbero rimasti amici e alleati per sempre. (N.d.T.) complicazioni esterne, si era dovuto ridurre di un poco il contingente dell'esercito reale. All'inizio di quell'anno, Nana Sahib, altrimenti detto il nababbo Dandu-Pant, che risiedeva vicino a Cawnpore, si era recato a Delhi, poi a Lucknow, allo scopo, senza dubbio, di provocare il sollevamento preparato da un pezzo. Infatti, il movimento insurrezionale scoppiava poco tempo dopo la partenza del Nana. Il governo inglese aveva allora introdotto nell'esercito indigeno l'adozione della carabina Enfield, che rende necessario l'uso di cartucce ingrassate. Un giorno, si diffuse la voce che quel grasso era di vacca o di porco, a seconda che le cartucce erano destinate ai soldati indù o musulmani dell'esercito indigeno. Ora, in un paese in cui le popolazioni rinunciano a servirsi perfino del sapone, perché a far parte della sua composizione può entrare il grasso d'un animale sacro o vile, l'uso di cartucce coperte di questa sostanza - cartucce che bisognava lacerare con i denti - poteva essere difficilmente accettato. Il governo cedette in parte davanti ai reclami che gli furono fatti; ma ebbe un bel modificare la manovra della carabina, assicurare che i grassi in questione non servivano alla fabbricazione delle cartucce, non rassicurò e non persuase nessuno dell'esercito dei Cipay. Il 24 febbraio, a Berampore, il 34° reggimento rifiuta le cartucce. A metà del mese di marzo, un maresciallo viene massacrato, e il reggimento, sciolto dopo l'esecuzione degli assassini, porterà nelle province vicine più attivi fermenti di ribellione. Il 10 maggio, a Mirat, un po' a nord di Delhi, il 3°, l'11° e il 20° reggimento si ribellano, uccidono i loro colonnelli e molti ufficiali di stato maggiore, saccheggiano la città, poi ripiegano su Delhi. Là, il rajah, un discendente di Timur, si unisce a loro. L'arsenale cade in loro potere, e gli ufficiali del 54° reggimento sono sgozzati. L'11 maggio, a Delhi, il maggiore Fraser e i suoi ufficiali vengono spietatamente trucidati dai ribelli di Mirat fin dentro il palazzo del comandante europeo e, il 16 maggio, quarantanove prigionieri, uomini, donne, fanciulli, cadono sotto la scure degli assassini. Il 20 maggio, il 26° reggimento, accampato presso Lahore, uccide il comandante del porto e il sergente maggiore europeo. Il via a queste spaventose carneficine era dato. Il 28 maggio, a Nurabad, nuove vittime fra gli ufficiali angloindiani. Il 30 maggio, negli accampamenti di Lucknow, vengono massacrati il generale comandante la piazza, il suo aiutante di campo e molti altri ufficiali. Il 31 maggio, a Bareilli, nel Rohilkhand, alcuni ufficiali vengono sorpresi e assassinati mentre non possono nemmeno difendersi. Nello stesso giorno, a Schajahanpore, assassinio, da parte dei Cipay del 38° reggimento, del ricevitore delle imposte e di un certo numero di ufficiali, mentre il giorno dopo, al di là di Barwar, vengono sgozzati alcuni ufficiali, donne e fanciulli che si erano messi in cammino per recarsi alla stazione di Sivapore, a un miglio da Aurangabad. Nei primi giorni di giugno, a Bhopal, massacro di una parte della popolazione europea, e a Jansi, dietro istigazione della terribile rhani spodestata, carneficina, con crudeltà di una raffinatezza senza pari, delle donne e dei fanciulli rifugiati nel forte. Il 6 giugno, ad Allahabad, otto giovani alfieri cadono sotto i colpi dei Cipay. Il 14 giugno, a Gwalior, rivolta di due reggimenti indigeni e assassinio degli ufficiali. Il 27 giugno, a Cawnpore, prima ecatombe di vittime d'ogni età e sesso, fucilate o annegate, preludio dello spaventoso dramma che doveva compiersi poche settimane più tardi. A Holkar, il 1° luglio, massacro di trentaquattro europei, ufficiali, donne, fanciulli, saccheggio o incendio; a Ugow, nello stesso giorno, assassinio del colonnello e del maresciallo del 23° reggimento dell'esercito reale. Il 15 luglio, secondo eccidio a Cawnpore. Quel giorno, molte centinaia di fanciulli e di donne, e fra queste lady Munro, vengono sgozzate con una crudeltà senza pari per ordine del Nana in persona, il quale chiamò in aiuto i beccai musulmani dei macelli. Orribile carneficina, dopo la quale i corpi vennero gettati in un pozzo, rimasto leggendario. Il 26 settembre, su una piazza di Lucknow, che ora si chiama la «Piazza delle Lettighe», molti feriti vengono fatti a pezzi a sciabolate e gettati, ancora vivi, nelle fiamme. E poi, molte altre uccisioni isolate, nelle città e nelle campagne, che diedero a quella rivolta un orribile carattere d'atrocità! A quelle carneficine, del resto, i generali inglesi risposero subito con rappresaglie, - necessarie senza dubbio, poiché finirono con l'ispirare il terrore del nome inglese fra i ribelli — che tuttavia furono veramente spaventose! All'inizio dell'insurrezione, a Lahore, il ministro della Giustizia Montgomery e il generale Corbett avevano potuto disarmare, senza versare sangue, protetti da dodici cannoni con la miccia accesa, i reggimenti 8°, 16°, 26° e 49° dell'esercito indigeno. A Moultan, i reggimenti indigeni 62° e 29° avevano dovuto anch'essi rendere le armi, senza poter tentare una seria resistenza. Anche a Peschawar, i reggimenti 24°, 27° e 51° furono disarmati dal generale S. Colton e dal colonnello Nicholson nel momento in cui la rivolta stava per scoppiare. Ma poiché alcuni ufficiali del 51° reggimento erano fuggiti sulle montagne, sulle loro teste venne posta una taglia e, in breve, furono riportate tutte dai montanari. Era l'inizio delle rappresaglie. Una colonna, comandata dal colonnello Nicholson, fu lanciata allora contro un reggimento indigeno, che marciava verso Delhi. I ribelli non tardarono ad essere raggiunti, battuti, dispersi, e centoventi prigionieri rientrarono a Peschawar. Tutti indistintamente furono condannati a morte; ma uno solo su tre doveva essere giustiziato. Dieci cannoni furono allineati sul campo di manovre, a ciascuna delle loro bocche venne legato un prigioniero e cinque volte i dieci cannoni fecero fuoco, coprendo la pianura di avanzi informi, in mezzo a un'atmosfera appestata dalla carne bruciata. Questi giustiziati, secondo il signor di Valbezen, morirono quasi tutti con quell'eroica indifferenza che gli indiani sanno conservare così bene di fronte alla morte. — Signor capitano, — disse a uno degli ufficiali che presiedevano all'esecuzione un bel Cipay ventenne accarezzando indifferentemente con la mano lo strumento di morte, — signor capitano, non c'è bisogno che mi leghino, non ho intenzione di fuggire. Quella fu la prima e orribile esecuzione, che doveva essere seguita da tante altre. Ecco, del resto, l'ordine del giorno che a quella stessa data, a Lahore, il generale di brigata Chamberlain portava a conoscenza delle truppe indigene, dopo l'esecuzione di due Cipay del 55° reggimento: «Avete appena visto legare vivi alla bocca dei cannoni e fare a pezzi due dei vostri compagni; questo sarà il castigo di tutti i traditori. La vostra coscienza vi dirà quali pene subiranno nell'altro mondo. I due soldati sono stati uccisi con il cannone e non con la forca, perché ho desiderato risparmiare loro la vergogna del contatto del carnefice e provare così che il governo, anche in questi giorni di crisi, non vuol far nulla che possa ferire minimamente i vostri pregiudizi di religione e di casta». Il 30 luglio, milleduecentotrentasette prigionieri cadevano successivamente davanti al plotone d'esecuzione, e altri cinquanta sfuggivano all'estremo supplizio solo per morire di fame e di soffocamento nella prigione in cui erano stati rinchiusi. Il 28 agosto, di ottocentosettanta Cipay che fuggivano da Lahore, seicentocinquantanove venivano spietatamente trucidati dai soldati dell'esercito reale. Il 23 settembre, dopo la presa di Delhi, tre principi della famiglia reale, l'erede presunto e i suoi due cugini, si arrendevano senza condizioni al generale Hodson, che li condusse con una scorta di cinque uomini soltanto, in mezzo a una folla minacciosa di cinquemila indù, uno contro mille. Eppure, a mezza strada, Hodson fece fermare il carro che portava i prigionieri, salì accanto a loro, ordinò loro di scoprirsi il petto, e li uccise tutti e tre a colpi di rivoltella. «Questa sanguinosa esecuzione, per mano di un ufficiale inglese», dice il signor di Valbezen, «doveva suscitare nel Pendjab la più alta ammirazione». Dopo la caduta di Delhi, tremila prigionieri, fra i quali ventinove membri della famiglia reale, morirono o sulla forca o uccisi a cannonate. L'assedio di Delhi, per la verità, era costato agli assedianti duemilacentocinquantuno europei e milleseicentottantasei indigeni. Ad Allahabad, si fecero orribili carneficine umane, non più tra i Cipay, ma tra la popolazione più misera che alcuni fanatici avevano trascinata quasi inconsciamente al saccheggio. A Lucknow, il 16 novembre, duemila Cipay fucilati al Sikander Bagh coprivano con i loro cadaveri uno spazio di centoventi metri quadrati. A Cawnpore, dopo la carneficina, il colonnello Neil obbligava i condannati, prima di consegnarli alla forca, a leccare e a pulire con la lingua, proporzionalmente alla loro casta, ogni macchia di sangue rimasta nella casa in cui erano perite le vittime. Per quegli indù era un far precedere il disonore alla morte. Durante la spedizione nell'India centrale, le esecuzioni dei prigionieri furono incessanti, e, sotto i colpi di fucile, «mura di carne umana crollavano a terra»! Il 9 marzo 1858, nell'assalto della Casa Gialla, durante il secondo assedio di Lucknow, dopo una spaventosa decimazione di Cipay, sembra ormai certo che uno di quei disgraziati fu arrostito vivo dai Sikh addirittura sotto gli occhi degli ufficiali inglesi. Il giorno 11, a Lucknow, cinquanta corpi di Cipay giacevano nei fossati del palazzo della begum, senza che un solo ferito venisse risparmiato dai soldati frenetici. Infine, in dodici giorni di combattimenti, tremila indigeni morivano impiccati o fucilati, e fra questi trecentottanta fuggitivi ammucchiati sulla isola di Hidaspe, i quali avevano cercato di salvarsi fino al Cashmir. Insomma, senza tener conto del numero dei Cipay uccisi con le armi alla mano durante quella spietata repressione, - repressione che non ammetteva prigionieri, - soltanto nella campagna del Pendjab, si contano non meno di seicentoventotto indigeni fucilati o attaccati alle bocche dei cannoni per ordine dell'autorità militare, milletrecentosettanta per ordine dell'autorità civile, trecentottantasei impiccati per ordine delle due autorità. In totale, all'inizio del 1859 si valutava a più di centoventimila il numero degli ufficiali e dei soldati indigeni uccisi, e a più di duecentomila quello dei civili indigeni che pagarono con la vita la loro partecipazione, spesso dubbia, all'insurrezione. Terribili rappresaglie, contro le quali, forse non senza ragione, Gladstone protestò con energia al parlamento inglese. Per la narrazione che seguirà, era importante fare, da una parte e dall'altra, il bilancio di questa necrologia. Era necessario per far comprendere al lettore quale odio insaziato doveva rimanere tanto nel cuore dei vinti, assetati di vendetta, quanto in quello dei vincitori, che, dieci anni dopo, portavano ancora il lutto delle vittime di Cawnpore e di Lucknow. Quanto ai fatti puramente militari di tutta la campagna intrapresa contro i ribelli, essi comprendono le spedizioni seguenti, che citeremo sommariamente. Per prima viene la prima campagna del Pendjab, che costò la vita a sir John Laurence. Poi segue l'assedio di Delhi, capitale dell'insurrezione, rafforzata da migliaia di fuggitivi, e nella quale Mohammed Schah Bahadur fu proclamato imperatore dell'Indostan. — Fatela finita con Delhi — aveva imperiosamente ordinato il governatore generale in un ultimo dispaccio al comandante in capo, e l'assedio, cominciato la notte del 13 giugno, terminava il 19 settembre, dopo essere costato la vita ai generali sir Harry Barnard e John Nicholson. Contemporaneamente, dopo che Nana Sahib si fu fatto dichiarare Peischwah e incoronare nella fortezza di Bilhur, il generale Havelock marciava su Cawnpore. Vi entrava il 17 luglio, ma troppo tardi per impedire l'ultima carneficina e impadronirsi del Nana, che poté fuggire con cinquemila uomini e quaranta cannoni. Dopo ciò, Havelock intraprendeva una prima campagna nel regno di Oudh, e il 28 luglio passava il Gange con millesettecento uomini e dieci cannoni soltanto, dirigendosi verso Lucknow. Sir Colin Campbell e il maggiore generale sir James Outram entravano allora in scena. L'assedio di Lucknow doveva durare ottantasette giorni, e costare la vita a sir Henry Lawrence e al generale Havelock. Quindi Colin Campbell, dopo essere stato costretto a ritirarsi su Cawnpore, di cui s'impadroniva definitivamente, si preparava a una seconda campagna. In quello stesso periodo, altre truppe liberavano Mohir, una delle città dell'India centrale, e compivano una spedizione attraverso il Malwa, che ristabiliva l'autorità inglese in quel regno. All'inizio dell'anno 1858, Campbell e Outram ricominciavano una seconda campagna nell'Oudh, con quattro divisioni di fanteria, comandate dai maggiori generali sir James Outram, sir Edward Lugar e dai generali di brigata Walpole e Franks. La cavalleria era sotto il comando di sir Hope Grant, i corpi speciali sotto quello di Wilson e di Robert Napier, in tutto circa venticinquemila combattenti, che il maharajah del Nepal doveva raggiungere con dodicimila Gurgkha. Ma l'esercito ribelle della begum non contava meno di centoventimila uomini, e la città di Lucknow sette o ottocentomila abitanti. Il primo attacco venne dato il 6 marzo. Il 16, dopo una serie di combattimenti nei quali caddero il capitano di vascello sir William Peel e il maggiore Hodson, gli inglesi erano in possesso della parte della città posta sul Gumti. Nonostante questi vantaggi, la begum e suo figlio resistevano ancora nel palazzo di Musa-Bagh, all'estremità nord-ovest di Lucknow, e il Mulvi, capo musulmano della rivolta, rifugiato nel centro stesso della città, rifiutava di arrendersi. Il 19, un attacco di Outram e il 21 un combattimento fortunato confermavano finalmente agli inglesi il pieno possesso di quel temibile baluardo dell'insurrezione dei Cipay. Nel mese di aprile, la ribellione entrava nella sua fase finale. Veniva fatta una spedizione nel Rohilkhand, dove gli insorti fuggitivi si erano recati in gran numero. Bareilli, capitale del regno, fu il primo obiettivo dei capi dell'esercito reale. Gli inizi non furono felici. Gli inglesi subirono una specie di disfatta a Judgespore; il generale di brigata Adrien Hope fu ucciso. Ma verso la fine del mese giungeva Campbell e, ripresa Schajahanpore, il 5 maggio attaccava Bareilli, copriva di fuoco la città e se ne impadroniva, senza aver potuto impedire ai ribelli di evacuarla. Frattanto, nell'India centrale cominciavano le campagne di sir Hugh Rose. Questo generale, agli inizi del gennaio 1858, marciava su Saungor, attraverso il regno di Bhopal, ne liberava la guarnigione il 3 febbraio, dieci giorni dopo espugnava il forte di Gurakota, forzava le gole della catena dei Vindhya al colle di Mandanpore, passava il Betwa, giungeva davanti a Jansi, difesa da undicimila ribelli, agli ordini della truce rhani, la assaliva il 22 marzo, con un caldo torrido, staccava duemila uomini dall'esercito assediante per sbarrare la strada a ventimila uomini del contingente di Gwalior, condotti dal famigerato Tantia-Topi, respingeva questo capo ribelle, attaccava la città il 2 aprile, forzava le mura, si impadroniva della cittadella, da cui la rhani riusciva a fuggire, riprendeva le operazioni contro il forte di Calpi, dove la rhani e Tantia-Topi avevano deciso di morire, e se ne impadroniva il 22 maggio, dopo un eroico assalto, continuava l'impresa inseguendo la rhani e il suo compagno, che si erano rifugiati a Gwalior, vi concentrava il 16 giugno le sue due brigate che venivano raggiunte da un rinforzo del generale Napier, schiacciava i ribelli a Morar, conquistava la piazza il 18, e ritornava a Bombay, dopo una campagna trionfale. Fu precisamente in uno scontro d'avamposti davanti a Gwalior, che morì la rhani. Questa terribile regina, devota anima e corpo al nababbo, la sua più fedele compagna durante l'insurrezione, fu uccisa dalla mano dello stesso sir Edward Munro. Nana Sahib sul cadavere di lady Munro, a Cawnpore, il colonnello sul cadavere della rhani, a Gwalior, erano due uomini, nei quali si compendiavano la rivolta e la repressione, due nemici, l'odio dei quali avrebbe avuto effetti terribili, se si fossero ritrovati faccia a faccia! Da quel momento si può considerare la rivolta come domata, tranne forse in qualche parte del regno di Oudh. Campbell ritorna dunque in campagna il 2 novembre, si impadronisce delle ultime posizioni dei ribelli e obbliga alcuni capi importanti a sottomettersi. Tuttavia uno di loro, Beni Madho, non viene preso. Si viene a sapere in dicembre che si è rifugiato in un distretto limitrofo del Nepal. Si dà per sicuro che Nana Sahib, Balao Rao, suo fratello, e la begum di Oudh sono con lui. Più tardi, durante gli ultimi giorni dell'anno, corre voce che sono andati a cercare asilo sul Rapti, ai limiti dei regni del Nepal e dell'Oudh. Campbell li serra da vicino, ma essi passano la frontiera. Fu soltanto nei primi giorni del febbraio 1859 che una brigata inglese, uno dei reggimenti della quale era sotto il comando del colonnello Munro, poté inseguirli fino nel Nepal. Beni Madho venne ucciso, la begum di Oudh e suo figlio furono fatti prigionieri, e ottennero il permesso di risiedere nella capitale del Nepal. Quanto a Nana Sahib e a Balao Rao, per un pezzo furono creduti morti. Non lo erano. Ad ogni modo, la formidabile insurrezione era distrutta. TantiaTopi, consegnato dal suo luogotenente Man Singh e condannato a morte, veniva giustiziato, il 15 aprile, a Sipri. Questo ribelle «figura veramente notevole del gran dramma dell'insurrezione indiana», dice il signor di Valbezen, «e che diede prova d'un genio politico pieno di combinazioni e d'audacia», morì coraggiosamente sul patibolo. Tuttavia, la fine di quella rivolta dei Cipay, che sarebbe forse costata l'India agli inglesi, se si fosse estesa a tutta la penisola, e soprattutto se la ribellione fosse stata nazionale, doveva provocare la caduta dell'onorevole Compagnia delle Indie. Infatti, la Corte dei Direttori era stata minacciata di decadenza da lord Palmerston fin dalla fine dell'anno 1857. Il primo novembre 1858, un proclama, pubblicato in venti lingue, annunciava che S. M. Vittoria Beatrice, regina d'Inghilterra, prendeva lo scettro dell'India, di cui, alcuni anni più tardi, doveva essere incoronata imperatrice. Ciò fu opera di lord Stanley. Il titolo di governatore, sostituito da quello di viceré, un segretario di Stato e quindici membri componenti il governo centrale, i membri del Consiglio dell'India presi fuori del servizio indiano, i governatori delle presidenze di Madras e di Bombay nominati dalla regina, i membri del servizio indiano e i comandanti supremi scelti dal segretario di Stato, ecco le principali disposizioni del nuovo governo. Quanto alle forze militari, l'esercito reale conta oggi diciassettemila uomini di più che non al tempo della rivolta dei Cipay, ossia cinquantadue reggimenti di fanteria, nove reggimenti di fucilieri e un'artiglieria considerevole, con cinquecento sciabole per reggimento di cavalleria e settecento baionette per reggimento di fanteria. L'esercito indigeno si compone di centotrentasette reggimenti di fanteria e quaranta di cavalleria; ma la sua artiglieria è, quasi senza eccezione, europea. Questo è lo stato attuale della penisola dal punto di vista amministrativo e militare, questi sono gli effettivi delle forze che custodiscono un territorio di quattrocentomila miglia quadrate. «Gli inglesi», dice giustamente il signor Grandidier, «sono stati fortunati a trovare in questo grande e magnifico paese un popolo mite, industrioso, incivilito e avvezzo da un pezzo a tutti i gioghi. Ma badino bene che la dolcezza ha i suoi limiti; facciano che il giogo non sia troppo pesante, altrimenti le teste un giorno si rialzeranno e lo spezzeranno». CAPITOLO IV NELLE GROTTE DI ELLORA ERA FIN troppo vero. Il principe maharatto Dandu-Pant, il figlio adottivo di Baji-Rao, Peischwah di Punah, in una parola, Nana Sahib, forse a quel tempo l'unico superstite dei capi della rivolta dei Cipay, aveva potuto lasciare il suo inaccessibile rifugio del Nepal. Coraggioso, audace, avvezzo ad affrontare i pericoli immediati, abile nello sviare gli inseguimenti, esperto nell'arte di confondere le sue tracce, profondamente astuto, egli si era avventurato fino nelle province del Deccan, sotto l'ispirazione sempre viva di un odio che le terribili rappresaglie dell'insurrezione del 1857 non avevano fatto che decuplicare. Sì! era un odio mortale quello che il Nana aveva votato ai conquistatori dell'India. Egli era l'erede di Baji-Rao, e quando il Peischwah morì nel 1851, la Compagnia rifiutò di continuare a versargli la pensione di otto lakhs di rupie, 9 alla quale egli aveva diritto. Questa era una delle cause di quell'odio che doveva portare ai maggiori eccessi. Ma che cosa sperava dunque Nana Sahib? Da otto anni la rivolta dei Cipay era interamente domata. Il governo inglese si era a poco a poco sostituito all'onorevole Compagnia delle Indie, e teneva l'intera penisola sotto una autorità ben altrimenti forte di quella dell'Associazione dei mercanti. Della rivolta non rimanevano tracce, nemmeno nelle file dell'esercito indigeno, interamente riordinato su nuove basi. Il Nana pretendeva forse di riuscire a fomentare un movimento nazionale fra le basse classi dell'Indostan? Sapremo fra poco i suoi piani. In ogni caso, egli non ignorava più che la sua presenza era stata segnalata nella provincia di Aurangabad, che il 9 Due milioni di franchi. (N.d.A.) governatore generale ne aveva avvertito il viceré, a Calcutta, e che sulla sua testa era stata messa una taglia. Certo è che egli aveva dovuto fuggire precipitosamente, e che doveva rifugiarsi ancora in un asilo ben nascosto per sfuggire alle ricerche degli agenti della polizia anglo-indiana. Il Nana, in quella notte dal 6 al 7 marzo, non perse un'ora. Conosceva perfettamente il paese. Decise di recarsi a Ellora, posta a venticinque miglia da Aurangabad, per raggiungervi uno dei suoi complici. La notte era buia. Il falso fachiro, dopo essersi assicurato che nessuno lo inseguiva, si diresse verso il mausoleo, eretto a poca distanza dalla città, in onore del maomettano Sha-Sufi, un santo le cui reliquie hanno fama di operare guarigioni. Ma tutti dormivano in quel momento nel mausoleo, preti e pellegrini, e il Nana poté passare senza essere disturbato da domande indiscrete. Tuttavia, l'oscurità non era tanto fitta che, quattro leghe più a nord, il blocco di granito su cui sorge il forte imprendibile di Daoulutabad e che si erge in mezzo a una pianura fino a un'altezza di duecentoquaranta piedi, potesse nascondere allo sguardo il suo enorme profilo. Il nababbo, scorgendolo, si ricordò che uno degli imperatori del Deccan, uno dei suoi avi, aveva voluto fare la propria capitale della grande città che un tempo sorgeva ai piedi di quel forte. E in verità, quella sarebbe stata una posizione inespugnabile, fatta veramente per diventare il centro d'un movimento insurrezionale in quella parte dell'India. Ma Nana Sahib volse il capo, e non ebbe che uno sguardo d'odio per quella fortezza ormai nelle mani dei suoi nemici. Passata quella pianura, apparve una regione più accidentata. Erano le prime ondulazioni di un suolo che stava per farsi montagnoso. Il Nana, ancora in tutta la forza dell'età, non rallentò il passo, affrontando pendii già ripidi. In quella notte egli voleva percorrere venticinque miglia, voleva, cioè, superare la distanza che separa Ellora da Aurangabad. Là, egli sperava di poter riposare in piena sicurezza. Perciò non volle fermarsi né in un caravanserraglio, aperto al primo arrivato, che trovò sulla sua strada, né in un bungalow semi- rovinato, dove avrebbe potuto dormire un'ora o due, nel cuore della parte arretrata della montagna. Allo spuntar del sole, il villaggio di Rauzah, che custodisce la tomba semplicissima del più grande degli imperatori mongoli, Aurangzeb, fu aggirato dal fuggitivo. Era finalmente giunto a quel famoso gruppo di grotte scavate che hanno preso il nome di Ellora dal piccolo villaggio vicino. La collina nella quale sono state aperte quelle grotte, circa una trentina, ha la forma di una mezza luna. Quattro templi, ventiquattro monasteri buddistici, alcune grotte meno importanti, eccone i monumenti. La cava di basalto è stata largamente sfruttata dalla mano dell'uomo. Ma le pietre ne sono state estratte non per costruire i capolavori sparsi qua e là sull'immensa superficie della penisola dagli architetti indiani, nei primi secoli dell'era cristiana. No! Le pietre sono state tolte semplicemente per aprire nella massa compatta quei vani che sono diventati dei chaitya o dei vihara, secondo la loro destinazione. Il più straordinario fra questi templi è quello dei Kaila. Immaginatevi un masso alto centoventi piedi, con seicento piedi di circonferenza. Questo masso, con incredibile audacia, venne tagliato nella montagna stessa, isolato in mezzo a un gran cortile lungo trecentosessanta piedi e largo centottantasei, cortile conquistato dal piccone a spese della cava di basalto. Quel blocco così isolato venne poi scolpito dagli architetti come uno scultore avrebbe fatto d'un pezzo d'avorio. All'esterno, essi hanno fatto delle colonne, foggiato delle piccole piramidi, arrotondato delle cupole, risparmiando la roccia necessaria per ottenere il risalto dei bassorilievi, nei quali certi elefanti più grandi del vero sembra che sorreggano l'intero edificio; all'interno hanno scavato una grande sala, circondata di cappelle, la cui volta riposa sopra colonne staccate dalla massa totale. Infine, di quel monolito, essi hanno fatto un tempio, che non è stato «fabbricato», nel vero senso della parola, ma un tempio unico al mondo, degno di gareggiare con i più meravigliosi edifici dell'India, e che non ha nulla da perdere nemmeno se paragonato agli ipogei dell'antico Egitto. Questo tempio, ormai quasi abbandonato, è già stato colpito dal tempo e va deteriorandosi in alcune parti. I suoi bassorilievi si alterano come le pareti del masso da cui fu tirato fuori. Gli restano ancora forse mille anni di esistenza. Ma ciò che è solo l'infanzia per le opere della natura, è già caducità per le opere umane. Alcuni profondi crepacci si erano aperti nel basamento laterale a sinistra, e fu attraverso una di quelle aperture, seminascosta dalla groppa di uno degli elefanti di sostegno, che Nana Sahib si lasciò scivolare senza che. nessuno avesse potuto sospettare il suo arrivo a Ellora. Il crepaccio si apriva internamente su un oscuro cunicolo che correva attraverso il basamento, cacciandosi sotto la «cella» del tempio. Là si allargava una specie di cripta, o piuttosto una cisterna, asciutta allora, che serviva da ricettacolo per l'acqua piovana. Il Nana, appena fu penetrato nel cunicolo, fece udire un certo fischio, al quale rispose un fischio identico. Non si trattava di eco. Una luce brillò nel buio. Subito apparve un indù, che aveva in mano una piccola lanterna. — Niente lume! — disse il Nana. — Sei tu, Dandu-Pant? — rispose l'indù, che spense subito la lanterna. — Io, fratello! — Ebbene?... — Da mangiare, prima di tutto, — rispose il Nana, — chiacchiereremo poi. Ma non ho bisogno di vederci né per parlare né per mangiare. Prendimi la mano e guidami. L'indù prese la mano del Nana, lo condusse in fondo alla stretta cripta e lo aiutò a sdraiarsi su un mucchio di erbe secche che egli stesso aveva appena lasciato. Il fischio del fachiro aveva interrotto il suo ultimo sonno. Quell'uomo, perfettamente abituato a muoversi in quell'oscuro recesso, trovò subito alcune provviste, del pane, una specie di pasticcio di murghis preparato con la carne di certi polli comunissimi in India, e un fiasco contenente una mezza pinta di quel violento liquore conosciuto sotto il nome di arak prodotto dalla distillazione del succo di cocco. Il Nana mangiò e bevve senza pronunciare parola. Moriva di fame e di stanchezza. Tutta la sua vita si era concentrata allora negli occhi che scintillavano nell'ombra come le pupille di una tigre. L'indù, senza fare un movimento, aspettava che il nababbo si decidesse a parlare. Quell'uomo era Balao Rao, fratello di Nana Sahib. Balao Rao, fratello maggiore di Dandu-Pant, ma di un anno appena, gli somigliava tanto da esser preso per lui. Moralmente poi era Nana Sahib tale e quale. Stesso odio per gli inglesi, stessa astuzia nei piani, identica crudeltà nell'esecuzione, un'anima sola in due corpi. Durante tutta l'insurrezione, i due fratelli non si erano mai lasciati. Dopo la disfatta, il medesimo accampamento della frontiera del Nepal aveva dato loro asilo. Ed ora, congiunti da quell'unico pensiero di ricominciare la lotta, si ritrovavano entrambi pronti ad agire. Quando il Nana, ristorato da quel pasto divorato frettolosamente, ebbe ricuperato le forze, rimase, per qualche tempo, con la testa fra le mani. Balao Rao, credendo che volesse riposarsi con qualche ora di sonno, stava sempre in silenzio. Ma Dandu-Pant, rialzando il capo, afferrò la mano del fratello, e con voce sorda: — Sono stato segnalato nella presidenza di Bombay! — disse. — Il governatore della presidenza ha messo una taglia sulla mia testa! Si promettono duemila sterline a chi consegnerà Nana Sahib! — Dandu-Pant! — esclamò Balao Rao, — la tua testa vale di più! Sarebbe appena il prezzo della mia, e, prima che siano passati tre mesi, sarebbero ben contenti di averle tutte e due per ventimila! — Sì, — rispose il Nana, — fra tre mesi, il 23 giugno, è l'anniversario di quella battaglia di Plassey, il cui centenario, nel 1857, doveva vedere la fine della dominazione inglese e l'emancipazione della razza che viene dal sole! I nostri profeti lo avevano predetto! I nostri bardi lo avevano cantato! Fra tre mesi, fratello, saranno passati centonove anni, e l'India è ancora calpestata dal piede degli invasori. — Dandu-Pant, — rispose Balao Rao, — ciò che non è riuscito nel 1857 può e deve riuscire dieci anni dopo. Nel 1827, nel 1837, nel 1847 ci sono state sommosse in India! Ogni dieci anni, gli indù sono ripresi dalla febbre della rivolta! Ebbene, quest'anno guariranno bagnandosi in un mare di sangue europeo! — Brahma ci guidi, — mormorò il Nana — e allora, supplizio per supplizio! Sventura sui capi dell'esercito reale che non sono caduti sotto i colpi dei nostri Cipay! Lawrence è morto, Barnard è morto, Hope è morto, Napier è morto, Hodson è morto, Havelock è morto! Ma alcuni sono sopravvissuti! Campbell, Rose, vivono ancora, e con loro quello che io odio più di tutti, il colonnello Munro, il discendente di quel carnefice che per primo fece legare degli indù alla bocca dei cannoni, l'uomo che ha ucciso con le sue mani la mia compagna, la rhani di Jansi! Che egli cada in mio potere, e vedrà se ho dimenticato gli orrori del colonnello Neil, i massacri del Sikander Bagh, gli sgozzamenti del palazzo della begum, di Bareilli, di Jansi, di Morar, dell'isola di Hidaspe e di Delhi! Vedrà se ho dimenticato che egli ha giurato la mia morte, come io ho giurato la sua! — Non ha lasciato l'esercito? — domandò Balao Rao. — Oh! — rispose Nana Sahib, — ai primi sollevamenti riprenderà servizio! Ma se l'insurrezione abortisce, andrò a pugnalarlo fin nel suo bungalow di Calcutta! — Sta bene, e ora?... — Ora, bisogna continuare l'opera cominciata. Questa volta il movimento sarà nazionale. Nelle città, nei campi, gli indù si sollevino, e presto i Cipay avranno fatto causa comune con loro. Ho percorso il centro e il nord del Deccan. Dappertutto ho trovato gli animi disposti alla rivolta. Non c'è città, non c'è villaggio, in cui non abbiamo dei capi pronti ad agire. I bramini renderanno il popolo fanatico. La religione, questa volta, trascinerà i settari di Siva e di Vishnu. Al momento fissato, al segnale convenuto, milioni di indù insorgeranno, e l'esercito reale sarà distrutto! — E Dandu-Pant?... — domandò Balao Rao, afferrando la mano di suo fratello. — Dandu-Pant, — rispose il Nana, — non sarà soltanto il Peischwah incoronato nella fortezza di Bilhur! Egli sarà il sovrano della terra sacra delle Indie! Detto ciò, Nana Sahib con le braccia conserte, lo sguardo perduto di chi osserva, non più il passato o il presente, ma l'avvenire, rimase silenzioso. Balao Rao si guardava bene dall'interromperlo. Amava lasciare che quello spirito truce si infiammasse delle proprie idee, e, nel caso, egli era là per attizzare tutto il fuoco che covava in lui. Nana Sahib non poteva aver un complice più strettamente legato alla sua persona, un consigliere più ardente a spingerlo verso la meta. L'abbiamo detto, egli era un altro lui stesso. Il Nana, dopo alcuni minuti di silenzio, risollevò il capo e ritornò al momento presente. — Dove sono i nostri compagni? — domandò. — Nelle caverne di Adjuntah, dove è stato convenuto che ci avrebbero atteso, — rispose Balao Rao. — E i nostri cavalli? — Li ho lasciati a un tiro di fucile, sulla strada che conduce da Ellora a Boregami. — È Kâlagani che li custodisce? — Proprio lui, fratello. Son ben custoditi, ben rifocillati, ben riposati, e non aspettano che noi per partire. — Partiamo dunque, — rispose il Nana. — Bisogna che siamo ad Adjuntah prima dell'alba. — E dopo, — domandò Balao Rao, — dove andremo? Questa fuga precipitosa non ha contrariato i tuoi piani? — No, — rispose Nana Sahib. — Ci recheremo ai monti Sautpurra, di cui conosco tutte le gole, e in mezzo ai quali posso sfidare le ricerche della polizia inglese. Là, del resto, saremo sul territorio dei Bilh e dei Gound, che sono rimasti fedeli alla nostra causa. Là potrò aspettare il momento favorevole, nel cuore di quella montagnosa regione dei Vindhya, dove il fermento della rivolta è sempre pronto a manifestarsi! — Andiamo! — rispose Balao Rao. — Ah! hanno promesso duemila sterline a chi si impadronirà di te! Ma non basta mettere una taglia su una testa, bisogna prenderla! — Non la prenderanno, — rispose Nana Sahib. — Vieni, fratello, senza perdere un istante, vieni! Balao Rao avanzò con passo sicuro lungo lo stretto corridoio che conduceva a quell'oscuro recesso scavato sotto il pavimento del tempio. Quando fu giunto all'apertura nascosta dalla groppa dell'elefante di pietra, spinse fuori prudentemente il capo, guardò nell'ombra a destra e a sinistra, si accertò che tutto intorno fosse deserto, e si arrischiò a uscire. Per colmo di precauzione, fece una ventina di passi per il viale che si svolgeva lungo l'asse del tempio; poi, non avendo veduto nulla di sospetto, fece un fischio, indicando al Nana che la via era Ubera. Alcuni istanti dopo, i due fratelli lasciavano quella vallata artificiale, lunga mezza lega, che è tutta traforata di gallerie, di volte, di scavi, che in alcuni punti si sovrappongono fino a grande altezza. Evitarono di passare accanto a quel mausoleo maomettano che serve da bungalow ai pellegrini o ai curiosi di tutte le nazionalità, attratti dalle meraviglie di Ellora; e finalmente, dopo aver fatto il giro del villaggio di Rauzah, si trovarono sulla strada che congiunge Adjuntah a Boregami. La distanza da percorrere, da Ellora a Adjuntah, era di cinquanta miglia (ottanta chilometri circa); ma il Nana allora non era più il fuggitivo che scappava a piedi da Aurangabad, senza mezzi di trasporto. Come aveva detto Balao Rao, tre cavalli lo aspettavano sulla via, custoditi dall'indù Kâlagani, fedele servitore di DanduPant. I cavalli erano stati nascosti in un bosco folto, a un miglio dal villaggio. Uno era destinato al Nana, l'altro a Balao Rao, il terzo a Kâlagani, e poco dopo galoppavano tutti e tre in direzione di Adjuntah. Nessuno, del resto, si sarebbe stupito di vedere un fachiro a cavallo. Infatti, parecchi di questi sfrontati mendicanti chiedono l'elemosina dall'alto della loro cavalcatura. Per di più, la strada era poco frequentata in quel periodo dell'anno, meno favorevole ai pellegrinaggi. Il Nana e i suoi due compagni, perciò, procedevano rapidamente senza temere nulla che potesse dar loro fastidio o ritardarli. Si concedevano solo il tempo di far respirare le loro bestie, e, durante quelle brevi soste, attingevano alle provviste che Kâlagani portava appese all'arcione della propria sella. Evitarono così le parti più frequentate della provincia, i bungalow e i villaggi, fra cui la borgata di Roja, triste ammasso di case nere che il tempo ha affumicato, come le cupe abitazioni della Cornovaglia, e Pulmary, piccolo borgo sperduto fra le piantagioni di un paese già selvaggio. Il suolo era unito e piano. In tutte le direzioni si estendevano campi di erica solcati da boschetti di fitta jungla. Ma la regione si fece più accidentata a mano a mano che ci si avvicinava a Adjuntah. Le superbe grotte che portano questo nome, rivali delle meravigliose grotte di Ellora, e forse più belle nel loro insieme, occupano la parte inferiore di una piccola valle, a mezzo miglio circa dalla città. Nana Sahib poteva dunque evitare di passare da Adjuntah, dove il manifesto del governatore doveva essere già affisso, Di conseguenza, nessun timore d'essere riconosciuto. Così, quindici ore dopo aver lasciato Ellora, i suoi due compagni e lui si inoltravano in una stretta gola, che conduceva alla celebre valle, in cui ventisette templi, tagliati alla lettera nella roccia, si ergono su abissi vertiginosi. La notte era superba, tutta scintillante di costellazioni, ma senza luna. Numerosi alberi d'alto fusto, dei baniani, alcuni di quei bar che stanno fra i giganti della flora indiana, spiccavano neri sul fondo stellato del cielo. Non un alito di vento attraversava l'atmosfera, non una foglia si muoveva, non un rumore si faceva udire, tranne il sordo mormorio di un torrente, che scorreva qualche centinaio di piedi più sotto, in fondo al burrone. Ma quel mormorio crebbe fino a divenire un vero muggito, quando i cavalli ebbero raggiunto la cascata del Satkhund, che precipita da un'altezza di cinquanta tese, rompendosi sulle creste delle rocce di quarzo e di basalto. Una liquida polvere turbinava nella gola, e si sarebbe tinta dei sette colori dell'arcobaleno, se la luna avesse illuminato l'orizzonte in quella bella notte di primavera. Il Nana, Balao Rao e Kâlagani erano arrivati. Alla brusca svolta della gola, che in quel punto fa un gomito, si apriva la vallata, arricchita dai capolavori dell'architettura buddistica. Là sui muri di quei templi, ornati a profusione di colonne, di rosoni, di arabeschi, di verande, popolati di figure colossali di animali dalle forme fantastiche, pieni di cupe celle, che un tempo erano abitate dai sacerdoti, custodi di quelle sacre dimore, l'artista può ancora ammirare alcuni affreschi che si direbbero dipinti ieri, e che rappresentano cerimonie reali, processioni religiose, battaglie in cui si vedono tutte le armi del tempo, così come furono in quello splendido paese dell'India, ai primi tempi dell'era cristiana. Nana Sahib conosceva tutti i segreti di quei misteriosi ipogei. Più d'una volta i suoi compagni e lui, stretti troppo da vicino dalle truppe reali, vi avevano trovato rifugio nei giorni tristi dell'insurrezione. Le gallerie sotterranee che li univano, i più stretti corridoi praticati nella roccia quarzosa, i sinuosi condotti scavati sotto tutti gli angoli, le mille ramificazioni di quel labirinto, tanto intricato da stancare i più pazienti, tutto ciò gli era familiare. Egli non ci si poteva perdere, nemmeno quando una torcia non illuminava le loro buie profondità. Il Nana, in quella notte tenebrosa, da uomo sicuro di ciò che fa, andò dritto a uno degli scavi meno importanti del complesso. L'apertura era chiusa da una cortina di fitti arbusti e da un cumulo di grosse pietre, che un antico terremoto sembrava aver gettato là, tra gli arbusti del suolo e le piante che crescono sulla roccia. Bastò che il nababbo grattasse con l'unghia la parete perché la sua presenza venisse segnalata all'apertura della grotta. Due o tre teste di indù apparvero subito fra gli interstizi dèi rami, poi dieci, poi venti altre, e ben presto dei corpi, che, strisciando fra le pietre come serpi, formarono un drappello di una quarantina d'uomini ben armati. — In viaggio! — esclamò Nana Sahib. E senza domandare spiegazione, senza sapere dove li conducesse, quei fedeli compagni del nababbo lo seguirono, pronti a farsi uccidere a un solo suo cenno. Erano a piedi, ma le loro gambe potevano gareggiare in velocità con quelle di un cavallo. Il piccolo drappello si inoltrò nella gola che costeggiava l'abisso, risalendo verso nord, e fece il giro della montagna. Un'ora dopo aveva raggiunto la strada del Kandeish, che va a perdersi nei passi dei monti Sautpurra. La diramazione per Nagpore della ferrovia Bombay-Allahabad, e lo stesso ramo principale, che si dirige verso nord-est, furono attraversati all'alba. In quel momento il treno di Calcutta passava velocissimo, gettando il suo fumo bianco verso i superbi baniani della via e i suoi muggiti alle fiere spaventate delle jungle. Il nababbo aveva fermato il proprio cavallo, e con voce forte e con la mano tesa verso il treno che fuggiva: — Va', — esclamò — va' a dire al viceré dell'India che Nana Sahib è ancora vivo, e che annegherà nel sangue degli invasori questa ferrovia, opera maledetta delle loro mani. CAPITOLO V IL GIGANTE D'ACCIAIO NON RICORDO stupore maggiore di quello di cui i passanti fermi sulla grande strada che va da Calcutta a Chandernagor, uomini, donne, fanciulli, tanto indù quanto inglesi, davano segni inequivocabili il mattino del 6 maggio. Per la verità, un profondo senso di meraviglia era naturalissimo. Infatti, all'alba, da uno degli ultimi sobborghi della capitale dell'India, fra due dense file di curiosi, usciva un bizzarro equipaggio, se si può dare questo nome allo stupefacente complesso che risaliva la sponda dell'Hougly. In testa e come unico motore del convoglio, un elefante gigantesco, alto venti piedi, lungo trenta, largo in proporzione, avanzava tranquillamente e misteriosamente. La sua proboscide era incurvata, come un'enorme cornucopia, con la punta in aria. Le sue zanne, tutte dorate, uscivano dalla gigantesca mascella, simili a due falci minacciose. Sul corpo, di un verde cupo, bizzarramente chiazzato, era stesa una ricca gualdrappa a colori vivaci, adorna di filigrane d'argento e d'oro, orlata di una frangia a grosse ghiande attorte. Il dorso sosteneva una specie di torretta riccamente ornata, coronata da una cupola arrotondata all'uso indiano, le cui pareti erano munite di grossi vetri lenticolari simili agli oblò di una cabina di nave. Quell'elefante trascinava un treno composto di due enormi carri, o meglio due vere case, specie di bungalow mobili, montati ognuno su quattro ruote scolpite ai mozzi, ai raggi e ai cerchi. Quelle ruote, delle quali si vedeva solo il settore inferiore, si muovevano all'interno di tamburi che nascondevano a metà il basamento di quegli enormi apparecchi di locomozione. Una passerella articolata, che si prestava ai capricci delle curve, congiungeva la prima carrozza alla seconda. Come poteva un solo elefante, per quanto forte, trascinare quelle due massicce costruzioni, senza alcuno sforzo apparente? Eppure quello stupefacente animale lo faceva! Le sue larghe zampe si sollevavano e si abbassavano automaticamente con una regolarità addirittura meccanica, e la bestia passava immediatamente dal passo al trotto, senza che la voce o la mano di un mahout si facesse sentire o vedere. Di questo dovevano sulle prime stupirsi i curiosi finché stavano un po' lontani. Ma se si avvicinavano al colosso, ecco che cosa scoprivano e allo stupore seguiva l'ammirazione. Infatti l'orecchio era colpito, prima di tutto, da una specie di muggito cadenzato, molto simile a quello tutto particolare di questi giganti della fauna indiana. Inoltre, a brevi intervalli, dalla proboscide alzata verso il cielo sfuggiva un turbine di vapore. Eppure, era proprio un elefante! La sua pelle rugosa, di un verde nerastro, copriva senza dubbio una di quelle ossature poderose che la natura ha concesso al re dei pachidermi! I suoi occhi brillavano dello splendore della vita! Le sue membra erano dotate di movimento! Sì! Ma se qualche curioso si fosse azzardato a posare una mano sull'enorme animale, tutto si sarebbe spiegato. Non si trattava che di una meravigliosa, sorprendente imitazione, la quale aveva tutte le apparenze della vita, anche da vicino. Infatti, quell'elefante era di lamiera d'acciaio, e nei suoi fianchi si nascondeva un'intera locomotiva stradale. Il treno poi, la «Steam-House», 10 per chiamarlo col suo nome, era la casa viaggiante promessa dall'ingegnere. Il primo carro, o piuttosto la prima casa, serviva da abitazione al colonnello Munro, al capitano Hod, a Banks e a me. La seconda era destinata ad alloggiare il sergente Mac Neil e quanti costituivano il personale della spedizione. Banks aveva mantenuto la sua promessa, il colonnello Munro la propria, ed ecco perché quella mattina del 6 maggio eravamo partiti 10 Steam-House significa, in inglese, «casa a vapore»: da qui il titolo del romanzo. (N.d.T.) con quel convoglio straordinario, per visitare le regioni settentrionali della penisola indiana. Ma, a che cosa serviva l'elefante artificiale? Perché quel capriccio, in disaccordo con lo spirito pratico degli inglesi? Mai fino ad allora si era immaginato di dare a una locomotiva, destinata a circolare sull'asfalto delle strade più importanti o sui binari delle ferrovie, la forma di un quadrupede qualsiasi. Bisogna confessarlo, la prima volta che fummo ammessi a vedere quella macchina meravigliosa, fu uno stupore generale. I perché e i come piovvero fitti sul nostro amico Banks. Era su suo progetto e sotto la sua direzione che quella locomotiva stradale era stata costruita. Chi dunque aveva potuto dargli la bizzarra idea di nasconderla fra le pareti d'acciaio di un elefante meccanico? — Amici miei — si accontentò di rispondere seriamente Banks — conoscete il rajah di Buthan? — Lo conosco — rispose il capitano Hod — o meglio lo conoscevo, poiché è morto da tre mesi. — Ebbene, prima di morire — rispose l'ingegnere — il rajah di Buthan non solo era vivo, ma viveva in modo molto diverso dagli altri. Egli amava tutti i fasti, di qualsiasi genere. Non si negava mai nulla, dico nulla di ciò che gli passava per il capo. Il suo cervello si logorava a immaginare l'impossibile, e se non fosse stata inesauribile, la sua borsa si sarebbe vuotata nel tradurre in realtà tutto ciò che egli immaginava. Era ricco come i nababbi di un tempo. I lakhs di rupie abbondavano nelle sue casse. Se aveva qualche preoccupazione, era solo quella di spendere il suo denaro in un modo un po' meno banale dei suoi confratelli milionari. Ora, un giorno, gli venne un'idea, che presto lo ossessionò al punto di non lasciarlo più dormire, un'idea di cui Salomone sarebbe andato orgoglioso e che avrebbe certamente realizzato se avesse conosciuto il vapore: era di viaggiare in un modo assolutamente nuovo, e di avere un equipaggio come nessuno avrebbe mai potuto sognare. Mi conosceva, mi chiamò alla sua corte e mi disegnò egli stesso il piano del suo apparecchio di locomozione. Ah! se credete, amici miei, che scoppiassi a ridere alla proposta del rajah, vi sbagliate! Capii benissimo che quell'idea grandiosa aveva dovuto nascere naturalmente nel cervello d'un sovrano indiano, e non ebbi più che un desiderio: attuarla al più presto in condizioni che potessero soddisfare il mio poetico cliente e me stesso. Un ingegnere serio non ha tutti i giorni l'occasione di trattare il fantastico, e di aggiungere un animale di propria fattura alla fauna dell'Apocalisse o alle creazioni delle Mille e una notte. Insomma, il capriccio del rajah era realizzabile. Voi sapete bene tutto quello che si fa, tutto quello che si può fare, tutto quello che si farà con la meccanica. Mi misi dunque al lavoro, ed in questo guscio di lamiera d'acciaio che rappresenta un elefante, riuscii a chiudere la caldaia, la meccanica e il tender di una locomotiva stradale con tutti i suoi accessori. La proboscide articolata, che, in caso di necessità, può alzarsi e abbassarsi, mi servì da ciminiera; un eccentrico mi permise di collegare le gambe del mio animale alle ruote della macchina; disposi i suoi occhi come le lenti di un faro, in modo da proiettare due fasci di luce elettrica, e l'elefante artificiale fu fatto. Ma la creazione non era stata di getto. Avevo dovuto vincere svariate difficoltà, che sulle prime non ero riuscito a superare. Questo motore - gigantesco giocattolo se volete - mi costò non poche veglie, tanto che il mio rajah, che non stava in sé per l'impazienza e che passava la maggior parte del suo tempo nelle mie officine, morì prima che l'ultima martellata del montatore permettesse al suo elefante di iniziare la corsa per il mondo. Il poveretto non aveva avuto tempo di provare la sua casa mobile! Ma i suoi eredi, meno fantasiosi di lui, esaminarono questa macchina con terrore e superstizione, come opera di un pazzo. Si affrettarono quindi a sbarazzarsene anche per una miseria e, parola mia, io ricomprai il tutto per conto del colonnello. Eccovi, amici miei, come e perché noi soli al mondo, ci scommetto, abbiamo a nostra disposizione un elefante a vapore della forza di ottanta elefanti, di trecento chilogrammetri! — Bravo! Bravo Banks! — esclamò il capitano Hod. — Un ingegnere che sia per di più un artista e faccia della poesia col ferro e con l'acciaio, è una vera perla rara. — Morto il rajah, — rispose Banks, — e comprato il suo equipaggio, non mi sono sentito di distruggere il mio elefante e di rendere alla locomotiva la sua forma consueta! — E avete fatto mille volte bene! — replicò il capitano. — È superbo, il nostro elefante, superbo! E che effetto faremo con questo gigantesco animale, quando ci condurrà per le pianure e attraverso le jungle dell'Indostan! È un'idea da rajah! Ebbene, approfitteremo di quest'idea, non è vero colonnello? Il colonnello Munro aveva quasi sorriso. Era l'equivalente di un'approvazione totale data da lui alle parole del capitano. Il viaggio fu dunque deciso, ed ecco come un elefante d'acciaio, un animale unico nel suo genere, un Leviathan artificiale, fu ridotto a trascinare la casa mobile di quattro inglesi, invece di condurre a passeggio in tutta la sua pompa uno dei più opulenti rajah della penisola indiana. Come è fatta questa locomotiva stradale, nella quale Banks ha ingegnosamente introdotto tutti i perfezionamenti della scienza moderna? Così: Tra le quattro ruote è disposto il complesso del meccanismo, cilindri, bielle, cassetti di distribuzione, pompe di alimentazione, eccentrici, coperto dal corpo della caldaia. Questa caldaia tubolare, senza ritorni di fiamma, presenta sessanta metri quadrati di superficie di riscaldamento. È contenuta interamente nella parte anteriore del corpo dell'elefante di lamiera, mentre la parte posteriore racchiude il tender destinato a trasportare l'acqua e il combustibile. La caldaia e il tender, montati entrambi sul medesimo truck 11 sono separati da un intervallo, lasciato libero per il servizio del fuochista. Il macchinista, invece, sta nella torretta, costruita a prova di pallottola, disposta sul dorso dell'animale, e nella quale, in caso di un attacco serio, tutti potremo trovare rifugio. Sotto gli occhi del macchinista si trovano le valvole di sicurezza e il manometro che indica la pressione del vapore; a portata della mano l'acceleratore e la leva che gli servono, l'uno a regolare l'immissione di vapore, l'altra ad azionare i cassetti di distribuzione e di conseguenza a produrre il movimento avanti o indietro della macchina. Da questa torretta, attraverso spessi vetri lenticolari, sistemati ad hoc entro strette strombature, egli può tener d'occhio la strada che gli si svolge davanti, mentre un pedale, modificando l'angolazione delle ruote anteriori, gli permette di seguirne le curve, qualunque esse siano. 11 Carrello ferroviario. (N.d.T.) Molle, del miglior acciaio, fissate agli assali, sostengono la caldaia e il tender, in modo da ammortizzare le scosse prodotte dalle disuguaglianze del terreno. Quanto alle ruote, di solidità a tutta prova, hanno i cerchioni rigati, per poter mordere il fondo stradale, il che impedisce loro di «slittare». Come ci ha detto Banks, la forza nominale della macchina è di ottanta cavalli, ma se ne possono ottenere centocinquanta effettivi, senza timore di provocare alcuno scoppio. Questa macchina, costruita in base al «sistema Field», è a due cilindri, a espansione variabile. Un involucro a chiusura ermetica avvolge tutto il meccanismo, in modo da sottrarlo alla polvere delle strade, che ne rovinerebbe rapidamente gli organi. Il suo massimo perfezionamento consiste soprattutto in questo: che consuma poco e produce molto. Infatti, il consumo medio, rispetto al risultato utilizzato, non è mai stato tanto ben regolato, sia che essa funzioni a carbone sia a legna, poiché le griglie del forno possono bruciare qualsiasi tipo di combustibile. Quanto alla velocità normale di questa locomotiva stradale, l'ingegnere la valuta a venticinque chilometri all'ora, ma, su un fondo favorevole, potrà toccare i quaranta. Le ruote, come ho detto, non sono esposte a slittare, non solo per il fatto che i loro cerchioni mordono il terreno, ma anche perché la sospensione dell'intero congegno su molle di prima qualità è perfettamente stabilita e distribuisce egualmente il peso che i sobbalzi tendono a rendere disuguale. Inoltre le ruote si possono facilmente regolare con dei freni atmosferici, che producono o un rallentamento progressivo o un blocco istantaneo che le fa arrestare quasi di colpo. Notevole poi è la facilità che ha questa macchina di superare le pendenze. Banks, infatti, ha ottenuto i migliori risultati, tenendo conto del peso e della potenza propulsiva esercitata su ognuno dei pistoni della sua locomotiva. Perciò essa può superare facilmente pendenze di dieci-dodici centimetri per metro, il che è eccezionale. Del resto, le strade che gli inglesi hanno aperto in India, e la cui rete ha uno sviluppo di molte migliaia di miglia, sono magnifiche. Devono prestarsi benissimo a questo tipo di locomozione. Per parlare solo del Great Trunk Road, che attraversa la penisola, esso si stende su uno spazio ininterrotto di milleduecento miglia, ossia di circa duemila chilometri. Ed ora, parliamo di quella Steam-House che l'elefante artificiale si trascinava dietro. Banks non aveva comprato dagli eredi del nababbo, per conto del colonnello Munro, soltanto la locomotiva stradale, ma anche il treno che essa trascinava. Nessuno si meraviglierà che il rajah di Buthan l'avesse fatto costruire secondo il proprio gusto e secondo la moda indiana. L'ho già chiamato bungalow a ruote; merita davvero questo nome, e i due vagoni che lo compongono sono semplicemente un capolavoro dell'architettura del paese. Immaginiamoci due specie di pagode senza minareti, con i tetti a doppio spiovente, arrotondati in cupole panciute, con l'aggetto delle finestre sorretto da pilastri scolpiti, decorate a trafori multicolori in legni pregiati, e i cui contorni tracciano piacevolmente delle curve eleganti, con le verande riccamente rifinite che le terminano sul davanti e sul dietro. Sì! due pagode che si direbbero staccate dalla collina santa di Sonnaghur, e che, collegate l'una all'altra, a rimorchio di questo elefante d'acciaio, dovevano percorrere le strade principali del paese. E bisogna aggiungere, poiché questo completa il prodigioso apparecchio di locomozione, che esso può galleggiare. Infatti, la parte inferiore del corpo dell'elefante, che contiene caldaia e macchina, costituisce un'imbarcazione in lamiera leggera, a cui alcune casse d'aria abilmente disposte garantiscono la possibilità di galleggiare. Se si presenta un corso d'acqua, l'elefante vi si slancia, il treno lo segue, e le zampe dell'animale, mosse dalle bielle, trascinano tutta la Steam-House. Vantaggio senza pari in quell'ampia regione dell'India, dove abbondano i fiumi senza ponti. Ecco dunque come era quel treno, unico nel suo genere, così come lo aveva voluto il capriccioso rajah di Buthan. Ma se Banks aveva rispettato quel capriccio che dava al motore la forma di un elefante e ai vagoni l'aspetto di pagode, aveva però creduto di dover sistemare l'interno secondo il gusto inglese, adattandolo a un viaggio di lunga durata. Il risultato era ottimo. La Steam-House, come ho detto, si componeva di due vagoni, che, internamente, non misuravano meno di sei metri di larghezza. Superavano perciò gli assali delle ruote, che erano lunghi solo cinque. Sospesi sopra molle lunghissime e molto flessibili, erano pochissimo sensibili ai sobbalzi come avrebbero potuto esserlo alle più lievi scosse su un binario ferroviario ben sistemato. Il primo vagone era lungo quindici metri. Sul davanti, l'elegante veranda, sorretta da leggeri pilastri, riparava un ampio balcone, sul quale potevano stare comodamente dieci persone. Due finestre e una porta si aprivano sul salotto, illuminato anche da due finestre laterali. Questo salotto arredato con un tavolo e una libreria, fornito di morbidi divani in tutta la sua larghezza, era artisticamente decorato e tappezzato con ricche stoffe. Un bel tappeto di Smirne ne nascondeva il pavimento. Dei tattis, specie di schermi di vetiveria,12 sistemati davanti alle finestre, e innaffiati continuamente con acqua profumata, mantenevano una gradevole frescura tanto nel salotto quanto nelle cabine che servivano da camere. Dal soffitto pendeva una punka, che una cinghia di trasmissione agitava automaticamente quando il treno si muoveva, o che il braccio di un servitore metteva in moto durante le fermate. Non bisognava forse premunirsi con ogni mezzo possibile contro gli eccessi di una temperatura che, in certi mesi dell'anno, supera all'ombra i quarantacinque gradi centigradi? In fondo al salotto, una seconda porta, di legno pregiato, posta dirimpetto alla porta della veranda, dava sulla sala da pranzo, illuminata oltre che dalle finestre laterali, anche da un soffitto di vetro smerigliato. Intorno alla tavola che ne occupava il centro, potevano sedersi otto commensali. Noi eravamo solo quattro: ci saremmo quindi stati comodamente. Armadi e credenze, carichi di tutto quel lusso di argenteria, di cristallerie e di porcellane che esige il comfort inglese, arredavano quella sala da pranzo. Ovviamente tutti gli oggetti fragili, affondati a metà in incavi speciali, come si usa a bordo delle navi, erano al riparo dagli urti, anche sulle strade peggiori, se mai il nostro treno fosse stato costretto a percorrerle. 12 Pianta erbacea della famiglia delle Graminacee, le cui radici aromatiche vengono utilizzate per la preparazione di profumi. (N.d.T.) La porta, in fondo alla sala da pranzo, metteva in un corridoio che portava a un balcone posteriore, protetto anch'esso da una seconda veranda. Lungo quel corridoio erano disposte quattro camere, illuminate lateralmente, ognuna delle quali conteneva un letto, una toilette, un armadio, un divano, ed era sistemata come le cabine dei più lussuosi transatlantici. La prima di quelle camere, a sinistra, era occupata dal colonnello Munro; la seconda, a destra, dall'ingegner Banks. La camera del capitano Hod seguiva, a destra, quella dell'ingegnere; la mia, a sinistra, quella del colonnello Munro. Il secondo vagone, lungo dodici metri, aveva, come il primo, un balcone con veranda, che si apriva su un'ampia cucina, fiancheggiata lateralmente da due dispense, e fornita di tutti i suoi accessori. Questa cucina comunicava con un corridoio che si allargava in quadrilatero nella sua parte centrale e formava una seconda sala da pranzo, illuminata da un'apertura del soffitto, per il personale della spedizione. Ai quattro angoli si aprivano quattro cabine occupate dal sergente Mac Neil, dal fuochista, dal macchinista e dall'ordinanza del colonnello Munro; poi, sul retro, c'erano due altre cabine, una destinata al cuoco, l'altra all'attendente del capitano Hod; poi, altri locali, che servivano da armeria, da ghiacciaia, da magazzino dei bagagli, ecc., e che si aprivano sul balcone posteriore. Come si vede, Banks aveva sistemato intelligentemente e comodamente le due case ambulanti della Steam-House. Esse potevano essere riscaldate, durante l'inverno, mediante un congegno che faceva circolare l'aria calda, fornita dalla macchina, attraverso i locali, senza contare due caminetti, posti nel salotto e nella sala da pranzo. Potevamo dunque sfidare i rigori della stagione fredda, anche sulle prime falde dei monti del Tibet. L'importante problema delle provviste non era stato trascurato, lo si può credere, e portavamo con noi, in conserve scelte, di che nutrire per un anno tutto il personale della spedizione. Quello che avevamo in maggior abbondanza, erano delle scatole di carne conservata delle migliori fabbriche, principalmente di carne lessata, di stufato, e dei pasticci di quei murghis, o polli che vengono consumati in così grandi quantità in tutta la penisola indiana. Non ci sarebbe mancato nemmeno il latte per la colazione del mattino, che precede la colazione vera, né il brodo per il tiffin, che precede il pranzo della sera, grazie ai nuovi preparati che permettono di trasportarli allo stato concentrato. Dopo essere stato sottoposto a evaporazione, in modo da prendere consistenza pastosa, il latte viene chiuso in scatole saldate ermeticamente che contengono quattrocentocinquanta grammi, i quali, con l'aggiunta di un quintuplo del loro peso in acqua, possono fornire tre litri di liquido. Così trattato è di composizione identica a quella del latte normale e di buona qualità. Si ha lo stesso risultato per il brodo, che, conservato con mezzi analoghi e ridotto in tavolette, fatto sciogliere, fornisce delle minestre eccellenti. Quanto al ghiaccio, così utile sotto quelle calde latitudini, ci era facile ottenerlo in pochi istanti, grazie agli apparecchi Carré, che producono l'abbassamento della temperatura con l'evaporazione dell'ammoniaca liquida. Uno degli scompartimenti posteriori era anzi sistemato a ghiacciaia, e sia per evaporazione dell'ammoniaca sia per volatilizzazione dell'etere metilico, il frutto delle nostre cacce poteva venir conservato indefinitamente, grazie all'applicazione dei metodi di un francese, del mio compatriota 13 Charles Tellier. Si trattava, bisogna convenirne, di un prezioso ritrovato, che doveva mettere a nostra disposizione, in qualsiasi evenienza, cibi della migliore qualità. Per quanto riguarda le bevande, la cantina ne era ben fornita. Vini francesi, birre diverse, acquavite, arak, occupavano scompartimenti speciali in quantità sufficiente per le prime necessità. Tuttavia va fatto notare che il nostro itinerario non doveva allontanarci molto dalle province abitate della penisola. L'India non è un deserto, tutt'altro. Pur di non risparmiare le rupie, è facile procurarvisi non solo il necessario, ma anche il superfluo. Forse, quando avessimo svernato nelle regioni settentrionali, ai piedi dell'Himalaya, avremmo dovuto accontentarci delle nostre sole provviste. Anche in questo caso, ci sarebbe stato facile far fronte a tutte le esigenze di un'esistenza comoda. Lo spirito pratico del nostro 13 Il signor Maucler, che racconta la maggior parte del romanzo, è, come si ricorderà, parigino. (N.d.T.) amico Banks aveva previsto ogni cosa, e si poteva fare affidamento su di lui anche nella necessità di approvvigionarci in viaggio. E per finire, ecco l'itinerario del viaggio, itinerario che venne tracciato in linea di massima, salvo le eventuali modifiche che avrebbero potuto esservi apportate per circostanze impreviste: Partire da Calcutta seguendo la valle del Gange fino ad Allahabad, attraversare il regno di Oudh in modo da giungere ai primi pendii del Tibet, accamparsi per qualche mese, ora in un luogo ora in un altro, dando al capitano Hod ogni facilitazione per andare a caccia, poi ridiscendere fino a Bombay. Erano circa novecento leghe da percorrere. Ma la nostra casa e tutto il suo personale viaggiavano con noi. In condizioni simili, chi si rifiuterebbe di fare anche molte volte il giro del mondo? CAPITOLO VI PRIME TAPPE IL 6 MAGGIO, all'alba, avevo lasciato l'hotel Spencer, uno dei migliori di Calcutta, dove abitavo fin dal mio arrivo nella capitale dell'India. Questa gran città ora non aveva più segreti per me. Passeggiate mattutine a piedi, durante le prime ore del giorno; passeggiate serali, in carrozza, nello Strand, fino alla spianata del forte William, fra gli splendidi equipaggi degli europei che s'incrociano abbastanza sdegnosamente con le non meno splendide carrozze dei grossi e grassi babu indigeni; escursioni per quelle curiose strade commerciali, che portano giustamente il nome di bazar; visite ai campi di incinerazione dei morti, sulle rive del Gange, all'orto botanico del naturalista; Hooker, alla «signora Kâli», l'orribile donna dalle quattro braccia, truce dea della morte, che si nasconde in un tempietto di uno di quei sobborghi nei quali camminano di pari passo la civiltà moderna e la barbarie nativa: avevo fatto di tutto. Contemplare il palazzo del viceré, che sorge proprio dirimpetto all'hotel Spencer, ammirare il curioso palazzo di Chowringhi Road e il. Town-Hall, consacrato alla memoria dei grandi uomini del nostro tempo; studiare minutamente l'interessante moschea di Hougly; percorrere il porto ingombro delle più belle navi mercantili della marina inglese; dire infine addio agli arghilas, marescialli o filosofi questi uccelli hanno tanti nomi! -che sono incaricati di pulire le vie e di mantenere la città in un perfetto stato di salubrità: anche questo avevo fatto, e non mi rimaneva più che partire. Dunque, quel mattino, un palkighari, specie di cattiva carrozza a due cavalli e a quattro ruote - indegna di figurare fra i comodi prodotti della carrozzeria inglese - venne a prendermi sulla piazza del Governo e mi depose poco dopo alla porta del bungalow del colonnello Munro. Cento passi fuori del quartiere, il nostro treno ci aspettava. Non c'era altro da fare che installarsi. Ovviamente i nostri bagagli erano già stati sistemati nel loro scompartimento speciale. Portavamo con noi, del resto, solo il necessario. Soltanto, in fatto di armi, il capitano Hod aveva creduto che il necessario dovesse comprendere non meno di quattro carabine Enfield a proiettili esplosivi, quattro fucili da caccia, due spingarde, senza contare un certo numero di fucili e di rivoltelle, - di che armarci tutti quanti. Tutta quell'armeria minacciava più le fiere che non la semplice selvaggina commestibile, ma sarebbe stato impossibile far sentir ragione su questo argomento al Nemrod della spedizione. Il capitano Hod era proprio entusiasta! Il piacere di strappare il colonnello alla solitudine del suo ritiro, la gioia di partire per le province settentrionali dell'India con un equipaggio che non aveva l'uguale, la prospettiva di esercizi ultra-cinegetici e di escursioni nelle regioni himalayane, tutto ciò lo animava, lo eccitava, lo faceva prorompere in interiezioni interminabili e in strette di mano da stritolarvi le ossa. L'ora della partenza era suonata. La caldaia era sotto pressione, la macchina pronta ad avviarsi. Il macchinista era al suo posto, con la mano sull'acceleratore. Venne lanciato il fischio regolamentare. — In viaggio! — esclamò il capitano Hod agitando il proprio cappello. — Gigante d'Acciaio, in viaggio! Gigante d'Acciaio, questo nome che il nostro amico entusiasta aveva dato al meraviglioso motore del nostro treno, esso lo meritava davvero, e gli rimase. Una parola sul personale della spedizione, che occupava la seconda casa ambulante. Il macchinista Storr, inglese, apparteneva alla Compagnia del Great Southern of India, che aveva lasciato solo da pochi mesi. Banks, che lo conosceva e lo sapeva molto competente, lo aveva fatto entrare al servizio del colonnello Munro. Era un uomo di quarant'anni, operaio abile, assai esperto nelle cose del suo mestiere, e che doveva renderci dei grandi servigi. Il fuochista si chiamava Kâlouth. Apparteneva a quella classe di indù, così ricercati dalle compagnie ferroviarie, che possono sopportare impunemente il calore tropicale delle Indie, raddoppiato dal calore della caldaia. Avviene lo stesso degli arabi ai quali le compagnie di trasporti marittimi affidano il servizio di alimentazione dei forni durante le traversate del Mar Rosso. Quella brava gente si limita tutt'al più a bollire, là dove degli europei arrostirebbero in pochi istanti. Buona scelta anche questa. L'ordinanza del colonnello Munro era un indù di trentacinque anni, di razza Gurgkha, che si chiamava Goûmi. Apparteneva a quel reggimento che, per far atto di buona disciplina, accettò di usare le nuove munizioni, uso che fu l'occasione prima o almeno il pretesto della rivolta dei Cipay. Piccolo, svelto, ben fatto, di una devozione a tutta prova, egli portava ancora l'uniforme nera della brigata dei rifles, alla quale teneva quanto alla propria pelle. Il sergente Mac Neil e Goûmi erano, anima e corpo, i due fedeli del colonnello Munro. Dopo essersi battuti al suo fianco in tutte le guerre dell'India, dopo averlo aiutato nei suoi tentativi infruttuosi per ritrovare Nana Sahib, essi lo avevano seguito quando aveva abbandonato il servizio attivo e non dovevano mai lasciarlo. Se Goûmi era l'ordinanza del colonnello, Fox, un inglese puro sangue, allegrissimo, comunicativo, era l'attendente del capitano Hod, e cacciatore non meno arrabbiato di lui. Questo bravo ragazzo non avrebbe cambiato la propria condizione sociale con qualsiasi altra. La sua astuzia lo rendeva degno del nome che portava: Fox! Volpe! ma una volpe che era alla sua trentasettesima tigre, tre meno del suo capitano. Del resto, egli contava di non fermarsi lì. Bisogna citare ancora, per completare il personale della spedizione, il nostro cuoco negro, che regnava nella parte anteriore della seconda casa fra le due dispense. Francese d'origine, che aveva già fatto arrosti e fricassee sotto tutte le latitudini, il «signor Parazard» (si chiamava così)1 era convinto di svolgere non un mestiere volgare, ma una funzione d'alta importanza. Egli pontificava, nel vero senso della parola, quando la sua mano passava da un fornello all'altro distribuendo con la precisione di un chimico il pepe, il sale e altri condimenti che davano maggior gusto alle sue sapienti preparazioni. Insomma poi, siccome il signor Parazard era abile e pulito, gli si perdonava volentieri quella vanità culinaria. Dunque, sir Edward Munro, Banks, il capitano Hod e io da una parte, Mac Neil, Storr, Kâlouth, Goûmi, Fox e il signor Parazard dall'altra - dieci persone in tutto — ecco la spedizione che il Gigante d'Acciaio portava verso il nord della penisola con il suo treno di due case ambulanti. Non dimentichiamo i due cani Phann e Black, dei quali il capitano aveva già potuto apprezzare le qualità nelle sue cacce alla selvaggina da pelo e da penna. Il Bengala è forse, se non la più curiosa, almeno la più ricca delle presidenze dell'Indostan. Non è evidentemente il paese propriamente detto dei rajah, che comprende più particolarmente il centro di quel vasto regno; ma questa provincia si estende su un territorio assai popoloso, che può essere considerato come il vero paese degli indù. Essa giunge, a nord, fino alle insuperabili frontiere dell'Himalaya, e il nostro itinerario doveva farcela tagliare obliquamente. Dopo una discussione sulle prime tappe, ci eravamo tutti accordati su questo progetto: risalire per alcune leghe l'Hougly, che è il braccio del Gange che bagna Calcutta, lasciare sulla destra la città francese di Chandernagor, di là seguire la linea ferroviaria fino a Burdwan, poi attraversare di sbieco il Béhar, in modo da ritrovare il Gange a Bénares. — Amici miei, — aveva detto il colonnello Munro, — lascio assolutamente a voi la direzione del viaggio... Decidete senza di me. Tutto quello che farete sarà ben fatto. — Mio caro Munro, — rispose Banks, — però bisogna che tu dia il tuo parere... — No, Banks, — riprese il colonnello, — mi rimetto a te, e non ho davvero delle preferenze per visitare una provincia piuttosto che un'altra. Mi limito a fare una sola domanda: quando avrete raggiunto Bénares, che direzione contate di prendere? — La direzione del nord! — esclamò impetuosamente il capitano Hod — la strada che risale direttamente fino alle prime falde dell'Himalaya, attraverso il regno d'Oudh! — Ebbene, amici miei, allora... — rispose il colonnello Munro, — forse vi domanderò di... Ma ne parleremo a suo tempo. Fino a quel momento, andate come preferite! Questa risposta di sir Edward Munro non mancò di stupirmi un poco. Qual era dunque il suo pensiero? Aveva forse acconsentito a intraprendere quel viaggio con l'idea che il caso avrebbe potuto servirlo meglio di quanto aveva potuto fare la sua volontà? Pensava che, se Nana Sahib non era morto, sarebbe forse riuscito a ritrovarlo nel nord dell'India? Infine, aveva conservato qualche speranza di potersi vendicare ancora? Quanto a me, avevo come un presentimento che qualche pensiero nascosto guidasse il colonnello Munro, e mi sembrò che il sergente Mac Neil dovesse conoscere il segreto del suo padrone. Durante le prime ore di quel mattino, ci eravamo sistemati nel salotto della Steam-House. La porta e le due finestre della veranda erano aperte, e la punka, agitando l'aria, rendeva la temperatura più sopportabile. Il Gigante d'Acciaio era mantenuto al passo dall'acceleratore di Storr. Una lega all'ora era tutto quello che gli domandavano, per il momento, i viaggiatori desiderosi di vedere il paese che attraversavano. All'uscita dai sobborghi di Calcutta, eravamo stati seguiti da un certo numero di europei, meravigliati dal nostro equipaggio, e da una folla di indù che stavano a guardarlo con una specie d'ammirazione mista a timore. Quella folla si era a poco a poco diradata, ma non sfuggivamo allo stupore dei passanti, che prodigavano i loro «wahs! wahs!» di ammirazione. Naturalmente tutte quelle interiezioni non erano tanto per i due superbi vagoni quanto per il gigantesco elefante che li trascinava emettendo turbini di vapore. Alle dieci, venne apparecchiata la tavola nella sala da pranzo, e certamente con minori scosse della colazione del signor Parazard. La strada che il nostro treno seguiva costeggiava allora la riva sinistra dell’Hougly, il più occidentale dei numerosi bracci del Gange, l'insieme dei quali costituisce l'inestricabile rete del delta delle Sunderbunds. Tutta questa parte di territorio è di formazione alluvionale. — Quello che vedete laggiù, caro Maucler — mi disse Banks, — è una conquista del fiume sacro sul golfo non meno sacro del Bengala. Questione di tempo. Non c'è forse una particella di questa terra che non sia venuta dalle frontiere dell'Himalaya, trasportata dalla corrente del Gange. Il fiume, a poco a poco, ha smangiato la montagna per formare il suolo di questa provincia, in cui si è aperto un letto... — Che abbandona spesso per un altro! — aggiunse il capitano Hod. — Ah! è capriccioso, bizzarro, lunatico, questo Gange! Si costruisce una città sulle sue rive, e, alcuni secoli più tardi, la città è in mezzo a una pianura, i suoi lungofiume sono a secco, il fiume ha cambiato direzione e foce! Così è per Rajmahal, così per Gaur, entrambe un tempo bagnate dall'infedele corso d'acqua, e che ora muoiono di sete in mezzo alle risaie disseccate della pianura! — Eh! — feci io, — non si può temere che una sorte simile sia riservata a Calcutta? — Chi lo sa? — Beh! non ci siamo ancora! — ribatté Banks. — È solo questione di dighe! Se è necessario, gli ingegneri sapranno bene trattenere gli straripamenti del Gange! Gli si metterà la camicia di forza! — Fortunatamente per voi, caro Banks, — risposi, — gli indù non vi sentono parlare così del loro fiume sacro! Non ve lo perdonerebbero! — Infatti, — rispose Banks, — il Gange è un figlio di Dio, se pure non è Dio stesso, e nulla di quello che egli fa è mal fatto, ai loro occhi! — Nemmeno le febbri, il colera, la peste che mantiene allo stato endemico! — esclamò il capitano Hod. — È vero che le tigri e i coccodrilli che formicolano nelle Sunderbunds non ne soffrono. Anzi! Si direbbe, in verità, che l'aria pestifera si addica a quegli animali come l'aria pura di un sanitarium agli anglo-indiani durante la stagione calda. Oh! questi carnivori! Fox? — disse Hod voltandosi verso il suo attendente, che sparecchiava la tavola. — Capitano? — rispose Fox. — Non è là che hai ucciso la tua trentasettesima? — Sì, capitano, a due miglia da Port-Canning, — rispose Fox. — Era una sera... — Basta, Fox! — riprese il capitano vuotando un gran bicchiere di grog, — conosco la storia della trentasettesima. Quella della trentottesima m'interesserebbe di più! — La trentottesima non è ancora ammazzata, capitano! — L'ammazzerai, Fox, come io ammazzerò la mia quarantunesima! Nelle conversazioni del capitano Hod e del suo attendente, la parola «tigre», come si vede, non veniva mai pronunciata. Era inutile. I due cacciatori si intendevano. Frattanto, a mano a mano che procedevamo, l'Hougly, largo circa un chilometro davanti a Calcutta, restringeva a poco a poco il suo letto. A monte della città, le rive che ne contengono il corso sono abbastanza basse. Là troppo spesso si formano violentissimi cicloni che estendono i loro disastri su tutta la provincia. Quartieri interamente distrutti, centinaia di case schiacciate le une contro le altre, immense piantagioni devastate, migliaia di cadaveri sparsi per la città e per la campagna, ecco le rovine che quegli irresistibili fenomeni atmosferici si lasciano dietro e dei quali il ciclone del 1864 fu uno dei più terribili esempi. È noto che il clima dell'India comprende tre stagioni: la stagione delle piogge, la stagione fredda, la stagione calda. Quest'ultima è la più corta, ma è anche la più dura da affrontare. Marzo, aprile e maggio sono tre mesi particolarmente temibili. Fra tutti, maggio è il più caldo. In questo mese, affrontare il sole a certe ore del giorno è rischiare la vita, almeno per gli europei. Non è raro, infatti, che, anche all'ombra, il. termometro salga fino a 106 gradi Fahrenheit (circa 41 centigradi). «Gli uomini», dice il signor di Valbezen, «ansimano allora come cavalli bolsi, e, durante la guerra di repressione, ufficiali e soldati erano costretti a ricorrere alle docce sulla testa per prevenire le congestioni». Tuttavia, grazie al movimento della Steam-House, all'agitazione dell'aria prodotta dai battiti della punka, all'atmosfera umida che circolava attraverso gli schermi di vetiveria bagnati frequentemente, non soffrivamo troppo il caldo. Del resto, la stagione delle piogge, che dura dal mese di giugno al mese di ottobre, non era lontana, e si doveva temere che fosse più sgradevole della stagione calda. In fin dei conti, nelle condizioni in cui avveniva il nostro viaggio, non avevamo nulla di grave da temere. Verso l'una del pomeriggio, dopo una deliziosa passeggiata al passo, fatta senza uscire da casa nostra, eravamo giunti a Chandernagor. Avevo già visitato questa parte di territorio, la sola che rimanga alla Francia in tutta la presidenza del Bengala. Questa città, su cui sventola la bandiera tricolore e che non ha diritto di tenere più di quindici soldati di guardia, questa antica rivale di Calcutta durante le lotte del secolo XVIII, è oggi molto decaduta, senza industrie, senza commercio, i suoi bazar sono abbandonati, il suo forte è vuoto. Forse Chandernagor avrebbe ripreso un po' di vitalità se la ferrovia di Allahabad avesse attraversato o almeno costeggiato le sue mura; ma, davanti alle esigenze del governo francese, la compagnia inglese ha preferito far procedere obliquamente la linea ferroviaria in modo da aggirare il nostro territorio, e così Chandernagor ha perduto l'unica occasione per riacquistare un po' di importanza commerciale. Il nostro treno non entrò dunque nella città. Si fermò a tre miglia, sulla strada, all'ingresso d'un bosco di latanie. Quando venne posto il campo, si sarebbe detto che in quel luogo stesse per sorgere un nuovo villaggio. Ma il villaggio era mobile, e, il giorno seguente, 7 maggio, riprendeva il suo cammino interrotto, dopo una notte calma, passata nelle nostre comode cabine. Durante quella sosta, Banks aveva fatto rinnovare il combustibile. Benché la macchina avesse consumato poco, egli voleva che il tender portasse sempre il suo carico intero, ossia acqua, legna e carbone necessari per una autonomia di sessanta ore. Il capitano Hod e il suo fedele Fox non mancavano di applicare questa regola a loro stessi, e il loro forno interno (voglio dire il loro stomaco, che offriva una grande superficie di riscaldamento) era sempre munito di quel combustibile azotato, che è indispensabile per far procedere bene e a lungo la macchina umana. Questa volta, la tappa doveva essere più lunga. Dovevamo viaggiare per due giorni, riposare due notti, in modo da giungere a Burdwan e visitare questa città durante la giornata del 9. Alle sei del mattino, Storr faceva dare un fischio acuto, spurgava i cilindri, e il Gigante d'Acciaio prendeva un'andatura un po' più rapida di quella del giorno precedente. Per alcune ore avevamo costeggiato la ferrovia che da Burdwan va a raggiungere a Rajmahal la valle del Gange, lungo la quale prosegue poi fino al di là di Bénares. Il treno di Calcutta passò a grande velocità. Sembrava sfidarci con le esclamazioni ammirative dei viaggiatori. Non rispondemmo alla loro sfida. Potevano correre più rapidamente di noi, ma più comodamente, no! Il paese che attraversammo in quei due giorni era invariabilmente piatto e, per ciò stesso, abbastanza monotono. Qua e là ondeggiava qualche flessibile palma da cocco, i cui ultimi esemplari stavano per rimanere indietro, al di là di Burdwan. Questi alberi, che appartengono alla grande famiglia delle palme, prediligono le coste e amano trovare delle molecole d'aria marina nell'atmosfera che respirano. Perciò, all'infuori che in una zona abbastanza stretta che confina con il litorale, non si incontrano più, ed è inutile cercarli nell'India centrale. Ma la flora dell'interno non è per questo meno interessante e varia. Da ogni lato della strada non c'era, per parlare propriamente, che un immenso scacchiere di risaie, che si disegnava a perdita d'occhio. Il suolo era diviso in quadrilateri arginati come le saline o le colture di ostriche di un litorale. Ma il colore verde dominava, e il raccolto prometteva di essere ricco su quel territorio umido e caldo, le cui nebbie ne indicavano la prodigiosa fertilità. La sera successiva, all'ora fissata, con un'esattezza che un espresso avrebbe invidiato, la macchina dava il suo ultimo colpo di vapore e si fermava alle porte di Burdwan. Amministrativamente, questa città è il capoluogo di un distretto inglese, ma il distretto appartiene come proprietà a un maharajah, che paga non meno di dieci milioni di tasse al governo. La città è in gran parte composta di case basse, separate da bei viali d'alberi, palme da cocco e areche. Questi viali erano larghi abbastanza da lasciar passare il nostro treno. Andammo dunque ad accamparci in un posto bellissimo, pieno d'ombra e di frescura. Quella sera, la capitale del maharajah ebbe un piccolo quartiere di più. Era il nostro villaggio portatile, il nostro villaggio di due case, e non l'avremmo cambiato per tutto il quartiere in cui sorge lo splendido palazzo d'architettura anglo-indiana del sovrano di Burdwan. Il nostro elefante, lo si può bene immaginare, produsse il suo solito effetto, ossia una specie di terrore ammirativo in tutti quei bengalesi che accorrevano da ogni parte, con la testa nuda, i capelli tagliati à la Titus 14 e, per tutto vestito, gli uomini un perizoma intorno alle reni, le donne un sari bianco che le avvolgeva dalla testa ai piedi. — Ho un solo timore, — disse il capitano Hod, — che il maharajah voglia comperare il nostro Gigante d'Acciaio, e che ne offra una somma tale, che noi si debba essere costretti a venderlo a Sua Altezza! — Mai! — esclamò Banks. — Gli fabbricherò un altro elefante quando vorrà, e così potente che sarà in grado di trascinare tutta la sua capitale da un'estremità all'altra dei suoi Stati! Ma il nostro, non lo venderemo a nessun prezzo, non è vero, Munro? — A nessun prezzo! — rispose il colonnello con il tono di un uomo che l'offerta di un milione non avrebbe potuto sedurre. Del resto, l'acquisto del nostro colosso non ebbe occasione di essere discusso. Il maharajah non era a Burdwan. La sola visita che ricevemmo fu quella del suo kàmdar, specie di segretario intimo, che venne a esaminare il nostro equipaggio. Dopo di che quel dignitario ci offrì (e noi accettammo ben volentieri) di visitare i giardini del palazzo, dove si trovavano i più begli esemplari della vegetazione tropicale, innaffiati con acque vive che si distribuiscono in stagni o corrono in ruscelli, di visitare il parco, adorno di chioschi bizzarri di 14 Ossia tagliati egualmente corti davanti come dietro. (N.d.T.) effetto piacevolissimo, letteralmente tappezzato di aiuole verdeggianti, popolato di caprioli, cervi, daini, elefanti, che rappresentavano la fauna domestica, e di tigri, leoni, pantere, orsi, rappresentanti la fauna selvaggia, sistemati in superbi serragli. — Tigri in gabbia come uccelli, capitano! — esclamò Fox. — È una cosa che fa pietà! — Sì, Fox, — rispose il capitano. — Se si consultassero, queste oneste belve, preferirebbero vagabondare liberamente nelle jungle... anche a tiro di una carabina a proiettili esplosivi! — Ah! come le capisco, capitano! — fece l'attendente lasciandosi sfuggire un sospiro. Il giorno seguente, 10 maggio, lasciavamo Burdwan. La SteamHouse, ben approvvigionata, attraversava la ferrovia a un passaggio a livello, e si dirigeva direttamente verso Ramghur, città posta a settantacinque leghe circa da Calcutta. Questo itinerario lasciava, è vero, alla nostra destra, l'importante città di Murchedabad, che non ha però nulla di curioso né nella sua parte indiana né nella sua parte inglese; Monghir, una specie di Birmingham dell'Indostan, appollaiata su un promontorio che domina il corso del fiume sacro; Patna, la capitale di quel regno del Béhar che dovevamo attraversare obliquamente, ricco centro di commercio per l'oppio, e che tende a scomparire sotto l'invasione delle piante rampicanti, di cui la sua flora è particolarmente ricca. Ma avevamo di meglio da fare: seguire una direzione più meridionale, due gradi al disotto della valle del Gange. Durante questa parte del viaggio, il Gigante d'Acciaio fu spinto un po' e mantenne un trotto leggero, che ci permise di apprezzare l'eccellente sistemazione delle nostre case sospese. La strada, d'altronde, era bella e si prestava alla prova. Era possibile che i grandi carnivori si spaventassero alla vista del gigantesco elefante che emetteva fumo e vapore? In ogni caso, con gran stupore del capitano Hod, non ne vedevamo nessuno in mezzo alle jungle di quel territorio. Del resto, era attraverso le regioni settentrionali dell'India, non nelle province del Bengala, che egli contava di soddisfare i suoi istinti di cacciatore e non pensava ancora a lamentarsi. Il 15 maggio, eravamo vicini a Ramghur, a cinquanta leghe circa da Burdwan. La media della velocità era stata di una quindicina di leghe ogni dodici ore, non di più. Tre giorni dopo, il 18, il treno si fermava cento chilometri più lontano, vicino alla piccola città di Chittra. Nessun incidente si era verificato durante questo primo periodo del viaggio. Le giornate erano calde, ma quanto era facile la siesta al riparo delle verande! Vi trascorrevamo le ore più calde in un delizioso farniente 15 Venuta la sera, Storr e Kâlouth, sotto gli occhi di Banks, si occupavano di pulire la caldaia e di esaminare la macchina. Frattanto, il capitano Hod ed io, accompagnati da Fox, da Goûmi e dai due cani da ferma, andavamo a cacciare nei dintorni dell'accampamento. Si trattava ancora della piccola selvaggina da pelo e da piuma; ma se il capitano la disprezzava come cacciatore, non la disprezzava come buongustaio, e il giorno seguente, con gran contentezza sua e con gran soddisfazione del signor Parazard, il menu del pranzo conteneva qualche piatto saporito, che risparmiava le nostre conserve. Qualche volta, Goûmi e Fox rimanevano per adempiere alle funzioni di taglialegna e di portatori d'acqua. Non bisognava forse approvvigionare il tender per il giorno successivo? Perciò, per quanto era possibile, Banks sceglieva i punti di fermata in riva a un ruscello, vicino a qualche bosco. Tutto questo approvvigionamento indispensabile si faceva sotto la direzione dell'ingegnere, che non trascurava nessun particolare. Poi, quando tutto era finito, accendevamo i nostri sigari, degli ottimi cheruts di Manilla, e fumavamo chiacchierando di quel paese che Hod e Banks conoscevano a fondo. Il capitano, sdegnando il sigaro volgare, aspirava con i suoi vigorosi polmoni, attraverso un tubo lungo venti piedi, il fumo aromatico di un houkah, accuratamente riempito dal suo attendente. Il nostro più gran desiderio sarebbe stato che il colonnello Munro ci seguisse in quelle rapide escursioni nei dintorni dell'accampamento. Invariabilmente glielo proponevamo al momento 15 In italiano nell'originale. (N.d.T.) di partire, ma, altrettanto invariabilmente, egli declinava la nostra offerta e rimaneva con il sergente Mac Neil. Entrambi allora passeggiavano per la via, avanti e indietro per un centinaio di passi. Parlavano poco, ma pareva che si comprendessero a meraviglia, e non avevano bisogno di scambiarsi parole per scambiare dei pensieri. Erano entrambi interamente assorti in quei funesti ricordi che nulla poteva cancellare. Chissà anzi se tali ricordi non si ravvivavano a mano a mano che sir Edward Munro e il sergente si avvicinavano al teatro della sanguinosa insurrezione! Evidentemente un'idea ben precisa, che dovevamo conoscere soltanto più tardi, e non il semplice desiderio di non separarsi da noi, aveva indotto il colonnello Munro a unirsi alla spedizione nel nord dell'India. Devo dire che Banks e il capitano Hod condividevano il mio parere a questo proposito. Perciò, tutti e tre, non senza una certa inquietudine per l'avvenire, ci domandavamo se quell'elefante d'acciaio, correndo attraverso le pianure della penisola, non trascinasse con sé tutto un dramma. CAPITOLO VII I PELLEGRINI DEL PHALGU IL BÉHAR formava un tempo l'impero di Magadha. Era una specie di territorio sacro, al tempo dei buddisti, ed è ancora coperto di templi e di monasteri. Ma, da molti secoli, i bramini sono succeduti ai sacerdoti di Budda. Essi si sono impadroniti dei vihara, li sfruttano, vivono dei prodotti del culto; i fedeli giungono loro da ogni parte; ed essi fanno concorrenza alle acque sacre del Gange, ai pellegrinaggi di Bénares, alle cerimonie di Jaggernaut; insomma si può dire che la regione appartiene a loro. Paese ricco, con le sue immense risaie verde smeraldo e le sue vaste piantagioni di papaveri, con le sue numerose borgate, perdute nella verzura, ombreggiate da palmizi, manghi, palme da dattero, da taras, sui quali la natura ha gettato, come una rete, un inestricabile viluppo di liane. Le strade percorse dalla Steam-House sono altrettanti pergolati frondosi, in cui un terreno umido mantiene la frescura. Procediamo, con la carta geografica sotto gli occhi, senza mai temere di smarrirci. I barriti del nostro elefante si mescolano con gli assordanti concerti degli uccelli e con i gridi discordi delle tribù di scimmie. Il suo fumo avvolge di fitte volute i phénix campestri e i banani, i cui frutti dorati spiccano come stelle in mezzo a nuvole leggere. Al suo passaggio si alzano in volo stormi di quegli uccellini delle risaie, che confondono le loro piume candide con le bianche spirali del vapore. Qua e là gruppi di baniani, boschetti di pompelmi, aiuole di dalhs, specie di pisello arborescente sostenuto da uno stelo alto un metro, crescono vigorosamente e fanno contrasto con i paesaggi dello sfondo. Ma che caldo! È molto se un po' d'aria umida si propaga attraverso gli schermi di vetiveria delle nostre finestre! Gli hot winds, i venti caldi, che si sono caricati di calore accarezzando la superficie delle lunghe pianure occidentali, coprono la campagna con il loro soffio infuocato. È tempo che il monsone di giugno venga a modificare lo stato atmosferico. Nessuno potrebbe sopportare gli ardori di questo sole di fuoco, senza essere minacciato di soffocamento mortale. Quindi la campagna è deserta. I raiot stessi, benché agguerriti contro questi raggi infuocati, non potrebbero dedicarsi ai lavori agricoli. Soltanto la strada ombrosa è praticabile, a patto però di percorrerla al riparo del nostro bungalow ambulante. Bisogna che il fuochista Kalouth sia, non dirò di platino, perché il platino fonderebbe, ma di carbonio puro, per non entrare in fusione davanti alla grata ardente della sua caldaia. No! il bravo indù resiste. Si è fabbricato una specie di seconda natura refrattaria, a forza di vivere sulla piattaforma delle locomotive, percorrendo le linee ferroviarie dell'India centrale! Il termometro appeso alle pareti della sala da pranzo ha segnato centosei gradi Fahrenheit (41° 11' centigradi) nella giornata del 19 maggio. Quella sera non abbiamo potuto fare la nostra passeggiata igienica dell'hawakana. Questa parola significa esattamente mangiare dell'aria, cioè che, dopo i soffocamenti prodotti da una giornata tropicale, si va a respirare l'aria tiepida e pura della sera. Questa volta, è l'atmosfera che ci avrebbe divorati. — Signor Maucler, — mi disse il sergente Mac Neil, — questo mi ricorda gli ultimi giorni di marzo, durante i quali sir Hugh Rose, con una batteria di due pezzi soltanto, tentava di far breccia nella cinta di Jansi. Erano sedici giorni che avevamo passato il Betwa, e da sedici giorni non si era tolta la briglia ai cavalli. Ci battevamo fra enormi mura di granito, che è come dire fra le pareti di mattoni di una fornace. Fra le nostre file passavano alcuni chitsis che portavano dell'acqua nei loro otri, e mentre noi sparavamo ce la versavano sul capo, senza di che saremmo caduti fulminati. Guardate! Mi ricordo! Ero sfinito. Il cranio mi scoppiava. Stavo per cadere... Il colonnello Munro mi vede, e, strappato l'otre dalle mani di un chitsi, me lo versa addosso... ed era l'ultimo che i portatori avevano potuto procurarsi!... Queste cose non si dimenticano, vedete! No! goccia di sangue per goccia d'acqua! E quando avrò dato tutto il mio per il colonnello, sarò ancora suo debitore! — Sergente Mac Neil, — domandai, — non vi pare che, dopo la nostra partenza, il colonnello Munro abbia l'aria più preoccupata del solito? Sembra che ogni giorno... — Sì, signore, — rispose Mac Neil, che m'interruppe piuttosto vivacemente, — ma è naturalissimo! Il colonnello si avvicina a Lucknow, a Cawnpore, là dove Nana Sahib ha fatto trucidare... Ah! non posso parlarne senza che il sangue mi salga alla testa! Forse sarebbe stato meglio modificare l'itinerario del viaggio, e non attraversare le province che la rivolta ha devastato! Siamo ancora troppo vicini a quei terribili avvenimenti perché il ricordo ne sia affievolito. — Perché non cambiare strada? — dissi allora. — Se volete, Mac Neil, ne parlerò a Banks, al capitano Hod... — Troppo tardi, — rispose il sergente. — Ho ragione di credere, del resto, che il colonnello ci tenga a rivedere, un'ultima volta forse, il teatro di quella guerra orribile, e che voglia andare là dove lady Munro ha trovato la morte, e quale morte! — Se lo credete, Mac Neil, — feci io, — sarà meglio lasciar fare il colonnello Munro, e non mutare nulla nei nostri progetti. Spesso andare a piangere sulla tomba di coloro che ci son cari è una consolazione, una specie di addolcimento del dolore... — Sulla tomba, si! — esclamò Mac Neil. — Ma è forse una tomba quel pozzo di Cawnpore, dove tante vittime sono state precipitate alla rinfusa? È forse un monumento funebre, quello, che ci possa ricordare quelli che mani pietose curano nei nostri cimiteri di Scozia, in mezzo ai fiori, sotto l'ombra dei begli alberi, con un nome, uno solo, il nome di colui che non è più? Ah! signore, temo che il dolore del colonnello sia spaventoso! Ma, ve lo ripeto, ormai è troppo tardi per distoglierlo da questa strada. Potrebbe darsi che in tal caso egli rifiuterebbe di seguirci! Sì! lasciamo che le cose vadano per conto loro, e che Dio ci guidi! Evidentemente, Mac Neil, parlando così, sapeva come comportarsi davanti ai progetti di sir Edward Munro. Ma mi diceva tutto ed era solo il proposito di rivedere Cawnpore che aveva indotto il colonnello a lasciare Calcutta? Ad ogni modo, ora egli era attirato come da una calamita verso il teatro su cui si era svolta la conclusione di quel funesto dramma!... Bisognava lasciarlo fare! Pensai allora di domandare al sergente se, personalmente, egli avesse rinunciato a ogni idea di vendetta, in una parola, se credesse che Nana Sahib fosse morto. — No, — mi rispose nettamente Mac Neil. — Benché non abbia nessun indizio su cui basare la mia opinione, non credo, non posso credere che Nana Sahib abbia potuto morire senza essere stato punito di tanti delitti! No! Eppure, non so nulla, non ho appreso nulla!... E come un istinto che mi spinge!... Ah! Signore! Farsi uno scopo di una legittima vendetta, sarebbe qualche cosa nella vita! Voglia il cielo che i miei presentimenti non mi ingannino, e un giorno... Il sergente non finì la frase. Il suo gesto indicò ciò che la sua bocca non aveva voluto dire. Il servitore era all'unisono con il padrone. Quando riferii la sostanza di questa conversazione a Banks e al capitano Hod, entrambi furono d'accordo nel dire che l'itinerario non doveva e non poteva essere modificato. Del resto non si era mai parlato di passare per Cawnpore, e, una volta attraversato il Gange a Bénares, dovevamo avviarci direttamente al nord attraversando la parte orientale dei regni di Oudh e del Rohilkhand. Qualsiasi cosa potesse pensare Mac Neil, non era provato che sir Edward Munro volesse rivedere Lucknow o Cawnpore, che gli avrebbero richiamato alla mente tanti orribili ricordi; ma infine, se lo avesse voluto, non lo si sarebbe contrariato su tale argomento. Quanto a Nana Sahib, la sua notorietà era tale che, se la notizia che ne segnalava la riapparizione nella presidenza di Bombay era vera, avremmo dovuto sentirne parlare ancora. Ma alla nostra partenza da Calcutta non si parlava già più del nababbo, e le informazioni che avevamo raccolto per via facevano pensare che le autorità fossero state indotte in errore. In ogni caso, se, per assurdo, vi fosse stato in esse qualche cosa di vero, se il colonnello Munro aveva un piano segreto, poteva sembrare strano che Banks, il suo più intimo amico, non ne fosse stato fatto partecipe con la precedenza sul sergente Mac Neil. Ma ciò doveva senza dubbio dipendere, come disse Banks, dal fatto che egli avrebbe fatto di tutto per impedire al colonnello di buttarsi in ricerche pericolose e inutili, mentre il sergente doveva spingervelo! Il 19 maggio, verso mezzogiorno, avevamo superato la cittadina di Chittra. La Steam-House era ormai a quattrocentocinquanta chilometri dal punto di partenza. L'indomani, 20 maggio, all'imbrunire, il Gigante d'Acciaio giungeva, dopo una giornata torrida, nei dintorni di Gaya. La sosta venne fatta sulla riva di un fiume sacro, il Phalgu, ben noto ai pellegrini. Le due case vennero sistemate su una bella sponda, ombreggiata da begli alberi, a due miglia circa dalla città. Era nostra intenzione passare lì trentasei ore, ossia due notti e un giorno, poiché il luogo era molto originale da visitare, come ho già detto in precedenza. Il giorno dopo, fin dalle quattro del mattino, per evitare i calori del mezzogiorno, Banks, il capitano Hod e io, dopo esserci accomiatati dal colonnello Munro, ci dirigemmo verso Gaya. Dicono che in questo centro delle istituzioni bramimene affluiscano ogni anno centocinquantamila devoti. Infatti, nei dintorni della città, le strade erano invase da un grandissimo numero di uomini, donne, vecchi e fanciulli. Tutta questa gente avanzava in processione, attraverso la campagna, dopo avere sfidato le mille fatiche di un lungo pellegrinaggio, per compiere i suoi doveri religiosi. Banks aveva già visitato questo territorio del Béhar quando stava progettando una linea ferroviaria che non è ancora in via di realizzazione. Perciò conosceva il paese, e non potevamo avere una guida migliore. Del resto egli aveva costretto il capitano Hod a lasciare all'accampamento tutto il suo equipaggiamento da cacciatore. Non c'era da temere, dunque, che il nostro Nemrod ci abbandonasse per strada. Un po' prima di giungere alla città, alla quale si può dare giustamente il nome di città santa, Banks ci fece sostare davanti a un albero sacro, intorno al quale pellegrini di tutte le età e d'ogni sesso stavano in atteggiamento d'adorazione. Quell'albero era un pipai dal tronco enorme; ma benché la maggior parte dei suoi rami fossero già caduti per vecchiaia, esso non doveva avere più di due o trecento anni d'esistenza. È quanto avrebbe constatato il signor Louis Rousselet, due anni più tardi, nel suo interessante viaggio attraverso l'India dei rajah. Albero Boddhi, ecco, in religione, il nome di quest'ultimo rappresentante della generazione dei pipai sacri, che ombreggiarono questa stessa piazza, per una lunga serie di secoli, ed il primo dei quali fu piantato cinquecento anni prima dell'era cristiana. È probabile che, per i fanatici prosternati ai suoi piedi, quello fosse lo stesso albero consacrato da Budda in quel luogo. Ora esso sorge su una terrazza in rovina, vicino a un tempio di mattoni, la cui origine è evidentemente antichissima. La presenza di tre europei in mezzo a quelle migliaia di indù non fu vista molto di buon occhio. Quantunque non ci venisse detto nulla, pure non potemmo giungere fino alla terrazza né penetrare nelle rovine del tempio. Del resto i pellegrini le ingombravano e sarebbe stato difficile aprirsi un passaggio in mezzo a loro. — Se ci fosse stato qualche bramino, — disse Banks, — la nostra visita sarebbe stata più completa, e forse avremmo potuto visitare l'edificio fin nelle sue parti più interne. — Come! — risposi, — un sacerdote sarebbe stato meno severo dei propri fedeli? — Mio caro Maucler, — rispose Banks, — non c'è severità che resista all'offerta di qualche rupia. Dopo tutto bisogna pure che i bramini campino come possono. — Non ne vedo la necessità, — rispose il capitano Hod, che aveva il torto di non nutrire per gli indù, i loro costumi, i loro pregiudizi, i loro usi e gli oggetti della loro venerazione, la tolleranza che i suoi compatrioti accordano loro molto giustamente. Per il momento, l'India per lui era solo un ampio territorio di «riserve di caccia», e, alla popolazione delle città o delle campagne, egli preferiva sicuramente i feroci carnivori delle jungle. Dopo una sosta adeguata ai piedi dell'albero sacro, Banks ci condusse sulla strada in direzione di Gaya. A mano a mano che ci avvicinavamo alla città santa, la folla dei pellegrini aumentava. Ben presto, in una radura del bosco, Gaya ci apparve sulla vetta della rupe che essa corona con le sue costruzioni pittoresche. Ciò che attira soprattutto l'attenzione dei turisti in questo luogo è il tempio di Vishnu. Esso è di costruzione moderna, poiché è stato ricostruito, pochi anni or sono, dalla regina di Holcar. La grande curiosità di questo tempio sono le impronte lasciate da Vishnu in persona, quando si degnò di scendere sulla terra per lottare con il demone Maya. La lotta fra un dio e un demonio non poteva rimanere incerta per un pezzo. Il demone soccombette, e un macigno, che può essere visto nel recinto stesso di Vishnu-Pad, attesta, mediante le profonde impronte dei piedi del suo avversario, che quel diavolo aveva a che fare con un avversario terribile. Ho detto «un macigno che può essere visto», e mi affretto ad aggiungere «che può essere visto solo dagli indù». Infatti, nessun europeo viene ammesso a contemplare queste reliquie divine. Forse, per distinguerle bene sulla pietra miracolosa, occorre una fede robusta, che non si trova più nei credenti delle regioni occidentali. Questa volta, checché ne dicesse, Banks fece inutilmente l'offerta delle sue rupie. Nessun sacerdote volle accettare ciò che sarebbe stato il premio per un sacrilegio. O forse la somma non fu alla altezza della coscienza di un bramino? Non oserei chiarire questo punto. Fatto è che non potemmo penetrare nel tempio, e non so ancora come sia la misura del piede di quel dolce e bel giovane d'un colore azzurrino, vestito come un re dei tempi antichi, celebre per le sue dieci incarnazioni, che rappresenta il principio conservatore opposto a Siva, il truce emblema del principio distruttore, e che i Vaichnava, adoratori di Vishnu, riconoscono come il primo dei trecentotrenta milioni di dèi che popolano la loro mitologia eminentemente politeistica. Ma non c'era da rammaricarci della nostra escursione alla città santa e al Vishnu-Pad. Descrivere la confusione di templi, la successione di corti, l’agglomeramento di vihara, che dovemmo aggirare o attraversare per giungere fino ad esso, sarebbe impossibile. Teseo stesso, con il filo d'Arianna in mano, si sarebbe perduto in quel labirinto! Perciò ridiscendemmo la rupe di Gaya. Il capitano Hod era furibondo. Avrebbe voluto conciare per le feste il bramino che ci rifiutava l'accesso al Vishnu-Pad. — Siete pazzo, Hod? — gli aveva detto Banks trattenendolo. — Non sapete che gli indù considerano i loro sacerdoti, i bramini, non solo come esseri di sangue illustre, ma anche come esseri di origine superiore? Quando fummo arrivati alla parte del Phalgu che bagna la rupe di Gaya, l'enorme massa dei pellegrini si spiegò ampiamente sotto i nostri occhi. Là stavano gomito a gomito, in una confusione senza nome, uomini e donne, vecchi e bambini, cittadini e contadini, ricchi babu e poveri raiot della più infima casta, Vaichya, mercanti e agricoltori. Kchatrya, superbi guerrieri del paese, Sudra, miserabili artigiani di sette diverse, paria, che sono fuori della legge e i cui occhi contaminano gli oggetti che essi guardano; in una parola, tutte le classi o tutte le caste dell'India, il vigoroso Radjupt che respinge col gomito il debole bengalese, la gente del Pendjab contrapposta ai maomettani dello Scind. Gli uni sono venuti in palanchino, gli altri in carri trascinati dai grandi buoi gibbosi. Questi sono sdraiati accanto ai loro cammelli, la cui testa viperina si allunga sul suolo; quelli hanno fatto la strada a piedi, e ne giungono ancora da tutte le parti della penisola. Qua e là si rizzano delle tende, qua e là si vedono dei carri staccati, delle capanne di rami, che servono da dimora provvisoria a tutta questa gente. — Che folla! — disse il capitano Hod. — Le acque del Phalgu non saranno molto potabili al tramonto! — fece osservare Banks. — E perché? — domandai. — Perché sono acque sacre, e tutta questa folla sospetta vi si bagnerà, come fanno i gangisti nelle acque del Gange. — Siamo forse a valle? — esclamò Hod tendendo la mano nella direzione in cui si trovava il nostro accampamento. — No, capitano, rassicuratevi, — rispose l'ingegnere, — siamo a monte. — Alla buon'ora, Banks! Non bisogna abbeverare a questa sorgente impura il nostro Gigante d'Acciaio! Frattanto, passavamo in mezzo a quelle migliaia di indù, ammucchiati in uno spazio tanto ristretto. L'orecchio era colpito prima di tutto da un rumore discorde di catene e di campanelli. Erano i mendicanti, che facevano appello alla carità pubblica. Là formicolavano esemplari svariati di quella confraternita di vagabondi, tanto considerevole in tutta la penisola indiana. La maggior parte ostentava delle false piaghe, come i ClopinTrouillefou del Medioevo. Ma se i mendicanti di professione sono per la maggior parte falsi infermi, non è così dei fanatici. Infatti, sarebbe stato difficile spingere più oltre la convinzione. C'erano fachiri, gussain, seminudi, coperti di cenere; questo, con il braccio anchilosato a causa di una prolungata tensione; quello, con la mano trapassata dalle unghie delle proprie dita. Altri si erano imposti di misurare con il proprio corpo tutto la strada percorsa dalla loro partenza. Sdraiandosi sul suolo, rialzandosi, sdraiandosi ancora, avevano percorso centinaia di leghe, come se avessero servito da doppio decametro. Qui alcuni fedeli, inebriati dall’hang (oppio liquido in un infuso di canapa), erano appesi ai rami di alcuni alberi mediante uncini di ferro cacciati nelle spalle. Così appesi, giravano su se stessi finché la carne non avesse ceduto ed essi fossero caduti nelle acque del Phalgu. Più in là, altri, in onore di Siva, con le gambe bucate, la lingua forata da frecce che la passavano da parte a parte, facevano lambire da dei serpenti il sangue che colava dalle loro piaghe. Tutto quello spettacolo non poteva essere che terribilmente ributtante agli occhi di un europeo. Perciò io avevo fretta di passare oltre, quando Banks, arrestandomi all'improvviso: — L'ora della preghiera! — mi disse. In quel momento, in mezzo alla folla apparve un bramino. Egli alzò la mano destra e la tese verso il sole, che la rupe di Gaya aveva nascosto fino allora. Il primo raggio emesso dall'astro luminoso fu il segnale. La folla, quasi nuda, entrò nelle acque sacre. Vi furono allora delle semplici immersioni, come nei primi tempi del battesimo; ma, devo dirlo, non tardarono a mutarsi in veri sguazzamenti, di cui era difficile afferrare il carattere religioso. Ignoro se gli iniziati recitando gli sloca o versetti che, per un prezzo convenuto, i sacerdoti dettavano loro, pensassero più a lavare il loro corpo o la loro anima. Fatto è che, dopo aver preso dell'acqua nel cavo della mano, dopo averne asperso i quattro punti cardinali, essi se ne gettavano alcune gocce in faccia, come bagnanti che si divertano su una spiaggia in riva al mare, là dove si frangono le onde. Devo aggiungere, inoltre, che essi non dimenticavano di strapparsi almeno un capello per ogni peccato che avevano commesso. Quanti ce n'erano che avrebbero meritato d'uscire calvi dalle acque del Phalgu! Ecco quali erano le follie balneari di quei fedeli, che ora intorbidavano l'acqua con i loro tuffi improvvisi, ora la battevano con i talloni come fa un nuotatore esperto, a tal punto che gli alligatori spaventati fuggivano alla riva opposta. Là, con sguardo glauco, fisso su tutta quella folla rumorosa che invadeva il loro dominio, essi guardavano e rimanevano allineati, facendo risuonare l'aria con lo scricchiolio delle loro formidabili mascelle. I pellegrini, del resto, non se ne curavano, come se essi fossero stati delle lucertole inoffensive. Era tempo di lasciare che quei bizzarri devoti si mettessero in condizione di entrare nel Kaila, che è il paradiso di Brahma. Perciò risalimmo la riva del Phalgu, per raggiungere l'accampamento. La colazione ci riunì tutti a tavola, e il resto della giornata, che era stata estremamente calda, passò senza incidenti. Il capitano Hod, verso sera, andò a battere la pianura circostante e riportò della selvaggina minuta. Frattanto, Storr, Kâlouth e Goûmi rinnovavano la provvista d'acqua e di combustibile, e caricavano il forno. Si doveva, infatti, partire all'alba. Alle nove di sera, eravamo tutti nelle nostre camere. Si preparava una notte calmissima, ma molto buia. Fitte nuvole nascondevano le stelle e rendevano pesante l'atmosfera. Il calore non diminuiva di intensità, nemmeno dopo il tramonto. Stentai parecchio ad addormentarmi, tanto la temperatura era soffocante. Attraverso la mia finestra, che avevo lasciato aperta, penetrava solo un'aria ardente, che mi sembrava assai poco adatta alle funzioni regolari dei polmoni. Venne mezzanotte, senza che io avessi ancora trovato un solo istante di riposo. Pure avevo la ferma intenzione di dormire per tre o quattro ore prima della partenza, ma avevo anche il torto di voler impormi il sonno. Il sonno mi fuggiva. La volontà non ci può far nulla, tutt'altro. Doveva essere circa l'una del mattino, quando credetti di udire un rumore sordo che si propagava lungo le rive del Phalgu. Dapprima mi venne l'idea che, sotto l'influenza di un'atmosfera estremamente satura d'elettricità, qualche vento di burrasca cominciasse a soffiare dall'ovest. Sarebbe stato ardente, senza dubbio, ma alla fine avrebbe spostato gli strati d'aria e forse li avrebbe resi più respirabili. M'ingannavo. I rami degli alberi che servivano da riparo all'accampamento mantenevano un'assoluta immobilità. Sporsi il capo dalla mia finestra, e ascoltai. Il mormorio lontano si fece udire ancora, ma non vidi nulla. Lo specchio liquido del Phalgu era interamente scuro senza nessuno di quei riflessi tremolanti che avrebbe prodotto un movimento qualsiasi della sua superficie. Il rumore non veniva né dall'acqua né dall'aria. Tuttavia, non vidi nulla di sospetto. Perciò mi ricoricai e, finalmente vinto dalla stanchezza, cominciai ad assopirmi. Di tratto in tratto, quell'inesplicabile mormorio giungeva ancora a ondate al mio orecchio, ma finii con l'addormentarmi del tutto. Due ore dopo, nel momento in cui i primi bagliori dell'alba si diffondevano attraverso le tenebre, fui svegliato bruscamente. Chiamavano l'ingegnere. — Signor Banks? — Che cosa volete? — Venite dunque. Avevo riconosciuto la voce di Banks e quella del macchinista, che era entrato nel corridoio. Mi alzai subito e lasciai la mia cabina. Banks e Storr erano già sotto la veranda anteriore. Il colonnello Munro mi ci aveva preceduto, e il capitano Hod non tardò a raggiungerci. — Che cosa c'è? — domandò l'ingegnere. — Guardate, signore, — rispose Storr. I primi bagliori dell'alba permettevano di vedere le rive del Phalgu e una parte della strada che si stendeva davanti per parecchie miglia. La nostra sorpresa fu grande quando scorgemmo molte centinaia di indù, coricati a gruppi, che ingombravano i lati e la carreggiata. — Sono i nostri pellegrini di ieri, — disse il capitano Hod. — Che cosa fanno là? — chiesi. — Senza dubbio, aspettano che spunti il sole, — rispose il capitano, — per tuffarsi nelle acque sacre! — No, — rispose Banks. — Non possono forse fare le loro abluzioni anche a Gaya? Se sono venuti qui, è perché... — È perché il nostro Gigante d'Acciaio ha prodotto il suo solito effetto! — esclamò il capitano Hod. — Avranno saputo che un elefante gigantesco, un colosso come non ne avevano mai visti, era nelle vicinanze, e sono venuti ad ammirarlo! — Purché si limitino all'ammirazione! — rispose l'ingegnere crollando il capo. — Che cosa temi, Banks? — domandò il colonnello Munro. — Eh! temo... che questi fanatici ci sbarrino la strada e ci impediscano di proseguire! — In ogni caso, sii prudente! Con devoti di questa fatta le precauzioni non sono mai troppe. — Infatti, — rispose Banks. Poi, chiamando il fuochista: — Kâlouth, — domandò, — sono pronti i fuochi? — Sì, signore. — Ebbene, accendi. — Sì, accendi, Kâlouth! — esclamò il capitano Hod. — Metti sotto pressione, Kâlouth, e che il nostro elefante sputi in faccia a tutti questi pellegrini il suo alito di fumo e di vapore! Erano le tre e mezzo del mattino. Non occorreva che una mezz'ora al massimo perché la macchina fosse sotto pressione. I fuochi furono subito accesi, la legna crepitò nel forno, e un fumo nero sfuggì dalla gigantesca proboscide dell'elefante, la cui estremità si perdeva tra i rami dei grandi alberi. In quel momento, alcuni gruppi di indù si avvicinarono. Nella folla si produsse un movimento generale. Il nostro treno fu quasi accerchiato. I pellegrini delle prime file alzavano le braccia al cielo, le tendevano verso l'elefante, si inchinavano, si inginocchiavano, si prosternavano fino nella polvere. Era adorazione portata evidentemente al massimo. Là, sotto la veranda, eravamo il colonnello Munro, il capitano Hod e io, piuttosto preoccupati di sapere dove si sarebbe arrestato quel fanatismo. Mac Neil ci aveva raggiunti e guardava silenziosamente. Banks era andato a sistemarsi insieme con Storr nella torretta disposta sopra l'enorme animale e dalla quale egli poteva dirigerlo a suo piacimento. Alle quattro la caldaia rombava. Questo rumore doveva essere preso dagli indù per il brontolio irritato di un elefante d'un ordine soprannaturale. In quel momento, il manometro indicava una pressione di cinque atmosfere, e Storr lasciava sfuggire dalle valvole il vapore, come se esso avesse traspirato attraverso la pelle del gigantesco pachiderma. — Siamo sotto pressione, Munro! — gridò Banks. — Avanti, Banks, — rispose il colonnello, — ma con prudenza e non schiacciamo nessuno! Era quasi giorno. La strada che segue la riva del Phalgu era interamente occupata da quella folla di devoti, poco disposta a lasciarci passare. In quella situazione, andare avanti senza schiacciare nessuno non era cosa facile. Banks diede due o tre colpi di fischietto, ai quali i pellegrini risposero con urla frenetiche. — Fatevi da parte! Fatevi da parte! — gridò l'ingegnere, ordinando al macchinista di azionare un po' l'acceleratore. I muggiti del vapore che si precipitava nei cilindri si fecero udire. La macchina si mosse di un mezzo giro di ruota. Un getto poderoso di fumo bianco usci dalla proboscide. La folla si era fatta da parte per un istante. L'acceleratore fu allora azionato a metà. I barriti del Gigante d'Acciaio crebbero, e il nostro treno cominciò a muoversi tra le fitte file degli indù, che non pareva volessero fargli posto. — Banks, attenzione! — esclamai ad un tratto. Sporgendomi al di fuori della veranda, avevo visto una dozzina di quei fanatici gettarsi in mezzo alla carreggiata con l'evidentissimo desiderio di farsi schiacciare sotto le ruote della pesante macchina. — Attenzione! Attenzione! Toglietevi di lì! — diceva il colonnello Munro, che faceva loro cenno di rialzarsi. — Imbecilli! — gridava a sua volta il capitano Hod. — Prendono il nostro treno per il carro di Jaggernaut! Vogliono farsi schiacciare sotto i piedi dell'elefante sacro! A un cenno di Banks, il macchinista sospese l'immissione del vapore. I pellegrini, sdraiati attraverso la strada, sembravano decisi a non rialzarsi. Intorno a loro, la folla fanatica emetteva grida e li incoraggiava con i gesti. La macchina si era fermata. Banks non sapeva più che cosa fare ed era assai imbarazzato. — Ah! Ma staremo un po' a vedere! — disse. Aprì immediatamente gli sfiatatoi dei cilindri, e violenti getti di vapore sprizzarono raso al suolo, mentre l'aria echeggiava di fischi stridenti. — Hurrah! Hurrah! Hurrah! — gridò il capitano Hod. — Frustateli, amico Banks, frustateli! Il mezzo era buono. I fanatici, colpiti dai getti di vapore, si rialzarono urlando come se li avessero scorticati. Farsi schiacciare, passi, ma farsi scottare, no! La folla indietreggiò e la strada ritornò libera. L'acceleratore venne allora azionato completamente, le ruote morsero profondamente il terreno. — Avanti! Avanti! — gridò il capitano Hod, che batteva le mani e rideva di tutto cuore. E, con un passo più rapido, il Gigante d'Acciaio, procedendo dritto sulla strada, scomparve in breve dagli occhi della folla sbalordita, come un animale fantastico in una nuvola di vapore. CAPITOLO VIII ALCUNE ORE A BÉNARES LA STRADA era ormai libera davanti alla Steam-House, quella strada che, via Sasserâm, doveva portarci alla riva destra del Gange, di fronte a Bénares. Un miglio più in là dell'accampamento, la macchina rallentò e prese un'andatura più moderata, di circa due leghe e mezzo all'ora. L'intenzione di Banks era di accamparsi quella sera stessa a venticinque leghe da Gaya, e di passare tranquillamente la notte nei dintorni della piccola città di Sasserâm. In generale, le strade dell'India evitano, per quanto è possibile, i corsi d'acqua, che richiedono dei ponti, la cui erezione è molto costosa su questi terreni alluvionali. Per di più, non se ne sono neppure ancora costruiti in molti di quei luoghi nei quali non è stato possibile evitare che un fiume o un corso d'acqua sbarrino il cammino. È vero che vi è il traghetto, ma questo antiquato e rudimentale mezzo di trasporto sarebbe stato certamente insufficiente per traghettare il nostro treno. Fortunatamente potevamo farne a meno. Proprio durante quella giornata si dovette attraversare un importante corso d'acqua, il Sône. Questo fiume, alimentato al disopra di Rhotas dai suoi affluenti Coput e Coyle, va a perdersi nel Gange, pressappoco fra Arrah e Dinapore. Nulla fu più facile di questo passaggio. L'elefante si trasformò con estrema naturalezza in motore marino. Scese l'argine per un pendio dolce, entrò nel fiume, si mantenne alla superficie, e battendo l'acqua con le sue larghe zampe, simili alle pale d'una ruota motrice, trascinò dolcemente il treno, che gli galleggiava dietro. Il capitano Hod non stava in sé dalla gioia. — Una casa ambulante! — esclamava, — una casa che è contemporaneamente carrozza e piroscafo! Non le mancano che le ali per trasformarsi in apparecchio volante e attraversare lo spazio! — Lo si farà un giorno o l'altro, amico Hod, — rispose seriamente l'ingegnere. — Lo so bene, amico Banks, — replicò altrettanto seriamente il capitano. — Tutto si farà! Ma quello che non si farà, sarà che ci venga resa la vita fra duecento anni per vedere queste meraviglie! La vita non è allegra tutti i giorni, eppure acconsentirei volentieri a vivere dieci secoli, per pura curiosità! La sera, a dodici ore da Gaya, dopo aver passato il magnifico ponte tubolare che sostiene la linea ferroviaria, ottanta piedi al disopra del letto del Sône, ci accampavamo nei pressi di Sasserâm. Non si trattava che di passare una notte in quel luogo, per rifornirci di legna e d'acqua, e ripartire all'alba. Questo programma fu eseguito punto per punto, e la mattina successiva, 22 maggio, prima di quelle ore ardenti che ci riservava il sole cocente di mezzogiorno, avevamo ripreso la nostra strada. Il paese era sempre lo stesso, ossia ricchissimo, molto coltivato. Così esso si mostra nelle vicinanze della meravigliosa valle del Gange. Non parlerò dei numerosi villaggi che si perdono in mezzo alle immense risaie, fra i ciuffi di palme taras dal fitto fogliame disposto a volta sotto l'ombra dei manghi e di altri alberi dalla vegetazione lussureggiante. Del resto, noi non ci fermavamo. Se, talvolta, la strada era sbarrata da qualche carro, trascinato lentamente dagli zebù, due o tre fischi lo facevano tirar da parte, e il nostro treno passava, con gran stupore dei raiot. Per tutta quella giornata, ebbi il gradito piacere di vedere parecchi campi di rose. Infatti, non eravamo lontani da Ghazipore, importante centro di produzione dell'acqua o, meglio, dell'essenza fatta con questi fiori. Domandai a Banks se potesse darmi qualche particolare su quel prodotto tanto ricercato, che sembra essere la più alta espressione della profumeria. — Ecco delle cifre, caro amico, — mi rispose Banks, — e vi mostreranno quanto sia costosa questa fabbricazione. Quaranta libbre di rose vengono inizialmente sottoposte a una specie di distillazione lenta su un fuoco moderato, e il tutto dà circa trenta libbre d'acqua di rose. Quest'acqua viene versata su un altro mucchio di quaranta libbre di fiori, la cui distillazione viene spinta fino al momento in cui la miscela è ridotta a venti libbre. Si espone questa miscela, per dodici ore, all'aria fresca della notte, e il giorno dopo si trova, coagulata alla sua superficie, che cosa? un'oncia d'olio odoroso. Dunque, da ottanta libbre di rose, quantità che, si dice, contiene non meno di duecentomila fiori, si è ricavata alla fine solo un'oncia di liquido. Un vero massacro! Perciò non c'è da stupirsi se, anche nel paese produttore, l'essenza di rose costi quaranta rupie o cento franchi l'oncia. — Eh! — replicò il capitano Hod, — se per fabbricare un'oncia d'acquavite ci volessero ottanta libbre d'uva, allora si che il grog sarebbe caro! Durante quella giornata, dovemmo attraversare ancora il Karamnaca, uno degli affluenti del Gange. Gli indù hanno fatto di questo innocuo fiume una specie di Stige, sul quale non è conveniente navigare. Le sue rive non sono meno maledette di quelle del Giordano o del Mar Morto. Esso porta i cadaveri che gli si affidano direttamente all'inferno braminico. Non discuto queste credenze; ma quanto ad ammettere che l'acqua di questo diabolico fiume sia sgradevole al gusto e malsana per lo stomaco, protesto. È ottima. La sera, dopo aver attraversato un paese pochissimo accidentato, fra gli immensi campi di papaveri e la vasta scacchiera delle risaie, ci accampavamo sulla riva destra del Gange, di fronte all'antica Gerusalemme degli indù, la città santa di Bénares. — Ventiquattro ore di sosta! — disse Banks. — A che distanza siamo ora da Calcutta? — chiesi all'ingegnere. — A trecentocinquanta miglia circa, — mi rispose, — e confesserete, caro amico, che non ci siamo accorti né della lunghezza del percorso né delle fatiche del viaggio! Il Gange! C'è forse un altro fiume il cui nome evochi leggende più poetiche, e non sembra forse che tutta l'India si riassuma in lui? C'è forse al mondo una valle paragonabile a quella che, per dirigere il corso superbo di quel fiume, si stende per uno spazio di cinquecento leghe e non conta meno di cento milioni d'abitanti? C'è forse un punto del globo in cui sia stato ammucchiato un numero più grande di meraviglie dopo l'apparizione delle razze asiatiche? Che cosa avrebbe mai detto del Gange Victor Hugo, che ha cantato così superbamente il Danubio? Sì, si può parlare ad alta voce quando si ha: ... comme une mer sa houle, Quand sur le globe on se déroule Comme un serpent, et quand on roule De l'occident à l'orient! 16 Ma anche il Gange ha la sua onda lunga, i suoi cicloni, più terribili degli uragani su un fiume europeo! Anch'esso si stende come un serpente nelle più poetiche regioni del mondo! Anch'esso scorre dall'occidente all'oriente! E non da un modesto gruppo di colline esso trae la sua sorgente! È dalla più alta catena del globo, è dalle montagne del Tibet che esso si precipita assorbendo tutti gli affluenti che trova per via! Scende dall'Himalaya! Il giorno dopo, 23 maggio, al levar del sole, l'ampio specchio d'acqua scintillava dinanzi ai nostri occhi. Sulla sabbia bianca, alcuni gruppi di grossi alligatori sembravano sorbire i primi raggi del sole. Erano immobili, rivolti verso l'astro radioso, come se fossero stati i più fedeli seguaci di Brahma. Ma alcuni cadaveri, che passavano galleggiando, li strapparono alla loro adorazione. È stato detto che questi cadaveri trasportati dalla corrente galleggiano stesi sul dorso quando sono di uomini, bocconi quando sono di donne. Potei constatare che non c'è nulla di vero in questa osservazione. Un momento dopo i mostri si gettavano su quella preda, che forniscono loro quotidianamente i corsi d'acqua della penisola, e la trascinavano nelle profondità del fiume. La linea ferroviaria di Calcutta, prima di biforcarsi ad Allahabad per correre verso Delhi, a nord-ovest, e verso Bombay, a sud-ovest, 16 ... come un mare l'onda lunga, / Quando ci si stende sul globo / Come un serpente, e quando si scorre / Dall'Occidente all'Oriente! (N.d.T.) segue costantemente la riva destra del Gange, di cui risparmia, seguendo una linea retta, le numerose sinuosità. Alla stazione di Mogul-Serai, da cui distavamo solamente poche miglia, se ne stacca un piccolo tronco che fa il servizio per Bénares, attraversando il fiume, e per la valle del Goumti va fino a Jaunpore, percorrendo una sessantina di chilometri. Bénares è dunque sulla riva sinistra. Non era però in quel punto che dovevamo attraversare il Gange, bensì ad Allahabad. Il Gigante d'Acciaio rimase dunque al campo che era stato scelto la sera del giorno precedente, 22 maggio. Delle gondole erano alla fonda accanto alla riva, pronte a condurci alla città santa, che desideravo visitare con una certa cura. Il colonnello Munro non aveva nulla da apprendere, nulla da vedere in quelle città da lui visitate tanto spesso. Tuttavia, quel giorno, ebbe per un momento il pensiero di accompagnarci; ma, dopo aver riflettuto, decise di fare un'escursione sulle rive del fiume, in compagnia del sergente Mac Neil. Infatti, entrambi lasciarono la Steam-House, ancora prima che ne fossimo partiti noi. Quanto al capitano Hod, che era già stato di guarnigione a Bénares, era sua intenzione andare a trovare alcuni suoi compagni. Dunque, Banks ed io, poiché l'ingegnere aveva voluto farmi da guida, fummo i soli ad essere attirati da un senso di curiosità verso la città. Quando dico che il capitano Hod era stato di guarnigione a Bénares, bisogna sapere che le truppe dell'esercito reale non risiedono abitualmente nelle città indù. Le loro caserme sono poste in «accantonamenti» che, di fatto, diventano vere e proprie città inglesi. Così ad Allahabad, così a Bénares, così in altri punti del territorio, dove non solo i militari, ma anche i funzionari, i negozianti, i possidenti, si raccolgono di preferenza. Ognuna di queste grandi città, dunque, è doppia, una con tutte le comodità dell'Europa moderna, l'altra che ha conservato i costumi del paese e gli usi indù con tutto il loro colore locale! La città inglese annessa a Bénares è Sécrole, i cui bungalow, i viali, le chiese cristiane sono poco interessanti da visitare. Là si trovano pure i principali alberghi ricercati dai turisti. Sécrole è una di quelle città prefabbricate che i costruttori del Regno Unito potrebbero spedire in casse, per esser rimontate sul posto. Dunque, nulla di curioso da vedere. Perciò, Banks ed io, dopo esserci imbarcati su una gondola, attraversammo obliquamente il Gange, in modo da avere inizialmente una panoramica di quel magnifico anfiteatro che Bénares descrive al disopra di un alto argine. — Bénares, — mi disse Banks, — è la città sacra dell'India, per eccellenza. È la Mecca indiana, e chiunque vi abbia vissuto, fosse solo per ventiquattro ore, si è assicurato una parte nelle felicità eterne. Si comprende dunque quale affluenza di pellegrini può produrre una credenza simile, e che numero di abitanti deve avere una città, alla quale Brahma ha riservato delle immunità di tale importanza. Si danno a Bénares più di trenta secoli d'esistenza. Essa sarebbe dunque stata fondata pressappoco nell'epoca in cui Troia stava per scomparire. Dopo aver esercitato sempre una grande influenza, non politica, ma spirituale sull'Indostan, essa fu il centro principale della religione buddistica fino al IX secolo. Allora avvenne una rivoluzione religiosa. Il brahamanesimo distrusse l'antico culto. Bénares divenne la capitale dei bramini, il centro d'attrazione dei fedeli, e si afferma che trecentomila pellegrini la visitino annualmente. L'autorità metropolitana ha conservato alla città santa il suo rajah. Questo principe, pagato piuttosto magramente dall'Inghilterra, abita una magnifica residenza a Ramnagur, sul Gange. È un autentico discendente dei re di Kaci, antico nome di Bénares, ma non ha più nessun'influenza, e se ne consolerebbe, se la sua pensione non fosse ridotta a un lakh di rupie (ossia centomila rupie, o duecentocinquantamila franchi circa, che costituiscono appena il denaro per le piccole spese per un nababbo di un tempo). Bénares, come quasi tutte le città della valle del Gange, fu toccata relativamente poco dalla grande insurrezione del 1857. A quell'epoca, la sua guarnigione si componeva del 37° reggimento di fanteria indigena, di un corpo di cavalleria irregolare e di un mezzo reggimento Sikh. Di truppe reali, essa non possedeva che una mezza batteria d'artiglieria europea. Quel pugno d'uomini non poteva pretendere di disarmare i soldati indigeni. Perciò le autorità aspettarono, non senza impazienza, l'arrivo del colonnello Neil, che si era messo in marcia per Allahabad con il 10° reggimento dell'esercito reale. Il colonnello Neil entrò a Bénares con soltanto duecentocinquanta uomini, e fu ordinata una rivista al campo di manovra. Quando i Cipay furono riuniti, venne loro ordinato di deporre le armi. Rifiutarono. La lotta si impegnò fra loro e la fanteria del colonnello Neil; ma ai ribelli si unì quasi subito la cavalleria irregolare e poi i Sikh, che si credettero traditi. Allora la mezza batteria aprì il fuoco, coprì gli insorti di mitraglia, e, nonostante il loro coraggio, nonostante il loro accanimento, furono messi tutti in rotta. Quel combattimento si era svolto fuori della città. All'interno vi fu soltanto un modesto tentativo d'insurrezione dei musulmani, i quali issarono la bandiera verde, tentativo subito abortito. Da quel giorno, per tutta la durata della rivolta, Bénares non fu più turbata, nemmeno nei momenti in cui la insurrezione parve trionfare nelle province occidentali. Banks mi aveva dato questi particolari mentre la nostra gondola scivolava lentamente sulle acque del Gange. — Caro amico, — mi disse, — stiamo per visitare Bénares, va bene! Ma per quanto questa capitale sia antica, non vi troverete un monumento che abbia più di trecento anni d'esistenza. Non stupitevene. È la conseguenza delle lotte religiose, nelle quali il ferro e il fuoco hanno avuto una parte troppo triste. Ad ogni modo, Bénares non ha cessato di essere una città curiosa, e non dovrete rammaricarvi della vostra passeggiata! Poco dopo la nostra gondola si arrestò a una distanza che ci permetteva di contemplare, in fondo a una baia azzurra come la baia di Napoli, il pittoresco anfiteatro delle case che si schierano sulla collina, e la massa dei palazzi, una parte dei quali minaccia di crollare in seguito al cedimento della loro base, minata di continuo dalle acque del fiume. Una pagoda nepalese, di architettura cinese, dedicata a Budda, una foresta di torri, di guglie, di minareti, di piccole piramidi, proiettata dalle moschee e dai templi, dominata dalla guglia d'oro del lingam di Siva, e dalle due sottili guglie della moschea di Aurangzeb, corona questo meraviglioso panorama. Invece di sbarcare subito a uno dei ghàts o scale che collegano le rive alla piattaforma degli argini, Banks fece passare la gondola davanti ai lungofiume, i cui corsi più bassi si bagnano nel fiume. Qui trovai una ripetizione della scena di Gaya, ma in un altro paesaggio. Invece delle due foreste verdi del Phalgu, erano le prospettive della città santa che formavano lo sfondo del quadro. Quanto al soggetto principale, era pressappoco lo stesso. Infatti, migliaia di pellegrini coprivano l'argine, le terrazze, le scale, e venivano a tuffarsi devotamente nel fiume in file triple o quadruple. Non si creda che quel bagno fosse gratuito. Alcuni guardiani in turbante rosso, con la sciabola al fianco, posti sugli ultimi gradini dei ghàts, esigevano il tributo, in compagnia di abili bramini che vendevano reliquie, amuleti o altri articoli di devozione. Inoltre, c'erano non solo pellegrini che si bagnavano per proprio contò, ma anche dei trafficanti, il cui unico commercio consisteva nell'attingere un po' di quelle acque sacrosante per portarle fin nei paesi più lontani della penisola. Come garanzia, ogni fiala è marcata con il sigillo dei bramini. Tuttavia bisogna credere che la frode venga esercitata su vasta scala, tanto è diventata considerevole l'esportazione di questo liquido miracoloso. — Forse addirittura, — mi disse Banks, — tutta l'acqua del Gange non basterebbe ai bisogni dei fedeli! Gli domandai allora se quei «bagni» non causassero spesso delle disgrazie, che non si cercava di prevenire. Non c'erano bagnini per fermare gli imprudenti che si arrischiavano nella rapida corrente del fiume. — Le disgrazie sono frequenti, — mi rispose Banks, — ma se il corpo del devoto si perde, l'anima si salva. Perciò non si va tanto per il sottile. — E i coccodrilli? — aggiunsi. — I coccodrilli, — mi rispose Banks, — stanno generalmente in disparte. Tutto questo rumore li spaventa. Non sono questi mostri che si devono temere, quanto piuttosto dei malfattori, che si tuffano, scivolano sott'acqua, afferrano le donne, i fanciulli, li trascinano con loro e ne rubano i gioielli. Si cita anzi, uno di questi furfanti che, con in capo una testa meccanica, ha fatto per un pezzo la parte di falso coccodrillo, guadagnandosi una piccola fortuna con questo mestiere, proficuo e pericoloso nello stesso tempo. Infatti, un giorno quell'intruso è stato divorato da un vero alligatore, e non si è ritrovato che la sua testa di pelle conciata, che galleggiava sulla superficie del fiume. Del resto, ci sono anche dei fanatici arrabbiati che vengono a cercare volontariamente la morte nei flutti del Gange, e ci mettono anche particolari raffinatezze. Si legano intorno al corpo una ghirlanda di urne vuote, ma scoperchiate. A poco a poco l'acqua penetra nelle urne e le sommerge pian piano fra gli applausi fragorosi dei devoti. La nostra gondola ci condusse ben presto davanti al Manmenka Ghàt. Là, si ergono i roghi a piani sovrapposti sui quali vengono bruciati i cadaveri di tutti i defunti che si sono preoccupati in qualche modo della propria vita futura. La cremazione, in questo santo luogo, è avidamente ricercata dai fedeli, e i roghi ardono notte e giorno. I ricchi babu dei territori lontani si fanno trasportare a Bénares, non appena si sentono colpiti da una malattia letale. Bénares, indubbiamente, è il miglior punto di partenza per il «viaggio per l'altro mondo». Se il defunto non ha che dei peccati veniali da rimproverarsi, la sua anima trasportata sui fiumi del Manmenka, andrà direttamente nel soggiorno delle felicità eterne. Se è stato un grande peccatore, la sua anima dovrà, invece, prima rigenerarsi nel corpo di qualche bramino che deve ancora nascere. Bisogna dunque sperare che, durante questa seconda incarnazione, poiché la sua vita è stata esemplare, non gli venga imposto un terzo avatar, prima che egli sia definitivamente ammesso a partecipare alle delizie del cielo di Brahma. Dedicammo il resto della giornata a visitare la città, i suoi principali monumenti, i suoi bazar fiancheggiati da botteghe scure, alla moda araba. Vi si vendono soprattutto fini mussole di un prezioso tessuto e il kinkòb, un tipo di stoffa di seta ricamata d'oro, che è uno dei principali prodotti dell'industria di Bénares. Le vie erano molto pulite, ma strette, come si addice alle città che i raggi di un sole tropicale colpiscono quasi a perpendicolo. Se vi si trovava ombra, il caldo era pur sempre soffocante. Compativo i portatori del nostro palanchino, che però non sembravano lamentarsene troppo. Del resto, quei poveri diavoli avevano in quel momento un'occasione di guadagnare qualche rupia, e ciò bastava a dar loro forza e coraggio. Ma così non era per un certo indù, o meglio un bengalese, dall'occhio vivace, dalla fisionomia astuta, che, senza cercar troppo di nasconderlo, ci seguì durante tutta la nostra escursione. Sbarcando sul lungofiume del Manmenka Ghàt, avevo, chiacchierando con Banks, pronunciato ad alta voce il nome del colonnello Munro. Il bengalese, che guardava accostare la nostra gondola, non aveva potuto trattenersi dal trasalire. Non vi avevo fatto attenzione più di quanto fosse necessario, ma me ne ricordai quando trovai quella specie di spia costantemente dietro a noi. Non ci lasciava che per ricomparire alle nostre spalle, alcuni istanti più tardi. Era un amico o un nemico? non lo sapevo, ma era un uomo a cui il nome del colonnello Munro, certamente, non era indifferente. Il nostro palanchino non tardò a fermarsi alla base dell'ampia scalinata di cento gradini che sale dal lungofiume alla moschea di Aurangzeb. Una volta, i devoti non salivano che in ginocchio quella specie di Scala Santa, così come fanno i fedeli di Roma. Allora, in quel luogo sorgeva il tempio di Vishnu; ora gli si è sostituita la moschea del conquistatore. Mi sarebbe piaciuto contemplare Bénares dall'alto di uno dei minareti di quella moschea, la costruzione dei quali è considerata come un prodigio di architettura. Alti centotrentadue piedi, hanno appena il diametro di una modesta ciminiera da officina, eppure una scala a chiocciola si svolge nel loro fusto cilindrico; ma non è più permesso salirvi, e non senza ragione. Questi due minareti si allontanano già sensibilmente dalla linea verticale e, dotati di minor vitalità della torre di Pisa, un giorno o l'altro finiranno con il cadere. Lasciando la moschea di Aurangzeb, ritrovai il bengalese che ci aspettava presso la porta. Questa volta, lo guardai fisso, ed egli abbassò gli occhi. Prima di richiamare l'attenzione di Banks su questo incidente, volli vedere se la condotta equivoca di quell'individuo sarebbe continuata, e non dissi nulla. Le pagode e le moschee si contano a centinaia in questa meravigliosa città di Bénares. E così pure quegli splendidi palazzi, il più bello dei quali, senza contraddizione, appartiene al re di Nagpore. Pochi rajah, infatti, trascurano d'avere una casa nella città santa, e vi vengono all'epoca delle grandi feste religiose di Mela. Non potevo pretendere di visitare tutti quegli edifici nel poco tempo di cui disponevamo. Mi limitai dunque a visitare il tempio di Bichêshwar, dove sorge il lingam di Siva. Questa pietra informe, considerata una parte del corpo del più truce degli dèi della mitologia indiana, ricopre un pozzo, la cui acqua stagnante possiede, si dice, virtù miracolose. Vidi pure il Mankarnika, o fontana sacra, nella quale si bagnano i devoti per il maggior profitto dei bramini, poi il Mân-Mundir, osservatorio costruito duecento anni or sono dall'imperatore Akbar, tutti gli strumenti del quale, di un'immobilità marmorea, sono semplicemente riprodotti in pietra. Avevo anche sentito parlare di un palazzo delle scimmie, che i turisti non mancano di visitare a Bénares. Un parigino doveva credere naturalmente che si sarebbe trovato davanti la celebre gabbia dell'Orto Botanico. Niente del genere. Questo palazzo è semplicemente un tempio, il Durga-Khund, situato un po' fuori dei sobborghi. Esso risale al secolo IX, ed è uno dei più antichi monumenti della città. Le scimmie non vi sono chiuse in una gabbia a sbarre di ferro. Esse vagano liberamente per i cortili, saltano da un muro all'altro, si arrampicano in cima a enormi manghi, si contendono con violente grida i grani abbrustoliti, di cui sono ghiottissime, e che i visitatori portano loro. Anche qui, come dappertutto, i bramini, custodi del Durga-Khund, riscuotono un piccolo tributo, che fa evidentemente di questa professione una delle più lucrose dell'India. Naturalmente eravamo piuttosto stanchi a causa del caldo, quando, verso sera, pensammo di ritornare alla Steam-House. Avevamo fatto colazione e cenato a Sécrole, in uno dei migliori alberghi della città inglese, eppure, devo confessare che la cucina ci fece rimpiangere quella del signor Parazard. Quando la gondola ritornò alla base del ghàt per riportarci sulla riva destra del Gange, ritrovai un'ultima volta il bengalese a due passi dalla barca. Un canotto montato da un indù lo aspettava. Egli s'imbarcò. Voleva dunque passare il fiume e seguirci ancora fino all'accampamento. La cosa si faceva molto sospetta. — Banks, — dissi allora a bassa voce, mostrando il bengalese — ecco una spia che non ci ha lasciato un attimo... — L'ho visto anch'io, — rispose Banks, — e ho notato che è stato il nome del colonnello, pronunciato da voi, che lo ha messo sul chi vive. — Non sarebbe il caso?... — dissi allora. — No! Lasciamolo fare, — rispose Banks. — È meglio che non si accorga di essere sospettato... Del resto, è già scomparso. Infatti, il canotto del bengalese era già sparito fra le numerose barche di ogni tipo che solcavano allora le scure acque del Gange. Poi, Banks, rivolgendosi al nostro barcaiolo: — Conosci quell'uomo? — gli domandò con un tono che simulava indifferenza. — No, è la prima volta che lo vedo, — rispose il barcaiolo. Era scesa la notte. Centinaia di imbarcazioni pavesate, illuminate da lanterne variopinte, piene di cantanti e di suonatori, s'incrociavano in tutte le direzioni sul fiume in festa. Dalla riva sinistra si alzavano svariati fuochi artificiali, i quali mi ricordavano che non eravamo lontani dal Celeste Impero, dove sono in tanto onore. Sarebbe difficile dare una descrizione di questo spettacolo, che era veramente senza paragone. Per quale motivo si celebrasse quella festa notturna, che sembrava improvvisata e alla quale prendevano parte gli indù di ogni classe, non mi fu possibile saperlo. Nel momento in cui essa finiva, la gondola aveva già accostato l'altra riva. Fu dunque come una visione. Non ebbe che la durata di quei fuochi artificiali che illuminarono per un istante lo spazio e si spensero nel buio. Ma l'India, l'ho già detto, adora trecento milioni di dèi, semidei, santi e beati di ogni genere, e l'anno non ha addirittura abbastanza ore, minuti e secondi, che possano essere dedicati a ognuna di queste divinità. Quando fummo di ritorno all'accampamento, il colonnello Munro e Mac Neil vi erano già tornati. Banks domandò al sergente se non fosse accaduto nulla di nuovo durante la nostra assenza. — Nulla, — rispose Mac Neil. — Non avete visto gironzolare nessuna faccia sospetta? — Nessuna, signor Banks. Avreste forse qualche motivo di sospettare?... — Siamo stati spiati durante la nostra escursione a Bénares, — rispose l'ingegnere, — e non mi piace che qualcuno ci spii. — Quella spia era... — Un bengalese, che è stato messo sul chi vive dal nome del colonnello Munro. — Che cosa può volere da noi quell'uomo? — Non so, Mac Neil. Bisognerà stare attenti! — Staremo attenti, — rispose il sergente. CAPITOLO IX ALLAHABAD LA DISTANZA fra Allahabad e Bénares è di circa centotrenta chilometri. La strada segue quasi invariabilmente la riva destra del Gange, tra la linea ferroviaria e il fiume. Storr si era procurato del carbone in mattonelle e ne aveva caricato il tender. L'elefante aveva dunque il nutrimento assicurato per molti giorni. Ben pulito (stavo per dire ben strigliato), lucido come se uscisse dall'officina di carrozzeria, esso aspettava con impazienza il momento di partire. Non scalpitava, no, certamente, ma certi fremiti delle sue ruote attestavano la tensione dei vapori che riempivano i suoi polmoni d'acciaio. Il nostro treno partì dunque di buon mattino, il 24, a una velocità di tre o quattro miglia all'ora. La notte era passata senza incidenti, è non avevamo rivisto il bengalese. Diciamo ora, una volta per tutte, che il programma di ogni giornata, riguardante l'ora di alzarsi, l'ora di coricarsi, della colazione, del pranzo, della cena, della siesta, veniva attuato con puntualità militare. L'esistenza nella Steam-House si svolgeva regolarmente come nel bungalow di Calcutta. Il panorama mutava di continuo ai nostri sguardi, senza che la nostra abitazione desse l'impressione di spostarsi. Eravamo assolutamente abituati a questa nuova vita, come un passeggero alla vita di bordo di un transatlantico, meno la monotonia, dato che non eravamo sempre chiusi nello stesso orizzonte di mare. Alle undici di quel giorno, apparve nella pianura un curioso mausoleo, di architettura mongola, che è stato eretto in onore di due santi personaggi dell'Islam, Kassim-Soliman, padre e figlio. Una mezz'ora dopo si trovava l'importante fortezza di Chunar, i cui pittoreschi bastioni coronano una roccia imprendibile, che sorge centocinquanta piedi a picco sul Gange. Non si discusse nemmeno se fare una sosta per visitare questa fortezza, una delle più importanti della valle del Gange, situata in modo da poter risparmiare in caso di attacco polvere e proiettili. Infatti, qualsiasi colonna d'assalto che cercasse di giungere alle sue mura verrebbe schiacciata da una valanga di macigni disposti a questo scopo. Ai suoi piedi si stende la città che porta il suo nome, e le cui civettuole abitazioni si perdono fra il verde degli alberi. A Bénares, come abbiamo visto, esistono molti luoghi privilegiati, che gli indù considerano come i più sacri del mondo. Facendo un conteggio accurato se ne troverebbero centinaia di quel genere in tutta la penisola. Anche la fortezza di Chunar possiede una di queste miracolose stazioni. Là vi mostrano una lastra di marmo, sulla quale un dio qualunque viene regolarmente ogni giorno a fare la sua siesta. Vero è che questo dio rimane invisibile: perciò non abbiamo cercato di vederlo. La sera, il Gigante d'Acciaio si fermava presso Mirzapore per trascorrervi la notte. La città non è sprovvista di templi, ma soprattutto possiede degli stabilimenti e un porto di carico per il cotone che si produce nel territorio. Sarà un giorno una ricca città commerciale. Il giorno seguente, 25 maggio, verso le due del pomeriggio, guadavamo il piccolo fiume Tonsa, che in quel periodo aveva meno di un piede d'acqua. Alle cinque veniva superato il raccordo con l'importante tronco ferroviario Bombay-Calcutta. Quasi nel punto in cui il Jumna si immette nel Gange, potevamo ammirare il magnifico viadotto di ferro, che bagna i suoi sedici piloni, alti sessanta piedi, nelle acque di quel superbo affluente. Giunti al ponte di barche, lungo un chilometro, che congiunge la riva destra a quella sinistra del fiume, lo attraversammo senza eccessive difficoltà, e nella serata venivamo ad accamparci all'estremità di uno dei sobborghi di Allahabad. La giornata del 26 doveva essere dedicata alla visita di questa importante città, da cui si diramano le principali linee ferroviarie dell'India. Essa sorge in una splendida posizione, in mezzo a un ricchissimo territorio, fra i due bracci del Jumna e del Gange. La natura ha certamente fatto di tutto perché Allahabad sia la capitale dell'India inglese, il centro del governo, la residenza del viceré. Non è dunque impossibile che lo diventi un giorno, se i cicloni giocano qualche brutto tiro a Calcutta, la metropoli odierna. Certo è che alcuni previdenti hanno già intravisto e previsto questa possibilità. In questo grande corpo che si chiama India, Allahabad è posta dove si trova il cuore, come Parigi è nel cuore della Francia. È vero che Londra non è nel cuore del Regno Unito, ma appunto per questo Londra non ha sulle grandi città inglesi, Liverpool, Manchester, Birmingham, la preminenza che Parigi ha su tutte le altre città della Francia. — E a partire da questo punto, — domandai a Banks, — ci dirigeremo direttamente verso il nord? — Sì, — riprese Banks, — o perlomeno quasi direttamente. Allahabad è, verso ovest, il limite di questa prima parte della nostra spedizione. — Finalmente! — esclamò il capitano Hod, — le grandi città sono belle, ma le grandi pianure, le grandi jungle, sono migliori! Continuando a seguire a questo modo le linee ferroviarie finiremmo con lo scorrervi sopra, e il nostro Gigante d'Acciaio verrebbe declassato a semplice locomotiva! Che decadenza! — Rassicuratevi, Hod, — rispose l'ingegnere, — questo non accadrà. Ben presto ci spingeremo nei vostri territori prediletti. — Dunque, Banks, andremo direttamente alla frontiera indocinese, senza attraversare Lucknow? — Il mio parere è di evitare questa città, e soprattutto Cawnpore, troppo piena di funesti ricordi per il colonnello Munro. — Avete ragione, — risposi, — e non ne passeremo mai abbastanza lontani! — Ditemi, Banks, — domandò il capitano Hod, — durante la vostra visita a Bénares non avete sentito dire nulla riguardo a Nana Sahib? — Nulla, — rispose l'ingegnere. — È probabile che il governatore di Bombay sia stato tratto in errore ancora una volta, e che il Nana non sia mai riapparso nella presidenza di Bombay. — È probabile, effettivamente, — rispose il capitano, — perché altrimenti quell'ex ribelle avrebbe già fatto parlare di sé. — Ad ogni modo, — disse Banks, — mi preme lasciare questa valle del Gange, che è stata teatro di tanti disastri durante l'insurrezione dei Cipay, da Allahabad fino a Cawnpore. Ma soprattutto, che il nome di questa città come quello di Nana Sahib non vengano mai proferiti davanti al colonnello! Lasciamolo padrone dei suoi pensieri. Il giorno seguente, Banks volle accompagnarmi ancora durante le poche ore che avrei dedicato alla visita di Allahabad. Forse ci sarebbero voluti tre giorni per visitare bene le tre città che la compongono, ma, in fondo, essa è meno bizzarra di Bénares, benché anch'essa rientri fra le città sante. Della città indù, non c'è niente da dire. È un agglomerato di case basse, separate da vie strette, dominate qua e là da tamarindi magnifici. Della città inglese e degli accantonamenti, pure niente. Bei viali fiancheggiati da begli alberi, ricche abitazioni, piazze larghe, tutti gli elementi d'una città destinata a diventare una grande capitale. Il tutto è situato in un'ampia pianura, limitata a nord e a sud dal doppio corso del Jumna e del Gange. Si chiama «la pianura delle Elemosine», perché i principi indù vi sono venuti in ogni tempo a fare opere di carità. Stando a ciò che ne riferisce il signor Rousselet, che cita un passo della Vita di Hionen Thsang, «è più meritorio dare una sola moneta in questo luogo che non centomila altrove». Il Dio dei cristiani, invece, si limita a rendere il cento per uno; è cento volte meno, senza dubbio, ma m'ispira maggior fiducia. Una parola sul forte di Allahabad, che è originale da visitare. È costruito a ovest della grande pianura delle Elemosine, e si disegna arditamente con le sue alte mura d'arenaria rossa, dalle quali i proiettili possono, concedetemi la espressione, «fiaccare le braccia» ai due fiumi. Al centro del forte c'è un palazzo, diventato ora arsenale, ma un tempo residenza preferita del sultano Akbar (in uno degli angoli, il Lât di Feroze-Schachs, superbo monolito di trentasei piedi, che sostiene un leone), poco lontano, un tempietto, che gli indù, ai quali è vietato l'accesso al forte, non possono visitare, benché sia uno dei luoghi più sacri del mondo: ecco i punti principali della fortezza che richiamano l'attenzione dei turisti. Banks mi disse che anche il forte di Allahabad aveva la sua leggenda, che ricorda la leggenda biblica, relativa alla ricostruzione del tempio di Salomone a Gerusalemme. Quando il sultano volle costruire il forte di Allahabad, sembra che le pietre vi si mostrassero contrarie. Appena un muro era stato eretto, subito crollava. Verme consultato l'oracolo; e l'oracolo rispose, come sempre, che ci voleva una vittima volontaria per scongiurare la mala sorte. Un indù si offerse in olocausto; egli fu sacrificato, e il forte venne terminato. Quell'indù si chiamava Brog, ed ecco perché la città viene ancora oggi designata con il doppio nome di Brog-Allahabad. Banks mi condusse poi nei giardini di Khusru, che sono celebri e che meritano la loro celebrità. Sotto l'ombra dei più bei tamarindi del mondo, vi sorgono molti mausolei maomettani. Uno di essi è l'estrema dimora del sultano di cui questi giardini portano il nome. Su uno dei muri di marmo bianco è impresso il palmo di una enorme mano, che ci venne mostrato con una compiacenza che non avevamo osservato quando ci furono fatte vedere le sacre impronte di Gaya. È vero che questa non era l'orma del piede di un dio, bensì quella della mano di un semplice mortale, pronipote di Maometto. Durante l'insurrezione del 1857, il sangue non fu risparmiato ad Allahabad più che alle altre città della valle del Gange. La battaglia data dall'esercito reale ai ribelli, sul campo di manovre di Bénares, provocò il sollevamento delle truppe indigene, e particolarmente la rivolta del 6° reggimento dell'esercito del Bengala. Otto alfieri furono trucidati, inizialmente; ma, grazie all'atteggiamento energico di alcuni artiglieri europei, che appartenevano al corpo degli invalidi di Chunar, i Cipay finirono col deporre le armi. Negli accantonamenti, la cosa fu più seria. Gli indigeni si sollevarono, le prigioni vennero aperte, i docks saccheggiati, le abitazioni europee incendiate. Mentre avveniva ciò, giunse, dopo aver ristabilito l'ordine a Bénares, il colonnello Neil con il suo reggimento e cento fucilieri del reggimento di Madras. Egli riprese agli insorti il ponte di barche, espugnò i sobborghi della città nella giornata del 18 giugno, disperse i membri di un governo provvisorio che un musulmano aveva installato, e ridivenne padrone della provincia. Durante questa breve escursione ad Allahabad, Banks e io osservammo con cura se fossimo seguiti come lo eravamo stati a Bénares, ma questa volta non notammo nulla di sospetto. — Non importa, — mi disse l'ingegnere, — bisogna sempre diffidare! Avrei voluto passare in incognito, dato che il nome del colonnello Munro è troppo noto agli indigeni di questa provincia. Alle sei eravamo di ritorno per il desinare. Sir Edward Munro, che aveva lasciato l'accampamento per un'ora o due, era già ritornato e ci aspettava. Il capitano Hod, che era andato a far visita ad alcuni suoi compagni di guarnigione negli accantonamenti, rientrava quasi insieme con noi. Osservai allora, e feci osservare a Banks, che il colonnello Munro sembrava non più triste, ma più pensieroso del solito. Mi sembrava di sorprendere nei suoi sguardi un fuoco che le lacrime avrebbero dovuto avervi spento da un pezzo! — Avete ragione, — mi rispose Banks, — c'è qualche cosa! Che è accaduto dunque? — Se lo domandaste a Mac Neil? — dissi. — Sì, Mac Neil forse saprà... E l'ingegnere, lasciando il salotto, andò ad aprire la porta della cabina del sergente. Il sergente non c'era. — Dov'è Mac Neil? — chiese Banks a Goûmi, che si preparava a servirci a tavola. — Ha lasciato l'accampamento, — rispose Goûmi. — Da quando? — Da un'ora circa, e per ordine del colonnello Munro. — Non sapete dove sia andato? — No, signor Banks, e non saprei perché sia partito. — Non c'è stato nulla di nuovo durante la nostra assenza? — Nulla. Banks ritornò, mi disse dell'assenza del sergente per un motivo che nessuno conosceva, e ripetè: — Non so che cosa ci sia, ma qualche cosa c'è di certo! Aspettiamo. Ci mettemmo a tavola. Di solito il colonnello Munro prendeva parte alla conversazione durante il pasto. Gli piaceva farsi narrare le nostre escursioni, e si interessava a tutto ciò che avevamo fatto durante la giornata. Io avevo cura di non parlargli mai di ciò che poteva ricordargli, anche da lontano, l'insurrezione dei Cipay. Credo che se ne rendesse conto, ma mi era grato del mio riserbo? La cosa, del resto, era abbastanza difficile quando si trattava di città, come Bénares ed Allahabad, che erano state teatro di episodi insurrezionali. Oggi, e proprio durante il pranzo, potevo dunque temere d'essere costretto a parlare di Allahabad. Inutile timore. Il colonnello Munro non interrogò né Banks né me sull'impiego della nostra giornata. Rimase zitto per tutto il tempo del pasto. La sua preoccupazione sembrava anzi crescere a mano a mano. Egli guardava di frequente verso la strada che porta agli accantonamenti, e credo anzi che più d'una volta fu sul punto di alzarsi da tavola per veder meglio in quella direzione. Era evidentemente il ritorno del sergente Mac Neil che sir Edward aspettava con impazienza. Il pranzo fu dunque piuttosto triste. Il capitano Hod interrogava Banks con lo sguardo, per domandargli che cosa ci fosse. Ma Banks non ne sapeva più di lui. Terminato il pranzo, il colonnello Munro, invece di rimanere a far la siesta, secondo la sua abitudine, scese il predellino della veranda, fece alcuni passi sulla strada, vi diede per l'ultima volta un lungo sguardo, poi, rivolgendosi a noi: — Banks, Hod, e anche voi, Maucler, — disse, — vorreste accompagnarmi fino alle prime case degli accantonamenti? Lasciammo immediatamente la tavola, seguendo il colonnello, che camminava lentamente, senza pronunciar parola. Dopo aver fatto un centinaio di passi, sir Edward Munro si arrestò davanti a un palo eretto sulla destra della strada, e sul quale era attaccato un manifesto. — Leggete, — disse. Era l'affisso, oramai vecchio di due mesi, che metteva una taglia sulla testa del nababbo Nana Sahib e denunciava la sua presenza nella presidenza di Bombay. Banks e Hod non poterono trattenere un gesto di disappunto. Fino allora, tanto a Calcutta quanto durante il viaggio, erano riusciti a evitare che quel manifesto cadesse sotto gli occhi del colonnello. Uno spiacevole scherzo del caso faceva andare a vuoto tutte le loro precauzioni. — Banks, — disse sir Edward Munro, afferrando la mano dell'ingegnere, — tu conoscevi questo manifesto? Banks non rispose. — Sapevi, due mesi or sono, — soggiunse il colonnello, — che la presenza di Nana Sahib era stata segnalata nella presidenza di Bombay e non mi hai detto nulla! Banks rimaneva in silenzio, senza sapere che cosa rispondere. — Ebbene, si, colonnello, — esclamò il capitano Hod, — si, lo sapevamo, ma perché dirvelo? Chi prova che il fatto annunciato da questo manifesto sia vero, e a quale scopo richiamare alla vostra mente dei ricordi che vi fanno tanto male? — Banks, — esclamò il colonnello Munro, il cui volto si era quasi trasformato, — hai dunque dimenticato che è a me, a me più che a ogni altro, che spetta di far giustizia di quest'uomo! Sappi questo: se ho acconsentito a lasciare Calcutta, è perché questo viaggio doveva ricondurmi verso il nord dell'India, è perché non ho creduto un giorno solo alla morte di Nana Sahib, è perché non ho mai dimenticato i miei doveri di giustiziere! Partendo con voi, non ho avuto che un'idea, una speranza. Ho fatto assegnamento, per avvicinarmi al mio scopo, sui casi fortuiti del viaggio e sull'aiuto di Dio! Ho avuto ragione! Dio mi ha portato davanti a questo manifesto! Non è più a nord che bisogna andare a cercare Nana Sahib, è a sud! Sta bene, andrò a sud! I nostri presentimenti non ci avevano dunque ingannato! Era fin troppo vero! Un pensiero nascosto, o, meglio ancora, un'idea fissa, dominava tuttora, dominava più che mai il colonnello Munro. Egli ora ce l'aveva manifestata completamente. — Munro, — rispose Banks, — se non ti ho detto nulla, è perché non credevo alla presenza di Nana Sahib nella presidenza di Bombay. Le autorità, non c'è dubbio, sono state ingannate ancora una volta. Infatti, questo manifesto porta la data del 6 marzo, e da quel giorno nulla è venuto a confermare la notizia della comparsa del nababbo. Il colonnello Munro dapprima non rispose a questa osservazione dell'ingegnere. Gettò ancora un ultimo sguardo sulla via. Poi: — Amici miei, — disse, — ora saprò come stanno le cose; Mac Neil è andato ad Allahabad con una lettera per il governatore. Fra poco saprò se Nana Sahib è veramente riapparso in una delle province occidentali, se vi è ancora, o se è scomparso. — E se è stato veduto, se il fatto è indubitabile, che cosa farai, Munro? — domandò Banks, afferrando la mano del colonnello. — Partirò! — rispose sir Edward Munro. — Andrò dappertutto dove è mio dovere andare! — È assolutamente deciso, Munro? — Sì, Banks, assolutamente. Voi continuerete il vostro viaggio senza di me, amici miei... Questa sera stessa prenderò il treno di Bombay. — Sta bene, ma non andrai solo! — rispose l'ingegnere volgendosi verso di noi. — Munro, noi ti accompagneremo! — Sì, si, colonnello! — esclamò il capitano Hod. — Non vi lasceremo partire senza di noi. Invece di andare a caccia di belve, ebbene, andremo a caccia di furfanti! — Colonnello Munro, — aggiunsi, — spero che mi permetterete di unirmi al capitano e ai vostri amici! — Sì, Maucler, — rispose Banks, — e questa sera stessa lasceremo tutti Allahabad... — Inutile! — disse una voce grave. Ci voltammo. Il sergente Mac Neil ci stava davanti con un giornale in mano. — Leggete, colonnello, — disse. — Ecco ciò che il governatore mi ha detto di mostrarvi. E sir Edward Munro lesse quanto segue: «Il governatore della presidenza di Bombay porta a conoscenza del pubblico che il manifesto del 6 marzo scorso, concernente il nababbo Dandu-Pant, deve essere considerato ormai come privo d'oggetto. Ieri, Nana Sahib, assalito nelle gole dei monti Sautpurra, dove si era rifugiato con i suoi, è stato ucciso nella lotta. Non vi è alcun dubbio possibile sulla sua identità; egli è stato riconosciuto da alcuni abitanti di Cawnpore e di Lucknow. Gli mancava un dito della mano sinistra, e si sa che Nana Sahib si era amputato un dito nel momento in cui, mediante false esequie, volle far credere alla sua morte. Il regno d'India non ha dunque più nulla da temere dalle manovre del crudele nababbo che gli è costato tanto sangue». Il colonnello Munro aveva letto queste righe con voce sorda, poi lasciò cadere il giornale. Noi restammo in silenzio. La morte di Nana Sahib, questa volta indiscutibile, ci liberava da ogni timore per l'avvenire. Il colonnello Munro, dopo alcuni minuti, si passò la mano sugli occhi come per cancellare degli orribili ricordi, poi: — Quando dobbiamo lasciare Allahabad? — domandò. — Domani, all'alba — rispose l'ingegnere. — Banks, — soggiunse il colonnello Munro, — non possiamo fermarci qualche ora a Cawnpore? — Lo vuoi?... — Sì, Banks, vorrei... voglio rivedere ancora una volta... un'ultima volta Cawnpore! — Vi saremo fra due giorni, — rispose semplicemente l'ingegnere. — E dopo?... — soggiunse il colonnello Munro. — Dopo?... — rispose Banks, — continueremo la nostra spedizione verso il nord dell'India. — Sì... a nord! a nord!... — disse il colonnello con una voce che mi commosse fino in fondo al cuore. Davvero, c'era da credere che sir Edward Munro conservasse ancora qualche dubbio sul risultato di quell'ultima lotta fra Nana Sahib e gli agenti dell'autorità inglese. Aveva ragione davanti a ciò che sembrava essere così evidente? L'avvenire ce lo dirà. CAPITOLO X VIA DOLOROSA IL REGNO di Oudh era un tempo uno dei più importanti della penisola, e oggi è ancora uno dei più ricchi dell'India. Esso ebbe sovrani potenti e sovrani deboli. La debolezza di uno di loro, WajadAli-Schah, causò l'annessione del suo regno al dominio della Compagnia, il 6 febbraio 1857. Come si vede, ciò avveniva solo pochi mesi prima dell'insurrezione; ed è precisamente su questo territorio che furono commesse le stragi più orrende, seguite dalle più terribili rappresaglie. Due nomi di città sono rimasti tristamente celebri a quel tempo, Lucknow e Cawnpore. Lucknow è la capitale, Cawnpore è una delle principali città dell'ex regno. È a Cawnpore che voleva andare il colonnello Munro, ed è là che arrivammo la mattina del 29 maggio, dopo aver seguito la riva destra del Gange, attraverso una pianura su cui si stendevano immensi campi d'indaco. Per due giorni il Gigante d'Acciaio aveva camminato a una velocità media di tre leghe all'ora, superando così i duecentocinquanta chilometri che separano Cawnpore da Allahabad. Eravamo allora a circa mille chilometri da Calcutta, nostro punto di partenza. Cawnpore è una città di circa sessantamila abitanti. Occupa sulla riva destra del Gange una striscia di terreno lunga cinque miglia. Vi si trova un accantonamento militare nel quale sono acquartierati settemila uomini. Il turista cercherebbe invano, in questa città, qualche monumento degno di attirare la sua attenzione, benché essa sia d'origine antichissima e anteriore, a quanto si dice, all'era cristiana. Nessun sentimento di curiosità ci avrebbe dunque condotti a Cawnpore; solo la volontà di sir Edward Munro ci aveva guidati. La mattina del 30 maggio avevamo lasciato il nostro accampamento; Banks, il capitano Hod e io, seguivamo il colonnello e il sergente Mac Neil lungo quella via dolorosa, di cui sir Edward Munro aveva voluto rifare una ultima volta le stazioni. Ecco quanto bisogna sapere, e quanto dirò brevemente, riferendo il racconto che Banks mi aveva fatto. — Cawnpore, che aveva una guarnigione di truppe sicurissime al momento dell'annessione del regno di Oudh, all'inizio dell'insurrezione non contava più di duecentocinquanta soldati dell'esercito reale contro tre reggimenti indigeni di fanteria, il 1°, il 53° e il 56°, due reggimenti di cavalleria e una batteria d'artiglieria dell'esercito del Bengala. Inoltre vi si trovavano un numero abbastanza grande di europei, impiegati, funzionari, negozianti, e, per di più, ottocentocinquanta fra donne e bambini del 32° reggimento dell'esercito reale, che era di stanza a Lucknow. «Da molti anni il colonnello Munro abitava a Cawnpore. Fu là che conobbe la giovane che fece sua sposa. «Miss Laurence Honlay era una giovane inglese leggiadra, intelligente, di indole elevata, nobile cuore, natura eroica, degna d'essere amata da un uomo come il colonnello, che l'ammirava e l'adorava. Ella abitava con sua madre in un bungalow nei dintorni della città, e fu là, nel 1855, che Edward Munro la sposò. «Due anni dopo il suo matrimonio, nel 1857, quando scoppiarono i primi atti della rivolta a Mirat, il colonnello Munro dovette raggiungere il suo reggimento senza perdere un giorno. Egli fu dunque costretto a lasciare sua moglie e sua suocera a Cawnpore, raccomandando loro di fare immediatamente i preparativi di partenza per Calcutta. Il colonnello Munro pensava che Cawnpore non fosse sicura, ahimè! e i fatti avevano in seguito giustificato i suoi presentimenti. «La partenza di mistress Honlay e di lady Munro subì dei ritardi che ebbero conseguenze nefaste. Le sventurate donne furono sorprese dagli avvenimenti e non poterono lasciare Cawnpore. «La divisione era allora comandata dal generale sir Hugh Wheeler, soldato retto e leale, che doveva essere ben presto vittima delle astute manovre di Nana Sahib. «Il nababbo occupava allora, a dieci miglia da Cawnpore, il suo castello di Bilhur, e da un pezzo fingeva di vivere nei migliori rapporti con gli europei. «Sapete, caro Maucler, che i primi tentativi dell'insurrezione vennero fatti a Mirat e a Delhi. La notizia ne giunse il 14 maggio a Cawnpore, e in quello stesso giorno il 1° reggimento dei Cipay manifestava intenzioni ostili. «Fu allora che Nana Sahib offrì al governo i suoi buoni uffici. Il generale Wheeler fu tanto ingenuo da credere alla buona fede di quel furfante, le cui truppe personali vennero subito a occupare gli edifici della Tesoreria. «Lo stesso giorno, un reggimento irregolare di Cipay, di passaggio a Cawnpore, trucidava i suoi ufficiali europei addirittura alle porte della città. «Il pericolo apparve allora qual era, immenso. Il generale Wheeler ordinò a tutti gli europei di rifugiarsi nella caserma in cui abitavano le donne e i bambini del 32° reggimento di Lucknow, caserma situata nel punto più vicino alla strada di Allahabad, la sola per la quale i soccorsi avrebbero potuto arrivare. «È là che lady Munro e sua madre dovettero chiudersi. Per tutta la durata di quella prigionia, la giovane donna mostrò una dedizione illimitata per i suoi compagni di sventura. Li curò con le proprie mani, li aiutò con il proprio denaro, li incoraggiò con il proprio esempio e con le proprie parole, si mostrò quella che era, un gran cuore, e, come vi ho detto, una donna eroica. «Frattanto non si tardò ad affidare l'arsenale alla custodia dei soldati di Nana Sahib. «Il traditore inalberò allora la bandiera dell'insurrezione, e, dietro sua pressante richiesta, il 7 giugno i Cipay assalirono la caserma, che non aveva trecento soldati validi per difenderla. «Tuttavia quei coraggiosi si difesero, sotto il fuoco degli assedianti, sotto la pioggia dei loro proiettili, fra malattie d'ogni genere, morenti di fame e di sete, senza viveri, perché le provviste erano insufficienti, senz'acqua, poiché i pozzi in breve si prosciugarono. «Quella resistenza durò fino al 27 giugno. «Nana Sahib propose allora una capitolazione, alla quale il generale Wheeler commise l'imperdonabile colpa di sottoscrivere, benché lady Munro lo scongiurasse di continuare la lotta. «In seguito a tale capitolazione, uomini, donne e fanciulli, cinquecento persone circa (lady Munro e sua madre ne facevano parte) furono imbarcate su alcune barche che dovevano ridiscendere il Gange e ricondurle ad Allahabad. «Le barche si sono appena staccate dalla riva, che il fuoco viene aperto dai Cipay. Una vera grandine di proiettili e di mitraglia! Alcune affondarono, altre furono incendiate. Una, però, riuscì a ridiscendere il fiume per qualche miglio. «Lady Munro e sua madre erano su quella barca. Esse poterono credere per un istante di essere salve. Ma i soldati del Nana le inseguirono, le ripresero e le ricondussero negli accantonamenti. «Là, venne fatta una scelta fra i prigionieri. Tutti gli uomini furono immediatamente passati per le armi. Quanto alle donne e ai bambini, furono uniti agli altri bambini e alle altre donne, che non erano stati trucidati il 27 giugno. «In tutto erano duecento vittime, alle quali era riservata una lunga agonia, e che furono chiuse in un bungalow, il cui nome, Bibi-Ghar, è rimasto tristamente celebre.» — Ma come avete saputo questi orribili particolari? — domandai a Banks. — Tramite un vecchio sergente del 32° reggimento dell'esercito reale, — mi rispose l'ingegnere. — Quest'uomo, sfuggito per miracolo, fu accolto dal rajah di Raischwarah, una delle province del regno di Oudh, il quale lo ricevette insieme con alcuni altri fuggitivi, con la più grande umanità. — E di lady Munro e di sua madre, che avvenne? — Caro amico, — mi rispose Banks — non abbiamo più la testimonianza diretta di quanto avvenne da quel momento, ma è fin troppo facile congetturarlo. Infatti, i Cipay erano i padroni di Cawnpore. Lo furono fino al 15 luglio, e durante quei diciannove giorni, diciannove secoli!, le misere vittime aspettarono di ora in ora un soccorso che doveva giungere troppo tardi. «Già da qualche tempo il generale Havelock, partito da Calcutta, avanzava in aiuto di Cawnpore, e, dopo aver battuto i ribelli molte volte, vi entrava il 17 luglio. «Ma, due giorni prima, quando Nana Sahib seppe che le truppe reali avevano passato il fiume Pandu-Naddi, decise di rendere memorabili con eccidi spaventosi le ultime ore della sua occupazione. Tutto gli sembrava permesso nei confronti degli invasori dell'India! «Alcuni prigionieri, che avevano condiviso la cattività delle prigioniere del Bibi-Ghar, gli furono condotti davanti e sgozzati sotto i suoi occhi. «Rimaneva la massa di donne e fanciulli, e, in quella massa, lady Munro e sua madre. Un plotone del 6" reggimento di Cipay ricevette l'ordine di fucilare tutti attraverso le finestre del Bibi-Ghar. L'esecuzione cominciò, ma siccome non procedeva con la rapidità che il Nana, costretto a battere in ritirata, avrebbe voluto, questo principe sanguinario aggiunse dei macellai musulmani ai soldati della sua guardia... Fu la carneficina di un macello! «Il giorno dopo, morti o vivi, bambini e donne venivano precipitati in un pozzo vicino, e quando giunsero i soldati di Havelock quel pozzo, colmo di cadaveri fino all'orlo, fumava ancora! «Allora incominciarono le rappresaglie. Un certo numero di ribelli, complici di Nana Sahib, erano caduti nelle mani del generale Havelock. Questi emise il seguente terribile ordine del giorno, di cui non dimenticherò mai i termini: «"Il pozzo nel quale riposano le spoglie mortali delle povere donne e dei fanciulli trucidati per ordine del miscredente Nana Sahib verrà colmato e coperto con cura in forma di tomba. Un distaccamento di soldati europei, comandato da un ufficiale, adempirà stasera a questo pietoso dovere. La casa e le camere in cui l'eccidio ha avuto luogo non verranno pulite o imbiancate dai compatrioti delle vittime. Il generale ordina che ogni goccia del sangue innocente venga pulita o leccata con la lingua dai condannati prima dell'esecuzione, proporzionalmente al loro grado di casta e alla parte che hanno avuto nell'eccidio. Di conseguenza, dopo aver ascoltato la lettura della sentenza di morte, ogni condannato verrà condotto nella casa del massacro e costretto a pulire una data parte del pavimento. Si avrà cura di rendere tale operazione il più rivoltante possibile per i sentimenti religiosi del condannato, e il maresciallo preposto non risparmierà lo staffile, se sarà necessario. Terminata l'operazione, la sentenza verrà eseguita alla forca eretta presso la casa". «Questo fu», soggiunse commosso Banks, «l'ordine del giorno. Esso fu eseguito in tutte le sue prescrizioni. Ma le vittime non erano più. Erano state trucidate, mutilate, lacerate! Quando il colonnello Munro, giunto due giorni dopo, volle tentare di riconoscere qualche avanzo di lady Munro e di sua madre, non trovò nulla... nulla!». Ecco quanto mi aveva raccontato Banks, prima del nostro arrivo a Cawnpore, ed era verso il luogo di quello spaventoso eccidio che si dirigeva il colonnello. Ma, prima, egli volle rivedere il bungalow dove aveva abitato lady Munro, dove ella aveva passato la giovinezza, quell'abitazione in cui egli l'aveva vista per l'ultima volta, quella soglia sulla quale egli aveva ricevuto i suoi ultimi baci. Quel bungalow era costruito un po' fuori dei sobborghi della città, non lontano dalla linea degli accantonamenti militari. Alcuni ruderi, dei pezzi di muro ancora anneriti, qualche albero abbattuto e secco, ecco tutto quello che rimaneva dell'abitazione. Il colonnello non aveva permesso che nulla venisse riparato. Il bungalow era, dopo sei anni, così come lo aveva ridotto la mano degli incendiari. Passammo un'ora in quel luogo desolato. Sir Edward Munro camminava silenziosamente attraverso quelle rovine, da cui uscivano, per lui, tanti ricordi. Il suo pensiero rievocava tutta quell'esistenza di felicità che nulla ormai poteva rendergli. Egli rivedeva la giovane, felice, in quella casa nella quale era nata, dove egli l'aveva conosciuta, e, talvolta, chiudeva gli occhi come per rivederla meglio! Ma alla fine, bruscamente, come se avesse dovuto fare violenza a se stesso, ritornò indietro e ci trascinò fuori. Banks aveva sperato che il colonnello si limitasse a visitare il bungalow... Ma no! Sir Edward Munro aveva deciso di esaurire fino all'ultimo le amarezze che gli serbava quella funesta città! Dopo l'abitazione di lady Munro, volle rivedere la caserma in cui tante vittime, alle quali l'energica donna si era così eroicamente dedicata, avevano subito tutti gli orrori d'un assedio. La caserma era posta nella pianura, fuori della città, e sulla sua area, là dove la popolazione di Cawnpore aveva dovuto cercar rifugio, si costruiva allora una chiesa. Per arrivarvi, seguimmo una via asfaltata, ombreggiata da begli alberi. È là che si era compiuto il primo atto dell'orribile tragedia. Là avevano vissuto, sofferto, agonizzato, lady Munro e sua madre, fino al momento in cui la capitolazione mise nelle mani di Nana Sahib quella torma di vittime, già destinate a uno spaventoso massacro, e che il traditore aveva promesso di far condurre sane e salve ad Allahabad. Intorno alla costruzione non ancora ultimata, si distinguevano degli avanzi di muri di mattoni, ruderi di quelle opere di difesa che erano state erette dal generale Wheeler. 17 Il colonnello Munro rimase a lungo immobile e silenzioso davanti a quei ruderi. Alla sua memoria si presentavano più vivamente le orribili scene di cui essi erano stati teatro. Dopo il bungalow in cui lady Munro aveva vissuto felice, la caserma nella quale ella aveva sofferto più di quanto è possibile immaginare! Rimaneva da visitare il Bibi-Ghar, l'abitazione di cui il Nana fece una prigione, dove si apriva il pozzo in fondo al quale le vittime erano state confuse nella morte. Quando Banks vide il colonnello dirigersi da quella parte, gli prese il braccio come per trattenerlo. Sir Edward Munro lo guardò bene in faccia, e con voce orribilmente pacata: — Andiamo! — disse. 17 Da quel tempo, la chiesa commemorativa è stata terminata. Sulle lapidi di marmo, alcune iscrizioni ricordano i tecnici della ferrovia East Indian che morirono di malattia o per ferite durante la grande insurrezione del 1857, gli ufficiali, sergenti e soldati del 34° reggimento dell'esercito reale uccisi nel combattimento del 17 novembre davanti a Cawnpore, il capitano Stuart Beatson, gli ufficiali, gli uomini e le donne del 32° reggimento, morti durante gli assedi di Lucknow e di Cawnpore o durante l'insurrezione, infine i martiri del Bibi-Ghar, trucidati nel luglio 1857. (N.d.A) — Munro, te ne prego!... — Allora andrò solo. Non c'era da resistere. Ci siamo allora diretti verso il Bibi-Ghar, davanti al quale vi sono dei giardini ben disegnati e pieni d'alberi bellissimi. Là si erge un porticato di stile gotico, di forma ottagonale. Esso circonda il luogo nel quale si apriva il pozzo e la cui bocca è ora chiusa da un rivestimento di pietre. Forma una specie di base su cui è posta una statua di marmo bianco, l'Angelo della Pietà, una delle ultime opere dovute allo scalpello dello scultore Marocchetti. Fu lord Canning, governatore generale dell'India durante la terribile insurrezione del 1857, che fece erigere quel monumento espiatorio, costruito su disegno del colonnello del genio Yule, e che volle addirittura pagarlo di tasca propria. Davanti a quel pozzo in cui le due donne, madre e figlia, dopo essere state colpite dai macellai di Nana Sahib, erano state precipitate, forse ancora vive, sir Edward Munro non poté trattenere le lacrime. Egli cadde in ginocchio sulla pietra del monumento. Il sergente Mac Neil, accanto a lui, piangeva in silenzio. Avevamo tutti il cuore spezzato, non trovando nulla da dire per placare quel dolore inconsolabile, sperando che sir Edward Munro esaurisse là le ultime lacrime dei suoi occhi! Ah! se egli fosse stato uno di quei primi soldati dell'esercito reale che entrarono a Cawnpore, che penetrarono in quel Bibi-Ghar dopo lo spaventoso massacro, sarebbe morto di dolore! Infatti, ecco quanto riferisce uno degli ufficiali inglesi, narrazione che venne raccolta dal signor Rousselet: «Appena entrati in Cawnpore, corremmo in cerca delle povere donne che sapevamo essere nelle mani dell'odioso Nana, ma presto venimmo a sapere di quella orribile esecuzione. Torturati da una terribile sete di vendetta e coscienti delle spaventose sofferenze che avevano dovuto sopportare le infelici vittime, sentivamo risvegliarsi in noi idee strane e selvagge. Furenti e quasi pazzi, corremmo verso il triste luogo del martirio. Il sangue coagulato, frammisto ad avanzi senza nome, copriva il suolo della piccola stanza in cui esse erano state chiuse e ci arrivava alle caviglie. Lunghe trecce di capelli lunghi e morbidi, lembi di vesti, scarpine di bambini, balocchi ingombravano il suolo bagnato. I muri, imbrattati di sangue, portavano le tracce dell'orribile agonia. Raccolsi un libriccino di preghiere, sulla prima pagina del quale c'erano queste commoventi scritte: "27 giugno, lasciato le barche... 7 luglio, prigionieri del Nana... fatale giornata". Ma non erano questi i soli orrori che ci attendevano. Molto più orribile ancora era la vista del pozzo profondo e stretto in cui erano ammucchiati i resti mutilati di quelle tenere creature!...» Sir Edward Munro non era là nelle prime ore in cui i soldati di Havelock si impadronivano della città! Egli giunse solamente due giorni dopo l'odioso eccidio! Ed ora, non aveva davanti agli occhi altro che l'area su cui si apriva il funesto pozzo, tomba senza nome delle duecento vittime di Nana Sahib. Questa volta, Banks, aiutato dal sergente, riuscì a trascinarlo via con la forza. Il colonnello Munro non doveva dimenticare mai queste due parole che uno dei soldati di Havelock aveva inciso con la baionetta sulla vera del pozzo: «Remember Cawnpore! Ricordati di Cawnpore!». CAPITOLO XI IL CAMBIAMENTO DI MONSONE ALLE UNDICI eravamo di ritorno all'accampamento, e tutti avevamo, lo si può ben comprendere, gran fretta di lasciare Cawnpore; ma alcune riparazioni che si dovevano fare alla pompa d'alimentazione della macchina non ci permettevano di partire prima della mattina seguente. Mi rimaneva dunque una mezza giornata. Credetti di non poterla impiegare meglio che visitando Lucknow. Banks non intendeva passare da questa città, nella quale il colonnello Munro si sarebbe trovato su uno dei principali teatri della guerra. Aveva ragione! Anche là vi erano ricordi troppo penosi per lui. A mezzogiorno, dunque, dopo aver lasciata la Steam-House, presi la piccola ferrovia secondaria che congiunge Cawnpore a Lucknow. La distanza non supera una ventina di leghe, e in due ore giunsi in questa importante capitale del regno di Oudh, alla quale non volevo fare che una visita, tanto per averne un'idea. Riconobbi, del resto, la verità di quanto avevo sentito dire a proposito dei monumenti di Lucknow, costruiti sotto il regno degli imperatori musulmani nel secolo XVII. Fu un francese di Lione, un certo Martin, semplice soldato dell'esercito di Lally-Tollendal, che, nel 1730, divenuto il favorito del re, fu il creatore, l'ordinatore, si potrebbe dire l'architetto delle pretese meraviglie della capitale di Oudh. La residenza ufficiale dei sovrani, il Kaiserbâgh, eterogeneo miscuglio di tutti gli stili che potevano uscire dalla fantasia di un caporale, è solamente un'opera di apparenza. Niente all'interno, tutto all'esterno, ma questo esterno è contemporaneamente indù, cinese, moresco e... europeo. Lo stesso si può dire di un altro palazzo più piccolo, il Farid Bàkch, che è pure opera del Martin. Quanto all'Imàmbara, costruito nel mezzo della fortezza da Kaifiàtulla, che fu il primo architetto delle Indie nel secolo XVII, è effettivamente superbo, e produce un effetto grandioso con i mille piccoli campanili che adornano le sue cortine. Non potevo lasciare Lucknow senza visitare il palazzo Costantino, che è anch'esso opera personale del caporale francese, e porta il nome di palazzo de la Martinière. Volli vedere anche il giardino vicino, il Sikander Bagh, dove furono trucidati a centinaia i Cipay che avevano violato la tomba dell'umile soldato prima di abbandonare la città. È il caso di aggiungere che il nome di Martin non è il solo nome francese che venga onorato a Lucknow. Un ex sottufficiale dei cacciatori d'Africa, di nome Duprat, si distinse talmente per il suo coraggio durante l'insurrezione, che i ribelli gli offrirono di farlo loro capo. Duprat rifiutò nobilmente, nonostante le ricchezze che gli furono promesse, nonostante le minacce che gli vennero fatte. Rimase fedele agli inglesi. Ma preso di mira in modo particolare dai colpi dei Cipay che non avevano potuto fare di lui un traditore, egli fu ucciso in uno scontro. — Cane infedele, — avevano detto i ribelli, — ti avremo tuo malgrado! — Lo ebbero, ma morto. I nomi di questi due soldati francesi erano dunque stati uniti nelle medesime rappresaglie. I Cipay, che avevano violato la tomba dell'uno e scavato quella dell'altro, furono trucidati senza pietà. Finalmente, dopo aver ammirato i bellissimi parchi che fanno una specie di cintura di verde e di fiori a questa grande città di cinquecentomila abitanti, dopo aver percorso a dorso d'elefante le sue vie principali e il suo magnifico boulevard dell'Hazrat Gaudj, ripresi il treno e ritornai la sera stessa a Cawnpore. Il giorno dopo, 31 maggio, eravamo in cammino fino dall'alba. — Finalmente, — esclamò il capitano Hod, — l'abbiamo finita dunque con le Allahabad, le Cawnpore e le Lucknow e altre città, di cui a me non importa un fico! — Sì, è finita, Hod, — rispose Banks, — e ora ci dirigeremo direttamente verso nord, in modo da raggiungere quasi in linea retta la base dell'Himalaya. — Bravo! — replicò il capitano. — Quello che io chiamo l'India per eccellenza, non sono le province irte di città o popolate di indù, è il paese in cui vivono in libertà i miei amici elefanti, leoni, tigri, pantere, leopardi, orsi, bufali, serpenti! Quella è la sola parte veramente abitabile della penisola! Vedrete, Maucler, e non rimpiangerete le meraviglie della valle del Gange! — Non rimpiangerò nulla in vostra compagnia, caro capitano, — risposi. — Eppure, — disse Banks, — a nord-ovest ci sono ancora altre città interessantissime, Delhi, Agra, Lahore... — Eh! amico Banks, — esclamò Hod. — Chi ha mai sentito parlare di queste borgate miserabili? — Miserabili borgate! — replicò Banks. — Niente affatto, Hod, sono città magnifiche! State tranquillo, caro amico, — aggiunse l'ingegnere rivolgendosi a me, — cercheremo di mostrarvele senza scompigliare i piani di campagna del capitano. — Alla buon'ora, Banks, — rispose Hod, — ma è da oggi soltanto che comincia il nostro viaggio. Poi con voce forte: — Fox! — gridò. L'attendente accorse. — Presente! capitano, — disse. — Fox, che i fucili, le carabine e le rivoltelle siano pronti! — Sono pronti. — Controlla le batterie. — Sono controllate. — Prepara le cartucce. — Sono preparate. — È tutto in ordine? — Tutto. — Allora, fa' che sia ancora più in ordine, se è possibile! — Lo sarà. — La trentottesima non tarderà a schierarsi su quella lista che forma la tua gloria, Fox! — La trentottesima! — esclamò l'attendente, nei cui occhi balenò come un lampo. — Le preparerò una bella pallottola esplosiva di cui certamente non potrà lamentarsi! — Va', Fox, va'! Fox salutò militarmente, fece dietro-front, e andò a chiudersi nel suo arsenale. Ecco ora l'itinerario di questa seconda parte del nostro viaggio, itinerario che non deve essere modificato, a meno che non si verifichino avvenimenti impossibili a prevedersi. Per settantacinque chilometri circa, questo itinerario risale il corso del Gange dirigendosi verso nord-ovest; ma, a partire da questo punto, si raddrizza, corre diritto verso nord tra un affluente del gran fiume e un altro affluente importante del Goùtmi. Evita così un certo numero di corsi di acqua, che si disperdono a destra e a sinistra, e, passando da Biswah, si alza obliquamente fino alle prime ondulazioni dei rilievi del Nepal, attraverso la parte occidentale del regno di Oudh e del Rohilkhand. Questo percorso era stato scelto saggiamente dall'ingegnere, in modo da evitare ogni difficoltà. Se diventava più difficile trovare il carbone nel nord dell'Indostan, la legna non doveva mai mancare. Il nostro Gigante d'Acciaio avrebbe potuto circolare facilmente, a qualsiasi andatura, per quelle strade così ben tenute, attraverso le più belle foreste della penisola indiana. Ottanta chilometri circa ci separavano dalla cittadina di Biswah. Si stabilì che li avremmo superati a velocità molto moderata, in sei giorni. Questo avrebbe permesso di fermarsi quando la località ci fosse piaciuta, e i cacciatori della spedizione avrebbero avuto il tempo di compiere le loro prodezze. Del resto, il capitano Hod e il suo attendente Fox, a cui si univa volentieri Goûmi, avrebbero potuto facilmente andare in perlustrazione, mentre il Gigante d'Acciaio avrebbe proceduto a piccoli passi. A me poi non era proibito di accompagnarli nelle loro battute, benché fossi un cacciatore poco esperto, e qualche volta andai con loro. Devo dire che dal momento in cui il nostro viaggio entrò nella nuova fase, il colonnello Munro si tenne un po' meno in disparte. Mi sembrò che fuori delle città, in mezzo alle foreste e alle pianure, lontano dalla valle del Gange che avevamo percorso, egli diventasse più socievole. Pareva che in queste condizioni ritrovasse la vita calma che conduceva a Calcutta. Eppure poteva dimenticare che la sua casa ambulante si dirigeva verso quel nord dell'India dove lo attirava una fatalità irresistibile? In ogni caso, la sua conversazione era più animata durante i pasti, durante la siesta, e spesso anche nelle ore di sosta, si prolungava molto in quelle belle notti che la stagione calda ci dava ancora. Mac Neil, invece, dopo la visita al pozzo di Cawnpore, mi sembrava più cupo del solito. La vista del Bibi-Ghar aveva forse ravvivato in lui un odio che sperava ancora di saziare? — Nana Sahib, — mi disse un giorno, — no, signore, no! non è possibile che lo abbiano ucciso! La prima giornata passò senza incidenti che valgano la pena d'essere narrati. Né il capitano Hod né Fox ebbero occasione di prendere di mira il minimo animale. Era desolante, e anche straordinario al punto che ci si poteva chiedere se fosse l'apparizione del Gigante d'Acciaio a tenere lontane le terribili belve di quelle pianure. Infatti, si costeggiarono alcune jungle, rifugio abituale delle tigri e di altri carnivori della razza felina. Non se ne mostrò uno solo. Eppure i due cacciatori si erano scostati di un miglio o due ai lati del nostro treno. Dovettero dunque rassegnarsi a condurre con loro Black e Phann, per cacciare la piccola selvaggina, di cui il signor Parazard reclamava la sua fornitura quotidiana. A questo proposito, il nostro cuoco negro non voleva sentir ragioni, e quando l'attendente gli parlava di tigri, di leopardi o di altre belve poco commestibili, alzava sdegnosamente le spalle dicendo: — Come se fosse roba che si mangia! Quella sera ci accampammo al riparo di un gruppo di enormi baniani. E anche la notte fu tranquilla quanto era stato calmo il giorno. Il silenzio non fu turbato nemmeno dagli urli delle belve. Il nostro elefante intanto riposava. Non si udivano più i suoi barriti. I fuochi dell'accampamento erano spenti e, per soddisfare il capitano, Banks non aveva nemmeno inserito la corrente elettrica che trasformava gli occhi del Gigante d'Acciaio in due potenti fanali. Ma nulla! Lo stesso accadde durante le giornate dell'1 e del 2 giugno. Era una cosa disperante. — Mi hanno cambiato il mio regno di Oudh! — ripeteva il capitano Hod. — Lo hanno trasportato in piena Europa! Qui non ci sono più tigri di quante ce ne siano nelle basse terre della Scozia! — È possibile, caro Hod, — rispose il colonnello Munro, — che siano state fatte di recente delle battute su questi territori, e che gli animali abbiano emigrato in massa. Ma non disperate, e aspettate che siamo giunti ai piedi delle montagne del Nepal. Là avrete di che esercitare utilmente i vostri istinti di cacciatore. — Bisogna sperarlo, colonnello, — rispose, Hod, crollando il capo — altrimenti non ci rimarrebbe che rifondere le nostre pallottole per farne pallini! La giornata del 3 giugno fu una delle più calde che avessimo sopportate. Se la strada non fosse stata ombreggiata da grandi alberi, credo che saremmo letteralmente cotti nella nostra casa ambulante. Il termometro sali a 47° all'ombra, e non c'era un alito di vento. Era dunque possibile che, con una temperatura simile, in quell'atmosfera di fuoco, i carnivori non pensassero minimamente a lasciare le loro tane, nemmeno durante la notte. Il giorno dopo, 4 giugno, all'alba, l'orizzonte, per la prima volta, si mostrò piuttosto velato di nebbia verso ovest. Avemmo allora il magnifico spettacolo di uno di quei fenomeni di miraggio che, in certe parti dell'India, si chiamano seekote o castelli aerei, e in altre dessasur o illusioni. Non era già l'apparenza di una massa d'acqua con i suoi curiosi effetti di rifrazione che si stendeva davanti ai nostri sguardi, era tutta una catena di colline poco elevate, cariche dei più fantastici castelli del mondo, qualcosa come le alture d'una vallata del Reno, con le loro antiche dimore di burgravi. Ci trovavamo in un istante trasportati, non solo nella parte romanza della vecchia Europa, ma cinque o seicento anni indietro, in pieno Medioevo. Questo fenomeno, la cui nitidezza era sorprendente, ci dava l'impressione di una assoluta realtà. Perciò il Gigante d'Acciaio che, con tutti i suoi congegni dovuti alla meccanica moderna, camminava verso una città dell'XI secolo mi sembrava molto più spaesato di quando percorreva, tutto impennacchiato di fumo, il paese di Vishnu e di Brahma. — Grazie, signora natura! — esclamò il capitano Hod. — Dopo tanti minareti e tante cupole, dopo tante moschee e pagode, ecco qualche vecchia città del tempo feudale, con le meraviglie romaniche o gotiche che mi mette sotto gli occhi! — Come è poeta, stamattina, il nostro amico Hod! — rispose Banks. — Prima di far colazione ha forse inghiottito qualche ballata? — Ridete, Banks, scherzate, prendetemi in giro! — ribatté il capitano Hod, — ma guardate! Ecco che gli oggetti si ingrandiscono nei primi piani! Ecco che gli arbusti diventano alberi, le colline diventano montagne, i... — I gatti diventerebbero tigri, se ci fossero dei gatti, vero, Hod? — Ah! Banks, non sarebbero da disprezzare!... Bene! — esclamò il capitano — ecco i miei castelli del Reno che si sfasciano, la città che crolla, e noi ricadiamo nel reale, un semplice paesaggio del regno di Oudh, che nemmeno le belve vogliono più abitare! Il sole, alzandosi sull'orizzonte orientale, aveva trasformato in un istante gli scherzi della rifrazione. I castelli, da veri castelli di carte, crollavano insieme con la collina, che si trasformava in pianura. — Ebbene, dato che il miraggio è scomparso, — disse Banks — e che con esso si è dissipata tutta la vena poetica del capitano Hod, volete sapere, amici miei, che cosa fa presagire questo fenomeno? — Dite, ingegnere! — esclamò il capitano. — Un mutamento di tempo molto vicino, — rispose Banks. — Del resto, siamo ai primi giorni di giugno, che provocano modificazioni climatiche. Il cambiamento del monsone porterà la stagione delle piogge periodiche. — Caro Banks, — feci io, — siamo ben protetti, non è vero? Ebbene, che venga la pioggia! Fosse anche il diluvio, mi sembra preferibile a questi calori... — Sarete soddisfatto, caro amico, — rispose Banks. — Credo che la pioggia non sia lontana, e che fra poco vedremo salire le prime nubi da sud-ovest. Banks non s'ingannava. Verso sera, l'orizzonte occidentale cominciò a coprirsi di vapori, il che indicava che il monsone, come accade spesso, avrebbe cominciato a soffiare durante la notte. Era l'oceano Indiano che ci mandava, attraverso la penisola, i suoi vapori saturi di elettricità, come tanti grossi otri del dio Eolo, che contenevano l'uragano e la tempesta. Anche alcuni altri fenomeni, sui quali un anglo-indiano non avrebbe potuto ingannarsi, si erano manifestati durante quella giornata. Volute di polvere sottilissima avevano turbinato sulla strada durante la marcia del treno. Il movimento delle ruote, delle ruote della macchina e di quelle dei due vagoni, poco rapido del resto, avrebbe certamente potuto sollevare della polvere, ma non con tanta intensità. La si sarebbe detta una nuvola di quei pulviscoli che fa danzare una macchina elettrica messa in azione. Il suolo poteva dunque venire paragonato a un immenso condensatore, nel quale l'elettricità si fosse raccolta da molti giorni. Inoltre, quella polvere prendeva dei riflessi giallognoli, di effetto stranissimo, e in ogni molecola brillava un piccolo centro luminoso. C'erano stati dei momenti in cui tutto il nostro treno sembrava camminare in mezzo alle fiamme, fiamme senza calore, ma che, né per il colore né per la vivacità, ricordavano quelle dei fuochi di Sant'Elmo. Storr ci raccontò che aveva visto alcune volte dei treni correre così sulle loro rotaie fra una doppia siepe di polvere luminosa, e Banks confermò le parole del meccanico. Per un quarto d'ora avevo potuto osservare con molta esattezza questo bizzarro fenomeno attraverso gli oblò della torretta, da dove dominavo la strada per un tratto di cinque o sei chilometri. La via, senza alberi, era polverosa, riscaldata a bianco dai raggi a perpendicolo del sole. In quel momento mi parve che il calore dell'atmosfera superasse addirittura quello del forno della macchina. Era veramente insostenibile, e quando venni a respirare un'aria più fresca sotto le ali sventolanti della punka, ero semisoffocato. La sera, verso le sette, la Steam-House si fermò. La località della sosta scelta da Banks fu il confine d'una foresta di magnifici baniani, che sembrava estendersi all'infinito verso nord. Una strada abbastanza bella la attraversava, e ci riprometteva per il giorno successivo un tragitto più facile sotto le ampie e alte cupole di verzura. I baniani, giganti della flora indù, sono veri avi, potremmo dire dei capifamiglia vegetali, circondati dai loro figli e dai loro nipotini. Questi, slanciandosi da una radice comune, salgono dritti intorno al tronco principale, da cui sono interamente staccati, e vanno a perdersi fra gli altri rami paterni. Danno veramente la impressione di essere covati sotto quel fitto fogliame, come i pulcini sotto le ali della madre. Da ciò, il curioso aspetto che presentano queste foreste più volte secolari. I vecchi alberi assomigliano a pilastri isolati, che sostengono l'immensa volta, le cui sottili nervature si appoggiano su dei giovani baniani, che diventeranno pilastri a loro volta. Quella sera, l'accampamento fu allestito più accuratamente del solito. Infatti, se la giornata seguente doveva essere calda quanto lo era stata la precedente, Banks si proponeva di prolungare la sosta a rischio di viaggiare durante la notte. Il colonnello Munro non chiedeva di meglio che di passare alcune ore in quella bella foresta così ombrosa e calma. Tutti erano stati del suo parere, gli uni perché avevano veramente bisogno di riposo, gli altri perché volevano cercare d'incontrare finalmente qualche animale, degno della fucilata di un Anderson o di un Gerard. Si può immaginare chi fossero questi ultimi. — Fox, Goûmi, sono solo le sette! — gridò il capitano Hod. — Facciamo un giro nella foresta prima che scenda la notte! Ci accompagnerete, Maucler? — Caro Hod, — disse Banks, prima che io potessi rispondere, — fareste meglio a non allontanarvi dall'accampamento. Le minacce del cielo sono serie. Se si scatena l'uragano, forse stenterete a raggiungerci. Domani, se ci fermeremo in questa località, andrete... — Domani sarà chiaro, — rispose il capitano Hod, — è adesso l'ora propizia per tentare l'avventura! — Lo so, Hod, ma la notte che si prepara non è davvero rassicurante. In ogni caso, se volete assolutamente partire, non allontanatevi. Fra un'ora sarà già molto buio, e potreste trovarvi seriamente imbarazzati per ritrovare l'accampamento. — State tranquillo, Banks. Sono appena le sette, e domando al colonnello solo un permesso fino alle dieci. — Andate dunque, caro Hod — rispose sir Edward Munro, — ma tenete conto delle raccomandazioni di Banks. — Sì, colonnello. Il capitano Hod, Fox e Goûmi, armati di ottime carabine da caccia, lasciarono l'accampamento, e scomparvero sotto gli alti baniani che fiancheggiavano il lato destro della strada. Il caldo mi aveva stancato tanto, durante quella giornata, che preferii rimanere nella Steam-House. Tuttavia, per ordine di Banks, i fuochi, invece di venir spenti del tutto, furono soltanto spinti in fondo al forno, in modo da conservare un'atmosfera o due di pressione nella caldaia. L'ingegnere voleva essere, in ogni caso, pronto a tutto. Storr e Kâlouth si occuparono allora di rinnovare il combustibile e l'acqua. Un ruscelletto, che scorreva sul lato sinistro della strada, fornì loro l'acqua necessaria e gli alberi vicini la legna di cui avevamo bisogno per caricare il tender. Frattanto, il signor Parazard si dedicava alle proprie occupazioni abituali, e mentre sparecchiava gli avanzi del pranzo del giorno, meditava il menu del pranzo del giorno dopo. Era ancora abbastanza chiaro. Il colonnello Munro, Banks, il sergente Mac Neil e io andammo a fare la siesta sulla riva del ruscello. La corrente di quell'acqua limpida rinfrescava l'atmosfera, che era veramente soffocante, anche a quell'ora. Il sole non era ancora tramontato. La sua luce, per opposizione, tingeva d'un colore d'inchiostro azzurro la massa dei vapori, che si vedevano accumularsi a poco a poco allo zenit, attraverso le grandi lacerature del fogliame. Erano nuvole pesanti, spesse, condensate, che nessun vento sembrava spingere, e che sembravano avere in loro stesse il proprio motore. Le nostre chiacchiere durarono fino alle otto circa. Ogni tanto, Banks si alzava e andava a esaminare un tratto più ampio di orizzonte, avanzando fino al limitare della foresta che tagliava bruscamente la pianura, a meno di un quarto di miglio dall'accampamento. Quando ritornava, scuoteva il capo con aria poco rassicurata. L'ultima volta lo avevamo accompagnato. Cominciava già a farsi buio sotto la volta dei baniani. Giunti al limitare della foresta, vidi che verso ovest si stendeva un'immensa pianura fino a una serie di collinette vagamente profilate, che si confondevano già con le nuvole. L'aspetto del cielo era allora terribile nella sua calma. Non un alito di vento agitava le alte foglie degli alberi. Non era il riposo della natura addormentata che i poeti hanno cantato tanto spesso; era, al contrario, un sonno pesante e morboso. Sembrava che ci fosse una specie di tensione contenuta dell'atmosfera. Non posso paragonare meglio lo spazio che alla camera del vapore di una caldaia quando il fluido troppo compresso è pronto a esplodere. Lo scoppio era imminente. Le nuvole burrascose, infatti, erano molto alte, come avviene di solito sopra le pianure, e presentavano larghi contorni curvilinei, disegnati assai nitidamente. Sembravano persino gonfiarsi, diminuire di numero e aumentare di grandezza, pur rimanendo attaccate alla stessa base. Evidentemente si sarebbero presto fuse tutte in una massa sola, che avrebbe aumentato la densità della nuvola unica. Già quelle piccole secondarie, subendo una specie d'influenza attrattiva, urtate, respinte, schiacciate le une contro le altre, si perdevano confusamente nell'insieme. Verso le otto e mezzo, un lampo a zig-zag, ad angoli acutissimi, squarciò tutta quella massa cupa per una lunghezza di duemilacinquecento-tremila metri. Sessantacinque secondi dopo, un tuono scoppiava e prolungava i suoi sordi brontolii, propri di questo genere di lampi, che durarono circa quindici secondi. — Ventun chilometri. — disse Banks dopo aver consultato il suo orologio. — È quasi la distanza massima a cui il tuono può farsi udire. Ma l'uragano, una volta scatenato, verrà presto, e non bisogna aspettarlo. Rientriamo in casa, amici miei. — E il capitano Hod? — disse il sergente Mac Neil. — Il tuono gli darà l'ordine di ritornare, — rispose Banks. — Spero che obbedirà. Cinque minuti dopo, eravamo di ritorno all'accampamento, e ci sistemavamo sotto la veranda del salotto. CAPITOLO XII TRIPLICI FUOCHI L'INDIA divide con alcuni territori del Brasile — quello di Rio de Janeiro per esempio - il privilegio di essere il più sconvolto dagli uragani, fra tutti i paesi del globo. Se in Francia, in Inghilterra, in Germania, nella parte media dell'Europa, non si valuta a più di venti per anno il numero dei giorni in cui si fanno sentire gli scoppi di uragano, nella penisola indiana tale numero sale annualmente a oltre cinquanta. Questo per la meteorologia generale. Nel caso specifico, tenendo conto delle circostanze nelle quali esso si produceva, dovevamo aspettarci un uragano di violenza estrema. Come fummo rientrati nella Steam-House, consultai il barometro. La colonna di mercurio subì improvvisamente un abbassamento di due pollici, da 29 a 27 pollici. 18 Lo feci notare al colonnello Munro. — Sono preoccupato per l'assenza del capitano Hod e dei suoi compagni — mi rispose. — L'uragano è imminente, la notte si avvicina, il buio aumenta. I cacciatori si allontanano sempre più di quanto promettono e più anche di quanto vorrebbero. Come potranno ritrovare la strada in questa profonda oscurità? — Quei fanatici! — disse Banks. — È stato impossibile far loro intendere ragione! Certamente avrebbero fatto meglio a non partire! — Senza dubbio, Banks, ma sono partiti, — rispose il colonnello Munro, — e bisogna fare di tutto perché ritornino. — Non c'è modo di segnalare il luogo in cui siamo? — chiesi all'ingegnere. 18 Circa 730 millimetri. (N.d.A.) — Sì, — rispose Banks, — accendendo i nostri fanali elettrici, che sono di gran potenza illuminante e si vedono da molto lontano. Inserirò la corrente. — Ottima idea, Banks. — Volete che vada in cerca del capitano Hod? — domandò il sergente. — No, mio vecchio Neil, — rispose il colonnello Munro, — non lo troveresti e ti smarriresti a tua volta. Banks fece in modo di utilizzare i fuochi di cui disponeva. Gli elementi della pila vennero attivati, venne inserita la corrente e poco dopo i due occhi del Gigante d'Acciaio, come due fari elettrici, proiettavano i loro fasci luminosi attraverso la buia volta dei baniani. È certo che, in quella notte oscura, la portata di quei fari doveva essere grande e poteva guidare i nostri cacciatori. In quel momento si scatenò un uragano di estrema violenza. Lacerò la cima degli alberi, piegò verso il suolo fischiando attraverso le colonnette dei baniani, come se avesse attraversato i tubi sonori di un mantice di qualche organo. Fu una cosa improvvisa. Una grandine di rami secchi, una pioggia di foglie strappate, coprì la strada. I tetti della Steam-House risuonarono lamentosamente sotto quella tempesta che produceva un rovinio continuo. Dovemmo rifugiarci nel salotto e chiudere tutte le finestre. La pioggia non cadeva ancora. — È una specie di tofan, — disse Banks. Gli indù danno questo nome agli uragani impetuosi e improvvisi che devastano più particolarmente le regioni montuose e sono molto temuti nel paese. — Storr! — gridò Banks al macchinista, — hai chiuso bene le aperture della torretta? — Sì, signor Banks, — rispose il macchinista. — Non c'è nulla da temere da quel lato. — Dov'è Kâlouth? — Finisce di sistemare il combustibile nel tender. — Domani — rispose l'ingegnere — avremo soltanto la fatica di raccogliere la legna! Il vento si fa boscaiolo e ci risparmia del lavoro. Mantieni la pressione, Storr, e torna a metterti al riparo. — Subito, signore. — I serbatoi d'acqua sono pieni, Kâlouth? — domandò Banks. — Sì, signor Banks — rispose il fuochista. — Ora la riserva d'acqua è completa. — Bene! Rientra! Rientra! Il macchinista e il fuochista trovarono ben presto riparo nella seconda carrozza. I lampi erano frequenti, e l'esplosione dei nembi elettrici faceva udire un sordo brontolio. Il tofan non aveva rinfrescato l'aria. Era un vento torrido, un alito infuocato, che bruciava come se fosse uscito dalla bocca di un forno. Sir Edward Munro, Banks, Mac Neil e io, lasciavamo il salotto solamente per recarci sotto la veranda. Guardando gli alti rami dei baniani, lì si vedevano disegnarsi come un fine merletto nero sul fondo igneo del cielo. Non c'era un lampo che non fosse seguito, pochi secondi dopo, dagli scoppi di tuono. Un'eco non aveva il tempo di spegnersi, che già si sentiva scoppiare un altro fulmine. Di conseguenza, una profonda nota bassa si manteneva costante e su questo accompagnamento si staccavano quelle secche detonazioni che Lucrezio ha così giustamente paragonato al rumore stridente della carta che si lacera. — Come mai l'uragano non li ha fatti ancora ritornare a casa? — diceva il colonnello Munro. — Forse — rispose il sergente — il capitano Hod e i suoi compagni avranno trovato un riparo nella foresta, nel cavo di qualche albero o di qualche roccia, e ci raggiungeranno solo domattina. L'accampamento sarà sempre qui per riceverli! Banks scosse il capo da uomo che non è rassicurato. Egli non sembrava condividere l'opinione di Mac Neil. In quel momento - erano quasi le nove — la pioggia cominciò a cadere con estrema violenza. Era mista a enormi chicchi di grandine che ci lapidavano e crepitavano sul tetto sonoro della Steam-House. Era come un secco rullare di tamburi. Sarebbe stato impossibile sentirsi parlare, anche nel caso che gli scoppi di tuono non avessero riempito lo spazio. Le foglie dei baniani, fatte a pezzi dalla grandine, turbinavano da ogni parte. Banks, non potendo farsi udire in mezzo a quel tumulto assordante, allungò allora il braccio e ci mostrò i chicchi di grandine che flagellavano i fianchi del Gigante d'Acciaio. Era da non credere! Tutto scintillava al contatto di quei corpi duri. Si sarebbe detto che dalle nuvole cadessero vere e proprie gocce di metallo in fusione, che scintillavano nel percuotere la lamiera. Tale fenomeno mostrava fino a che punto l'atmosfera fosse satura di elettricità. I fulmini l'attraversavano continuamente, cosicché tutto lo spazio sembrava essere in fiamme. Banks, con un cenno, ci fece rientrare nel salotto, e chiuse la porta che dava sulla veranda. Era davvero pericoloso esporsi, all'aria aperta, all'urto delle correnti elettriche. All'interno eravamo in un'oscurità resa più completa dall'effetto dei fulmini al di fuori. Quale non fu il nostro stupore, quando vedemmo che la nostra stessa saliva era luminosa! Bisognava che fossimo impregnati del fluido ambiente in modo straordinario. «Sputavamo fuoco», per adoperare l'espressione che è servita a caratterizzare questo fenomeno, che si osserva raramente, ma che è sempre spaventoso. In verità, in mezzo a quella conflagrazione continua, fuoco di dentro, fuoco di fuori, nel fracasso di quei tuoni interrotti da grandi scoppi di fulmine, il cuore più saldo non poteva trattenersi dal battere con più rapidità. — E loro? — disse il colonnello Munro. — Loro!... sì! loro! — rispose Banks. Era terribilmente preoccupante. Non potevamo fare nulla per aiutare il capitano Hod e i suoi compagni, minacciati tanto gravemente. Infatti, se avevano trovato qualche riparo, non poteva essere che sotto gli alberi, ed è noto, in quelle condizioni, quali pericoli si corrano durante gli uragani. In una foresta così fitta, come avrebbero potuto ripararsi a cinque o sei metri dalla verticale che passa dall'estremità dei rami più lunghi, come si raccomanda alle persone che si trovano sorprese dalla tempesta in prossimità degli alberi? Mi venivano in mente tutti questi pensieri, quando si udì all'improvviso uno scoppio di tuono, più secco degli altri. Mezzo secondo appena lo aveva separato dal lampo. La Steam-House ne tremò e fu come sollevata sulle sue sospensioni. Credetti che il treno dovesse rovesciarsi. Contemporaneamente un odore acuto riempi lo spazio, un odore penetrante di vapori nitrosi: con tutta probabilità, infatti, l'acqua piovana caduta durante questo uragano doveva contenere una gran quantità di acido nitrico. — Il fulmine è caduto... — disse Mac Neil. — Storr! Kâlouth! Parazard! — gridò Banks. I tre uomini accorsero nel salotto. Fortunatamente, nessuno era stato colpito. L'ingegnere spinse allora la porta della veranda e avanzò sul balcone. — Là!... guardate!... — disse. Un enorme baniano era stato colpito dal fulmine, a dieci passi, sulla sinistra della strada. Sotto l'incessante bagliore elettrico, ci si vedeva allora come di pieno giorno. L'immenso tronco, che i suoi polloni non potevano più sostenere, era caduto di traverso sugli alberi vicini. Era scortecciato nettamente in tutta la sua lunghezza, e una lunga striscia di scorza, che le raffiche agitavano come un serpente, si torceva frustando l'aria. Bisognava che lo scortecciamento fosse avvenuto dal basso in alto sotto l'azione di un fulmine ascendente di incredibile violenza. — Per poco la Steam-House non è stata colpita! — disse l'ingegnere. — Tuttavia restiamo qui. È ancora un riparo più sicuro di quello degli alberi! — Restiamo pure! — rispose il colonnello Munro. In quel momento, si udirono delle grida. Erano i nostri compagni che finalmente ritornavano? — È la voce di Parazard — disse Storr. Infatti, il cuoco, che era sotto l'ultima veranda, ci chiamava a gran voce. Corremmo subito da lui. A meno di cento metri indietro, sulla destra dell'accampamento, la foresta di baniani era in fiamme. Le cime più alte degli alberi erano già avvolte da una cortina di fuoco. L'incendio si estendeva con incredibile intensità e si dirigeva verso la Steam-House più rapidamente di quanto si sarebbe potuto credere. Il pericolo era imminente. Una lunga siccità, l'elevazione della temperatura durante i tre mesi della stagione calda, avevano seccato alberi, arbusti, erbe. L'incendio si alimentava di tutto quel combustibile estremamente infiammabile. Come accade spesso in India, l'intera foresta minacciava di essere divorata. Infatti, si vedeva il fuoco estendere il suo cerchio di fiamme e avanzare sempre di più. Se fosse giunto sul luogo dell'accampamento, in pochi minuti i due vagoni sarebbero stati distrutti, giacché i loro sottili pannelli non potevano difenderli contro il fuoco, come fanno le grosse pareti laminate di una cassaforte. Rimanevamo silenziosi davanti a quel pericolo. Il colonnello Munro stava a braccia conserte. Poi: — Banks, — disse con semplicità, — tocca a te toglierci d'impiccio! — Sì, Munro, — rispose l'ingegnere, — e poiché non abbiamo nessun mezzo per spegnere questo incendio, bisogna fuggirlo! — A piedi? — esclamai. — No, con il nostro treno. — E il capitano Hod, e i suoi compagni? — disse Mac Neil. — Non possiamo fare nulla per loro! Se non sono di ritorno prima della nostra partenza, partiremo ugualmente! — Non bisogna abbandonarli! — disse il colonnello. — Munro, — rispose Banks, — quando il treno sarà al sicuro, lontano dall'incendio, ritorneremo e batteremo la foresta finché non li avremo trovati! — Fa', dunque, Banks, — rispose il colonnello Munro, che dovette arrendersi al consiglio dell'ingegnere, che era in realtà il solo da seguire. — Storr, — disse Banks, — alla macchina! Kâlouth, alla caldaia, e attizza i fuochi! Che pressione sul manometro? — Due atmosfere, — rispose il macchinista. — Bisogna che, entro dieci minuti, ne abbiamo quattro! Andate, amici miei, andate! Il macchinista e il fuochista non persero un istante. Poco dopo, dei torrenti di fumo nero scaturirono dalla proboscide dell'elefante e si mescolarono ai torrenti di pioggia, che il gigante sembrava sfidare. Ai lampi che illuminavano lo spazio, esso rispondeva con turbini di scintille. Un getto di vapore fischiava nella ciminiera, e il tiraggio forzato attivava la combustione della legna che Kâlouth ammucchiava nel suo forno. Sir Edward Munro, Banks e io, eravamo rimasti sotto la veranda posteriore, osservando i progressi dell'incendio attraverso la foresta. Erano rapidi e spaventosi. I grandi alberi crollavano in quell'immenso braciere, i rami crepitavano come rivoltellate, le liane si contorcevano da un tronco all'altro, il fuoco si comunicava quasi immediatamente a nuovi focolai. In cinque minuti, l'incendio era avanzato di cinquanta metri, e le fiamme frastagliate, o si potrebbe dire lacerate dalla raffica, raggiungevano un'altezza tale che i lampi le solcavano in ogni senso. — Bisogna che fra cinque minuti abbiamo lasciato questo posto, — disse Banks, — oppure tutto prenderà fuoco! — Cammina veloce, questo incendio! — risposi io. — Andremo più in fretta di lui. — Se Hod fosse qui, se i suoi compagni fossero di ritorno! — disse sir Edward Munro. — Dei fischi! dei fischi! — gridò Banks. — Forse li sentiranno. E precipitandosi verso la torretta, fece subito echeggiare l'aria di suoni acuti che superavano il brontolio profondo del tuono, e dovevano udirsi da lontano. Ci si può immaginare la situazione ma non si saprebbe descriverla. Da un lato, necessità di fuggire al più presto; dall'altro, obbligo di aspettare coloro che non erano ancora tornati! Banks era ritornato sotto la veranda posteriore. La fronte dell'incendio era ora a meno di cinquanta piedi dalla Steam-House. Un calore insopportabile si propagava, e l'aria ardente sarebbe ben presto diventata irrespirabile. Numerose scintille cadevano già fin sul nostro treno. Fortunatamente la pioggia torrenziale lo proteggeva ancora abbastanza, ma non avrebbe potuto evidentemente difenderlo contro gli attacchi diretti del fuoco. La macchina mandava sempre i suoi fischi striduli. Né Hod né Fox né Goûmi riapparivano. In quel momento, il macchinista raggiunse Banks. — Siamo sotto pressione, — disse. — Ebbene, partiamo, Storr! — rispose Banks, — ma non troppo in fretta! Quanto è necessario soltanto per tenerci fuori portata dell'incendio! — Aspetta, Banks, aspetta! — disse il colonnello Munro, che non poteva decidersi a lasciare l'accampamento. — Tre minuti ancora, Munro, — rispose freddamente Banks, — ma non di più. Fra tre minuti, la parte posteriore del treno comincerebbe a prendere fuoco! Passarono due minuti. Ormai era impossibile rimanere sotto la veranda. Non era addirittura più possibile appoggiare la mano sulle lastre ardenti che cominciavano a «imbarcarsi». Rimanere alcuni istanti di più sarebbe stata un'enorme imprudenza! — Andiamo, Storr! — gridò Banks. — Ah! — esclamò il sergente. — Loro!... — feci io. Il capitano Hod e Fox apparivano sulla destra della strada. Portavano a braccia Goûmi, come un corpo inerte, e giunsero al predellino posteriore. — Morto! — esclamò Banks. — No, colpito dal fulmine che gli ha spezzato il fucile in mano, — rispose il capitano Hod, — e paralizzato, ma solo alla gamba sinistra! — Sia ringraziato Dio! — disse il colonnello Munro. — Grazie, Banks! — aggiunse il capitano. — Senza i vostri fischi, non avremmo potuto ritrovare l'accampamento! — Andiamo! — esclamò Banks. — Andiamo! Hod e Fox si erano precipitati sul treno, e Goûmi, che non aveva perduto conoscenza, fu deposto nella sua cabina. — Che pressione abbiamo? — domandò Banks, che aveva raggiunto il macchinista. — Quasi cinque atmosfere, — rispose Storr. — Andiamo! — ripeté Banks. Erano le dieci e mezzo. Banks e Storr andarono a mettersi nella torretta. Venne azionato l'acceleratore, il vapore precipitò nei cilindri, si fecero udire i primi barriti, e il treno avanzò a piccola velocità, in mezzo a quella triplice intensità di luce, prodotta dall'incendio della foresta, dall'elettricità dei fanali e dai fulmini del cielo. In poche parole, il capitano Hod ci narrò quanto era accaduto durante la sua escursione. I suoi compagni e lui non avevano trovato traccia d'animali. Con l'uragano che si avvicinava, l'oscurità calò più rapidamente, e soprattutto più profondamente di quanto avessero supposto. Perciò vennero sorpresi dal primo scoppio di tuono quando si trovavano già a più di tre miglia dall'accampamento. Allora vollero tornare indietro, ma in qualsiasi modo facessero per orientarsi, non tardarono a smarrirsi in mezzo a quei gruppi di baniani che si assomigliano tutti, e senza che nessun sentiero indicasse loro la direzione che bisognava seguire. L'uragano scoppiò poco dopo con estrema violenza. In quel momento erano tutti e tre fuori della portata dei fanali elettrici. Perciò non poterono dirigersi in linea retta verso la Steam-House. La grandine e la pioggia cadevano a torrenti. Non c'era nessun riparo, tranne la volta insufficiente degli alberi, che non tardò a essere crivellata. A un tratto un tuono scoppiò accompagnato da un violento lampo. Goûmi cadde colpito dal fulmine accanto al capitano Hod, ai piedi di Fox. Del fucile che egli stringeva non rimaneva che il calcio; la canna, la camera di scoppio, il ponticello, tutto quello che era metallo era stato distrutto istantaneamente. I suoi compagni lo credettero morto. Fortunatamente non era così; ma la sua gamba sinistra, benché non fosse stata colpita direttamente dal fluido, era paralizzata. Il povero Goûmi non poteva fare un passo. Bisognava portarlo, dunque. Invano egli chiese che lo lasciassero là, pronti a venirlo a riprendere più tardi. I suoi compagni non vollero acconsentirvi, e, uno reggendolo per le spalle, l'altro per i piedi, si avventurarono alla meglio nella buia foresta. Per due ore Hod e Fox vagarono a casaccio, esitando, arrestandosi, ripigliando il cammino, senza alcun punto di riferimento che potesse indicare loro la direzione della Steam-House. Per fortuna, finalmente, i fischi, più percettibili delle fucilate in mezzo al frastuono degli elementi, echeggiarono nella bufera. Era la voce del Gigante d'Acciaio. Un quarto d'ora dopo, tutti e tre arrivavano nel momento in cui il luogo di fermata stava per essere abbandonato. Appena in tempo! Frattanto, se il treno correva sulla strada larga e piana della foresta, l'incendio camminava presto quanto lui. Ciò che rendeva il pericolo più minaccioso, era che il vento era cambiato, come fa di frequente durante questi fenomeni sconvolgenti che sono gli uragani. Invece di soffiare di fianco, soffiava ora di dietro, e con la sua violenza, attizzava tutto quell'incendio, come un ventilatore che saturi di ossigeno un focolare. Il fuoco guadagnava visibilmente terreno. I rami accesi, le scintille ardenti piovevano in mezzo ad una nuvola di ceneri calde, sollevate dal suolo come se qualche cratere avesse vomitato nello spazio del materiale eruttivo. Effettivamente, non si sarebbe potuto paragonare quell'incendio ad altro che all'avanzare di un fiume di lava attraverso la campagna divorando ogni cosa al suo passaggio. Banks lo notò. E anche se non lo avesse visto, lo avrebbe sentito dall'alito infuocato che passava nell'atmosfera. La corsa fu perciò accelerata, benché fosse piuttosto pericoloso farlo su quella strada sconosciuta. Ma la strada, allora invasa dalle acque del cielo, era scavata così profondamente, che la macchina non poteva venire spinta come avrebbe voluto l'ingegnere. Verso le undici e mezzo, nuovo scoppio di tuono, che fu terribile, e nuovo fulmine! Un grido ci sfuggì. Credemmo che Banks e Storr fossero stati colpiti entrambi nella torretta dalla quale dirigevano le mosse del treno. Quella sventura ci fu risparmiata. Era il nostro elefante che era stato colpito dalla scarica elettrica, alla punta di una delle sue lunghe orecchie pendenti. Non ne era derivato, fortunatamente, nessun danno per la macchina, e sembrò che il Gigante d'Acciaio volesse rispondere ai colpi dell'uragano con i suoi più precipitati barriti. — Hurrah! — gridò il capitano Hod, — hurrah! Un elefante in carne e ossa sarebbe caduto stecchito! Tu, invece, sfidi il fulmine, e nulla può arrestarti! Hurrah, Gigante d'Acciaio, hurrah! Per mezz'ora ancora, il treno mantenne la sua distanza. Nel timore di urtare troppo violentemente in qualche ostacolo, Banks lo spingeva solamente alla velocità necessaria per non essere raggiunto dal fuoco. Dalla veranda su cui il colonnello Munro, Hod e io avevamo preso posto, vedevamo passare delle grandi ombre, che balzavano nei raggi luminosi dell'incendio e dei lampi. Erano belve, finalmente. Per precauzione, il capitano Hod afferrò il fucile, perché era possibile che quelle bestie spaventate volessero gettarsi sul treno per cercarvi un riparo o un rifugio. E infatti, un'enorme tigre lo tentò; ma slanciandosi con un balzo prodigioso, fu presa per il collo fra due polloni di baniani. L'albero principale, curvandosi in quel momento sotto l'uragano, tese i polloni come due immense corde, che strangolarono l'animale. — Povera bestia! — disse Fox. — Queste belve, — rispose il capitano Hod sdegnato, — sono fatte per essere uccise da un'onesta pallottola di carabina! Sì! povera bestia! Davvero, il capitano Hod non aveva fortuna! Quando cercava le tigri, non ne vedeva, e quando non le cercava più, gli passavano al volo sotto il naso, senza che egli potesse prenderle di mira, oppure si strangolavano come un topo nel cappio di una trappola! All'una del mattino, il pericolo, per grande che fosse stato fino allora, raddoppiò ancora. Sotto l'influenza di quei venti impazziti che saltavano da un punto all'altro della bussola, l'incendio aveva raggiunto la strada davanti a noi, e ormai, eravamo completamente accerchiati. Tuttavia l'uragano era diminuito molto di violenza, come accade quasi sempre, quando questi fenomeni atmosferici passano sopra una foresta, i cui alberi carpiscono ed esauriscono a poco a poco l'elettricità. Ma se i lampi erano più rari, i tuoni più distanziati, se la pioggia cadeva con minor forza, il vento soffiava sempre con furore incredibile. Ad ogni costo si dovette affrettare la corsa del treno, a rischio di mandarlo a sbattere contro un ostacolo, o di farlo precipitare in qualche larga buca; Così fece Banks, ma con un sangue freddo meraviglioso, con gli occhi fissi ai vetri lenticolari della torretta, con la mano sull'acceleratore che non lasciava più. La strada sembrava ancora semiaperta fra due siepi di fuoco. Era dunque indispensabile passarvi in mezzo. Banks vi si lanciò risolutamente a una velocità di sei o sette miglia all'ora. Credetti che vi saremmo rimasti, soprattutto quando si dovette superare un punto strettissimo della fornace per un tratto di cinquanta metri. Le ruote del treno stridettero sui carboni ardenti che ingombravano il suolo e un'aria infuocata lo avvolse tutto quanto!... Eravamo passati! Finalmente, alle due del mattino, al bagliore dei rari lampi, apparve l'estremo limite del bosco. Dietro di noi si spiegava una grande distesa di fiamme. L'incendio si sarebbe estinto solo dopo aver divorato fino all'ultimo baniano dell'immensa foresta. All'alba, il treno finalmente si fermò; l'uragano si era calmato del tutto, e si preparò un accampamento provvisorio. Il nostro elefante, che venne visitato con cura, aveva la punta dell'orecchio destro forata da molti buchi, le cui frastagliature irregolari erano piegate io direzioni contrarie. Certamente, sotto un simile fulmine qualsiasi animale, che non fosse stato d'acciaio, sarebbe caduto per non rialzarsi più e l'incendio avrebbe divorato rapidamente il treno. Alle sei del mattino, dopo un sommario riposo, ci rimettemmo in cammino, e a mezzogiorno ci accampavamo nei dintorni di Rewah. CAPITOLO XIII PRODEZZE DEL CAPITANO HOD LA MEZZA giornata del 5 giugno e la notte seguente vennero trascorse tranquillamente nell'accampamento. Dopo tante fatiche, accresciute da tanti pericoli, quel riposo ci era proprio dovuto. Non era più il regno di Oudh che stendeva le sue ricche pianure davanti a noi. La Steam-House correva allora attraverso quel territorio, ancora fertile, ma fratturato da nullahs o precipizi, che forma il Rohilkhand. Bareilli è la capitale di questo ampio quadrato di centocinquantacinque miglia di lato, abbondantemente irrigato dai numerosi affluenti o sub-affluenti del Cogra, :on gruppi di magnifici manghi qua e là, disseminato di fitte jungle, che tendono a scomparire davanti alle coltivazioni. Qui fu il centro dell'insurrezione, dopo la presa di Delhi, qui ebbe luogo una delle campagne di sir Colin Campbell; qui la colonna del generale di brigata Walpole iniziò la sua campagna non troppo felicemente; qui perì un unico di sir Edward Munro, colonnello del 93° Scozzese, che si era distinto nei due assalti di Lucknow il famoso 14 aprile. Data la sua costituzione, nessun altro terreno sarebbe stato più favorevole alla marcia del nostro treno. Belle strade, ben livellate, corsi d'acqua facili da guadare fra le due arterie più importanti che scendono dal nord, tutto concorreva a rendere facile questa parte dell'itinerario. Non ci rimanevano più che poche centinaia di chilometri da percorrere prima di avvertire i primi rilievi del suolo che congiungono la pianura alle montagne del Nepal. Soltanto, ora bisognava tener seriamente conto della stagione delle piogge. Il monsone, che soffia da nord-est a sud-ovest durante i primi mesi dell'anno, aveva appena invertito direzione. Il periodo delle piogge è più violento sul litorale che non nell'interno della penisola, ed anche un po' più tardivo. Ciò deriva dal fatto che le nuvole si sciolgono prima di giungere nel centro dell'India. Inoltre, la loro direzione viene anche un po' modificata dalla barriera delle alte montagne, che forma come una specie di gorgo atmosferico. Sulla costa del Malabar, il monsone comincia nel mese di maggio; in mezzo alle province centrali e settentrionali, esso si fa sentire solo alcune settimane più tardi, nel mese di giugno. Ora eravamo in giugno, ed era in queste circostanze particolari, ma previste, che il nostro viaggio doveva ormai effettuarsi. Devo dire anzitutto che, fino dal giorno dopo, il nostro bravo Goûmi, disarmato in così malo modo dal fulmine, stava meglio. La paralisi alla gamba sinistra fu solo temporanea. Non gliene restò traccia, ma mi sembrò che gli serbasse rancore al fuoco del cielo. Durante le due giornate del 6 e del 7 giugno, il capitano Hod fece una caccia migliore con l'aiuto di Phann e di Black. Egli poté uccidere una coppia di quelle antilopi che, nella zona, si chiamano nilgau. Sono i buoi azzurri degli indù, che sarebbe più giusto chiamare cervi, perché assomigliano più ai cervi che non ai confratelli del dio Api. Bisognerebbe anzi chiamarli cervi grigio perla, poiché il loro colore ricorda certamente meglio quello del cielo burrascoso che non quello del cielo azzurro. Si assicura tuttavia che in qualche esemplare di questi magnifici animali, dalle piccole corna acuminate e diritte, dalla testa lunga e leggermente bombata, il mantello diventa quasi azzurro, tinta che la natura sembra aver sempre rifiutato ai quadrupedi, perfino alla volpe azzurra, la cui pelliccia è piuttosto nera. Non erano ancora i carnivori sognati dal capitano Hod. Però, il nilgau, se non è feroce, diventa pericoloso quando, ferito leggermente, si avventa sul cacciatore. Una prima pallottola del capitano, una seconda di Fox, arrestarono di colpo nel loro slancio quei due superbi animali. Furono uccisi quasi al volo. Perciò, per Fox, non era che selvaggina da penna! Il signor Parazard, invece, fu di tutt'altra opinione, e gli ottimi cosciotti arrostiti proprio a puntino, che ci servì quello stesso giorno, ci fecero schierare dalla sua parte. L'8 giugno, all'alba, lasciavamo il nostro accampamento che era stato posto presso un piccolo villaggio del Rohilkhand. Vi eravamo giunti la sera prima, dopo aver percorso i quaranta chilometri che lo separano da Rewah. Il nostro treno aveva dunque camminato a una velocità molto moderata su un terreno che le piogge continuavano ad ammollare. Inoltre, i corsi d'acqua cominciavano a gonfiarsi, e parecchi guadi ci causarono un ritardo di alcune ore. Ma, dopo tutto, non si trattava che di uno o due giorni. La regione montuosa in cui contavamo di sistemare la Steam-House durante molti mesi della stagione estiva, come in mezzo a un sanitarium, eravamo sicuri di raggiungerla prima della fine di giugno. Perciò nessuna preoccupazione al riguardo. Durante questa giornata dell'8, il capitano Hod dovette rimpiangere un bel tiro. La via era fiancheggiata da folte jungle di bambù, come se ne incontrano di frequente intorno a questi villaggi, che sembrano costruiti dentro cesti di fiori. Non era ancora la jungla vera e propria, quella che, per gli indù, è la pianura aspra, nuda, sterile, dominata da arbusti grigiastri. Eravamo, al contrario, in un paese coltivato, in un territorio fertile, disseminato generalmente di risaie acquitrinose. Il Gigante d'Acciaio se ne andava tranquillamente, diretto dalla mano di Storr, lanciando i suoi eleganti pennacchi di vapore, che il vento sparpagliava sui bambù della via. Ad un tratto, un animale si slanciò con agilità sorprendente e si gettò al collo del nostro elefante. — Un tchîta, un tchîta! — gridò il macchinista. A quel grido, il capitano Hod balzò sul balcone anteriore, e afferrò il suo fucile, sempre carico e a portata di mano. — Un tchîta — esclamò a sua volta. — Via, tirate! — gridai. — Ho tempo! — rispose il capitano Hod, che si accontentò di prendere di mira l'animale. Il tchîta è una specie di leopardo caratteristico dell'India, meno grosso della tigre, ma quasi altrettanto temibile, tanto è vivace, svelto, robusto. Il colonnello Munro, Banks e io, ritti sotto la veranda, lo osservavamo, aspettando la fucilata del capitano. Evidentemente, quel leopardo era stato ingannato dall'aspetto del nostro elefante. Gli si era arditamente gettato addosso; ma là dove credeva di trovare della carne viva, nella quale affondare i denti o gli artigli, trovava invece una carne di lamiera che né i suoi artigli né i suoi denti potevano intaccare. Furibondo del proprio scacco, si aggrappava alle lunghe orecchie del falso animale, e stava senza dubbio per abbandonarlo, quando ci vide. Il capitano Hod lo teneva sempre sotto mira, da cacciatore che, sicuro del proprio colpo, non vuole colpire la belva se non nel momento opportuno e nel punto migliore. Il tchîta si rizzò, ruggendo. Senza dubbio sentì il pericolo, ma non parve che lo volesse fuggire. Forse, cercava il momento favorevole per slanciarsi sulla veranda. Infatti, lo vedemmo di lì a poco arrampicarsi sulla testa dell'elefante, abbracciare con le zampe la proboscide che serviva da ciminiera, poi salire fin quasi al suo orifizio, dal quale sfuggivano gli sbuffi di vapore. — Tirate dunque, Hod! — dissi ancora. — Ho tempo — rispose il capitano. Poi rivolgendosi a me, senza peraltro perdere di vista il leopardo, che ci guardava: — Non avete mai ammazzato un tchîta, Maucler? — mi domandò. — Mai. — Volete ammazzarne uno? — Capitano, — risposi, — non voglio privarvi di questo colpo magnifico... — Peuh! — disse Hod, — non è un colpo da cacciatore! Prendete un fucile, mirate quella bestia all'attaccatura della spalla! Se la sbagliate, la prenderò al volo! — E va bene. Fox, che era venuto a raggiungerci, mi passò una carabina a due canne che teneva in mano. La presi, la caricai, mirai alla spalla del leopardo sempre immobile, e feci fuoco. L'animale, ferito, ma leggermente, fece un balzo enorme, e passando sopra la torretta del macchinista, venne a cadere sul primo tetto della Steam-House. Il capitano Hod, per buon cacciatore che fosse, non aveva avuto il tempo di colpirlo al volo... — A noi, Fox, a noi! — esclamò. Ed entrambi, slanciandosi fuori della veranda, andarono ad appostarsi nella torretta. Il leopardo, che andava e veniva, si slanciò sul secondo tetto, dopo aver attraversato con un balzo la passerella. Nel momento in cui il capitano stava per far fuoco, l'animale spiccò un altro balzo, si precipitò al suolo, si rialzò con slancio vigoroso, e scomparve nella jungla. — Ferma! ferma! — gridò vivamente Banks al macchinista, il quale, fermando l'immissione del vapore, bloccò istantaneamente le ruote di tutto il treno con il freno ad aria. Il capitano e Fox balzarono sulla strada, e si slanciarono nella macchia per raggiungere il tchîta. Passarono alcuni minuti. Ascoltavamo, non senza una certa impazienza, ma non si sentirono fucilate. I due cacciatori ritornarono a mani vuote. — Scomparso! fuggito! — esclamò il capitano Hod, — e neppure una traccia di sangue sull'erba! — È colpa mia, — dissi al capitano. — Avreste fatto meglio a far fuoco su quel tchîta in vece mia. Non lo avreste sbagliato. — Bene! lo avete ferito, — rispose Hod, — ne sono sicuro, ma non nel punto giusto. — Non è quello, capitano, che farà la mia trentottesima, né la vostra quarantunesima! — disse Fox un po' dispiaciuto. — Bah! — replicò Hod con tono di noncuranza un po' affettato, — un tchîta non è una tigre! Altrimenti, caro Maucler, non sarei stato capace di cedervi quel tiro! — A tavola, amici, — disse allora il colonnello Munro. — La colazione ci aspetta e vi consolerà... — Tanto più, — disse Mac Neil, — che la colpa è tutta di Fox. — Colpa mia? — rispose l'attendente, sbigottito da quella osservazione inaspettata. — Senza dubbio, Fox, — riprese il sergente. — La carabina che hai consegnato al signor Maucier era stata caricata solo con del piombo da sei! E Mac Neil mostrava la seconda cartuccia che aveva estratto dall'arma di cui mi ero servito. Non conteneva, infatti, che pallini da pernice. — Fox! — disse il capitano Hod. — Capitano? — Due giorni di cella di rigore! — Sì, capitano. E Fox se ne andò nella sua cabina, deciso a non ricomparirci davanti se non quarantotto ore dopo. Si vergognava profondamente del proprio errore, e voleva nascondere la sua vergogna. Il giorno dopo, 9 giugno, il capitano Hod, Goûmi e io andammo a battere la pianura lungo la strada, durante la mezza giornata di sosta che Banks aveva concesso. Era piovuto tutta la mattina, ma, verso mezzogiorno, il cielo si era un po' rasserenato, e si poteva sperare in una schiarita di alcune ore. Del resto, non era Hod, il cacciatore di belve, che mi conduceva, questa volta era il cacciatore di selvaggina. Nell'interesse della mensa, egli andava a gironzolare tranquillamente sul bordo delle risaie, in compagnia di Black e di Phann. Il signor Parazard aveva fatto sapere al capitano che la dispensa era vuota, ed egli aspettava da Suo Onore, che Suo Onore volesse «prendere i provvedimenti necessari» per riempirla. Il capitano Hod si rassegnò, e partimmo armati di semplici fucili da caccia. Per due ore, la nostra battuta non ebbe altro risultato che quello di far alzare qualche pernice o di far stanare qualche lepre, ma a tali distanze, che, nonostante la buona volontà dei nostri cani, si dovette rinunciare alla speranza di raggiungerle. Perciò il capitano Hod era di pessimo umore. D'altra parte, in mezzo a quell'ampia pianura, senza jungle, senza boschi cedui, sparsa di villaggi e di fattorie, non poteva fare assegnamento sull'incontro di un carnivoro qualsiasi, che lo avrebbe compensato del leopardo mancato il giorno prima. Era lì solo come approvvigionatore e si preoccupava del modo in cui lo avrebbe ricevuto il signor Parazard nel caso che fosse ritornato con il carniere vuoto. Eppure, non era colpa nostra. Alle quattro non avevamo ancora avuto occasione di tirare una sola fucilata. Soffiava un vento asciutto e, come ho detto, tutta la selvaggina si portava fuori tiro... — Caro amico, — mi disse allora il capitano Hod, — decisamente, la cosa non va! Lasciando Calcutta, vi ho promesso delle cacce magnifiche, e una cattiva fortuna, una fatalità persistente, di cui non capisco un bel nulla, m'impedisce di mantenere la promessa! — Via, capitano, — risposi, — non bisogna disperare. Se provo un po' di rammarico, è meno per me che per voi!... Ci prenderemo la rivincita, del resto, nelle montagne del Nepal. — Sì, — disse il capitano Hod, — là, su quelle prime balze dell'Himalaya, le condizioni operative saranno migliori. Vedete, Maucler, scommetterei che il nostro treno, con tutti i suoi congegni, i muggiti del suo vapore, e soprattutto il suo elefante gigantesco, spaventa queste dannate belve più ancora di quanto le spaventi un treno ferroviario, e sarà così finché sarà in moto! Quando sarà fermo, speriamolo, saremo più fortunati. Davvero, quel leopardo era pazzo! Bisognava che morisse di fame per gettarsi sul nostro Gigante d'Acciaio e si meritava di essere fatto secco da una buona pallottola! Dannato Fox! Non dimenticherò mai quello che ha combinato! Che ora è? — Sono quasi le cinque. — Già le cinque, e non abbiamo ancora potuto bruciare una cartuccia! — All'accampamento non ci aspettano che per le sette. Forse prima di allora... — No! la fortuna ci è contraria, — esclamò il capitano Hod, — e, vedete, la fortuna è metà della riuscita! — Anche la perseveranza, — risposi. — Ebbene, scommettiamo, capitano, che non ritorneremo a casa con le mani vuote. Vi va? — Se mi va! — esclamò Hod. — Muoia chi si disdice! — Siamo intesi. — Vedete, Maucler, porterei a casa anche un topo o uno scoiattolo, piuttosto che tornarmene a mani vuote! Il capitano Hod, Goûmi e io, eravamo in quella disposizione d'animo per cui tutto è buona guerra. La caccia venne dunque continuata con una ostinazione degna di miglior sorte; ma sembrava che gli uccelli più innocui avessero indovinato le nostre intenzioni ostili. Impossibile poterne avvicinare uno solo. Procedevamo così in mezzo alle risaie, battendo ora un lato della via ora l'altro, ritornando poi indietro, per non allontanarci troppo dall'accampamento. Fatica inutile! Alle sei e mezzo della sera, le cartucce dei nostri fucili erano ancora intatte. Avremmo potuto venir là con il bastone da passeggio in mano, il risultato sarebbe stato lo stesso. Guardavo il capitano Hod. Egli camminava a denti stretti. Sulla fronte una grossa ruga, profondamente scavata fra le due sopracciglia, denunciava una rabbia sorda. Borbottava fra le labbra serrate non so quali vane minacce contro ogni essere vivente, coperto di pelo o di penne, di cui non si vedeva un solo esemplare in quella pianura. Evidentemente, avrebbe finito con lo scaricare il fucile contro un oggetto qualsiasi, albero o rupe: maniera cinegetica per sfogare la propria collera. L'arma gli scottava fra le dita, lo si vedeva. La gettava sul braccio, la rimetteva a tracolla, la imbracciava quasi suo malgrado. Goûmi lo guardava. — Il capitano diventerà furioso, se la cosa continua! — mi disse scuotendo il capo. — Sì, — risposi — e pagherei volentieri trenta scellini il più modesto dei colombi domestici che una mano caritatevole gli mettesse a tiro! Ciò lo calmerebbe. Ma, né per trenta scellini né per il doppio né per il triplo, avremmo potuto procurarci a quell'ora la meno costosa e la più volgare delle selvaggine. La campagna allora era deserta, e non vedevamo più né fattorie né villaggi. In verità, credo che se fosse stato possibile, avrei mandato Goûmi a comperare a qualunque prezzo un volatile qualsiasi, addirittura un pollo spennato, per abbandonarlo come rappresaglia ai colpi del nostro indispettito capitano! Intanto, la notte si avvicinava. Fra un'ora non ci sarebbe più stata abbastanza luce per poter continuare quella spedizione infruttuosa. Benché ci fossimo giurati che non saremmo ritornati all'accampamento con il carniere vuoto, pure vi saremmo stati costretti, a meno di voler passare la notte nella pianura. Ma, senza contare che quella notte minacciava di essere piovosa, il colonnello Munro e Banks, non vedendoci ritornare, sarebbero rimasti in uno stato di preoccupazione che bisognava risparmiare loro. Il capitano Hod, con gli occhi spalancati, guardando da sinistra a destra e da destra a sinistra con la rapidità di un uccello, camminava dieci passi avanti, e in una direzione che non ci avvicinava assolutamente alla Steam-House. Stavo per affrettare il passo e raggiungerlo per dirgli di rinunciare una buona volta a lottare contro la cattiva sorte, quando alla mia destra si udì un forte sbatter d'ali. Guardai. Una massa biancastra si alzava lentamente sopra una macchia. Subito, senza lasciare al capitano Hod il tempo di voltarsi, imbracciai il fucile, e i miei due colpi partirono successivamente. Il volatile ignoto a cui avevo sparato cadde pesantemente sull'orlo di una risaia. Phann si slanciò d'un balzo, si impadronì della selvaggina che avevo abbattuto, e la riportò al capitano. — Finalmente! — esclamò Hod. — Se il signor Parazard non è contento, che si precipiti nella pentola, a capofitto! — Ma, almeno, è una selvaggina che si mangia? — domandai. — Certamente... in mancanza di meglio! — rispose il capitano. — Fortunatamente nessuno vi ha visto, signor Maucler! — mi disse Goûmi. — Che cosa ho fatto dunque di riprovevole? — Eh! Avete ucciso un pavone, ed è proibito uccidere i pavoni, che sono uccelli sacri in tutta l'India. — Il diavolo si porti gli uccelli sacri e quelli che li consacrano! — esclamò il capitano Hod. — Questo è ucciso, e lo mangeremo... con devozione, se vorrete, ma lo mangeremo!... Infatti nel paese dei bramini, dopo la spedizione di Alessandro, epoca in cui il pavone si diffuse nella penisola, esso è un animale fra i più sacri. Gli indù ne hanno fatto l'emblema della dea Saravasti, che presiede alle nascite e ai matrimoni. È proibito distruggere questo volatile pena gravi sanzioni che la legge inglese ha confermato. Quell'esemplare dei gallinacei, che formava la gioia del capitano Hod, era magnifico, con le sue ali verde cupo a riflessi metallici, orlate da una striscia d'oro. La sua coda, ben fornita e tutta occhiuta, formava un superbo ventaglio di barbe seriche. — Andiamo! andiamo! — disse il capitano. — Domani il signor Parazard ci farà mangiare del pavone, checché ne possano pensare tutti i bramini dell'India! Dato che il pavone, in sostanza, non è che un pollo pretenzioso, questo, con le sue penne artisticamente rialzate, farà bella figura sulla nostra tavola. — Finalmente eccovi soddisfatto, capitano? — Soddisfatto... di voi, sì, caro amico, ma assolutamente scontentissimo di me! La mia cattiva sorte non è ancora passata, e bisognerà pure che passi! Andiamo! Eccoci dunque ritornare sui nostri passi verso l'accampamento da cui dovevamo essere lontani tre miglia circa. Sul sentiero che disegnava il suo sinuoso tracciato attraverso le fitte jungle di bambù, il capitano Hod e io, camminavamo l'uno accanto all'altro. Goûmi, che portava la nostra selvaggina, era due o tre passi più indietro. Il sole non era ancora scomparso, ma grosse nubi lo velavano, e bisognava cercare la via nella semioscurità. Ad un tratto, un ruggito formidabile esplose in una macchia sulla destra. Questo ruggito mi parve così terrificante, che mi fermai di colpo, quasi mio malgrado. Il capitano Hod mi afferrò la mano. — Una tigre! — disse. Poi gli sfuggì una bestemmia. — Fulmini delle Indie! — esclamò, — e abbiamo solo pallini da pernice nei nostri fucili! Purtroppo era vero, e né Hod né Goûmi né io avevamo cartucce a palla. D'altra parte non avremmo avuto il tempo di caricare le nostre armi. Dieci secondi dopo aver emesso il suo ruggito, l'animale si slanciava fuori dalla macchia e ricadeva con un solo balzo a venti passi sulla strada. Era una magnifica tigre, di quella specie che gli indù chiamano mangiatrici d'uomini, eater men, feroci carnivori, le cui vittime si contano ogni anno a centinaia. La situazione era terribile. Io guardavo la tigre, la divoravo con gli occhi, e, lo confesso, il fucile mi tremava in mano. Misurava nove o dieci piedi di lunghezza e aveva il mantello fulvo, solcato da strisce bianche e nere. Anche lei ci guardava. I suoi occhi da gatto fiammeggiavano nella penombra. La sua coda spazzava febbrilmente il terreno. Si appiattiva al suolo e si raccoglieva su se stessa come per slanciarsi. Hod non aveva perduto il suo sangue freddo. Teneva sotto mira l'animale, e mormorava con un tono impossibile a rendere: — Pallini da sei! Fulminare una tigre con dei pallini da sei! Se non faccio fuoco a bruciapelo, negli occhi, siamo... Il capitano non poté finire. La tigre avanzava, non a balzi, ma a piccoli passi. Goûmi, raggomitolato dietro, la teneva lui pure sotto mira, ma anche il suo fucile non conteneva che dei pallini. Quanto al mio, non era nemmeno carico. Volli prendere una cartuccia nella cartuccera. — Non movetevi — mi disse il capitano a bassa voce. — La tigre balzerebbe, e non bisogna che lo faccia! Ce ne stavamo perciò tutti e tre immobili. La tigre avanzava lentamente. La sua testa, che un attimo prima dondolava, non si muoveva più. I suoi occhi guardavano fisso, ma come di sotto in su. Con la grande mandibola semiaperta, tenuta raso al suolo, sembrava aspirarne le emanazioni. In breve, la formidabile belva fu a soli dodici passi dal capitano. Hod, ben piantato sulle gambe, immobile come una statua, concentrava tutta la sua vita nello sguardo. La lotta spaventosa che si preparava, da cui forse nessuno di noi sarebbe uscito vivo, non gli faceva nemmeno aumentare i battiti del cuore! Credetti, in quel momento, che la tigre stesse finalmente per balzare. Fece ancora cinque passi. Ebbi bisogno di tutta la mia forza per non gridare al capitano Hod: — Ma sparate, dunque! Sparate, dunque! No! Il capitano lo aveva detto, ed era evidentemente il solo mezzo di salvezza, egli voleva bruciare gli occhi all'animale; ma, per far questo, bisognava sparargli solamente a bruciapelo. La tigre fece ancora tre passi e si rizzò per lanciarsi... Risuonò una violenta detonazione, che fu seguita quasi subito da una seconda. Il secondo scoppio era avvenuto nel corpo stesso dell'animale, che, dopo tre o quattro sussulti e dei ruggiti di dolore, ricadde esanime al suolo. — Miracolo! — esclamò il capitano Hod. — Il mio fucile era carico a palla, dunque, e a proiettile esplosivo! Ah! questa volta grazie, Fox, grazie! — Possibile! — esclamai. — Guardate! E, aprendo la sua arma, il capitano Hod ne estrasse la cartuccia della canna di sinistra. Era una cartuccia a palla. Tutto si spiegava. Il capitano Hod aveva una carabina doppia e un fucile doppio, entrambi dello stesso calibro. Ora, Fox, mentre per errore aveva caricato la carabina con le cartucce a pallini, aveva caricato il fucile da caccia con le cartucce a proiettili esplosivi, e se, il giorno prima, quell'errore aveva salvato la vita al leopardo, oggi l'aveva salvata a noi! — Sì, — riprese il capitano Hod, — e non mi sono mai trovato più vicino alla morte! Mezz'ora dopo eravamo di ritorno all'accampamento. Hod faceva chiamare Fox e raccontava quanto era accaduto. — Capitano, — rispose l'attendente, — questo dimostra che, invece di due giorni di consegna, ne merito quattro, poiché mi sono ingannato due volte! — È anche il mio parere, — rispose il capitano Hod; — ma poiché il tuo errore mi ha fruttato la mia quarantunesima, è mio parere pure offrirti questa ghinea... — E parere mio prenderla, — rispose Fox, che intascò la moneta d'oro. Questi furono gli incidenti che segnalarono il primo incontro del capitano Hod e della sua quarantunesima tigre. La sera del 12 giugno, il nostro treno si fermava presso una borgata poco importante, e, il giorno seguente, ripartivamo per superare i centocinquanta chilometri che ci separavano ancora dalle montagne del Nepal. CAPITOLO XIV UNO CONTRO TRE ALCUNI giorni ancora e avremmo finalmente cominciato ad arrampicarci sulle prime balze di quelle regioni settentrionali dell'India che, di piano in piano, di collina in collina, di montagna in montagna, vanno a raggiungere le maggiori altezze del globo. Fino allora, il suolo non aveva seguito che un dislivello insensibile, la sua pendenza si notava solo leggermente, e il nostro Gigante d'Acciaio non sembrava nemmeno accorgersene. Il tempo era burrascoso, soprattutto piovoso, ma la temperatura si manteneva ad una media sopportabile. Le strade non erano ancora cattive e resistevano bene sotto i larghi cerchioni delle ruote del treno, per quanto esso fosse pesante. Quando qualche solco affondava eccessivamente, bastava un colpetto della mano di Storr all'acceleratore per provocare una più energica spinta del fluido obbediente, e l'ostacolo veniva superato. La potenza non mancava alla nostra macchina, lo si sa, e un quarto di giro, impresso alle valvole di immissione, aggiungeva istantaneamente alla sua forza effettiva alcune dozzine di cavalli-vapore. Per la verità, finora non avevamo che da complimentarci tanto per quel genere di locomozione quanto del motore che Banks aveva adottato e della comodità delle nostre case ambulanti, sempre in cerca di nuovi orizzonti che si modificavano continuamente sotto il nostro sguardo. Infatti non era più quella pianura sconfinata che si stende dalla valle del Gange fino ai territori dell'Oudh e del Rohilkhand. Le vette dell'Himalaya formavano a nord una gigantesca barriera, contro la quale venivano a inciampare le nuvole cacciate dal vento di sudovest. Era ancora impossibile vedere bene il pittoresco profilo di una catena che si stagliava a una media di ottomila metri sopra il livello del mare; ma, avvicinandoci alla frontiera tibetana, l'aspetto del paese diventava più selvaggio, e le jungle invadevano il suolo a spese dei campi coltivati. Anche la flora di quella parte del territorio indù non è più la stessa. Già i palmizi erano scomparsi per cedere il posto a quei magnifici baniani, a quei manghi fronzuti che forniscono il frutto migliore dell'India e più ancora ai gruppi di bambù, i cui rami si aprivano a mazzo fino a cento piedi dal suolo. Si vedevano anche magnolie dai larghi fiori che impregnavano l'aria di profumi penetranti, aceri superbi, querce di diverse specie, castani dai frutti irti di punte come ricci di mare, alberi della gomma la cui linfa sgorgava dalle vene semiaperte, pini dalle foglie enormi della specie dei pandani; poi, più modesti di dimensioni, più splendidi di colori, gerani, rododendri, lauri, disposti ad aiuole, che fiancheggiavano le strade. Si vedevano ancora dei villaggi con capanne di paglia o di bambù, due o tre fattorie, perdute in mezzo ai grandi alberi, ma già distanziati da un maggior numero di miglia. La popolazione diminuiva con l'avvicinarsi alle alte terre. Sopra questi ampi paesaggi, come sfondo, bisogna ora mettere un cielo grigio e nebbioso. Aggiungerò anzi che la pioggia cadeva generalmente in violenti acquazzoni. Per quattro giorni, dal 13 al 17 giugno, non avemmo forse una mezza giornata di tregua. Quindi, eravamo costretti a rimanere nel salotto della Steam-House e a ingannare le lunghe ore come si sarebbe fatto in una casa stabile, fumando e chiacchierando, giocando a whist. Frattanto, i fucili restavano inoperosi, con gran dispiacere del capitano Hod; ma due slam, che egli fece in una sera sola, gli resero il suo solito buon umore. — Si può sempre ammazzare una tigre, — disse, — ma non sempre si può fare uno slam! Non c'era nulla da ribattere a una proposizione tanto esatta e formulata così nettamente. Il 17 giugno, l'accampamento venne rizzato presso un serai, nome che portano i bungalow riservati in particolar modo ai viaggiatori. Il tempo si era leggermente schiarito, e il Gigante d'Acciaio, che aveva lavorato duramente in quei quattro giorni, reclamava, se non un po' di riposo, almeno delle cure. Si stabilì quindi di passare la mezza giornata e la notte seguente in quel luogo. Il serai è il caravanserraglio, la locanda pubblica delle strade principali della penisola, un quadrilatero di costruzioni poco elevate che circondano una corte interna, e, per lo più, sormontate da quattro torrette agli angoli, il che dà loro un'aria decisamente orientale. In questi serai, vi è del personale addetto in particolar modo al servizio interno; il bhisti o portatore d'acqua, il cuoco, provvidenza dei viaggiatori che, poco esigenti, sanno accontentarsi di uova e di pollame, e il khansama, cioè il fornitore di viveri, con il quale si può trattare direttamente, e, generalmente, a buon prezzo. Il guardiano del serai, il fante, è semplicemente un agente dell'onorevolissima Compagnia, alla quale appartengono quasi tutti questi stabilimenti, che essa fa ispezionare dall'ingegnere capo del distretto. Una regola abbastanza strana, ma osservata rigorosamente in quegli stabilimenti, è questa: qualsiasi viaggiatore può occupare il serai per ventiquattro ore; se vi vuol soggiornare più a lungo, deve avere un permesso dell'ispettore. In mancanza di tale permesso, il primo venuto, inglese o indù, può esigere che gli ceda il posto. Naturalmente, appena fummo arrivati al nostro luogo di fermata, il Gigante d'Acciaio produsse il solito effetto, ossia fu molto osservato, forse anche molto invidiato. Tuttavia devo ammettere che gli ospiti che si trovavano allora nel serai lo considerarono piuttosto con una specie di disprezzo, disprezzo troppo affettato per essere sincero. È vero che non avevamo a che fare con dei semplici mortali, che viaggiassero per commercio o per diporto. Non si trattava né di qualche ufficiale inglese che ritornasse agli accantonamenti della frontiera nepalese né di qualche mercante indù, che conducesse la sua carovana verso le steppe dell'Afghanistan, al di là di Labore o di Peshawar. Era nientemeno che il principe Guru Singh in persona, figlio di un rajah indipendente del Guzarate, anch'egli rajah, che viaggiava con gran pompa nel nord della penisola indiana. Questo principe occupava non solo le tre o quattro sale del serai, ma anche tutti i dintorni, che erano stati sistemati in modo da alloggiare le persone del suo seguito. Non avevo ancora visto nessun rajah in viaggio. Perciò appena il nostro accampamento fu preparato a un quarto di miglio circa dal serai, in un luogo delizioso, sulla sponda di un piccolo corso d'acqua, e al riparo di magnifici pandani, mi recai, in compagnia del capitano Hod e di Banks, a visitare l'accampamento del principe Guru Singh. Il figlio di un rajah in viaggio non si sposta da solo, tutt'altro! Se c'è della gente che non invidio, sono proprio quelli che non possono muovere una gamba né fare un passo, senza mettere immediatamente in moto alcune centinaia d'uomini! Molto meglio essere un semplice viandante con il sacco in spalla, il bastone in mano e il fucile a bandoliera, piuttosto che un principe che viaggi nell'India, con tutto il cerimoniale che il suo rango gli impone. — Non è un uomo che va da una città all'altra, — mi disse Banks, — è un villaggio intero che modifica le proprie coordinate geografiche! — Preferisco la Steam-House, — risposi, — e non farei il cambio con questo figlio di rajah! — E chissà,— riprese il capitano Hod, — se questo principe non preferirebbe la nostra casa ambulante a tutta questa fastidiosa messinscena da campagna! — Non ha che da dire una parola, — esclamò Banks, — e gli fabbricherò un palazzo a vapore, purché paghi le spese! Ma, in attesa della sua ordinazione, vediamo un po' questo accampamento, se ne vale la pena! Il seguito del principe non comprendeva meno di cinquecento persone. Fuori, sotto i grandi alberi della pianura, erano disposti simmetricamente come le tende di un vasto campo duecento carri. Per trascinarli, gli uni avevano degli zebù, altri dei bufali, senza contare tre magnifici elefanti che portavano sul dorso dei ricchissimi palanchini, e una ventina di quei cammelli, venuti dai paesi all'ovest dell'Indo, che si attaccano alla Daumont. 19 Nulla mancava a quella 19 Sistema per attaccare i cavalli a una carrozza, che deriva il suo nome dal duca d'Aumont che per primo lo introdusse in Francia sotto la Restaurazione; esso carovana, né i suonatori che deliziavano le orecchie di Sua Altezza, né le baiadere che rallegravano i suoi occhi, né i giocolieri che divertivano i suoi ozi. Trecento portatori e duecento alabardieri completavano il seguito, i cui stipendi avrebbero esaurito qualsiasi borsa che non fosse stata quella di un rajah indipendente dell'India. I musicisti erano suonatori di piccoli tamburi, di cembali, di tamtam, appartenenti a quella scuola che sostituisce ai suoni i rumori; poi degli strimpellatori di chitarra e di violino a quattro corde, i cui strumenti non erano mai passati per le mani dell'accordatore. Fra i giocolieri c'erano alcuni di quei sapwallah, o incantatori di serpenti, che con i loro incantesimi allontanano e attirano i rettili; dei nutui, abilissimi nelle evoluzioni con la sciabola; degli acrobati che ballano sulla corda lenta, con in testa una piramide di vasi di coccio e ai piedi zoccoli di corna di bufalo; e finalmente di quei prestigiatori che hanno l'abilità di trasformare in velenosi cobra delle vecchie pelli di serpente o viceversa, a piacimento dello spettatore. Le baiadere appartenevano alla classe di quelle graziosissime boundeli, tanto ricercate per le nautch o feste serali, nelle quali adempiono la doppia funzione di cantanti e di ballerine. Vestite molto elegantemente, alcune di mussola ricamata d'oro, altre di gonne a pieghe e di sciarpe che sciolgono eseguendo i loro passi, quelle ballerine erano adorne di ricchi gioielli, braccialetti preziosi alle braccia, anelli d'oro alle dita dei piedi e delle mani, sonagli d'argento alle caviglie. In tale abbigliamento, esse eseguono la famosa danza delle uova con grazia e destrezza veramente straordinarie, e io speravo che mi sarebbe stato concesso di ammirarle dietro invito speciale del rajah. Poi un certo numero d'uomini, di donne e di fanciulli figurava non so a quale titolo nel personale della carovana. Gli uomini erano avvolti in una lunga striscia di stoffa che si chiama dhoti o vestiti della camicia angarkah e della lunga veste bianca jamah, che forma un costume molto pittoresco. consiste in un tiro di quattro cavalli attaccati alla carrozza senza timone e guidati da due postiglioni che montano i primi due animali. (N.d.T.) Le donne portavano il choli, specie di giacchetta a maniche corte, e il sari, equivalente del dhoti degli uomini, che esse si avvolgono intorno al corpo, e la cui estremità gettano con civetteria sul capo. Questi indù, sdraiati sotto gli alberi, aspettando l'ora del pasto, fumavano delle sigarette avvolte in una foglia verde, oppure il garguli destinato all'incenerazione del gurago, specie di marmellata nerastra composta di tabacco, melassa e oppio. Altri masticavano quel miscuglio di foglia di betel, noce di arek e calce spenta, che ha certamente delle proprietà digestive, utilissime sotto il clima infocato dell'India. Tutta quella gente, abituata a muoversi in carovana, viveva in buon accordo, e mostrava animazione solo in occasione delle feste. Si sarebbero dette comparse di una compagnia teatrale, che ricadono nella più completa apatia appena sono fuori di scena. Tuttavia, quando giungemmo all'accampamento, quegli indù si affrettarono a rivolgerci dei salam inchinandosi fino a terra. La maggior parte di loro gridava: Sahib! Sahib! che significa: Signore! Signore! e noi rispondemmo loro con gesti amichevoli. Come ho detto, mi era venuto in mente che il principe Guru Singh avrebbe forse voluto dare in nostro onore una di quelle feste di cui i rajah non sono avari. La grande corte del bungalow, adattissima per una cerimonia di questo genere, mi pareva una degna cornice per le danze delle baiadere, gli incantesimi degli incantatori e i giochi degli acrobati. Sarei stato felice, lo confesso, di poter assistere a questo spettacolo in un serai, sotto l'ombra di magnifici alberi, e con la scenografia naturale costituita dal personale della carovana. Sarebbe stato meglio certamente del palcoscenico di un teatro ristretto, con le quinte di tela dipinta, le strisce di falso verde e le poche comparse. Comunicai il mio pensiero ai miei compagni, i quali, pur condividendo il mio desiderio, non credettero che potesse realizzarsi. — Il rajah di Guzarate, — mi disse Banks, — è un indipendente che si è appena sottomesso, dopo la rivolta dei Cipay, durante la quale la sua condotta è stata per lo meno ambigua. Egli non ama affatto gli inglesi, e suo figlio non farà nulla per farci piacere. — Ebbene, faremo a meno delle sue nautch! — rispose il capitano Hod con una sdegnosa alzata di spalle. Doveva essere così, e non fummo neppure ammessi a visitare l'interno del serai. Forse il principe Guru Singh si aspettava la visita ufficiale del colonnello. Ma sir Edward Munro non aveva nulla da chiedere a quel personaggio, non ne aspettava nulla, e non si scomodò. Ritornammo perciò al luogo della sosta e facemmo onore all'ottimo pranzo che il signor Parazard ci preparò. Devo dire che le conserve ne formavano la parte principale. Da molti giorni la caccia ci era stata vietata a causa del cattivo tempo; ma il nostro cuoco era un uomo abile, e sotto la sua mano sapiente le carni e i legumi conservati ripresero la freschezza e il sapore naturale. Per tutta la serata, e nonostante quello che diceva Banks, aspettai, spinto da un senso di curiosità, un invito che non venne. Il capitano Hod scherzò sulla mia passione per i balli all'aperto, e sostenne anzi che «era molto meglio» all'Opera. Non volli credergli, ma a causa della poca cortesia del principe, mi fu impossibile constatarlo. Il giorno dopo, 18 giugno, venne preparato tutto, perché la nostra partenza potesse avvenire all'alba. Alle cinque, Kâlouth cominciò a attivare la caldaia. Il nostro elefante, che era stato staccato, era a una cinquantina di passi dal treno, e il macchinista era occupato a rinnovare la provvista d'acqua. Frattanto noi passeggiavamo sulla riva del fiumicello. Quaranta minuti più tardi, la caldaia aveva raggiunto una pressione sufficiente, e Storr stava per cominciare la manovra di retromarcia, quando un gruppo di indù si avvicinò. Erano cinque o sei, riccamente vestiti con vesti bianche, tuniche di seta, turbanti adorni di ricami d'oro. Una dozzina di guardie armate di moschetti e di sciabole li accompagnava. Uno di questi soldati portava una corona di foglie verdi, il che indicava la presenza di qualche personaggio importante. Infatti, il personaggio importante era il principe Guru Singh in persona, uomo di circa trentacinque anni, dall'aria altera, esemplare abbastanza ben riuscito dei discendenti di quei rajah leggendari, nei lineamenti dei quali si ritrovava il tipo maharatto. Il principe non degnò nemmeno di notare la nostra presenza. Fece alcuni passi, e si avvicinò al gigantesco elefante che la mano di Storr stava per mettere in moto. Poi, dopo averlo esaminato, non senza un certo senso di curiosità, benché non volesse lasciarlo vedere: — Chi ha costruito questa macchina? — domandò a Storr. Il macchinista mostrò l'ingegnere, che ci aveva raggiunti e stava a pochi passi. Il principe Guru Singh si esprimeva facilmente in inglese, e, rivolgendosi a Banks: — Siete voi che avete?... — disse a labbra strette. — Sono io che ho! — rispose Banks. — Mi hanno detto che è stato un capriccio del defunto rajah di Buthan. Banks fece un cenno affermativo con il capo. — A che cosa serve, — riprese Sua Altezza, con una scortese alzata di spalle, — a che serve farsi trascinare da una macchina quando si hanno al proprio servizio degli elefanti di carne e d'ossa? — Beh, probabilmente, questo elefante è più potente di tutti quelli di cui il defunto rajah si serviva. — Oh! — disse Guru Singh, allungando sdegnosamente le labbra — più potente!... — Infinitamente di più! — rispose Banks. — Non uno dei vostri, — disse allora il capitano Hod, al quale quel modo di fare dava estremamente fastidio, — non uno dei vostri sarebbe capace di far muovere una zampa a questo elefante, se non lo volesse. — Voi dite?... — disse il principe. — Il mio amico afferma, ribatté l'ingegnere, — e anch'io lo affermo con lui, che questo animale artificiale potrebbe resistere alla trazione di dieci coppie di cavalli, e che i vostri tre elefanti, attaccati insieme, non riuscirebbero a farlo indietreggiare di un passo. — Non lo credo affatto, — rispose il principe. — Avete torto a non crederlo affatto, — replicò il capitano Hod. — E quando Vostra Altezza vorrà spendere, — aggiunse Banks — mi impegno a fornirgliene uno che avrà la forza di venti elefanti scelti fra i migliori delle sue scuderie! — Cose che si dicono, — disse molto seccamente Guru Singh. — E che si fanno, — rispose Banks. Il principe cominciava a scaldarsi. Si vedeva che non sopportava facilmente la contraddizione. — Si potrebbe provarlo subito, — disse dopo un momento di riflessione. — È possibile, — rispose l'ingegnere. — E anche, — aggiunse il principe Guru Singh, — fare di questa prova l'oggetto di una scommessa importante, a meno che non vi tiriate indietro per timore di perderla, come indietreggerebbe il vostro elefante, senza dubbio, se dovesse lottare con i miei! — Il Gigante d'Acciaio indietreggiare! — esclamò il capitano Hod. — Chi osa pretendere che il Gigante d'Acciaio indietreggerebbe? — Io, — rispose Guru Singh. — E quanto scommetterebbe Vostra Altezza? — domandò l'ingegnere incrociando le braccia. — Quattromila rupie, — rispose il principe, — se avete quattromila rupie da perdere! Erano circa diecimila franchi. La cifra era forte, e vidi bene che Banks, per quanto fosse fiducioso, non voleva rischiare una somma simile. Il capitano Hod avrebbe accettato il doppio, se la sua modesta paga glielo avesse permesso. — Rifiutate! — disse allora Sua Altezza, per il quale quattromila rupie rappresentavano appena il prezzo di un capriccio passeggero. — Avete paura di scommettere quattromila rupie? — Accettato, — disse il colonnello Munro, che si era avvicinato e che interveniva con questa sola parola, ma che aveva il suo peso. — Il colonnello Munro scommette quattromila rupie? — domandò il principe Guru Singh. — E anche diecimila, — rispose sir Edward Munro, — se ciò conviene a Vostra Altezza. — Sia pure! — rispose Guru Singh. Davvero, la cosa si faceva interessante. L'ingegnere aveva stretto la mano del colonnello, come per ringraziarlo di non averlo lasciato umiliato dinanzi a quello sdegnoso rajah, ma le sue sopracciglia si erano aggrottate per un istante, e mi domandai se egli non avesse presunto troppo dalla potenza meccanica della sua macchina. Quanto al capitano Hod, era raggiante, si fregava le mani, e avanzando verso l'elefante: — Attento, Gigante d'Acciaio! — esclamò. — Si tratta di lavorare per l'onore della nostra vecchia Inghilterra! Tutti i nostri uomini si erano schierati su uno dei lati della via. Un centinaio di indù avevano lasciato l'accampamento del serai e accorrevano per assistere alla lotta che si preparava. Banks ci aveva lasciati per salire nella torretta, accanto a Storr, il quale, con un tiraggio forzato, attivava il forno lanciando un getto di vapore attraverso la proboscide del Gigante d'Acciaio. Frattanto, a un cenno del principe Guru Singh, alcuni dei suoi servitori erano andati al serai, e riconducevano i tre elefanti, sbarazzati di tutta la loro bardatura da viaggio. Erano tre magnifici animali, originari del Bengala, e di statura più alta di quelli dell'India meridionale. Quei superbi animali, in tutta la forza dell'età, mi ispirarono una specie di inquietudine. I mahout, aggrappati sul loro enorme collo, li dirigevano con la mano e li incitavano con la voce. Quando quegli elefanti passarono davanti a Sua Altezza, il più grande dei tre, un vero gigante della specie, si fermò, piegò le ginocchia anteriori, alzò la proboscide e salutò il principe da cortigiano ben educato. Poi, i suoi due compagni e lui si avvicinarono al Gigante d'Acciaio che sembrarono guardare con stupore misto a un po' di paura. Forti catene di ferro furono allora fissate sul piano del tender alle barre d'attacco nascoste nella parte posteriore del nostro elefante. Confesso che mi batteva il cuore. Quanto al capitano Hod, si mordeva i baffi e non poteva star fermo. Il colonnello Munro era calmo quanto il principe Guru Singh, direi anzi di più. — Siamo pronti, — disse l'ingegnere. — Quando Vostra Altezza desidera... — Va bene, — rispose il principe. Guru Singh fece un cenno, i mahout emisero un fischio particolare, e i tre elefanti, puntando sul suolo le gambe potenti, tirarono con un accordo perfetto. La macchina cominciò ad indietreggiare di qualche passo. Mi sfuggì un grido. Hod batté il piede. — Blocca le ruote! — disse semplicemente l'ingegnere, rivolgendosi al macchinista. E con un gesto rapido, che fu seguito da un fischio di vapore, il freno ad aria venne applicato istantaneamente. Il Gigante d'Acciaio si arrestò e non si mosse più. I mahout incitarono i tre elefanti, che, con i muscoli tesi, fecero un nuovo sforzo. Fu inutile. Il nostro elefante sembrava abbarbicato al suolo. Il principe Guru Singh si morse le labbra a sangue. Il capitano Hod batté le mani. — Avanti! — gridò Banks. — Sì! avanti,— ripete il capitano, — avanti! L'acceleratore fu azionato completamente. Grosse volute di vapore sfuggirono a un tratto dalla proboscide, le ruote sbloccate girarono lentamente mordendo la pavimentazione della strada, e i tre elefanti, nonostante la loro terribile resistenza, furono trascinati indietro, scavando nel suolo dei solchi profondi. — Go head! go head! — urlava il capitano Hod. E siccome il Gigante d'Acciaio seguitava a proseguire, i tre enormi animali caddero sul fianco, e furono trascinati per una ventina di passi, senza che il nostro elefante sembrasse avvedersene. — Hurrah! hurrah! hurrah! — gridava il capitano Hod, che non era più padrone di se stesso. — Si potrebbe unire ai suoi elefanti tutto il serai di Sua Altezza! Non peserà più di una piuma per il nostro Gigante d'Acciaio. Il colonnello Munro fece un segno con la mano. Banks disinnestò l'acceleratore e la macchina si arrestò. Non c'era niente di più miserando dello spettacolo dei tre elefanti di Sua Altezza, con la proboscide impazzita, le zampe all'aria, che si agitavano come giganteschi scarabei rovesciati sul dorso! Quanto al principe, non meno irritato che vergognoso, se ne era andato senza nemmeno aspettare la fine della prova. I tre elefanti vennero allora staccati. Si rialzarono, visibilmente umiliati della loro disfatta. Quando ripassarono davanti al Gigante d'Acciaio, il più grande, nonostante il suo cornac, non poté trattenersi dal piegare le ginocchia e dal salutare con la proboscide, così come aveva fatto davanti al principe Guru Singh. Un quarto d'ora dopo, un indù, il kàmdar o segretario di Sua Altezza, giungeva al nostro accampamento e consegnava al colonnello un sacco contenente diecimila rupie, l'ammontare della scommessa perduta. Il colonnello Munro prese il sacco e gettandolo sdegnosamente: — Per il seguito di Sua Altezza! — disse. Poi, si diresse tranquillamente verso la Steam-House. Non si poteva dare una lezione migliore al principe arrogante, che ci aveva provocato così sdegnosamente. Frattanto, poiché il Gigante d'Acciaio era stato attaccato, Banks diede subito il segnale della partenza, e fra un enorme concorso di indù attoniti, il nostro treno parti a gran velocità. Delle grida lo salutarono al passaggio, e ben presto avevamo perduto di vista, a una svolta della strada, il serai del principe Guru Singh. Il giorno seguente, la Steam-House cominciò a salire le prime pendenze che congiungono la pianura alla base della frontiera himalayana. Fu uno scherzo per il nostro Gigante d'Acciaio, al quale gli ottanta cavalli-vapore chiusi nei suoi fianchi avevano permesso di lottare senza alcun fastidio contro i tre elefanti del principe Guru Singh. Esso si inerpicò dunque facilmente sulle strade in salita di questa regione, senza che fosse necessario aumentare la pressione normale del vapore. Per la verità, era uno spettacolo bizzarro vedere il colosso, vomitante fasci di scintille, che trascinava, con barriti meno precipitati ma più prolungati, i due vagoni che salivano su per il tracciato a zig-zag delle strade. I cerchioni rigati delle ruote striavano il suolo la cui pavimentazione strideva cedendo. Bisogna pur confessarlo, il nostro pesante animale si lasciava dietro delle profonde carreggiate e danneggiava la strada, già inzuppata dalle piogge torrenziali. Ad ogni modo, a poco a poco la Steam-House saliva, il panorama si allargava alle nostre spalle, la pianura si abbassava, e, vèrso sud, l'orizzonte, svolgendosi su un perimetro più largo, indietreggiava a perdita d'occhio. L'effetto prodotto era ancora più sensibile quando, per qualche ora, la strada si cacciava sotto gli alberi di una folta foresta. Allora, quando qualche ampia radura si apriva come un'immensa finestra sulla groppa della montagna, il treno si fermava, un attimo appena, se qualche nebbia umida oscurava il paesaggio, una mezza giornata, se il paesaggio si disegnava più nitidamente agli sguardi. E tutti e quattro, con i gomiti appoggiati alla balaustra della veranda posteriore, ce ne stavamo a contemplare lungamene il magnifico panorama che si svolgeva sotto i nostri occhi. Questa ascensione, intervallata da soste più o meno prolungate, secondo il caso, interrotta dagli accampamenti notturni, non durò meno di sette giorni, dal 19 al 25 giugno. — Con un po' di pazienza, — diceva il capitano Hod, — il nostro treno salirebbe fino alle più alte vette dell'Himalaya! — Non tanta ambizione, capitano, — rispondeva l'ingegnere. — Credete, Banks, lo farebbe! — Sì, Hod, lo farebbe, se la strada praticabile non venisse ben presto a mancargli, e a condizione di portare con sé del combustibile, che non troverebbe più sui ghiacciai, e dell'aria respirabile, che gli mancherebbe a duemila tese d'altezza. Ma a noi non interessa affatto di superare la zona abitabile dell'Himalaya. Quando il Gigante d'Acciaio avrà raggiunto l'altezza media dei sanitarium, si fermerà in qualche bella località, sul ciglio di una foresta montana, in un clima rinfrescato dagli strati superiori dell'atmosfera. Il nostro amico Munro avrà trasferito il suo bungalow da Calcutta nelle montagne del Nepal, ecco tutto, e vi soggiorneremo fintanto che egli vorrà. Questo luogo di sosta, dove dovevamo accamparci per alcuni mesi, venne trovato fortunatamente nella giornata del 25 giugno. Da quarantotto ore, la strada diventava sempre meno praticabile, sia che avesse un fondo costruito meno bene, sia che le piogge l'avessero guastata. Il Gigante d'Acciaio dovette «sudare», come si dice volgarmente, ma se la cavò consumando un po' più di combustibile. Alcuni pezzi di legno, aggiunti nel forno di Kâlouth, bastavano ad aumentare la pressione del vapore. Ma non fu mai necessario caricare le valvole, la cui farfalla non lasciava sfuggire il fluido che sotto una pressione di sette atmosfere, pressione che non venne superata. Da quarantotto ore, poi, il nostro treno si avventurava su un territorio pressappoco deserto. Di borgate o villaggi, non se ne incontravano più. Appena qualche abitazione isolata, talvolta una fattoria, perduta in quelle grandi foreste di pini che rendono irta la groppa meridionale dei contrafforti. Tre o quattro volte, dei rari montanari ci salutarono con interiezioni ammirative. Nel vedere quella macchina meravigliosa arrampicarsi sulla montagna, non era lecito che credessero che Brahma si concedesse il capriccio di trasportare tutta una pagoda su qualche altura inaccessibile della frontiera nepalese? Finalmente, in quella giornata del 25 giugno, Banks ci gettò un'ultima volta la parola: «Alt!» che poneva termine alla prima parte del nostro viaggio nell'India settentrionale. Il treno si fermava in un'ampia radura, vicino a un torrente, la cui acqua limpida doveva bastare a tutte le necessità di un accampamento per qualche mese. Da quel punto, lo sguardo poteva abbracciare la pianura su un perimetro di cinquanta o sessanta miglia. La Steam-House si trovava allora a trecentoventicinque leghe dal suo punto di partenza, a duemila metri circa sopra il livello del mare, e ai piedi di quel Dawalaghiri, la cui vetta si perdeva a venticinquemila piedi nell'aria. CAPITOLO XV IL «PÀL» DI TANDÎT DOBBIAMO lasciare per un poco il colonnello Munro e i suoi compagni: l'ingegner Banks, il capitano Hod, il francese Maucler, e interrompere per qualche pagina il racconto di questo viaggio, la prima parte del quale comprende l'itinerario da Calcutta alla frontiera indocinese e termina alla base delle montagne del Tibet. Si ricorderà l'incidente che era accaduto al passaggio della SteamHouse da Allahabad. Un numero del giornale cittadino, recante la data del 25 maggio, aveva informato il colonnello Munro della morte di Nana Sahib. Questa notizia, spesso diffusa e sempre smentita, questa volta era vera? Sir Edward Munro, con dei particolari così precisi, poteva dubitare ancora, e non doveva finalmente rinunciare a farsi giustizia del ribelle del 1857? Se ne giudicherà. Ecco quanto era accaduto dopo quella notte tra il 7 e l’8 marzo, nella quale Nana Sahib, accompagnato da suo fratello Balao Rao, scortato dai suoi più fedeli compagni d'armi, e seguito dall'indiano Kâlagani, aveva lasciato le grotte di Adjuntah. Sessanta ore più tardi, il nababbo giungeva alle strette gole dei monti Sautpurra dopo avere attraversato il Tapi, che va a gettarsi sulla costa occidentale della penisola, presso Surate. Egli era allora a cento miglia da Adjuntah, in una zona poco frequentata della provincia, il che, per il momento, gli garantiva una certa sicurezza. Il luogo era scelto bene. I monti Sautpurra, di media altezza, dominano verso sud il bacino del Nerbudda, il cui limite settentrionale è coronato dai monti Vindhya. Queste due catene, correndo quasi parallele l'una all'altra, intersecano le loro ramificazioni, e offrono, in questo paese accidentato, dei rifugi difficili da scoprire. Ma se i Vindhya, all'altezza del 23° grado di latitudine, tagliano l'India quasi interamente da ovest a est, formando uno dei lati maggiori del triangolo centrale della penisola, non è così dei Sautpurra, che non superano il 75° grado di longitudine, e vengono a congiungervisi nel monte Kaligong. Là, Nana Sahib si trovava all'ingresso del paese dei Gound, temibili tribù di quei popoli di vecchia razza, non ancora ben assoggettati, che egli voleva indurre alla rivolta. Un territorio di duecento miglia quadrate, una popolazione di oltre tre milioni d'abitanti, questo è il paese del Gondwana, di cui il signor Rousselet considera gli abitanti come autoctoni e nel quale i fermenti di ribellione sono sempre all'ordine. È questa una parte importante dell'Indostan, e, a dire la verità, non è che nominalmente sotto il dominio inglese. La ferrovia Bombay-Allahabad attraversa si questa regione da sud-ovest a nord-est, getta anzi un tronco fino al centro della provincia di Nagpore, ma le tribù sono rimaste selvagge, refrattarie a ogni idea di civilizzazione, insofferenti del giogo europeo, insomma, difficilissime da sottomettere nelle loro montagne, e Nana Sahib lo sapeva bene. Era dunque là che egli aveva voluto inizialmente cercare rifugio, per sfuggire alle ricerche della polizia inglese, aspettando l'ora di provocare il movimento insurrezionale. Se il nababbo fosse riuscito nella propria impresa, se i Gound fossero insorti alla sua voce e lo avessero seguito, la ribellione avrebbe potuto prendere rapidamente una grande estensione. Infatti, a nord del Gondwana, c'è il Bundelkund, che comprende tutta la regione montuosa situata fra l'altipiano superiore dei Vindhya e l'importante corso d'acqua Jumna. In questo paese, coperto o meglio irto delle più belle foreste vergini dell'Indostan, vive un popolo di Boundelas, astuto e crudele, presso il quale tutti i criminali, politici o di altra natura, cercano volentieri e trovano facilmente un rifugio; là si ammassa una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti su una superficie di ventottomila chilometri quadrati; là, le province sono rimaste barbare; là vivono ancora alcuni di quei vecchi partigiani che lottarono contro gli invasori sotto Tippo Sahib; là sono nati i celebri strangolatori Thug, che furono per tanto tempo il terrore dell'India, fanatici assassini, che, senza mai versare sangue, hanno fatto innumerevoli vittime; là le bande dei Pindarri hanno compiuto quasi impunemente i più odiosi eccidi; là pullulano ancora quei terribili Dacoit, setta di avvelenatori, che seguono le orme dei Thug; là, finalmente, si era già rifugiato Nana Sahib, dopo essere sfuggito alle truppe reali, che si erano impadronite di Jansi; là egli aveva sviato tutte le ricerche, prima di andare a chiedere un asilo più sicuro ai rifugi inaccessibili della frontiera indocinese. A est del Gondwana c'è il Khondistan, o paese dei Khound. Così si chiamano i feroci seguaci di Tado Pennor, il dio della terra, e di Maunck Soro, il dio rosso dei combattimenti, quegli adepti sanguinari dei meriah, o sacrifici umani, che gli inglesi stentano tanto a distruggere, quei selvaggi degni di essere paragonati agli indigeni delle isole più barbare della Polinesia, contro i quali dal 1840 al 1854, il maggiore generale John Campbell, i capitani Macpherson, Macvkcar e Frye, intrapresero delle terribili e lunghe spedizioni, fanatici pronti a tutto osare, qualora, sotto qualche pretesto religioso, una mano potente li avesse spinti avanti. A ovest del Gondwana, c'è un paese di un milione e mezzo o due milioni di persone, occupato dai Bhîl, un tempo potenti nel Malwa e nel Rajputuna, ora divisi in clan, sparsi in tutta la regione dei Vindhya, quasi sempre ubriachi di quell'acquavite che fornisce loro l'albero del mhotvah, ma coraggiosi, audaci, robusti, agili, con l'orecchio sempre aperto al kisri che è il loro grido di guerra e di saccheggio. Come si vede, Nana Sahib aveva scelto bene. In quella regione centrale della penisola, invece di una semplice insurrezione militare, egli sperava, questa volta, di provocare un movimento nazionale, al quale avrebbero preso parte gli indù di ogni casta. Ma, prima d'intraprendere qualsiasi cosa, bisognava stabilirsi nel paese, per agire efficacemente sulle popolazioni nella misura che le circostanze permettessero. Dunque, era necessario trovare un rifugio sicuro, momentaneamente almeno, salvo abbandonarlo qualora diventasse sospetto. Questa fu la prima preoccupazione di Nana Sahib. Gli indù che lo avevano seguito fino a Adjuntah, potevano andare e venire liberamente in tutta la presidenza. Balao Rao, che non era preso di mira dal manifesto del governatore, avrebbe potuto godere anch'egli della stessa immunità, se non fosse stato per la sua somiglianza con il fratello. Dopo la sua fuga, fino alle frontiere del Nepal, l'attenzione non era più stata richiamata sulla sua persona, e c'erano tutte le ragioni per crederlo morto. Ma, preso per Nana Sahib, sarebbe stato arrestato, cosa che bisognava evitare ad ogni costo. Perciò dunque, per quei due fratelli uniti nello stesso pensiero, diretti a un identico scopo, era necessario un unico rifugio. Quanto al trovarlo, non doveva essere né lungo né difficile in quelle gole dei monti Sautpurra. E infatti, il rifugio fu subito indicato da uno degli indù del drappello, un Gound, che conosceva la vallata fin nei suoi più profondi recessi. Sulla riva destra di un piccolo affluente del Nerbudda, si trovava un pâl abbandonato, che si chiamava il pâl di Tandît. Il pâl è meno di un villaggio, è appena un minuscolo paese, un gruppo di capanne, spesso addirittura un'abitazione isolata. La famiglia nomade che lo occupa è venuta a stabilirvisi temporaneamente. Dopo aver bruciato qualche albero, le cui ceneri concimano il terreno per una breve stagione, il Gound ed i suoi si sono costruiti la casa. Ma, siccome il paese è tutt'altro che sicuro, la casa ha preso l'aspetto di un fortino. La circonda una palizzata, ed è in grado di difendersi contro una sorpresa. Del resto, nascosta in qualche fitta macchia, sepolta, per così dire, sotto una pergola di cactus e di cespugli, non è facile scoprirla. Per lo più, il pâl si trova in cima a qualche monticello, sul pendio di una valle stretta, fra due contrafforti scoscesi, in mezzo a fustaie impenetrabili. Pare impossibile che delle creature umane abbiano potuto cercarvi rifugio. Niente strade che vi conducano; nessuna traccia di sentieri che vi diano accesso. Per giungervi, bisogna talvolta risalire il letto scosceso di un torrente, la cui acqua cancella ogni impronta. Chi lo supera, non lascia impronte dietro di sé: nella stagione calda, vi si entra fino alla caviglia, nella stagione fredda fino al ginocchio, e nulla indica che un essere vivente vi sia passato. Inoltre, una valanga di rocce che la mano di un fanciullo basterebbe a far precipitare, schiaccerebbe chiunque tentasse di giungere al pâl contro il volere dei suoi abitanti. Pure, per quanto siano isolati nei loro recessi inaccessibili, i Gound possono comunicare rapidamente di pâl in pâl. Dalla sommità delle giogaie diseguali dei Sautpurra, i segnali si propagano in pochi minuti per venti leghe di paese. Ora è un fuoco acceso sulla vetta di un picco aguzzo, ora è un albero trasformato in torcia gigantesca, ora un semplice fumo che impennacchia la vetta di un contrafforte. Si sa che cosa significano questi segnali. Il nemico, ossia un distaccamento di soldati dell'esercito reale, un drappello di agenti della polizia inglese, è penetrato nella valle, risale il corso del Nerbudda, fruga nelle gole della catena, in cerca di qualche malfattore, al quale questo paese offre volentieri rifugio. Il grido di guerra, così familiare all'orecchio dei montanari, diventa grido di allarme. Uno straniero lo confonderebbe con l'ululato degli uccelli notturni o con il fischio dei rettili. Il Gound, invece, non si sbaglia. Bisogna vegliare, si veglia; bisogna fuggire, si fugge. I pâl sospetti vengono abbandonati, talvolta anzi bruciati. Questi nomadi si rifugiano in altri recessi, che abbandoneranno ancora, se sono serrati troppo da vicino, e su quei terreni coperti di cenere, gli agenti dell'autorità non trovano più che rovine. Era a uno di questi pâl - il pâl di Tandît - che Nana Sahib e i suoi erano venuti a chiedere rifugio. Li aveva condotti direttamente là il fedele Gound devoto al nababbo. Essi arrivarono là nella giornata del 12 marzo. Prima preoccupazione dei due fratelli, appena ebbero preso possesso del pâl di Tandît, fu di riconoscerne con cura i dintorni. Essi osservarono in quale direzione e a quale distanza lo sguardo si poteva spingere, si fecero indicare quali erano le abitazioni più vicine, si informarono circa coloro che le occupavano. Studiarono la posizione di quella cresta isolata, sormontata dal pâl di Tandît, in mezzo a una macchia di alberi, e si resero infine conto dell'impossibilità di penetrarvi, senza seguire il letto di un torrente, il torrente di Nazzur, che avevano risalito essi stessi. Il pâl di Tandît offriva dunque tutte le condizioni di sicurezza, tanto più che si elevava sopra un sotterraneo le cui uscite segrete si aprivano sul fianco del contrafforte, e all'occorrenza permettevano di fuggire. Nana Sahib e suo fratello non avrebbero potuto trovare un rifugio più sicuro. Ma a Balao Rao non bastava sapere che cosa fosse al momento il pâl di Tandît, egli voleva conoscere che cosa era stato, e, mentre il nababbo visitava l'interno del fortino, egli continuò a interrogare il Gound. — Alcune domande ancora, — gli disse. — Da quanto tempo è abbandonato questo pâl? — Da più di un anno, — rispose il Gound. — Chi lo abitava? — Una famiglia di nomadi, che vi è rimasta solo pochi mesi. — Perché lo hanno lasciato? — Perché il terreno, destinato a nutrirli, non poteva più assicurare loro il nutrimento. — E dopo la loro partenza, nessuno, che tu sappia, vi ha cercato rifugio? — Nessuno. — Nessun soldato dell'esercito reale, nessun agente di polizia ha mai messo piede nel recinto di questo pâl? — Mai. — Nessuno straniero lo ha visitato? — Nessuno... — rispose il Gound, — tranne una donna. — Una donna? — rispose vivamente Balao Rao. — Sì, una donna, che, da circa tre anni, vaga nella valle del Nerbudda. — Chi è questa donna? — Chi sia, lo ignoro, — rispose il Gound, — di dove venga, non posso dirlo, ed in tutta la valle, nessuno ne sa più di me sul suo conto! È una straniera, è un'indù? Non si è mai potuto saperlo! Balao Rao rifletté un istante; poi riprese: — Che cosa fa questa donna? — Va, viene, — rispose il Gound. — Vive unicamente di elemosine. In tutta la valle, si ha per lei una specie di venerazione superstiziosa. Molte volte, l'ho ricevuta nel mio pâl. Non parla mai. Si potrebbe credere che sia muta, e non mi meraviglierei che lo fosse. La notte, la si vede passeggiare, con in mano un ramo resinoso acceso. Perciò non la si conosce che con il nome di «Fiamma Errante»! — Ma, — disse Balao Rao, — se questa donna conosce il pâl di Tandît, non può tornarci mentre noi lo occupereremo, e noi non abbiamo nulla da temere di lei? — Nulla, — rispose il Gound. — Questa donna ha perduto la ragione. La testa non le appartiene più; i suoi occhi non guardano quello che vedono; le sue orecchie non ascoltano quello che sentono; la sua lingua non sa più pronunciare una parola. È come se fosse cieca, sorda, muta, per tutte le cose esterne. È una pazza, e una pazza è una morta che continua a vivere! Il Gound, con quel linguaggio proprio degli indù delle montagne aveva fatto il ritratto di una strana creatura, conosciutissima nella valle, la «Fiamma Errante» del Nerbudda. Era una donna, il cui viso pallido, ancora bello, invecchiato e non vecchio, ma privo di qualsiasi espressione, non indicava né l'origine né l'età. Si sarebbe detto che i suoi occhi smarriti si fossero chiusi alla vita intellettuale su qualche scena spaventosa che continuavano a vedere «dal di dentro». A questa creatura inoffensiva e priva della ragione, i montanari avevano fatto buona accoglienza. I pazzi, per questi Gound, come per tutti i popoli selvaggi, sono esseri sacri protetti da un rispetto superstizioso. Perciò la Fiamma Errante era ricevuta ospitalmente dovunque ella si presentava. Nessun pâl le chiudeva la porta. La si nutriva quando aveva fame, le si dava un giaciglio quando cadeva di stanchezza, senza aspettare una parola di ringraziamento che la sua bocca non poteva più pronunciare. Da quanto tempo durava quell'esistenza? Di dove veniva quella donna? In quale periodo era apparsa nel Gondwana? Sarebbe stato difficile dirlo con precisione. Perché passeggiava con una fiamma in mano? Era per guidare i propri passi? Era per allontanare le belve? non si sarebbe potuto dire. Le accadeva di sparire per dei mesi interi. Che ne era allora? Lasciava forse le gole dei monti Sautpurra per quelle dei Vindhya? Si smarriva al di là del Nerbudda, fino nel Malwa o nel Bundelkund? Nessuno lo sapeva. Più d'una volta, la sua assenza si era prolungata tanto, che si poté credere che la sua triste vita avesse avuto termine. Ma no! La si vedeva ritornare, sempre uguale, senza che né la fatica né la malattia né la miseria sembrassero avere logorato la sua natura, in apparenza così fragile. Balao Rao aveva ascoltato l'indù con grande attenzione. Continuava ancora a domandarsi se non vi fosse un qualche pericolo nel fatto che la Fiamma Errante conoscesse il pâl di Tandît, che vi avesse già cercato rifugio, che il suo istinto potesse ricondurvela. Ritornò dunque su questo punto, e domandò al Gound se lui o i suoi sapevano dove si trovasse ora quella pazza. — Lo ignoro, — rispose il Gound. — Sono più di sei mesi che nessuno l'ha rivista nella valle. Perciò è possibile che sia morta. Ma poi, se anche riapparisse e ritornasse al pâl di Tandît, non vi sarebbe nulla da temere dalla sua presenza. Non è che una statua vivente; non vi vedrebbe, non vi ascolterebbe, non saprebbe chi siete. Entrerebbe, si siederebbe al vostro focolare, per un giorno, per due giorni, poi riaccenderebbe la sua torcia spenta, vi lascerebbe e ricomincerebbe a vagare di casa in casa. Questa è tutta la sua vita. Del resto, la sua assenza si prolunga tanto questa volta, che è probabile che non ritorni mai. Colei che era già morta di spirito deve ormai essere morta anche di corpo. Balao Rao non credette di dover parlare di questo incidente a Nana Sahib, ed egli stesso non gli diede ben presto più nessuna importanza. Un mese dopo il loro arrivo al pâl di Tandît, il ritorno della Fiamma Errante non era stato segnalato nella valle del Nerbudda. CAPITOLO XVI LA FIAMMA ERRANTE PER UN mese intero, dal 12 marzo al 12 aprile, Nana Sahib rimase nascosto nel pâl. Egli voleva dare alle autorità inglesi il tempo o d'abbandonare le ricerche, o di mettersi su qualche falsa pista. Se, durante il giorno, i due fratelli non uscivano, i loro fedeli percorrevano la vallata, visitavano i villaggi e i casali, annunciavano con parole velate la prossima apparizione di un «formidabile moniti», metà dio e metà uomo, e preparavano gli spiriti a un'insurrezione nazionale. Venuta la notte, Nana Sahib e Balao Rao si arrischiavano a lasciare il loro covo, avventurandosi fin sulle rive del Nerbudda. Andavano di villaggio in villaggio, di pâl in pâl, aspettando l'ora nella quale avrebbero potuto percorrere con una certa sicurezza il dominio dei rajah infeudati agli inglesi. Nana Sahib sapeva, del resto, che molti semindipendenti, insofferenti del giogo straniero, si sarebbero uniti a lui. Ma, per il momento, non si trattava che delle popolazioni selvagge del Gondwana. Questi Bhîl barbari, questi Kound nomadi, questi Gound, non più civili degli indigeni delle isole del Pacifico, il Nana li trovò tutti pronti a insorgere, tutti pronti a seguirlo. Se, per prudenza, egli non si diede a conoscere che a due o tre potenti capi tribù, ciò bastò a provargli che il suo solo nome avrebbe trascinato molti milioni di quegli indù, che sono sparsi sull'altipiano centrale dell'Indostan. Quando i due fratelli erano rientrati al pâl di Tandît, si rendevano conto a vicenda di ciò che avevano udito, visto, fatto. Allora i loro compagni li raggiungevano, portando da ogni parte la notizia che lo spirito di ribellione soffiava come un vento di tempesta nella valle del Nerbudda. I Gound non chiedevano che di lanciare il kisri, il grido di guerra dei montanari, e di precipitarsi sugli accantonamenti militari della presidenza. Il momento non era ancora venuto. Non sarebbe bastato, infatti, che tutta la regione compresa fra i monti Sautpurra e i Vindhya fosse in fuoco. Bisognava anche che l'incendio potesse estendersi sempre più. Era dunque necessario ammucchiare gli elementi infiammabili nelle province vicine al Nerbudda, che erano più direttamente sotto le autorità inglesi. Di ogni città, di ogni borgata del Bhopal, del Malwa, del Bundelkund, e di tutto quell'ampio regno di Scindia, bisognava fare un immenso focolare, pronto ad accendersi. Ma Nana Sahib, con ragione, voleva prendere su di sé la cura di visitare gli antichi partigiani dell'insurrezione del 1857, tutti quegli indigeni che, rimasti fedeli alla sua causa e non avendo mai creduto alla sua morte, si aspettavano di vederlo ricomparire di giorno in giorno. Un mese dopo il suo arrivo al pâl di Tandît, Nana Sahib credette di poter agire in tutta sicurezza. Pensò che il fatto della sua riapparizione nella provincia fosse stato riconosciuto falso. Alcuni fidi lo tenevano informato di tutto quanto aveva fatto il governatore della presidenza di Bombay per effettuare la sua cattura. Egli sapeva che, nei primi giorni, le autorità si erano dedicate alle ricerche più attive, ma senza risultato. Il pescatore di Aurangabad, l'ex prigioniero del Nana, era caduto sotto il pugnale, e nessuno aveva potuto sospettare che il fachiro fuggitivo fosse il nababbo Dandu-Pand, sulla testa del quale era stata messa una taglia. Una settimana dopo, le dicerie cessarono, gli aspiranti al premio di duemila sterline persero ogni speranza, e il nome di Nana Sahib ricadde nell'oblio. Il nababbo poté dunque agire personalmente, e, senza timore di essere riconosciuto, ricominciare la sua campagna insurrezionale. Ora sotto le vesti di un parsi, ora sotto quelle d'un semplice raiot, un giorno da solo, un altro accompagnato da suo fratello, egli cominciò ad allontanarsi dal pâl di Tandît, a risalire verso il nord, sull'altra sponda del Nerbudda, e anche al di là del versante settentrionale del Vindhya. Una spia, che avesse voluto seguirlo in tutte le sue mosse, lo avrebbe trovato a Indore, fin dal 12 aprile. In questa capitale del regno di Holcar, Nana Sahib, pur conservando il più stretto incognito, si mise in contatto con la numerosa popolazione rurale, addetta alla coltivazione dei campi di papaveri. Erano dei Rihilla, dei Mèkrani, dei Valayali, ardenti, coraggiosi, fanatici, per lo più Cipay disertori dell'esercito indigeno, che si nascondevano sotto le vesti del contadino indù. Poi, Nana Sahib passò il Betwa, affluente del Jumna, che corre verso nord, sulla frontiera occidentale del Bundelkund, e il 19 aprile, attraversando una magnifica valle nella quale le palme da dattero e i manghi si moltiplicavano a profusione, giungeva a Suari. Là sorgono alcune curiose costruzioni antichissime. Sono dei tôpes, specie di tumuli sormontati da cupole emisferiche, che formano il gruppo principale di Saldhara, nella parte settentrionale della valle. Da questi monumenti funebri, da queste abitazioni dei morti, i cui altari, dedicati ai riti buddistici, sono riparati sotto dei baldacchini di pietra, da queste tombe vuote da tanti secoli, uscirono, alla voce di Nana Sahib, centinaia di fuggitivi. Nascosti in quelle rovine per sfuggire alle terribili rappresaglie degli inglesi, bastò una parola per far comprendere loro ciò che il nababbo si aspettava dal loro concorso: sarebbe bastato un cenno, quando fosse venuta l'ora per gettarli in massa sugli invasori. Il 24 aprile, Nana Sahib era a Bhîlsa, capoluogo di un distretto importante del Malwa, e, nelle rovine dell'antica città, egli radunava degli elementi di ribellione che la nuova non gli avrebbe fornito. Il 27 aprile, Nana Sahib giunse a Raygurh, vicino alla frontiera del regno di Pannah, ed il 30, ai ruderi della vecchia città di Sangor, non lontano dal luogo in cui il generale sir Hugh Rose diede contro gli insorti una sanguinosa battaglia, che lo rese padrone del colle di Mandapore, la chiave delle gole dei Vindhya. Là, il nababbo fu raggiunto da suo fratello, accompagnato da Kâlagani, ed entrambi si fecero conoscere ai capi delle principali tribù, di cui erano assolutamente sicuri. In quei conciliaboli furono discussi e stabiliti i preliminari di un'insurrezione generale. Mentre Nana Sahib e Balao Rao avrebbero agito a sud, i loro alleati dovevano manovrare sul versante settentrionale dei Vindhya. Prima di ritornare nella valle del Nerbudda, i due fratelli vollero visitare anche il regno di Pannah. Si spinsero lungo il Keyne, sotto la volta di tek giganteschi, di bambù colossali, protetti da quelle innumerevoli piante che si moltiplicano, le quali sembrano destinate a invadere tutta quanta l'India. Là furono arruolati numerosi e feroci adepti fra il miserabile personale che sfrutta, per conto del rajah, le ricche miniere di diamanti del territorio. Questo rajah, dice il signor Rousselet, «comprendendo la posizione che fa il dominio inglese ai principi del Bundelkund ha preferito la parte del ricco proprietario a quella di un insignificante principotto». Ricco proprietario, lo è davvero! La regione diamantifera che possiede si stende per una lunghezza di trenta chilometri a nord di Pannah, e il traffico delle sue miniere di diamanti, le più stimate sui mercati di Bénares e di Allahabad, occupa un gran numero di indù. Ma fra questi disgraziati, sottoposti ai lavori più duri e che il rajah fa decapitare appena diminuisce la rendita della miniera, Nana Sahib doveva trovare migliaia di partigiani, pronti a farsi uccidere per l'indipendenza del loro paese, e li trovò. Partendo da questo punto, i due fratelli ridiscesero verso il Nerbudda per ritornare al pâl di Tandît. Tuttavia, prima di andare a provocare l'insurrezione del sud, che doveva coincidere con quella del nord, vollero fermarsi a Bhopal. Si tratta di un'importante città musulmana, che è rimasta la capitale dell'islamismo nell'India, e la cui begum rimase fedele agli inglesi durante tutto il periodo insurrezionale. Nana Sahib e Balao Rao, accompagnati da una dozzina di Gound, giunsero a Bhopal il 24 maggio, ultimo giorno delle feste del Moharum, istituite per celebrare il rinnovamento dell'anno musulmano. Entrambi avevano indossato i cenci dei joguis, sinistri mendicanti religiosi armati di lunghi pugnali a lama arrotondata, con i quali si feriscono per fanatismo, ma senza gran male né pericolo. I due fratelli, irriconoscibili sotto quel travestimento, avevano seguito la processione per le vie della città, in mezzo ai numerosi elefanti, che portavano sul dorso dei tadzias, specie di tempietti alti venti piedi; avevano potuto mescolarsi con i musulmani, riccamente vestiti di tuniche ricamate d'oro, e con in capo dei tocchi di mussola; si erano confusi nelle schiere dei suonatori, dei soldati, delle baiadere, dei giovani travestiti da donna, gruppi bizzarri che davano a quella cerimonia un aspetto carnevalesco. Con quegli indù di ogni genere, fra i quali essi avevano numerosi fedeli, avevano potuto scambiare una specie di segno massonico, familiare agli antichi ribelli del 1857. Venuta la sera, tutta quella gente si era recata verso il lago, che bagna il sobborgo orientale della città. Là, fra grida assordanti, spari di armi da fuoco, scoppi di petardi, alla luce di migliaia di torce, tutti quei fanatici gettarono i tadzias nelle acque del lago. Le feste del Moharum erano finite. In quel momento, Nana Sahib sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Si voltò. Un bengalese gli stava accanto. Nana Sahib riconobbe in quell'indù uno dei suoi vecchi compagni d'armi di Lucknow. Lo interrogò con lo sguardo. Il bengalese si limitò a mormorare le seguenti parole che Nana Sahib udì senza che un gesto tradisse la sua emozione: — Dov'è? — Ieri era a Bénares. — Dove va? — Alla frontiera del Nepal. — Per quale motivo? — Per soggiornarvi per qualche mese. — E poi?... — Ritornare a Bombay. Echeggiò un fischio; un indù, cacciandosi nella folla, giunse vicino a Nana Sahib. Era Kâlagani. — Parti subito, — disse il nababbo. — Raggiungi Munro che risale verso nord. Stagli accanto. Imponiti rendendo qualche servizio, e rischia la vita, se occorre. Non lasciarlo prima che sia ridisceso al di là dei Vindhya, fino alla valle del Nerbudda. Allora, ma allora soltanto, vieni ad avvertirmi della sua presenza. Kâlagani si accontentò di rispondere con un cenno affermativo, e scomparve nella folla. Un cenno del nababbo era un ordine per lui. Dieci minuti dopo, aveva lasciato Bhopal. In quel momento, Balao Rao si avvicinò al fratello. — È tempo di partire, — gli disse. — Sì, — rispose Nana Sahib, — e bisogna che prima dell'alba siamo al pâl di Tandît. — Andiamo. Entrambi, seguiti dai loro Gound, risalirono la riva settentrionale del lago fino a una fattoria isolata. Là, li aspettavano dei cavalli, per loro e per la loro scorta. Erano di quei cavalli veloci, ai quali si dà un nutrimento misto a droghe, e che possono fare cinquanta miglia in una sola notte. Alle otto, galoppavano sulla via che da Bhopal porta ai Vindhya. Se il nababbo voleva giungere prima dell'alba al pâl di Tandît, era solo per misura di prudenza. Infatti era meglio che il suo ritorno nella valle passasse inosservato. Il piccolo drappello camminò dunque velocissimamente. Nana Sahib e Balao Rao, l'uno accanto all'altro, non parlavano, ma lo stesso pensiero occupava la loro mente. Da quell'escursione al di là dei Vindhya, essi riportarono più che la speranza, la certezza che innumerevoli partigiani si univano alla loro causa. L'altipiano centrale dell'India era interamente nelle loro mani. Gli accantonamenti militari, ripartiti su quell'ampio territorio, non avrebbero potuto resistere ai primi assalti degli insorti. La loro distruzione avrebbe lasciato libero il posto alla rivolta, che non avrebbe tardato a sollevare da una costa all'altra tutta una barriera di indù fanatici, contro la quale sarebbe venuto a rompersi l'esercito reale. Ma, nello stesso tempo, Nana Sahib pensava a quel caso fortunato che stava per consegnargli Munro. Il colonnello aveva finalmente lasciato Calcutta, dove era difficile colpirlo. Ormai nessuno dei suoi movimenti sarebbe sfuggito al nababbo. Senza che egli potesse dubitarne, la mano di Kâlagani lo avrebbe guidato verso la selvaggia regione dei Vindhya, e là nessuno avrebbe potuto sottrarlo al supplizio che gli riservava l'odio di Nana Sahib. Balao Rao non sapeva ancora nulla di quanto era stato detto fra il bengalese e suo fratello. Fu solo nelle vicinanze del pâl di Tandît, mentre i cavalli respiravano un istante, che Nana Sahib si limitò a farglielo sapere con queste parole: — Munro ha lasciato Calcutta e si dirige verso Bombay. — La strada di Bombay, — esclamò Balao Rao — va fino alla costa dell'oceano Indiano! — La strada di Bombay, questa volta, — rispose Nana Sahib, — si fermerà ai Vindhya! Questa risposta diceva tutto. I cavalli ripartirono al galoppo e si slanciarono attraverso la macchia d'alberi, che sorgeva sul confine della valle del Nerbudda. Erano allora le cinque del mattino. Il giorno cominciava a spuntare. Nana Sahib, Balao Rao ed i loro compagni erano giunti al letto torrentizio del Nazzur, che saliva verso il pâl. I cavalli si arrestarono in quel luogo e furono lasciati sotto la custodia di due Gound, incaricati di condurli al villaggio più vicino. Gli altri seguirono i due fratelli, che salivano i gradini tremanti sotto l'acqua del torrente. Tutto era tranquillo. I primi rumori del giorno non avevano ancora interrotto il silenzio della notte. Improvvisamente si udì una fucilata, che fu seguita da molte altre. Contemporaneamente si udivano queste grida: — Hurrah! hurrah! avanti! Un ufficiale, alla testa di una cinquantina di soldati dell'esercito reale, apparve sulla cresta del pâl. — Fuoco! Che non ne sfugga nessuno! — gridò ancora. Nuova scarica, diretta quasi a bruciapelo sul drappello dei Gound, che circondava Nana Sahib e suo fratello. Cinque o sei indù caddero. Gli altri, gettandosi nel letto del Nazzur, scomparvero sotto i primi alberi della foresta. — Nana Sahib! Nana Sahib! — gridarono gli inglesi cacciandosi nello stretto burrone. Allora, uno di coloro che erano stati colpiti mortalmente si rialzò, con la mano tesa verso di loro. — Morte agli invasori! — gridò una voce ancora terribile, e ricadde immobile. L'ufficiale si avvicinò al cadavere. — È proprio Nana Sahib? — domandò. — È lui, — risposero due soldati del distaccamento che, essendo stati di guarnigione a Cawnpore, conoscevano perfettamente il nababbo. — E ora agli altri! — gridò l'ufficiale. E tutto il distaccamento si gettò nella foresta dietro ai Gound. Era appena scomparso, che un'ombra scivolava sulla scarpa sopra la quale sorgeva il pâl. Era la Fiamma Errante, avvolta in un lungo cencio bruno, che il cordone di un languti stringeva alla vita. La sera precedente, la pazza era stata la guida incosciente dell'ufficiale inglese e dei suoi uomini. Rientrata nella valle fin dal giorno prima, ella ritornava macchinalmente al pâl di Tandît, verso il quale la riconduceva una specie di istinto. Ma, questa volta, la strana creatura, che si credeva muta, lasciava sfuggire dalle sue labbra un nome, uno solo, quello del massacratore di Cawnpore! — Nana Sahib! Nana Sahib! — ripeteva, come se l'immagine del nababbo, per qualche presentimento inesplicabile, le si fosse levata davanti alla mente. Questo nome fece sussultare l'ufficiale. Egli seguì i passi della pazza. Questa non parve nemmeno vedere lui e i soldati che la seguirono fino al pâl. Era dunque là che si era rifugiato il nababbo, sulla cui testa era stata messa la taglia? L'ufficiale prese le misure necessarie e fece sorvegliare il letto del Nazzur, aspettando il giorno. Quando Nana Sahib e i suoi Gound vi si furono inoltrati, li accolse con una scarica, che ne gettò molti a terra, e, fra loro, il capo della rivolta dei Cipay. Questo fu lo scontro che il telegrafo segnalò il giorno stesso al governatore della presidenza di Bombay. Quel telegramma si diffuse in tutta la penisola, i giornali lo riprodussero immediatamente, e fu così che il colonnello Munro poté prenderne conoscenza il 26 maggio, sul giornale di Allahabad. Non c'era da dubitare, questa volta, della morte di Nana Sahib. La sua identità era stata accertata, e il giornale poteva dire con ragione: «Il regno dell'India non ha più nulla da temere ormai dal crudele rajah che gli è costato tanto sangue!». Frattanto, la pazza, dopo avere lasciato il pâl, scendeva il letto del Nazzur. Dai suoi occhi smarriti usciva come il bagliore di un fuoco interno che si fosse ad un tratto riacceso in lei, e le sue labbra lasciavano sfuggire macchinalmente il nome del nababbo. Ella giunse così al luogo in cui giacevano i cadaveri, e si fermò davanti a colui che era stato riconosciuto dai soldati di Lucknow. 20 Il viso contratto di quel morto sembrava minacciare ancora. Si sarebbe detto che, dopo aver vissuto soltanto per la vendetta, l'odio fosse sopravvissuto in lui. La pazza s'inginocchiò, posò le due mani su quel corpo crivellato dai proiettili, il cui sangue macchiò le pieghe del suo cencio. Lo guardò a lungo, poi, rialzandosi e scuotendo la testa, scese lentamente il letto del Nazzur. Ma, allora, la Fiamma Errante era ricaduta nella sua consueta indifferenza, e la sua bocca non ripeteva più il nome maledetto di Nana Sahib. 20 Lapsus dell'Autore: poco più sopra egli ha parlato di Cawnpore. (N.d.T.) PARTE SECONDA CAPITOLO I IL NOSTRO «SAMTARIUM» GLI INCOMMENSURABILI della creazione! questa espressione magnifica, di cui il mineralologo Haüy si è servito per definire le Ande americane, non sarebbe forse più giusta se la si applicasse al complesso di quella catena dell'Himalaya, che l'uomo è ancora impotente a misurare con precisione matematica? Ecco ciò che io provo davanti all'aspetto di questa regione incomparabile, nella quale il colonnello Munro, il capitano Hod, Banks ed io dovremo soggiornare per alcune settimane. — Non solamente questi monti sono incommensurabili, — ci dice l'ingegnere, — ma la loro vetta deve essere considerata come inaccessibile, poiché l'organismo umano non può funzionare a tali altezze, dove l'aria non è più abbastanza densa per bastare ai bisogni della respirazione! Una barriera di rocce primitive, granito, gneiss, micaschisto, lunga duemilaottocento chilometri, che si erge dal 72° meridiano fino al 95°, coprendo due presidenze, Agra e Calcutta, due regni, il Buthan e il Nepal; - una catena la cui altezza media, superiore di un terzo alla vetta del monte Bianco, comprende tre zone distinte, la prima, alta cinquemila piedi, più temperata della pianura inferiore, e che produce un raccolto di grano durante l'inverno, un raccolto di riso durante l'estate; la seconda, da cinque a novemila piedi, dove la neve si scioglie al ritorno della primavera; la terza da novemila piedi a venticinquemila, coperta di grossi ghiacci, i quali, anche nella stagione più calda, sfidano i raggi solari; - attraverso questa grandiosa tumescenza del globo, undici passi, alcuni dei quali forano la montagna a ventimila piedi d'altezza, e che, minacciati di continuo dalle valanghe, scavati dai torrenti, invasi dai ghiacci, non permettono di andare dall'India nel Tibet se non a prezzo di difficoltà estreme; - al disopra di questa cresta, ora arrotondata in larghe cupole, ora piatta come la Tavola del capo di Buona Speranza, sette o otto picchi aguzzi, alcuni vulcanici, che dominano le sorgenti del Cogra, del Djumna e del Gange, il Dukia e il Kinchinjinga, che superano i settemila metri, il Dhiodunga che tocca gli ottomila, il Dawalaghiri gli ottomilacinquecento, il Tchamulari gli ottomilasettecento, il monte Everest, che innalza a novemila metri la sua vetta, dall'alto della quale l'occhio d'un osservatore potrebbe percorrere una circonferenza uguale a quella della Francia intera; un mucchio di montagne, infine, che le Alpi sulle Alpi, i Pirenei sulle Ande, non supererebbero nella scala delle altitudini terrestri, ecco come è questo sollevamento colossale, di cui il piede dei più arditi alpinisti non calpesterà forse mai le più alte vette, e che si chiama i monti Himalaya! I primi gradini di questi propilei giganteschi sono ampiamente e fittamente coperti di boschi. Vi si trovano ancora diversi rappresentanti di quella ricca famiglia delle palme, che, in una zona superiore, cederanno il posto alle grandi foreste di querce, di cipressi e di pini, ai fitti ciuffi di bambù e di piante erbacee. Banks, che ci dà questi particolari, ci dice anche che, se la linea inferiore delle nevi scende a quattromila metri sul versante indiano della catena, sale a seimila sul versante tibetano. Ciò dipende dal fatto che i vapori, portati dai venti del sud, vengono fermati dall'enorme barriera. Ecco perché, sull'altro versante, si son potuti fondare dei villaggi fino a un'altezza di quindicimila piedi, in mezzo a campi d'orzo e a praterie magnifiche. Stando agli indigeni, basta una notte perché quei pascoli siano tappezzati da una messe di erbe. Nella zona media, pavoni, pernici, fagiani, ottarde, quaglie, rappresentano i volatili. Le capre vi abbondano, e così i montoni. Nella zona alta, s'incontrano solo il cinghiale, il camoscio, il gatto selvatico, e l'aquila è la sola a librarsi al disopra dei rari vegetali, che non sono più se non gli umili campioni di una flora artica. Ma quella non era roba che potesse tentare il capitano Hod. Perché mai questo Nemrod sarebbe venuto nella regione himalayana, se non si fosse trattato che di proseguire il suo mestiere di cacciatore di selvaggina domestica? Fortunatamente per lui i grandi carnivori, degni del suo Enfield e dei suoi proiettili esplosivi, non dovevano mancare. Infatti, al piede dei primi declivi della catena, si stende una zona inferiore, che gli indù chiamano la cintura del Tarryani. È una lunga pianura in pendio, larga da sette a otto chilometri, umida, calda, dalla vegetazione scura, coperta di fitte foreste, nelle quali le belve cercano volentieri rifugio. Questo Eden del cacciatore che ama le forti emozioni della lotta era dominato dal nostro accampamento a soli millecinquecento metri. Era dunque facile ridiscendere su quella riserva di caccia che si custodiva da sola. Perciò era probabile che il capitano Hod avrebbe visitato i piani inferiori dell'Himalaya più volentieri delle zone superiori. Là, in ogni caso, anche dopo il più umorista dei viaggiatori, Victor Jasquemont, rimangono ancora da fare importanti scoperte geografiche. — Dunque questa enorme catena è conosciuta molto imperfettamente, vero? — domandai a Banks. — Molto imperfettamente, — rispose l'ingegnere. — L'Himalaya è come una specie di piccolo pianeta, che si è attaccato al nostro globo, e che conserva i suoi segreti. — Tuttavia è stata percorsa — risposi, — è stata frugata per quanto era possibile! — Oh! i viaggiatori himalayani non sono mancati! — rispose Banks. — I fratelli Gerard de Webb, gli ufficiali Kirpatrik e Fraser, Hogdson, Herbert, Lloyd, Hooker, Cunningham, Strabing, Skinner, Johnson, Moorcroft, Thomson Griffith, Vigne, Hügel, i missionari Huc e Gabet, e più recentemente i fratelli Schlagintweit, il colonnello Wangh, i tenenti Reuillier e Montgomery, mediante lavori considerevoli, hanno fatto conoscere ampiamente la disposizione orografica di questo sollevamento. Tuttavia, amici miei, rimangono ancora molti desiderata da realizzare. L'altezza esatta delle vette principali ha richiesto innumerevoli rettifiche. Così, una volta, il Dawalaghiri era il re di tutta la catena; poi, in seguito a nuove misure, ha dovuto cedere il posto al Kinchinjinga, che sembra ormai detronizzato dal monte Everest. Per ora, quest'ultimo, batte tutti i suoi rivali. Però, stando ai cinesi, il Kuin-Lun, al quale, è vero, i metodi precisi dei geometri europei non sono ancora stati applicati, supererebbe un po' il monte Everest, e non sarebbe più nell'Himalaya che bisognerebbe cercare il punto più elevato del nostro globo. Ma, in realtà, queste misure non potranno venir considerate come matematiche se non il giorno in cui saranno state ottenute barometricamente, e con tutte le precauzioni che esige questa determinazione diretta. Ma come ottenerle, senza portare un barometro sulla punta estrema di questi picchi quasi inaccessibili? Ed è appunto questo che finora non si è potuto fare. — Lo si farà, — rispose il capitano Hod, — come si faranno un giorno i viaggi al polo Sud e al polo Nord! — Evidentemente! — Il viaggio fino nelle massime profondità dell'Oceano! — Senza dubbio! — Il viaggio al centro della terra! — Bravo, Hod! — Come si farà tutto! — aggiunsi io. — Anche un viaggio in ognuno dei pianeti del mondo solare, — rispose il capitano Hod, che niente poteva più fermare. — No, capitano, — risposi. — L'uomo, semplice abitante della terra, non riuscirebbe a superarne i confini! Ma se è incatenato alla sua scorza, può penetrarne tutti i segreti. — Lo può, lo deve! — rispose Banks. — Tutto ciò che è nei limiti del possibile deve essere e sarà compiuto. Poi, quando l'uomo non avrà più nulla da conoscere del globo che abita... — Sparirà con il pianeta che non avrà più misteri per lui, — rispose il capitano Hod. — Niente affatto! — riprese Banks. — Ne godrà da padrone, allora, e ne ricaverà un miglior profitto. Ma, amico Hod, dato che siamo nella regione himalayana, vi indicherò una scoperta curiosa da fare, fra le tante, e che certamente vi interesserà. — Di che si tratta, Banks? — Nel racconto dei suoi viaggi, il missionario Huc parla di uno strano albero, che nel Tibet chiamano «l'albero dalle diecimila immagini». Secondo la leggenda indiana, Tong-Kabac, il riformatore della religione buddistica, sarebbe stato trasformato in albero, alcune migliaia d'anni dopo che la stessa sorte era toccata a Filemone, a Bauci, a Dafne, bizzarri esseri vegetali della flora mitologica. I capelli di Tong-Kabac sarebbero diventati le fronde di quest'albero sacro, e su queste foglie, il missionario afferma di aver visto (visto con i suoi occhi) dei caratteri tibetani, distintamente formati dai tratti delle loro nervature. — Un albero che produce delle foglie stampate! — esclamai. — E sulle quali si leggono detti della più alta morale, — rispose l'ingegnere. — Questo vale la pena di essere accertato, — dissi ridendo. — Cercatelo dunque, amici miei, — rispose Banks. — Se esistono alberi del genere nella parte meridionale del Tibet, se ne devono trovare anche nella zona superiore, sul versante sud dell'Himalaya. Dunque, durante le vostre escursioni, cercate questo... come lo chiamerò?... questo «sentenziano»... — In fede mia, no! — rispose il capitano Hod. — Sono qui per andare a caccia, e non ho niente da guadagnare a fare l'alpinista. — Ma, amico Hod! — soggiunse Banks, — un audace arrampicatore come voi non farà proprio nessuna ascensione nella catena? — Mai! — gridò il capitano. — E perché dunque? — Ho rinunciato alle ascensioni. — E da quando?... — Dal giorno in cui, dopo avervi rischiato la vita venti volte, — rispose il capitano Hod, — sono riuscito a raggiungere la vetta del Vrigel, nel regno di Buthan. Si affermava che mai essere umano aveva calpestato la cima di quella montagna! Ci mettevo dunque un po' d'amor proprio! Finalmente, dopo mille pericoli, giungo sulla vetta, e che cosa vedo? Queste parole incise in una roccia: «Durand, dentista, 14 rue Caumartin, Parigi»! Da quel giorno, non faccio più ascensioni! Bravo capitano. Però bisogna confessare che narrandoci questo smacco, Hod faceva una smorfia così divertente, che era impossibile non ridere di cuore! Ho parlato molte volte dei sanitarium della penisola. Queste stazioni climatiche, situate nella montagna, sono molto frequentate, durante l'estate, dai ricchi possidenti, dai funzionari e dai negozianti dell'India, che sono bruciati dall'ardente canicola della pianura. Prima di tutto, bisogna citare Simla, posta sul 31° parallelo, ed a ovest del 75° meridiano. È un angolino di Svizzera, con i suoi torrenti, i suoi ruscelli, i suoi chalets posti in amene posizioni all'ombra dei cedri e dei pini a duemila metri sopra il livello del mare. Dopo Simla, citerò Dorjiling, dalle case bianche, dominata dal Kinchinjinga, cinquecento chilometri a nord di Calcutta, e a duemilatrecento metri d'altezza, vicino all'86° grado di longitudine e al 27° grado di latitudine, una posizione incantevole nel più bel paese del mondo. Altri sanitarium sono pure stati fondati in diversi punti della catena himalayana. E ora, a queste stazioni climatiche fresche e sane, rese indispensabili dal clima ardente dell'India, bisogna aggiungere la nostra Steam-House. Ma questa, ci appartiene. Offre tutte le comodità delle più lussuose abitazioni della penisola. Vi troveremo, in una zona fortunata, unitamente alle esigenze della vita moderna, una calma che si cercherebbe invano a Simla o a Dorjiling, dove gli anglo-indiani abbondano. Il luogo è stato scelto opportunamente. La strada che porta alla parte inferiore della montagna, a questa altezza si biforca per raggiungere alcuni paesini sparsi a est e a ovest. Il più vicino di questi villaggi è a cinque miglia dalla Steam-House. È abitato da una razza ospitale di montanari, allevatori di capre e di montoni, e che coltivano ricchi campi di grano e d'orzo. Con l'intervento del nostro personale, sotto la direzione di Banks, ci sono volute solo poche ore per organizzare un accampamento nel quale dobbiamo soggiornare per sei o sette settimane. Un contrafforte, che si stacca da una di quelle capricciose piccole catene che puntellano l'enorme ossatura dell'Himalaya, ci ha offerto un altipiano dolcemente ondulato, lungo un miglio circa e largo mezzo. Il tappeto di verde che lo copre è una spessa moquette di erba corta, compatta, felpata si potrebbe dire, e tutta cosparsa di violette. Ciuffi di rododendri arborescenti, alti come piccole querce, cesti naturali di camelie, vi formano un centinaio di macchie di effetto piacevolissimo. La natura non ha avuto bisogno degli operai di Ispahan o di Smirne per fabbricare questo tappeto di folta lana vegetale. Alcune migliaia di semi, portati dal vento di mezzogiorno su quel terreno fecondo, un po' d'acqua, un po' di sole, sono bastati per fare questo tessuto morbido e che non si consuma. Una dozzina di gruppi d'alberi magnifici si ergono su questo altipiano. Si direbbe che si siano staccati, quasi fuorilegge, dall'immensa foresta che rende irti i fianchi del contrafforte, risalendo sulle piccole catene vicine, a un'altezza di seicento metri. Cedri, querce, pandani dalle lunghe foglie, faggi, aceri, si mescolano ai banani, ai bambù, alle magnolie, ai carrubi, ai fichi del Giappone. Alcuni di questi giganti stendono i loro rami più alti a più di cento piedi dal suolo. Sembra che siano stati disposti in questo luogo per fare ombra a qualche casa forestale. La Steam-House, giunta a proposito, ha completato il paesaggio. I tetti a cupola delle sue due pagode si sposano felicemente con tutti quei rami variati, rigidi o flessibili, foglie piccole e fragili come ali di farfalle, larghe e lunghe come pagaie polinesiane. Il treno con i vagoni è scomparso sotto un mucchio di verde e di fiori. Nulla rivela la casa mobile, e là c'è solamente una casa stabile, fissa al suolo, fatta per non muoversi più. Sullo sfondo, un torrente, di cui si può seguire il corso argenteo fino a molte migliaia di piedi d'altezza, scorre sulla destra del quadro sul fianco del contrafforte, e si precipita in un bacino naturale ombreggiato da un ciuffo di begli alberi. Da questo bacino, il sovrappiù si versa in un ruscello, corre attraverso la prateria, e finisce in una cascata rumorosa che cade in un abisso la cui profondità sfugge allo sguardo. Ecco come è stata disposta la Steam-House per la maggior comodità della vita comune e il maggior piacere degli occhi. Se si va sulla cresta anteriore dell'altipiano, lo si vede dominare altre terrazze meno importanti dello zoccolo dell'Himalaya, che scendono come giganteschi scaglioni fino alla pianura. Da quell'altezza, lo sguardo può abbracciarne tutto l'insieme. A destra, la prima casa della Steam-House è sistemata diagonalmente in modo che la vista dell'orizzonte verso sud si presenti altrettanto bene sia al balcone della veranda sia alle finestre laterali del salotto, della sala da pranzo e delle cabine di sinistra. Grandi cedri la sovrastano e si stagliano robustamente in nero sullo sfondo lontano della gran catena, tappezzata di nevi eterne. A sinistra, la seconda casa è addossata al fianco di un'enorme rupe di granito. Questa rupe, sia per la sua strana forma sia per il suo colore caldo, ricorda quei giganteschi plum puddings di sasso di cui parla il signor Russell-Killough nel racconto del suo viaggio attraverso l'India meridionale. Di questa abitazione, riservata al sergente Mac Neil e ai suoi compagni del personale, si vede solo il fianco. Essa è piazzata a venti passi dalla casa principale, come una dipendenza di qualche pagoda più importante. All'estremità di uno dei tetti che la coprono un sottile filo di fumo azzurrognolo sfugge dal laboratorio culinario del signor Parazard. Più a sinistra un gruppo di alberi, appena staccati dalla foresta, risale sul dorso ovest, e forma la quinta laterale di questo paesaggio. In fondo, fra le due case, si erge un gigantesco mastodonte. È il nostro Gigante d'Acciaio. Esso è stato messo al coperto sotto un padiglione di grandi pandani. Con la sua proboscide rialzata, si direbbe che ne mangi i rami più alti. È fermo; si riposa benché non abbia nessun bisogno di riposo. Ora, immobile guardiano della Steam-House, come un enorme animale antidiluviano, ne vieta l'ingresso al termine di quella strada su per la quale ha trainato tutto quel villaggio mobile. Per esempio, per colossale che sia il nostro elefante, a meno di staccarlo con il pensiero dalla catena che si erge a seimila metri sopra l'altipiano, non sembra avere più nulla di quel gigante artificiale, di cui la mano di Banks ha dotato la fauna indù. — Una mosca sulla facciata di una cattedrale! — dice il capitano Hod, non senza un certo dispetto. E non c'è nulla di più vero. Vi è, sullo sfondo, un blocco di granito nel quale si potrebbero tagliare facilmente mille elefanti della grandezza del nostro, e questo blocco non è che un semplice scalino, uno dei cento di quella scala che sale fino alla cresta della catena, e che il Dawalaghiri domina con la sua cima aguzza. A volte, il cielo di questo quadro si abbassa fino all'occhio dell'osservatore. Non solo le alte cime, ma la cresta media della catena, spariscono in un istante. Sono densi vapori che corrono sulla zona mediana dell'Himalaya e avvolgono di nebbia tutta la sua parte superiore. Il paesaggio rimpicciolisce, e allora, per un effetto ottico, si direbbe che le case, gli alberi, le terrazze vicine e anche il Gigante d'Acciaio riprendano le loro vere dimensioni. Accade anche che, spinte da certi venti umidi, le nuvole, ancora più basse, si stendano al di sotto dell'altipiano. L'occhio allora non vede altro che un mare tempestoso di nuvole, alla cui superficie il sole provoca meravigliosi giochi di luce. Tanto in alto quanto in basso, l'orizzonte è scomparso, e ci sembra di essere trasportati in qualche regione aerea, oltre i confini della terra. Ma il vento cambia, una brezza dal nord, precipitandosi per le brecce della catena, viene a spazzare tutta questa nebbia, il mare di vapori si condensa quasi istantaneamente, la pianura ricompare all'orizzonte a sud, le sublimi proiezioni dell'Himalaya si profilano di nuovo sullo sfondo spazzato del cielo, la cornice del quadro ritrova la sua grandezza normale, e lo sguardo, di cui nulla limita più la portata, afferra tutti i particolari di un panorama per un orizzonte di sessanta miglia. CAPITOLO II MATHIAS VAN GUITT IL GIORNO dopo, 26 giugno, un rumore di voci ben note mi risvegliò fino dall'alba. Mi alzai subito. Il capitano Hod e il suo attendente Fox erano in gran conversazione nella sala da pranzo della Steam-House. Li raggiunsi immediatamente. Nello stesso momento Banks lasciava la sua cabina, e il capitano interpellandolo con la sua voce sonora: — Ebbene, amico Banks, — gli disse, — eccoci finalmente arrivati in porto! Questa volta, è definitivo. Non si tratta più di una sosta di poche ore, ma di un soggiorno di qualche mese. — Sì, caro Hod, — rispose l'ingegnere, — e potete organizzare le vostre cacce a vostro piacimento. Il fischio del Gigante d'Acciaio non vi richiamerà più all'accampamento. — Hai sentito, Fox? — Sì, capitano, — rispose l'attendente. — Il cielo mi aiuti! — esclamò Hod, — ma non lascerò il sanitarium della Steam-House prima che la cinquantesima sia caduta sotto i miei colpi! La cinquantesima, Fox! Ho idea che debba essere la più difficile di tutte da acchiappare! — Ma la acchiapperemo lo stesso, — rispose Fox. — Da dove vi viene quest'idea, capitano Hod? — gli chiesi. — Oh! Maucler, è un presentimento da cacciatore, nient'altro! — Dunque, — disse Banks, — fin da oggi lascerete l'accampamento per mettervi in campagna? — Fin da oggi — rispose il capitano Hod. — Cominceremo prima di tutto con il riconoscere il terreno, in modo da esplorare la zona inferiore, scendendo fino alle foreste del Tarryani. Purché le tigri non abbiano abbandonato questa residenza! — Potete crederlo?... — Eh! la mia cattiva sorte! — La cattiva sorte!... nell'Himalaya!... — rispose l'ingegnere. — È possibile? — Insomma, vedremo! Ci accompagnerete, Maucler? — domandò il capitano Hod, rivolgendosi a me. — Sì, certamente. — E voi, Banks? — Anch'io, — rispose l'ingegnere — e credo che Munro verrà con voi come me... da dilettante! — Oh! — rispose il capitano Hod, — da dilettanti, va bene! ma da dilettanti ben armati! Non si tratta di andare a spasso col bastone in mano! Sarebbe una cosa che umilierebbe le belve del Tarryani! — D'accordo! — rispose l'ingegnere. — Dunque, Fox, — soggiunse il capitano, rivolgendosi al suo attendente, — niente sbagli questa volta! Quattro carabine Enfield per il colonnello, Banks, Maucler e me, due fucili a proiettili esplosivi per te e per Goûmi. — State tranquillo, capitano, — rispose Fox. — La selvaggina non avrà da lamentarsi. La giornata doveva dunque essere dedicata alla ricognizione di quella foresta del Tarryani che ricopre la parte inferiore dell'Himalaya al disotto del nostro sanitarium. Così, verso le undici, dopo la colazione, sir Edward Munro, Banks, Hod, Fox, Goûmi e io, tutti ben armati, scendevamo la strada che obliqua verso la pianura, dopo aver avuto cura di lasciare all'accampamento i due cani, di cui non sapevamo che fare in quella spedizione. Il sergente Mac Neil era rimasto alla Steam-House, con Storr, Kâlouth e il cuoco, per terminare i lavori di installazione. Dopo un viaggio di due mesi, il Gigante d'Acciaio aveva bisogno di essere, all'interno e all'esterno, visitato, pulito e messo in assetto. Ciò rappresentava un lavoro lungo, minuzioso, delicato, che non avrebbe permesso ai suoi cornac abituali, il fuochista e il macchinista, di stare in ozio. Alle undici avevamo lasciato il sanitarium, e, alcuni minuti dopo, alla prima svolta della strada, la Steam-House spariva dietro la fitta cortina d'alberi. Non pioveva più. Sotto la spinta di un vento fresco di nord-est, le nuvole, più scomposte, correndo negli alti strati dell'atmosfera, fuggivano velocemente. Il cielo era grigio, la temperatura adatta a dei pedoni; ma mancavano anche quei giochi di luce e d'ombra che formano il fascino dei grandi boschi. Duemila metri da scendere per una strada diretta, sarebbero stati questione di venticinque o trenta minuti, ma la strada era allungata da tutte le sinuosità con le quali compensava la ripidezza dei pendii. Impiegammo non meno di un'ora e mezzo per giungere al limite superiore delle foreste del Tarryani, cinque o seicento piedi al di sopra della pianura. La passeggiata era stata compiuta allegramente. — Attenzione! — disse il capitano Hod. — Entriamo nel regno delle tigri, dei leoni, delle pantere, dei leopardi e di altri animali benefattori della regione himalayana! È bene distruggere le belve, ma è meglio non lasciarsi distruggere da loro! Dunque, non allontaniamoci gli uni dagli altri, e siamo prudenti! Una raccomandazione simile nella bocca di quell'accanito cacciatore aveva gran valore. Perciò ognuno di noi ne tenne conto. Le carabine e i fucili furono caricati, le batterie controllate, i grilletti messi in sicura. Eravamo pronti a qualsiasi avvenimento. Aggiungerò che bisognava diffidare non solo dei carnivori, ma anche dei serpenti, i più pericolosi dei quali si incontrano nelle foreste dell'India. I belongas, i serpenti verdi, i serpenti-staffile, e molti altri, sono velenosissimi. Il numero delle vittime che soccombono annualmente per il morso di tali rettili è cinque o sei volte maggiore di quello degli animali domestici o degli uomini periti sotto le zanne delle belve. Dunque, in quella regione di Tarryani, sono norme di elementare prudenza lo stare attenti a tutto, il guardare dove si mettono i piedi, dove si appoggia la mano, il prestare orecchio ai minimi rumori che corrono sotto le erbe o si propagano attraverso i cespugli. Alle dodici e mezzo, eravamo entrati sotto le chiome dei grandi alberi riuniti sul limitare della foresta. I loro alti rami si stendevano al di sopra di alcuni larghi viali, per i quali il Gigante d'Acciaio, seguito dal treno che trascinava solitamente, sarebbe passato con facilità. Infatti, questa parte della foresta era da tempo sistemata in modo da lasciare passare i carri di legna dei montanari: lo si capiva da certi solchi scavati di fresco nella creta molle. Questi viali principali correvano nel senso della catena montuosa e, seguendo la lunghezza maggiore del Tarryani, congiungevano tra loro le radure aperte qua e là dalla scure del boscaiolo; ma, sui lati, non davano accesso che a stretti sentieri che si perdevano sotto fustaie impenetrabili. Seguivamo dunque questi viali, più come agrimensori che come cacciatori, per riconoscere la loro direzione generale. Nessun urlo turbava il silenzio nella profondità del bosco. Tuttavia alcune larghe impronte, lasciate di recente sul suolo, provavano che i carnivori non avevano abbandonato il Tarryani. All'improvviso, mentre stavamo facendo il giro di una delle svolte del viale, un'esclamazione del capitano Hod, che procedeva in testa, ci fece arrestare. A venti passi, nell'angolo di una radura, bordata da grandi pandani, sorgeva una costruzione per lo meno curiosa per la sua forma. Non era una casa: non aveva né camino né finestre. Non era un capanno per cacciatori: non aveva né finestrelle né feritoie strombate. La si sarebbe detta piuttosto una tomba indù, sperduta nel cuore di quella foresta. Infatti, si immagini una specie di lungo cubo, formato di tronchi, accostati verticalmente, saldamente piantati nel terreno, tenuti vicini nella loro parte superiore mediante un robusto cordone di rami. Per tetto, altri tronchi trasversali, solidamente incastrati nella parte superiore della costruzione. Evidentemente, il costruttore di quel ridotto aveva voluto dargli una solidità a tutta prova sui suoi cinque lati. Esso misurava circa sei piedi di altezza per dodici di lunghezza e cinque di larghezza. Di apertura, non si vedeva traccia, a meno che non fosse nascosta, sulla sua facciata anteriore, da una grossa trave, la cui testa arrotondata sorpassava di un poco l'insieme della costruzione. Al disopra del tetto si ergevano delle lunghe pertiche flessibili disposte in uno strano modo e riunite fra loro. Dall'estremità di una leva orizzontale, che sosteneva questa armatura, pendeva un nodo scorsoio, o meglio un anello formato da una grossa treccia di liane. — Ma che cos'è questo? — esclamai. — Questo, — rispose Banks dopo aver osservato bene, — è semplicemente una trappola, ma vi lascio indovinare, amici miei, che razza di topi sia destinata a prendere! — Una trappola per tigri! — esclamò il capitano Hod. — Sì, — rispose Banks, — una trappola per tigri, il cui usciolo, chiuso dalla trave che era trattenuta da questo anello di liane, è ricaduto giù, perché il bilanciere interno è stato toccato da qualche animale. — È la prima volta, — rispose Hod, — che vedo in una foresta dell'India una costruzione di questo genere. È una trappola infatti! Una cosa veramente indegna di un cacciatore! — E di una tigre, — aggiunse Fox. — Senza dubbio, — replicò Banks, — ma se si tratta di distruggere questi feroci animali e non di dar loro la caccia per divertimento, la migliore trappola è quella che ne prende di più. Ora, questa mi sembra eseguita abbastanza abilmente per attirare e trattenere delle belve, per diffidenti e robuste che siano! — Aggiungo, — disse allora il colonnello Munro, — che, dato che l'equilibrio del bilanciere che sosteneva l'usciolo della trappola è stato rotto, è probabile che qualche animale vi si sia fatto pigliare. — Lo sapremo subito, — esclamò il capitano Hod, — e se il topo non è morto!... Il capitano, unendo il gesto alle parole, fece scattare la batteria della sua carabina. Tutti lo imitarono e si tennero pronti a far fuoco. Evidentemente, non potevamo mettere in dubbio che quella costruzione non fosse una trappola, sul tipo di quelle che si incontrano frequentemente nelle foreste della Malesia. Ma, se non era opera di un indù, presentava tutti i requisiti che rendono pratici questi congegni di distruzione: sensibilità eccessiva e solidità a tutta prova. Prese le nostre disposizioni, il capitano Hod, Fox e Goûmi si avvicinarono alla trappola di cui volevano prima di tutto fare il giro. Nessun interstizio fra i tronchi verticali permise loro di guardare all'interno. Ascoltarono attentamente. Nessun rumore rivelava la presenza di un essere vivente in quel cubo di legno, muto come una tomba. Il capitano Hod e i suoi compagni ritornarono verso la parte anteriore. Accertarono che la trave mobile era scivolata in due larghe scanalature disposte verticalmente. Bastava dunque risollevarla per penetrare nell'interno della trappola. — Non il minimo rumore! — disse il capitano Hod, che aveva appoggiato l'orecchio alla porta. — Nemmeno un alito! La trappola è vuota! — Non importa, abbiate prudenza! — rispose il colonnello Munro. E andò a sedersi su un tronco d'albero, a sinistra della radura; io mi posi accanto a lui. — Andiamo, Goûmi! — disse il capitano Hod. Goûmi, svelto, dal fisico atletico, nonostante la piccola statura, agile come una scimmia, flessibile come un leopardo, vero clown indiano, comprese che cosa voleva il capitano. La sua agilità lo designava naturalmente per il compito che si voleva da lui. Egli saltò con un balzo sul tetto della trappola, e in un istante, a forza di polsi, raggiunse una delle pertiche che formavano l'armatura superiore. Poi scivolò lungo la leva fino all'anello di liane, e, con il suo peso, lo abbassò fino alla testa della trave che chiudeva l'apertura. Quel cappio venne allora passato in un incavo praticato tutt'intorno alla testa della trave. Non restava più che da produrre un movimento di contrappeso, facendo forza sull'altra estremità della leva. Ma allora, bisognò ricorrere alle forze riunite del nostro piccolo drappello. Il colonnello Munro, Banks, Fox e io, andammo dunque dietro la trappola per produrre questo movimento. Goûmi era rimasto sull'armatura per liberare la leva nel caso che qualche ostacolo le avesse impedito di agire liberamente. — Amici miei, — ci gridò il capitano Hod, — se è necessario che mi unisca a voi, verrò, ma se potete far a meno di me, preferisco rimanere davanti alla trappola. Almeno, se ne esce una tigre, sarà salutata da una pallottola al suo passaggio! — E sarà la quarantaduesima? — chiesi al capitano. — Perché no? — rispose Hod. — Se cade sotto la mia fucilata, sarà almeno caduta in piena libertà! — Non vendiamo la pelle dell'orso... — replicò l'ingegnere, — prima che sia caduto! — Soprattutto quando l'orso potrebbe anche essere una tigre!... — soggiunse il colonnello Munro. — Insieme, amici miei, — gridò Banks, — insieme! La trave era pesante e scorreva male nelle sue guide. Pure, riuscimmo a smuoverla. Oscillò un istante e rimase sospesa a un piede dal suolo. Il capitano Hod, piegato in due con la carabina spianata, cercava di vedere se qualche enorme zampa o delle fauci ansanti si mostrassero all'orifizio della trappola. Non appariva ancora nulla. — Ancora uno sforzo, amici miei! — gridò Banks. E grazie a Goûmi, che venne a dare qualche scossa all'estremità della leva, la trave cominciò a risalire a poco a poco. Ben presto l'apertura fu sufficiente per lasciar passare anche un animale di grandi dimensioni. Non se ne vedeva nessuno di nessun genere. Ma, dopo tutto, poteva darsi, che al rumore che si faceva intorno alla trappola, il prigioniero si fosse rifugiato nella parte più fonda della prigione. Anzi, forse non aspettava che il momento favorevole per slanciarsi con un balzo, rovesciare chiunque si opponesse alla sua fuga, e sparire nelle profondità della foresta. Era un momento piuttosto emozionante. Vidi allora il capitano Hod fare qualche passo avanti con il dito sul grilletto della carabina, e disporsi in modo da cacciare lo sguardo fino in fondo alla trappola. La trave era allora completamente alzata, e la luce entrava largamente dall'orifizio. In questo momento, un leggero rumore si fece udire attraverso le pareti, poi un sordo mugolio, o meglio uno sbadiglio formidabile, che trovai molto sospetto. Evidentemente, là dentro vi era un animale che dormiva, e noi lo avevamo svegliato bruscamente. Il capitano Hod si avvicinò ancora e spianò la carabina contro una massa che vide muoversi nella penombra. Ad un tratto, all'interno si udì un movimento. Echeggiò un grido di terrore che fu subito seguito da queste parole, pronunciate in buon inglese: — Non fate fuoco, per Dio! non fate fuoco! Un uomo si slanciò fuori della trappola. Il nostro stupore fu tale, che le nostre mani lasciarono andare l'armatura e la trave ricadde pesantemente con un sordo rumore davanti all'orifizio, che otturò un'altra volta. Frattanto il personaggio comparso in modo tanto inatteso andava incontro al capitano Hod, la cui carabina gli era spianata in pieno petto, e in tono pretenzioso, accompagnato da un gesto enfatico, gli disse: — Abbiate la cortesia di abbassare la vostra arma, signore. Non avete a che fare con una tigre del Tarryani! Il capitano Hod, dopo un po' d'esitazione, sistemò la carabina in posizione meno minacciosa. — Con chi abbiamo l'onore di parlare? — domandò Banks avanzando verso quel personaggio. — Con il naturalista Mathias Van Guitt, fornitore regolare di pachidermi, tardigradi, plantigradi, proboscidati, carnivori e altri mammiferi, delle ditte Charles Rice di Londra e Hagenbeck di Amburgo! Poi, accennando a noi con un gesto circolare: — I signori?... — Il colonnello Munro e i suoi compagni di viaggio, — rispose Banks. — A passeggio per le foreste dell'Himalaya, — soggiunse il fornitore. — Piacevole escursione, in verità! A buon rendere, signori, a buon rendere! Chi era questo strano uomo con cui avevamo a che fare? Non si poteva pensare che gli avesse dato di volta il cervello durante quella prigionia nella trappola per tigri? Era pazzo o in tutte le sue facoltà mentali? Insomma, a quale categoria di bimani apparteneva quell'individuo? Dovevamo saperlo poco dopo, e in seguito, dovevamo imparare a conoscere meglio quel curioso personaggio che si definiva naturalista e che lo era stato infatti. Il signor Mathias Van Guitt, fornitore di zoo, era un tipo con gli occhiali, sulla cinquantina. Il viso glabro, gli occhi che sbattevano continuamente, il naso voltato all'insù, la persona in continuo movimento, i gesti estremamente espressivi, appropriati a ognuna delle frasi che uscivano dalla sua larga bocca, tutto ciò ne faceva il tipo conosciutissimo del vecchio commediante di provincia. Chi non ha incontrato in qualche angolo del mondo uno di questi vecchi attori, la cui esistenza, ristretta all'orizzonte di una ribalta e di un fondale, è trascorsa tutta quanta fra il «lato corte e il «lato giardino» di un teatro da melodramma? Parlatori instancabili, gesticolatori noiosi, infatuati di se stessi, essi tengono alta, gettandola all'indietro, la testa, troppo vuota nella vecchiaia per non essere mai stata molto piena nell'età matura. C'era certamente del vecchio guitto in questo Mathias Van Guitt. Una volta ho udito raccontare questo divertente aneddoto su un povero diavolo di cantante, che credeva di dover sottolineare con un gesto particolare tutte le parole della sua parte. Per esempio, nel Masaniello, quando intonava a piena voce: Se mai d'un pescato napoletano... il suo braccio destro, teso verso il pubblico, si muoveva febbrilmente, come se avesse tenuto all'estremità della lenza della sua canna da pesca il luccio preso all'amo. Poi continuando: Il Ciel voleva fare un gran monarca, mentre una delle sue mani si alzava dritta verso lo zenit per indicare il cielo, l'altra, tracciando un cerchio intorno alla testa fieramente alzata, dava l'immagine d'una corona reale. Direbbe egli al destin: Decreto vano! E tutto il suo corpo resisteva violentemente a una spinta che tendeva a gettarlo indietro. Seguitando a vogar nella sua barca... E allora, le sue due braccia, vivamente spinte da sinistra a destra e da destra a sinistra, come se egli avesse manovrato il remo, mostravano la sua abilità nel dirigere la barca. Ebbene, questi sistemi, familiari al cantante in questione, erano, pressappoco, quelli del fornitore Mathias Van Guitt. Nel suo linguaggio egli non adoperava che vocaboli fioriti, e dava un bel fastidio al suo interlocutore che non avesse potuto mettersi fuori portata dei suoi gesti. Come venimmo a sapere più tardi e dalla sua stessa bocca, Mathias Van Guitt era un ex professore di storia naturale al Museo di Rotterdam, a cui l'insegnamento non era riuscito. Certo che quel brav'uomo si prestava alla presa in giro, e se gli allievi correvano in folla alle sue lezioni, era per divertirsi e non per imparare. In fin dei conti, le circostanze avevano fatto si che, stanco di insegnare senza risultato la zoologia teorica, egli era venuto in India per fare della zoologia pratica. Questo genere di commercio gli riuscì meglio, e egli divenne il fornitore ufficiale delle importanti ditte di Amburgo e di Londra, dalle quali si riforniscono generalmente gli zoo pubblici e privati dei due mondi. E se Mathias Van Guitt si trovava in quel periodo nel Tarryani, era perché ve lo aveva portato un'importante ordinazione di belve per l'Europa. Infatti, il suo accampamento era a sole due miglia da quella trappola, dalla quale lo avevamo tirato fuori. Ma come mai il fornitore era in quella trappola? È quanto Banks gli chiese subito, ed ecco che cosa egli rispose in un linguaggio sottolineato da una grande varietà di gesti: — Ieri, quando il sole aveva già quasi concluso il semicerchio della sua rotazione diurna, mi venne in mente d'andare a visitare una delle trappole per tigri preparate di mia mano. Lasciai dunque il mio kraal, che voi, signori, vorrete onorare di una vostra visita, e giunsi a questa radura. Ero solo; il mio personale era occupato in alcuni lavori urgenti dai quali non avevo voluto distrarlo. Era un'imprudenza. Quando fui arrivato davanti a questa trappola, notai subito che la botola, formata dalla trave mobile, era sollevata. Dal che dedussi, non senza logica, che nessuna belva vi si era lasciata pigliare. Tuttavia, volli verificare se l'esca era sempre al suo posto, e se il bilanciere a contrappeso funzionasse sempre. Perciò, con un agile movimento di reptazione, mi insinuai nella stretta apertura. La mano di Mathias Van Guitt indicava con un'elegante ondulazione il movimento di un serpente che si caccia attraverso le alte erbe. — Quando fui giunto in fondo alla trappola, — riprese il fornitore, — esaminai il quarto di capra, le cui emanazioni dovevano attirare gli ospiti di questa parte della foresta. L'esca era intatta. Stavo per ritirarmi, quando un urto involontario del mio braccio fece oscillare il bilanciere; l'armatura si staccò, la botola cadde, e io mi trovai preso nella mia stessa trappola, senza nessuna possibilità di uscirne. Qui, Mathias Van Guitt, si arrestò un istante per far comprendere meglio tutta la gravità della sua situazione. — Ciononostante, signori — soggiunse, — non vi nasconderò che, da principio, considerai la cosa dal suo lato comico. Ero prigioniero, sia pure! Nessun carceriere che potesse aprirmi la porta, ne convengo! Ma pensai che i miei servi non vedendomi ricomparire al kraal, si sarebbero preoccupati per la mia assenza prolungata e avrebbero iniziato delle ricerche, che, presto o tardi, avrebbero dato il loro frutto. Non era che questione di tempo. Car que faire en un gîte, à moins que l'on ne songe,21 ha detto un favolista francese. Perciò io mi misi a riflettere, e passarono alcune ore senza che nulla venisse a modificare la mia situazione. Venuta la sera, la fame si fece sentire. Pensai che il meglio che mi rimanesse da fare fosse d'ingannarla con il sonno. Presi dunque la mia decisione da filosofo, e mi addormentai profondamente. La notte fu calma in mezzo al gran silenzio della foresta. Nulla turbò il mio sonno, e forse dormirei ancora se non fossi 21 «E che fare in una tana se non pensare?» La Fontaine, Fables, II, 14. (N.d.T.) stato svegliato da un rumore insolito. La botola della trappola si alzava, la luce entrava a fiotti nel mio oscuro ridotto, non mi rimaneva più che lanciarmi fuori!... Quale fu il mio turbamento quando vidi lo strumento mortifero diretto verso il mio petto! Un istante ancora, e sarei stato colpito! L'ora della mia liberazione sarebbe stata l'ultima della mia vita!... Ma il signor capitano fu tanto gentile da riconoscere in me una creatura della sua specie... e non mi rimane che ringraziarvi, signori, per avermi restituito alla libertà. Questo fu il racconto del fornitore. Bisogna confessare che non fu senza fatica che riuscimmo a frenare il sorriso provocato dal suo tono e dai suoi gesti. — Dunque, signore, — gli domandò Banks, — il vostro accampamento è posto in questa parte del Tarryani? — Sì, signore, — rispose Mathias Van Guitt. — Come ho avuto il piacere di dirvi, il mio kraal è a due miglia da qui, e se volete onorarlo della vostra presenza, sarò felice di ricevervi. — Certamente, signor Van Guitt, — rispose il colonnello Munro, — verremo a farvi visita! — Siamo cacciatori, — aggiunse il capitano Hod, — e la sistemazione di un kraal c'interesserà. — Cacciatori! — esclamò Mathias Van Guitt, — cacciatori! E non poté impedire alla sua fisionomia di rivelare che egli aveva una stima molto relativa per i figli di Nemrod. — Voi cacciate le belve... per ucciderle, senza dubbio? — soggiunse rivolgendosi al capitano. — Unicamente per ucciderle, — rispose Hod. — E io unicamente per prenderle! — replicò il fornitore, che trovò un bel gesto di fierezza. — Ebbene, signor Van Guitt, non ci faremo concorrenza! — ribatté il capitano Hod. Il fornitore crollò il capo. Tuttavia la nostra qualità di cacciatori non era tale da farlo pentire del suo invito. — Quando vorrete seguirmi, signori! — disse inchinandosi con grazia. Ma, in quel momento si fecero udire nel bosco molte voci, ed una mezza dozzina di indù apparve alla svolta del grande viale che si apriva al di là dalla radura. — Ah! ecco i miei servi, — disse Mathias Van Guitt. Poi, avvicinandosi a noi e mettendosi un dito sulla bocca, spingendo un po' avanti le labbra: — Non una parola della mia vicenda! — aggiunse. — Non bisogna che il personale del kraal sappia che mi sono lasciato pigliare nella mia trappola come una belva qualunque! Ciò potrebbe diminuire il grado di correttezza che devo sempre conservare ai suoi occhi! Un segno di consenso da parte nostra rassicurò il fornitore. — Padrone — disse allora uno degli indù, il cui viso impassibile ed intelligente attirò la mia attenzione — padrone, vi cerchiamo da più di un'ora senza aver... — Ero con questi signori che acconsentono ad accompagnarmi fino al kraal — rispose Van Guitt. — Ma, prima di lasciare la radura, bisogna rimettere a posto la trappola. Su un ordine del fornitore, gli indù procedettero a risistemare la botola. Frattanto Mathias Van Guitt ci invitò a visitare l'interno della trappola. Il capitano Hod vi si cacciò dietro di lui, ed io lo seguii. Il luogo era un po' stretto per lo sviluppo dei gesti del nostro ospite, che si comportava come se fosse stato in una sala. — Complimenti — disse il capitano Hod, dopo aver esaminato il congegno. — È molto bene escogitato! — Statene certo, signor capitano — rispose Mathias Van Guitt. — Questo genere di trappole è infinitamente preferibile alle vecchie fosse munite di pioli di legno indurito e agli alberi flessibili, ricurvi ad arco, trattenuti da un nodo scorsoio. Nel primo caso, l'animale si sventra; nel secondo si strangola. Ciò importa poco, evidentemente, quando non si tratta che di distruggere le belve! Ma a me che vi parlo, occorrono vive, intatte, senza alcuna avaria! — Certamente — rispose il capitano Hod — non procediamo nel medesimo modo. — Il mio è forse quello buono! — replicò il fornitore. — Se si consultassero le belve... — Io non le consulto! — rispose il capitano. Decisamente il capitano Hod e Mathias Van Guitt avrebbero stentato a intendersi. — Ma, — domandai al fornitore, — quando questi animali sono presi in trappola, come fate per tirarli fuori? — Una gabbia a ruote viene spinta davanti alla botola — rispose Mathias Van Guitt — i prigionieri vi si gettano da sé, e a me non rimane che riportarli al kraal al passo tranquillo e lento dei miei bufali domestici. Questa frase era appena finita, che delle grida si udivano al di fuori. Il nostro primo movimento, del capitano Hod e mio, fu di precipitarci fuori della trappola. Che cosa era accaduto? Un serpente-staffile, della specie più maligna, era stato tagliato in due dal bastone che un indù teneva in mano, e ciò nel momento stesso in cui il rettile velenoso si slanciava sul colonnello. Quell'indù era quello che io avevo già notato. Il suo rapido intervento aveva certamente salvato sir Edward Munro da una morte immediata, come ci fu dato di vedere. Infatti le grida che avevamo udito erano lanciate da uno dei servi del kraal, che si dibatteva a terra nelle ultime contorsioni dell'agonia. Per una deplorevole fatalità, la testa del serpente, tagliata di netto, era balzata al suo petto, i denti vi si erano fissati, e il disgraziato, pervaso dal sottile veleno, spirava in meno di un minuto, senza che fosse stato possibile portargli soccorso. Atterriti da principio da questo orribile spettacolo, ci eravamo poi precipitati verso il colonnello Munro. — Non sei stato toccato? — domandò Banks, che gli afferrò precipitosamente la mano. — No, Banks, rassicurati — rispose sir Edward Munro. Poi, rialzandosi e andando verso l'indù a cui doveva la vita: — Grazie, amico — gli disse. L'indù, con un gesto, fece comprendere che non gli era dovuto nessun ringraziamento per ciò. — Come ti chiami? — gli domandò il colonnello Munro. — Kâlagani — rispose l'indù. CAPITOLO III IL «KRAAL» LA MORTE di quel disgraziato ci aveva vivamente impressionati, soprattutto nelle condizioni in cui si era verificata. Ma il morso del serpente-staffile, uno dei più velenosi della penisola, non perdona. Era una vittima in più da aggiungere alle migliaia che questi terribili rettili fanno ogni anno in India. 22 Si dice, - per scherzo, penso - che, un tempo, non vi erano serpenti alla Martinica, e che sono stati gli inglesi a portarveli, quando hanno dovuto restituire l'isola alla Francia. I francesi non hanno avuto bisogno di ricorrere a questo genere di rappresaglie, quando hanno abbandonato le loro conquiste nell'India. Era inutile, e bisogna convenire che la natura si è mostrata prodiga a questo proposito. Il corpo dell'indù, sotto l'influenza del veleno, si decomponeva rapidamente. Si dovette procedere immediatamente a seppellirlo. I suoi compagni vi si occuparono, ed il cadavere fu deposto in una fossa abbastanza profonda, che i carnivori non potessero dissotterrarlo. Compiuta questa triste cerimonia, Mathias Van Guitt ci invitò ad accompagnarlo al kraal, invito che fu accettato subito. Una mezz'ora ci bastò per giungere al campo del fornitore. Questo campo giustificava il nome di kraal, che vien adoperato più particolarmente dai coloni del Sud Africa. Era un gran recinto oblungo, sistemato nel cuore della foresta, in una ampia radura. Mathias Van Guitt lo aveva allestito con una perfetta comprensione delle necessità del suo mestiere. Una fila di alte palizzate, in cui si apriva una porta larga tanto da lasciar passare 22 Nel 1877, 1677 esseri umani sono morti a causa del morso dei serpenti. I premi pagati dal Governo per la distruzione di questi rettili indicano che in quello stesso anno ne vennero uccisi 127.295. (N.d.A.) i carri, lo circondava sui quattro lati. In fondo, al centro, una lunga capanna, fatta di tronchi d'albero e di tavole, serviva da unica abitazione a tutti gli abitanti del kraal. Sei gabbie, divise in vari scompartimenti, montate ognuna su quattro ruote, erano disposte a squadra all'estremità sinistra del recinto. Dai ruggiti che ne uscivano, si poteva giudicare che gli ospiti non vi mancavano. A destra, una dozzina di bufali nutriti dai grossi pascoli della montagna, se ne stavano all'aria aperta. Era il tipo ordinario del serraglio viaggiante. Sei carrettieri, addetti alla guida dei carri, dieci indù, particolarmente addestrati alla caccia delle belve, completavano il personale del campo. I carrettieri erano noleggiati soltanto per la durata della campagna; il loro servizio consisteva nel guidare i carri sui luoghi di caccia, poi nel ricondurli alla più vicina stazione ferroviaria. Là, i carri erano posti su trucks, e potevano raggiungere rapidamente, via Allahabad, o Bombay o Calcutta. I cacciatori, di razza indù, appartenevano a quella categoria di persone del mestiere che si chiamano chikaris. Essi hanno il compito di cercare le tracce degli animali feroci, di stanarli e di catturarli. Ecco il personale del kraal. Mathias Van Guitt e i suoi servi vi vivevano da alcuni mesi. Vi si trovavano esposti, non solo agli attacchi delle fiere, ma anche alle febbri, da cui il Tarryani è particolarmente infestato. L'umidità delle notti, l'evaporazione dei fermenti perniciosi del suolo, il caldo umido sviluppato sotto la chioma degli alberi, che i raggi solari penetrano solo a stento, fanno della zona inferiore dell'Himalaya una regione malsana. Eppure, il fornitore ed i suoi indù si erano così ben acclimatati a quella regione, che la malaria non li colpiva più di quanto colpisse le tigri o gli altri animali del Tarryani. Ma a noi non sarebbe stato permesso il soggiornare impunemente nel kraal; del resto, ciò non faceva parte dei piani del capitano Hod. Salvo qualche notte passata in agguato, dovevamo vivere nella Steam-House in quella zona superiore, che i vapori malsani della pianura non possono raggiungere. Eravamo dunque arrivati all'accampamento di Mathias Van Guitt, e la porta si aperse per lasciarci entrare. Mathias Van Guitt sembrava particolarmente lusingato dalla nostra visita. — Ora, signori — ci disse — permettetemi di farvi gli onori del kraal. Questo campo risponde a tutte le esigenze della mia arte. Veramente, non è che una capanna in grande, ciò che, nella penisola, i cacciatori chiamano un houddi. Così parlando, il fornitore ci aveva aperta la porta della capanna, che lui e i suoi servi occupavano in comune. Nulla di meno lussuoso. Una prima camera per il padrone, una seconda per i chikaris, una terza per i carrettieri; in ognuna di quelle camere, come unico arredamento, un letto da campo; una quarta sala, più ampia, che serviva nello stesso tempo da cucina e da sala da pranzo. L'abitazione di Mathias Van Guitt, come si vede, non era che rudimentale, e meritava giustamente la qualifica di houddi. Un vagabondo nella sua capanna, niente di più. Dopo aver visitato l'abitazione di quei «bimani appartenenti al primo gruppo dei mammiferi», fummo invitati ad esaminare più da vicino l'abitazione dei quadrupedi. Era la parte interessante della sistemazione del kraal, e ricordava più quella di un serraglio da fiera, che le installazioni confortevoli di un giardino zoologico. Vi mancavano, infatti, soltanto quelle tele dipinte a tempera, appese sopra il palco e rappresentanti a colori accesi un domatore in maglietta rosa e frac di velluto, in mezzo a un'orda tumultuante di quelle belve che con le fauci insanguinate, gli artigli protesi, si piegano sotto la frusta di un Bidel o d'un eroico Pezon! È vero che mancava il pubblico per invadere il palco. Pochi passi più in là erano riuniti i bufali domestici. Essi occupavano, sulla destra, un settore laterale del kraal, nel quale veniva loro portata ogni giorno la razione d'erba fresca. Sarebbe stato impossibile lasciare quegli animali vagare nei pascoli vicini. Come disse elegantemente Mathias Van Guitt: «quella libertà di pascolo, permessa nelle regioni del Regno Unito, è incompatibile con i pericoli che presentano le foreste himalayane». Il serraglio propriamente detto comprendeva sei gabbie montate su quattro ruote. Ogni gabbia, munita di sbarre sul lato anteriore, era divisa in tre scompartimenti. Delle porte, o meglio dei tramezzi mobili dal basso in alto, permettevano di spingere gli animali da uno scompartimento all'altro per le necessità del servizio. Queste gabbie contenevano allora sette tigri, due leoni, tre pantere e due leopardi. Mathias Van Guitt ci disse che la sua provvista sarebbe stata completa solo quando avesse preso ancora due leopardi, tre tigri e un leone. Allora, avrebbe lasciato l'accampamento, avrebbe raggiunto la più vicina stazione ferroviaria, e si sarebbe diretto a Bombay. Le belve, che si potevano osservare facilmente nelle loro gabbie, erano magnifiche, ma ferocissime. Erano state prese troppo di recente per essersi assuefatte a quello stato di prigionia; lo si capiva dai loro ruggiti spaventosi, dai loro bruschi andirivieni da un tramezzo all'altro, dai violenti colpi di zampa che assestavano attraverso le sbarre, contorte in vari punti. Al nostro arrivo dinanzi alle gabbie, quelle violenze aumentarono ancora, senza che Mathias Van Guitt sembrasse preoccuparsene. — Povere bestie! — disse il capitano Hod. — Povere bestie! — ripeté Fox. — Credete dunque che siano da compiangere più di quelle che voi ammazzate? — domandò il fornitore in tono piuttosto secco. — Sono meno da compiangere che da biasimare... per essersi lasciate prendere! — ribatté il capitano Hod. Se è vero che talvolta ai carnivori nei paesi come il continente africano, dove sono rari i ruminanti che costituiscono il loro unico nutrimento, viene imposto un lungo digiuno, non è la stessa cosa in tutta questa zona del Tarryani. Qui abbondano i bisonti, i bufali, gli zebù, i cinghiali, le antilopi, ai quali leoni, tigri e pantere danno la caccia incessantemente. Inoltre, le capre, i montoni, senza parlare dei raiot loro guardiani, offrono ai carnivori una preda sicura e facile. Essi trovano dunque, nelle foreste dell'Himalaya, di che soddisfare facilmente la fame. Perciò la loro ferocia, che non si riduce mai, non ha scuse. Era principalmente di carne di bisonte e di zebù che il fornitore nutriva gli ospiti del suo serraglio, e spettava ai chikaris la cura di rinnovare le provviste in determinati giorni. Si avrebbe torto di credere che questa caccia sia senza pericoli. Tutt'altro. La stessa tigre ha molto da temere dal bufalo selvatico, che è un animale terribile quando è ferito. Più di un cacciatore lo ha visto sradicare a colpi di corna l'albero sul quale egli aveva cercato rifugio. Senza dubbio, si dice con ragione che l'occhio del ruminante è una vera e propria lente d'ingrandimento, che la grandezza degli oggetti aumenta di tre volte ai suoi occhi, che l'uomo, sotto questo aspetto gigantesco, gli si impone. Si pretende pure che la posizione eretta dell'essere umano, in cammino, è tale da spaventare gli animali feroci, e che è meglio sfidarli in piedi piuttosto che accoccolati o coricati. Non so che cosa vi sia di vero in queste osservazioni, ma è certo che l'uomo, anche quando si erge in tutta la sua statura, non produce il minimo effetto sul bufalo selvatico, e se la sua arma gli fa cilecca, è praticamente perduto. Lo stesso dicasi del bisonte indiano, dalla testa corta e quadrata, dalle corna svelte e schiacciate verso la base, dal dorso gibboso (questa struttura lo accosta al suo confratello americano), dalle zampe bianche, dallo zoccolo fino al ginocchio, e la cui lunghezza, misurata dall'attaccatura della coda alla estremità del muso, è talvolta di quattro metri. Anche lui, se è forse meno violento quando pascola in branchi fra le alte erbe della pianura, diventa terribile per qualsiasi cacciatore che lo assalga imprudentemente. Questi erano dunque i ruminanti più particolarmente destinati a nutrire i carnivori del serraglio Van Guitt. Perciò, per impadronirsene con maggior sicurezza e quasi senza pericolo, i chikaris cercavano di preferenza di pigliarli mediante delle trappole e non li ritiravano che morti, o pressappoco. Del resto, il fornitore, da uomo che sapeva il suo mestiere, distribuiva il cibo ai suoi ospiti con grande parsimonia. Una volta al giorno, a mezzogiorno, venivano loro distribuite quattro o cinque libbre di carne e nient'altro. E (non certo per motivo «festivo») essi venivano lasciati digiunare dal sabato al lunedì. Triste domenica di dieta, per la verità! Perciò quando, dopo quarantotto ore, arrivava la modesta pietanza, era una rabbia irrefrenabile, un concerto di urli, un'agitazione spaventosa, dei balzi formidabili, che imprimevano alle gabbie mobili un movimento avanti e indietro da far credere che dovessero spezzarsi! Sì, povere bestie! si sarebbe tentati di ripetere col capitano Hod. Ma Mathias Van Guitt non agiva così senza ragione. Quell'astinenza nella prigionia risparmiava alle sue belve le affezioni cutanee, e aumentava il loro valore sui mercati dell'Europa. Frattanto, lo si immaginerà facilmente, mentre Mathias Van Guitt ci mostrava la sua collezione, più da naturalista che da domatore di belve, la sua bocca non stava in ozio. Tutt'altro. Egli parlava, narrava, raccontava, e poiché i carnivori del Tarryani costituivano l'argomento principale dei suoi periodi ridondanti, la cosa ci interessava abbastanza. Perciò, non dovevamo lasciare il kraal se non quando la zoologia dell'Himalaya ci avesse svelato tutti i suoi segreti. — Ma, signor Van Guitt, — disse Banks, — potreste dirmi se le rendite del mestiere sono proporzionate ai suoi rischi? — Signore, — rispose il fornitore, — un tempo erano molto rimunerative. Tuttavia, da alcuni anni, devo riconoscerlo, gli animali feroci sono in ribasso. Potreste giudicarne dai prezzi correnti dell'ultimo bollettino. Il nostro mercato principale è il giardino zoologico di Anversa. Volatili, ofidi, campioni delle famiglie scimmiesche e sauriane, rappresentanti dei carnivori dei due mondi, è là che io spedisco abitudinariamente... Il capitano Hod s'inchinò davanti a questa parola. — ... i prodotti delle nostre cacce avventurose nelle foreste della penisola. Ad ogni modo, il gusto del pubblico sembra mutare, e i prezzi di vendita arriveranno a essere inferiori ai prezzi di costo! Per esempio, recentemente, uno struzzo maschio è stato venduto a soli millecento franchi, e la femmina a ottocento franchi soltanto. Una pantera nera ha trovato un compratore solo per milleseicento franchi, una tigre di Giava per duemilaquattrocento, e una "famiglia di leoni (padre, madre, uno zio e due leoncini promettenti) a settemila franchi tutti insieme! — Sono veramente regalati! — rispose Banks. — Quanto ai proboscidati... — soggiunse Mathias Van Guitt. — Proboscidati? — fece il capitano Hod. — Noi definiamo con questo vocabolo scientifico i pachidermi ai quali la natura ha fornito una proboscide. — Gli elefanti, allora! — Sì, gli elefanti, dall'era quaternaria, i mastodonti nei periodi preistorici... — Vi ringrazio, — rispose il capitano Hod. — Quanto ai proboscidati, — soggiunse Mathias Van Guitt, — bisogna rinunciare a catturarli, se non per raccoglierne le zanne, dato che il consumo dell'avorio non è diminuito. Infatti da quando alcuni autori drammatici, a corto di espedienti, hanno immaginato di mostrarli nelle loro commedie, gli impresari li portano in giro di città in città, e lo stesso elefante, che percorre la provincia con la compagnia ambulante, basta alla curiosità di tutto un paese. Così anche gli elefanti sono meno ricercati di un tempo. — Ma, — domandai, — voi dunque fornite questi campioni della fauna indiana, solo agli zoo d'Europa? — Mi perdonerete, signore — rispose Mathias Van Guitt, — se, a questo proposito, mi permetto, senza essere troppo curioso, di farvi una semplice domanda. M'inchinai in segno d'assenso. — Voi siete francese, signore, — soggiunse il fornitore. — Lo si riconosce non solo dal vostro accento, ma anche dal vostro tipo, che è un miscuglio piacevole di galloromano e di celtico. Ora, come francese, non dovete avere molta propensione per i viaggi lontani, e, senza dubbio, non avete mai fatto il giro del mondo? Qui il gesto di Mathias Van Guitt descrisse uno dei cerchi massimi della sfera. — Non ho ancora avuto questo piacere! — risposi. — Vi domanderò dunque, signore, — soggiunse il fornitore, — non se siete venuto in India, dato che ci siete, ma se conoscete a fondo la penisola indiana. — La conosco ancora male, — risposi. — Però ho già visitato Bombay, Calcutta, Bénares, Allahabad, la valle del Gange. Ho visto i loro monumenti, ho ammirato... — Eh! ma che cosa c'entra, signore, che cosa c'entra questo! — rispose Mathias Van Guitt voltando il capo dall'altra parte, mentre la sua mano, agitata febbrilmente, esprimeva un supremo disprezzo. Poi, procedendo per ipotiposi, ossia abbandonandosi a una descrizione vivace e animata: — Sì, che cosa c'entra questo, se non avete visitato i serragli di quei potenti rajah che hanno conservato il culto degli animali superbi di cui si onora il territorio sacro dell'India. Orsù, signore, riprendete il bastone del turista! Andate nel Guicowar a rendere omaggio al re di Baroda! Esaminate i suoi serragli, che devono a me la maggior parte dei loro ospiti, leoni del Kattyawar, orsi, pantere, tchîta, linci, tigri! Assistete alla celebrazione del matrimonio dei suoi sessantamila piccioni, che si celebra, ogni anno, con gran pompa! Ammirate i suoi cinquecento bulbuls, usignoli della penisola, della cui educazione si ha cura come se fossero gli eredi del trono! Contemplate i suoi elefanti, uno dei quali, consacrato al mestiere di carnefice, ha per missione di schiacciare la testa del condannato sul ceppo del supplizio! Poi, recatevi nella dimora del rajah di Maissur, il più ricco sovrano dell'Asia! Penetrate in quel palazzo in cui si contano a centinaia i rinoceronti, gli elefanti, le tigri e tutte le belve di alta classe che appartengono all'aristocrazia animalesca dell'India! E quando avrete visto tutto questo, signore, allora forse non potrete più essere accusato di ignoranza circa le meraviglie di questo incomparabile paese! Non mi rimaneva che inchinarmi alle osservazioni di Mathias Van Guitt. La sua maniera appassionata di presentare le cose non permetteva evidentemente la discussione. Tuttavia, il capitano Hod lo bloccò più particolarmente sulla fauna propria di quella regione del Tarryani. — Datemi qualche particolare, per cortesia — gli chiese — a proposito dei carnivori che sono venuto a cercare in questa parte dell'India. Benché io non sia che un cacciatore, ve lo ripeto, non vi farò concorrenza, signor Van Guitt, e anzi se posso aiutarvi a prendere qualcuna delle tigri che mancano ancora alla vostra collezione, mi ci dedicherò volentieri. Ma, quando il vostro serraglio sarà completo, non ve ne avrete a male se io mi dedicherò alla distruzione di questi animali per mio divertimento personale! Mathias Van Guitt prese l'atteggiamento di chi è rassegnato a subire una cosa che disapprova, ma che non potrebbe impedire. Convenne, del resto, che il Tarryani racchiudeva un grandissimo numero di animali nocivi, generalmente poco richiesti sui mercati dell'Europa, e che gli sembrava permesso di sacrificare. — Ammazzate i cinghiali, d'accordo — rispose. — Benché questi suini, dell'ordine dei pachidermi, non siano carnari... — Carnari? — disse il capitano Hod. — Voglio dire che sono erbivori; la loro ferocia è tale, che fanno correre i più grandi pericoli ai cacciatori che sono tanto audaci da assalirli! — E i lupi? — I lupi sono numerosi in tutta le penisola, e molto temibili, quando si gettano in branchi contro qualche fattoria isolata. Questi animali assomigliano un po' al lupo rosso di Polonia, e io li considero alla stregua degli sciacalli o dei cani selvatici. Non nego, tuttavia, i danni che essi fanno, ma siccome non hanno nessun valore commerciale e sono indegni di figurare fra gli zoocrati delle classi alte, vi lascio anche questi, capitano Hod. — E gli orsi? — domandai. — Gli orsi hanno del buono, signore — rispose il fornitore approvando con un cenno del capo. — Quelli dell'India non sono ricercati tanto quanto i loro confratelli della famiglia degli ursidi, però possiedono un certo valore commerciale che li raccomanda alla benevola attenzione dei conoscitori. Il gusto può esitare fra i due tipi che troviamo nelle valli del Cashmir e nelle colline del Raymahal. Ma, tranne forse che nel periodo del letargo, questi animali sono quasi inoffensivi, e, in sostanza, non possono tentare gli istinti cinegetici di un vero cacciatore quale appare ai miei occhi il capitano Hod. Il capitano si inchinò in tono significativo, mostrando chiaramente che, con o senza il permesso di Mathias Van Guitt, egli su queste questioni particolari avrebbe fatto affidamento solo su se stesso. — Del resto — soggiunse il fornitore — questi orsi sono solamente animali botanofagi... — Botanofagi? — disse il capitano. — Sì — rispose Mathias Van Guitt — vivono solo di vegetali e non hanno nulla in comune con le specie feroci, di cui la penisola giustamente s'inorgoglisce. — Fra queste belve contate il leopardo? — domandò il capitano Hod. — Senza dubbio, signore. Questo felino è agile, audace, pieno di coraggio; si arrampica sugli alberi, e, per questo stesso fatto, è qualche volta più temibile della tigre... — Oh! — disse il capitano Hod. — Signore — rispose Mathias Van Guitt in tono secco — quando un cacciatore non è più sicuro di trovare un rifugio sugli alberi, è molto vicino ad essere cacciato a sua volta! — E la pantera? — domandò il capitano Hod, che volle troncare quella discussione. — La pantera è superba — rispose Mathias Van Guitt — e potete vedere, signori, che ne ho dei magnifici esemplari! Meravigliosi animali, che, per una bizzarra contraddizione, un'antilogia, per usare una parola meno comune, possono essere addestrati alle lotte della caccia! Sì, signori, nel Guicowar specialmente, i rajah allenano le pantere a questo nobile esercizio! Vengono condotte in palanchino, con la testa incappucciata, come i girifalchi o gli smerigli! Per la verità sono autentici falchi a quattro zampe! Appena i cacciatori sono in vista di un gregge di antilopi, la pantera viene scappucciata, e si slancia sui timidi ruminanti, che le loro gambe, per agili che siano, non possono sottrarre ai suoi terribili artigli! Sì, signor capitano, si! Troverete delle pantere nel Tarryani! Ne troverete più di quante ne vorreste, forse, ma vi avverto cortesemente che queste non sono addomesticate! — Lo spero bene — rispose il capitano Hod. — Non più dei leoni, del resto — aggiunse il fornitore piuttosto seccato da quella risposta. — Ah! i leoni! — disse il capitano Hod. — Parliamo un po' dei leoni, di grazia! — Ebbene, signore, — riprese Mathias Van Guitt, — considero questi pretesi re degli animali come inferiori ai loro confratelli dell'antica Libia. Qui i maschi non portano quella criniera che è l'appannaggio del leone africano, e non sono altro, a parere mio, che dei Sansoni spiacevolmente tosati! Del resto, sono quasi totalmente scomparsi dall'India centrale, per rifugiarsi nel Kattyawar, nel deserto di Theil e nel Tarryani. Questi felini degeneri, che vivono ormai da eremiti, da solitari, non possono ritemprarsi frequentando i loro simili. Perciò non li pongo al primo posto nella scala dei quadrupedi. Davvero, signori, si può sfuggire al leone, alla tigre mai! — Ah! le tigri! — esclamò il capitano Hod. — Sì! le tigri! — ripeté Fox. — La tigre, — soggiunse Mathias Van Guitt animandosi, — a lei spetta la corona! Si dice la tigre reale, e non il leone reale, ed è giusto! L'India le appartiene tutta quanta e si riassume in lei! Non è forse stata la prima ad occupare il suolo? Non è forse suo diritto considerare invasori, non solo i rappresentanti della razza anglosassone, ma anche i figli della razza del Sole? Non è forse lei la vera figlia di quella terra santa dell'Argavarta? Perciò si vedono queste belve meravigliose diffuse in tutta la superficie della penisola, e non hanno abbandonato uno solo dei distretti dei loro antenati, dal capo Comorin fino alla frontiera himalayana! E il braccio di Mathias Van Guitt, dopo aver tracciato un promontorio avanzando in direzione sud, risalì verso nord per disegnare tutta una cresta di montagne. — Nel Sunderbund, — continuò, — esse sono di casa! Vi regnano da padrone, e sventura a chi tentasse di disputare loro quel territorio! Nei Nilgheries, vanno in giro in torme, come i gatti selvatici, si parva licet componere magnis. 23 «Comprenderete dunque, perché questi superbi felini siano richiesti su tutti i mercati d'Europa e perché rappresentino l'orgoglio dei belluari! Qual è la grande attrattiva degli zoo pubblici o privati? La tigre! Quando temete per la vita del domatore? Quando il 23 Se mi è concesso di accostare il piccolo al grande. (N.d.T.) domatore entra nella gabbia della tigre! Quale animale i rajah pagano a peso d'oro per ornamento dei loro giardini reali? La tigre! Qual è l'animale più ricercato sulle piazze di Londra, Anversa e Amburgo? La tigre! In quali cacce si illustrano i cacciatori indiani, ufficiali dell'esercito reale o dell'esercito indigeno? Nella caccia della tigre! Sapete, signori, quale divertimento offrono i sovrani dell'India indipendente ai loro ospiti? Viene portata una tigre reale in gabbia. La gabbia viene posta in mezzo a un'ampia pianura. Il rajah, i suoi invitati, i suoi ufficiali, le sue guardie, sono armati di lance, rivoltelle e carabine e montati per lo più su valenti solipedi...» — Solipedi? — disse il capitano Hod. — I loro cavalli, se preferite questa parola un po' volgare. Ma i solipedi, spaventati dalla vicinanza del felino, dal suo odore di selvatico, dal lampo che brilla nei suoi occhi, si impennano .e ci vuole tutta l'abilità dei cavalieri per trattenerli. Ad un tratto, viene aperta la porta della gabbia! Il mostro si slancia, balza, vola, si getta sui gruppi sparsi, immola alla sua rabbia una ecatombe di vittime! Se qualche volta riesce a rompere il cerchio di ferro e di fuoco che lo stringe, generalmente però soccombe, uno contro cento! Ma almeno la sua morte è gloriosa, è anticipatamente vendicata! — Bravo! signor Mathias Van Guitt, — esclamò il capitano Hod che cominciava a rianimarsi a sua volta. — Sì! Dev'essere un bello spettacolo! Sì! la tigre è il re degli animali! — Regalità che sfida le rivoluzioni, — aggiunse il fornitore. — E se voi, signor Van Guitt, ne avete catturate, io ne ho ammazzate e spero di non lasciare il Tarryani prima che la cinquantesima sia caduta sotto i miei colpi! — Capitano, — disse il fornitore corrugando le sopracciglia, — vi ho ceduto i cinghiali, i lupi, gli orsi, i bufali! Questo non basta dunque alla vostra rabbia venatoria? Vidi che il nostro amico Hod stava per accalorarsi con lo stesso trasporto di Mathias Van Guitt su questa questione palpitante. L'uno aveva preso più tigri di quante l'altro avesse ucciso? Che argomento per una discussione! Era meglio catturarle o distruggerle? Che tesi da far trionfare! Entrambi, il capitano e il fornitore, cominciavano già a scambiarsi delle frasi rapide, e per dire tutto, a parlare contemporaneamente senza capirsi più. Banks intervenne. — Le tigri, — disse, — sono le regine della creazione, siamo d'accordo, signori, ma mi permetterò di aggiungere che sono regine pericolosissime per i loro sudditi. Nel 1862, se non mi sbaglio, questi ottimi felini hanno divorato gli impiegati del telegrafo della stazione dell'isola Sangor. Si cita pure una tigre femmina che, in tre anni, ha fatto non meno di centodiciotto vittime, e un'altra che, nel medesimo periodo di tempo, ha sterminato centoventisette persone. È troppo, anche per delle regine! Infine, dopo il disarmo dei Cipay, in un periodo di tre anni, dodicimilacinquecentocinquantaquattro persone sono morte sotto i denti delle tigri. — Ma, signore, — rispose Mathias Van Guitt, — sembrate dimenticare che questi animali sono omofagi? — Omofagi? — disse il capitano Hod. — Sì, mangiatori di carne cruda, e gli indù pretendono addirittura che, quando hanno assaggiata una volta la carne umana, non ne vogliono più nessun'altra! — Ebbene, signore?... — disse Banks. — Ebbene, signore, — rispose sorridendo Mathias Van Guitt, — obbediscono alla loro natura!... Bisogna bene che mangino. CAPITOLO IV UNA REGINA DEL TARRYANI QUESTA osservazione del fornitore concluse la nostra visita al kraal; era venuta l'ora di ritornare alla Steam-House. In sostanza, il capitano Hod e Mathias Van Guitt non si separavano certo come se fossero i due migliori amici del mondo. Se l'uno voleva distruggere le belve del Tarryani, l'altro voleva catturarle, e sì che ce n'era abbastanza per accontentarli tutti e due. Con tutto ciò venne stabilito che i rapporti fra il kraal e il sanitarium sarebbero stati frequenti. Ci saremmo avvertiti a vicenda dei bei colpi che ci fossero da fare. I chikaris di Mathias Van Guitt, che avevano molta esperienza di questo tipo di spedizioni e che conoscevano i sentieri del Tarryani, erano in grado di rendersi utili al capitano Hod, segnalandogli i passaggi degli animali. Il fornitore li mise cortesemente a sua disposizione, e in particolar modo Kâlagani. Questo indù, benché entrato da poco al servizio del kraal, si mostrava molto intelligente, e si poteva fare assoluto affidamento su di lui. In compenso, il capitano Hod promise di fornire, nel limite dei suoi mezzi, il proprio aiuto alla cattura delle belve che mancavano allo stock di Mathias Van Guitt. Prima di lasciare il kraal, sir Edward Munro, che non contava probabilmente di farvi visite frequenti, ringraziò ancora una volta Kâlagani, che lo aveva salvato. Gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto alla Steam-House. L'indù s'inchinò freddamente. Per quanta soddisfazione potesse provare nel sentir parlare così l'uomo che gli doveva la vita, non ne lasciò scorgere nulla. Eravamo ritornati per l'ora del pranzo. Mathias Van Guitt, lo si può ben credere, fece le spese della conversazione. — Per mille diavoli! Che bei gesti ha quel fornitore! — ripeteva il capitano Hod. — Che scelta di parole! Che giri di frase! Solo, se nelle belve non vede che soggetti da mettere in mostra, si sbaglia! I giorni seguenti, 27, 28 e 29 giugno, piovve con tale violenza, che i nostri cacciatori, per arrabbiati che fossero, non poterono lasciare la Steam-House. Con quel tempo orribile, del resto, non si potevano riconoscere le tracce e i carnivori, che come i gatti non amano l'acqua, non lasciano volentieri le loro tane. Il 30 giugno il tempo migliorò e il cielo si fece più sereno. Quel giorno, il capitano Hod, Fox, Goûmi ed io, facemmo i nostri preparativi per scendere al kraal. La mattina, alcuni montanari vennero a farci visita. Avevano inteso dire che una pagoda, miracolosa si era trasportata nella regione dell'Himalaya, e un vivo sentimento di curiosità li aveva condotti alla Steam-House. Questi indigeni della frontiera tibetana sono bei tipi dall'animo guerresco, di una lealtà a tutta prova; praticano largamente l'ospitalità, e son molto superiori, moralmente e fisicamente, agli indù delle pianure. Se la pretesa pagoda li meravigliò, il Gigante d'Acciaio li impressionò fino a provocare da parte loro segni d'adorazione; eppure, era in riposo. Che cosa avrebbe provato, quella brava gente, se lo avesse visto, eruttante fumo e fiamme, salire con passo sicuro le aspre pendenze delle sue montagne? Il colonnello Munro accolse bene quegli indigeni, alcuni dei quali percorrono per lo più i territori del Nepal, lungo la frontiera indocinese. La conversazione si svolse per un po' su quella parte della frontiera in cui Nana Sahib aveva cercato rifugio dopo la disfatta dei Cipay, quando fu inseguito per tutto il territorio dell'India. Quei montanari non sapevano altro che quello che noi sapevamo. La notizia della morte del nababbo era giunta fino a loro e non sembravano metterla in dubbio. Quanto a quelli dei suoi compagni, che gli erano sopravvissuti, non se ne parlava più. Forse, erano andati a cercare un rifugio più sicuro fino nel cuore del Tibet; ma ritrovarli in quel paese sarebbe stato difficile. Davvero, se il colonnello Munro aveva avuto, dirigendosi verso il nord della penisola, il pensiero di mettere in chiaro tutto ciò che riguardava da vicino o da lontano Nana Sahib, questa risposta doveva certamente distoglierlo da tale proposito. Ma, ascoltando quei montanari, egli rimase pensieroso e non prese più parte alla conversazione. Il capitano Hod, invece, rivolse loro alcune domande, ma da tutt'altro punto di vista. Essi gli dissero che delle belve, e particolarmente delle tigri, provocavano terribili disastri nella zona inferiore dell'Himalaya. Gli abitanti avevano dovuto abbandonare fattorie, e persino interi villaggi. Molti greggi di capre e di montoni erano già stati distrutti e si contavano anche numerose vittime fra gli indigeni. Nonostante il premio elevato offerto dal governo, - trecento rupie per ogni tigre, - il numero di quei felini non sembrava diminuire, e ci si domandava se l'uomo non sarebbe stato in breve costretto a ceder loro il posto. I montanari aggiunsero anche questo particolare: che le tigri non stavano solamente nel Tarryani. Ovunque la pianura offriva loro alte erbe, jungle, cespugli nei quali potevano mettersi in agguato, era possibile incontrarle in gran numero. — Bestie cattive! — dissero. Quella brava gente, e con ragione si vede, non manifestava nei confronti delle tigri le stesse idee del fornitore Mathias Van Guitt e del nostro amico capitano Hod. I montanari si ritirarono lietissimi dell'accoglienza ricevuta, e promisero di ripetere la loro visita alla Steam-House. Dopo la loro partenza, essendo terminati i nostri preparativi, il capitano Hod, i nostri due compagni ed io, ben armati, pronti a qualsiasi incontro, scendemmo verso il Tarryani. Giungendo alla radura in cui si trovava la trappola dalla quale avevamo così felicemente estratto Mathias Van Guitt, questi si presentò ai nostri occhi, non senza cerimonie. Cinque o sei dei suoi uomini, e fra essi Kâlagani, erano occupati a far passare dalla trappola in una gabbia su ruote una tigre che si era lasciata prendere durante la notte. Magnifico animale davvero, che fece una grande invidia al capitano Hod! — Una di meno nel Tarryani! — egli mormorò fra due sospiri, che trovarono eco nel petto di Fox. — Una di più nel serraglio, — rispose il fornitore. — Ancora due tigri, un leone, due leopardi, e sarò in grado di far onore ai miei impegni prima della fine della campagna. Venite con me al kraal, signori? — Vi ringraziamo, — disse il capitano Hod, — ma oggi andiamo a caccia per nostro conto. — Kâlagani è a vostra disposizione, capitano Hod, — rispose il fornitore. — Conosce bene la foresta e può esservi utile. — L'accettiamo volentieri per guida. — Ora, signori, — aggiunse Mathias Van Guitt, — buona fortuna! Ma promettetemi di non ucciderle tutte! — No, ve ne lasceremo qualcuna! — ribatté il capitano Hod. E Mathias Van Guitt, salutandoci con un gesto superbo, scomparve sotto gli alberi dietro la sua gabbia a ruote. — In cammino, — disse il capitano Hod, — in cammino, amici miei. Alla mia quarantaduesima. — Alla mia ventottesima! — rispose Fox. — Alla mia prima! — aggiunsi io. Ma il tono con cui pronunciai queste parole fece sorridere il capitano. Evidentemente non avevo il fuoco sacro. Hod si era rivolto verso Kâlagani. — Conosci bene il Tarryani? — gli domandò. — L'ho percorso venti volte, notte e giorno, in tutte le direzioni, — rispose l'indù. — Hai sentito dire che una tigre si sia più particolarmente fatta vedere nei dintorni del kraal? — Sì, ma è una tigre femmina. È stata vista, a due miglia da qui, nella parte alta della foresta, e da alcuni giorni si cerca di catturarla. Volete che... — Se vogliamo? — rispose il capitano Hod senza lasciare all'indù il tempo di terminare la frase. Infatti, non ci rimaneva nulla di meglio da fare che seguire Kâlagani, ed è ciò che facemmo. È certo che le belve sono molto numerose nel Tarryani, e là, come altrove, esse hanno bisogno di non meno di due buoi alla settimana per il loro consumo particolare! Calcolate quanto costi questo mantenimento all'intera penisola! Ma se le tigri vi si trovano in gran numero, non si deve pensare che corrano in lungo e in largo per le campagne. Fintanto che la fame non le spinge, se ne stanno nascoste nelle loro tane, e sarebbe errore credere di poterle incontrare ad ogni passo. Quanti viaggiatori hanno percorso le foreste o le jungle senza averne mai viste! Quando viene organizzata una caccia, bisogna incominciare con il riconoscere i luoghi di passaggio abituale di quegli animali, e, soprattutto, scoprire il ruscello o la sorgente a cui vanno di solito a dissetarsi. Questo anzi non basta ancora, e bisogna anche adescarle. Lo si fa abbastanza facilmente, mettendo un quarto di bue, appeso ad un palo, in qualche luogo circondato da alberi o da massi, che possano servire da nascondiglio ai cacciatori. È così, perlomeno, che si procede nelle foreste. In pianura, le cose vanno diversamente, e l'elefante diventa il più utile ausilio dell'uomo in quelle pericolose cacce di inseguimento. Ma questi animali devono essere perfettamente addestrati a tale manovra, e, nonostante tutto, sono presi talvolta dal panico che rende pericolosissima la posizione dei cacciatori appollaiati sul loro dorso. Bisogna anche dire che la tigre non esita ad avventarsi contro l'elefante. La lotta fra essa e l'uomo avviene allora sul dorso del gigantesco pachiderma, che si imbizzarrisce, ed è raro che non termini col vantaggio della belva... È così, per altro, che si fanno le grandi cacce dei rajah e dei ricchi sportivi dell'India degne di figurare negli annali cinegetici. Ma non era quello il sistema adottato dal capitano Hod. Era a piedi che egli andava alla ricerca delle tigri, era a piedi che era solito combatterle. Frattanto, noi seguivamo Kâlagani, che camminava di buon passo. Da indù riservato, parlava poco e si limitava a rispondere brevemente alle domande che gli venivano fatte. Un'ora dopo, ci fermavamo presso un ruscello torrentizio, sulle cui sponde si vedevano delle impronte di animali ancora fresche. In mezzo ad una piccola radura, sorgeva un palo, dal quale pendeva un intero quarto di bue. L'esca non era stata interamente rispettata. Vi si vedevano le tracce recenti dei denti degli sciacalli, che sono i ladruncoli della fauna indiana, sempre in cerca di qualche preda, anche se non destinata loro. Una dozzina di questi carnivori fuggì quando ci avvicinammo, cedendoci il posto. — Capitano, — disse Kâlagani, — è qui che aspetteremo la tigre. Vedete che il luogo è favorevole per un appostamento. Infatti, era facile appostarsi tra gli alberi o dietro i massi, in modo da poter sparare a fuoco incrociato sul palo isolato in mezzo alla radura. Così fu fatto immediatamente. Goûmi ed io avevamo preso posto sullo stesso ramo. Il capitano Hod e Fox, entrambi appollaiati sulla prima biforcazione di due grandi querce verdi, stavano di fronte. Kâlagani, invece, si era seminascosto dietro un'alta roccia, su cui poteva arrampicarsi qualora il pericolo si fosse fatto imminente. L'animale sarebbe così rimasto preso in un cerchio di fuoco, dal quale non avrebbe potuto uscire. Tutte le sorti gli erano dunque contro, benché si dovesse, tuttavia, tener conto anche dell'imprevisto. Non ci rimaneva altro che aspettare. Gli sciacalli, dispersi qua e là, facevano sempre udire i loro rauchi latrati nelle macchie vicine, ma non osavano più venire a mordere il quarto di bue. Non era passata un'ora che quei latrati cessarono di colpo. Quasi subito, due o tre sciacalli, balzando fuori dalla macchia, attraversarono la radura e scomparvero nel più fitto del bosco. Un cenno di Kâlagani, che si preparava a salire sulla roccia, ci avvertì di stare in guardia. Infatti, quella fuga precipitosa degli sciacalli non aveva potuto essere provocata altro che dall'avvicinarsi di qualche belva, - la tigre senza dubbio, - e bisognava prepararsi a vederla comparire da un istante all'altro in qualche punto della radura. Le nostre armi erano pronte. Le carabine del capitano Hod e del suo attendente, già puntate verso la parte della macchia da cui erano usciti gli sciacalli, non aspettavano che una pressione del dito per far fuoco. Poco dopo, mi parve di vedere un leggero movimento dei rami superiori della macchia. Contemporaneamente si fece udire uno scricchiolio di legna secca. Un animale qualsiasi si avanzava, ma prudentemente, senza affrettarsi. Di quei cacciatori che lo spiavano nascosti tra un fitto fogliame, non poteva evidentemente veder nulla. Tuttavia, il suo istinto doveva lasciargli presentire che il luogo non era sicuro per lui. Certamente, se non fosse stato spinto dalla fame, se il quarto di bue non lo avesse attirato con il suo odore, esso non si sarebbe arrischiato oltre. Comparve, però, attraverso i rami di un cespuglio, e si arrestò come per un senso di diffidenza. Era proprio una tigre, femmina, di alta statura, dalla testa poderosa, dal corpo agile. Cominciò ad avanzare appiattendosi al suolo con le ondulazioni di un rettile. Tutti d'accordo, lasciammo che si avvicinasse al palo. Essa fiutava il terreno, si rizzava, inarcava il dorso, come un enorme gatto, che non voglia slanciarsi. Ad un tratto, si fecero udire due spari di carabina. — Quarantadue! — gridò il capitano Hod. — Trentotto! — gridò Fox. Il capitano e il suo attendente avevano sparato contemporaneamente e avevano mirato così bene, che la tigre colpita al cuore da un proiettile, se non da due, rotolava a terra. Kâlagani si era precipitato verso l'animale. Noi eravamo balzati a terra. La tigre non si muoveva più. Ma a chi spettava l'onore di averla colpita a morte? Al capitano o a Fox? Era importante saperlo, come si può immaginare. L'animale fu squartato. Il cuore era stato attraversato da due proiettili. — Via, — disse il capitano Hod, non senza un po' di rammarico, — mezza per uno! — Mezza, capitano! — rispose Fox con lo stesso tono. E credo che né l'uno né l'altro avrebbero ceduto la parte che doveva venire registrata sul proprio conto. Questo fu il risultato di quel colpo meraviglioso, la cui conseguenza più evidente era che l'animale era morto senza lotta, e perciò, senza pericolo per gli assalitori, risultato rarissimo nelle cacce di quel genere. Fox e Goûmi rimasero sul campo di battaglia per togliere all'animale la sua superba pelliccia, mentre il capitano Hod ed io ritornavamo alla Steam-House. Non è mia intenzione notare minutamente gli incidenti delle nostre spedizioni nel Tarryani, a meno che non presentino qualche caratteristica particolare. Mi limito dunque a dire fin d'ora che il capitano Hod e Fox non ebbero da lamentarsi. Il 10 luglio, durante una caccia all'houddi, ossia in capanno, una combinazione fortunata li favorì ancora, senza che avessero corso veri pericoli. L'houddi, del resto è ben sistemato per la posta alle grandi belve. È una specie di piccolo fortino merlato, le cui muraglie, munite di feritoie, dominano le sponde di un fiumiciattolo, dove gli animali sono soliti andare a bere. Abituati a vedere queste costruzioni, non possono diffidare e si espongono direttamente alle fucilate. Ma là, come dappertutto, si tratta di colpirli mortalmente al primo colpo, altrimenti la lotta diventa pericolosa, e l'houddi non mette sempre il cacciatore al riparo dai balzi formidabili delle belve, che le ferite rendono furibonde. Fu precisamente quanto accadde in quest'occasione, come si vedrà. Mathias Van Guitt ci accompagnava. Forse sperava che una tigre, leggermente ferita, potesse essere condotta al kraal, dove egli si sarebbe incaricato di curarla e di farla guarire. Ora, quel giorno, il nostro drappello di cacciatori incontrò tre tigri, a cui la prima scarica non impedì di slanciarsi sulle mura dell'houddi. Le due prime, con grande dispiacere del fornitore, furono uccise da una seconda scarica, mentre superavano il recinto merlato. Quanto alla terza, balzò fino nell'interno, con una spalla insanguinata, ma non mortalmente ferita. — Questa la piglieremo! — esclamò Mathias Van Guitt, che, parlando così, si spingeva un po' troppo avanti, — la piglieremo viva!... Non aveva terminato la sua frase imprudente che l'animale gli si precipitava addosso, lo rovesciava, e il fornitore sarebbe stato spacciato, se un proiettile del capitano Hod non avesse colpito alla testa la tigre, che cadde fulminata. Mathias Van Guitt si era alzato rapidamente. — Eh! capitano, — esclamò, invece di ringraziare il nostro compagno, — avreste anche potuto aspettare!... — Aspettare... che cosa?... — rispose il capitano Hod... — Che quell'animale vi avesse aperto il petto con una zampata? — Una zampata non è mortale!... — Va bene! — replicò tranquillamente il capitano Hod. — Un'altra volta, aspetterò! Ad ogni modo, la belva, che non era in grado di figurare nel serraglio del kraal, non poteva più servire che per fare uno scendiletto; ma quella fortunata spedizione portò a quarantadue per il capitano e a trentotto per il suo attendente la cifra delle tigri uccise da loro, senza contare la mezza che figurava già al loro attivo. Non bisogna credere che le grandi cacce ci facessero dimenticare le piccole. Il signor Parazard non lo avrebbe permesso. Antilopi, camosci, grosse ottarde, che erano numerosissime intorno alla Steam-House, pernici, lepri, fornivano alla nostra tavola grande varietà di selvaggina. Quando battevamo il Tarryani, era raro che Banks si unisse a noi. Se queste spedizioni cominciavano a interessarmi, lui invece non se ne lasciava tentare. Le zone superiori dell'Himalaya gli offrivano evidentemente maggiori attrattive, ed egli si divertiva in quelle escursioni, soprattutto quando il colonnello Munro acconsentiva ad accompagnarlo. Ma una volta o due soltanto le passeggiate dell'ingegnere si fecero in quelle condizioni. Egli aveva potuto osservare che, da quando si era sistemato nel sanitarium, sir Edward Munro era ridiventato pensieroso. Parlava meno, si teneva più in disparte, a volte confabulava con il sergente Mac Neil. Meditavano forse entrambi qualche nuovo piano che volevano nascondere anche a Banks? Il 13 luglio Mathias Van Guitt venne a farci visita. Meno fortunato del capitano Hod, non aveva potuto aggiungere nuovi ospiti al suo serraglio. Né tigri né leoni né leopardi sembravano disposti a lasciarsi catturare. L'idea di andare a esibirsi nei paesi dell'estremo Occidente senza dubbio non li tentava. Perciò un vero dispetto, che il fornitore non cercava di dissimulare. Kâlagani e due chikaris del suo personale accompagnavano Mathias Van Guitt in questa visita. La sistemazione del sanitarium, in quella bella posizione, gli piacque moltissimo. Il colonnello Munro lo pregò di rimanere a pranzo; egli accettò con premura e promise di far onore alla nostra mensa. Aspettando il pranzo Mathias Van Guitt volle visitare la SteamHouse, le cui comodità erano in contrasto con la sua modesta sistemazione al kraal. Le due case ambulanti provocarono da parte sua dei complimenti; ma devo confessare che il Gigante d'Acciaio non suscitò affatto la sua ammirazione. Un naturalista pari suo non doveva che rimanere insensibile davanti a quel capolavoro di meccanica. Come avrebbe potuto approvare, per notevole che fosse, la creazione di quell'animale artificiale? — Non pensate male del nostro elefante, signor Mathias Van Guitt! — gli disse Banks. — È un animale poderoso, e, qualora occorresse, non sarebbe imbarazzato a trascinare, insieme con i nostri due vagoni, tutte le gabbie del vostro serraglio ambulante! — Ho i miei bufali, — rispose il fornitore, — e preferisco il loro passo tranquillo e sicuro. — Il Gigante d'Acciaio non teme né gli artigli né i denti delle tigri! — esclamò il capitano Hod. — Senza dubbio, signore, — rispose Mathias Van Guitt, — ma perché mai le belve dovrebbero assalirlo? Si interessano ben poco di carne di lamiera! In compenso, se il naturalista non dissimulò la sua indifferenza per il nostro elefante, i suoi indù, e in particolar modo Kâlagani, lo divorarono con lo sguardo. Si sentiva che, nella loro ammirazione per il gigantesco animale, entrava una certa dose di superstizioso rispetto. Kâlagani parve anzi molto sorpreso quando l'ingegnere ripete che il Gigante d'Acciaio era più potente di tutte le bestie da tiro del kraal. Per il capitano Hod fu un'occasione per narrare, non senza un po' di superbia, la nostra avventura con i tre «proboscidati» del principe Guru Singh. Un lieve sorriso d'incredulità passò sulle labbra del fornitore, ma egli non insistette. Il pranzo si svolse ottimamente. Mathias Van Guitt gli fece largamente onore. Bisogna dire che la dispensa era piacevolmente fornita con i prodotti delle nostre ultime cacce, e che il signor Parazard aveva voluto superare se stesso. Anche la cantina della Steam-House fornì delle bevande variate, che il nostro ospite parve apprezzare, soprattutto due o tre bicchieri di vino francese, la cui degustazione fu seguita da uno schiocco di lingua impareggiabile. Tanto che, dopo il pranzo, al momento di separarci, si poté giudicare dall'«incertezza della sua. deambulazione», che, se il vino gli dava alla testa, gli scendeva pure nelle gambe. Venuta la notte, ci separammo come i migliori amici del mondo, e grazie ai suoi compagni Mathias Van Guitt poté ritornare al kraal senza fastidi. Tuttavia, il 16 luglio, un incidente rischiò di guastare i rapporti fra il fornitore e il capitano Hod. Una tigre venne uccisa dal capitano nel momento in cui stava per entrare in una delle trappole a bilanciere. Ma, se quella tigre fu la sua quarantatreesima, non fu l'ottava del fornitore. Ad ogni modo, dopo uno scambio di osservazioni piuttosto vivaci, i buoni rapporti furono ripresi, grazie all'intervento del colonnello Munro, e il capitano Hod si impegnò a rispettare le belve che «avessero intenzione» di lasciarsi prendere nelle trappole di Mathias Van Guitt. Nei giorni successivi, il tempo fu orribile. Volenti o nolenti, si dovette rimanere nella Steam-House. Ci premeva che la stagione delle piogge finisse, il che non poteva tardare, dato che durava già da più di tre mesi. Se il programma del nostro viaggio procedeva nelle condizioni che Banks aveva stabilito, non ci restavano più che sei settimane da passare nel sanitarium. Il 23 luglio, alcuni montanari della frontiera vennero a fare una seconda visita al colonnello Munro. Il loro villaggio, chiamato Suari, era a sole cinque miglia dal nostro accampamento, quasi al limite superiore del Tarryani. Uno di loro ci disse che, da alcune settimane, una tigre femmina faceva tremendi danni in quella parte del territorio. I greggi erano decimati, e si parlava già di abbandonare Suari, divenuto inabitabile. Non vi era più sicurezza né per gli animali domestici né per le persone. Trappole, agguati, tranelli, nulla aveva potuto avere la meglio su quella feroce belva, che era già posta fra le più terribili di cui i vecchi montanari avessero mai udito parlare. Quel racconto, è chiaro, era fatto per eccitare gli istinti del capitano Hod. Egli offrì subito ai montanari di accompagnarli al villaggio di Suari, disposto a mettere la sua esperienza di cacciatore e l'acutezza del suo occhio al servizio di quella brava gente, che, immagino, confidava un po' in quell'offerta. — Verrete, Maucler? — mi domandò il capitano Hod, con il tono di chi non cerca di influire su una determinazione. — Certamente, — risposi. — Non voglio perdere una spedizione così interessante! — Vi accompagnerò, questa volta, — disse l'ingegnere. — Ecco un'ottima idea, Banks. — Sì, Hod! Ho un vivo desiderio di vedervi all'opera. — Ed io, non sarò forse della partita, capitano? — domandò Fox. — Ah! il sornione, — esclamò il capitano Hod. — Non gli dispiacerebbe affatto completare la sua mezza tigre! Sì, Fox, sì, sarai della partita! Siccome si trattava di lasciare la Steam-House per tre o quattro giorni, Banks domandò al colonnello se desiderava accompagnarci al villaggio di Suari. Sir Edward Munro lo ringraziò. Egli si proponeva di approfittare della nostra assenza per visitare la zona media dell'Himalaya, al di sopra del Tarryani, con Goûmi e con il sergente Mac Neil. Banks non insistette. Venne dunque deciso che saremmo partiti quello stesso giorno per il kraal per farci prestare da Mathias Van Guitt alcuni dei suoi chikaris, che potevano esserci utilissimi. Un'ora dopo, verso mezzogiorno, eravamo giunti. Il fornitore fu informato dei nostri progetti. Egli non nascose la sua segreta soddisfazione, nel venire a sapere le imprese di quella tigre «capace» disse, «di risollevare nell'animo degli intenditori la reputazione dei felini della penisola». Poi, mise a nostra disposizione tre dei suoi indù, senza contare Kâlagani, sempre pronto ad affrontare il pericolo. Fu soltanto messo bene in chiaro con il capitano Hod che, se per assurdo quella tigre si fosse lasciata prendere viva, sarebbe appartenuta di diritto al serraglio di Mathias Van Guitt. Che attrattiva quando un cartello, appeso alle sbarre della sua gabbia, avrebbe raccontato con cifre eloquenti le gesta di una delle «regine del Tarryani, che ha divorato non meno di 138 persone dei due sessi»! Il nostro drappello lasciò il kraal verso le due del pomeriggio. Prima delle quattro, dopo esser risalito verso est, giungeva a Suari senza incidenti. Là il panico era al colmo. Quella stessa mattina, una disgraziata indù, sorpresa all'improvviso dalla tigre presso un ruscello, era stata trascinata nella foresta. La casa di uno dei montanari, ricco fittavolo inglese del territorio, ci ricevette ospitalmente. Il nostro ospite aveva avuto da lagnarsi più di ogni altro dell'inafferrabile belva, ed avrebbe pagato volentieri la sua pelle molte migliaia di rupie. — Capitano Hod, — disse, — alcuni anni or sono, nelle province centrali una tigre femmina obbligò gli abitanti di tredici villaggi a fuggire, e duecentocinquanta miglia quadrate di buon terreno sono dovute rimanere incolte! Ebbene, qui, per poco che la cosa duri, sarà la provincia tutta quanta che si dovrà abbandonare! — Avete adoperato tutti i mezzi di distruzione possibili contro questa tigre? — domandò Banks. — Tutti, signor ingegnere, trappole, fosse, perfino le esche avvelenate con la stricnina, nulla ha avuto effetto! — Amico mio, — disse il capitano Hod, — non prometto che riusciremo a darvi soddisfazione, ma faremo del nostro meglio! Non appena ci fummo sistemati a Suari, quello stesso giorno fu organizzata una battuta. A noi e alla nostra gente, e ai cbikarts del kraal, si unirono una ventina di montanari che conoscevano perfettamente il territorio sul quale bisognava operare. Banks, per quanto fosse poco cacciatore, mi sembrò seguire la nostra spedizione col massimo interesse. Per tre giorni, il 24, il 25 e il 26 luglio, tutta quella parte della montagna venne frugata, senza che le nostre ricerche portassero ad alcun risultato, tranne che due altre tigri, a cui non si pensava minimamente, caddero ancora sotto i proiettili del capitano. — Quarantacinque! — si accontentò di dire Hod, senza darvi molta importanza. Finalmente, il 27, la tigre annunciò la sua comparsa con un nuovo misfatto. Un bufalo, appartenente al nostro ospite, scomparve da un pascolo vicino a Suari, e non se ne ritrovarono più che i resti a un quarto di miglio dal villaggio. L'assassinio, - omicidio premeditato, avrebbe detto un giurista -aveva avuto luogo un po' prima dell'alba. L'assassino non poteva essere lontano. Ma l'autore principale del delitto era proprio la tigre che avevano tanto inutilmente cercata fino allora? Gli indù di Suari non ne dubitavano. — È lo zio, non può essere che lui, che ha fatto il colpo! — ci disse uno dei montanari. Lo zio! È così che gli indù definiscono generalmente la tigre nella maggior parte dei territori della penisola. Ciò dipende dal fatto che essi credono che ognuno dei loro antenati abiti per l'eternità nel corpo di uno di questi membri della famiglia dei felini. Ma, questa volta, avrebbero potuto dire più giustamente: è la zia! Fu subito presa la decisione di mettersi sulle tracce dell'animale, senza neppure aspettare la notte, poiché la notte gli avrebbe permesso di sfuggire meglio alle ricerche. Del resto doveva essere sazio, e non avrebbe più lasciato il suo covo per due o tre giorni. Ci mettemmo in campagna. Incominciando dal luogo in cui il bufalo era stato preso, delle impronte sanguinose segnavano la via seguita dalla tigre. Queste impronte si dirigevano verso un boschetto, che era già stato esplorato molte volte senza che vi potessimo scoprire nulla. Decidemmo dunque di circondare quel boschetto, in modo da formare un cerchio che l'animale non avrebbe potuto superare, perlomeno senza essere veduto. I montanari si dispersero in modo da radunarsi a poco a poco verso il centro, restringendo il loro circolo. Il capitano Hod, Kâlagani ed io, eravamo da una parte, Banks e Fox dall'altra, ma costantemente in comunicazione con le persone del kraal e del villaggio. Evidentemente, ogni punto di quella circonferenza era pericoloso poiché la tigre poteva cercare di romperla in ogni punto. Non si poteva dubitare, d'altra parte, che l'animale fosse nel boschetto. Infatti, le impronte, che vi conducevano da una parte, non riapparivano dall'altra. Che fosse quello il suo covo abituale, non era provato, poiché ve lo avevamo già cercato senza successo; ma, in quel momento, tutto faceva credere che quel boschetto gli servisse da rifugio. Erano le otto del mattino. Prese tutte le disposizioni, avanzavamo a poco a poco senza rumore, stringendo sempre più il cerchio d'investimento. Mezz'ora dopo, eravamo al limite dei primi alberi. Non era avvenuto nessun incidente, nulla rivelava la presenza dell'animale, e, per conto mio, mi chiedevo se non lavorassimo inutilmente. Coloro che occupavano un arco ristretto della circonferenza, non potevano più vedersi, eppure era necessario camminare con un perfetto insieme. Era dunque stato convenuto in precedenza che si sarebbe sparata una fucilata nel momento in cui il primo di noi fosse penetrato nel bosco. Il segnale fu dato dal capitano Hod, che era sempre in testa, ed il lembo del bosco fu superato. Guardai l'ora sul mio orologio: segnava le otto e trentacinque. Un quarto d'ora dopo il cerchio si era ristretto, eravamo gomito a gomito e ci arrestavamo nella parte più fitta del boschetto senza aver incontrato nulla. Il silenzio non era stato turbato fino allora se non dal rumore dei rami secchi che, per quante precauzioni si pigliassero, si rompevano sotto i nostri piedi. In quel momento si udì un ruggito. — La belva è là! — esclamò il capitano Hod mostrando l'ingresso di una caverna scavata in un cumulo di massi coronato da un gruppo di grandi alberi. Il capitano Hod non si sbagliava. Se non era il covo consueto della tigre, era là almeno che essa si era rifugiata, sentendosi braccata da tutta una frotta di cacciatori. Hod, Banks, Fox, Kâlagani, molti degli uomini del kraal, e io ci eravamo avvicinati alla stretta apertura, alla quale portavano le impronte sanguinose. — Bisogna penetrare là dentro, — disse il capitano Hod. — Cosa pericolosa! — fece osservare Banks. — Chi vi entrerà per primo rischierà delle gravi ferite. — Entrerò lo stesso! — disse Hod, assicurandosi che la sua carabina fosse pronta a far fuoco. — Dopo di me, capitano! — rispose Fox, che si curvò verso l'apertura della caverna. — No, Fox, no! — esclamò Hod. — La cosa riguarda me. — Ah! capitano, — rispose dolcemente Fox, in tono di rimprovero — sono indietro di sette!... Pensavano a contare le loro tigri in un momento simile! — Non ci entrerete né l'uno né l'altro! — esclamò Banks. — No, non vi lascerò... — Ci sarebbe forse un mezzo — disse allora Kâlagani, interrompendo l'ingegnere. — Quale? — Sarebbe di affumicare il covo, — rispose l'indù. — L'animale sarebbe obbligato a uscire. Avremmo meno rischi e maggior facilità per ucciderlo al di fuori. — Kâlagani ha ragione, — disse Banks. — Su, amici, della legna morta, delle erbe secche! Ostruitemi per bene questa apertura! Il vento caccerà all'interno le fiamme ed il fumo. Bisognerà pure che la belva si lasci abbrustolire o fugga! — Fuggirà! — ribatté l'indù. — Va bene! — rispose il capitano Hod. — Saremo là per salutarla al passaggio! In un istante, sterpi, erbe secche, legna morta - e non ne mancava in quel boschetto — tutto un mucchio di materiale combustibile fu disposto davanti all'ingresso della caverna. Nulla si era mosso all'interno. Nulla appariva in quel cunicolo tenebroso, che doveva essere profondo. Pure, le nostre orecchie non avevano potuto ingannarci, il ruggito era certamente uscito di là. Fu dato fuoco alle erbe, che fiammeggiarono. Quel fuoco sviluppò un fumo acre e denso che il vento spinse all'interno, e che vi doveva rendere l'aria irrespirabile. Un secondo ruggito, più furibondo del primo, si fece udire allora. L'animale si sentiva messo alle strette, e per non essere soffocato, stava per essere costretto a slanciarsi fuori. Lo aspettavamo, appostati a squadra lungo le pareti laterali della rupe seminascosti dai tronchi d'albero, in modo da evitare l'urto di un primo balzo. Il capitano, invece, aveva scelto un altro posto, e, bisogna ben riconoscerlo, il più pericoloso. Era all'ingresso di un'apertura praticata nel boschetto, la sola che potesse lasciar passare la tigre, quando avesse tentato di fuggire attraverso il bosco. Hod aveva messo un ginocchio a terra per assicurare meglio il suo colpo, e imbracciava saldamente la carabina; tutto il suo corpo aveva l'immobilità del marmo. Erano passati appena tre minuti dal momento in cui era stato appiccato il fuoco al mucchio di legna, quando un terzo ruggito, o meglio, questa volta, un rantolo di soffocazione, echeggiò all'apertura della caverna. Il fuoco fu disperso in un istante, e un enorme corpo apparve fra le volute di fumo. Era proprio la tigre. — Fuoco! — gridò Banks. Rimbombarono dieci fucilate, ma più tardi potemmo accertare che nessun proiettile aveva toccato l'animale. La sua apparizione era stata troppo rapida. Come si sarebbe potuto mirare giusto in mezzo alle volute di fumo che l'avvolgevano? Ma, dopo il suo primo balzo, se la tigre aveva toccato terra, non era stato che per riprendere un punto d'appoggio e slanciarsi verso la macchia con un altro balzo ancora più lungo. Il capitano Hod aspettava l'animale con estremo sangue freddo, e colpendolo, per così dire, al volo, gli mandò un proiettile, che lo colpì solo alla giuntura della spalla. In un lampo, la tigre si era precipitata sul nostro compagno, lo aveva rovesciato, e stava per fracassargli la testa con un colpo delle sue formidabili zampe... Kâlagani balzò avanti, con in mano un largo coltello. Il grido che ci sfuggì echeggiava ancora, che il coraggioso indù, piombando sulla belva, la afferrava alla gola nel momento in cui il suo artiglio destro stava per piombare sul cranio del capitano. L'animale, distratto da questo brusco assalto, rovesciò l'indù con un movimento del fianco, e si gettò addosso a lui. Ma il capitano Hod si era rialzato d'un balzo, e, raccogliendo il coltello che Kâlagani aveva lasciato cadere, con mano sicura lo immerse tutto quanto nel cuore della belva. La tigre rotolò a terra. Cinque secondi al massimo erano bastati per le diverse peripezie di questa scena emozionante. Il capitano Hod era ancora in ginocchio quando gli giungemmo vicino. Kâlagani, con la spalla insanguinata, si era rialzato. — Bag mahryaga! Bag mahryaga! — gridavano gli indù, il che significava: la tigre è morta! Sì, proprio morta! Che animale superbo! Dieci piedi di lunghezza dal muso all'estremità della coda, corporatura in proporzione, zampe enormi armate di lunghi artigli aguzzi, che sembravano arrotati sulla mola di un arrotino! Mentre ammiravamo la belva, gli indù, molto vendicativi e con ragione, la colmavano di invettive. Kâlagani si era avvicinato al capitano Hod. — Grazie, capitano! — disse. — Come! grazie? — esclamò Hod. — Ma sono io, coraggioso amico, che ti devo ringraziare! Senza il tuo aiuto, uno dei capitani del primo squadrone di fucilieri dell'esercito reale sarebbe stato spacciato! — Senza di voi, sarei morto! — rispose freddamente l'indù. — Eh! per mille diavoli! Non ti sei forse lanciato con il coltello in mano per pugnalare questa tigre, nel momento in cui stava per fracassarmi il cranio? — Siete voi che l'avete uccisa, capitano, e costituisce la vostra quarantaseiesima! — Hurrah! hurrah! — gridarono gli indù. — Hurrah per il capitano Hod! E in verità il capitano aveva bene il diritto di segnare quella tigre al suo attivo, ma egli ripagò Kâlagani con una buona stretta di mano. — Venite alla Steam-House, — disse Banks a Kâlagani. — Avete la spalla lacerata da un colpo d'artiglio, ma troveremo nella farmacia da viaggio di che medicare la vostra ferita. Kâlagani s'inchinò in segno di assenso, e tutti, dopo aver preso congedo dai montanari di Suari, che non risparmiarono i ringraziamenti, ci dirigemmo verso il sanitarium. I chikaris ci lasciarono per ritornare al kraal. Anche questa volta vi ritornavano a mani vuote, e se Mathias Van Guitt aveva fatto assegnamento su quella «regina del Tarryani», avrebbe dovuto rassegnarsi. È vero che, in condizioni simili, sarebbe stato impossibile prenderla viva. Verso mezzogiorno eravamo giunti alla Steam-House. Là trovammo un incidente inatteso. Con nostro grande disappunto, il colonnello Munro, il sergente Mac Neil e Goûmi erano partiti. Un biglietto, diretto a Banks, gli diceva di non preoccuparsi per la loro assenza, che sir Edward Munro, desideroso di fare una ricognizione fino alla frontiera del Nepal, voleva chiarire ancora certi dubbi relativi ai compagni di Nana Sahib, e che sarebbe stato di ritorno prima del tempo in cui dovevamo lasciare l'Himalaya. Alla lettura di quel biglietto, mi parve che a Kâlagani sfuggisse un moto di contrarietà, quasi involontario. Perché tale moto? Certo mi sbagliavo. CAPITOLO V ASSALTO NOTTURNO LA PARTENZA del colonnello fece sorgere in noi una viva preoccupazione. Egli si riportava evidentemente a un passato che avevamo creduto chiuso per sempre. Ma, che fare? Mettersi sulle tracce di sir Edward Munro? Ignoravamo quale direzione avesse preso, quale punto della frontiera nepalese si proponesse di raggiungere. Non potevamo, d'altra parte, nasconderci che, se egli non aveva parlato di nulla a Banks, era perché temeva le osservazioni dell'amico, alle quali voleva sottrarsi. Banks rimpianse molto di averci seguiti nella spedizione. Bisognava dunque rassegnarsi e aspettare. Il colonnello Munro sarebbe certamente ritornato prima della fine d'agosto, poiché quel mese era l'ultimo che avremmo dovuto passare al sanitarium, prima di prendere, attraverso il sud-ovest, la strada di Bombay. Kâlagani, ben medicato da Banks, rimase solo ventiquattro ore alla Steam-House. La sua ferita si sarebbe cicatrizzata rapidamente, ed egli ci lasciò per andare a riprendere il suo servizio al kraal. Il mese d'agosto incominciò ancora con piogge violente. — Un tempo da far venire il raffreddore alle rane — diceva il capitano Hod; ma, in sostanza, sarebbe stato meno piovoso del mese di luglio, e, per conseguenza, più propizio alle nostre escursioni nel Tarryani. Frattanto i rapporti con il kraal erano frequenti. Mathias Van Guitt era poco contento. Anch'egli contava di lasciare l'accampamento ai primi giorni di settembre. Ma al suo serraglio mancavano ancora un leone, due tigri e due leopardi ed egli si domandava se avrebbe potuto completare la serie. In compenso, in mancanza degli attori che voleva scritturare per conto dei suoi committenti, altri vennero a presentarsi alla sua agenzia, ma egli non sapeva che farne. Fu così che, nella giornata del 4 agosto, un bell'orso si fece prendere in una delle sue trappole. Eravamo appunto al kraal, quando i suoi chikaris gli condussero nella gabbia a ruote un prigioniero di grosse dimensioni, pelliccia nera, artigli acuminati, grandi orecchie pelose, cosa piuttosto particolare per questi rappresentanti della famiglia degli ursidi nelle Indie. — Eh! che bisogno ho io di questo inutile tardigrado! — esclamò il fornitore alzando le spalle. — Fratello Ballon! fratello Ballon! — ripetevano gli indù. A quanto pare, se gli indù non sono che nipoti delle tigri, degli orsi sono fratelli. Ma Mathias Van Guitt, nonostante questo grado di parentela, ricevette il fratello Ballon con inequivocabile dimostrazione di cattivo umore. Prendere degli orsi quando gli occorrevano delle tigri, non era cosa da accontentarlo. Che cosa avrebbe fatto di quell'animale importuno? Gli conveniva poco di nutrirlo senza speranza di ricavarne le spese; l'orso indiano è richiesto ben poco sui mercati d'Europa. Non ha il valore mercantile del grizzly d'America, né quello dell'orso polare. Ecco perché Mathias Van Guitt, buon commerciante, non si curava di un animale ingombrante e di cui avrebbe trovato difficilmente il modo di disfarsi. — Lo volete? — domandò al capitano Hod. — E che cosa volete che ne faccia? — rispose il capitano. — Ne farete bistecche — disse il fornitore — se pure posso usare questa catacresi! — Signor Van Guitt — rispose seriamente Banks — la catacresi è una figura permessa, quando, in mancanza di altra espressione, rende adeguatamente il pensiero. — Siamo d'accordo — replicò il fornitore. — Ebbene, Hod — disse Banks — prendete o non prendete l'orso del signor Van Guitt? — In fede mia, no! — rispose il capitano Hod. — Passi, mangiare delle bistecche d'orso quando l'orso è ucciso; ma uccidere l'orso apposta per mangiarne le bistecche, non mi stuzzica l'appetito! — Allora, che questo plantigrado sia restituito alla libertà — disse Mathias Van Guitt, rivolgendosi ai suoi chikaris. Il fornitore fu obbedito. La gabbia venne portata fuori del kraal, e uno degli indù ne aprì la porta. Fratello Ballon, che sembrava vergognarsi parecchio della propria situazione, non se lo fece dire due volte. Usci tranquillamente dalla gabbia, fece un piccolo dondolio con il capo, che si poteva prendere per un ringraziamento, e se la svignò mandando un grugnito di soddisfazione. — Avete fatto una buona azione — disse Banks. — Vi porterà fortuna, signor Van Guitt. Banks non sapeva di essere così buon indovino. La giornata del 6 agosto doveva ricompensare il fornitore, procurandogli una delle belve che mancavano al serraglio. Ecco in quali circostanze: Mathias Van Guitt, il capitano Hod e io, accompagnati da Fox, dal macchinista Storr e da Kâlagani, percorrevamo, fin dall'alba, una fitta macchia di cactus e di lentischi, quando si udirono dei ruggiti semisoffocati. Immediatamente, con i fucili pronti a far fuoco, ben in gruppo tutti e sei, in modo da difenderci contro un attacco isolato, ci dirigemmo verso il luogo sospetto. Cinquanta passi più in là, il fornitore ci fece fermare. Dalla natura dei ruggiti gli sembrava di aver riconosciuto di che cosa si trattava, e rivolgendosi particolarmente al capitano Hod: — Soprattutto, niente fucilate inutili — disse. Poi, dopo essere avanzato di alcuni passi, mentre, a un suo cenno, noi rimanevamo indietro: — Un leone! — esclamò. Infatti, all'estremità di una robusta corda, legata alla forcella di un grosso ramo, si dibatteva un animale. Era proprio un leone, uno di quei leoni senza criniera, - che per questo appunto si distinguono dai loro confratelli d'Africa, - ma un vero leone, il leone richiesto da Mathias Van Guitt. La feroce belva, appesa per una delle zampe anteriori, stretta dal nodo scorsoio della corda, dava delle scosse terribili, senza riuscire a liberarsi. Il primo movimento del capitano Hod, nonostante la raccomandazione del fornitore, fu di far fuoco. — Non sparate, capitano! — esclamò Mathias Van Guitt. — Ve ne scongiuro, non sparate! — Ma... — No! no! vi dico! Questo leone è stato preso in una delle mie trappole, e mi appartiene! Era una trappola infatti, una trappola-forca, molto semplice e ingegnosa. Una corda resistente viene fissata a un ramo d'albero forte e flessibile. Questo ramo viene curvato verso il suolo, in modo che l'estremità inferiore della corda, che termina in un nodo scorsoio, possa essere inserita nella tacca di un piolo solidamente conficcato in terra. Sopra questo piolo si mette un'esca, in modo che, se un animale vuol toccarla, dovrà cacciare nel nodo o la testa o una delle zampe. Ma appena lo ha fatto, l'esca, per poco che sia stata mossa, fa uscire la corda dalla tacca, il ramo si raddrizza, l'animale viene sollevato, e nel medesimo istante, un pesante cilindro di legno, scivolando lungo la corda, cade sul nodo, lo stringe fortemente e gli impedisce di sciogliersi agli sforzi dell'impiccato. Questo tipo di trappola viene usato di frequente nelle foreste dell'India, e le belve vi si lasciano prendere molto più comunemente di quel che si possa credere. Per lo più, accade che l'animale venga preso per il collo, il che porta allo strangolamento quasi immediato, mentre la testa è quasi fracassata dal pesante cilindro di legno. Ma il leone che si dibatteva sotto i nostri occhi era stato preso solo per la zampa. Era dunque vivo, vivissimo e degno di figurare fra gli ospiti del fornitore. Mathias Van Guitt, lietissimo della cosa, mandò Kâlagani al kraal con l'ordine di far venire la gabbia a ruote sotto la guida di un carrettiere. Frattanto, potemmo osservare a nostro agio l'animale, che per la nostra presenza si infuriava sempre più. Il fornitore, poi, non ne staccava gli occhi. Girava intorno all'albero, avendo però cura di tenersi fuori della portata delle zampate che il leone tirava a destra e a sinistra. Mezz'ora dopo giungeva la gabbia trascinata da due bufali. L'impiccato vi veniva calato dentro, non senza fatica, e riprendevamo la via del kraal. — Cominciavo proprio a disperare, — ci disse Mathias Van Guitt. — I leoni non figurano per una cifra importante fra le belve nemorali dell'India... — Nemorali? — disse il capitano Hod. — Sì, gli animali che infestano le foreste, e mi rallegro di aver potuto catturare questa belva che farà onore al mio serraglio! Del resto, Mathias Van Guitt da quel giorno in poi non dovette più lamentarsi della sua cattiva sorte. L'11 agosto, furono presi insieme due leopardi in quella prima trappola da tigri, dalla quale avevamo tirato fuori il fornitore. Erano due tchîtas, simili a quello che aveva assalito così audacemente il Gigante d'Acciaio nelle pianure del Rohilkhand, e di cui non avevamo potuto impadronirci. Mancavano solo due tigri perché la raccolta di Mathias Van Guitt fosse completa. Eravamo al 15 agosto. Il colonnello Munro non era ancora ricomparso; non la minima sua notizia. Banks era più preoccupato di quanto volesse far credere. Egli interrogò Kâlagani, che conosceva la frontiera nepalese, sui pericoli che poteva correre sir Edward Munro avventurandosi in quei territori indipendenti. L'indù gli assicurò che non rimaneva più uno solo dei partigiani di Nana Sahib al confine del Tibet. Tuttavia parve dolersi che il colonnello non lo avesse scelto per guida. I suoi servigi gli sarebbero stati utilissimi in un paese di cui conosceva perfino i più stretti sentieri. Ma ormai non si poteva pensare a raggiungerlo. Frattanto, il capitano Hod e Fox, in particolare, continuavano le loro escursioni nel Tarryani. Aiutati dai chikaris del kraal, riuscirono ad ammazzare tre altre tigri, di medie dimensioni, non senza correre gravi rischi. Due di queste belve furono messe sul conto del capitano, la terza su quello dell'attendente. — Quarantotto! — disse Hod, che avrebbe voluto raggiungere la cifra rotonda di cinquanta prima di lasciare l'Himalaya. — Trentanove! — aveva detto Fox, senza parlare di una pericolosissima pantera, che era caduta sotto i suoi proiettili. Il 20 agosto, la penultima delle tigri volute da Mathias Van Guitt si fece prendere in una di quelle fosse, dalle quali, o per istinto, o per caso, erano sfuggite fino allora. L'animale, come accade per lo più, si ferì nella caduta, ma la ferita non era grave. Alcuni giorni di riposo sarebbero bastati a garantire la sua guarigione, e nessuno se ne sarebbe accorto quando ne fosse fatta la consegna per conto della ditta Hagenbeck di Amburgo. L'uso di queste fosse è considerato dagli intenditori come un metodo barbaro. Quando si tratta soltanto di distruggere gli animali, è evidente che qualsiasi mezzo è buono; ma se si vuol prenderli vivi, la morte è troppo spesso la conseguenza della loro caduta, soprattutto quando cadono in quelle fosse, profonde quindici o venti piedi, destinate alla cattura degli elefanti. Di dieci animali, è molto se se ne può ritrovare uno senza qualche frattura mortale. Perciò, perfino nel Mysore, dove questo sistema era molto usato, ci disse il fornitore, si comincia ad abbandonarlo. In fin dei conti, mancava una sola tigre al serraglio del kraal, e Mathias Van Guitt avrebbe voluto averla già in gabbia; aveva fretta di partire per Bombay. Non doveva tardare ad impadronirsi di quella tigre, ma a che prezzo! La cosa va raccontata con un po' di particolari, perché quell'animale venne pagato caro, troppo caro. A cura del capitano Hod era stata organizzata una spedizione per la notte del 26 agosto. Le circostanze promettevano che la caccia si sarebbe svolta in condizioni favorevoli, poiché il cielo era sgombro di nuvole, l'atmosfera tranquilla e la luna calante. Quando le tenebre sono molto profonde, le belve lasciano volentieri le loro tane, mentre la semioscurità le invita. Per l'esattezza, il menisco (vocabolo di Mathias Van Guitt che definisce il quarto di luna) avrebbe cominciato a brillare dopo mezzanotte. Il capitano Hod e io, Fox e Storr, che aveva cominciato a prendervi gusto, formavamo il nucleo di questa spedizione, alla quale dovevano unirsi il fornitore, Kâlagani e alcuni dei suoi indù. Dunque, terminato il pranzo, dopo esserci accomiatati da Banks, che aveva declinato l'invito di accompagnarci, lasciammo la SteamHouse verso le sette di sera, e alle otto giungevamo al kraal senza aver fatto cattivi incontri. Mathias Van Guitt terminava di cenare in quel momento; ci ricevette con le sue solite manifestazioni. Tenemmo consiglio, e venne subito fissato il piano della caccia. Si trattava di andare ad appostarsi sulla riva di un torrente, in fondo a uno di quei burroni che si chiamano nullahs, a due miglia dal kraal, in un punto che una coppia di tigri visitava abbastanza regolarmente durante la notte. Non vi era stata disposta precedentemente nessuna esca. Stando a quello che dicevano gli indù, era inutile. Una ricognizione, fatta poco tempo prima in quella parte del Tarryani, provava che il bisogno di dissetarsi bastava ad attirare le tigri in fondo a quel nullah. Si sapeva anche che sarebbe stato facile trovare dei buoni appostamenti. Non dovevamo lasciare il kraal prima di mezzanotte. Ora, erano solo le otto. Bisognava dunque aspettare, senza annoiarsi troppo, il momento della partenza. __ Signori, — ci disse Mathias Van Guitt, — la mia casa è tutta quanta a vostra disposizione. Vi consiglio di fare come me, di coricarvi. Si tratta di essere più che mattinieri, e qualche ora di sonno non può che prepararci meglio alla lotta. — Avete forse voglia di dormire, Maucler? — mi domandò il capitano Hod. — No, — risposi, — e preferisco aspettare l'ora passeggiando, piuttosto che essere costretto a svegliarmi dal pieno sonno. — Come vorrete, signori, — rispose il fornitore. — Quanto a me, provo già quel battito spasmodico delle palpebre che è provocato dal bisogno di dormire. Vedete, comincio già a fare dei movimenti di pendicolazione! E Mathias Van Guitt, alzando le braccia, rovesciando indietro la testa e il tronco per un'estensione involontaria dei muscoli addominali, lasciò sfuggire alcuni sbadigli molto espressivi. Dunque, quando ebbe «pendicolato» a suo agio, ci fece un ultimo cenno d'addio, entrò nella sua capanna, e, senza dubbio, non tardò ad addormentarvisi. — E noi, che cosa faremo? — domandai. — Andiamo a spasso, Maucler, — mi rispose il capitano Hod, — andiamo a spasso per il kraal. La notte è bella, e sarò meglio disposto alla partenza che non se dormissi tre o quattr'ore. Del resto, se il sonno è il nostro miglior amico, è un amico che spesso si fa aspettare molto. Incominciammo a andare su e giù per il kraal pensando e chiacchierando. Storr, «che il suo miglior amico non aveva l'abitudine di far aspettare», era sdraiato sotto un albero e dormiva già. I chikaris e i carrettieri si erano pure rannicchiati nel loro cantuccio, e nel recinto non c'era più nessuno che vegliasse. Era inutile, in sostanza, poiché il kraal, circondato da una solida palizzata, era perfettamente chiuso. Kâlagani andò ad assicurarsi di persona che la porta fosse stata chiusa con cura; fatto ciò, poi, dopo averci augurato la buona sera passando, ritornò nella stanza comune ai suoi compagni ed a lui. Il capitano Hod e io eravamo assolutamente soli. Non solo il personale di Van Guitt, ma anche gli animali domestici e le belve dormivano, queste nelle loro gabbie, quelli aggruppati sotto i grandi alberi, in fondo al kraal. Silenzio assoluto tanto dentro quanto fuori. La passeggiata ci condusse dapprima verso il luogo occupato dai bufali. Questi magnifici ruminanti, tranquilli e docili, non erano neppure impastoiati. Abituati a riposare sotto il fogliame degli aceri giganteschi, li vedevamo pacificamente sdraiati, con le corna aggrovigliate, le zampe ripiegate, e da quelle masse enormi si udiva uscire una lenta e rumorosa respirazione. Non si svegliarono neppure quando ci avvicinammo. Uno solo di loro raddrizzò per un attimo la grossa testa, ci gettò addosso quello sguardo vago che è proprio degli animali di questa specie, poi si riaddormentò come gli altri. — Ecco in che stato li riduce la domesticità, o meglio l'addomesticamento, — dissi al capitano. — Sì, — mi rispose Hod, — eppure, questi bufali sono degli animali terribili, quando vivono allo stato selvaggio. Ma se hanno per sé la forza, non hanno l'agilità, e che cosa possono fare le loro corna contro i denti dei leoni o gli artigli delle tigri? Decisamente, sono le belve ad essere in vantaggio. Così chiacchierando, eravamo ritornati verso le gabbie. Anche là, riposo assoluto. Tigri, leoni, pantere, leopardi, dormivano nei loro scompartimenti separati. Mathias Van Guitt li riuniva solo quando erano resi docili da alcune settimane di prigionia, e aveva ragione. Certamente, infatti, quei feroci animali, nei primi giorni di prigionia, si sarebbero divorati fra di loro. I tre leoni, perfettamente immobili, erano coricati in semicerchio come grossi gatti. Non si vedeva più la loro testa, nascosta in una folta pelliccia nera, e dormivano il sonno del giusto. Assopimento meno completo negli scompartimenti delle tigri. Occhi ardenti fiammeggiavano nel buio. Una grossa zampa si allungava ogni tanto e artigliava le sbarre di ferro. Era un sonno da carnivori che mordono il freno. — Fanno dei brutti sogni, e si capisce! — disse il compassionevole capitano. Dei rimorsi, senza dubbio, agitavano anche le tre pantere, o, per lo meno, dei rimpianti. A quell'ora, libere da qualsiasi legame, avrebbero corso per la foresta! Avrebbero gironzolato intorno ai pascoli in cerca di carne viva! Quanto ai quattro leopardi, nessun incubo turbava il loro sonno. Riposavano tranquillamente. Due di quei felini, il maschio e la femmina, occupavano la stessa camera da letto, e se ne stavano là così bene come se fossero stati in fondo alla loro tana. Un solo scompartimento era ancora vuoto, quello che doveva occupare la sesta imprendibile tigre, di cui Mathias Van Guitt aspettava solo la cattura per lasciare il Tarryani. La nostra passeggiata durò un'ora circa. Dopo aver fatto il giro del recinto interno del kraal, ritornammo ad accomodarci ai piedi di un'enorme mimosa. Un silenzio perfetto regnava in tutta la foresta. Il vento che stormiva ancora attraverso le foglie, al cader del giorno, era cessato. Non si muoveva una foglia. Lo spazio era calmo tanto alla superficie del suolo quanto negli alti strati vuoti d'aria, dove la luna spostava il suo mezzo disco. Il capitano Hod ed io, seduti uno accanto all'altro, non chiacchieravamo più. Ma il sonno non ci prendeva. Era piuttosto quella specie di assorbimento, più morale che fisico, di cui si subisce l'influenza durante il riposo totale della natura. Si pensa, ma non si formulano i pensieri. Si sogna come sognerebbe un uomo che non dorme, e lo sguardo, non ancora velato dalle palpebre, tende piuttosto a perdersi dietro qualche visione fantastica. Tuttavia, un fatto curioso stupiva il capitano, e parlando a bassa voce, come si fa quasi inconsciamente quando tutto tace intorno a noi, mi disse: — Maucler, un silenzio simile mi stupisce! Le belve ruggiscono di solito nel buio, e durante la notte la foresta è rumorosa. In mancanza di tigri o di pantere, sono gli sciacalli, che non sono mai in ozio. Questo kraal pieno di creature vive dovrebbe attirarli a centinaia, eppure, non sentiamo nulla, non un solo scricchiolio di ramo secco al suolo, non un urlo di fuori. Se Mathias Van Guitt fosse sveglio, certamente non sarebbe meno sorpreso di me, e troverebbe qualche vocabolo straordinario per manifestare il suo stupore! — La vostra osservazione è giusta, caro Hod, — risposi, — e non so a quale causa attribuire l'assenza di quei vagabondi notturni. Ma badiamo a noi stessi, oppure, in mezzo a questa calma, finiremo con l'addormentarci! — Resistiamo, resistiamo! — rispose il capitano Hod stirandosi le braccia. — Si avvicina l'ora in cui bisognerà partire. E riprendemmo a chiacchierare a frasi strascicate, rotte da lunghi silenzi. Quanto tempo durò questa fantasticheria, non avrei potuto dirlo, ma ad un tratto si verificò una sorda agitazione che mi tolse di colpo da quello stato di sonnolenza. Il capitano Hod, scosso lui pure dal suo torpore, si era alzato insieme con me. Non c'era da dubitarne, l'agitazione si era verificata nelle gabbie delle belve. Leoni, tigri, pantere, leopardi, fino a quel momento tanto tranquilli, ora facevano udire un sordo brontolio di collera. In piedi nei loro scompartimenti, andavano e venivano a passi brevi, fiutavano fortemente qualche odore esterno, e si alzavano sulle gambe posteriori sbuffando contro le sbarre di ferro delle gabbie. — Ma che cosa hanno? — feci io. — Non so, — rispose il capitano Hod, — ma temo che abbiano sentito l'avvicinarsi di... Ad un tratto, si udirono dei formidabili ruggiti intorno al recinto del kraal. — Delle tigri! — esclamò il capitano Hod, precipitandosi verso la capanna di Mathias Van Guitt. Ma la violenza di quei ruggiti era stata tale, che tutto il personale del kraal era già in piedi, e il fornitore, seguito dai suoi servi, appariva sulla porta. — Un attacco!... — gridò. — Lo credo, — rispose il capitano Hod. — Aspettate! Bisogna vedere!... E, senza nemmeno finire la frase, Mathias Van Guitt, afferrata una scala, la appoggiò contro la palizzata. In un istante ne raggiunse l'ultimo scalino. — Dieci tigri e una dozzina di pantere! — esclamò. — Sarà una cosa seria, — rispose il capitano Hod. — Volevamo dar loro la caccia, ed ora sono loro che ce la danno! — Ai fucili! ai fucili! — gridò il fornitore. E tutti, obbedendo ai suoi ordini, in venti secondi, eravamo pronti a far fuoco. Questi attacchi in massa di belve non sono rari in India. Molte volte gli abitanti dei territori battuti dalle tigri, e in modo particolare quelli del Sunderbund, sono stati assediati nelle loro abitazioni. È una pericolosa eventualità, e, troppo spesso, il vantaggio tocca agli assalitori! Frattanto, ai ruggiti esterni si erano aggiunti gli urli interni. Il kraal rispondeva alla foresta; non ci si poteva più udire nel recinto. — Alle palizzate! — gridò Mathias Van Guitt, che si fece intendere a gesti più che a parole. Tutti ci precipitammo verso la cinta. In quel momento, i bufali, in preda al terrore, si dibattevano per abbandonare il posto in cui erano chiusi. I carrettieri cercavano invano di trattenerveli. Improvvisamente, la porta, la cui sbarra, senza dubbio, era stata chiusa male, si aprì violentemente, ed una turba di belve forzò l'ingresso del kraal. Eppure, Kâlagani aveva chiuso quella porta con la massima cura, come faceva tutte le sere! — Alla capanna! alla capanna! — gridò Mathias Van Guitt, lanciandosi verso l'edificio, l'unico che potesse offrire un rifugio. Ma avremmo avuto il tempo di giungervi? Già due dei chikaris, raggiunti dalle tigri, erano rotolati a terra. Gli altri, non potendo più giungere alla capanna, fuggivano per il kraal, cercando un riparo qualsiasi. Il fornitore, Storr e sei indù raggiunsero finalmente la capanna, la cui porta fu chiusa nel momento in cui due pantere stavano per precipitarvisi. Kâlagani, Fox e gli altri, aggrappandosi agli alberi, si erano arrampicati fino ai primi rami. Il capitano Hod e io non avevamo avuto né il tempo né la possibilità di raggiungere Mathias Van Guitt. — Maucler! Maucler! — gridò il capitano Hod, il cui braccio destro era stato lacerato da un colpo d'artiglio. Con un colpo di coda, un'enorme tigre mi aveva gettato a terra. Mi rialzai nel momento in cui l'animale tornava a dirigersi verso di me, e corsi verso il capitano Hod per dargli aiuto. Un solo rifugio ci rimaneva allora: lo scompartimento vuoto della sesta gabbia. In un istante, Hod ed io vi fummo dentro, e la porta chiusa ci metteva momentaneamente al riparo dalle belve, che si gettarono urlando contro le sbarre di ferro. Fu tale allora l'accanimento di quelle belve furibonde, unito alla collera delle tigri imprigionate negli scompartimenti vicini, che la gabbia, oscillando sulle ruote, per poco non venne rovesciata. Ma le tigri l'abbandonarono presto per rivolgersi a prede più sicure. Che scena della quale non perdevamo nessun particolare guardando attraverso le sbarre della nostra gabbia! — È il mondo alla rovescia! — esclamò il capitano Hod, che era furioso. — Loro fuori, e noi dentro! — E la vostra ferita? — domandai. — Non è nulla! Cinque o sei fucilate scoppiarono in quel momento. Partivano dalla capanna occupata da Mathias Van Guitt, contro la quale si avventavano due tigri e tre pantere. Uno di quegli animali cadde fulminato da un proiettile esplosivo, che doveva provenire dalla carabina di Storr. Quanto agli altri, dapprima si erano precipitati sul gruppo dei bufali, e questi disgraziati ruminanti stavano per trovarsi senza difesa contro simili avversari. Fox, Kâlagani e gli indù, che avevano dovuto gettar via le loro armi per arrampicarsi più in fretta sugli alberi, non potevano andare in loro aiuto. Frattanto il capitano Hod, passando la carabina attraverso le sbarre della nostra gabbia, fece fuoco. Benché il suo braccio destro, semiparalizzato dalla ferita, non gli permettesse di tirare con la precisione abituale, ebbe la fortuna di abbattere la sua quarantanovesima tigre. In quel momento i bufali, fuori di sé, si precipitarono muggendo attraverso il recinto. Invano tentarono di fronteggiare le tigri, le quali, con balzi formidabili sfuggivano alle cornate. Uno di loro, portando sul dorso una pantera, i cui artigli gli laceravano il garrese, giunse davanti alla porta del kraal e si slanciò fuori. Cinque o sei altri, stretti da vicino dalle belve, gli corsero dietro e scomparvero. Alcune tigri si gettarono al loro inseguimento; ma i bufali che non avevano potuto abbandonare il kraal, sgozzati, sventrati, giacevano ormai al suolo. Altre fucilate scoppiavano attraverso le finestre della capanna. Dal canto nostro, il capitano Hod e io, facevamo del nostro meglio. Un nuovo pericolo ci minacciava. Gli animali chiusi nelle gabbie, eccitati dall'accanimento della lotta, dall'odore del sangue e dagli urli dei loro confratelli, si dibattevano con violenza indescrivibile. Sarebbero riusciti a spezzare le loro sbarre? In verità dovevamo temerlo. Infatti, una delle gabbie delle tigri fu rovesciata; credetti per un istante che le sue pareti spezzate le avessero lasciate libere!... Fortunatamente non era così; i prigionieri non potevano più nemmeno vedere ciò che accadeva al di fuori, poiché era la faccia provvista di inferriata della loro gabbia che posava contro la terra. — Decisamente sono troppi! — mormorò il capitano Hod, ricaricando la carabina. In quel momento una tigre diede un balzo prodigioso, e con l'aiuto degli artigli, riuscì ad aggrapparsi alla biforcazione di un albero, su cui avevano cercato rifugio due o tre chikaris. Uno di questi disgraziati, afferrato alla gola, tentò invano di resistere e fu precipitato a terra. Una pantera venne a disputare alla tigre quel corpo già privo di vita, le cui ossa scricchiolarono in mezzo ad una pozza di sangue. — Ma fuoco! fuoco dunque! — gridava il capitano Hod, come se avesse potuto farsi udire da Mathias Van Guitt e dai suoi compagni. Quanto a noi, era ormai impossibile che intervenissimo! Le nostre cartucce erano terminate, e non potevamo più essere che spettatori impotenti di quella lotta. Ma ecco che, nello scompartimento vicino al nostro, una tigre, che cercava di spezzare le sue sbarre, riuscì, dando una scossa violenta, a rompere l'equilibrio della gabbia. Essa oscillò un istante e si rovesciò quasi subito. Leggermente contusi nella caduta, ci eravamo alzati in ginocchio. Le pareti avevano resistito, ma non potevamo vedere più nulla di quanto accadeva fuori. Se non si vedeva, almeno si udiva! Che sabba di urli nel recinto del kraall Che odore di sangue impregnava l'atmosfera! Sembrava che la lotta avesse preso un carattere più violento. Che cosa era dunque accaduto? I prigionieri delle altre gabbie erano forse fuggiti? Assalivano forse la capanna di Mathias Van Guitt? Oppure, tigri e pantere si slanciavano sugli alberi per strapparne gli indù? — E non poter uscire da questa scatola! — esclamava il capitano Hod in preda ad un vero accesso di rabbia. Un quarto d'ora circa, un quarto d'ora di cui contavamo gli interminabili minuti!, trascorse in quelle condizioni. Poi, a poco a poco, il rumore della lotta diminuì. Gli urli si fecero più deboli. I balzi delle tigri che occupavano gli scompartimenti della nostra gabbia divennero più rari. Il massacro era dunque finito! Ad un tratto udii la porta del kraal che si chiudeva con gran fracasso; poi, Kâlagani ci chiamò con grandi grida. Alla sua voce si univa quella di Fox, che ripeteva: — Capitano! capitano! — Da questa parte! — rispose Hod. Venne udito, e quasi subito sentii che la gabbia veniva rialzata. Un istante dopo eravamo liberi. — Fox! Storr! — gridò il capitano, il cui primo pensiero fu per i suoi compagni. — Presenti! — risposero il macchinista e l'attendente. Non erano nemmeno feriti. Anche Mathias Van Guitt e Kâlagani erano sani e salvi. Due tigri ed una pantera giacevano morte a terra; le altre avevano lasciato il kraal, di cui Kâlagani aveva richiusa la porta. Eravamo tutti al sicuro. Nessuna delle belve del serraglio era riuscita a fuggire durante la lotta, e anzi il fornitore aveva un prigioniero in più. Era una giovane tigre, rimasta imprigionata nella piccola gabbia mobile, che le si era rovesciata addosso, e sotto la quale era stata presa come in una trappola. Lo stock di Mathias Van Guitt era dunque al completo; ma quanto gli costava caro! Cinque dei suoi bufali erano sgozzati, gli altri erano fuggiti, e tre indù, orrendamente mutilati, nuotavano nel loro sangue sul suolo del kraal. CAPITOLO VI L'ULTIMO ADDIO DI MATHIAS VAN GUITT DURANTE il resto della notte non avvenne nessun incidente, né al di dentro né al di fuori del recinto. La porta era stata saldamente chiusa, questa volta. Come mai aveva potuto aprirsi nel momento in cui la massa di belve circondava la palizzata? Era inesplicabile, poiché lo stesso Kâlagani aveva assicurato nei loro incastri le robuste traverse che ne assicuravano la chiusura. La ferita del capitano Hod lo faceva soffrire molto, benché fosse solo una graffiatura. Ma era mancato poco che perdesse l'uso del braccio destro. Per conto mio, non sentivo più nulla del violento colpo di coda che mi aveva gettato a terra. Decidemmo dunque di ritornare alla Steam-House non appena fosse spuntato il giorno. Quanto a Mathias Van Guitt, tranne il vivo rammarico d'aver perduto tre dei suoi uomini, non si mostrava affatto scontento della situazione, benché l'essere rimasto privato dei bufali dovesse metterlo in un certo imbarazzo, al momento della partenza. — Sono gli incerti del mestiere, — ci disse, — ed avevo come un presentimento che mi sarebbe accaduta qualche avventura di questo genere. Poi, diede ordine che si procedesse alla sepoltura dei tre indù, i cui cadaveri furono inumati in un angolo del kraal, a una profondità sufficiente perché le belve non potessero dissotterrarli. Frattanto, l'alba non tardò a imbiancare le pendici del Tarryani, e dopo molte strette di mano, ci accomiatammo da Mathias Van Guitt. Per accompagnarci, almeno durante il nostro passaggio attraverso la foresta, il fornitore volle mettere a nostra disposizione Kâlagani e due dei suoi indù. La sua offerta venne accettata, e alle sei uscimmo dal recinto del kraal. Nessun cattivo incontro distinse il nostro ritorno. Di tigri, di pantere, non rimaneva più la minima traccia. Le belve, ben pasciute, erano senza dubbio ritornate nei loro covi, e non era quello il momento di andarvele a cercare. Quanto ai bufali che erano fuggiti dal kraal, o erano stati sgozzati e giacevano sotto le alte erbe oppure, smarriti nelle profondità del Tarryani, non bisognava illudersi che il loro istinto li avrebbe ricondotti al kraal. Andavano perciò considerati come definitivamente perduti per il fornitore. Alla fine della foresta, Kâlagani e i due indù ci lasciarono. Un'ora dopo, Phann e Black annunciavano con i loro latrati il nostro ritorno alla Steam-House. Feci a Banks il resoconto delle nostre avventure. Inutile dire come si felicitò con noi per essercela cavata così a buon mercato! Troppo spesso, durante attacchi di questo genere, nessuno degli assaliti ha potuto ritornare a raccontare le gesta degli assalitori! Quanto al capitano Hod, dovette, di buona o di mala voglia, portarsi il braccio al collo; ma l'ingegnere, che era il vero medico della spedizione, non trovò nulla di grave nella sua ferita, e affermò che in pochi giorni sarebbe guarito. In fondo, il capitano Hod era molto mortificato di aver ricevuto un colpo senza averlo potuto restituire. Eppure, aveva aggiunto una tigre alle quarantotto che figuravano già nel suo attivo. Il giorno dopo, 27 agosto, nel pomeriggio, i latrati dei cani echeggiarono con forza, ma allegramente. Erano il colonnello Munro, Mac Neil e Goûmi che ritornavano al sanitarium. Il loro ritorno ci tolse da un gran pensiero. Sir Edward Munro aveva condotto a buon fine la sua spedizione? Non lo sapevamo ancora. Ritornava sano e salvo, questo era l'importante. Subito, Banks gli era corso incontro, gli stringeva la mano, interrogandolo con lo sguardo. — Nulla! — si limitò a rispondere il colonnello Munro con un semplice cenno del capo. Quella parola significava non solo che le ricerche intraprese sulla frontiera nepalese non avevano dato alcun risultato, ma che ogni conversazione su quell'argomento diventava inutile. Sembrava dirci che non c'era più bisogno di parlarne. Mac Neil e Goûmi, che Banks interrogò la sera, furono più espliciti. Essi gli dissero che il colonnello Munro aveva effettivamente voluto rivedere quella parte dell'Indostan in cui Nana Sahib si era rifugiato prima della sua riapparizione nella presidenza di Bombay. Assicurarsi di quello che era avvenuto dei compagni del nababbo, cercare se non fosse rimasta qualche traccia del loro passaggio su quel punto della frontiera indocinese, tentare di sapere se, in mancanza di Nana Sahib, suo fratello Balao Rao si nascondesse in quella regione, non ancora soggetta al dominio inglese, ecco qual era stato lo scopo di sir Edward Munro. Ora, dalle sue ricerche risultava, in modo certo, che i ribelli avevano lasciato il paese. Del loro accampamento, in cui erano state celebrate le false esequie destinate ad accreditare la morte di Nana Sahib, non rimaneva più traccia. Di Balao Rao, nessuna notizia. Dei suoi compagni, nulla che potesse permettere di mettersi sulle loro tracce. Il nababbo ucciso nelle gole dei monti Sautpurra, i suoi seguaci dispersi, probabilmente oltre i confini della penisola, l'opera di giustiziere non era più da compiere. Lasciare la frontiera himalayana, continuare il viaggio ritornando a sud, terminare, insomma, il nostro itinerario da Calcutta a Bombay, ecco a che cosa dovevamo pensare unicamente. La partenza fu dunque stabilita e fissata fra otto giorni, al 3 settembre. Bisognava lasciare al capitano Hod il tempo necessario per la completa guarigione della sua ferita. D'altra parte il colonnello Munro, visibilmente stanco in seguito alla sua faticosa escursione in un paese così difficile, aveva bisogno di alcuni giorni di riposo. In quel periodo Banks avrebbe cominciato a fare i suoi preparativi. Per rimettere il nostro treno in condizioni di ridiscendere nella pianura e di prendere la strada dall'Himalaya alla presidenza di Bombay, c'era di che tenerlo occupato per una settimana intera. Anzitutto, fu stabilito che l'itinerario sarebbe stato modificato una seconda volta, in modo da evitare le grandi città di nord-ovest, Mirat, Delhi, Agra, Gwalior, Jansi e altre, nelle quali l'insurrezione del 1857 aveva lasciato troppi disastri. Con gli ultimi ribelli dell'insurrezione doveva scomparire tutto ciò che poteva rammentarla al colonnello Munro. Le nostre case ambulanti avrebbero dunque proceduto attraverso le province senza fermarsi nelle città principali, ma il paese valeva la pena di essere visitato se non altro per le sue bellezze naturali. L'immenso regno di Scindia, sotto questo aspetto, è insuperabile. Davanti al nostro Gigante d'Acciaio, si sarebbero aperte le vie più pittoresche della penisola. Il monsone era finito con la stagione delle piogge, che non si prolunga oltre il mese d'agosto. I primi giorni di settembre promettevano una temperatura gradevole, che doveva rendere meno penosa quella seconda parte del viaggio. Durante quella seconda settimana del nostro soggiorno al sanitarium, Fox e Goûmi dovettero farsi fornitori quotidiani della dispensa. Accompagnati dai due cani, percorsero la zona media in cui pullulano le pernici, i fagiani, le ottarde. Questi volatili, conservati nella ghiacciaia della Steam-House, dovevano fornire dell'ottima selvaggina per il viaggio. Andammo a far visita al kraal due o tre volte ancora. Là, anche Mathias Van Guitt era intento a prepararsi alla partenza per Bombay, affrontando le seccature da filosofo che si sente superiore alle piccole e alle grandi miserie dell'esistenza. Si sa che, con la cattura della decima tigre, che era costata così cara, il serraglio era completo. Mathias Van Guitt dunque doveva preoccuparsi solo di ricostituire i suoi tiri di bufali. Non uno solo dei ruminanti che erano fuggiti durante l'attacco era riapparso al kraal. Era probabilissimo che, dispersi nella foresta, fossero morti di morte violenta. Si trattava dunque di sostituirli, cosa che, in queste circostanze, non mancava di essere difficile. A quello scopo, il fornitore aveva mandato Kâlagani a visitare le fattorie e le borgate vicine del Tarryani, e aspettava il suo ritorno con una certa impazienza. Quell'ultima settimana del nostro soggiorno al sanitarium passò senza incidenti. La ferita del capitano Hod guariva a poco a poco. Forse addirittura egli calcolava di chiudere la sua campagna con un'ultima spedizione; ma dovette rinunciarvi in seguito alle insistenze del colonnello Munro. Dal momento che non era più così sicuro del suo braccio, perché esporsi? Se avesse incontrato qualche belva sulla sua strada, durante il resto del viaggio, non avrebbe avuto forse un'occasione naturalissima di prendersi la rivincita? — D'altra parte, — gli fece osservare Banks, — voi siete ancora vivo, capitano, e quarantanove tigri sono morte per vostra mano, senza contare quelle ferite. Il bilancio è dunque ancora in vostro favore! — Sì, quarantanove! — rispose sospirando il capitano Hod, — ma avrei proprio voluto completare la cinquantina. Evidentemente, la cosa gli stava a cuore. Venne il 2 settembre. Eravamo alla vigilia della partenza. Nella mattina di quel giorno, Goûmi venne ad annunciarci la visita del fornitore. Infatti, Mathias Van Guitt, accompagnato da Kâlagani, giungeva alla Steam-House. Senza dubbio, al momento della partenza, voleva farci i suoi addii in piena regola. Il colonnello Munro lo ricevette cordialmente. Mathias Van Guitt si lanciò in una serie di periodi, in cui si ritrovavano tutte le sorprese della sua solita fraseologia. Ma mi sembrò che i suoi complimenti nascondessero qualche segreto pensiero che egli esitava a formulare. E proprio Banks toccò il vivo della questione quando chiese a Mathias Van Guitt se aveva avuto la fortuna di poter rinnovare i suoi tiri. — No, signor Banks, — rispose il fornitore. — Kâlagani ha percorso invano i villaggi. Benché fosse munito dei miei pieni poteri, non ha potuto procurarsi una sola coppia di questi utili ruminanti. Sono dunque costretto a confessare con rammarico, che, per condurre il mio serraglio verso la stazione più vicina, il motore mi manca assolutamente. La dispersione dei miei bufali, provocata dall'improvviso attacco della notte tra il 25 e il 26 agosto, mi mette dunque in un certo imbarazzo... Le mie gabbie, con i loro ospiti a quattro zampe, sono pesanti... e... — E come farete per condurle alla stazione? — domandò l'ingegnere. — Non lo so bene, — rispose Mathias Van Guitt. — Cerco... combino... esito... Eppure... l'ora della partenza è suonata, e il 20 settembre, ossia fra diciotto giorni, devo consegnare a Bombay le mie belve... — Diciotto giorni! — soggiunse Banks, — ma allora non avete un'ora da perdere! — Lo so, signor ingegnere. Perciò ho un unico mezzo, uno solo! — Quale? — È, pur non volendo incomodarlo minimamente, di rivolgere al colonnello una domanda molto indiscreta... senza dubbio... — Parlate dunque, signor Van Guitt, — disse il colonnello Munro — e se posso esservi utile, credete pure che lo farò con piacere. Mathias Van Guitt s'inchinò, portò la mano destra alle labbra, la parte superiore del suo corpo si agitò dolcemente, e tutta la sua attitudine fu quella di un uomo che si sente oppresso da un'inaspettata bontà. Insomma, il fornitore chiese, data la potenza di trazione del Gigante d'Acciaio, se non fosse possibile attaccare le sue gabbie a ruote in coda al nostro treno, e rimorchiarle così fino a Etawah, la stazione più vicina della ferrovia Delhi-Allahabad. Era un tragitto che non superava i trecentocinquanta chilometri, per una strada abbastanza facile. — È possibile aiutare il signor Van Guitt? — domandò il colonnello all'ingegnere. — Non ci vedo alcuna difficoltà, — rispose Banks, — e il Gigante d'Acciaio non si accorgerà neppure di questo aumento di carico. — Concesso, signor Van Guitt, — disse il colonnello Munro, — condurremo il vostro materiale fino a Etawah. Fra vicini bisogna sapersi aiutare, anche nell'Himalaya. — Colonnello, — rispose Mathias Van Guitt, — conoscevo la vostra bontà, e, per essere sincero, siccome si trattava di togliermi d'impaccio, avevo fatto un po' d'assegnamento sulla vostra cortesia. — Avete avuto ragione, — rispose il colonnello Munro. Stabilita così ogni cosa, Mathias Van Guitt si preparò a ritornare al kraal, per licenziare una parte del suo personale, che gli diventava inutile. Egli contava di tenere con sé solo quattro chikarìs, necessari per la manutenzione delle gabbie. — A domani dunque, — disse il colonnello Munro. — A domani, signori, — rispose Mathias Van Guitt. — Aspetterò al kraal l'arrivo del vostro Gigante d'Acciaio! E il fornitore, lietissimo della riuscita della sua visita alla SteamHouse, si ritirò, non senza aver fatto la sua uscita come un attore che rientra fra le quinte secondo tutte le tradizioni della commedia moderna. Kâlagani, dopo aver guardato lungamente il colonnello Munro, il cui viaggio alla frontiera del Nepal sembrava averlo seriamente impensierito, seguì il fornitore. I nostri ultimi preparativi erano terminati. II materiale era stato ricollocato al suo posto. Del sanitarium della Steam-House non rimaneva più nulla. I due carri aspettavano soltanto il nostro Gigante d'Acciaio. L'elefante doveva trascinarli prima di tutto fino alla pianura, poi andare al kraal a prendere le gabbie e ricondurle per formare il treno. Dopo di che, si sarebbe mosso direttamente attraverso le pianure del Rohilkhand. Il giorno seguente, 3 settembre, alle sette del mattino, il Gigante d'Acciaio era pronto a riprendere le funzioni che aveva espletate così coscienziosamente fino allora. Ma, in quel momento, avvenne, con grande stupore di tutti, un incidente assolutamente inatteso. Il forno della caldaia, chiusa nei fianchi dell'animale, era stato caricato di combustibile. Kâlouth, che lo aveva acceso, ebbe l'idea di aprire il cassetta del tiraggio, alla cui parete sono collegati i tubi destinati a condurre i prodotti della combustione attraverso la caldaia, per vedere se qualcosa ostacolava il tiraggio. Ma, appena ebbe aperto lo sportello del cassetto, indietreggiò precipitosamente, e una ventina di cinghie vennero proiettate fuori con un sibilo bizzarro. Banks, Storr e io guardavamo senza poter indovinare la causa di quel fenomeno. — Ehi! Kâlouth, che cosa c'è? — domandò Banks. — Una pioggia di serpenti, signore! — esclamò il fuochista. Infatti, quelle cinghie erano serpenti, che avevano eletto domicilio nei tubi della caldaia certo per dormirvi meglio. Le prime fiamme del forno li avevano raggiunti. Alcuni di quei rettili, già bruciati, erano caduti a terra, e se Kâlouth non avesse aperto il cassetto del tiraggio, sarebbero ben presto arrostiti tutti. — Come! — esclamò il capitano Hod, che accorse, — il nostro Gigante d'Acciaio ha un nido di serpenti nelle viscere! Sì, in fede mia!, e dei più pericolosi, di quei whip snakes, serpentistaffile, goulabis, cobra neri, naja con gli occhiali, appartenenti alle specie più velenose. E nello stesso tempo, un magnifico pitone-tigre, della famiglia dei boa, mostrava la sua testa aguzza all'imbocco superiore della ciminiera, ossia all'estremità della proboscide dell'elefante, svolgendosi in mezzo alle prime volute di vapore. I serpenti usciti vivi dai tubi si erano rapidamente dispersi nei cespugli, senza che avessimo il tempo di distruggerli. Ma il pitone non poté svignarsela così facilmente dal cilindro di lamiera, così il capitano Hod si affrettò ad andare a prendere la sua carabina, e, con una pallottola, gli spezzò la testa. Goûmi, arrampicandosi allora sul Gigante d'Acciaio, si issò fino all'orifizio superiore della sua proboscide, e con l'aiuto di Kâlouth e di Storr riuscì a tirar fuori l'enorme rettile. Nulla di più splendido di quel boa, con la pelle d'un verde misto d'azzurro, decorata ad anelli regolari, e che sembrava tagliata in una pelle di tigre. Misurava non meno di cinque metri di lunghezza, ed era grosso come un braccio. Era dunque un superbo esemplare di quegli ofidi dell'India, e avrebbe fatto una bellissima figura nel serraglio di Mathias Van Guitt, dato il nome di pitone-tigre che gli viene affibbiato. Ma, devo confessare che il capitano Hod non credette di doverlo inserire nel suo conteggio. Fatto ciò, Kâlouth richiuse il cassetto, il tiraggio prese a funzionare regolarmente, il fuoco del forno si ravvivò, con il passaggio della corrente d'aria, la caldaia non tardò a brontolare sordamente, e tre quarti d'ora dopo il manometro indicava una pressione sufficiente del vapore. Non restava più che partire. I due carri furono agganciati l'uno all'altro, e il Gigante d'Acciaio manovrò in modo da venirsi a mettere in testa al treno. Venne data un'ultima occhiata al magnifico panorama che si svolgeva a sud, un ultimo sguardo a quella meravigliosa catena il cui profilo si stagliava sul fondo del cielo verso nord, un ultimo addio al Dawalaghiri, che dominava con la sua vetta tutto quel territorio dell'India settentrionale, e un fischio annunciò la partenza. La discesa per la strada tortuosa avvenne senza difficoltà. Il freno atmosferico tratteneva irresistibilmente le ruote sulle pendenze troppo ripide. Un'ora dopo, il nostro treno si fermava al limite inferiore del Tarryani, al confine con la pianura. Il Gigante d'Acciaio allora venne staccato, e, sotto la guida di Banks, del macchinista e del fuochista, prese ad avanzare lentamente per una delle larghe strade della foresta. Due ore dopo, i suoi barriti tornavano a farsi udire, ed egli sbucava dalla fitta macchia rimorchiando le sei gabbie del serraglio. Appena fu arrivato, Mathias Van Guitt rinnovò i suoi ringraziamenti al colonnello Munro. Le gabbie, precedute da una carrozza destinata ad alloggiare il fornitore e i suoi uomini, furono agganciate al nostro treno, un vero convoglio composto di otto vagoni. Nuovo segnale di Banks, nuovo fischio regolamentare, e il Gigante d'Acciaio, muovendosi, avanzò maestosamente sulla magnifica strada che scendeva verso sud. La Steam-House e le gabbie di Mathias Van Guitt, cariche di belve, sembrava che non gli pesassero più di un modesto furgone da traslochi. — Ebbene, che cosa ne pensate, signor fornitore? — domandò il capitano Hod. — Penso, capitano, — rispose non senza un po' di ragione Mathias Van Guitt — che se questo elefante fosse di carne e d'ossa, sarebbe più straordinario ancora! La strada non era più quella che ci aveva condotto ai piedi dell'Himalaya. Essa piegava a sud-ovest verso Philibit, cittadina che si trovava a centocinquanta chilometri dal nostro punto di partenza. Questo tragitto fu fatto tranquillamente, a una velocità moderata, senza noie e senza impacci. Mathias Van Guitt prendeva posto quotidianamente alla tavola della Steam-House, dove il suo straordinario appetito faceva sempre onore alla cucina del signor Parazard. Il buon funzionamento della dispensa non tardò ad esigere che i soliti fornitori prestassero la loro opera, e il capitano Hod, perfettamente guarito, (la fucilata al pitone lo aveva dimostrato) riprese il fucile. Del resto, bisognava pensare a nutrire, insieme con il personale, anche gli animali del serraglio. Questo compito spettava ai chikaris. Questi abili indù, diretti da Kâlagani, lui stesso ottimo tiratore, non lasciarono mancare la carne di bisonte e d'antilope. Quel Kâlagani era davvero un uomo eccezionale. Benché fosse poco comunicativo, il colonnello Munro lo trattava molto amichevolmente, non essendo egli di quelle persone che dimenticano un servizio ricevuto. Il 10 settembre, il treno aggirava Philibit, senza fermarvisi, ma non poté evitare un grande assembramento di indù che vennero a fargli visita. Decisamente, le belve di Mathias Van Guitt, per notevoli che fossero, non potevano sostenere alcun paragone con il Gigante d'Acciaio. Non le guardavano neppure attraverso le sbarre delle loro gabbie, e tutta l'ammirazione era per l'elefante meccanico. Il treno continuava a scendere le lunghe pianure dell'India settentrionale lasciando, a qualche lega a ovest, Bareilli, una delle principali città del Rohilkhand. Ora avanzava in mezzo a foreste popolate da una quantità d'uccelli di cui Mathias Van Guitt ci faceva ammirare lo «smagliante piumaggio», ora in pianura, attraverso quelle macchie di acacie spinose, alte due o tre metri, che gli inglesi chiamano wait-a-bit-bush. Là si trovavano cinghiali in gran numero, ghiottissimi delle bacche giallognole che questi arbusti producono. Alcuni di questi suini furono uccisi, non senza pericolo, poiché sono animali veramente selvaggi e pericolosi. In diverse occasioni, il capitano Hod e Kâlagani poterono mostrare quel sangue freddo e quell'abilità che ne facevano due cacciatori straordinari. Tra Philibit e la stazione di Etawah, il treno dovette attraversare un tratto dell'alto Gange, e, poco tempo dopo, uno dei suoi importanti affluenti, il Kali-Nadi. Tutto il materiale ambulante del serraglio fu staccato, e la SteamHouse, trasformata in congegno galleggiante, passò facilmente da una riva all'altra sulla superficie del fiume. Non così avvenne per il treno di Mathias Van Guitt. Il traghetto venne requisito e le gabbie dovettero attraversare i due corsi d'acqua l'uno dopo l'altro. Se questo passaggio richiese un certo tempo, fu fatto, almeno, senza grandi difficoltà. Il fornitore non era alla sua prima esperienza del genere, e i suoi uomini avevano già dovuto superare molti fiumi, quando si recavano alla frontiera himalayana. Insomma, il 17 settembre eravamo giunti alla linea ferroviaria che va da Delhi ad Allahabad, a meno di cento passi dalla stazione di Etawah, senza incidenti degni di essere narrati. Era là che il nostro convoglio doveva dividersi in due parti, che non erano destinate a ricongiungersi. La prima doveva continuare a scendere verso sud attraverso i territori dell'ampio regno di Scindia, in modo da giungere ai Vindhya e alla presidenza di Bombay. La seconda, posta su carrelli ferroviari, doveva raggiungere Allahabad, e di là, con il treno di Bombay, giungere al litorale dell'oceano Indiano. Perciò ci fermammo, e venne preparato l'accampamento per la notte. Il giorno seguente, all'alba, mentre il fornitore avrebbe preso la via di sud-est, noi dovevamo, tagliando quella via ad angolo retto, seguire pressappoco il 77° meridiano. Ma, mentre lasciava noi, Mathias Van Guitt doveva separarsi anche da quella parte del suo personale che non gli era più utile. Tranne due indù, necessari per il servizio delle gabbie durante un viaggio che non doveva durare che due o tre giorni, egli non aveva bisogno di nessuno. Giunto al porto di Bombay, dove lo aspettava una nave in partenza per l'Europa, il trasbordo della sua mercanzia sarebbe stato fatto dagli scaricatori ordinari del porto. Dunque, alcuni dei suoi chikaris ritornavano disponibili, e in particolar modo Kâlagani. Si sa come e perché eravamo veramente affezionati a questo indù, dopo i servizi che egli aveva reso al colonnello Munro e al capitano Hod. Quando Mathias Van Guitt ebbe congedato i suoi uomini, Banks credette di notare che Kâlagani non sapesse proprio che cosa fare, e gli domandò se gli avrebbe interessato accompagnarci fino a Bombay. Kâlagani, dopo aver riflettuto un istante, accettò l'offerta dell'ingegnere, e il colonnello Munro dimostrò la soddisfazione che provava nel venirgli in aiuto in quell'occasione. L'indù avrebbe dunque fatto parte del personale della Steam-House e, grazie alla sua conoscenza di tutta quella parte dell'India, poteva esserci utilissimo. Il giorno seguente, il campo veniva levato. Non avevamo più nessun interesse per prolungare la nostra fermata. Il Gigante d'Acciaio era sotto pressione, e Banks diede a Storr l'ordine di tenersi pronto. Non restava più che accomiatarci dal nostro amico fornitore. Fu semplicissimo da parte nostra; da parte sua, invece, fu naturalmente molto più teatrale. I ringraziamenti di Mathias Van Guitt per il servizio che gli aveva reso il colonnello Munro presero necessariamente forma amplificata. Egli «recitò» magnificamente quest'ultimo atto, e fu perfetto nella scena madre degli addii. Con un movimento dei muscoli dell'avambraccio, la sua mano destra si dispose tesa in avanti, in modo che la palma rimaneva volta verso la terra. Ciò voleva dire che quaggiù egli non avrebbe mai dimenticato quanto doveva al colonnello Munro, e che se la riconoscenza fosse stata bandita da questo mondo, avrebbe trovato un ultimo asilo nel suo cuore. Poi, con un movimento inverso, rivoltò la mano verso l'alto, ossia ne volse la palma verso lo zenit. Il che significava che, anche lassù, i sentimenti non si sarebbero spenti in lui, e tutta un'eternità di gratitudine non avrebbe potuto pagare gli obblighi che egli aveva contratto. Il colonnello Munro ringraziò Mathias Van Guitt come si conveniva, e pochi minuti dopo, il fornitore delle ditte di Amburgo e di Londra era scomparso ai nostri occhi. CAPITOLO VII IL PASSAGGIO DEL BETWA ESATTAMENTE a quella data, 18 settembre, ecco qual era con precisione la nostra posizione, calcolata dal punto di partenza, dal punto di sosta e dal punto d'arrivo: 1° Da Calcutta, milletrecento chilometri; 2° Dal sanitarium dell'Himalaya, trecentottanta chilometri; 3° Da Bombay, milleseicento chilometri. Considerando soltanto le distanze, non avevamo ancora compiuto la metà del nostro itinerario; ma, tenendo conto delle sette settimane che la Steam-House aveva passato sulla frontiera himalayana, più della metà del tempo che doveva essere dedicato a quel viaggio era trascorsa. Avevamo lasciato Calcutta il 6 marzo. Fra due mesi, se nulla fosse avvenuto a contrastare il nostro cammino, facevamo conto di avere raggiunto il litorale ovest dell'Indostan. Il nostro itinerario, d'altra parte, sarebbe stato un poco ridotto. La decisione che avevamo preso, di evitare le grandi città compromesse nella rivolta del 1857, ci obbligava a scendere più direttamente a sud. Attraverso le magnifiche province del regno di Scindia si aprivano belle strade carrozzabili, e il Gigante d'Acciaio non doveva incontrare nessun ostacolo, almeno fino alle montagne del centro. Il viaggio prometteva dunque di compiersi nelle migliori condizioni di facilità e di sicurezza. Ciò che doveva renderlo ancora più facile, era la presenza di Kâlagani fra il personale della Steam-House. Questo indù conosceva perfettamente tutta quella parte della penisola: Banks poté accertarsene quel giorno stesso. Dopo colazione, mentre il colonnello Munro e il capitano Hod facevano la siesta, Banks gli chiese con quali mansioni egli aveva percorso tante volte quelle province. — Ero addetto — rispose Kâlagani — a una di quelle numerose carovane di Banjari, che trasportano a dorso di buoi le provviste di cereali, sia per conto del governo, sia per conto dei privati. Con queste mansioni ho risalito e sceso venti volte i territori del centro e del nord dell'India. — Quelle carovane percorrono ancora questa parte della penisola? — domandò l'ingegnere. — Sì, signore — rispose Kâlagani — e in questo periodo dell'anno sarei ben stupito se non incontrassimo un gruppo di Banjari in cammino verso nord. — Ebbene, Kâlagani — soggiunse Banks — la perfetta conoscenza che avete di questi territori ci sarà utilissima. Invece di passare per le grandi città del regno di Scindia, andremo attraverso le campagne, e voi sarete la nostra guida. — Volentieri, signore — rispose l'indù, con quel tono freddo che gli era solito, e al quale non avevo ancora potuto abituarmi. Poi aggiunse: — Volete che vi indichi in linea di massima la direzione che dovremo seguire? — Ve ne sarò grato. E, così dicendo, Banks stese sulla tavola una carta a grande scala che riproduceva quella parte dell'India, per controllare l'esattezza delle indicazioni di Kâlagani. — Niente di più semplice — riprese l'indù. — Una linea quasi retta ci condurrà dalla linea ferroviaria di Delhi a quella di Bombay, che si ricongiungono ad Allahabad. Dalla stazione di Etawah che abbiamo lasciato alla frontiera del Bundelkund, dovremo attraversare un corso d'acqua importante, il Jumna, e da quella frontiera ai monti Vindhya, un secondo corso d'acqua, il Betwa. Anche nel caso in cui questi due fiumi fossero straripati a causa della stagione delle piogge, il treno galleggiante non sarà impacciato, immagino, per passare da una riva all'altra. — Non ci sarà nessuna difficoltà grave — rispose l'ingegnere. — E quando saremo giunti ai Vindhya?... — Piegheremo un poco verso sud-est, per scegliere un passaggio praticabile. Anche là nessun ostacolo ci impedirà il cammino; conosco un passaggio che ha pendenze moderate. È il colle di Sirgur, che i carri preferiscono. — Dovunque passano dei cavalli — dissi — non può passare forse anche il nostro Gigante d'Acciaio? — Lo può certamente — rispose Banks; — ma al di là del colle Sirgur, la regione è molto accidentata. Non vi sarebbe modo di giungere ai Vindhya, dirigendoci attraverso il Bhopal? — Là, le città sono numerose — rispose Kâlagani — sarà difficile evitarle, e i Cipay vi si sono distinti più particolarmente nella guerra per l'indipendenza. Fui un po' stupito di quella definizione di «guerra per l'indipendenza» che Kâlagani dava alla rivolta del 1857. Ma non bisognava dimenticare che era un indù, non un inglese che parlava. Non sembrava, d'altra parte, che Kâlagani avesse preso parte alla rivolta, o, almeno, non aveva mai detto nulla che potesse farlo credere. — Va bene — riprese Banks — lasceremo le città del Bhopal a ovest, e se siete certo che il colle di Sirgur ci dia accesso a qualche strada praticabile... — Una strada che ho percorso spesso, signore, e che, dopo aver aggirato il lago Puturia, termina, quaranta miglia più lontano, alla ferrovia Bombay-Allahabad, presso Jubbulpore. — Infatti — rispose Banks che seguiva sulla carta le indicazioni date dall'indù; — e partendo da questo punto?... — La strada si dirige verso sud-ovest e segue, per così dire, la ferrovia fino a Bombay. — Siamo intesi — rispose Banks. — Non vedo nessun ostacolo grave ad attraversare i Vindhya, e questo itinerario ci conviene. Ai servizi che ci avete già resi, Kâlagani, ne aggiungete un altro che non dimenticheremo. Kâlagani s'inchinò e stava per ritirarsi quando, pentito, ritornò verso l'ingegnere. — Volete chiedermi qualcosa? — disse Banks. — Sì, signore — rispose l'indù. — Potrei chiedervi perché tenete particolarmente ad evitare le principali città del Bundelkund? Banks mi guardò. Non c'era nessuna ragione per nascondere a Kâlagani quanto concerneva sir Edward Munro, e l'indù fu informato della situazione del colonnello. Kâlagani ascoltò molto attentamente ciò che gli disse l'ingegnere, poi, con un tono che denotava un certo stupore: — Il colonnello Munro — disse — non ha più nulla da temere da Nana Sahib, almeno in queste province. — Né in queste province, né altrove — rispose Banks. — Perché dite «in queste province»? — Perché se il nababbo è riapparso, come si pretendeva alcuni mesi fa, nella presidenza di Bombay — disse Kâlagani — le ricerche non hanno potuto far sapere dove si nasconda, ed è probabilissimo che egli abbia attraversato di nuovo la frontiera indocinese. Questa risposta sembrava provare che Kâlagani ignorava quanto era accaduto nella regione dei monti Sautpurra, e che, nello scorso maggio, Nana Sahib era stato ucciso dai soldati dell'esercito reale al pâl di Tandît. — Vedo, Kâlagani, — disse allora Banks, — che le notizie che corrono per l'India stentano a giungere fino alle foreste dell'Himalaya! L'indù ci guardò attentamente, senza rispondere, come uno che non capisce. — Sì, — soggiunse Banks, — sembrate ignorare che Nana Sahib è morto. — Nana Sahib è morto? — gridò Kâlagani. — Senza dubbio, — rispose Banks; — e il governo ha fatto sapere in quali circostanze è stato ucciso. — Ucciso? — disse Kâlagani scuotendo il capo. — E dove sarebbe stato ucciso Nana Sahib? — Al pâl di Tandît, nei monti Sautpurra. — E quando?... — Circa quattro mesi fa, — rispose l'ingegnere, — il 21 maggio scorso. Kâlagani, il cui sguardo mi parve strano in quel momento, aveva incrociato le braccia e rimaneva silenzioso. — Avete delle ragioni — gli domandai, — per non credere alla morte di Nana Sahib? — Nessuna, signori, — si accontentò di rispondere Kâlagani. — Credo a ciò che voi mi dite. Un istante dopo, Banks ed io eravamo soli, e l'ingegnere aggiungeva, non senza ragione: — Tutti gli indù si assomigliano. Il capo dei Cipay ribelli è diventato leggendario. Questi superstiziosi non crederanno mai che sia stato ucciso, poiché non l'hanno visto impiccare! — Si comportano, — risposi, — come i vecchi grognards 24 dell'Impero, i quali, vent'anni dopo la morte di Napoleone, sostenevano che viveva ancora! Dopo il passaggio dell'alto Gange, che la Steam-House aveva effettuato quindici giorni prima, una fertile regione stendeva le sue magnifiche strade davanti al Gigante d'Acciaio. Era il Doàb, compreso in quell'angolo formato dal Gange e dal Jumna, prima che si ricongiungano vicino a Allahabad. Pianure alluvionali, dissodate dai seguaci di Brahma venti secoli prima dell'era cristiana, processi di coltura ancora molto rudimentali presso i contadini, grandi opere di irrigazione dovute agli ingegneri inglesi, piantagioni di cotone che prosperano in modo particolare su questo territorio, gemiti del torchio per il cotone che è in funzione presso ogni villaggio, canti degli operai che lo mettono in movimento, ecco le impressioni che mi sono rimaste di questo Doàb, dove un tempo venne fondata la chiesa primitiva. Il viaggio procedeva nelle migliori condizioni. I luoghi variavano, diremmo quasi, a seconda dei nostri capricci. La casa si spostava, senza fatica, per il piacere dei nostri occhi. Non era forse quella, come aveva preteso Banks, l'ultima parola del progresso nell'arte della locomozione? Carri a buoi, carrozze a cavalli o a muli, vagoni ferroviari, non siete nulla paragonati alla nostra casa ambulante! Il 19 settembre, la Steam-House si fermava sulla riva sinistra del Jumna. Questo importante corso di acqua separa nella parte centrale della penisola il paese dei Rajah propriamente detto, o Rajasthan, dall'Indostan, che è più particolarmente il paese degli indù. 24 Lett.: brontoloni; con questo termine venivano definiti i veterani delle guerre napoleoniche. (N.d.T.) Una piena agli inizi incominciava ad alzare le acque del Jumna. La corrente si faceva sentire più rapidamente; ma, pur rendendo il nostro passaggio un po' meno facile, non poteva impedirlo. Banks prese alcune precauzioni. Si dovette cercare un migliore punto d'approdo, e lo si trovò. Mezz'ora dopo la Steam-House risaliva l'argine opposto del fiume. Ai treni delle linee ferroviarie occorrono ponti costruiti con grandi spese, e uno di questi ponti, di costruzione tubolare, scavalca il Jumna presso la fortezza di Selimgarh vicino a Delhi. Al nostro Gigante d'Acciaio e ai due vagoni che esso rimorchiava, i corsi d'acqua offrivano una via facile quanto le più belle strade asfaltate della penisola. Al di là del Jumna, i territori del Rajasthan comprendono un certo numero di quelle città che la previdenza dell'ingegnere voleva lasciar fuori del suo itinerario. Sulla sinistra c'era Gwalior, in riva al fiume Sawunrika, piantata sulla sua base di basalto, con la superba moschea di Musjid, il palazzo di Pâl, la curiosa porta degli Elefanti, la celebre fortezza, il Vihara di creazione buddistica; vecchia città a cui la città moderna di Lashkar, costruita due chilometri più lontano, fa ormai una seria concorrenza. Là, in fondo a questa Gibilterra dell'India, la rhani di Jansi, la fedele compagna di Nana Sahib, aveva lottato eroicamente fino all'ultimo. Là, in quello scontro con due squadroni dell'8° ussari dell'esercito reale, ella fu uccisa, come si sa, per mano del colonnello Munro, che aveva preso parte all'azione con un battaglione del suo reggimento. Da quel giorno, anche questo è noto, era incominciato l'odio implacabile di Nana Sahib, che il nababbo aveva tentato di soddisfare fino all'ultimo respiro! Sì! era meglio che sir Edward Munro non andasse a ravvivare i suoi ricordi alle porte di Gwalior! Dopo Gwalior, a ovest del nostro nuovo itinerario, veniva Antri, e la sua ampia pianura, su cui si ergono qua e là molte vette, come isolotti d'un arcipelago. Poi veniva Duttiah, che non ha ancora cinque secoli di esistenza, di cui si ammirano le graziose case, la fortezza centrale, i templi dalle svariate guglie, il palazzo abbandonato di Birsing-Deo, l'arsenale di Tôpe-Kana, ... tutto quello che costituiva la capitale di quel regno di Duttiah, tagliato nell'angolo nord del Bundelkund, e che si è messo sotto la protezione dell'Inghilterra. Come Gwalior, Antri e Duttiah erano state gravemente colpite dal movimento insurrezionale del 1857. Finalmente c'era Jansi, da cui passavamo a meno di quaranta chilometri il 22 settembre. Quella città è la più importante stazione militare del Bundelkund, e lo spirito di ribellione vi è sempre vivace nel popolino. Jansi, città relativamente moderna, fa un importante commercio di mussole indigene e di stoffe azzurre di cotone. Non vi si trova nessun monumento precedente la sua fondazione, che data solo dal XVII secolo. Pure è interessante visitare la sua cittadella, di cui i proiettili inglesi non hanno potuto distruggere le mura esterne, e la sua necropoli dei rajah, di aspetto assai pittoresco. Essa fu la fortezza principale dei Cipay ribelli dell'India centrale. Qui, l'intrepida rhani provocò il primo sollevamento che doveva in breve invadere tutto il Bundelkund. Qui sir Hugh Rose dovette dare un combattimento che non durò meno di sei giorni, nel quale perdette il quindici per cento dei suoi uomini. Qui, nonostante il loro accanimento, Tantia Topi, Balao Rao, fratello di Nana Sahib, e infine la rhani, benché fossero aiutati da una guarnigione di dodicimila Cipay e soccorsi da un esercito di ventimila uomini, dovettero cedere alla superiorità delle armi inglesi. Qui, come ci aveva narrato Mac Neil, il colonnello Munro aveva salvato la vita al sergente, cedendogli l'ultima goccia d'acqua che gli rimaneva. Sì! Jansi, più di qualsiasi altra di quelle città dai funesti ricordi, doveva essere lasciata in disparte in un itinerario le cui tappe erano state scelte dai migliori amici del colonnello! Il giorno dopo, 23 settembre, un incontro, che ci trattenne alcune ore, venne a giustificare una delle osservazioni fatte precedentemente da Kâlagani. Erano le undici del mattino. Terminata la colazione, ci eravamo seduti tutti per la siesta, gli uni sotto la veranda, gli altri nel salotto della Steam-House. Il Gigante d'Acciaio camminava in ragione di nove o dieci chilometri all'ora. Una magnifica strada ombreggiata da begli alberi gli si disegnava dinanzi fra campi di cotone e di cereali. Il tempo era bello, il sole ardente. Un innaffiamento «comunale» di questa grande strada non sarebbe stato da disprezzare, bisogna convenirne, e il vento sollevava una fine polvere bianca davanti al nostro treno. Ma le cose cambiarono, quando, alla distanza di due o tre miglia, l'atmosfera ci apparve a tal punto piena di tali turbini di polvere che un violento simun non avrebbe sollevato nuvole più fitte nel deserto libico. — Non capisco come questo fenomeno possa verificarsi, — disse Banks, — poiché la brezza è leggera. — Kâlagani ce lo spiegherà, — rispose il colonnello Munro. Fu chiamato l'indù, che venne fin sotto la veranda, osservò la strada, e, senza esitare: — È una lunga carovana che risale verso nord, — disse — e come vi ho già detto, signor Banks, è probabilmente una carovana di Banjari. — Ebbene, Kâlagani, — disse Banks, — ritroverete senza dubbio qualcuno dei vostri vecchi compagni, là in mezzo? — È possibile, signore, — rispose l'indù, — poiché ho vissuto un pezzo fra queste tribù nomadi. — Avete dunque l'intenzione di lasciarci per unirvi a loro? — domandò il capitano Hod. — Niente affatto, — rispose Kâlagani. L'indù non si era ingannato. Mezz'ora dopo, il Gigante d'Acciaio, per potente che fosse, era costretto a fermarsi davanti a una muraglia di ruminanti. Ma non ci fu ragione di rimpiangere quel ritardo. Lo spettacolo che si offriva ai nostri occhi valeva la pena di essere osservato. Un gregge, che comprendeva almeno quattro o cinquemila buoi ingombrava la strada verso sud, per uno spazio di molti chilometri. Come aveva annunciato Kâlagani, quel convoglio di ruminanti apparteneva a una carovana di Banjari. — I Banjari, — ci disse Banks — sono i veri zingari dell'Indostan. Popolo più che tribù, senza fissa dimora, d'estate vivono sotto una tenda, d'inverno in una capanna. Sono i facchini della penisola, e li ho visti all'opera durante l'insurrezione del 1857. Per una specie di tacita convenzione fra i belligeranti, si lasciava che i loro convogli attraversassero le province turbate dalla ribellione. Erano, infatti, gli approvvigionatori del paese, e nutrivano tanto l'esercito reale quanto l'indigeno. Se fosse assolutamente necessario assegnare una patria nell'India a questi nomadi, sarebbe il Raputana, e più particolarmente forse il regno di Milwar. Ma poiché ci passeranno davanti, caro Maucler, vi consiglio d'esaminare attentamente questi Banjari. Il nostro treno si era prudentemente tirato su uno dei lati della grande strada. Non avrebbe potuto resistere a quella valanga di animali cornuti, davanti alla quale le stesse belve non esitano a svignarsela. Come mi aveva raccomandato Banks, osservai attentamente quel lungo corteo; ma, prima di tutto, devo notare che la Steam-House non parve produrre il suo solito effetto. Il Gigante d'Acciaio, tanto solito a provocare l'ammirazione generale, attirò appena l'attenzione di quei Banjari, abituati senza dubbio a non stupirsi di nulla. Uomini e donne di quella razza zingaresca erano meravigliosi; gli uni alti, vigorosi, con lineamenti fini, naso aquilino, capelli ricciuti, colore della pelle di un bronzo in cui il rame rosso dominava lo stagno, vestiti della lunga tunica e del turbante, armati di lancia, di scudo, di rotella e della grande spada che si porta a tracollarle altre alte di statura, ben proporzionate, fiere come gli uomini del loro clan, con il busto serrato in un corsetto, la parte inferiore del corpo perduta sotto le pieghe di una larga gonnella, il tutto avvolto, dalla testa ai piedi, in un elegante drappeggio, con gioielli agli orecchi, collane al collo, braccialetti alle braccia, anelli alle caviglie, d'oro, d'avorio, di conchiglie. Accanto a tutti quegli uomini, donne, vecchi, fanciulli, camminavano con passo tranquillo migliaia di buoi, senza sella né cavezza, agitando le ghiande rosse o facendo suonare le campanelle che avevano in testa, portando sul dorso un doppio sacco, che contiene il grano o gli altri cereali. Era una tribù intera, partita in carovana, sotto la direzione di un capo eletto, il naik, il cui potere è illimitato per tutta la durata del suo mandato. A lui solo spetta dirigere il convoglio, stabilire le ore di fermata, disporre l'ordine dell'accampamento. In testa camminava un toro di grandi dimensioni, dal portamento superbo, coperto di splendide stoffe, ornato con un grappolo di sonagli e con monili di conchiglie. Domandai a Banks se sapesse quali fossero i compiti di quel magnifico animale. — Kâlagani potrebbe dircelo con certezza — rispose l'ingegnere. — Dov'è? Venne chiamato Kâlagani, ma non comparve. Lo si cercò, ma non era più alla Steam-House. — È andato senza dubbio a rinnovare conoscenza con qualcuno dei suoi vecchi compagni — disse il colonnello Munro, — ma ci raggiungerà prima della partenza. Nulla di più naturale. Perciò non c'era da preoccuparsi dell'assenza momentanea dell'indù; eppure, dentro di me, quell'assenza mi turbò. — Ebbene — disse allora Banks — se non mi sbaglio, quel toro, nelle carovane di Banjari, rappresenta la loro divinità. Dove va lui, lo si segue; quando si ferma, si pone il campo, ma credo che ubbidisca segretamente agli ordini del naik. Insomma tutta la religione di questi nomadi si riassume in lui. Non fu che due ore dopo l'inizio della sfilata, che cominciammo a vedere la fine di quell'interminabile corteo. Cercavo Kâlagani nella retroguardia, quando egli comparve, accompagnato da un indù che non apparteneva al tipo Banjari. Senza dubbio era uno di quegli indigeni che affittano temporaneamente i propri servigi alle carovane, come aveva fatto molte volte Kâlagani. Entrambi discorrevano freddamente, si potrebbe dire a mezza bocca. Di chi o di che cosa parlavano? Probabilmente del paese che aveva attraversato la tribù, paese nel quale dovevamo inoltrarci sotto la direzione della nostra nuova guida. Quell'indigeno, che era rimasto in coda alla carovana, si arrestò un istante passando davanti alla Steam-House. Osservò con interesse il treno preceduto dall'elefante artificiale, e mi parve che guardasse più particolarmente il colonnello Munro, ma non ci rivolse la parola. Poi, facendo un cenno d'addio a Kâlagani, raggiunse la colonna e in breve scomparve in una nuvola di polvere. Quando Kâlagani fu tornato presso di noi, si rivolse al colonnello Munro, senza aspettare di essere interrogato: — Uno dei miei vecchi compagni, che è da due mesi al servizio della carovana, — si limitò a dire. Fu tutto. Kâlagani riprese il suo posto nel nostro treno, e poco dopo la Steam-House correva sulla strada, che portava le larghe impronte degli zoccoli di quelle migliaia di buoi. Il giorno seguente, 24 settembre, il treno si fermava per passare la notte cinque o sei chilometri a est di Ourtcha, sulla riva sinistra del Betwa, uno dei principali affluenti del Jumna. Su Ourtcha, niente da dire né da vedere. È l'antica capitale del Bundelkund, una città che fu fiorente nella prima metà del XVII secolo. Ma i mongoli da una parte, i maharatti dall'altra, le inflissero terribili colpi, dai quali non riuscì più a risollevarsi. E ora, una delle grandi città dell'India centrale non è più che un villaggio che raccoglie miseramente poche centinaia di contadini. Ho detto che eravamo venuti ad accamparci sulle sponde del Betwa. È più giusto dire che il treno si fermò a una certa distanza dalla sua sponda sinistra. Infatti questo importante corso d'acqua, in piena, era allora straripato dal suo letto e ricopriva largamente i suoi argini. Da ciò qualche difficoltà, forse, per effettuare il nostro passaggio. Avremmo però esaminato la cosa il giorno dopo; la notte era già troppo buia per permettere a Banks di decidere. Ne derivò dunque che, subito dopo la siesta della sera, ognuno di noi si ritirò nella propria cabina e andò a riposarsi. A meno di circostanze particolari, non facevamo mai sorvegliare l'accampamento durante la notte. A che scopo? Si potevano forse rubare le nostre case ambulanti? No! Si poteva forse rubare il nostro elefante? Nemmeno; si sarebbe difeso soltanto con il suo peso. Quanto alla possibilità di un attacco da parte di qualcuno di quei briganti che battono queste province, sarebbe stata proprio inverosimile. D'altra parte, se nessuno dei nostri uomini montava la guardia durante la notte, i due cani, Phann e Black, erano là, e ci avrebbero avvertiti di qualsiasi avvicinarsi sospetto. È precisamente ciò che accadde durante quella notte. Verso le due del mattino, dei latrati ci svegliarono. Mi alzai subito e trovai i miei compagni in piedi. — Che cosa c'è? — domandò il colonnello Munro. — I cani abbaiano — rispose Banks — e certamente non lo fanno senza ragione. — Sarà qualche pantera che avrà ringhiato nelle macchie vicine! — disse il capitano Hod. — Scendiamo, esploriamo il limite del bosco, e, per precauzione, prendiamo i fucili. Il sergente Mac Neil, Kâlagani, Goûmi, erano già davanti all'accampamento, ascoltando, discutendo, cercando di rendersi conto di quanto accadeva nell'oscurità. Noi li raggiungemmo. — Ebbene — disse il capitano Hod — avremo forse a che fare con due o tre belve venute a bere sull'argine? — Kâlagani non lo crede — rispose Mac Neil. — Che cosa c'è allora, secondo voi? — domandò il colonnello Munro all'indù, che ci aveva raggiunto. — Non so, colonnello Munro — rispose Kâlagani — ma non si tratta né di tigri né di pantere, e nemmeno di sciacalli. Credo di intravedere sotto gli alberi una massa confusa... — Lo sapremo bene! — esclamò il capitano Hod, pensando sempre alla cinquantesima tigre che gli mancava. — Aspettate, Hod — gli disse Banks. — Nel Bundelkund, è sempre meglio diffidare dei banditi di strade maestre. — Siamo in parecchi, e ben armati! — rispose il capitano Hod. — Voglio chiarire la cosa! — Va bene! — disse Banks. I due cani abbaiavano sempre, ma senza manifestare alcun sintomo di quella collera che l'avvicinarsi di animali feroci avrebbe immancabilmente provocato. — Munro, — disse allora Banks — resta all'accampamento con Mac Neil e gli altri. Intanto, Hod, Maucler, Kâlagani e io, andremo in ricognizione. — Venite? — gridò il capitano Hod, che nello stesso tempo fece segno a Fox d'accompagnarlo. Phann e Black, già sotto i primi alberi, mostravano la via. Non rimaneva che seguirli. Appena fummo nel bosco si udì un rumore di passi. Evidentemente un drappello numeroso era in perlustrazione ai confini del nostro accampamento. Si intravedevano alcune ombre silenziose che fuggivano attraverso le macchie. I due cani, correndo, abbaiando, andavano e venivano alcuni passi più avanti. — Chi va là? — gridò il capitano Hod. Nessuna risposta. — O quella gente non vuol rispondere — disse Banks — o non capisce l'inglese. — Ebbene, capiscono l'indiano — risposi io. — Kâlagani — disse Banks — gridate in indiano, che se non rispondono, facciamo fuoco. Kâlagani, usando il dialetto proprio degli indigeni dell'India centrale, diede ordine ai vagabondi di farsi avanti. Stesso silenzio della volta precedente. Allora si udì una fucilata. L'impaziente capitano Hod aveva sparato a casaccio su un'ombra che fuggiva fra gli alberi. Una confusa agitazione seguì la detonazione della carabina; ci parve che tutta una banda di persone si disperdesse a destra e a sinistra. La cosa fu anzi certa, quando Phann e Black, che si erano lanciati avanti, tornarono tranquillamente senza dare più alcun segno di inquietudine. — Chiunque siano, vagabondi o ladri, — disse il capitano Hod, — quella gente se l'è svignata in fretta! — Evidentemente, — rispose Banks, — e non ci resta più che ritornare alla Steam-House. Ma, per precauzione, si veglierà fino all'alba. Alcuni istanti dopo avevamo raggiunto i nostri compagni. Mac Neil, Goûmi, Fox, si accordarono per avvicendarsi alla guardia dell'accampamento, mentre noi ritornavamo alle nostre cabine. La notte terminò senza turbamenti. Si poteva dunque pensare che, vedendo la Steam-House ben difesa, i visitatori avessero rinunciato a prolungare la loro visita. Il giorno seguente, 25 settembre, mentre si facevano i preparativi per la partenza, il colonnello Munro, il capitano Hod, Mac Neil, Kâlagani ed io, volemmo esplorare un'ultima volta il limitare della foresta. Della banda che vi si era avventurata durante la notte, non rimaneva alcuna traccia. Ad ogni modo, non c'era nessuna necessità di preoccuparsene. Quando fummo di ritorno, Banks si preparò per effettuare il passaggio del Betwa. Questo fiume, che era abbondantemente straripato, stendeva le sue acque giallastre molto più in là degli argini. La corrente si spostava con gran rapidità, ed il Gigante d'Acciaio avrebbe dovuto prenderla frontalmente per non essere trascinato troppo a valle. L'ingegnere si era occupato prima di tutto di trovare il luogo più favorevole allo sbarco; con il cannocchiale davanti agli occhi, cercava di scoprire il punto in cui sarebbe stato meglio raggiungere la riva destra. Il letto del Betwa si svolgeva, in questa parte del suo corso, per una larghezza di circa un miglio. Sarebbe stato dunque il più lungo tragitto nautico che il treno galleggiante avrebbe dovuto fare fino allora. — Ma, — domandai, — come fanno i viaggiatori o i mercanti, quando si trovano bloccati davanti ai corsi d'acqua da piene di questo genere? Mi sembra difficile che dei traghetti possano resistere a correnti che assomigliano a rapide. — Ebbene, — rispose il capitano Hod, — niente di più semplice: non passano! — Sì, — rispose Banks, — passano, quando hanno degli elefanti a loro disposizione. — Come! degli elefanti possono superare simili distanze a nuoto? — Senza dubbio, ed ecco come si fa, — rispose l'ingegnere. — Tutti i bagagli vengono messi sul dorso di questi... — Proboscidati!... — disse il capitano Hod, ricordando il suo amico Mathias Van Guitt. — E i mahout li costringono ad entrare nella corrente, — soggiunse Banks. — All'inizio l'animale esita, indietreggia, barrisce; ma, decidendosi presto, entra nel fiume, si mette a nuotare e attraversa coraggiosamente il corso d'acqua. Alcuni, ne convengo, sono a volte trascinati e spariscono tra le rapide, ma è piuttosto raro, quando sono diretti da un'abile guida. — Benissimo! — disse il capitano Hod, — se non abbiamo degli elefanti, ne abbiamo uno... — E ci basterà, — rispose Banks. — Non assomiglia forse a quell'Oructor Amphibolis dell'americano Evans, che, fin dal 1804, camminava sulla terra e nuotava nell'acqua? Ognuno riprese il suo posto nel treno, Kalôuth al forno, Storr nella torretta, Banks accanto a lui, con funzioni di timoniere. Bisognava attraversare una cinquantina di piedi di argine inondato prima di raggiungere i primi strati della corrente. Il Gigante d'Acciaio si mosse adagio e si mise in cammino. Le sue larghe zampe si bagnarono, ma esso non galleggiava ancora; il passaggio dal terreno solido alla superficie liquida doveva essere fatto con precauzione. Ad un tratto, il rumore dell'agitazione che si era prodotta durante la notte si propagò fino a noi. Un centinaio di individui erano usciti dal bosco gesticolando e facendo delle smorfie. — Per mille diavoli! Erano scimmie! — esclamò il capitano Hod ridendo di cuore. Ed infatti, tutto un intero gruppo di questi rappresentanti dei quadrumani avanzava compatto verso la Steam-House. — Che cosa vogliono? — domandò Mac Neil. — Assalirci, senza dubbio! — rispose il capitano Hod, sempre pronto alla difesa. — No! non c'è nulla da temere, — rispose Kâlagani, che aveva avuto tempo di osservare la banda di scimmie. — Ma che cosa vogliono dunque? — domandò una seconda volta il sergente Mac Neil. — Passare il fiume in nostra compagnia e niente altro! — rispose l'indù. Kâlagani non si sbagliava. Non avevamo a che fare con dei gibboni dalle lunghe braccia villose, importuni e insolenti, né con dei «membri della aristocratica famiglia» che abita il palazzo di Bénares. Erano scimmie della specie dei languri, le più grandi della penisola, agili quadrumani, dalla pelle nera, con il muso senza peli circondato da un collare di basette bianche che dà loro l'aspetto di vecchi avvocati. In fatto di pose bizzarre e di gesti esagerati, avrebbero dato delle lezioni allo stesso Mathias Van Guitt. La loro pelliccia morbida era grigia sul dorso, bianca sul ventre, e portavano la coda all'insù. Allora seppi che questi languri sono animali sacri in tutta l'India. Una leggenda dice che essi discendono da quei guerrieri del Rama che conquistarono l'isola di Ceylon. Ad Amber, occupano un palazzo, il Zenanah, di cui fanno amichevolmente gli onori ai turisti. È espressamente vietato ucciderli, e la trasgressione di questa legge è già costata la vita a molti ufficiali inglesi. Queste scimmie, d'indole piuttosto mite, facilmente addomesticabili, sono pericolosissime quando vengono assalite, e se sono solo ferite, il signor Louis Rousselet ha potuto dire giustamente che diventano terribili come le iene o le pantere. Ma non si trattava di attaccare quei languri, ed il capitano Hod mise il suo fucile in riposo. Kâlagani aveva dunque ragione di pretendere che tutta quella banda, non osando affrontare la corrente di quelle acque straripate, voleva approfittare del nostro treno galleggiante per passare il Betwa? Era possibile, e l'avremmo visto. Il Gigante d'Acciaio che aveva attraversato l'argine, era giunto al letto del fiume. Ben presto tutto il treno vi galleggiava con lui. Un gomito della riva produceva in quel luogo una specie di gorgo di acque stagnanti, e, dapprima, la Steam-House rimase quasi immobile. La banda di scimmie, si era avvicinata e sguazzava già nell'acqua poco profonda che copriva la scarpata dell'argine. Non fecero nessuna dimostrazione ostile, ma ad un tratto eccoli, maschi, femmine, vecchi e giovani, sgambettare, prendersi per mano e finalmente balzare fino sul treno che sembrava aspettarli. In pochi secondi ce ne furono dieci sul Gigante d'Acciaio, trenta sopra ciascuna delle case, in tutto un centinaio, allegre, amichevoli, si potrebbe quasi dire ciarliere, almeno fra di loro, e felicitandosi senza dubbio di aver incontrato così opportunamente un mezzo navigante che permettesse loro di continuare il viaggio. Il Gigante d'Acciaio entrò subito nella corrente, e volgendosi a monte, la risalì. Banks aveva potuto temere per un istante che il treno fosse troppo pesante con quel carico extra di passeggeri, ma non fu così. Quelle scimmie si erano suddivise in modo molto intelligente; ce n'erano sulla groppa, sulla torretta, sul collo dell'elefante, perfino all'estremità della proboscide, e non si spaventavano minimamente per i getti di vapore. Ce n'erano sui tetti arrotondati delle nostre pagode, le une accoccolate, le altre ritte, queste piantate sulle zampe, quelle appese per la coda, fin sotto la veranda dei balconi. Ma la Steam-House si manteneva sulla sua linea di galleggiamento e grazie alla felice disposizione dei suoi serbatoi d'aria, non c'era nulla da temere da quell'eccesso di peso. Il capitano Hod e Fox erano meravigliati, soprattutto l'attendente. Poco mancò che non facesse gli onori della Steam-House a quella frotta smorfiosa e disinvolta. Egli parlava ai languri, stringeva loro la mano, li salutava col cappello; avrebbe esaurito volentieri tutti i dolciumi della dispensa, se il signor Parazard, offeso di trovarsi in una simile compagnia, non vi avesse posto rimedio. Frattanto il Gigante d'Acciaio lavorava duramente con le quattro zampe che battevano l'acqua e fungevano da larghe pagaie. Pur derivando, seguiva la linea obliqua che ci doveva condurre al punto d'approdo. Mezz'ora dopo lo aveva raggiunto; ma appena si fu accostato alla riva tutta la banda di quei clown a quattro mani saltò sull'argine e scomparve sgambettando. — Avrebbero ben potuto dire grazie! — esclamò Fox, scontento del comportamento di quei compagni di traversata. Una risata gli rispose. Era tutto ciò che meritava l'osservazione dell'attendente. CAPITOLO VIII HOD CONTRO BANKS IL BETWA era stato passato. Cento chilometri ci separavano ormai dalla stazione di Etawah. Passarono quattro giorni senza incidenti, nemmeno incidenti di caccia. Le belve erano poco numerose in quella parte del regno di Scindia. — Decisamente, — ripeteva il capitano Hod, non senza un certo dispetto, — giungerò a Bombay senza aver ucciso la mia cinquantesima! Kâlagani ci guidava con meravigliosa sagacia attraverso la parte meno popolata del territorio di cui egli conosceva bene la topografia e, il 29 settembre, il treno cominciava a salire il versante settentrionale dei Vindhya, per varcarli al colle di Sirgur. Finora la nostra traversata del Bundelkund si era effettuata senza fastidi. Eppure, questo paese è uno dei più sospetti dell'India; i malfattori vi cercano volentieri rifugio. I predoni di strada non vi mancano. È là che i Dacoit si dedicano in modo particolare al loro doppio mestiere di avvelenatori e di ladri. È dunque prudente starsene molto seriamente sul chi vive quando si attraversa questo territorio. La parte peggiore del Bundelkund è precisamente quella regione montagnosa dei Vindhya nella quale la Steam-House stava per entrare. Il tragitto non era lungo, cento chilometri al massimo, fino a Jubbulpore, la stazione più vicina della ferrovia Bombay-Allahabad. Ma non bisognava calcolare di poter procedere rapidamente e facilmente come avevamo fatto attraverso le pianure dello Scindia. Pendii molto ripidi, strade mal tracciate, terreno roccioso, svolte brusche, strozzature di certi punti del percorso, tutto doveva concorrere a ridurre la media della nostra velocità. Banks non credeva di poter ottenere più di quindici o venti chilometri nelle dieci ore di cui si componevano le nostre giornate di cammino. Aggiungo che, giorno e notte, bisognava aver cura di sorvegliare attentamente i dintorni delle strade e degli accampamenti. Kâlagani era stato il primo a darci questi consigli. Non già che non fossimo in forza e ben armati; il nostro piccolo drappello, con le sue due case e la torretta, vera casamatta che il Gigante d'Acciaio portava sul dorso, offriva una certa «superficie di resistenza», per usare un'espressione di moda. Dei briganti, Dacoit o altri, fossero anche stati dei Thug (se pure ne rimanevano ancora in quella parte selvaggia del Bundelkund) avrebbero senza dubbio esitato ad assalirci. Ma la prudenza non è mai troppa, ed era meglio essere pronti ad ogni eventualità. Durante le prime ore di quella giornata, giungemmo al colle di Sirgur, e il treno incominciò a risalirlo senza troppa fatica. Talvolta, risalendo delle gole piuttosto ardue, si dovette forzare il tiraggio; ma il Gigante d'Acciaio sotto la mano di Storr, impiegava istantaneamente la potenza necessaria, e molte volte furono superate certe pendenze di dodici o quindici centimetri al metro. Quanto agli errori di itinerario, non sembrava che si dovessero temere. Kâlagani conosceva perfettamente quei passi sinuosi della regione dei Vindhya, e in particolare il colle di Sirgur, così non esitava mai, anche quando diverse strade venivano a immettersi in qualche crocicchio perduto fra le alte rupi, in fondo a gole strette, in mezzo a quelle fitte foreste d'alberi alpestri che limitavano la portata dello sguardo a due o tre centinaia di passi. Se talvolta ci lasciava, o andava avanti, ora solo, ora accompagnato da Banks, da me o da un altro qualunque dei nostri compagni, era per riconoscere, non la strada, ma il suo stato di viabilità. Infatti, le piogge, durante la stagione umida che era appena finita, avevano deteriorato le massicciate, fatto franare il suolo, circostanze di cui bisognava tener conto, prima di procedere su delle strade dove non sarebbe stato facile fare retromarcia. Dal punto di vista puro e semplice della locomozione, tutto andava dunque benissimo. La pioggia era cessata del tutto; il cielo, semivelato da leggere nebbie che temperavano i raggi solari, non minacciava nessuno di quegli uragani di cui si teme la violenza nella regione centrale della penisola. Il caldo, senza essere intenso, non mancava però di tormentarci un po' durante alcune ore del giorno; ma, in complesso, la temperatura si manteneva ad un livello medio, sopportabilissimo per dei viaggiatori perfettamente chiusi e coperti. La selvaggina minuta non mancava, e i nostri cacciatori provvedevano ai bisogni della mensa senza allontanarsi più del necessario dalla Steam-House. Soltanto il capitano Hod, e anche Fox senza dubbio, potevano rimpiangere l'assenza di quelle belve che abbondavano nel Tarryani. Ma dovevano forse aspettarsi d'incontrare leoni, tigri, pantere, là dove mancavano i ruminanti necessari al loro nutrimento? Pure, se questi carnivori mancavano alla fauna dei Vindhya, si presentò per noi un'occasione di fare una conoscenza più ampia con gli elefanti indiani, voglio dire gli elefanti selvaggi, di cui non avevamo visto finora che rari esemplari. Fu nella giornata del 30 settembre verso mezzogiorno, che una coppia di questi superbi animali fu segnalata davanti al treno. Al nostro avvicinarsi, si gettarono sui lati della strada, per lasciar passare quell'equipaggio, nuovo per loro, che senza dubbio li spaventava. A che pro ucciderli senza necessità per pura soddisfazione di cacciatori? Il capitano Hod non ci pensò neppure. Egli si accontentò di ammirare quei magnifici animali in piena libertà, che percorrevano quelle gole deserte, dove ruscelli, torrenti e pascoli dovevano bastare a tutti i loro bisogni. — Sarebbe una bell'occasione — disse — per il nostro amico Van Guitt di farci un corso di zoologia pratica! Si sa che l'India è, per eccellenza, il paese degli elefanti. Questi pachidermi appartengono tutti alla stessa specie, che è un po' più piccola di quella degli elefanti africani, tanto quelli che percorrono le diverse province della penisola, quanto quelli di cui si vanno a cercare le tracce nella Birmania, nel regno del Siam e fino in tutti i territori posti a est del golfo del Bengala. Come si catturano? Per lo più in un kiddah, recinto circondato da palizzate. Quando si tratta di catturare un intero gruppo, i cacciatori, in numero di tre o quattrocento, sotto la guida particolare di un djamadar o sergente indigeno, li spingono a poco a poco nel kiddah, ve li chiudono, li separano gli uni dagli altri con l'aiuto di elefanti domestici addestrati a questo scopo, li impastoiano alle zampe posteriori, e tutto è fatto. Ma questo metodo, che esige del tempo ed un certo impiego di forze, è per lo più inefficace quando ci si vuole impadronire dei grossi maschi. Questi infatti sono animali più astuti, e abbastanza intelligenti per forzare il cerchio dei battitori, e sanno sfuggire l'imprigionamento nel kiddah. Allora, alcune femmine addomesticate vengono incaricate di seguire questi maschi per alcuni giorni. Esse portano sul dorso i loro mahout, avvolti in coperte di colore scuro, e quando gli elefanti, che non sospettano nulla, si abbandonano tranquillamente alle dolcezze del sonno, vengono afferrati, incatenati, trascinati via senza neppur aver avuto il tempo di raccapezzarsi. Una volta, ho già avuto occasione di dirlo, gli elefanti si catturavano per mezzo di fosse, in mezzo alle loro piste, e profonde una quindicina di piedi; ma nella caduta l'animale si feriva o si uccideva, ed ormai si è rinunciato quasi generalmente a questo metodo barbaro. Infine nel Bengala e nel Nepal si adopera ancora il lasso. È una vera caccia, con vicende interessanti. Elefanti ben addestrati vengono montati da tre uomini. Sul collo, un mahout, che li guida; sui quarti posteriori un pungolatore che li incita con una mazza o con l'uncino; sul dorso l'indù incaricato di gettare il lasso munito del suo nodo scorsoio. Così equipaggiati questi pachidermi inseguono l'elefante selvaggio, talvolta per delle ore, in mezzo alle pianure, attraverso le foreste, spesso con gran danno di quelli che li montano, e finalmente l'animale preso con il lasso cade pesantemente al suolo alla mercé dei cacciatori. Con questi vari metodi si catturano annualmente in India moltissimi elefanti; non è una cattiva speculazione. Una femmina si vende fino a settemila franchi, un maschio fino a ventimila e anche a cinquantamila quando è di razza pura. Ma sono proprio utili questi animali per pagarli tanto? Sì, e a patto di nutrirli adeguatamente (cioè con sei o settecento libbre di foraggio verde ogni diciotto ore, ossia pressappoco quello che possono portare di peso per una tappa media) se ne ottengono dei veri servizi: trasporto di soldati e di approvvigionamenti militari, trasporto dell'artiglieria nei paesi montuosi o nelle jungle inaccessibili ai cavalli, lavori di forza per conto dei privati che li adoperano come animali da tiro. Questi giganti, poderosi e docili, facilmente e presto addomesticabili, grazie a un istinto speciale che li induce all'obbedienza, sono di uso generale nelle diverse province dell'Indostan. Ora, siccome allo stato domestico non si moltiplicano, bisogna dar loro la caccia di continuo per poter soddisfare alle richieste della penisola e dell'estero. Perciò vengono inseguiti, circondati e presi con tutti i mezzi suddetti. Eppure, nonostante il consumo che se ne fa, il loro numero non sembra diminuire, ne rimangono moltissimi nei diversi territori dell'India. E, aggiungo, ne rimangono «troppi», come si vedrà. I due elefanti si erano tirati da parte, come ho detto, in modo da lasciar passare il nostro treno; ma, dietro di lui, avevano ripreso la loro strada interrotta per un momento. Quasi subito altri elefanti apparivano più indietro, e affrettando il passo raggiungevano la coppia che avevamo superato. Un quarto d'ora dopo se ne poteva contare una dozzina. Essi osservavano la Steam-House, ci seguivano tenendosi a una distanza di cinquanta metri al massimo. Non sembravano affatto desiderosi di raggiungerci, ma nemmeno di lasciarci. Ora, ciò riusciva loro tanto più facile, in quanto che, su quelle rampe che aggiravano le principali groppe dei Vindhya, il Gigante d'Acciaio non poteva accelerare il passo. Un elefante, del resto, sa muoversi con una velocità maggiore di quanto si possa credere, velocità che, secondo il signor Sanderson, competentissimo in materia, supera talvolta i venticinque chilometri all'ora. Per quelli che erano là, non c'era nulla di più facile, per conseguenza, sia di raggiungerci sia di sorpassarci. Ma quella non sembrava la loro intenzione, in questo momento almeno. Senza dubbio, quanto volevano era riunirsi in un numero maggiore. Infatti a certe grida emesse come un richiamo dalle loro ampie gole, rispondevano grida di ritardatari che seguivano la stessa strada. Verso l'una del pomeriggio una trentina di elefanti radunati sulla strada camminavano dietro a noi. Erano ormai un intero branco e nulla provava che il loro numero non dovesse crescere ancora. Se un branco di questi pachidermi si compone per lo più di trenta o quaranta individui, che formano una famiglia di parenti più o meno prossimi, non è raro incontrare branchi di un centinaio di questi animali, e i viaggiatori non potrebbero considerare senza una certa inquietudine questa eventualità. Il colonnello Munro, Banks, Hod, il sergente, Kâlagani e io, avevamo preso posto sotto la veranda del secondo vagone, e osservavamo ciò che avveniva dietro di noi. — Il loro numero aumenta ancora, — disse Banks, — e sarà ingrossato senza dubbio da tutti gli elefanti dispersi sul territorio! — Eppure, — feci osservare, — non possono farsi udire oltre una certa distanza. — No, — rispose l'ingegnere, — fiutano, e la finezza del loro odorato è tale, che degli elefanti domestici riconoscono la presenza di elefanti selvatici anche a tre o quattro miglia. — È una vera migrazione, — disse allora il colonnello Munro. — Guardate! Dietro il nostro treno, c'è tutta una mandria, divisa in gruppi di dieci o dodici elefanti, e quei gruppi vengono a prender parte al movimento generale. Bisognerà affrettare il nostro cammino, Banks. — Il Gigante d'Acciaio fa quello che può, Munro, — rispose l'ingegnere. — Siamo a cinque atmosfere di pressione a tiraggio forzato, e la strada è molto ripida! — Ma a che serve affrettarsi? — esclamò il capitano Hod, nel quale questi incidenti suscitavano sempre il buonumore. — Lasciamo che ci accompagnino, queste brave bestie! È un corteo degno del nostro treno! Il paese era deserto, ora non lo è più, ed ecco che camminiamo scortati come rajah in viaggio! — Lasciarli fare, — rispose Banks, — è necessario! Del resto, non vedo come potremmo impedire loro di seguirci. — Ma che cosa temete? — domandò il capitano Hod. — Certo non ignorate che un branco è sempre meno temibile di un elefante solitario! Questi animali sono bravissimi!... Dei montoni, dei grossi montoni con la proboscide, ecco tutto! — Bene! Ecco Hod che si entusiasma! — disse il colonnello Munro. — Ammetto che, se questo branco rimane indietro e mantiene la sua distanza, non abbiamo nulla da temere; ma se gli salta il ticchio di volerci superare su questa stretta strada, ne potrebbe risultare più d'un danno per la Steam-House! — Senza contare, — aggiunsi, — che quando si troveranno, per la prima volta, faccia a faccia col nostro Gigante d'Acciaio, non so bene quale accoglienza gli faranno! — Lo saluteranno, per mille diavoli! — esclamò il capitano Hod. — Lo saluteranno come l'hanno salutato gli elefanti del principe Guru Singh! — Quelli erano elefanti addomesticati, — fece osservare, non senza ragione, il sergente Mac Neil. — Ebbene, — ribatté il capitano Hod, — questi si addomesticheranno, o meglio, davanti al nostro gigante, saranno colpiti da uno stupore che si trasformerà in rispetto! Si vede che il nostro amico non aveva perduto nulla del suo entusiasmo per l'elefante artificiale, «capolavoro della creazione meccanica, creato dalla mano di un ingegnere inglese»! — Del resto, — aggiunse, — questi proboscidati (decisamente questa parola gli stava a cuore), questi proboscidati sono intelligentissimi, ragionano, giudicano, paragonano, associano le idee, danno prova di un'intelligenza quasi umana! — La cosa è contestabile, — rispose Banks. — Come, contestabile! — esclamò il capitano Hod. — Ma bisognerebbe non aver vissuto in India per parlare così! Forse che questi bravi animali non vengono usati per tutte le utilizzazioni domestiche? Vi è forse un servitore bipede implume che possa eguagliarli? Forse che, nella casa del suo padrone, l'elefante non è pronto a far di tutto? Ma non sapete, Maucler, che cosa ne dicono gli autori che lo hanno conosciuto bene? Secondo loro, l'elefante è cortese con quelli che ama, li allevia dei loro carichi, va a cogliere per loro fiori o frutti, va a fare la questua per la comunità, come fanno gli elefanti della celebre pagoda di Willenoor, presso Pondichery, paga nei bazar le canne da zucchero, i banani o i manghi che compera per proprio conto, nel Sunderbund protegge i greggi e l'abitazione del suo padrone contro le belve, pompa l'acqua dalle cisterne, porta a spasso i fanciulli che gli vengono affidati, con maggior cura della migliore delle bambinaie di tutta l'Inghilterra! È umano, riconoscente, perché ha una memoria prodigiosa, non dimentica né i benefici né le ingiustizie! Ecco, amici miei, a questi giganti dell'umanità, si, dico dell'umanità, non si farebbe schiacciare un insetto innocuo! Un amico mio, queste sono cose che non si possono dimenticare, ha visto collocare un insetto sopra un sasso, e ordinare ad un elefante addomesticato di schiacciarlo! Ebbene, quel buonissimo pachiderma sollevava la zampa tutte le volte che passava sul sasso, e non vi furono né ordini né colpi che potessero indurlo a posarla sull'insetto! Al contrario, se gli si comandava di portarlo, lo prendeva delicatamente con quella specie di mano meravigliosa che ha all'estremità della proboscide, e gli dava la libertà! E ora, Banks, continuerete a dire che l'elefante non è buono, generoso, superiore a tutti gli altri animali, anche alla scimmia, anche al cane, e non bisogna riconoscere che gli indù hanno ragione quando gli accordano quasi altrettanta intelligenza dell'uomo? E il capitano Hod, per concludere la sua tirata, non trovò nulla di meglio che togliersi il cappello per salutare il preoccupante branco che ci seguiva a passi misurati. — Ben detto, capitano Hod! — rispose il colonnello Munro sorridendo. — Gli elefanti hanno in voi un acceso difensore! — Ma non ho forse decisamente ragione, colonnello? — domandò il capitano Hod. — È possibile che il capitano Hod abbia ragione — rispose Banks, — ma credo di aver ragione anch'io col Sanderson, un cacciatore d'elefanti, che è diventato maestro in tutto ciò che riguarda questi animali. — E che cosa dice dunque il vostro Sanderson? — esclamò il capitano in tono un po' sprezzante. — Pretende che l'elefante non ha che una media d'intelligenza comunissima, che gli atti più stupefacenti che si vedono compiere da questi animali non risultano che da un'obbedienza abbastanza servile agli ordini che vengono loro dati più o meno segretamente dai loro cornac. — Questa poi! — disse il capitano Hod, che si accalorava. — Infatti, egli osserva, — continuò Banks, — che gli indù non hanno mai scelto l'elefante come simbolo di intelligenza, per le loro sculture e per i loro disegni sacri, e che hanno accordato la preferenza alla volpe, al corvo e alla scimmia! — Protesto! — esclamò il capitano Hod, il cui braccio, gesticolando, prendeva il movimento rotatorio d'una tromba. — Protestate, capitano, ma ascoltate! — soggiunse Banks. — Sanderson aggiunge che quanto distingue in modo particolare l'elefante, è che esso ha in maggior grado la protuberanza dell'obbedienza, che deve formare una bella gobba sul suo cranio! Osserva pure che l'elefante si lascia catturare in trappole infantili (usa proprio questo termine), come le fosse coperte di rami, e che non fa nessuno sforzo per uscirne! Nota che si lascia chiudere in certi recinti in cui sarebbe impossibile spingere altri animali selvatici! Infine osserva che gli elefanti prigionieri che riescono a svignarsela si fanno riprendere con una facilità che non fa onore al loro buon senso! L'esperienza non insegna loro nemmeno ad essere prudenti! — Povere bestie! — ribatté il capitano Hod, in tono comico, — come vi maltratta questo ingegnere! — Aggiungo infine, ed è un ulteriore argomento in favore della mia tesi, — soggiunse Banks — che gli elefanti resistono spesso ad ogni tentativo di addomesticamento, in mancanza di un'intelligenza sufficiente ed è spesso difficilissimo assoggettarli, soprattutto quando sono giovani o quando appartengono al sesso debole! — È una somiglianza in più con gli esseri umani! — rispose il capitano Hod. — Forse che gli uomini non sono più facili da menare per il naso che non i fanciulli e le donne? — Capitano — rispose Banks — siamo tutti e due troppo celibi per essere competenti in materia! — Ben risposto! — Per concludere — aggiunse Banks — dico che non bisogna fidarsi troppo della pretesa bontà dell'elefante, che sarebbe impossibile resistere a un branco di questi giganti, se un motivo qualunque li facesse inferocire, e che preferirei che quelli che ci seguono in questo momento avessero da fare a nord, visto che noi andiamo a sud! — Tanto più, Banks — rispose il colonnello Munro — che mentre tu e Hod discutete, il loro numero cresce in proporzioni preoccupanti! CAPITOLO IX CENTO CONTRO UNO SIR EDWARD Munro non si sbagliava. Una massa di cinquanta o sessanta elefanti camminava ora dietro il nostro treno. Andavano in file serrate, e i primi si erano già avvicinati abbastanza alla SteamHouse, a meno di dieci metri, perché fosse possibile osservarli minutamente. In testa camminava in quel momento uno dei più grossi del branco, sebbene la sua altezza, misurata verticalmente alla spalla, non superasse certo i tre metri. Come ho già detto, è una statura inferiore a quella degli elefanti africani, alcuni dei quali sono alti fino a quattro metri. Le sue zanne, anche esse meno lunghe di quelle dei suoi confratelli africani, non misuravano più di un metro e cinquanta centimetri alla curvatura esterna, e quaranta centimetri misurandole al perno osseo che serve loro di base. Se si trovano nell'isola di Ceylon un certo numero di questi animali privi di tali appendici, armi formidabili di cui si servono abilmente, questi muknas, è il nome che si dà loro, sono piuttosto rari sui territori propriamente detti dell'Indostan. Dietro questo elefante venivano molte femmine, che sono le vere direttrici della carovana. Senza la presenza della Steam-House, esse avrebbero formato l'avanguardia, e quel maschio sarebbe certamente rimasto indietro nelle file dei suoi compagni. Infatti, i maschi non s'intendono affatto della direzione del branco. Essi non hanno l'incarico dei piccini, non possono sapere quando sia necessario fermarsi per i bisogni di questi lattanti, né che tipo di accampamento convenga loro. Sono dunque le femmine che, moralmente, hanno l'autorità domestica e dirigono le grandi migrazioni. Ora, sarebbe stato difficile rispondere alla domanda perché questo branco d'elefanti andava a quel modo, se lo spingeva attraverso le gole dei Vindhya il bisogno di lasciare dei pascoli esausti, la necessità di fuggire la puntura di certe mosche perniciosissime, ovvero il desiderio di seguire il nostro bizzarro equipaggio. Il paese era abbastanza scoperto, e secondo la loro usanza, quando non sono più in regioni boschive, quegli elefanti viaggiavano di pieno giorno. Quando fosse venuta la notte si sarebbero fermati, come saremmo stati costretti a fare anche noi? — Capitano Hod — domandai al nostro amico — ecco che la nostra retroguardia di elefanti aumenta! Persistete a non temere nulla? — Peuh! — disse il capitano Hod. — Perché mai quelle bestie potrebbero farci del male? Non sono mica tigri, vero Fox? — Nemmeno pantere! — rispose l'attendente, associandosi naturalmente alle idee del suo padrone. Ma, a questa risposta, vidi Kâlagani scuotere il capo in atto di disapprovazione. Evidentemente egli non condivideva la perfetta tranquillità dei due cacciatori. — Non sembrate rassicurato, Kâlagani — gli disse Banks, che lo guardava in quel momento. — Non si può affrettare un po' la marcia del treno? — si accontentò di rispondere l'indù. — È difficile — rispose l'ingegnere. — Però, proveremo. E Banks, lasciando la veranda posteriore, ritornò sulla torretta dove stava Storr. Quasi subito i barriti del Gigante d'Acciaio divennero più precipitosi, e la velocità del treno aumentò. Era poco, poiché la strada era dura. Ma quand'anche tale velocità fosse stata raddoppiata, lo stato delle cose non si sarebbe affatto modificato. Il branco d'elefanti avrebbe accelerato il passo, ecco tutto. È appunto quello che fece, e la distanza che lo separava dalla Steam-House non diminuì. Passarono così molte ore, senza nulla di nuovo. Dopo il pranzo, tornammo a prender posto sotto la veranda del secondo vagone. In quel momento, la strada si stendeva dietro a noi in linea retta per due miglia almeno. Perciò lo sguardo non era più limitato da brusche svolte. Quale non fu la nostra serissima preoccupazione nel vedere che il numero degli elefanti era cresciuto ancora da un'ora a questa parte! Se ne contavano non meno di un centinaio. Gli animali camminavano allora in fila doppia o tripla, secondo la larghezza della strada, silenziosamente, tutti addirittura con lo stesso passo, gli uni con la proboscide alzata, gli altri con le zanne in aria. Era come il ribollimento del mare prodotto da grandi ondate di fondo. Nulla rompeva ancora, per stare alla metafora; ma se una tempesta avesse scatenato quella massa in movimento, a quali pericoli saremmo stati esposti? Frattanto a poco a poco scendeva la notte, una notte a cui dovevano mancare la luce della luna e il bagliore delle stelle. Una specie di nebbia correva negli alti strati del cielo. Come aveva detto Banks, quando questa notte fosse stata profonda, non sarebbe stato possibile ostinarsi a seguire quelle difficili strade, sarebbe stato necessario fermarsi. L'ingegnere decise dunque di fare sosta non appena uno slargo della vallata o qualche fondo in una gola meno stretta avesse potuto permettere al branco minaccioso di passare di fianco al treno e di proseguire la sua migrazione verso sud. Ma avrebbe poi fatto così, questo branco, oppure si sarebbe accampato nel luogo in cui ci fossimo fermati noi? Era questo il grosso interrogativo. Fu del resto evidente che, con il cadere della notte, gli elefanti manifestavano una certa apprensione di cui non avevamo notato alcun sintomo durante il giorno. Una specie di muggito, poderoso ma sordo, sfuggì dai loro ampi polmoni. Poi, a quel fracasso inquietante seguì un altro rumore di tipo speciale. — Che rumore è questo? — domandò il colonnello Munro. — È il suono che questi animali producono, — rispose Kâlagani, — quando qualche nemico si trova in loro presenza! — E siamo noi, non possiamo essere che noi, che considerano tali? — domandò Banks. — Lo temo! — rispose l'indù. Quel rumore somigliava allora a un tuono lontano. Ricordava quello che si produce fra le quinte di un teatro facendo vibrare una lamiera sospesa. Sfregando l'estremità della proboscide contro terra, gli elefanti emettevano degli enormi sbuffi d'aria raccolta con una aspirazione prolungata. Da ciò quella sonorità poderosa e profonda che vi serrava il cuore come il brontolio del tuono. Erano le nove di sera. In quel luogo una specie di piccola pianura, quasi circolare, larga circa mezzo miglio, serviva di sbocco alla via che conduceva al lago Puturia, presso il quale Kâlagani aveva pensato di far porre il nostro accampamento. Ma questo lago si trovava ancora a quindici chilometri e bisognava rinunciare a raggiungerlo prima che scendesse la notte. Banks diede dunque il segnale di fermata. Il Gigante d'Acciaio si arrestò, ma non venne staccato. I fuochi non vennero nemmeno spinti in fondo al forno. Storr ricevette l'ordine di stare sempre sotto pressione affinché il treno fosse in grado di partire al primo segnale. Bisognava essere pronti a ogni eventualità. Il colonnello Munro si ritirò nella sua cabina. Quanto a Banks e al capitano Hod, non vollero coricarsi, e io preferii rimanere con loro. Tutto il personale, del resto, era in piedi. Ma che cosa avremmo potuto fare se agli elefanti fosse saltato il ticchio di gettarsi addosso alla Steam-House? Durante la prima ora di veglia, un sordo mormorio continuò a propagarsi intorno all'accampamento. Evidentemente, quelle grandi masse si spiegavano sulla piccola pianura. Volevano forse attraversarla e proseguire il loro cammino verso sud? — Può essere, in fin dei conti, — disse Banks. — Anzi è probabile, — aggiunse il capitano Hod, il cui ottimismo non faceva una piega. Verso le undici circa, il rumore diminuì a poco a poco, e dieci minuti dopo era cessato del tutto. La notte, allora, era perfettamente calma. Il minimo suono sarebbe giunto fino alle nostre orecchie. Non si udiva nulla, tranne il sordo russare del Gigante d'Acciaio nell'ombra; non si vedeva nulla, tranne il fascio di scintille che sfuggiva talvolta dalla sua proboscide. — Ebbene, — disse il capitano Hod, — non avevo forse ragione? Sono partiti, quei bravi elefanti! — Buon viaggio! — risposi. — Partiti! — rispose Banks, scuotendo il capo. — Lo vedremo! — Poi, chiamando il macchinista: — Storr, — disse, — i fanali! — Subito, signor Banks! Venti secondi dopo, due fasci di luce elettrica scaturivano dagli occhi del Gigante d'Acciaio, e mediante un meccanismo automatico, giravano verso tutti i punti dell'orizzonte. Gli elefanti erano là, in gran cerchio, intorno alla Steam-House, immobili come addormentati, e forse addormentati davvero. Quei fari che illuminavano confusamente le loro masse cupe, sembravano animarli di una vita soprannaturale. Per una semplice illusione ottica, i mostri sui quali dardeggiava la luce assumevano proporzioni gigantesche, degne di gareggiare con quelle del Gigante d'Acciaio. Colpiti dai vivi bagliori, si alzavano di colpo come se fossero stati toccati da un pungolo di fuoco. La loro proboscide si protendeva in avanti, le loro zanne si drizzavano. Si sarebbe detto che volessero slanciarsi all'assalto del treno. Rauchi brontolii uscivano dalle loro ampie mascelle. Anzi, ben presto, quell'improvviso furore si comunicò a tutti, e intorno al nostro accampamento si levò un concerto assordante, come se cento tromboni avessero suonato contemporaneamente un appello rimbombante. — Spegni! — gridò Banks. La corrente elettrica fu subito interrotta, e il sabba cessò quasi subito. — Sono là, schierati in cerchio, — disse l'ingegnere, — e saranno ancora là all'alba! — Uhm! — esclamò il capitano Hod, la cui fiducia mi parve un po' scossa. Che decisione prendere? Venne consultato Kâlagani, ed egli non nascose la preoccupazione che provava. Si poteva pensare a lasciare l'accampamento in quella notte buia? Era impossibile. E del resto a che cosa sarebbe servito? Il branco d'elefanti ci avrebbe certamente seguito e le difficoltà sarebbero state maggiori che non durante il giorno. Fu dunque stabilito che la partenza avrebbe avuto luogo solo all'alba. Si sarebbe proceduto con tutta la prudenza e tutta la celerità possibili, ma senza spaventare quel terribile corteo. — E se questi animali si ostinano a seguirci? — domandai. — Cercheremo di giungere in qualche luogo in cui la Steam House possa mettersi al di fuori della loro portata, — rispose Banks. — Troveremo questo luogo prima di uscire dai Vindhya? — fece il capitano Hod. — Ce n'è uno, — rispose l'indù. — Quale? — domandò Banks. — Il lago Puturia. — A che distanza si trova? — A nove miglia circa. — Ma gli elefanti nuotano, — rispose Banks, — e forse meglio di qualsiasi altro quadrupede! Se ne sono visti di quelli che si sono tenuti a galla per più di mezza giornata! Ora non c'è da temere che ci seguano sul lago Puturia, e che la situazione della Steam-House venga peggiorata ulteriormente? — Non vedo altro mezzo per sottrarci al loro assalto! — disse l'indù. — Lo tenteremo dunque! — rispose l'ingegnere. Era, infatti, la sola decisione da prendere. Forse, gli elefanti non avrebbero osato avventurarsi a nuoto in quelle condizioni, e forse avremmo anche potuto batterli in velocità! Aspettammo ansiosamente il giorno, che non tardò a spuntare. Nessuna dimostrazione ostile era stata fatta durante il resto della notte; ma all'alba, non un elefante si era mosso, e la Steam-House era circondata da ogni lato. Sul luogo della sosta, allora, si verificò un movimento generale. Si sarebbe detto che gli elefanti obbedissero a una parola d'ordine. Agitarono la proboscide, sfregarono le zanne contro il suolo, fecero la loro toeletta aspergendosi d'acqua fresca, terminarono di brucare qua e là qualche manciata di un'erba fitta, di cui quel pascolo era abbondantemente fornito, e infine si avvicinarono tanto alla SteamHouse, che sarebbe stato possibile raggiungerli con dei colpi di picca attraverso le finestre. Banks, ciononostante, ci fece l'espressa raccomandazione di non provocarli. L'importante era di non offrire alcun pretesto per un'aggressione improvvisa. Frattanto, qualcuno di quegli elefanti stringeva più da vicino il nostro Gigante d'Acciaio. Evidentemente, volevano sapere che cosa fosse quell'enorme animale, allora immobile. Lo consideravano come uno dei loro confratelli? Sospettavano che vi fosse in lui una potenza meravigliosa? Il giorno prima non avevano avuto occasione di vederlo all'opera, poiché le loro prime file si erano sempre tenute a una certa distanza dietro il treno. Ma che cosa avrebbero fatto quando lo avessero udito barrire, quando la sua proboscide avesse gettato torrenti di vapore, quando lo avessero visto sollevare e abbassare le larghe zampe articolate, mettersi in moto, trascinarsi dietro i due vagoni? Il colonnello Munro, il capitano Hod, Kâlagani e io avevamo preso posto nella parte anteriore del treno. Il sergente Mac Neil e i suoi compagni stavano in quella posteriore. Kâlouth era davanti al forno della caldaia che continuava a caricare di combustibile, benché la pressione del vapore avesse già raggiunto le cinque atmosfere. Banks, nella torretta, vicino a Storr, appoggiava la mano sull'acceleratore. Era venuto il momento di partire. A un cenno di Banks, il macchinista spinse la leva della sirena, e si udì un fischio violento. Gli elefanti rizzarono le orecchie; poi, indietreggiando un po', lasciarono la via libera per alcuni passi. Il fluido fu introdotto nei cilindri, un getto di vapore sgorgò dalla proboscide, le ruote della macchina, messe in movimento, azionarono le zampe del Gigante d'Acciaio, e il treno si mosse. Nessuno dei miei compagni mi contraddirà se affermo che vi fu dapprima un vivace movimento di stupore fra gli animali che si stringevano nelle prime file. Fra di loro si aprì un passaggio più largo e la via parve abbastanza sgombra da permettere d'imprimere alla Steam-House una velocità pari a quella d'un cavallo al piccolo trotto. Ma, subito, tutta la «massa proboscidata», espressione del capitano Hod, si mosse davanti e dietro. I primi gruppi andarono in testa al corteo, gli altri seguirono il treno. Tutti sembravano decisi a non abbandonarlo. Contemporaneamente sui lati della via, più larga in quel punto, altri elefanti ci accompagnarono, come cavalieri agli sportelli di una carrozza. Maschi e femmine si mischiavano; ce n'erano di tutte le dimensioni, di tutte le età, adulti di venticinque anni, «uomini maturi» di sessanta, vecchi pachidermi più che centenari, lattanti presso le loro madri, che con le labbra applicate alle loro mammelle, e non con la proboscide, come si è creduto a volte, poppavano camminando. Tutto il branco conservava un certo ordine, non si affrettava più del necessario, regolava il proprio passo su quello del Gigante d'Acciaio. — Che ci scortino così fino al lago, — disse il colonnello Munro, — vi acconsento... — Sì, — rispose Kâlagani, — ma che cosa accadrà quando la strada si farà più stretta? Là stava il pericolo. Durante le tre ore impiegate per superare dodici dei quindici chilometri che separavano l'accampamento dal lago Puturia, non avvenne nessun incidente. Due o tre volte soltanto, alcuni elefanti si erano portati attraverso la strada, come se avessero avuto intenzione di sbarrarla; ma il Gigante d'Acciaio, con le zanne protese orizzontalmente, mosse loro incontro, sputò loro in faccia il suo vapore, e quelli si fecero da parte per lasciarlo passare. Alle dieci del mattino, rimanevano da percorrere quattro o cinque chilometri per giungere al lago. Là, almeno lo si sperava, saremmo stati relativamente al sicuro. S'intende che, se le dimostrazioni ostili dell'enorme branco non fossero peggiorate prima del nostro arrivo al lago, Banks contava di lasciare il Puturia a ovest, senza fermarvisi, in modo da uscire il giorno seguente dalla regione dei Vindhya. Di là alla stazione di Jubbulpore, non sarebbe più stato che questione di poche ore. Aggiungerò che il paese era non solo molto selvaggio, ma assolutamente deserto. Non un villaggio, non una fattoria (del che era causa l'insufficienza dei pascoli), non una carovana, nemmeno un viaggiatore. Dopo il nostro ingresso in quella parte montagnosa del Bundelkund, non avevamo incontrato anima viva. Verso le undici, la valle seguita dalla Steam-House, fra due poderosi contrafforti della catena, cominciò a restringersi. Come aveva detto Kâlagani, la strada doveva tornare strettissima fino al punto in cui sboccava al lago. La nostra situazione, già molto preoccupante, non poteva dunque che aggravarsi ancora. Infatti, se le file degli elefanti si fossero semplicemente allungate davanti e dietro al treno, le difficoltà non sarebbero cresciute. Ma quelli che camminavano ai lati, non potevano rimanervi; ci avrebbero schiacciati contro le pareti rocciose della strada, oppure sarebbero stati rovesciati nei precipizi che la costeggiavano in molti punti. Per istinto, tentarono dunque di mettersi, sia in testa, sia in coda, e in breve ne risultò che non fu più possibile andare né avanti né indietro. — La cosa si complica, — disse il colonnello Munro. — Sì, — rispose Banks, — ed eccoci nella necessità di sfondare questa massa. — Ebbene, sfondiamo, sfondiamo! — esclamò il capitano Hod. — Che diavolo! Le zanne d'acciaio del nostro gigante valgono bene le zanne di avorio di questi sciocchi animali! I proboscidati non erano più che «sciocchi animali» per il mutevole capitano! — Senza dubbio, — rispose il sergente Mac Neil, — ma siamo uno contro cento! — Avanti ad ogni costo! — esclamò Banks, — oppure tutto questo branco ci passerà sopra!. Il vapore impresse un moto più rapido al Gigante d'Acciaio. Le sue zanne colpirono la groppa di uno degli elefanti che gli stavano davanti. L'animale mandò un grido di dolore, a cui risposero i clamori furenti di tutto il branco. Una lotta, di cui non si poteva prevedere il risultato, era imminente. Avevamo preso le nostre armi, i fucili carichi con proiettili conici, le carabine cariche di proiettili esplosivi, le rivoltelle munite delle cartucce. Bisognava essere pronti a respingere qualsiasi aggressione. Il primo assalto venne da un maschio gigantesco, dall'aspetto truce, che, con le zanne protese, le zampe posteriori saldamente piantate sul suolo, si rivolse contro il Gigante d'Acciaio. — Un gunesh! — esclamò Kâlagani. — Bah! non ha che una zanna sola! — ribatté il capitano Hod, che alzò le spalle in segno di disprezzo. — Appunto per questo è più temibile! — rispose l'indù. Kâlagani aveva dato a quell'elefante il nome di cui i cacciatori si servono per designare i maschi che hanno una zanna sola. Sono animali particolarmente riveriti dagli indù, soprattutto quando la zanna che manca loro è la destra. Questo era uno di quelli, e, come aveva detto Kâlagani, era temibilissimo, come tutti quelli della sua specie. E lo vedemmo bene. Il gunesh emise una lunga nota da trombone, ripiegò la proboscide, di cui gli elefanti non si servono mai per combattere, e si precipitò contro il nostro Gigante d'Acciaio. La sua zanna colpì perpendicolarmente la lamiera del petto, la attraversò da parte a parte; ma incontrando la grossa armatura interna della caldaia, si spezzò di netto all'urto. L'intero treno ne sentì la scossa. Ma la forza acquisita lo trascinò avanti, e esso respinse il gunesh, che, affrontandolo, tentò invano di resistere. Ma il suo appello era stato udito e compreso. Tutta la massa anteriore del branco si arrestò e presentò un insormontabile ostacolo di carne vivente. Contemporaneamente, i gruppi posteriori, continuando la loro marcia, si spinsero violentemente contro la veranda. Come resistere a una simile forza schiacciante? Frattanto, alcuni di quelli che avevamo ai fianchi, con le proboscidi alzate, si aggrappavano ai montanti delle carrozze che scrollavano con violenza. Non bisognava fermarsi, o il treno era perduto, ma bisognava difendersi. L'esitazione non era più possibile. Fucili e carabine furono puntati contro gli assalitori. — Non perdete un colpo! — gridò il capitano Hod. — Amici miei, mirate all'attaccatura della proboscide o nel cavo sotto l'occhio. È il punto migliore! Il capitano Hod fu ubbidito. Si udirono molti spari, che furono seguiti da urla di dolore. Tre o quattro elefanti, colpiti al punto giusto, erano caduti, dietro e ai fianchi, e fu una fortuna, poiché i cadaveri non ostruivano la strada. I primi gruppi avevano indietreggiato un poco, e il treno poté continuare la sua marcia. — Ricaricate e aspettate! — gridò il capitano Hod. Se ciò che egli ordinava di aspettare era l'assalto di tutto il branco in massa, l'attesa non fu lunga. Esso avvenne con un impeto tale che ci credemmo perduti. Un concerto di urla furiose e rauche scoppiò improvvisamente. Si sarebbero detti di quegli elefanti da combattimento che gli indù, con un trattamento particolare, portano a quell'eccitamento di rabbia chiamato musth. Nulla è più tremendo, ed i più audaci elefantadors, addestrati nel Guicowar per lottare contro questi formidabili animali, avrebbero certamente indietreggiato davanti agli assalitori della Steam-House. — Avanti! — gridava Banks. — Fuoco! — gridava Hod. E ai barriti precipitosi della macchina si univano le detonazioni delle armi. Ma in quella massa confusa diventava difficile mirare giusto, come aveva raccomandato il capitano. Ogni pallottola trovava si un pezzo di carne da forare, ma non colpiva mortalmente. Perciò gli elefanti, feriti, raddoppiavano di furore, e alle nostre fucilate rispondevano con dei colpi di zanne che sventravano le pareti della Steam - House. Frattanto, agli spari delle carabine scaricate sia dal davanti sia dal retro del treno, allo scoppio dei proiettili esplosivi nel corpo degli animali, si univano i fischi del vapore, surriscaldato per il tiraggio forzato. La pressione aumentava sempre. Il Gigante d'Acciaio entrava nel mucchio, lo divideva, lo respingeva. Contemporaneamente la sua proboscide mobile, alzandosi ed abbassandosi come una formidabile mazza, picchiava a colpi reiterati sulla massa carnosa che le sue zanne laceravano. E si avanzava per la stretta via. A volte, le ruote slittavano sulla superficie del suolo, ma finivano con il morderla di nuovo con i loro cerchioni rigati, e noi guadagnavamo strada verso il lago. — Hurrah! — gridava il capitano Hod, come un soldato che si getta nel più folto della mischia. — Hurrah! Hurrah! — gridavamo dopo di lui. Ma, quasi subito, una proboscide si abbatte sulla veranda anteriore. Vedo l'attimo in cui il colonnello Munro, sollevato da quel lasso vivente, sta per essere precipitato sotto i piedi degli elefanti. E così sarebbe avvenuto, senza l'intervento di Kâlagani, che tagliò la proboscide con un vigoroso colpo di scure. Dunque, pur prendendo parte alla difesa comune, l'indù non perdeva di vista sir Edward Munro. Con questa devozione alla persona del colonnello, devozione che non si era mai smentita, egli sembrava comprendere che di tutti noi era lui quello che bisognava proteggere prima di tutto. Ah! che potenza conteneva nei suoi fianchi il nostro Gigante d'Acciaio! Con quale sicurezza si cacciava nella massa, come un cuneo, la cui forza di penetrazione è, per così dire, infinita! E siccome nello stesso tempo gli elefanti della retroguardia ci spingevano con la testa, il treno continuava ad avanzare senza soste, se non senza scosse, e procedeva anzi più presto di quanto avessimo potuto sperare. Improvvisamente, in mezzo al fracasso generale, si udì un nuovo rumore. Era la seconda carrozza che un gruppo di elefanti cominciava a schiacciare contro le rupi della strada. — Raggiungeteci! raggiungeteci! — gridò Banks a quelli dei nostri compagni che difendevano la parte posteriore della SteamHouse. Goûmi, il sergente e Fox erano passati precipitosamente dalla seconda carrozza nella prima. — E Parazard? — disse il capitano Hod. — Non vuol lasciare la sua cucina, — rispose Fox. — Portatelo via! portatelo via! Senza dubbio, il nostro cuoco pensava che sarebbe stato un disonore per lui abbandonare il posto che gli era stato affidato. Ma voler resistere alle braccia vigorose di Goûmi, quando quelle braccia si mettevano all'opera, sarebbe stato come pretendere di sfuggire a una tenaglia. Il signor Parazard fu dunque deposto nella sala da pranzo. — Ci siete tutti? — gridò Banks. — Sì, signore, — rispose Goûmi. — Tagliate la barra di aggancio! — Abbandonare metà del treno!... — esclamò il capitano Hod. — È necessario! — rispose Banks. E, tagliata la barra, spezzata la passerella a colpi di scure, la nostra seconda carrozza rimase indietro. Era tempo. La carrozza venne scossa, sollevata, poi rovesciata, e gli elefanti, gettandovisi sopra, finirono di schiacciarla con tutto il loro peso. Essa non era più che un rudere informe, che ormai ostruiva la strada retrostante. — Mah! — disse il capitano Hod con un tono che ci avrebbe fatto ridere se il momento fosse stato opportuno, — e dire che questi animali non schiaccerebbero nemmeno un insetto! Se gli elefanti, infuriati, avessero trattato la prima carrozza come avevano trattato la seconda, non c'era più da farsi illusioni sulla sorte che ci aspettava. — Forza i fuochi, Kâlouth! — gridò l'ingegnere. Mezzo chilometro ancora, un ultimo sforzo, e forse saremmo giunti al lago Puturia! Quest'ultimo sforzo che ci aspettavamo dal Gigante d'Acciaio, il poderoso animale lo fece sotto la mano di Storr, che azionò fino in fondo l'acceleratore. Fece una vera breccia attraverso quel bastione di elefanti, le cui groppe si disegnavano sopra la massa come quelle enormi groppe di cavalli che si vedono nei quadri di battaglia di Salvator Rosa. Poi, egli non si accontentò di tormentarli con le sue zanne; lanciò contro di loro dei getti di vapore ardente, come aveva fatto con i pellegrini del Phalgu, li sferzò con altri getti d'acqua bollente!... Era magnifico! Finalmente il lago apparve all'ultima svolta della strada. Se avesse potuto resistere ancora dieci minuti, il nostro treno si sarebbe trovato relativamente al sicuro. Gli elefanti, senza dubbio, lo capirono, il che era una prova in favore della loro intelligenza, di cui il capitano Hod aveva difeso la causa. Ancora una volta vollero rovesciare la nostra carrozza. Ma le armi da fuoco tuonarono di nuovo, i proiettili grandinarono fino sui primi gruppi. Solo cinque o sei elefanti ci sbarravano ancora il passaggio. Caddero quasi tutti, e le ruote stridettero su un terreno arrossato di sangue. A cento passi dal lago, bisognò respingere quei pochi animali che formavano un ultimo ostacolo. — Ancora! ancora! — gridò Banks al macchinista. Il Gigante d'Acciaio ruggiva come se avesse contenuto un'officina di aspatrici meccaniche nei suoi fianchi. Il vapore sfuggiva dalle valvole a una pressione di otto atmosfere. Per poco che le si fossero caricate ancora, si sarebbe fatta scoppiare la caldaia, le cui lamiere fremevano. Fu inutile, fortunatamente. La forza del Gigante d'Acciaio era ormai irresistibile; si sarebbe potuto credere che spiccasse dei balzi sotto i colpi di stantuffo. Ciò che rimaneva del treno lo seguì, schiacciando le membra degli elefanti buttati a terra, a rischio di capovolgersi. Se fosse avvenuto un accidente simile, tutti gli ospiti della Steam-House sarebbero stati spacciati. Ma non accadde; la riva del lago fu finalmente raggiunta, e il treno galleggiò poco dopo sulle acque tranquille. — Dio sia lodato! — disse il colonnello Munro. Due o tre elefanti, accecati dal furore, si precipitarono nel lago e tentarono di inseguire sulla sua superficie coloro che non avevano potuto annientare sulla terraferma. Ma le zampe del Gigante d'Acciaio fecero il loro dovere. Il treno si allontanò a poco a poco dalla riva e alcuni ultimi proiettili, ben diretti, ci liberarono di quei «mostri marini» nel momento in cui le loro proboscidi stavano per piombare sulla veranda posteriore. — Ebbene, capitano,,— esclamò Banks, — che ne pensate della mitezza degli elefanti indiani? — Peuh! — disse il capitano Hod, — non valgono le belve! Mettetemi soltanto una trentina di tigri al posto di quel centinaio di pachidermi, e voglio perdere il mio grado se a quest'ora uno solo di noi sarebbe ancora in vita per raccontare l'avventura! CAPITOLO X IL LAGO PUTURIA IL LAGO Puturia, sul quale la Steam-House aveva trovato provvisoriamente rifugio, è situato a quaranta chilometri circa a est di Dumoh. Questa città, capoluogo della provincia inglese a cui dà il suo nome, sta prosperando, e con i suoi dodicimila abitanti, rinforzati da una piccola guarnigione, comanda questa pericolosa parte del Bundelkund. Ma, al di là delle sue mura, soprattutto verso la parte orientale del paese, nella regione più incolta dei Vindhya, di cui il lago occupa il centro, la sua influenza si fa sentire a stento. In fin dei conti che cosa ci poteva accadere ormai di peggio di quell'incontro di elefanti, da cui eravamo riusciti a uscire sani e salvi? La situazione, tuttavia, non cessava di essere preoccupante, poiché la maggior parte del nostro materiale era scomparsa. Una delle carrozze componenti il treno della Steam-House era distrutta. Non c'era nessun mezzo di «rimetterla a galla» per usare un'espressione del linguaggio marinaresco. Rovesciata a terra, schiacciata contro le rocce, della sua carcassa, sulla quale era passata inevitabilmente la massa degli elefanti, non dovevano più rimanere che avanzi informi. Ma, oltre a servire ad alloggiare il personale della spedizione, quella carrozza conteneva non solo la cucina e la dispensa, ma anche le provviste di cibo e di munizioni. Di queste ultime ci rimanevano soltanto una dozzina di cartucce, ma non era probabile che dovessimo fare uso delle armi da fuoco prima del nostro arrivo a Jubbulpore. Quanto al cibo, era un altro problema e di più difficile soluzione. Infatti non rimaneva più nulla delle provviste della dispensa. Pur ammettendo che la sera successiva fossimo giunti alla stazione, lontana ancora settanta chilometri, ci si sarebbe dovuti rassegnare a passare ventiquattro ore senza mangiare. In fede mia, ci saremmo rassegnati! In questa circostanza, il più desolato di tutti fu naturalmente il signor Parazard. La perdita della sua dispensa, la distruzione del suo laboratorio, la dispersione delle sue provviste, lo avevano colpito al cuore. Egli non nascose la propria disperazione e, dimenticando i pericoli ai quali eravamo quasi miracolosamente sfuggiti, si mostrò preoccupato solo della situazione personale in cui si trovava. Dunque, nel momento in cui, riuniti nel salotto, stavamo per discutere le decisioni che si dovevano adottare in quelle circostanze, il signor Parazard, sempre solenne, apparve sulla soglia e chiese di «fare una comunicazione importantissima». — Parlate, signor Parazard, — gli rispose il colonnello Munro, invitandolo a entrare. — Signori, — disse gravemente il nostro cuoco negro, — voi sapete certamente che tutto il materiale che la seconda abitazione della Steam-House portava è stato distrutto in questa catastrofe! E se anche ci fosse rimasta qualche provvista, sarei stato molto imbarazzato, in mancanza di cucina, per prepararvi un pasto, per modesto che fosse. — Lo sappiamo, signor Parazard, — rispose il colonnello Munro. — È una cosa spiacevole, ma faremo come potremo e digiuneremo se bisognerà digiunare. — La cosa è tanto più spiacevole, infatti, signori, — soggiunse il nostro cuoco, — in quanto che, alla vista di quei gruppi d'elefanti che ci assalivano e più d'uno dei quali è caduto sotto i vostri proiettili mortiferi... — Bella frase, signor Parazard! — disse il capitano Hod. — In poche lezioni riuscirete a esprimervi con la stessa eleganza del nostro amico Mathias Van Guitt. Il signor Parazard s'inchinò a quel complimento che prese molto sul serio, e dopo un sospiro continuò così: — Dicevo dunque, signori, che mi era offerta un'occasione unica per distinguermi nelle mie funzioni. La carne d'elefante, checché se ne sia potuto pensare, non è buona in tutte le sue parti, alcune delle quali sono incontestabilmente dure e coriacee; ma sembra che l'Autore di tutte le cose abbia voluto riservare, in quella massa carnosa, due pezzi di prima qualità, degni di essere serviti alla mensa del viceré delle Indie. Dico la lingua dell'animale, che è saporitissima, quando è preparata con una ricetta la cui applicazione mi è esclusivamente personale, e i piedi del pachiderma... — Pachiderma?... Benissimo, benché proboscidato sia più elegante, — disse il capitano Hod, approvando col gesto. — ... piedi, — soggiunse il signor Parazard, — con i quali si fa una delle migliori zuppe conosciute in quell'arte culinaria di cui sono il rappresentante nella Steam-House. — Ci fate venire l'acquolina in bocca, signor Parazard, — rispose Banks. — Disgraziatamente da una parte, e fortunatamente dall'altra, gli elefanti non ci hanno seguito sul lago, e temo proprio che si debba rinunciare, per qualche tempo almeno, alla zuppa di piede e agli intingoli di lingua di questo saporito ma terribile animale. — Non sarebbe possibile, — propose il cuoco, — tornare a terra per procurarsi?... — Non è possibile, signor Parazard. Per squisite che avrebbero potuto essere le vostre preparazioni, non possiamo correre questo rischio. — Ebbene, signori, — soggiunse il nostro cuoco, — vogliate ricevere l'espressione di tutti i rammarichi che mi fa provare questa deplorevole avventura. — I vostri rammarichi sono stati espressi, signor Parazard, — rispose il colonnello Munro, — e ve ne diamo atto. Quanto al pranzo e alla colazione, non preoccupatevene prima del nostro arrivo a Jubbulpore. — Non mi rimane dunque che ritirarmi, — disse il signor Parazard, inchinandosi, senza perder nulla della sua solita gravità. Avremmo riso volentieri dell'atteggiamento del nostro cuoco, se non avessimo dovuto affrontare altre preoccupazioni. Infatti, una complicazione si era aggiunta a tutte le altre. Banks ci fece sapere che in quel momento la cosa più spiacevole non era la mancanza di viveri o di munizioni, ma la mancanza di combustibile. Non c'era da stupirsi di ciò, poiché da quarantotto ore non era stato possibile rinnovare la provvista di legna necessaria all'alimentazione della macchina. Tutta la riserva era consumata al nostro arrivo sul lago. Se ci fosse stato necessario camminare un'ora di più, sarebbe stato impossibile giungervi, e la prima carrozza della Steam-House avrebbe avuto la stessa sorte della seconda. — Ora, — aggiunse Banks, — non abbiamo più nulla da bruciare, la pressione cala, è già scesa a due atmosfere, e non c'è mezzo per aumentarla! — La situazione è dunque grave quanto pare che tu creda, Banks? — domandò il colonnello Munro. — Se si trattasse soltanto di tornare alla riva, da cui siamo ancora poco lontani, — rispose Banks, — sarebbe cosa fattibile. Un quarto d'ora basterebbe a ricondurci là. Ma tornare dove il branco di elefanti è ancora senza dubbio riunito, sarebbe troppo imprudente. No, bisogna invece attraversare il Puturia e cercare un punto di sbarco sulla sua riva sud. — Quale può essere la larghezza del lago in questo luogo? — domandò il colonnello Munro. — Kâlagani calcola questa distanza a sette o otto miglia circa. Ora, nelle condizioni in cui ci troviamo, sarebbero necessarie molte ore per superarla, e, ve lo ripeto, fra quaranta minuti la macchina non sarà più in condizioni di funzionare. — Ebbene, — rispose sir Edward Munro, — passiamo tranquillamente la notte sul lago; qui siamo al sicuro. Domani provvederemo. Era il meglio che ci rimanesse da fare. Del resto, avevamo un gran bisogno di riposo. All'ultimo luogo di sosta, circondati da quel cerchio di elefanti, nessuno aveva potuto dormire nella Steam-House, e la notte era stata, come si suol dire, una notte bianca. Ma se quella era stata bianca, questa doveva essere nera, più nera del necessario. Infatti, verso le sette, sul lago cominciò ad alzarsi una leggera nebbia. Si ricorderà che fitte nebbie correvano già negli alti strati del cielo fin dalla notte precedente. Qui, si era verificata una modifica, dovuta alle differenze di località. Se all'accampamento degli elefanti, quei vapori si erano mantenuti alcune centinaia di piedi al di sopra del suolo, non fu lo stesso alla superficie del Puturia, a causa dell'evaporazione delle acque. Dopo una giornata piuttosto calda, gli alti e i bassi strati dell'atmosfera si confusero fra loro e tutto il lago non tardò a sparire sotto una nebbia, poco fitta dapprima, ma che si addensava sempre più. Ecco dunque, come aveva detto Banks, una complicazione di cui bisognava tener conto. Come egli aveva pure annunciato, verso le sette e mezzo si udirono gli ultimi gemiti del Gigante d'Acciaio, i colpi di stantuffo divennero meno rapidi, le zampe articolate cessarono di battere l'acqua, e la pressione scese al disotto di un'atmosfera. Non c'era più combustibile né alcun mezzo di procurarsene. Il Gigante d'Acciaio e l'unica carrozza che rimorchiava allora galleggiavano tranquillamente sulle acque del lago, ma non si movevano più. In simili condizioni, in mezzo alle nebbie, sarebbe stato difficile rilevare esattamente la nostra posizione. Nel poco tempo che la macchina aveva funzionato, il treno si era diretto verso la riva sud-est del lago, per cercarvi un punto di sbarco. Ora, siccome il Puturia ha la forma di un ovale piuttosto allungato, era possibile che la SteamHouse non fosse più molto lontana dall'una o dall'altra delle sue rive. È chiaro che le grida degli elefanti che ci avevano inseguito per un'ora circa, spente ora in lontananza, non si facevano più udire. Discutevamo dunque delle diverse eventualità che ci riservava quella nuova situazione. Banks fece chiamare Kâlagani che voleva consultare. L'indù venne subito e fu invitato a dare il suo parere. Eravamo riuniti allora nella sala da pranzo, che, ricevendo la luce dal lucernario superiore, non aveva finestre laterali. In questo modo, il bagliore delle lampade accese non poteva trasmettersi all'esterno. Precauzione utile, poiché era meglio che la posizione della SteamHouse non fosse nota ai banditi che percorrevano forse le rive del lago. Kâlagani sembrò dapprima esitare a rispondere alle domande che gli vennero fatte, almeno così mi parve. Si trattava di stabilire la posizione che doveva occupare il treno galleggiante sulle acque del Puturia, e mi rendo conto che la risposta doveva essere imbarazzante. Poteva darsi che una debole brezza di nord-ovest avesse agito sulla massa della Steam-House. Forse anche una leggera corrente ci trascinava verso la punta inferiore del lago. — Vediamo, Kâlagani, — disse Banks insistendo, — voi conoscete perfettamente l'estensione del Puturia? — Senza dubbio, signore, — rispose l'indù, — ma è difficile, in mezzo a questa nebbia... — Potete stimare approssimativamente la distanza a cui ci troviamo in questo momento dalla riva più vicina? — Sì, — rispose l'indù, dopo averci pensato per qualche tempo. — Questa distanza non deve superare il miglio e mezzo. — Verso est? — domandò Banks. — Verso est. — Dunque, se ci accostassimo a questa riva, saremmo più vicini a Jubbulpore che a Dumoh? — Certamente. — Dunque è a Jubbulpore che bisognerebbe rifare l'approvvigionamento, — disse Banks. — Ora, chissà quando e come potremo giungere alla riva! La cosa può durare un giorno, due giorni, e le nostre provviste sono esaurite! — Ma, — disse Kâlagani — non si potrebbe tentare, o almeno, uno di noi non potrebbe tentare di recarsi a terra questa notte stessa? — E come? — Raggiungendo la riva a nuoto. — Un miglio e mezzo, in questa fitta nebbia! — rispose Banks. — Sarebbe rischiare la vita... — Non è una ragione per non tentarlo, — rispose l'indù. Non so perché, mi parve ancora che la voce di Kâlagani non avesse la sua franchezza consueta. — Tentereste di attraversare il lago a nuoto? — domandò il colonnello Munro che osservava attentamente l'indù. — Sì, colonnello, e credo che vi riuscirei. — Ebbene, amico mio, — soggiunse Banks — ci fareste un gran servizio! Una volta a terra, vi sarebbe facile giungere alla stazione di Jubbulpore e condurci i soccorsi di cui abbiamo bisogno. — Sono pronto a partire! — rispose semplicemente Kâlagani. Mi aspettavo che il colonnello Munro ringraziasse la nostra guida, che si offriva di compiere un'impresa così pericolosa; ma, dopo averla guardata ancora più attentamente, egli chiamò Goûmi. Goûmi comparve subito. — Goûmi — disse sir Edward Munro — tu sei un bravo nuotatore? — Sì, colonnello. — Un miglio e mezzo da fare, stanotte, sulle acque calme del lago, non ti darebbero fastidio? — Né un miglio, né due. — Ebbene, — soggiunse il colonnello Munro — ecco Kâlagani che si offre di recarsi a nuoto alla riva più vicina a Jubbulpore. Ora, tanto sul lago quanto in questa parte del Bundeikund, due uomini intelligenti e arditi, che possano aiutarsi a vicenda, hanno maggiori probabilità di riuscita. Vuoi accompagnare Kâlagani? — Subito, colonnello — rispose Goûmi. — Non ho bisogno di nessuno, — ribatté Kâlagani — ma se il colonnello Munro ci tiene, accetto volentieri Goûmi per compagno. — Andate dunque, amici miei, — disse Banks — e siate prudenti quanto siete coraggiosi. Stabilito ciò, il colonnello Munro, prendendo Goûmi in disparte, gli fece alcune raccomandazioni, brevemente formulate. Cinque minuti dopo, i due indù, con un pacco di abiti legato sul capo, si tuffarono nelle acque del lago. La nebbia era molto fitta allora, e poche bracciate bastarono a farli scomparire. Domandai allora al colonnello Munro perché si era mostrato così desideroso di dare un compagno a Kâlagani. — Amici miei, — rispose sir Edward Munro — le risposte di quell'indù, della cui fedeltà finora non ho mai sospettato, non mi sono sembrate sincere! — Ho provato la stessa impressione anch'io — dissi. — Io, invece, non ho osservato nulla... — fece notare l'ingegnere. — Ascolta, Banks — riprese il colonnello Munro. — Offrendoci di recarsi a terra, Kâlagani aveva un secondo fine. — Quale? — Non so, ma se ha chiesto di sbarcare non è per andare a cercare soccorsi a Jubbulpore. — Eh! — esclamò il capitano Hod. Banks guardava il colonnello corrugando le sopracciglia, poi: — Munro, — disse, — finora questo indù si è sempre mostrato affezionatissimo, e specialmente verso di te! Oggi tu pretendi che Kâlagani ci tradisce! Che prova hai? — Mentre Kâlagani parlava, — rispose il colonnello Munro, — ho visto la sua pelle farsi più scura, e quando le persone dalla pelle ramata si fanno più scure, è segno che mentono! Venti volte ho potuto confondere a questo modo indù e bengalesi, e non mi sono mai ingannato. Ripeto dunque che Kâlagani, nonostante tutto quello che si può pensare in suo favore, non ha detto la verità. Questa osservazione di sir Edward Munro, l'ho spesso constatato in seguito, era fondata. Quando mentono, gli indù diventano leggermente più scuri, così come i bianchi arrossiscono. Questo sintomo non era potuto sfuggire alla perspicacia del colonnello, e bisognava tener conto della sua osservazione. — Ma quali sarebbero dunque i piani di Kâlagani, — domandò Banks, — e perché dovrebbe tradirci? — È quanto sapremo più tardi... — rispose il colonnello Munro, — troppo tardi forse! — Troppo tardi, colonnello! — esclamò il capitano Hod. — Non siamo ancora perduti, immagino! — In ogni caso, Munro, — soggiunse l'ingegnere, — hai fatto bene a dargli Goûmi per compagno. Quello ci sarà fedele fino alla morte; svelto, intelligente, se sospetta qualche pericolo, saprà... — Tanto più, — rispose il colonnello Munro, — che è avvertito e che diffiderà del suo compagno. — Bene, — disse Banks. — Ora, non ci rimane che aspettare il giorno. Questa nebbia si alzerà senza dubbio con il sole, e allora vedremo che cosa dovremo decidere. Aspettare, sì! Quella notte doveva dunque passare ancora in completa insonnia. La nebbia era diventata più fitta, ma nulla faceva presagire l'avvicinarsi del cattivo tempo. Era una fortuna, poiché, se il nostro treno poteva galleggiare, non era fatto per «tenere il mare»! Si poteva dunque sperare che tutte quelle bollicine di vapore si sarebbero condensate all'alba, il che avrebbe assicurato una bella giornata per domani. Dunque, mentre il nostro personale si sistemava nella sala da pranzo, noi ci sdraiammo sui divani del salotto, chiacchierando poco, ma prestando orecchio a tutti i rumori esterni. Di colpo, verso le due dopo la mezzanotte, un concerto di belve venne a turbare il silenzio della notte. La riva era dunque là, in direzione sud-est, ma doveva essere ancora abbastanza lontana. Quegli urli erano assai indeboliti da una distanza che Banks stimò non inferiore a un buon miglio. Una frotta d'animali selvatici, senza dubbio, era venuta a dissetarsi alla punta estrema del lago. Ma, ben presto fu anche accertato che, sotto l'influenza di una brezza leggera, il treno galleggiante si dirigeva verso la riva, in modo lento ma continuo. Infatti, non solo quelle grida giungevano più distinte alle nostre orecchie, ma si distingueva già il cupo ruggito della tigre dall'urlo rauco delle pantere. — Eh! — non poté trattenersi dal dire il capitano Hod, — che bell'occasione per ammazzare la mia cinquantesima! — Un'altra volta, capitano! — rispose Banks. — Spuntato il giorno, gradirei pensare che, nel momento in cui ci avvicineremo alla riva, questa frotta di belve ci avrà ceduto il posto! — Ci sarebbe qualche inconveniente, — domandai, — ad azionare i fanali elettrici? — Non credo, — rispose Banks. — Questa parte della riva molto probabilmente è occupata solo da animali che stanno bevendo. Non vi è dunque alcun inconveniente nel tentare di riconoscerli. E, a un ordine di Banks, due fasci luminosi furono proiettati nella direzione di sud-est. Ma la luce elettrica, impotente a trafiggere quella fitta nebbia, non poté illuminarla che per un breve settore davanti alla Steam-House, e la riva rimase assolutamente invisibile ai nostri sguardi. Frattanto, quegli urli, la cui intensità cresceva a poco a poco, indicavano che il treno continuava ad andare alla deriva sulla superficie del lago. Evidentemente, gli animali rimasti in quel luogo dovevano essere numerosissimi. In ciò non c'era nulla di straordinario, poiché il lago Puturia è come un abbeveratoio naturale per le belve di questa parte del Bundelkund. — Purché Goûmi e Kâlagani non siano caduti in mezzo a tutte quelle belve! — disse il capitano Hod. — Non sono le tigri che temo per Goûmi! — rispose il colonnello Munro. Decisamente, i sospetti non avevano fatto che crescere nell'animo del colonnello, e cominciavo a esserne impressionato anch'io. Eppure, i buoni uffici di Kâlagani, dal nostro arrivo nella regione dell'Himalaya, i suoi servizi incontestabili, la sua devozione nelle due circostanze in cui aveva arrischiato la vita per sir Edward Munro e per il capitano Hod, tutto testimoniava a suo favore. Ma quando l'animo si lascia trascinare al dubbio, il valore dei fatti compiuti si altera, là loro fisionomia muta, si dimentica il passato, si teme per l'avvenire. Pure, quale movente poteva spingere quell'indù a tradirci? Aveva dei motivi di odio personale contro gli ospiti della Steam-House? No, certamente! Perché avrebbe dovuto attirarli in un tranello? Era inesplicabile. Ognuno si abbandonava dunque a pensieri molto confusi, e attendevamo con impazienza di vedere gli sviluppi di quella situazione. A un tratto, verso le quattro del mattino, gli animali smisero bruscamente le loro grida. Ciò che ci colpì tutti quanti è che essi non sembravano essersi allontanati a poco a poco, gli uni dopo gli altri, emettendo un ultimo grido dopo l'ultima bevuta. No, la cosa si verificò da un momento all'altro. Si sarebbe detto che una circostanza fortuita li avesse turbati nella loro operazione costringendoli a fuggire. Evidentemente, tornavano nelle loro tane, non come belve che vi rientrano, ma come belve che vi si rifugiano. Il silenzio era dunque seguito al rumore senza transizione. La causa di questo fenomeno ci sfuggiva ancora, ma aumentava la nostra preoccupazione. Per prudenza, Banks diede l'ordine di spegnere i fanali. Se gli animali erano fuggiti davanti a qualche banda di quei banditi di strada che battono il Bundelkund e i Vindhya, bisognava nascondere loro accuratamente la posizione della Steam-House. Il silenzio, oramai, non era più turbato nemmeno dal rumore dell'acqua: il vento era cessato, ed era impossibile sapere se il treno continuasse a andare alla deriva sotto la spinta della corrente. Ma non poteva tardare a farsi giorno, e il sole, senza dubbio, avrebbe spazzato quelle nebbie, che occupavano solo gli strati bassi dell'atmosfera. Guardai il mio orologio: erano le cinque. Senza la nebbia, l'alba già avrebbe allargato il cerchio visivo di qualche miglio. La riva avrebbe dunque dovuto essere in vista; ma il velo non si lacerava e bisognava aver pazienza ancora. Il colonnello Munro, Mac Neil e io davanti al salotto, Fox, Kâlouth e il signor Parazard dietro la sala da pranzo, Banks e Storr nella torretta, il capitano Hod appollaiato sul dorso del gigantesco animale, vicino alla proboscide, come un marinaio di guardia sulla prua di una nave, aspettavamo che qualcuno di noi gridasse: Terra! Verso le sei, si levò una brezzolina, appena sensibile, ma che ben presto rinfrescò. I primi raggi del sole trapassarono la nebbia, e l'orizzonte si scoprì ai nostri sguardi. La riva apparve verso sud-est. Essa formava all'estremità del lago una specie di ansa profonda con grandi boschi sullo sfondo. I vapori salirono a poco a poco, e lasciarono vedere in fondo delle montagne, le cui vette si delinearono rapidamente. — Terra! — aveva gridato il capitano Hod. Il treno galleggiante non era allora a più di duecento metri dal fondo dell'ansa del Puturia, e andava alla deriva spinto dalla brezza che soffiava da nord-ovest. Nulla su quella riva. Né un animale né un essere umano. Sembrava assolutamente deserta. Non una casa, del resto, non una fattoria sotto il fitto, fogliame dei primi alberi; sembrava dunque che si potesse approdare senza pericolo. Con l'aiuto del vento, l'approdo fu facile, presso una riva piatta come un greto di sabbia. Ma, mancando il vapore, non era possibile né risalirla né lanciarsi su una strada che, consultando la direzione data dalla bussola, doveva essere la via di Jubbulpore. Senza perdere un istante, avevamo seguito il capitano Hod, che, per primo, era balzato a terra. — In cerca di combustibile! — gridò Banks. — Fra un'ora saremo in pressione, e avanti! La raccolta era facile. Legna ce n'era dappertutto per terra, ed era abbastanza secca da poter venire utilizzata subito. Bastava dunque riempirne il forno e caricarne il tender. Tutti si diedero da fare. Solo Kâlouth rimase davanti alla caldaia mentre noi raccoglievamo combustibile sufficiente per ventiquattro ore. Era più di quanto occorresse per giungere alla stazione di Jubbulpore, dove il carbone non ci sarebbe mancato. Quanto al cibo, il cui bisogno si faceva sentire, non sarebbe stato certamente proibito ai cacciatori della spedizione di procurarlo durante la marcia. Il signor Parazard avrebbe preso a prestito il fuoco da Kâlouth e, o bene o male, avremmo saziato la nostra fame. Tre quarti d'ora dopo, il Gigante d'Acciaio si metteva in moto, e saliva finalmente la scarpata della riva all'imbocco della strada. — A Jubbulpore! — gridò Banks. Ma Storr non aveva avuto il tempo di cominciare ad azionare l'acceleratore, che sul ciglio della foresta scoppiarono delle grida furibonde. Una turba di centocinquanta indù almeno si gettava sulla Steam-House. La torretta del Gigante d'Acciaio, la carrozza, tanto davanti quanto di dietro, erano invase, prima ancora che avessimo potuto raccapezzarci! Quasi subito, gli indù ci trascinavano a cinquanta passi dal treno, ed eravamo messi nell'impossibilità di fuggire. Si immagini la nostra collera, la nostra rabbia, alla scena di distruzione e di saccheggio che seguì. Gli indù, con la scure in mano, si precipitarono all'assalto della Steam-House. Tutto fu saccheggiato, devastato, distrutto. Dell'arredamento interno ben presto non rimase più nulla! Poi, il fuoco terminò l'opera di distruzione, ed in pochi minuti, tutto ciò che poteva bruciare della nostra ultima carrozza fu divorato dalle fiamme! — Mascalzoni! Canaglie! — gridava il capitano Hod, che molti indù riuscivano a stento a trattenere. Ma, come noi, doveva limitarsi a delle inutili ingiurie, che quegli indù non sembravano nemmeno comprendere. Quanto a sottrarci a coloro che ci custodivano, non bisognava nemmeno pensarci. Le ultime fiamme si spensero, e poco dopo non rimase altro che la carcassa informe di quella pagoda ambulante che aveva attraversato mezza penisola! Gli indù avevano poi assalito il nostro Gigante d'Acciaio; avrebbero voluto distruggere anche lui! Ma questa volta, non lo poterono. Né la scure né il fuoco avevano qualche efficacia né contro la grossa armatura di lamiera che formava il corpo dell'elefante artificiale né contro la macchina che portava dentro di sé. Nonostante i loro sforzi, rimase intatto, in mezzo agli applausi del capitano Hod, che lanciava degli hurrah nello stesso tempo di piacere e di rabbia. In quel momento apparve un uomo. Doveva essere il capo di quegli indù. Tutta la banda venne subito a schierarsi davanti a lui. Un altro uomo lo accompagnava. Tutto si spiegò; quell'uomo era la nostra guida, era Kâlagani. Di Goûmi non si vedeva nessuna traccia. Il fedele era scomparso, il traditore era rimasto. Senza dubbio, la devozione del nostro bravo servitore gli era costata la vita, e non dovevamo più rivederlo! Kâlagani avanzò verso il colonnello Munro, e freddamente, senza abbassare gli occhi, indicandolo: — Lui! — disse. Ad un cenno, sir Edward Munro fu preso, trascinato via e scomparve in mezzo alla banda che risaliva la strada verso il sud, senza aver potuto né stringerci un'ultima volta la mano né darci un ultimo addio! Il capitano Hod, Banks, il sergente, Fox, tutti noi avevamo cercato di liberarci per strapparlo dalle mani di quegli indù!... Cinquanta braccia ci avevano trattenuto al suolo; un movimento di più e saremmo stati sgozzati. — Non fate resistenza! — disse Banks. L'ingegnere aveva ragione. Non potevamo far nulla in quel momento per liberare il colonnello Munro; era dunque meglio riservarci in vista dei successivi avvenimenti. Un quarto d'ora dopo gli indù ci abbandonavano a loro volta, e si lanciavano sulle tracce del primo drappello. Seguirli sarebbe stato produrre una catastrofe, senza profitto per il colonnello Munro, tuttavia avremmo tentato tutto per raggiungerlo... — Non un passo di più! — disse Banks. Gli obbedimmo. In sostanza, era dunque contro il colonnello Munro, contro lui solo, che quegli indù condotti da Kâlagani l'avevano. Quali erano le intenzioni di quel traditore? Egli non poteva, evidentemente, agire per proprio conto. Ma, allora, a chi obbediva?... Il nome di Nana Sahib mi si presentò alla mente! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qui finisce il manoscritto redatto da Maucler. Il giovane francese non doveva vedere più nulla degli avvenimenti che dovevano precipitare lo scioglimento di questo dramma. Ma questi avvenimenti si sono saputi più tardi, e raccolti in forma di racconto, completano la relazione di questo viaggio attraverso l'India settentrionale. CAPITOLO XI A FACCIA A FACCIA I THUG, di sanguinosa memoria, dei quali l'Indostan sembra essersi liberato, hanno lasciato però dei successori degni di loro. Sono i Dacoit, specie di Thug trasformati. I sistemi di uccisione di questi delinquenti sono cambiati, lo scopo degli assassini non è più lo stesso, ma il risultato è identico: è l'omicidio premeditato, l'assassinio. Non si tratta più, senza dubbio, di offrire una vittima alla truce Kâli, dea della morte. Se questi nuovi fanatici non praticano lo strangolamento, avvelenano per derubare; agli strangolatori si sono sostituiti dei criminali più pratici, ma altrettanto temibili. I Dacoit, che formano delle bande separate in certi territori della penisola, accolgono tutti gli omicidi che la giustizia anglo-indiana lascia passare attraverso le maglie della sua rete. Essi battono giorno e notte le grandi strade, soprattutto nelle regioni più selvagge, e si sa che il Bundelkund offre dei teatri adatti a queste scene di violenza e di saccheggio. Spesso anzi, questi banditi si riuniscono in numero maggiore per assalire un villaggio isolato. Allora la popolazione non ha che un mezzo, fuggire; ma la tortura, con tutte le sue raffinatezze, aspetta coloro che rimangono fra le mani dei Dacoit. Qui riappaiono le tradizioni dei torturatori dell'estremo Occidente. Stando al signor Louis Rousselet, le «astuzie di questi miserabili, i loro mezzi d'azione superano tutto quello che i più fantasiosi romanzieri hanno mai immaginato»! Il colonnello Munro era caduto in potere di una banda di Dacoit guidata da Kâlagani. Prima che avesse avuto il tempo di raccapezzarsi, brutalmente separato dai suoi compagni, egli era stato trascinato sulla via di Jubbulpore. Il comportamento di Kâlagani, dal giorno in cui era entrato in relazione con gli ospiti della Steam-House, era stato quello di un traditore. Era proprio Nana Sahib che lo aveva mandato, e da lui solo era stato scelto per preparare la sua vendetta. Si ricorderà che, il 24 maggio precedente, a Bhopal, durante le ultime feste del Moharum, a cui egli si era audacemente mescolato, il nababbo era stato avvertito della partenza di sir Edward Munro per le province settentrionali dell'India. Dietro suo ordine, Kâlagani, uno degli indù più devoti alla sua causa ed alla sua persona, aveva lasciato Bhopal. Lanciarsi sulle tracce del colonnello, ritrovarlo, seguirlo, non perderlo più di vista, arrischiare la propria vita all'occorrenza, per farsi ammettere nel seguito dell'implacabile nemico di Nana Sahib, ecco la sua missione. Kâlagani era partito immediatamente, dirigendosi verso le regioni del nord. A Cawnpore aveva potuto raggiungere il treno della SteamHouse. Da quel momento, senza mai lasciarsi scorgere, aveva spiato in attesa di occasioni che non si presentarono. Ecco perché, mentre il colonnello Munro ed i suoi compagni si installavano nel sanitarium dell'Himalaya, egli decideva di entrare al servizio di Mathias Van Guitt. L'istinto di Kâlagani gli diceva che rapporti quasi quotidiani si sarebbero necessariamente stabiliti fra il kraal e il sanitarium. Fu quello che avvenne e fin dal primo giorno, fu tanto fortunato, non solo da attirare l'attenzione del colonnello Munro, ma anche da meritarsi la sua riconoscenza. Il più era fatto; si sa il resto. L'indù venne spesso alla SteamHouse, fu informato dei progetti successivi dei suoi ospiti, conobbe l'itinerario che Banks si proponeva di seguire. Da quel momento, una sola idea dominò tutte le sue azioni: riuscire a farsi accettare come guida della spedizione, quando essa sarebbe ridiscesa verso sud. Per riuscirvi, Kâlagani non trascurò nulla; non esitò ad arrischiare non solo la vita degli altri, ma anche la propria. In quali circostanze? Nessuno può averlo dimenticato. Infatti, gli era venuto il pensiero che, se avesse accompagnato la spedizione fin dal principio del viaggio, pur rimanendo al servizio di Mathias Van Guitt, il fatto avrebbe sviato ogni sospetto, e avrebbe forse indotto il colonnello Munro a offrirgli appunto quello che egli voleva ottenere. Ma, per arrivare a questo, bisognava che il fornitore, privato dei suoi tiri di bufali, fosse ridotto a chiedere l'aiuto del Gigante d'Acciaio. Ecco il motivo dell'assalto delle belve, assalto inaspettato, è vero, ma di cui Kâlagani seppe approfittare. A rischio di provocare un disastro, non esitò, senza che nessuno se ne avvedesse, a togliere le sbarre che chiudevano la porta del kraal. Le tigri e le pantere si precipitarono nel recinto, i bufali furono dispersi o distrutti, molti indù perirono, ma il piano di Kâlagani era riuscito. Mathias Van Guitt sarebbe stato costretto a ricorrere al colonnello Munro per riprendere il cammino per Bombay col suo serraglio ambulante. Infatti, rinnovare i suoi tiri in quella regione quasi deserta dell'Himalaya sarebbe stato difficile. In ogni caso, fu Kâlagani che s'incaricò di questo affare per conto del fornitore. S'intende che non vi riuscì, e per questo motivo Mathias Van Guitt, rimorchiato dal Gigante d'Acciaio, scese con tutto il suo personale alla stazione di Etawah. Là, la ferrovia doveva trasportare il materiale del serraglio. I chikaris furono dunque licenziati e Kâlagani, che non era più utile, doveva seguire la loro sorte. Fu allora che egli si mostrò molto impacciato del proprio avvenire, e Banks cadde nella trappola. Egli pensò che quell'indù, intelligente ed affezionato, perfettamente pratico di tutta quella parte dell'India, poteva essere di preziosa utilità. Gli offrì dunque di essere la loro guida fino a Bombay, e da quel giorno la sorte della spedizione fu in mano di Kâlagani. Nessuno poteva sospettare un traditore in quell'indù, sempre pronto ad arrischiar la vita per gli altri. Vi fu un momento in cui Kâlagani per poco non si tradì. Fu quando Banks gli parlò della morte di Nana Sahib. Egli non seppe trattenere un gesto d'incredulità e crollò il capo da uomo che non ci poteva credere. Ma non sarebbe forse avvenuta la stessa cosa con qualsiasi altro indù, per cui il leggendario nababbo era uno di quegli esseri soprannaturali che la morte non può colpire? Kâlagani, a questo proposito, ebbe la conferma della notizia, quando, e non A caso, egli incontrò uno dei suoi antichi compagni nella carovana dei Banjari? Non si sa, ma bisogna credere che sapesse esattamente come comportarsi. Ad ogni modo il traditore non abbandonò i suoi odiosi progetti, come se avesse voluto fare propri i piani del nababbo. Ecco perché la Steam-House proseguì il suo cammino attraverso le gole dei Vindhya, e, dopo le note peripezie, i viaggiatori giunsero sulle rive del lago Puturia, su cui ci si dovette rifugiare. Là, quando Kâlagani volle lasciare il treno galleggiante, col pretesto di recarsi a Jubbulpore, si lasciò scoprire. Per quanto fosse padrone di se stesso, un semplice fenomeno fisiologico, che non poteva sfuggire alla perspicacia del colonnello, lo aveva reso sospetto, ed ora si sa che i sospetti di sir Edward Munro erano fin troppo giustificati. Fu lasciato partire, ma gli fu dato per compagno Goûmi. Entrambi si tuffarono nelle acque del lago, e un'ora dopo, erano giunti alla riva sud-est del Puturia. Eccoli dunque camminare insieme, in quella notte buia, uno sospettoso dell'altro, l'altro non immaginandosi d'essere sospettato. Il vantaggio, per il momento, era per Goûmi, un secondo Mac Neil del colonnello. Per tre ore, i due indù camminarono così per quella grande strada che attraversa le catene meridionali dei Vindhya per portare alla stazione di Jubbulpore. La nebbia era molto meno intensa nella campagna che sul lago, e Goûmi sorvegliava attentamente il suo compagno. Portava alla cintola un solido coltello; al primo movimento sospetto, spiccio per natura, egli si proponeva di balzare addosso a Kâlagani e di metterlo nell'impossibilità di nuocere. Disgraziatamente, il fedele indù non ebbe il tempo d'agire come sperava. La notte, senza luna, era buia; a venti passi, non si sarebbe visto un uomo in cammino. Accadde dunque che, a una delle svolte della strada, si fece udire bruscamente una voce che chiamava Kâlagani. — Sì, Nassim! — rispose l'indù. E, in quello stesso momento, un grido acuto, molto strano, risuonò sulla sinistra della strada. Quel grido era il kisri di quelle truci tribù del Gondwana, che Goûmi conosceva benissimo! Goûmi, colto di sorpresa, non aveva potuto tentare nulla. D'altra parte, morto Kâlagani, egli che cosa avrebbe mai potuto fare contro tutta una banda di indù, a cui quel grido doveva servire di richiamo? Un presentimento gli disse di fuggire, per tentare di avvertire i suoi compagni. Sì! rimanere libero, prima di tutto, poi ritornare al lago e cercar di raggiungere a nuoto il Gigante d'Acciaio per impedirgli di accostarsi alla riva, non rimaneva altro da fare. Goûmi non esitò. Nel momento in cui Kâlagani raggiungeva quel Nassim che gli aveva risposto, si gettò da un lato e scomparve nelle jungle che fiancheggiavano la strada. E quando Kâlagani ritornò col suo complice, con l'intenzione di sbarazzarsi del compagno che il colonnello Munro gli aveva imposto, Goûmi non c'era più. Nassim era il capo di una banda di Dacoit devoti alla causa di Nana Sahib. Quando fu informato della scomparsa di Goûmi, lanciò i suoi uomini attraverso le jungle; voleva riprendere ad ogni costo l'ardito servitore che gli era sfuggito. Le ricerche furono inutili; Goûmi, sia che si fosse perduto nel buio sia che si fosse rifugiato in un buco qualsiasi, era scomparso, e bisognò rinunciare a ritrovarlo. Ma, in sostanza, che cosa potevano temere quei Dacoit, da Goûmi, abbandonato a se stesso, in mezzo a quella regione selvaggia, già a tre ore di cammino dal lago Puturia, al quale, per quanto avesse fatto, non avrebbe potuto giungere prima di loro? Kâlagani si rassegnò dunque. Conferì per un istante con il capo dei Dacoit, che sembrava aspettare i suoi ordini. Poi, ridiscendendo la strada, tutti si diressero a grandi passi verso il lago. E se quella banda aveva lasciato le gole dei Vindhya, dove era accampata da qualche tempo, è perché Kâlagani aveva potuto far sapere il prossimo arrivo del colonnello Munro nei dintorni del lago Puturia. Per mezzo di chi? Di quell'indù, che non era altri che Nassim, che seguiva la carovana dei Banjari. A chi? A colui la cui mano dirigeva nell'ombra tutto questo complotto! Infatti, quanto era accaduto, quanto accadeva allora, era il risultato di un piano ben stabilito, a cui il colonnello Munro e i suoi compagni non potevano sottrarsi. Ecco perché, nel momento in cui il treno toccava la punta meridionale del lago, i Dacoit poterono assalirlo, sotto gli ordini di Nassim e di Kâlagani. Ma l'avevano con il colonnello Munro, con lui solo. I suoi compagni, abbandonati in quel paese, distrutta la loro ultima casa, non erano più da temere. Egli fu dunque trascinato via, e alle sette del mattino sei miglia lo separavano già dal lago Puturia. Che Kâlagani conducesse sir Edward Munro alla stazione di Jubbulpore non era ammissibile. Perciò egli pensava di non dover lasciare la regione dei Vindhya e che, caduto in potere dei suoi nemici, non ne sarebbe uscito forse mai. Ciononostante, quell'uomo coraggioso non aveva perduto nulla del suo sangue freddo. Camminava fra quei feroci indù, pronto a qualsiasi evento. Egli anzi fingeva di non vedere Kâlagani; il traditore si era messo in testa al drappello, di cui effettivamente era il capo. Quanto a fuggire, non era possibile. Benché non fosse legato, il colonnello Munro non vedeva né davanti né dietro né sui fianchi della sua scorta, nessun vuoto che lo potesse lasciar passare; d'altra parte, sarebbe stato immediatamente ripreso. Pensava dunque alle conseguenze della propria situazione. Doveva credere che la mano di Nana Sahib entrasse in tutto questo? No! Per lui, il nababbo era assolutamente morto; ma qualche compagno dell'antico capo dei ribelli, Balao Rao per esempio, non poteva forse aver deciso di saziare il suo odio, compiendo quella vendetta a cui suo fratello aveva dedicato la vita? Sir Edward Munro presentiva qualche cosa di simile. Nello stesso tempo, egli pensava al disgraziato Goûmi, che non era prigioniero dei Dacoit. Aveva potuto fuggire? era possibile. Aveva forse dovuto soccombere fin da principio? era più probabile. Si poteva fare assegnamento sul suo aiuto, caso mai fosse stato sano e salvo? era difficile. Infatti, se Goûmi avesse creduto di doversi spingere fino alla stazione di Jubbulpore per cercarvi dei soccorsi, sarebbe giunto troppo tardi. Se, al contrario, era venuto a raggiungere Banks ed i suoi compagni alla punta meridionale del lago, che cosa avrebbero mai potuto fare questi, quasi privi di munizioni? Si sarebbero gettati sulla via di Jubbulpore?... Ma prima che avessero potuto giungervi, il prigioniero sarebbe già stato trascinato in qualche inaccessibile rifugio dei Vindhya! Dunque, da quella parte, non bisognava serbare alcuna speranza. Il colonnello Munro esaminava freddamente la situazione. Egli non disperava, non essendo uomo da lasciarsi abbattere, ma preferiva veder le cose nella loro realtà, invece di abbandonarsi a qualche illusione indegna di un animo che nulla poteva turbare. Frattanto, il drappello camminava con grande velocità. Evidentemente, Nassim e Kâlagani volevano giungere, prima del tramonto, a qualche ritrovo stabilito, dove si sarebbe decisa la sorte del colonnello. Se il traditore aveva fretta, sir Edward Munro non era meno frettoloso di farla finita, qualunque fosse la fine che lo aspettasse. Una volta sola, verso mezzogiorno, per mezz'ora circa, Kâlagani fece fare una fermata. I Dacoit erano forniti di viveri, e mangiarono sulle sponde di un ruscello. Un po' di pane e di carne secca furono messi a disposizione del colonnello, che non rifiutò di mangiare. Non aveva preso cibo dal giorno prima, e non voleva dare ai suoi nemici la gioia di vederlo indebolire fisicamente nell'ora suprema. Fino a quel momento, quasi sedici miglia erano state fatte in quella marcia forzata. A un ordine di Kâlagani, ci si rimise in cammino, seguendo sempre la direzione di Jubbulpore. Fu solo verso le cinque del pomeriggio che la banda di Dacoit abbandonò la strada principale per prendere a sinistra. Se dunque il colonnello Munro aveva potuto conservare una parvenza di speranza fintanto che la seguiva, comprese allora che ormai era nelle mani di Dio. Un quarto d'ora dopo Kâlagani e i suoi attraversavano una stretta gola che costituiva l'estremo limite della valle del Nerbudda, verso la parte più selvaggia del Bundelkund. Il luogo era a trecentocinquanta chilometri circa dal pâl di Tandît, a est di quei monti Sautpurra che si possono considerare come il prolungamento occidentale dei Vindhya. Là, su uno degli ultimi contrafforti, sorgeva la vecchia fortezza di Ripore, abbandonata da un pezzo, perché non poteva essere rifornita nel caso che le gole dell'ovest fossero occupate dal nemico. Questa fortezza dominava una delle ultime sporgenze della catena, una specie di rivellino naturale, alto cinquecento piedi, che strapiombava sopra una larga apertura della gola, in mezzo alle giogaie vicine. Non vi si poteva giungere che seguendo uno stretto sentiero, praticato tortuosamente nella viva roccia, sentiero praticabile appena da uomini a piedi. Là, su quell'altipiano, si profilavano ancora delle cortine smantellate, alcuni bastioni in rovina. In mezzo alla spianata, chiusa verso l'abisso da un parapetto di pietra, sorgeva un edificio, semidistrutto, che serviva un tempo di caserma alla piccola guarnigione di Ripore, e che ora non avrebbe potuto servire neppure di stalla. In mezzo all'altipiano centrale, rimaneva un unico pezzo d'artiglieria di quanti un tempo si allungavano attraverso le feritoie del parapetto. Era un enorme cannone, puntato verso la parte anteriore della spianata. Troppo pesante per essere calato giù, troppo deteriorato, del resto, per conservare un valore qualsiasi, era stato lasciato là, sul suo affusto, abbandonato ai morsi della ruggine, che rodeva il suo involucro di ferro. Per lunghezza e per grossezza era la degna copia del celebre cannone di bronzo di Bhîlsa, fuso al tempo di Jehanghir, enorme pezzo lungo sei metri, con un calibro di quarantaquattro. Lo si sarebbe potuto paragonare anche al non meno famoso cannone di Bidjapur, il cui sparo, secondo gli indigeni, non avrebbe lasciato in piedi uno solo dei monumenti della città. Questa era la fortezza di Ripore, nella quale il prigioniero fu condotto dal drappello di Kâlagani. Erano le cinque di sera quando vi giunse, dopo una giornata di cammino di più di venticinque miglia. Davanti a quale dei suoi nemici il colonnello Munro si sarebbe finalmente trovato? Non avrebbe tardato a saperlo. Un drappello di indù occupava allora l'edificio in rovina che sorgeva in fondo alla spianata. Questo drappello si mosse, mentre la banda dei Dacoit si schierava in circolo davanti al parapetto. Il colonnello Munro occupava il centro di quel circolo; a braccia incrociate, aspettava. Kâlagani lasciò il posto che occupava nelle file e fece alcuni passi incontro al drappello. Un indù, vestito con semplicità, camminava davanti a tutti. Kâlagani si fermò di fronte a lui e s'inchinò. L'indù gli porse una mano che Kâlagani baciò rispettosamente; un cenno di capo gli dimostrò che si era contenti del suo operato. Poi, l'indù avanzò verso il prigioniero, lentamente, ma con l'occhio acceso, con tutti i sintomi d'una collera appena trattenuta. Lo si sarebbe detto una belva che andasse verso la sua preda. Il colonnello Munro lo lasciò avvicinarsi, senza indietreggiare di un passo, guardandolo con la stessa fissità con cui egli stesso era guardato. Quando l'indù fu a soli cinque passi da lui: — È soltanto Balao Rao, il fratello del nababbo! — disse il colonnello con un tono che indicava il più profondo disprezzo. — Guarda meglio! — rispose l'indù. — Nana Sahib! — esclamò il colonnello Munro indietreggiando, questa volta, suo malgrado. — Nana Sahib vivo!... Sì, il nababbo in persona, l'antico capo della rivolta dei Cipay, l'implacabile nemico di Munro. Ma chi era morto dunque al pâl di Tandît? Balao Rao, suo fratello. La straordinaria somiglianza di quei due uomini, entrambi butterati in viso, entrambi amputati del medesimo dito della stessa mano, aveva ingannato i soldati di Lucknow e di Cawnpore. Essi non avevano esitato a riconoscere il nababbo in colui che era solo suo fratello, e sarebbe stato impossibile non commettere questo errore. Perciò quando la comunicazione fatta alle autorità annunciò la morte del nababbo, Nana Sahib era ancora vivo; era Balao Rao che era morto. Nana Sahib si era preoccupato grandemente di sfruttare questa nuova circostanza. Una volta di più, essa gli dava una sicurezza quasi assoluta. Infatti, suo fratello non sarebbe stato ricercato dalla polizia inglese con lo stesso accanimento di lui, e non lo fu. Non solo non gli erano imputati gli eccidi di Cawnpore, ma egli non aveva sugli indù del centro l'influenza perniciosa che possedeva il nababbo. Nana Sahib, vedendosi braccato così da vicino, decise dunque di fare il morto fino al momento in cui avrebbe potuto agire definitivamente, e, rinunciando temporaneamente ai suoi progetti insurrezionali, si era votato interamente alla sua vendetta. Mai, del resto, le circostanze erano state più favorevoli. Il colonnello Munro, sempre sorvegliato dai suoi agenti, aveva lasciato Calcutta per un viaggio che doveva condurlo a Bombay. Non sarebbe stato possibile condurlo nella regione dei Vindhya attraverso le province del Bundelkund? Nana Sahib lo credette, e fu a questo scopo che gli mandò l'intelligente Kâlagani. Il nababbo lasciò il pâl di Tandît, che non gli offriva più un rifugio sicuro. Penetrò nella valle del Nerbudda, fino alle ultime gole dei Vindhya. Là sorgeva la fortezza di Ripore, che gli parve un luogo di rifugio dove la polizia non avrebbe affatto pensato a cercarlo, poiché doveva crederlo morto. Nana Sahib vi si sistemò dunque con i pochi indù a lui devoti. Ben presto li rinforzò con una banda di Dacoit, degni di schierarsi sotto gli ordini di un capo simile, ed aspettò. Ma che cosa aspettava da quattro mesi? Che Kâlagani avesse compiuto la missione, e lo avvertisse del prossimo arrivo del colonnello Munro in quella parte dei Vindhya, dove sarebbe caduto in suo potere. Tuttavia, un timore s'impadronì di Nana Sahib, e fu che la notizia della sua morte, diffusasi in tutta la penisola, giungesse alle orecchie di Kâlagani. Se quello vi avesse creduto, avrebbe forse abbandonato la sua opera di tradimento verso il colonnello Munro? Perciò, un altro indù venne mandato sulle strade del Bundelkund, quel Nassim che, mescolatosi alla carovana dei Banjari, incontrò il treno della Steam-House sulla strada dello Scindia, si mise in comunicazione con Kâlagani, e lo informò del vero stato delle cose. Ciò fatto, Nassim, senza perdere un'ora, tornò alla fortezza di Ripore, ed informò Nana Sahib di tutto quanto era accaduto dal giorno in cui Kâlagani aveva lasciato Bhopal. Il colonnello Munro e i suoi compagni avanzavano a piccole giornate verso i Vindhya. Kâlagani li guidava, ed era nei dintorni del lago Puturia che bisognava aspettarli. Tutto era dunque riuscito secondo i desideri del nababbo; la sua vendetta non poteva più sfuggirgli. Ed infatti, quella sera, il colonnello Munro era solo, inerme, alla sua presenza, alla sua mercé. Dopo aver scambiate le prime parole, quei due uomini si guardarono un istante in silenzio. Ma subito, essendo l'immagine di lady Munro ripassata più vivamente davanti ai suoi occhi, il colonnello si sentì affluire il sangue dal cuore alla testa; si slanciò sull'omicida dei prigionieri di Cawnpore! Nana Sahib si accontentò di fare due passi indietro. Tre indù si erano subito gettati addosso al colonnello, e lo trattennero, non senza stento. Frattanto sir Edward Munro si era calmato; il nababbo senza dubbio lo comprese, poiché, con un gesto, allontanò gli indù. I due nemici si trovarono un'altra volta a faccia a faccia. — Munro, — disse Nana Sahib, — i tuoi hanno legato alla bocca dei loro cannoni i centoventi prigionieri di Peschawar, e da quel giorno, più di milleduecento Cipay sono periti di questa morte spaventosa! I tuoi hanno trucidato senza pietà i fuggitivi di Lahore, hanno sgozzato, dopo la presa di Delhi, tre principi e ventinove membri della famiglia reale, hanno trucidato a Lucknow seimila dei nostri e tremila dopo la campagna del Pendjab! In tutto, col cannone, col fucile, con la forca o con la sciabola, centoventimila ufficiali o soldati indigeni e duecentomila civili hanno pagata con la vita quell'insurrezione per l'indipendenza nazionale! — A morte! a morte!— esclamarono i Dacoit e gli indù schierati intorno a Nana Sahib. Il nababbo impose loro silenzio con la mano, e aspettò che il colonnello Munro gli rispondesse. Il colonnello non rispose. — Quanto a te, Munro, — soggiunse il nababbo, — hai ucciso di tua mano la rhani di Jansi, mia fedele compagna... ed ella non è ancora vendicata! Nessuna risposta del colonnello Munro. — Infine, quattro mesi or sono, — disse Nana Sahib, — mio fratello Balao Rao è caduto sotto le pallottole inglesi dirette contro di me... e mio fratello non è ancora vendicato! — A morte! a morte! Tali grida scoppiarono questa volta con maggior violenza, e tutta la banda sembrò voler gettarsi sul prigioniero. — Silenzio! — esclamò Nana Sahib. — Aspettate l'ora della giustizia! Tutti tacquero. — Munro, — soggiunse il nababbo, — fu uno dei tuoi antenati, fu Hector Munro, che osò adottare per la prima volta quello spaventoso supplizio, di cui i tuoi hanno fatto un uso così terribile durante la guerra del 1857! Fu lui che diede l'ordine di legare vivi, alla bocca dei suoi cannoni, degli indù, nostri parenti, nostri fratelli! Nuove grida, nuove dimostrazioni, che Nana Sahib, questa volta, non avrebbe potuto reprimere. Perciò: — Rappresaglia per rappresaglia — egli aggiunse, — Munro, tu morirai come sono morti tanti dei nostri! Poi, voltandosi: — Guarda quel cannone! Ed il nababbo mostrava l'enorme pezzo, lungo più di cinque metri, che occupava il centro della spianata. — Sarai legato, — disse, — alla bocca di quel cannone! È carico, e domani, all'alba, il suo sparo, ripercuotendosi fino in fondo ai Vindhya, farà sapere a tutti che la vendetta di Nana Sahib è finalmente compiuta! Il colonnello Munro guardava fissamente il nababbo con una calma che l'annuncio del suo prossimo supplizio non poteva turbare. — Sta bene, — disse, — tu fai quello che avrei fatto anch'io se tu fossi caduto in mio potere! E andò a mettersi egli stesso davanti alla bocca del cannone, alla quale, con le mani legate dietro il dorso, fu assicurato con robuste corde. Ed allora, per una lunga ora, tutta quella banda di Dacoit e di indù venne ad insultarlo vigliaccamente. Si sarebbero detti Sioux dell'America del Nord intorno a un prigioniero incatenato al palo del supplizio. Il colonnello Munro rimase impassibile di fronte all'oltraggio, come voleva esserlo di fronte alla morte. Poi, scesa la notte, Nana Sahib, Kâlagani e Nassim si ritirarono nella vecchia caserma. Tutta la banda, stanca finalmente, raggiunse i suoi capi. Sir Edward Munro rimase in presenza della morte e di Dio. CAPITOLO XII ALLA BOCCA DI UN CANNONE IL SILENZIO non durò un pezzo. La banda dei Dacoit era stata fornita di provviste e mentre essi mangiavano, si potevano sentire gridare, vociferare, sotto l'influenza di quel violento liquore d'arak, di cui facevano uso smodato. Ma tutto quel baccano si placò a poco a poco. Il sonno non doveva tardare ad impadronirsi di quei bruti, che avevano anche sulle spalle le fatiche di una lunga giornata. Sir Edward Munro stava dunque per essere lasciato senza guardiani fino al momento in cui fosse suonata l'ora della sua morte? Nana Sahib non avrebbe forse fatto sorvegliare il suo prigioniero, benché costui, saldamente legato dai triplici giri di corda che gli stringevano le braccia ed il petto, non fosse in grado di fare un movimento? Il colonnello se lo chiedeva, quando, verso le otto, vide un indù lasciare la caserma ed avanzare sulla spianata. Quell'indù aveva per consegna di rimanere tutta la notte presso il colonnello Munro. Anzitutto, dopo aver attraversato obliquamente la spianata, venne dritto al cannone, per assicurarsi che il prigioniero fosse sempre là. Con mano robusta saggiò le corde, che non cedettero; poi, senza rivolgersi al colonnello, ma parlando a se stesso: — Dieci libbre di buona polvere! — disse. — È un pezzo che il vecchio cannone di Ripore non ha parlato; ma domani parlerà!... Questa riflessione portò un sorriso di disprezzo sul volto fiero del colonnello Munro; la morte, per quanto orrenda dovesse essere, non lo spaventava. L'indù, dopo aver esaminato la parte anteriore del cannone, tornò un po' indietro, accarezzò con la mano la grossa culatta, ed il suo dito si posò un istante sul focone che la polvere dell'esca riempiva fino all'orlo. Poi, l'indù rimase appoggiato al bottone della culatta. Sembrava che avesse assolutamente dimenticato che il prigioniero fosse là, come un paziente al piede della forca, aspettando che la botola gli si spalanchi sotto i piedi. Fosse indifferenza o effetto dell'arak che aveva bevuto, l'indù canticchiava fra i denti un vecchio ritornello del Gondwana. Si interrompeva e ricominciava, come uomo al quale, sotto l'influenza di una mezza sbronza, il pensiero sfugge poco alla volta. Un quarto d'ora più tardi, l'indù si raddrizzò. Accarezzata con la mano la groppa del cannone, ne fece il giro e, arrestandosi davanti al colonnello Munro, lo guardò mormorando delle parole incoerenti. Per istinto, le sue dita afferrarono un'ultima volta le corde, come per stringerle più saldamente; poi, scuotendo il capo, da uomo rassicurato, andò ad appoggiarsi al parapetto, a una decina di passi, alla sinistra del pezzo. Per dieci minuti ancora, l'indù rimase in quella posizione, ora rivolto verso la spianata, ora affacciato al di fuori, spingendo lo sguardo nell'abisso che si spalancava ai piedi della fortezza. Era chiaro che faceva un ultimo sforzo per non cedere al sonno; ma finalmente la stanchezza lo vinse ed egli si lasciò scivolare a terra, vi si sdraiò; e l'ombra del parapetto lo rese assolutamente invisibile. Del resto, la notte era già profonda. Dense nuvole immobili si allungavano nel cielo; l'atmosfera era tranquilla come se le molecole dell'aria fossero state saldate l'una all'altra. I rumori della vallata non giungevano fino a quell'altitudine; il silenzio era assoluto. Come si sarebbe svolta quella notte d'angoscia per il colonnello Munro, bisogna riferirlo, a tutto onore di quell'uomo energico. Egli non pensò un solo istante a quell'ultimo momento della sua vita, durante il quale i tessuti del suo corpo, lacerati violentemente, le sue membra orribilmente disperse, sarebbero andati a perdersi nello spazio. Non sarebbe stato che un attimo fulmineo, in fin dei conti, e certo non era cosa da scuotere una natura sulla quale il terrore fisico o morale non aveva mai avuto presa. Gli rimanevano ancora poche ore di vita: esse appartenevano a quell'esistenza che era stata così felice nel suo periodo più lungo. La sua vita gli si spiegava davanti tutta quanta con singolare precisione, tutto il suo passato si ripresentava al suo animo. L'immagine di lady Munro gli si ergeva davanti. Egli la rivedeva, la udiva, quell'infelice che egli piangeva come nei primi giorni, non più con gli occhi ma con il cuore! La ritrovava fanciulla in quella funesta città di Cawnpore, in quell'abitazione dove l'aveva per la prima volta ammirata, conosciuta, amata! Quei pochi anni di felicità, terminati bruscamente nella più spaventosa delle catastrofi, si ravvivarono nel suo animo. Tutti i loro particolari, per piccoli che fossero, gli si ripresentarono alla memoria con tale limpidezza, che la realtà non sarebbe stata forse più vera! Più di metà della notte era già passata, e sir Edward Munro non se ne era avveduto. Egli era vissuto tutto nei suoi ricordi senza che nulla lo distraesse da essi, laggiù, presso la sua adorata moglie. In tre ore erano stati riassunti i tre anni che egli aveva trascorso accanto a lei! Sì! la sua immaginazione lo aveva tolto irresistibilmente dalla spianata della fortezza di Ripore, lo aveva strappato dalla bocca di quel cannone, di cui il primo raggio del sole avrebbe dovuto, per così dire, accendere l'esca! Ma allora gli apparve l'orribile conclusione dell'assedio di Cawnpore, la prigionia di lady Munro e di sua madre nel Bibi-Ghar, il massacro delle loro disgraziate compagne, e finalmente quel pozzo, tomba di duecento vittime, sul quale quattro mesi prima egli era andato a piangere un'ultima volta. E quell'odioso Nana Sahib che era là, a pochi passi, dietro le mura di quella caserma in rovina, l'ordinatore dei massacri, l'assassino di lady Munro e di tante altre sventurate! Ed egli era caduto fra le sue mani, lui che aveva voluto farsi giustiziere di quell'assassino che la giustizia non aveva potuto colpire! Sir Edward Munro, sotto l'azione di una collera cieca, fece uno sforzo disperato per rompere i suoi legami. Le corde scricchiolarono, e i nodi, serrati, gli entrarono nelle carni. Egli emise un grido, non di dolore, ma di rabbia impotente. A quel grido, l'indù, sdraiato all'ombra del parapetto, alzò il capo. Egli riafferrò il senso della sua situazione, e si ricordò che era il guardiano del prigioniero. Si rialzò dunque, si accostò incerto al colonnello Munro, gli pose la mano sulla spalla, per assicurarsi che era sempre là, e con il tono di un uomo semiaddormentato : — Domani, — disse, — al levar del sole... bum! Poi, ritornò verso il parapetto, per ripigliarvi un punto d'appoggio. Appena lo ebbe toccato, si sdraiò a terra e non tardò ad assopirsi del tutto. Dopo questo sforzo inutile, una specie di calma aveva ripreso il colonnello Munro. Il corso dei suoi pensieri mutò, senza che egli pensasse più oltre alla sorte che lo aspettava. Per un'associazione di idee naturalissima, pensò ai suoi amici, ai suoi compagni; si chiese se anche essi non fossero caduti nelle mani di un'altra banda di quei Dacoit che formicolavano nei Vindhya, se non fosse stata loro riservata una sorte simile alla sua, e questo pensiero gli strinse il cuore. Ma quasi subito pensò che ciò non poteva essere. Infatti, se il nababbo avesse deciso la loro morte, li avrebbe uniti a lui nel medesimo supplizio, avrebbe voluto raddoppiare le sue angosce con quelle dei suoi amici. No! su di lui, su di lui solo, almeno tentava di sperarlo, Nana Sahib voleva saziare il proprio odio! Pure, se mai, caso impossibile, Banks, il capitano Hod, Maucler, erano liberi, che cosa facevano? Avevano preso la via di Jubbulpore, sulla quale il Gigante d'Acciaio, che i Dacoit non avevano potuto distruggere, poteva trasportarli rapidamente? Là, i soccorsi non sarebbero mancati! Ma a che cosa potevano servire? Come avrebbero potuto sapere dove era il colonnello Munro? Nessuno conosceva la fortezza di Ripore, la tana di Nana Sahib. E del resto, perché mai il nome del nababbo si sarebbe loro presentato alla mente? Nana Sahib non era forse morto per loro? Non era caduto nell'assalto del pâl di Tandît? No, essi non potevano far nulla per il prigioniero! Quanto a Goûmi, nessuna speranza nemmeno da quella parte. Kâlagani aveva avuto il massimo interesse a disfarsi di quell'affezionato servitore, e poiché Goûmi non era là, era segno che aveva preceduto il suo padrone nella tomba! Fare assegnamento su una probabilità qualunque di salvezza sarebbe stato inutile. Il colonnello Munro non era un uomo da farsi delle illusioni; vedeva le cose nella loro realtà, e tornò ai suoi pensieri iniziali, ai ricordi dei giorni felici che gli riempivano il cuore. Quante ore fossero passate mentre egli fantasticava così, gli sarebbe stato difficile dirlo. La notte era sempre buia. Sulla vetta della montagna a est non appariva ancora nulla che annunciasse i primi bagliori dell'alba. Pure, dovevano essere circa le quattro del mattino, quando l'attenzione del colonnello Munro fu attirata da un fenomeno bizzarro. Fino a quel momento, nel suo ritorno all'esistenza passata, egli aveva guardato dentro di sé piuttosto che al di fuori. Gli oggetti esterni, poco distinti in quelle profonde tenebre, non avrebbero potuto distrarlo; ma allora, i suoi occhi divennero più fissi, e tutte le immagini evocate nella sua memoria si cancellarono di colpo davanti a una specie d'apparizione, tanto inaspettata quanto inesplicabile. Infatti, il colonnello Munro non era più solo sulla spianata di Ripore. Una luce, ancora indecisa, era apparsa verso l'estremità del sentiero, alla pusterla della fortezza. Essa andava e veniva, vacillante, turbata, minacciando di spegnersi, tornando a splendere, come se fosse stata retta da una mano poco sicura. Nella situazione in cui si trovava il prigioniero, qualsiasi incidente poteva avere la sua importanza. Perciò i suoi occhi non lasciarono più quel fuoco; egli osservò che da esso sfuggiva una specie di vapore fuligginoso e che era mobile, donde concluse che non doveva essere chiuso in un fanale. «Uno dei miei compagni», pensò il colonnello Munro... «Goûmi forse! Ma no!... Non sarebbe venuto con un lume che lo tradirebbe... Che cos'è dunque?» Il lume si avvicinava lentamente. Scivolò dapprima lungo il muro della vecchia caserma, e sir Edward Munro poté temere che dovesse essere veduto da qualcuno degli indù che vi dormivano. Ma non fu così; il lume passò senza essere notato; talvolta, la mano che lo reggeva si agitava con moto febbrile, ed esso si ravvivava e brillava di splendore più vivo. Poco dopo il lume aveva raggiunto il muro del parapetto, e ne seguì la cresta, come un fuoco di Sant'Elmo nelle notti d'uragano. Allora il colonnello Munro cominciò a distinguere una specie di fantasma, senza forma definita, un'ombra, che quella luce illuminava vagamente. L'essere, qualunque fosse, che avanzava così, doveva essere coperto di un lungo mantello, sotto il quale si nascondevano le sue braccia e la sua testa. Il prigioniero non si muoveva, tratteneva il respiro. Temeva di spaventare quell'apparizione, di vedere spegnersi la fiamma, la cui luce la guidava nell'ombra. Egli era immobile quanto il pesante cannone che sembrava tenerlo nelle sue enormi fauci. Frattanto, il fantasma continuava ad avanzare lungo il parapetto. Non poteva accadere che andasse a urtare contro il corpo dell'indù addormentato? No, l'indù era sdraiato a sinistra del cannone, e l'apparizione veniva da destra, a volte fermandosi, poi riprendendo il cammino a piccoli passi. Finalmente, fu vicina abbastanza perché il colonnello Munro potesse distinguerla nitidamente. Era un essere di media statura, il cui corpo era coperto effettivamente da un lungo drappo. Da quel drappo usciva una mano, che reggeva un ramo resinoso acceso. «Qualche pazzo che ha l'abitudine di visitare l'attendamento dei Dacoit», pensò il colonnello Munro; «e al quale non si bada neppure! Perché, invece, di un lume, non ha in mano un pugnale? Forse, potrei!...». Non era un pazzo, eppure sir Edward Munro aveva quasi indovinato. Era la pazza della valle del Nerbudda, la creatura incosciente che, da quattro mesi, vagava attraverso i Vindhya sempre rispettata ed ospitalmente accolta da quei Gound superstiziosi. Né Nana Sahib né nessuno dei suoi compagni sapeva quale parte la Fiamma Errante aveva avuto nell'assalto del pâl di Tandît. Spesso l'avevano incontrata in quella parte montagnosa del Bundelkund, e non si erano mai preoccupati per la sua presenza. Già molte volte, nelle sue corse incessanti, essa si era spinta fino alla fortezza di Ripore, e nessuno aveva pensato di cacciarla via. Era solo una delle sue fortuite peregrinazioni notturne che la conduceva lì anche quella notte. Il colonnello Munro non sapeva nulla di quanto si riferiva alla pazza; egli non aveva mai udito parlare della Fiamma Errante, eppure, quell'essere sconosciuto che si avvicinava, che stava per toccarlo, per parlargli forse, gli faceva battere il cuore con una violenza inesplicabile. A poco a poco, la pazza si era avvicinata al cannone; la sua torcia resinosa non gettava più che deboli bagliori ed ella sembrava che non vedesse il prigioniero, benché gli fosse di fronte e i suoi occhi fossero quasi visibili attraverso quel mantello, in cui si aprivano dei buchi, come nel cappuccio di un incappucciato. Sir Edward Munro non si moveva; non cercava di attirare l'attenzione di quella strana creatura né con un cenno del capo né con una parola. Del resto, essa tornò quasi subito indietro, in modo da fare il giro dell'enorme cannone, sulla cui superficie la sua torcia disegnava piccole ombre vacillanti. Capiva forse, la povera folle, a che cosa doveva servire quel cannone, steso là come un mostro, perché quell'uomo era legato a quella bocca, che al primo raggio del sole avrebbe vomitato il tuono e il fulmine? No, senza dubbio. La Fiamma Errante era là, come dappertutto, inconsapevole; quella notte, essa vagava come aveva già fatto molte volte, sulla spianata di Ripore. Poi, l'avrebbe lasciata, avrebbe ridisceso il sentiero sinuoso, sarebbe ritornata nella vallata, e avrebbe diretto di nuovo i suoi passi là dove l'avesse spinta la sua fantasia vagabonda. Il colonnello Munro, che poteva voltare il capo liberamente, seguiva tutti i suoi movimenti. Egli la vide passare dietro il cannone; di là, essa si diresse in modo da giungere al muro del parapetto, per seguirlo, senza dubbio, fino al punto in cui si congiungeva alla pusterla. Infatti, la Fiamma Errante camminò in quella direzione, ma, fermatasi improvvisamente, a pochi passi dall'indù addormentato, si voltò. Qualche impedimento invisibile le impediva dunque di andare avanti? Checché ne fosse, un inesplicabile istinto la ricondusse verso il colonnello Munro, e rimase ancora immobile davanti a lui. Questa volta, il cuore di sir Edward Munro batteva con tanta forza, che egli avrebbe voluto portarvici le mani per trattenerlo! La Fiamma Errante si era avvicinata maggiormente. Aveva sollevato la fiaccola all'altezza del viso del prigioniero, come se avesse voluto vederlo meglio. Attraverso i buchi del suo cappuccio, i suoi occhi si accesero di una luce ardente. Il colonnello Munro, involontariamente affascinato da quel fuoco, la divorava con lo sguardo. Allora, la mano sinistra della pazza scostò a poco a poco le pieghe del mantello. Poco dopo, il suo viso si mostrò scoperto, ed in quel momento, con la mano destra, ella agitò la torcia, che mandò una luce più intensa. Un grido, un grido mezzo soffocato, sfuggì dal petto del prigioniero: — Laurence! Laurence! Si credette pazzo a sua volta!... I suoi occhi si chiusero per un istante. Era lady Munro! Sì! lady Munro in persona, che gli stava davanti! — Laurence!... tu... tu! — ripeté. Lady Munro non rispose nulla. Non lo riconosceva. Non sembrava neppure udirlo. — Laurence! Pazza! pazza, si!... ma viva! Sir Edward Munro non aveva potuto ingannarsi con ima pretesa somiglianza. L'immagine della sua giovane moglie era troppo profondamente scolpita in lui! No! Anche dopo nove anni di una separazione che egli doveva credere eterna, era lady Munro, mutata senza dubbio, ma ancora bella, era lady Munro, sfuggita per miracolo ai carnefici di Nana Sahib, che gli stava davanti! La sventurata, dopo aver fatto di tutto per difendere sua madre, sgozzata sotto i suoi occhi, era caduta. Ferita, ma non mortalmente, confusa con tante altre vittime, ella fu tra le ultime ad essere precipitata nel pozzo di Cawnpore, sulle vittime ammonticchiate che già lo riempivano. Venuta la notte, un supremo istinto di conservazione la ricondusse all'orlo del pozzo, solo l'istinto, poiché la ragione, in seguito a quelle scene spaventose, l'aveva già abbandonata. Dopo tutto quanto aveva sofferto dal principio dell'assedio, nella prigione del Bibi-Ghar, sul teatro del massacro, dopo aver visto sgozzare sua madre, aveva perduto il senno. Era pazza, pazza, ma viva! proprio come aveva riconosciuto Munro. Pazza, si era trascinata fuori del pozzo, aveva girovagato nei dintorni e aveva potuto lasciare la città, nel momento in cui Nana Sahib e i suoi l'abbandonavano, dopo il sanguinoso eccidio. Pazza, era fuggita nelle tenebre, andando sempre dritto davanti a sé, attraverso la campagna. Evitando le città, fuggendo i territori abitati, ospitata qua e là da poveri raiot, rispettata come un essere privo di senno, la povera pazza era andata così fino ai monti Sautpurra, fino ai Vindhya! E, morta per tutti da nove anni, ma con lo spirito sempre impressionato dal ricordo degli incendi dell'assedio, vagava di continuo! Sì, era proprio lei! Il colonnello Munro la chiamò ancora... ella non rispose. Quanto avrebbe dato per poterla stringere fra le braccia, sollevarla, portarla via, ricominciare accanto a lei una nuova esistenza, renderle la ragione a forza di cure e d'amore!... Ed egli era legato a quella massa di metallo, il sangue gli sgorgava dalle braccia dalle ferite che vi scavavano le corde, e nulla poteva strapparlo con lei da quel luogo maledetto! Quale supplizio, quale tortura che nemmeno la crudele immaginazione di Nana Sahib aveva potuto sognare! Ah! se quel mostro fosse stato presente, se avesse saputo che lady Munro era in suo potere, quale orribile gioia ne avrebbe provato! Quale raffinatezza avrebbe aggiunto senza dubbio alle angosce del prigioniero! — Laurence! Laurence! — ripeteva sir Edward Munro. E la chiamava ad alta voce, a rischio di risvegliare l'indù addormentato a pochi passi, a rischio di attirare i Dacoit, coricati nella vecchia caserma, e lo stesso Nana Sahib. Ma lady Munro, senza comprendere, continuava a guardarlo con gli occhi smarriti. Ella non vedeva nulla delle spaventose sofferenze che subiva quello sventurato, che la ritrovava nel momento in cui egli doveva morire! Ella dondolava il capo, come se non avesse voluto rispondere. Passarono così alcuni minuti; poi, la sua mano si abbassò, il velo le ricadde sul viso ed ella indietreggiò di un passo. Il colonnello Munro credette che volesse andarsene. — Laurence! — gridò un'ultima volta, come se le avesse gettato un supremo addio. Ma no! Lady Munro non pensava a lasciare la spianata di Ripore, e la situazione, per quanto fosse già spaventosa, doveva aggravarsi ancora. Infatti, lady Munro si fermò. Evidentemente, quel cannone aveva attirato la sua attenzione. Forse in lei si risvegliava qualche oscuro ricordo dell'assedio di Cawnpore! Ella tornò dunque indietro a passi lenti. La mano che reggeva la torcia resinosa ne faceva passare la fiamma sul cilindro di metallo, e bastava che una scintilla accendesse l'esca perché il colpo partisse. Munro doveva dunque morire per sua mano? Egli non poté sopportare tale idea! Era meglio perire sotto gli occhi di Nana Sahib e dei suoi! Munro stava per chiamare, per risvegliare i suoi carnefici!... A un tratto sentì dall'interno del cannone una mano che stringeva le sue, legate dietro il dorso. Era la pressione di una mano amica che cercava di sciogliere i suoi legami. Poco dopo, il freddo d'una lama d'acciaio, insinuandosi con precauzione fra le corde e i suoi polsi, lo avvertì che nell'interno stesso di quel cannone enorme stava, per quale miracolo? un liberatore. Non poteva ingannarsi! le corde che lo legavano venivano recise!... In un secondo, fu cosa fatta! Egli poté fare un passo avanti: era libero! Per quanto fosse padrone di sé, fu sul punto di emettere un grido che lo avrebbe perduto!... Una mano si allungò fuori della bocca del cannone... Munro l'afferrò, la tirò, ed un uomo, uscendo con un ultimo sforzo dall'orifizio del cannone, cadeva ai suoi piedi. Era Goûmi! Il fedele servitore, dopo essere fuggito, aveva continuato a seguire la strada di Jubbulpore, invece di ritornare al lago, verso il quale si dirigeva il drappello di Nassim. Giunto al sentiero di Ripore, aveva dovuto nascondersi una seconda volta. Un drappello di indù era là e parlava del colonnello Munro che i Dacoit diretti da Kâlagani, dovevano condurre alla fortezza, dove Nana Sahib gli riservava la morte per mezzo del cannone. Senza esitare, Goûmi era scivolato nell'ombra fino al sentiero tutto svolte, era giunto alla spianata, in quel momento deserta, ed allora gli era venuta l'idea di introdursi nell'enorme macchina, con l'idea di liberare il suo padrone, se le circostanze lo avessero permesso, oppure, se non avesse potuto salvarlo, di subire con lui la medesima morte. — Sta per spuntare il giorno! — disse Goûmi a bassa voce. — Fuggiamo! — E lady Munro? Il colonnello mostrava la pazza, in piedi, immobile. La sua mano era, in quel momento, appoggiata alla culatta del cannone. — Fra le nostre braccia, padrone... — rispose Goûmi senza chiedere altre spiegazioni. Era troppo tardi! Nel momento in cui il colonnello e Goûmi le si accostarono per afferrarla, lady Munro, volendo sfuggir loro, si aggrappò con la mano al cannone, la fiaccola le cadde sull'esca, e una terribile detonazione, ripercossa dagli echi dei Vindhya, riempi di un fragore di tuono tutta la valle del Nerbudda. CAPITOLO XIII IL GIGANTE D'ACCIAIO AL RUMORE di quello scoppio, lady Munro era caduta svenuta fra le braccia del marito. Senza perdere un istante, il colonnello si slanciò attraverso la spianata, seguito da Goûmi. L'indù, armato del suo largo coltello, ebbe la meglio in un istante del guardiano sbigottito che la detonazione aveva fatto rizzare in piedi. Poi entrambi si gettarono nello stretto sentiero che conduceva alla strada di Ripore. Sir Edward Munro e Goûmi avevano appena superato la pusterla che la banda di Nana Sahib, bruscamente destata, invadeva la spianata. Fra gli indù vi fu un attimo d'esitazione che poteva essere favorevole ai fuggitivi. Infatti, Nana Sahib passava raramente la notte intera nella fortezza. La sera prima, dopo aver fatto legare il colonnello Munro alla bocca del cannone, era andato a raggiungere alcuni capi di tribù del Gondwana, che non visitava mai di pieno giorno. Ma quella era l'ora in cui egli di solito ritornava, e non poteva tardare a riapparire. Kâlagani, Nassim, gli indù, i Dacoit, più di cento uomini erano pronti a inseguire il prigioniero; un pensiero solo li tratteneva ancora. Che cosa fosse accaduto lo ignoravano assolutamente. Il cadavere dell'indù che era stato messo di guardia al colonnello non poteva dir loro nulla. Ora, di tutte le probabilità, in questa essi dovevano credere: che, per una circostanza fortuita, fosse stato dato fuoco al cannone prima dell'ora fissata per il supplizio, e che del prigioniero non rimanessero più ormai che dei brandelli informi! Il furore di Kâlagani e degli altri si manifestò con un concerto di maledizioni. Né Nana Sahib, né alcuno di loro avrebbe avuto dunque la gioia di assistere agli ultimi momenti del colonnello Munro! Ma il nababbo non era lontano. Aveva dovuto sentire la detonazione, e sarebbe ritornato in gran fretta alla fortezza. Che cosa gli avrebbero risposto quando avesse chiesto conto del prigioniero che aveva lasciato? Da ciò, nacque in tutti un'esitazione che aveva dato ai fuggitivi il tempo di guadagnare strada, prima di essere veduti. Perciò, sir Edward Munro e Goûmi, pieni di speranza, dopo quella liberazione miracolosa, scendevano rapidamente il tortuoso sentiero. Lady Munro, benché svenuta, non pesava molto per le braccia robuste del colonnello; il suo servitore era là, del resto, per venirgli in aiuto. Cinque minuti dopo aver passato la pusterla, entrambi erano a mezza strada fra la spianata e la valle. Ma cominciava a spuntare il giorno, e i primi bagliori dell'alba penetravano già fino in fondo alla stretta gola. Delle alte grida scoppiarono allora sopra di loro. Curvo sul parapetto, Kâlagani aveva visto vagamente il profilo di due uomini che fuggivano; uno di quegli uomini non poteva essere che il prigioniero di Nana Sahib! — Munro! È Munro! — gridò Kâlagani, pazzo di furore. E, superando la pusterla, prese ad inseguirlo, accompagnato da tutta la banda. — Siamo stati veduti! — disse il colonnello senza rallentare il passo. — Io fermerò i primi! — rispose Goûmi. — Mi uccideranno, ma questo forse vi darà il tempo di giungere alla strada. — Ci uccideranno entrambi, o sfuggiremo loro insieme! — esclamò Munro. Il colonnello e Goûmi avevano affrettato il passo. Giunti alla parte inferiore del sentiero, già meno ripido, potevano correre. Non mancavano più che una quarantina di passi per giungere alla via di Ripore, che immetteva nella strada principale, sulla quale la fuga sarebbe stata facile. Ma anche l'inseguimento sarebbe stato più facile. Cercare un rifugio sarebbe stato inutile, in breve sarebbero stati scoperti entrambi. Dunque, bisognava lasciarsi indietro gli indù, ed uscire prima di loro dalle gole dei Vindhya. Il colonnello Munro si decise immediatamente; egli non sarebbe ricaduto vivo nelle mani di Nana Sahib. Con il pugnale di Goûmi avrebbe colpito colei che gli era stata restituita, piuttosto che consegnarla al nababbo, poi con lo stesso pugnale avrebbe colpito se stesso! Entrambi avevano allora un vantaggio di cinque minuti circa. Nel momento in cui i primi indù superavano la pusterla, il colonnello Munro e Goûmi intravedevano già la via a cui portava il sentiero, e la strada principale non era che a un quarto di miglio. — Coraggio, padrone! — diceva Goûmi, pronto a fare scudo al colonnello col proprio corpo. — Fra cinque minuti, saremo sulla via di Jubbulpore! — Dio voglia che vi troviamo aiuto! — mormorò il colonnello Munro. I clamori degli indù si facevano sempre più distinti. Nel momento in cui i fuggitivi sbucavano sulla via, due uomini, che camminavano rapidamente, giungevano all'inizio del sentiero. Era abbastanza chiaro allora da potersi riconoscere, e due nomi, come due grida d'odio, s'incrociarono contemporaneamente: — Munro! — Nana Sahib! Il nababbo, al rombo della detonazione, era accorso e risaliva in tutta fretta alla fortezza. Egli non poteva comprendere perché i suoi ordini fossero stati eseguiti prima dell'ora stabilita. Un indù lo accompagnava, ma, prima che questo indù avesse potuto fare un passo o un gesto, cadeva ai piedi di Goûmi, mortalmente colpito dal coltello che aveva reciso i lacci del colonnello. — A me! — gridò Nana Sahib, chiamando tutta la banda che scendeva il sentiero. — Sì, a te! — rispose Goûmi. E più pronto del lampo, si gettò sul nababbo. Era sua intenzione, almeno se non fosse riuscito a ucciderlo al primo colpo, di lottare con lui, in modo da dare al colonnello Munro il tempo di giungere alla strada; ma la mano di ferro del nababbo aveva fermato la sua, e il coltello gli era sfuggito di mano. Furibondo di sentirsi disarmato, Goûmi afferrò allora il suo avversario alla cintola, e stringendolo contro il petto lo portò via nelle sue braccia robuste, deciso a precipitarsi con lui nel primo abisso che avesse incontrato. Frattanto, Kâlagani e i suoi compagni, avvicinandosi, stavano per giungere all'estremità inferiore del sentiero, ed allora non ci sarebbe più stata speranza di sfuggire loro! — Ancora uno sforzo! — ripeteva Goûmi. — Io terrò duro per alcuni minuti, facendomi scudo del loro nababbo! Fuggite, padrone, fuggite senza di me! Ma tre minuti appena separavano ormai i fuggitivi da coloro che li inseguivano, e il nababbo chiamava Kâlagani con voce soffocata. Ad un tratto, venti passi più avanti, si udirono delle grida. — Munro! Munro! Banks era là, sulla strada di Ripore, con il capitano Hod, Maucler, il sergente Mac Neil, Fox, Parazard e a cento passi da loro, sulla strada principale, il Gigante d'Acciaio, lanciando turbini di fumo, li aspettava con Storr e Kâlouth. Dopo la distruzione dell'ultima casa della Steam-House, l'ingegnere e i suoi compagni avevano soltanto una cosa da fare: utilizzare come veicolo l'elefante che la banda dei Dacoit non aveva potuto distruggere. Perciò, inerpicati sul Gigante d'Acciaio, avevano subito lasciato il lago Puturia e risalito la via di Jubbulpore. Ma nel momento in cui passavano davanti alla strada che conduceva alla fortezza, una formidabile detonazione era echeggiata sopra le loro teste, e si erano fermati. Un presentimento, un istinto, se si vuole, li aveva indotti a spingersi su quella via. Che cosa speravano? Non lo avrebbero potuto dire. Fatto è che, pochi minuti dopo, il colonnello era davanti a loro, e gridava: — Salvate lady Munro! — E tenete fermo Nana Sahib, quello vero! — esclamò Goûmi. Egli aveva, con un ultimo sforzo furibondo, gettato a terra il nababbo, semisoffocato, di cui il capitano Hod, Mac Neil e Fox s'impadronirono. Poi, senza chiedere alcuna spiegazione, Banks e i suoi raggiunsero il Gigante d'Acciaio sulla strada. Per ordine del colonnello, che voleva consegnarlo alla giustizia inglese, Nana Sahib fu legato sul collo dell'elefante. Quanto a lady Munro, fu deposta nella torretta, e suo marito le si mise al fianco. Tutto rivolto a sua moglie, che cominciava a riprendere i sensi, spiava in lei qualche bagliore di ragione. L'ingegnere e i suoi compagni si erano inerpicati rapidamente sul dorso del Gigante d'Acciaio. — A tutta velocità! — gridò Banks. Il giorno era spuntato. Un primo drappello di indù appariva già a un centinaio di passi di distanza. Ad ogni costo, bisognava giungere, prima di loro, al posto avanzato dell'accantonamento militare di Jubbulpore, che controlla l'ultima gola dei Vindhya. Il Gigante d'Acciaio era abbondantemente fornito d'acqua e di combustibile, tutto ciò che era necessario per mantenerlo sotto pressione e dargli il suo massimo di velocità. Ma non poteva lanciarsi alla cieca su quella strada dalle svolte brusche. Le grida degli indù raddoppiavano, e tutta la banda gli si avvicinava. — Bisognerà difendersi — disse il sergente Mac Neil. — Ci difenderemo! — rispose il capitano Hod. Rimanevano ancora una dozzina di colpi da sparare; dunque non bisognava perdere un solo proiettile, perché gli indù erano armati, ed era necessario tenerli distanti. Il capitano Hod e Fox, con la carabina in mano, si appostarono sulla groppa dell'elefante un po' dietro la torretta. Goûmi si mise sul davanti, col fucile spianato, in modo da tirare diagonalmente. Mac Neil, accanto a Nana Sahib, con una rivoltella in una mano e un pugnale nell'altra, era pronto a colpirlo, se mai gli indù fossero giunti fino a lui. Kâlouth e Parazard, davanti al forno, lo caricavano di combustibile. Banks e Storr dirigevano la marcia del Gigante d'Acciaio. L'inseguimento durava già da dieci minuti. Duecento passi al massimo separavano gli indù, Banks ed i suoi compagni. Se quelli andavano più presto, l'elefante artificiale poteva tener duro più a lungo di loro. Tutta la tattica consisteva dunque nell'impedir loro di passare avanti. In quel momento, si udirono una dozzina di fucilate; le pallottole passarono fischiando sopra il Gigante d'Acciaio, tranne una che lo colpì all'estremità della proboscide. — Non fate fuoco! Non bisogna sparare che a colpo sicuro! — gridò il capitano Hod. — Risparmiamo le pallottole. Sono ancora troppo lontani! Banks, vedendo allora davanti a sé un miglio di strada che si svolgeva quasi in linea retta, azionò ampiamente l'acceleratore, e il Gigante d'Acciaio, aumentando la velocità, lasciò la banda molte centinaia di passi indietro. — Hurrah! hurrah per il nostro Gigante! — esclamò il capitano Hod che non poteva trattenersi. — Ah! canaglie! non lo piglieranno! Ma al termine di quel rettilineo, una specie di gola ripida e sinuosa, ultimo rilievo del versante meridionale dei Vindhya, doveva necessariamente ritardare la marcia di Banks e dei suoi compagni. Kâlagani e gli altri, sapendolo bene, non abbandonarono l'inseguimento. Il Gigante d'Acciaio giunse rapidamente a quella strettoia della via, che si cacciava fra due alte scarpate rocciose. Bisognò allora rallentare e avanzare con grandi precauzioni. A causa di tale ritardo, gli indù riguadagnarono tutto il terreno che avevano perduto: se non speravano più di salvare Nana Sahib, che era alla mercé di una pugnalata, volevano almeno vendicarne la morte. Poco dopo, si udirono nuovi spari, senza danno però per coloro che il Gigante d'Acciaio portava su di sé. — La cosa si fa seria! — disse il capitano Hod spianando la carabina. — Attenzione! Goûmi e lui spararono simultaneamente; due degli indù più vicini caddero al suolo colpiti al petto. — Due di meno! — disse Goûmi ricaricando la sua arma. — Due per cento! — esclamò il capitano Hod. — Non basta, bisogna che paghino più caro. E le carabine del capitano e di Goûmi, a cui si unì il fucile di Fox, colpirono mortalmente altri tre indù. Ma, dovendo avanzare in quella stretta gola sinuosa, non si camminava rapidamente. Mentre si restringeva, la strada, come si sa, presentava una salita molto ripida. Pure, un mezzo miglio ancora, poi, le ultime balze dei Vindhya sarebbero state superate, e il Gigante d'Acciaio sarebbe sbucato a cento passi da un posto militare quasi in vista della stazione di Jubbulpore! Gli indù non erano gente da indietreggiare davanti alle fucilate del capitano Hod e dei suoi compagni. La loro vita non contava più nulla quando si trattava di salvare o di vendicare Nana Sahib! Dieci, venti di loro sarebbero caduti sotto i proiettili, ma ne sarebbero rimasti ancora ottanta per gettarsi sul Gigante d'Acciaio e trionfare del piccolo drappello a cui esso serviva da cittadella ambulante! Perciò raddoppiarono gli sforzi per raggiungere i fuggitivi. Kâlagani non ignorava, del resto, che il capitano Hod e i suoi compagni dovevano essere ridotti alle loro ultime cartucce, e che in breve fucili e carabine sarebbero stati armi inutili nelle loro mani. Infatti, i fuggitivi avevano esaurito la metà delle munizioni che rimanevano loro, e stavano per essere ridotti all'impossibilità di difendersi. Pure, si udirono ancora quattro fucilate, e quattro indù caddero. Al capitano Hod e a Fox rimanevano solo due colpi da sparare. In quel momento, Kâlagani, che fino allora si era tenuto in disparte, si spinse più avanti di quello che consigliava la prudenza. — Ah! ti tengo! — esclamò il capitano Hod prendendolo di mira con gran calma. Il proiettile non lasciò la carabina del capitano Hod che per andar a colpire il traditore in mezzo alla fronte. Le sue mani si agitarono un istante, egli girò su se stesso e cadde. In quell'istante, apparve l'estremità sud della gola. Il Gigante d'Acciaio fece uno sforzo supremo, la carabina di Fox si fece udire un'ultima volta, e un ultimo indù rotolò a terra. Ma gli indù si avvidero quasi subito che il fuoco era cessato, e si slanciarono all'assalto dell'elefante, da cui non distavano più che cinquanta passi. — A terra! a terra! — gridò Banks. Sì, in quello stato di cose era meglio abbandonare il Gigante d'Acciaio, e correre verso il posto che non era più lontano. Il colonnello Munro, trasportando sua moglie fra le braccia, scese sulla via. Il capitano Hod, Maucler, il sergente e gli altri erano saltati immediatamente a terra. Soltanto Banks era rimasto nella torretta. — E questo delinquente! — esclamò il capitano Hod mostrando Nana Sahib legato sul collo dell'elefante. — Lasciami fare, capitano! — rispose Banks con uno strano tono. Poi, dopo aver azionato completamente l'acceleratore, scese a sua volta. Tutti allora fuggirono, col pugnale in mano, pronti a vender cara la vita. Frattanto, sotto la spinta del vapore, il Gigante d'Acciaio, benché abbandonato a se stesso, continuava a risalire il pendio; ma, non essendo più diretto, andò ad urtare contro la scarpata sinistra della via, come un ariete che vuol cozzare, ed arrestandosi bruscamente sbarrò quasi del tutto la strada. Banks ed i suoi ne distavano già una trentina di passi, quando gli indù si gettarono in massa sul Gigante d'Acciaio, per liberare Nana Sahib. Improvvisamente, un rumore spaventoso, simile ai più violenti scoppi di tuono, agitò gli strati d'aria con un'indescrivibile violenza. Banks, prima di lasciare la torretta, aveva caricato le valvole della macchina. Il vapore raggiunse dunque una tremenda pressione, e, quando il Gigante d'Acciaio urtò contro la parete di roccia, non potendo più uscire dai cilindri, fece scoppiare la caldaia, i cui rottami si dispersero in tutte le direzioni. — Povero Gigante! — esclamò il capitano Hod, — morto per salvarci! CAPITOLO XIV LA CINQUANTESIMA TIGRE DEL CAPITANO HOD IL COLONNELLO Munro, i suoi amici, i suoi compagni, non avevano più nulla da temere, né dal nababbo né dagli indù che si erano attaccati alla sua sorte né da quei Dacoit, di cui egli aveva formato una temibile banda in quella parte del Bundelkund. Al rumore prodotto dallo scoppio, i soldati del posto di Jubbulpore erano usciti in numero imponente. I pochi compagni di Nana Sahib che ancora rimanevano, trovandosi senza capo, si erano dati alla fuga. Il colonnello Munro si fece riconoscere, e mezz'ora dopo, tutti giungevano alla stazione, dove trovarono abbondantemente ciò che mancava loro, e soprattutto i viveri, di cui avevano urgente bisogno. Lady Munro fu alloggiata in un comodo albergo, nell'attesa del momento di condurla a Bombay. Lì, sir Edward Munro sperava di rendere la vita dell'anima a colei che viveva solo della vita del corpo, e che sarebbe sempre rimasta morta per lui, finché non avesse ricuperato la ragione! Per dire la verità, nessuno dei suoi amici si rassegnava a disperare della prossima guarigione di lady Munro. Tutti aspettavano fiduciosi un avvenimento che solo avrebbe potuto modificare l'esistenza del colonnello. Venne stabilito che, fino dal giorno successivo, si sarebbe partiti per Bombay. Il primo treno avrebbe ricondotto tutti gli ospiti della Steam-House verso la capitale dell'India occidentale. Questa volta, sarebbe stata la volgare locomotiva a trasportarli a tutta velocità, e non più l'infaticabile Gigante d'Acciaio, di cui non rimanevano ormai che rottami informi. Ma né il capitano Hod, suo fanatico ammiratore, né Banks, suo creatore ingegnoso, né nessuno dei membri della spedizione, avrebbero mai dimenticato quel «fedele animale», a cui avevano finito per attribuire una vera vita. Il rombo dell'esplosione che lo aveva distrutto doveva echeggiare per un pezzo nella loro memoria. Perciò nessuno si stupirà che, prima di lasciare Jubbulpore, Banks, il capitano Hod, Maucler, Fox, Goûmi, avessero voluto tornare sul teatro della catastrofe. Non c'era evidentemente più nulla da temere dalla banda dei Dacoit. Tuttavia, per eccesso di precauzione, quando l'ingegnere e i suoi compagni giunsero al posto dei Vindhya, un distaccamento di soldati si unì a loro, e, verso le undici, giungevano all'ingresso della gola. Dapprima, trovarono, sparsi al suolo, cinque o sei cadaveri mutilati. Erano quelli degli assalitori che si erano gettati sul Gigante d'Acciaio per liberare Nana Sahib. Ma era tutto. Del resto della banda, non c'era più alcuna traccia. Invece di ritornare nel loro covo di Ripore, ora conosciuto, gli ultimi fedeli di Nana Sahib avevano dovuto disperdersi nella valle del Nerbudda. Quanto al Gigante d'Acciaio, era interamente distrutto in seguito all'esplosione della caldaia. Una delle sue larghe zampe era stata scagliata a gran distanza; una parte della proboscide, lanciata contro la scarpata, vi si era incastrata e sporgeva come un braccio gigantesco. Dappertutto si vedevano lamiere curvate, dadi, bulloni, griglie, frammenti di cilindri, snodi di bielle. Al momento dell'esplosione, quando le valvole caricate non potevano più offrirgli una uscita, il vapore doveva essere stato a una pressione formidabile e superare forse le venti atmosfere. E ora, dell'elefante artificiale di cui gli ospiti della Steam-House si mostravano così fieri, di quel colosso che provocava la superstiziosa ammirazione degli indù, del capolavoro meccanico dell'ingegner Banks, di quel sogno divenuto realtà del fantasioso rajah di Buthan, non rimaneva altro che una carcassa irriconoscibile e senza valore! — Povera bestia! — non poté trattenersi dall'esclamare il capitano Hod, davanti al cadavere del suo caro Gigante d'Acciaio. — Se ne potrà fabbricare un altro... un altro che sarà ancora più poderoso! — disse Banks. — Senza dubbio, — rispose il capitano, lasciandosi sfuggire un grosso sospiro, — ma non sarà più lui! Mentre si abbandonavano a queste ricerche, l'ingegnere ed i suoi compagni ebbero l'idea di cercare se si trovasse qualche resto di Nana Sahib. In mancanza del viso del nababbo, facile da riconoscere, le sue mani a cui mancava un dito sarebbero loro bastate per accertarne l'identità. Avrebbero voluto avere questa prova incontestabile della morte di colui che non si poteva più confondere con suo fratello Balao Rao. Ma nessuno dei resti insanguinati che ingombravano il suolo sembrava essere appartenuto a colui che era stato Nana Sahib. I suoi fanatici avevano dunque portato via perfino gli ultimi avanzi delle sue reliquie? Era più che probabile. Ne doveva però risultare che, non essendovi alcuna prova certa della morte di Nana Sahib, la leggenda avrebbe ripreso i suoi diritti, e che, nello spirito delle popolazioni dell'India centrale, l'inafferrabile nababbo sarebbe sempre stato creduto vivo, finché dell'antico capo dei Cipay si sarebbe fatto un dio immortale. Ma per Banks e per i suoi compagni non era ammissibile che Nana Sahib avesse potuto sopravvivere allo scoppio. Ritornarono alla stazione, non senza che il capitano Hod avesse raccolto un pezzo di una delle zanne del Gigante d'Acciaio, preziosa reliquia che voleva conservare per ricordo. Il giorno seguente, 4 ottobre, tutti lasciavano Jubbulpore in un vagone messo a disposizione del colonnello Munro e del suo seguito. Ventiquattro ore più tardi, superavano i Ghàti occidentali, quelle Ande indiane, che si stendono per una lunghezza di trecentosessanta leghe, in mezzo a fitte foreste di baniani, di sicomori, di tek, mescolati a palme, palme da cocco, arek, alberi del pepe, sandali e bambù. Alcune ore dopo, la ferrovia li deponeva nell'isola di Bombay, che, con le isole Salcette, Elefanta e altre, forma una magnifica rada e porta alla sua estremità sud-est la capitale della presidenza. Il colonnello Munro non doveva rimanere in quella grande città, in cui si trovano in massa arabi, persiani, banyani, abissini, parsi o guebri, scindi, europei di ogni nazione, e anche, a quanto pare, degli indù. I medici, consultati circa lo stato di lady Munro, raccomandarono di condurla in una villa dei dintorni, dove la calma, unita alle loro cure quotidiane e all'affetto incessante di suo marito, non poteva mancare di produrre un effetto salutare. Passò un mese; non uno dei compagni del colonnello, non uno dei suoi servitori avevano pensato a lasciarlo. Il giorno, che non era lontano, nel quale si sarebbe potuto intravedere la guarigione della giovane donna, volevano essere tutti presenti. Ebbero finalmente questa gioia. A poco a poco lady Munro ricuperò la ragione. Quell'anima gentile ricominciò a pensare. Di ciò che era stata la Fiamma Errante non rimaneva più nulla, nemmeno il ricordo. — Laurence! Laurence! — aveva esclamato il colonnello, e lady Munro, riconoscendolo finalmente, era caduta fra le sue braccia. Una settimana dopo, gli ospiti della Steam-House erano riuniti nel bungalow di Calcutta. Là doveva ricominciare un'esistenza molto diversa da quella che aveva riempito fino allora la ricca abitazione. Banks vi doveva passare i periodi di riposo che i suoi lavori gli avrebbero concesso, il capitano Hod le licenze di cui avrebbe potuto disporre. Quanto a Mac Neil e a Goûmi, erano di casa, e non dovevano mai separarsi dal colonnello Munro. In quel periodo, Maucler fu costretto a lasciare Calcutta per ritornare in Europa, e lo fece insieme con il capitano Hod, la cui licenza era terminata e che l'affezionato Fox doveva seguire agli accantonamenti militari di Madras. — Addio, capitano, — gli disse il colonnello Munro. — Sono lieto di pensare che non avete nulla da rimpiangere del vostro viaggio attraverso l'India settentrionale, tranne forse di non aver ucciso la vostra cinquantesima tigre! — Ma è uccisa, colonnello. — Come! È uccisa? — Senza dubbio, — rispose il capitano Hod con un gesto superbo. — Quarantanove tigri e... Kâlagani... non fanno forse cinquanta?