La casa a Vapore - Hardwaregame.it

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JULES VERNE
LA CASA A VAPORE
Viaggio attraverso
l'India settentrionale
Disegni
di Leon Benett
incisi da Ch. Barbant, Th. Delangle, Th. Hildibrand
Copertina di Giuseppe Laganà
U. MURSIA & C.
MILANO
TITOLO ORIGINALE DELL'OPERA
LA MAISON À VAPEUR VOYAGE À TRAVERS L'INDE SEPTENTRIONALE
(1879)
Traduzione integrale dal francese di Giuseppe Mina
Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy
© Copyright 1970 U. MURSIA & C. 1040/AC
U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29
PRESENTAZIONE
Questo è forse uno dei più insoliti romanzi di Jules Verne. Sembra
quasi che lo scrittore abbia voluto offrire qui un saggio di tutti gli
elementi che solitamente concorrono ad animare le sue narrazioni e
che abbia voluto mostrarci tutte le risorse di cui è ricca la sua
fantasia, facendo appello all'ambiente geografico, ricorrendo a
vicende storiche complesse che si arricchiscono di motivi persino
leggendari, sfruttando quel gusto per la scienza e per la tecnica che
caratterizza tanti suoi libri e dando libero corso a quella sua
straordinaria inventiva romanzesca che sa conferire realtà anche a
personaggi e a intrecci imprevedibili.
C'è, prima di tutto, il suo culto per la tecnica e per il progresso
(quel culto che ha fatto di lui un pioniere della fantascienza), ma che
qui si presenta quasi in tono minore, non senza una punta di
compiacente malizia, nella costruzione di un gigantesco giocattolo:
il Gigante d'Acciaio. Adeguandosi all'ambiente favoloso in cui si
svolge l'azione del racconto anche la tecnica sembra qui porsi al
servizio della fiaba. E in realtà, questo Gigante d'Acciaio è un
mostro ingenuo e innocuo. Non a caso è stato costruito per la gioia e
per il divertimento di un fantasioso rajah, che però è passato a
miglior vita prima di poterlo usare. Il Gigante d'Acciaio in questione
è un treno che corre sulle strade comuni, senza bisogno di rotaie; è
costituito da due grandi carrozze a forma di bungalow e di pagoda,
trainate da una locomotiva a vapore, che il costruttore ha
genialmente rivestito delle forme dì un gigantesco elefante. Più che
un treno è dunque una strana, pittoresca casa che viaggia: la Casa a
vapore.
L'ingegner Banks, che l'ha costruita su commissione del rajah,
alla morte di questi resta in possesso dello straordinario giocattolo e
progetta di fare con esso un viaggio attraverso l'India settentrionale,
da Calcutta a Bombay.
Già questo viaggio, insolito per il mezzo di locomozione e
avventuroso per i luoghi che attraversa, introduce il secondo
elemento che contribuisce a rendere avvincente il romanzo:
l'elemento geografico che qui si identifica con l'India misteriosa del
secolo scorso, con il suo paesaggio sconfinato, estremamente vario e
suggestivo, con la sua civiltà millenaria, la sua gente, i suoi usi e
costumi.
Né poteva mancare un terzo elemento, che caratterizza tanti libri
di Verne: quello storico. L'idea del viaggio sorge nell'ingegner
Banks per un vivo sentimento umanitario: egli vuol distrarre un suo
amico, il colonnello sir Edward Munro, dallo stato di profonda
depressione morale in cui è piombato per la scomparsa della sua
giovane moglie, Laurence, avvenuta durante i gravi disordini
provocati dalla rivolta dei Sepoys (o Cipays, come scrive Verne).
Egli pensa che Laurence sia stata uccisa dal capo dei ribelli, il
tristemente famoso Nana Sahib, e in cuor suo ha giurato vendetta (e
lo stesso ha fatto del resto anche Nana Sahib, la cui compagna è
stata uccisa in battaglia e proprio per mano di Munro).
Ma come vendicarsi se il capo dei Sepoys, dopo la clamorosa
sconfitta, si è reso irreperibile? Qualcuno dice sia morto, altri
raccontano che, come un eroe da leggenda, continui ad apparire ora
in questa ora in quella regione, per cercar di suscitare nuovi incendi
di distruzione e di morte.
Per distrarre il colonnello Edward Munro dalla sua cupa
ossessione, l'ingegner Banks progetta dunque il suo viaggio; ma il
tragico antecedente offre a Verne il pretesto per ricostruire a grandi
linee la rivolta dei Sepoys. Un episodio sanguinoso, realmente
accaduto nel 1857, quando appunto i Sepoys, i soldati indigeni che
costituivano l'esercito nazionale indiano, aizzati e guidati dal
nababbo Dandu-Pant, divenuto famoso appunto con il nome di Nana
Sahib, insorsero contro il dominio inglese. Pagine di storia che, per
essere rivissute da personaggi vivamente compromessi nella vicenda,
risentono del calore e 'della passione dei loro stessi protagonisti.
Tutti questi motivi, nella fantasia dello scrittore, si intrecciano e
sì congiungono in quell'unica, singolare realtà che è l'opera
narrativa. Ed è proprio su questo terreno che Verne si rivela ancora
una volta molto abile nel tessere i fili della vicenda, nel
caratterizzare situazioni e personaggi, nel costruire un intreccio che
tiene avvinto il lettore fino alla fine.
Sulla Casa a vapore, insieme con l'ingegner Banks e il colonnello
Munro, ci sono anche altri viaggiatori, come il giovane francese
Maucler, il capitano Hod e il suo attendente Fox, appassionati ed
esperti nella caccia alla tigre, l'ameno signor Parazard, lo chef
negro che regna sulla cucina e sulla dispensa della Casa a vapore, il
taciturno sergente Mac Neil; e poi ecco Mathias Van Guitt, anch'egli
cacciatore, ma che vuol catturare vive le belve per poter rifornire gli
zoo di Londra e di Amburgo, l'indù Kâlagani, coraggioso ma
misterioso e infido.
Il gruppo, nel suo complesso, è vario e pittoresco quanto basta
per movimentare il viaggio, e sembra messo insieme con arte
proprio per permettere a Verne di toccare tutti i registri (dal
drammatico, all'umoristico e al grottesco) che caratterizzano il suo
modo di raccontare. Tra le scene più drammatiche, basterà
ricordare la fuga precipitosa della Casa a vapore davanti a una
mandria di elefanti infuriati (e veri!), lanciati al galoppo in
prossimità del lago Puturia. Tra gli episodi più divertenti, la strana
caccia a... Mathias Van Guitt, caduto in una delle sue innumerevoli
trappole.
Il viaggio, secondo un piano calcolato, conduce il colonnello
Munro nella regione in cui è stata segnalata la ricomparsa del suo
nemico, il ribelle Nana Sahib, e qui si ha lo scontro frontale, con
agguati, fughe, inseguimenti reciproci, ma avviene anche il colpo di
scena finale, che svela all'improvviso il mistero della scomparsa di
lady Laurence Munro, mistero su cui poggia la tensione psicologica
dell'intero romanzo.
Un libro, come si vede, orchestrato con straordinaria abilità, in
uno scenario grandioso e affascinante, e in un periodo tra i più
contrastati e turbolenti della storia dell'India. La fantasia tecnica
dell'elefante d'acciaio che trascina due pittoresche carrozze non è
che un ingegnoso pretesto cui si intrecciano motivi storici e
geografici, ma su cui si innesta soprattutto una vicenda patetica,
estremamente mossa e avventurosa, raccontata con quella
disinvoltura e con quella varietà di toni in cui Verne è maestro.
Pubblicato nel 1880, quando lo scrittore era già affermato, venne
subito riconosciuto come uno dei suoi libri più curiosi e
caratteristici; né il giudizio è mutato a distanza di tanti anni, i quali,
anzi, ancora una volta hanno confermato le qualità anticipatrici dei
romanzi di Verne. L'elefante d'acciaio, visto oggi, sembra infatti un
fantasioso modello dei moderni automi; come Casa a vapore, poi,
sembra un prototipo delle moderne roulottes. E il fatto che fosse più
ingombrante non ha certo importanza se si pensa che veniva
«parcheggiato» ai piedi dell'Himalaya.
JULES VERNE nacque a Nantes, l'8 febbraio 1828. A undici anni,
tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi
clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e
ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare
legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo
intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre,
dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari.
Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e
libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare
un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi.
Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in
contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il
romanzo Cinque settimane in pallone.
La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si
dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base
a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via
pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei
«Viaggi straordinari - I mondi conosciuti e sconosciuti» e che
costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al
centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i
mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele
Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera
completa comprende un'ottantina di romanzi o racconti lunghi, e
numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica.
Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne,
nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo
lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata,
una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe
termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette
anni, il 24 marzo 1905.
Indice
PRESENTAZIONE................................................................................................3
LA CASA A VAPORE ...........................................................11
PARTE PRIMA ......................................................................13
Capitolo I...............................................................................................................13
UNA TAGLIA SU UNA TESTA......................................................................13
Capitolo II .............................................................................................................24
IL COLONNELLO MUNRO............................................................................24
Capitolo III ...........................................................................................................38
LA RIVOLTA DEI CIPAY...............................................................................38
Capitolo IV............................................................................................................52
NELLE GROTTE DI ELLORA........................................................................52
Capitolo V .............................................................................................................63
IL GIGANTE D'ACCIAIO ...............................................................................63
Capitolo VI............................................................................................................74
PRIME TAPPE..................................................................................................74
Capitolo VII ..........................................................................................................87
I PELLEGRINI DEL PHALGU........................................................................87
Capitolo VIII.......................................................................................................101
ALCUNE ORE A BÉNARES .........................................................................101
Capitolo IX..........................................................................................................114
ALLAHABAD ................................................................................................114
Capitolo X ...........................................................................................................124
VIA DOLOROSA ...........................................................................................124
Capitolo XI..........................................................................................................134
IL CAMBIAMENTO DI MONSONE ............................................................134
Capitolo XII ........................................................................................................145
TRIPLICI FUOCHI.........................................................................................145
Capitolo XIII.......................................................................................................157
PRODEZZE DEL CAPITANO HOD .............................................................157
Capitolo XIV.......................................................................................................170
UNO CONTRO TRE ......................................................................................170
Capitolo XV ........................................................................................................184
IL «PÀL» DI TANDÎT....................................................................................184
Capitolo XVI.......................................................................................................192
LA FIAMMA ERRANTE ...............................................................................192
PARTE SECONDA ..............................................................201
Capitolo I.............................................................................................................201
IL NOSTRO «SAMTARIUM» .......................................................................201
Capitolo II ...........................................................................................................210
MATHIAS VAN GUITT ................................................................................210
Capitolo III .........................................................................................................225
IL «KRAAL»...................................................................................................225
Capitolo IV..........................................................................................................238
UNA REGINA DEL TARRYANI ..................................................................238
Capitolo V ...........................................................................................................257
ASSALTO NOTTURNO ................................................................................257
Capitolo VI..........................................................................................................273
L'ULTIMO ADDIO DI MATHIAS VAN GUITT..........................................273
Capitolo VII ........................................................................................................285
IL PASSAGGIO DEL BETWA ......................................................................285
Capitolo VIII.......................................................................................................302
HOD CONTRO BANKS.................................................................................302
Capitolo IX..........................................................................................................312
CENTO CONTRO UNO.................................................................................312
Capitolo X ...........................................................................................................327
IL LAGO PUTURIA .......................................................................................327
Capitolo XI..........................................................................................................341
A FACCIA A FACCIA ...................................................................................341
Capitolo XII ........................................................................................................354
ALLA BOCCA DI UN CANNONE ...............................................................354
Capitolo XIII.......................................................................................................365
IL GIGANTE D'ACCIAIO .............................................................................365
Capitolo XIV.......................................................................................................373
LA CINQUANTESIMA TIGRE DEL CAPITANO HOD..............................373
LA CASA A VAPORE
PARTE PRIMA
CAPITOLO I
UNA TAGLIA SU UNA TESTA
«Si PROMETTE un premio di duemila sterline a chi consegnerà,
vivo o morto, uno degli ex capi della rivolta dei Cipay,1 la cui
presenza è stata segnalata nella presidenza di Bombay, il nababbo
Dandu-Pant, più noto sotto il nome di...»
Ecco la notizia che gli abitanti di Aurangabad potevano leggere la
sera del 6 marzo 1867.
L'ultimo nome, nome esecrato, per sempre maledetto dagli uni,
segretamente ammirato dagli altri, mancava al manifesto che era
stato recentemente affisso sul muro di un bungalow in rovina, in riva
al Dudhma.
Se quel nome mancava, era perché l'angolo inferiore del
manifesto, dove era stampato a grossi caratteri, era stato strappato
dalla mano d'un fachiro che nessuno aveva potuto scorgere sulla riva
allora deserta. Con quel nome era pure scomparso quello del
governatore generale della presidenza di Bombay, controfirmante
quello del viceré delle Indie.
Quale era stato mai l'intento del fachiro? Strappando il manifesto
sperava forse che il ribelle del 1857 potesse sfuggire alla pubblica
vendetta e alle conseguenze del decreto emanato contro di lui?
Poteva credere che una così terribile celebrità dovesse svanire con i
frammenti di quel pezzetto di carta ridotto in polvere?
1
Si conserva qui e altrove la grafia di Verne, pur facendo notare che la grafia
esatta sarebbe sepoys. (N.d.T.)
Sarebbe stata pazzia.
Infatti, altri manifesti, sparsi a profusione, campeggiavano sui
muri delle case, dei palazzi, delle moschee, degli alberghi di
Aurangabad. Inoltre, un banditore percorreva le vie della città,
leggendo ad alta voce il decreto del governatore. Gli abitanti delle
più miserabili borgate della provincia sapevano già che un'intera
fortuna era promessa a chiunque avesse consegnato quel Dandu-Pant.
Il suo nome, inutilmente soppresso, sarebbe corso prima di dodici ore
per tutta quanta la presidenza. Se le informazioni erano esatte, se il
nababbo aveva veramente cercato rifugio in quella parte
dell'Indostan, non c'era alcun dubbio che sarebbe caduto entro poco
tempo in mani fortemente interessate a operarne la cattura.
A quale sentimento aveva dunque obbedito il fachiro, nel lacerare
un manifesto già stampato in molte migliaia d'esemplari?
A un sentimento di collera senza dubbio, forse a un qualche
pensiero di disprezzo. Ad ogni modo, dopo essersi stretto nelle
spalle, egli si cacciò nel quartiere più popoloso e più malfamato della
città.
Si chiama Deccan quell'ampia parte della penisola indiana
compresa fra i Ghati occidentali ed i Ghati del mare del Bengala. È il
nome che vien dato comunemente alla parte meridionale dell'India,
di qua dal Gange. Questo Deccan, il cui nome sanscrito significa
«Sud», comprende, nelle presidenze di Bombay e di Madras, un certo
numero di province. Una delle principali è la provincia di
Aurangabad, la cui capitale fu un tempo persino quella dell'intero
Deccan.
Nel secolo XVII, il celebre imperatore mongolo Aurangzeb
trasferì la sua corte in questa città, che era conosciuta agli inizi della
storia dell'Indostan sotto il nome di Kirkhi. Essa aveva allora
centomila abitanti. Oggi non ne ha che cinquantamila, sotto la
dominazione degli inglesi, che l'amministrano per conto del Nizam
dell'Haiderabad. Tuttavia, è una delle città più sane della penisola,
risparmiata finora dal tremendo colera asiatico, e che non è mai
visitata nemmeno dalle epidemie di febbri, così temute nell'India.
Aurangabad ha conservato magnifici resti del suo antico
splendore. Il palazzo del Gran Mogol, eretto sulla riva destra del
Dudhma, il mausoleo della sultana favorita dello Shah Jahan, padre
di Aurangzeb, la moschea copiata dall'elegante Tadje di Agra, che
innalza i suoi quattro minareti intorno ad una cupola graziosamente
arrotondata, e ancora altri monumenti artisticamente costruiti,
riccamente decorati, attestano la potenza e la grandezza del più
illustre dei conquistatori dell'Indostan, che portò quel regno, al quale
aggiunse il Cabul e l'Assam, ad un incomparabile grado di prosperità.
Benché, dopo questo periodo, la popolazione di Aurangabad fosse
stata considerevolmente ridotta, come si è detto, un uomo poteva
facilmente nascondersi ancora in mezzo ai tipi tanto differenti che la
compongono. Il fachiro, vero o falso, mescolato a tutta quella folla,
non se ne distingueva in nessun modo. I suoi simili abbondano in
India. Essi formano con i sayed una corporazione di mendicanti
religiosi, che chiedono l'elemosina a piedi o a cavallo, e sanno
pretenderla, quando non viene loro fatta spontaneamente. Non
sdegnano neppure la parte di martiri volontari, e godono di grande
credito presso le caste inferiori del popolo indù.
Il fachiro di cui si parla era un uomo di alta statura che misurava
più di cinque piedi e nove pollici inglesi. Se egli aveva passato la
quarantina, poteva essere di un anno o due, al massimo. Il suo volto
ricordava il bel tipo maharajto, soprattutto per lo scintillio degli occhi
neri sempre all'erta; ma si sarebbero difficilmente ritrovati i
lineamenti tanto fini della sua razza sotto le mille cicatrici del vaiolo
che gli crivellavano le guance. Quell'uomo, ancora nel pieno dell'età,
sembrava agile e robusto. Segno particolare, gli mancava un dito alla
mano sinistra. Con i capelli tinti di rosso, procedeva seminudo, senza
calzature ai piedi, con un turbante in capo, coperto appena da una
malconcia tunica di lana a righe, stretta alla cintola. Sul suo petto
apparivano a vivi colori gli emblemi dei due principi, conservatore e
distruttore, della mitologia indù, la testa di leone della quarta
incarnazione di Vishnu, i tre occhi e il tridente simbolico del feroce
Siva.
Frattanto, un turbamento reale e ben comprensibile agitava le vie
di Aurangabad, più in particolare quelle in cui si affollava la
popolazione cosmopolita dei quartieri bassi. Là essa formicolava
fuori delle catapecchie che le servono come abitazione. Uomini,
donne, fanciulli, vecchi, europei o indigeni, soldati dei reggimenti
reali o dei reggimenti locali, mendicanti di ogni tipo, contadini dei
dintorni,
si
avvicinavano,
discorrevano,
gesticolavano,
commentavano la notizia, calcolavano le probabilità di guadagnare
l'enorme premio promesso dal governo. La sovreccitazione degli
animi non avrebbe potuto essere maggiore in occasione
dell'estrazione di una lotteria, il cui primo premio avesse avuto un
valore di duemila sterline. Si può anzi aggiungere che, questa volta,
non c'era nessuno che non potesse prendere un buon biglietto con
buone probabilità: quel biglietto, era la testa di Dandu-Pant. Però
bisognava essere tanto fortunati da incontrare il nababbo, e tanto
audaci da impadronirsene.
Il fachiro, evidentemente l'unico fra tutti che non fosse tentato
dalla speranza di guadagnare il premio, passava in mezzo ai gruppi
arrestandosi talvolta, per ascoltare quello che si diceva, da persona
che potrebbe forse approfittarne. Ma se egli non si mescolava affatto
ai discorsi degli uni e degli altri, se la bocca rimaneva muta, i suoi
occhi e le sue orecchie erano attenti.
— Duemila sterline per scoprire il nababbo! — esclamava uno
alzando al cielo le mani adunche.
— Non per scoprirlo, — rispondeva un altro, — ma per prenderlo,
che è ben differente!
— Infatti non è tipo da lasciarsi prendere senza difendersi
risolutamente!
— Ma, non si diceva, ultimamente, che era morto di febbre nelle
jungle del Nepal?
— Niente di tutto ciò è vero! L'astuto Dandu-Pant ha voluto farsi
credere morto per vivere in maggior sicurezza.
— Era persino corsa voce che fosse stato sepolto al centro del suo
accampamento alla frontiera!
— Falsi funerali per ingannare meglio.
Il fachiro non aveva battuto ciglio udendo affermare quest'ultimo
fatto in modo che non ammetteva dubbi. Tuttavia, la sua fronte si
corrugò involontariamente, quando udì un indù, uno dei più accesi
del gruppo a cui si era mescolato, dare i seguenti particolari, troppo
precisi per non essere veritieri:
— Quel che è certo, — diceva l'indù, — è che nel 1859 il nababbo
si era rifugiato con suo fratello Balao Rao e con l'ex rajah di Gonda,
Debi-Bux-Singh, in un campo ai piedi di una montagna del Nepal.
Là, stretti da vicino dalle truppe inglesi, decisero tutti e tre di varcare
la frontiera indocinese. Ora, prima di superarla, il nababbo e i suoi
due compagni, perché venisse dato maggior credito alla voce della
loro morte, si sono fatti fare il funerale; ma quanto di essi è stato
sepolto è unicamente un dito della mano sinistra, che si sono tagliato
al momento della cerimonia.
— E come lo sapete? — domandò uno degli ascoltatori a
quell'indù, che parlava con tanta sicurezza.
— Ero presente ai funerali, — rispose l'indù. — I soldati di
Dandu-Pant mi avevano fatto prigioniero, e sono riuscito a fuggire
soltanto sei mesi dopo.
Mentre l'indù parlava in modo tanto deciso, il fachiro non lo
perdeva d'occhio. Un lampo gli accendeva gli occhi. Egli aveva
prudentemente nascosto la mano mutilata sotto il lembo di lana che
gli copriva il petto. Ascoltava senza dire parola, ma le sue labbra
fremevano scoprendo i denti aguzzi.
— Dunque, voi conoscete il nababbo? — domandò qualcuno
all'ex prigioniero di Dandu-Pant.
— Sì, — rispose l'indù.
— E lo riconoscereste senza esitare, se il caso vi mettesse faccia a
faccia con lui?
— Così come riconoscerei me stesso!
— Allora avete qualche probabilità di guadagnare il premio di
duemila sterline! — ribatté uno degli interlocutori, non senza un
sentimento d'invidia poco dissimulato.
— Forse... — rispose l'indù, — se è vero che il nababbo ha avuto
l'imprudenza di avventurarsi nella presidenza di Bombay, il che mi
sembra molto inverosimile!
— E che cosa ci sarebbe venuto a fare?
— Senza dubbio per tentare di provocare una nuova sollevazione,
— disse uno degli uomini del gruppo — se non fra i Cipay, almeno
fra le popolazioni delle campagne del centro.
— Poiché il governo afferma che la sua presenza è stata segnalata
nella provincia, — riprese uno degli interlocutori appartenente alla
categoria di coloro che pensano che l'autorità non può mai sbagliare,
— è segno che il governo è bene informato in proposito.
— Sia! — rispose l'indù. — Voglia Brahma che Dandu-Pant passi
sul mio sentiero, e la mia fortuna è fatta!
Il fachiro arretrò di alcuni passi, ma non perdette d'occhio l'ex
prigioniero del nababbo.
Era notte buia, eppure l'animazione delle vie di Aurangabad non
diminuiva. Sul conto del nababbo circolavano dicerie sempre più
numerose. Qui si diceva che era stato visto addirittura in città; là che
ormai era lontano. Si affermava pure che una staffetta, mandata dal
nord della provincia, avesse appena portato al governatore la notizia
dell'arresto di Dandu-Pant. Alle nove di sera, i meglio informati
sostenevano che egli era già chiuso nelle prigioni della città insieme
con alcuni Thug che vi vegetavano da oltre trent'anni, e che sarebbe
stato impiccato l'indomani all'alba, senza tante formalità, come si era
fatto con Tantia-Topi, suo celebre compagno di ribellione, sulla
piazza di Sipri. Ma, alle dieci, un'altra notizia contraddittoria. Si
spargeva la voce che il prigioniero aveva potuto fuggire quasi subito,
il che rese un po' di speranza a quanti erano allettati dal premio di
duemila sterline.
In realtà, tutte quelle varie dicerie erano false. I meglio informati
non ne sapevano più di chi era informato meno bene o assolutamente
male. La testa del nababbo valeva sempre la sua taglia. Era sempre
da prendere.
Frattanto l'indù, per il fatto che conosceva personalmente DanduPant, era in grado meglio di chicchessia di guadagnare il premio.
Pochi, soprattutto nella presidenza di Bombay, avevano avuto
occasione d'incontrare il feroce capo della grande insurrezione. Più a
nord e più al centro, nel Sindhia, nel Bundelkund, nell'Oudh, nei
dintorni di Agra, di Delhi, di Cawnpore, di Lucknow, sul teatro
principale delle atrocità commesse dietro suo ordine, le popolazioni
intere si sarebbero sollevate contro di lui e lo avrebbero consegnato
alla giustizia inglese. I parenti delle sue vittime, sposi, fratelli, figli,
mogli, piangevano ancora quelli che il nababbo aveva fatto trucidare
a centinaia. I dieci anni passati non erano bastati a spegnere i più
legittimi sentimenti di vendetta e di odio. Perciò non era possibile
che Dandu-Pant fosse stato tanto imprudente da arrischiarsi in quelle
province in cui il suo nome era votato all'esecrazione di tutti. Se
dunque, come si diceva, egli aveva ripassato la frontiera indocinese,
se qualche motivo ignoto, progetto d'insurrezione o altro, lo aveva
indotto ad abbandonare il rifugio introvabile, il cui segreto sfuggiva
ancora alla polizia anglo-indiana, non c'erano che le province del
Deccan che potessero, con il campo libero, permettergli una qualche
sicurezza.
Si vede, tuttavia, che il governo aveva avuto sentore della sua
apparizione nella presidenza, e aveva messo subito una taglia sulla
sua testa.
Tuttavia, bisogna far osservare che ad Aurangabad gli
appartenenti alle classi più elevate, magistrati, ufficiali, funzionari,
dubitavano un po' delle informazioni raccolte dal governatore. Si era
già sparsa troppe volte la voce che l'inafferrabile Dandu-Pant era
stato visto, e anche preso! Erano corse sul suo conto tante notizie
false, che si era formata una specie di leggenda sul dono dell'ubiquità
posseduto dal nababbo e sulla sua abilità nell'ingannare i più abili
agenti della polizia; il popolino, invece, non aveva nessun dubbio.
Fra i meno increduli figurava, naturalmente, l'ex prigioniero del
nababbo. Quel povero diavolo d'indù, illuso dall'esca del premio,
animato d'altra parte da un bisogno di rivincita personale, non
pensava che a mettersi in campo, e considerava quasi come certa la
riuscita. Il suo piano era semplicissimo. Fin dal giorno seguente egli
si proponeva di offrire i propri servigi al governatore; poi, dopo aver
appreso esattamente quanto si sapeva di Dandu-Pant, ossia, su che
cosa si basavano le informazioni date dal manifesto, si proponeva di
recarsi sul luogo stesso in cui il nababbo fosse stato veduto.
Verso le undici di sera, dopo aver udito tante dicerie diverse, che,
pur confondendosi nel suo animo, lo facevano più saldo nel
proposito, l'indù pensò finalmente di andare a riposarsi un poco.
Aveva come unica abitazione una barca ormeggiata ad una delle rive
del Dudhma, e si diresse da quella parte, fantasticando, con gli occhi
semichiusi.
Senza che egli se ne avvedesse, il fachiro non lo aveva lasciato;
gli si era messo dietro, facendo in modo di non richiamare la sua
attenzione, e seguendolo solamente nell'ombra.
Verso l'estremità di quel popoloso quartiere di Aurangabad, a
quell'ora, le vie erano meno animate. La sua arteria principale
portava a dei terreni abbandonati il cui limitare formava una delle
rive del Dudhma. Era come una specie di deserto alla periferia della
città. Alcuni passanti tardivi lo superavano ancora, non senza
affrettarsi, e rientravano nelle zone più frequentate. Il rumore degli
ultimi passi non tardò a farsi udire; ma l'indù non si rese conto di
essere rimasto solo nel seguire la riva del fiume.
Il fachiro lo seguiva sempre e sceglieva le parti più scure del
terreno, ora al riparo degli alberi, ora camminando rasente alle tetre
mura delle abitazioni in rovina sparse qua e là.
La precauzione non era inutile. Era sorta la luna, che gettava una
luminosità incerta nell'atmosfera. L'indù avrebbe dunque potuto
accorgersi d'essere spiato, anzi seguito da vicino. Quanto a udire i
passi del fachiro, sarebbe stato impossibile. Questi, a piedi nudi,
scivolava piuttosto che camminare. Nessun rumore rivelava la sua
presenza sulla riva del Dudhma.
Passarono così cinque minuti. L'indù ritornava, macchinalmente
per così dire, alla miserabile barca nella quale soleva passare la notte.
Il percorso che egli seguiva non poteva spiegarsi altrimenti. Egli
camminava da uomo abituato a frequentare ogni sera quel luogo
deserto; era completamente assorto nel pensiero di quel passo che si
proponeva di fare il giorno seguente, presso il governatore. La
speranza di vendicarsi del nababbo, che non era certamente stato
tenero con i suoi prigionieri, unita al bramoso desiderio di
guadagnarsi il premio, lo rendevano contemporaneamente cieco e
sordo.
Perciò non aveva coscienza del pericolo che le sue parole
imprudenti gli facevano correre.
Non vide il fachiro avvicinarsi a poco a poco.
Ma, all'improvviso, un uomo gli si avventò addosso come una
tigre, con un lampo in mano. Era un raggio di luna che si rifletteva
sulla lama di un pugnale malese.
L'indù, colpito al petto, cadde pesantemente a terra.
Tuttavia, benché il colpo fosse stato dato da un braccio sicuro, il
disgraziato non era morto. Qualche parola smozzicata sfuggiva dalle
sue labbra con un fiotto di sangue.
L'assassino si curvò, afferrò la vittima, la sollevò, e mettendo il
proprio viso in piena luce lunare:
— Mi riconosci? — disse.
— Lui! — mormorò l'indù.
E il terribile nome del fachiro stava per essere la sua ultima
parola, quando egli spirò in un convulso soffocato.
Un istante dopo, il corpo dell'indù spariva nella corrente del
Dudhma, che non doveva mai più restituirlo.
Il fachiro aspettò che il rumore delle acque fosse cessato. Allora,
ritornando indietro, riattraversò i terreni abbandonati, poi i quartieri
che incominciavano a spopolarsi, e, con passo rapido, si diresse verso
una delle porte della città.
Ma, nel momento in cui egli vi giungeva, quella porta veniva
chiusa. Alcuni soldati dell'esercito reale occupavano il posto di
guardia che ne difendeva l'ingresso. Il fachiro non poteva più lasciare
Aurangabad, come aveva pensato di fare.
— Eppure bisogna che ne esca, e questa notte stessa... o non ne
uscirò più! — mormorò.
Perciò ritornò sui suoi passi, seguì il cammino di ronda, all'interno
delle mura, e, duecento passi più in là, si arrampicò sulla scarpa, in
modo da raggiungere la parte superiore del bastione.
La cresta, esternamente, si elevava una cinquantina di piedi al di
sopra del livello del fossato, scavato fra la scarpa e la controscarpa.
Era un muro a picco, senza tiranti sporgenti o asperità adatte a fornire
un punto d'appoggio. Sembrava assolutamente impossibile che un
uomo potesse lasciarsi scivolare sulla superficie del suo rivestimento.
Una corda avrebbe, senza dubbio, permesso di tentarne la discesa,
ma la cintura che cingeva i fianchi del fachiro misurava solo pochi
piedi, e non poteva permettergli di giungere al piede della scarpata.
Il fachiro si fermò un istante, gettò uno sguardo intorno a sé e
rifletté a quanto doveva fare.
Sulla cresta del bastione si arrotondavano alcune scure cupole di
verzura formate dal fogliame dei grandi alberi che circondano
Aurangabad come con una cornice vegetale. Da quelle cupole si
proiettavano fuori lunghi rami flessibili e resistenti di cui sarebbe
stato forse possibile servirsi per giungere, non senza grande pericolo,
in fondo al fossato.
Il fachiro, appena gli venne tale idea, non esitò. Si portò sotto una
di quelle cupole, e riapparve poco dopo, all'esterno del muro, sospeso
a un terzo d'un lungo ramo che si piegava a poco a poco sotto il suo
peso.
Quando il ramo si fu curvato tanto da toccare l'orlo superiore del
muro, il fachiro si lasciò scivolare lentamente, come se avesse tenuto
fra le mani una corda. Poté così scendere fino a mezza altezza della
scarpa; ma una trentina di piedi lo separavano ancora dal suolo che
doveva raggiungere per assicurarsi la fuga.
Egli era dunque là, dondolante, sospeso per le braccia, cercando
con il piede qualche fessura che gli potesse dare un punto
d'appoggio...
Ad un tratto, alcuni lampi solcarono il buio. Si udirono degli spari.
Il fuggitivo era stato scorto dai soldati di guardia. Questi gli avevano
fatto fuoco addosso, ma senza colpirlo. Tuttavia una pallottola colpì
il ramo che lo sorreggeva, a due pollici sopra la testa di lui, e lo
scalfì.
Venti secondi dopo, il ramo si rompeva, e il fachiro piombava nel
fossato... Un altro si sarebbe ucciso, egli rimase sano e salvo.
Rialzarsi, risalire il pendio della controscarpa, in mezzo a una
seconda grandinata di proiettili che non lo colpirono, sparire nel
buio, non fu che un gioco per il fuggitivo.
Due miglia più in là, egli rasentava, non visto, l'accantonamento
delle truppe inglesi, acquartierate fuori Aurangabad.
A duecento passi da quel luogo si arrestava, si voltava, la sua
mano mutilata si tendeva verso la città, e dalla bocca gli uscivano
queste parole:
— Disgrazia a quanti cadranno ancora nelle mani di Dandu-Pant!
Inglesi, non l'avete ancora finita con Nana Sahib!
Nana Sahib! Quel nome di battaglia, il più temuto fra quanti erano
diventati sanguinosamente famosi nella rivolta del 1857, veniva
gettato ancora una volta dal nababbo come una sfida suprema ai
conquistatori dell'India.
CAPITOLO II
IL COLONNELLO MUNRO
— EBBENE, caro Maucler, — mi disse l'ingegner Banks — non ci
parlate del vostro viaggio! Si direbbe che non abbiate ancora lasciato
Parigi! Come trovate l'India?
— L'India! — risposi — ma per parlarne con un certo
fondamento, bisognerebbe almeno averla vista.
— To'! — ribatté l'ingegnere, — ma se avete attraversato la
penisola da Bombay a Calcutta, e a meno di esser cieco...
— Non sono cieco, caro Banks, ma, durante questa traversata, ero
accecato.
— Accecato?...
— Sì, accecato dal fumo, dal vapore, dalla polvere, e, meglio
ancora, dalla rapidità del mezzo di trasporto. Non voglio dir male
delle ferrovie, poiché il vostro mestiere è costruirne, caro Banks, ma
ficcarsi nello scompartimento di un vagone, non avere altro campo
visivo che il vetro degli sportelli, correre giorno e notte a una
velocità media di dieci miglia l'ora, ora su viadotti, in compagnia
delle aquile o dei gipeti, ora sotto gallerie in compagnia dei topi o dei
ratti, fermarsi solo alle stazioni, che si assomigliano tutte, delle città
vedere solo l'esterno delle mura o le sommità dei minareti, passare in
quell'incessante fracasso dei muggiti della locomotiva, dei fischi
della caldaia, dello stridore delle rotaie e del gemito dei freni, si
chiama forse viaggiare?
— Ben detto! — esclamò il capitano Hod. — Rispondete un po',
se vi riesce, Banks! Che cosa ne pensate, colonnello?
Il colonnello, al quale il capitano Hod si era rivolto, chinò
leggermente il capo e si accontentò di dire:
— Sarei curioso di sapere che cosa potrà rispondere Banks al
nostro ospite signor Maucler.
— La cosa non mi imbarazza minimamente, — rispose
l'ingegnere, — e confesso che Maucler ha ragione in tutto e per tutto.
— Allora, — esclamò il capitano Hod, — se la cosa sta così,
perché mai costruite ferrovie?
— Per permettervi di andare in sessanta ore da Calcutta a
Bombay, quando avete fretta, capitano.
— Io non ho mai fretta!
— Ebbene, allora, prendete il Great Trunk Road, — rispose
l'ingegnere. — Prendetelo, Hod, e andate a piedi.
— È precisamente quello che voglio fare!
— Quando?
— Quando il colonnello acconsentirà a seguirmi in una bella
passeggiata di otto o novecento miglia attraverso la penisola.
Il colonnello si accontentò di sorridere, e ricadde in una di quelle
lunghe fantasticherie da cui i suoi migliori amici, tra i quali anche
l'ingegner Banks e il capitano Hod, facevano tanta fatica a strapparlo.
Ero giunto in India da un mese, e, avendo preso il Great Indian
Peninsular, che collega Bombay a Calcutta via Allahabad, non
conoscevo assolutamente nulla della penisola.
Ma era mia intenzione percorrerne prima di tutto la parte
settentrionale, al di là del Gange, visitarne le grandi città, studiarne i
principali monumenti, e dedicare a questa esplorazione tutto il tempo
necessario a farla completa.
Avevo conosciuto l'ingegner Banks a Parigi. Da alcuni anni
eravamo legati da un'amicizia che un'intimità più profonda non
poteva che aumentare. Gli avevo promesso di venirlo a trovare a
Calcutta non appena il completamento del tronco dello Scind Punjab
and Delhi, di cui egli era incaricato, lo avesse lasciato libero. Ora, i
lavori erano stati ultimati. Banks aveva diritto a un riposo di alcuni
mesi, e io ero venuto a chiedergli di riposarsi affaticandosi a correre
per l'India. Egli aveva accettato la mia proposta con entusiasmo, si
intende! Perciò dovevamo partire entro poche settimane, appena la
stagione fosse divenuta favorevole.
Al mio arrivo a Calcutta, nel mese di marzo 1867, Banks mi aveva
fatto fare conoscenza con uno dei suoi bravi compagni, il capitano
Hod; poi, egli mi aveva presentato al suo amico, colonnello Munro,
in casa del quale avevamo passato la serata.
Il colonnello, che aveva allora quarantasette anni, abitava una casa
piuttosto isolata, nel quartiere europeo, e, di conseguenza, lontano
dal movimento che è caratteristico di quella città mercantile e di
quella città nera da cui è composta in realtà la capitale dell'India.
Quel quartiere è stato chiamato a volte la «Città dei palazzi» e,
infatti, i palazzi non vi mancano, se pure si può dare questo nome a
degli edifici che di un palazzo hanno solo i portici, le colonne e le
terrazze. Calcutta è il punto d'incontro di tutti gli ordini architettonici
dei quali il gusto inglese generalmente si giova nelle sue città dei due
mondi.
Quanto all'abitazione del colonnello, era il bungalow in tutta la
sua semplicità, un edificio eretto su una base di mattoni, provvisto
solamente di un pianterreno, coperto da un tetto a forma di piramide.
Una veranda o varanga, sorretta da leggere colonnine, ne faceva il
giro. Sui lati, cucine, rimesse, dipendenze ne formavano le due ali. Il
tutto era situato in un giardino con begli alberi e cintato di muri poco
alti.
La casa del colonnello era quella di un uomo che gode di grande
agiatezza. La sua servitù era numerosa, come comporta il servizio
delle famiglie indo-inglesi nella penisola. Arredamento, materiale
d'uso, sistemazioni interne ed esterne, tutto era ben disposto e in
ottimo stato di manutenzione. Ma si sentiva che a quelle varie
disposizioni era mancata la mano di una donna.
Per la direzione della servitù, per il governo generale della casa, il
colonnello si affidava completamente a uno dei suoi vecchi
compagni d'arme, uno scozzese, un conductor dell'esercito reale, il
sergente Mac Neil, con il quale aveva fatto tutte le campagne
dell'India, uno di quei bei cuori che sembrano battere nel petto di
coloro ai quali si sono votati.
Mac Neil era uomo di quarantacinque anni, robusto, alto, barbuto,
come gli scozzesi delle montagne. Tanto per gli atteggiamenti e la
fisionomia, quanto per il costume tradizionale, egli era rimasto un
highlander anima e corpo, benché avesse lasciato il servizio militare
contemporaneamente al colonnello Munro. Entrambi si erano ritirati
dal servizio fin dal 1860, ma invece di ritornarsene presso i glens del
paese, fra i vecchi clans dei loro avi, erano rimasti entrambi in India,
e vivevano a Calcutta, in una specie di riservatezza e di solitudine
che occorre spiegare.
Quando Banks mi presentò al colonnello Munro, mi fece una sola
raccomandazione:
— Non fate nessuna allusione alla rivolta dei Cipay, — mi disse,
— e soprattutto non pronunciate mai il nome di Nana Sahib!
Il colonnello Edward Munro apparteneva a una vecchia famiglia
della Scozia, i cui antenati si erano distinti nella storia del Regno
Unito. Fra i suoi avi era quel sir Hector Munro che comandava
l'esercito del Bengala nel 1760, e che dovette appunto domare una
ribellione che i Cipay, un secolo più tardi, dovevano riprendere per
proprio conto. Il maggiore Munro represse la rivolta con spietata
energia, e non esitò a far legare lo stesso giorno ventotto ribelli alle
bocche dei cannoni, spaventoso supplizio, rinnovato spesso durante
l'insurrezione del 1857, e di cui l'avo del colonnello era stato forse il
terribile inventore.
All'epoca della rivolta dei Cipay, il colonnello Munro comandava
il 93° reggimento di fanteria scozzese dell'esercito reale. Fece quasi
tutta la campagna sotto gli ordini di sir James Outram, uno degli eroi
di quella guerra, colui che meritò il nome di «Baiardo dell'esercito
delle Indie», come lo proclamò sir Charles Napier. Il colonnello
Munro si trovò perciò con lui a Cawnpore; prese parte alla seconda
campagna di Colin Campbell, in India; prese parte all'assedio di
Lucknow, e lasciò quell'illustre soldato solo quando Outram fu
nominato a Calcutta membro del Consiglio dell'India.
Nel 1858, il colonnello sir Edward Munro era cavaliere maestro
dell'ordine della Stella dell'India, «the Star of India (K. C. S. I.)».
Veniva nominato baronetto, e sua moglie avrebbe portato il titolo di
lady Munro, 2 se, il 27 giugno 1857, la sventurata non fosse morta
2
Una donna non titolata, che sposi un baronetto o un cavaliere, prende il titolo di
lady davanti al nome del marito. Ma tale titolo di lady non può precedere il nome
di battesimo, poiché, in questo caso, è riservato unicamente alle figlie dei pari.
(N.d.A.)
nello spaventoso eccidio di Cawnpore, eccidio compiuto sotto gli
occhi e per ordine di Nana Sahib.
Lady Munro — gli amici del colonnello non la chiamavano mai
altrimenti, — era adorata dal marito. Aveva solo ventisette anni
quando scomparve con le duecento vittime di quell'orrenda
carneficina. Mistress Orr e miss Jackson, salvate quasi
miracolosamente dopo la presa di Lucknow, erano sopravvissute al
marito e al padre. Lady Munro, invece, non aveva potuto essere
restituita al colonnello Munro. Era stato impossibile ritrovare i suoi
resti, confusi con quelli di tante vittime nel pozzo di Cawnpore, e dar
loro sepoltura cristiana.
Sir Edward Munro, disperato, ebbe allora un solo, unico pensiero,
ritrovare Nana Sahib che il governo inglese faceva cercare dovunque,
e spegnere, con la propria vendetta, una specie di sete di giustizia che
lo divorava. Per essere più libero delle proprie azioni, si ritirò dal
servizio. Il sergente Mac Neil lo seguì in ogni suo passo ed azione.
Quei due uomini, animati dallo stesso spirito, vivendo d'uno stesso
pensiero, mirando all'identico scopo, si lanciarono su tutte le piste,
presero in esame tutte le tracce, ma non furono più fortunati della
polizia anglo-indiana. Il Nana sfuggì a tutte le loro ricerche. Dopo tre
anni di sforzi inutili, il colonnello e il sergente dovettero sospendere
temporaneamente le loro investigazioni. Del resto, a quell'epoca era
corsa per tutta l'India la voce della morte di Nana Sahib, e sotto un
tale aspetto di veridicità, quella volta, che non c'era motivo per
metterla in dubbio.
Sir Edward Munro e Mac Neil allora tornarono a Calcutta, dove si
sistemarono in quel bungalow isolato. Là, senza leggere libri o
giornali, che avrebbero potuto ricordargli il tempo sanguinoso
dell'insurrezione, senza lasciare mai la propria abitazione, il
colonnello visse da uomo la cui vita è senza scopo alcuno. Pure, il
pensiero di sua moglie non lo abbandonava mai. Sembrava che il
tempo non avesse nessun potere sopra di lui e non potesse mitigare il
suo rimpianto.
Bisogna aggiungere che la notizia della ricomparsa del Nana nella
presidenza di Bombay, notizia che circolava da alcuni giorni,
sembrava essere sfuggita alle ricerche del colonnello. Ed era un bene,
altrimenti egli avrebbe lasciato immediatamente il bungalow.
Ecco quanto mi aveva detto Banks, prima di presentarmi in quella
casa, da cui qualsiasi gioia era bandita per sempre. Ecco perché
bisognava evitare ogni allusione alla rivolta dei Cipay e al più
crudele dei suoi capi, Nana Sahib.
Due amici soltanto, due amici provati, frequentavano
assiduamente la casa del colonnello. Erano l'ingegner Banks e il
capitano Hod.
Banks, come ho detto, aveva appena terminato i lavori di cui era
stato incaricato per la costruzione della ferrovia Great Indian
Peninsular. Era un uomo di quarantacinque anni, nel pieno vigore
dell'età. Doveva avere una parte importante nella costruzione del
Madras Railway, destinato a collegare il mare Arabico con il golfo
del Bengala, ma non era probabile che i lavori potessero cominciare
prima di un anno. Nel frattempo egli si riposava a Calcutta, pur
occupandosi di vari progetti di meccanica, perché era uno spirito
attivo e fecondo, continuamente alla ricerca di qualche nuova
invenzione. Dedicava tutto il suo tempo che esulava dalle
occupazioni al colonnello, cui era legato da una ventennale amicizia.
E così trascorreva quasi tutte le serate sotto la veranda del bungalow,
in compagnia di sir Edward Munro e del capitano Hod, che aveva
allora ottenuto una licenza di dieci mesi.
Il capitano apparteneva al 1° squadrone dei fucilieri dell'esercito
reale e aveva fatto tutta la campagna del 1857-1858, inizialmente con
sir Colin Campbell nello Oudh e nel Rohilkhand, poi con sir H. Rose
nell'India centrale, campagna che finì con la presa di Gwalior.
Il capitano Hod, cresciuto a quella dura scuola dell'India, uno dei
membri più notevoli del Club di Madras, di capelli e barba biondorossicci, non aveva più di trent'anni. Benché appartenesse all'esercito
reale, lo si sarebbe preso per un ufficiale di quello indigeno, tanto si
era indianizzato durante la sua permanenza nella penisola. Se vi fosse
nato non avrebbe potuto essere più indù di quel che era. L'India gli
pareva il paese per eccellenza, la terra promessa, il solo posto dove
un uomo potesse e dovesse vivere. Là, infatti, egli trovava da
soddisfare tutti i suoi gusti. Soldato nell'anima, gli si presentavano
continuamente le occasioni per battersi. Cacciatore emerito, non si
trovava forse nel paese in cui la natura sembra aver riunito tutte le
fiere della creazione e tutta la selvaggina grossa e piccola dei due
mondi? Scalatore impavido, non aveva forse a portata di mano quella
grandiosa catena del Tibet che possiede le più alte vette del globo?
Viaggiatore intrepido, chi gli impediva di porre il piede là dove
nessuno lo aveva ancora messo, nelle regioni inaccessibili della
frontiera dell'Himalaya? Maniaco arrabbiato per le corse dei cavalli,
gli sarebbero forse venuti meno quei campi di corse dell'India, che ai
suoi occhi valevano quelli della Marche o di Epsom? A questo
proposito, poi, Banks e lui erano in disaccordo completo.
L'ingegnere, nella sua qualità di meccanico puro sangue, si
interessava ben poco alle prodezze ippiche dei Gladiator e delle
Fille-de-l'air.
Anzi, un giorno che il capitano Hod insisteva su questo punto,
Banks gli rispose che, secondo lui, le corse sarebbero state veramente
interessanti a una sola condizione.
— Quale? — domandò Hod.
— Che fosse bene stabilito, — rispose serio Banks — che il
jockey ultimo arrivato fosse fucilato al palo della partenza, seduta
stante.
— È un'idea!... — replicò semplicemente il capitano Hod.
Senza dubbio egli sarebbe stato uomo da correre quel rischio di
persona.
Questi erano i due commensali assidui al bungalow di sir Edward
Munro. Al colonnello piaceva sentirli discutere su ogni cosa, e le loro
eterne discussioni richiamavano a volte una specie di sorriso sulle
sue labbra.
Desiderio comune di quei due bravi compagni era indurre il
colonnello a un qualche viaggio che potesse distrarlo. Molte volte gli
avevano proposto di partire per il nord della penisola, di andare a
trascorrere qualche mese nei dintorni di quei sanitarium nei quali la
ricca società anglo-indiana si rifugia volentieri durante la stagione
dei grandi caldi. Il colonnello aveva sempre rifiutato.
A proposito del viaggio che Banks e io ci proponevamo
d'intraprendere, gli si era già detto qualcosa. Anche quella sera venne
di nuovo trattata la questione. Si è visto che il capitano Hod parlava
nientemeno che di fare a piedi una grande escursione nel nord
dell'India. Se a Banks non piacevano i cavalli, Hod non amava le
ferrovie. Erano pari.
La via di mezzo sarebbe stata, senza dubbio, viaggiare in carrozza
o in palanchino, a piacere, nelle ore più comode, cosa abbastanza
facile sulle grandi vie ben tracciate e ben tenute dell'Indostan.
— Non mi parlate dei vostri carri a buoi, dei vostri zebù gibbosi!
— esclamò Banks. — Senza di noi, sareste ancora ridotti a questi
veicoli primitivi, di cui in Europa non si voleva più sentir parlare
cinquecento anni fa!
— Eh! Banks, — ribatté il capitano Hod, — questo si addice
anche ai vostri vagoni imbottiti e alle vostre Crampton! 3 Dei grandi
buoi bianchi che sostengono perfettamente il galoppo e che si
cambiano alle stazioni di posta ogni due leghe...
— E che trascinano delle specie di tartane a quattro ruote dove si
è sballottati più aspramente di quel che sono i pescatori nelle loro
barche, su un mare scatenato!
— Passi per le tartane, Banks, — rispose il capitano Hod. — Ma
abbiamo delle carrozze a due, a tre, a quattro cavalli, che possono
gareggiare in velocità con i vostri «convogli degni veramente di
portare questo funebre nome! Io preferirei anche il semplice
palanchino...
— I vostri palanchini, capitano Hod, proprio delle bare, lunghe sei
piedi, larghe quattro, dove si sta sdraiati come cadaveri!
— Verissimo, Banks, ma niente sballottamenti, niente scosse; si
può leggere, si può scrivere e si può dormire a proprio agio senza
essere svegliati a ogni stazione! Con un palanchino portato da
quattro, o sei Gamals 4 bengalesi si fanno anche quattro miglia e
mezzo 5 all'ora, e non si rischia, come nei vostri spietati espressi, di
arrivare prima di essere partiti... quando si arriva!
3
Nome dato ad alcuni tipi di locomotive veloci, dal cognome dell'ingegnere
inglese Thomas Russel Crampton (1816-1888) che ne fu l'inventore. (N.d.T.)
4
Nome dei portatori di palanchini nell'India. (N.d.A.)
5
Circa otto chilometri. (N.d.A.)
— Il meglio, — dissi io allora, — sarebbe senza dubbio portare la
casa con sé!
— Lumaca! — esclamò Banks.
— Amico mio, — risposi, — una lumaca che potesse lasciare il
suo guscio e rientrarvi a piacere, non sarebbe forse tanto da
compiangere! Viaggiare nella propria casa, una casa che cammina,
sarà probabilmente l'ultima parola del progresso in fatto di viaggi!
— Forse, — disse allora il colonnello Munro; — muoversi pur
restando in mezzo al proprio «home», portare con sé il proprio
ambiente e tutti i ricordi che lo costituiscono, mutare
successivamente il proprio orizzonte, modificare il proprio
panorama, l'atmosfera, il clima, senza cambiare nulla della propria
vita... si... forse!
— Niente più quei bungalow destinati ai viaggiatori! — rispose il
capitano Hod, — nei quali il comfort lascia sempre a desiderare, e
nei quali non si può soggiornare senza un permesso
dell'amministrazione locale!
— Niente più orrende locande, dove, moralmente e fisicamente, si
è scorticati in tutti i modi! — feci osservare io, non senza le mie
buone ragioni, — Il carrozzone dei saltimbanchi! — esclamò il
capitano Hod, — ma un carrozzone modernizzato. Che sogno!
Fermarsi quando si vuole, partire quando pare e piace, camminare al
passo quando si vuole passeggiare, correre di galoppo appena lo si
desideri, portare con sé non solo la camera da letto, ma anche il
salotto, la sala da pranzo, la sala da fumo, e soprattutto la cucina e il
cuoco: ecco il progresso, amico Banks! Questo è cento volte meglio
delle ferrovie! Osate smentirmi, ingegnere che siete, osatelo!
— Eh! eh! amico Hod! — rispose Banks, — sarei assolutamente
del vostro parere, se...
— Se?... — fece il capitano crollando il capo.
— Se, nel vostro slancio verso il progresso, non vi foste
bruscamente fermato per via.
— C'è dunque ancora qualcosa di meglio da fare?
— Giudicate voi. Voi trovate la casa che cammina molto
superiore al vagone, anche al wagon-salon, persino allo sleeping-car
delle ferrovie. Avete ragione, capitano, se si ha tempo da perdere, se
si viaggia per divertimento e non per affari. Siamo tutti d'accordo su
questo punto, vero?
— Tutti! — risposi.
Il colonnello Munro abbassò il capo in segno di approvazione.
— Siamo intesi, — rispose Banks. — Bene. Proseguo. Vi siete
rivolto a un carrozziere che è anche architetto, ed egli vi ha costruito
la vostra casa che cammina. Eccola, ben salda, ben disposta,
rispondente alle esigenze di chi ama i suoi comodi. Non è troppo
alta, il che le impedirà di capovolgersi; non è troppo larga, così da
poter passare per tutte le strade; è ingegnosamente sospesa, in modo
che la via le riesca facile e dolce.
«Bene, bene! È stata fabbricata per il nostro amico colonnello,
suppongo. Egli vi ci ha offerto ospitalità. Andremo, se lo vorrete, a
visitare le regioni settentrionali dell'India, da lumache, ma da
lumache che non sono inseparabilmente legate per la coda ai gusci.
Tutto è pronto. Non si è dimenticato nulla... nemmeno il cuoco e la
cucina, tanto cari al cuore del capitano. Il giorno della partenza è
venuto, si sta per partire! All right!... E chi la trascinerà, la vostra
casa viaggiante, mio ottimo amico?
— Chi? — esclamò il capitano Hod, — ma muli, asini, cavalli,
buoi?...
— A dozzine? — disse Banks.
— Degli elefanti! — ribatté il capitano Hod, — degli elefanti!
Sarebbe una cosa superba e maestosa! Una casa trascinata da un tiro
d'elefanti, ben addestrati, con un portamento fiero, che corressero,
galoppassero come i migliori palafreni del mondo!
— Sarebbe magnifico, capitano!
— Un corteo da rajah in campagna, ingegnere!
— Sì, ma...
— Ma... che cosa? C'è un altro ma! — esclamò il capitano Hod.
— Un grosso ma!
— Oh! questi ingegneri! Non sono capaci che di vedere difficoltà
in ogni cosa!...
— E di superarle, quando non sono insuperabili, — rispose
Banks.
— Ebbene, superate!
— Supero, ed ecco come. Caro Munro, tutti i motori di cui il
capitano ha parlato, camminano, trascinano, tirano, ma si stancano
anche. Sono restii, si ostinano, e, soprattutto, mangiano. Ora, non
appena i pascoli vengono a mancare, siccome non è possibile tirarsi
dietro cinquecento acri di praterie, il tiro sì arresta, si stanca, cade,
muore di fame, la casa viaggiante non si muove più, e rimane
immobile come il bungalow nel quale discutiamo in questo
momento. Ne consegue dunque che questa casa sarà pratica solo il
giorno in cui diventerà una casa a vapore.
— Che correrà su delle rotaie! — esclamò il capitano alzando le
spalle.
— No, su delle strade, — rispose l'ingegnere, — e trascinata da
qualche locomotiva stradale perfezionata.
— Bravo! — esclamò il capitano, — bravo! Dal momento che la
vostra casa non correrà più su delle rotaie e che si potrà dirigerla a
piacere, senza seguire la vostra imperiosa linea di ferro, ci sto.
— Ma, — feci osservare a Banks, — se muli, asini, cavalli, buoi
ed elefanti mangiano, anche una macchina mangia, e, se mancherà il
combustibile, si fermerà per strada.
— Un cavallo-vapore — rispose Banks, — eguaglia in forza tre o
quattro cavalli naturali, e questa forza può essere aumentata ancora.
Un cavallo-vapore non va soggetto né alla stanchezza né alla
malattia. Con qualunque tempo, sotto tutte le latitudini, sotto il sole,
la pioggia, la neve, cammina sempre, senza stancarsi mai. Non deve
nemmeno temere gli assalti delle fiere né il morso dei serpenti né la
puntura dei tafani e d'altri temibili insetti. Non ha bisogno del
pungolo né della frusta del conduttore. Il riposo gli è inutile, non ha
mai sonno. Il cavallo-vapore, uscito dalla mano dell'uomo, è, dato il
suo scopo, e purché non ci si aspetti da lui che possa un giorno essere
cotto allo spiedo, superiore a tutti gli animali da tiro che la
Provvidenza ha messo a disposizione dell'uomo. Un po' d'olio o di
grasso, un po' di carbone o di legna, ecco quanto esso consuma. Ora,
lo sapete, amici miei, non sono le foreste che mancano nella penisola
indiana, e la legna vi appartiene a tutti.
— Ben detto! — esclamò il capitano Hod. — Evviva il cavallovapore! Vedo già la casa viaggiante dell'ingegner Banks, trascinata
sulle strade principali dell'India, che penetra attraverso le jungle, si
caccia sotto le foreste, si arrischia fino nei covi dei leoni, delle tigri,
degli orsi, delle pantere, dei leopardi, e noi che, al riparo delle sue
mura, facciamo ecatombi di belve da far rabbia a tutti i Nemrod,
Anderson, Gerard, Pertuiset, Chassaing del mondo! Ah! Banks, mi
viene l'acquolina in bocca, e voi mi fate rimpiangere parecchio di
non poter nascere fra una cinquantina d'anni!
— E perché mai, capitano?
— Perché fra cinquantanni, il vostro sogno sarà realizzato, e la
carrozza a vapore si farà.
— È fatta, — rispose semplicemente l'ingegnere.
— Fatta! e fatta da voi, forse?...
— Da me, e, a dir la verità, dovrei temere una sola cosa per lei,
cioè che non debba superare il vostro sogno...
— In viaggio, Banks, in viaggio! — esclamò il capitano Hod, che
si alzò come sotto l'effetto di una scarica elettrica. Egli era pronto a
partire.
L'ingegnere lo calmò con un cenno; poi, con voce più grave,
rivolgendosi a sir Edward Munro:
— Edward, — gli disse, — se metto a tua disposizione una casa
viaggiante, se, fra un mese, quando la stagione sarà adatta, verrò a
dirti: «Ecco la tua camera che si muoverà e andrà dove tu vorrai
andare, ecco i tuoi amici, Maucler, il capitano Hod e io, che non
domandiamo altro che di accompagnarti in un'escursione nel nord
dell'India», mi risponderai: «Partiamo, Banks, partiamo, e il Dio dei
viaggiatori ci protegga»?
— Sì, amici, — rispose il colonnello Munro, dopo aver riflettuto
un istante. — Banks, metto a tua disposizione tutto il denaro
necessario. Mantieni la tua promessa! Procuraci quest'ideale di casa a
vapore che supererebbe i sogni di Hod, e noi attraverseremo l'intera
India!
— Hurrah! hurrah! hurrah! — esclamò il capitano Hod, — e guai
alle belve delle frontiere del Nepal!
In quel momento, il sergente Mac Neil, attirato dagli hurrah del
capitano, apparve sulla soglia della casa.
— Mac Neil, — gli disse il colonnello Munro, — fra un mese si
parte per il nord dell'India. Sarai dei nostri?
— Necessariamente, colonnello, poiché ci andate voi! — rispose
il sergente Mac Neil.
CAPITOLO III
LA RIVOLTA DEI CIPAY
POCHE parole faranno conoscere che cosa era l'India al tempo in
cui comincia questo racconto, e più particolarmente che cosa fu
quella terribile insurrezione dei Cipay, di cui bisogna narrare qui i
fatti principali.
Fu nel 1600, sotto il regno di Elisabetta, in piena razza del sole, in
quella Terra Santa dell'Aryavarta, in mezzo a una popolazione di
duecento milioni d'abitanti, centododici milioni dei quali
appartenevano alla religione indù, che venne fondata
l'onorevolissima Compagnia delle Indie, nota sotto il nomignolo
inglese di «Old John Company».
Inizialmente, era una semplice «associazione di mercanti, che
facevano il traffico con le Indie orientali», alla testa della quale fu
posto il duca di Cumberland.
Già verso quel tempo la potenza portoghese, dopo essere stata
grande nelle Indie, cominciava a declinare. Perciò gli inglesi,
approfittando di questo stato di cose, fecero un primo tentativo di
amministrazione politica e militare in quella presidenza del Bengala,
la cui capitale, Calcutta, sarebbe diventata il centro del nuovo
governo. Prima di tutto venne ad occupare la provincia il 39°
reggimento dell'esercito reale, mandato dall'Inghilterra. Da ciò deriva
il motto che esso porta ancora sulla bandiera: Primus in Indiis.
Frattanto, pressappoco nel medesimo periodo, si era fondata, sotto
il patronato di Colbert, una compagnia francese. Essa aveva lo stesso
scopo della compagnia dei mercanti di Londra. Da questa rivalità
dovevano nascere conflitti d'interesse. Ne seguirono lunghe lotte con
successi e insuccessi, che diedero lustro ai Dupleix, ai
Labourdonnais, ai Lally-Tollendal. 6
Alla fine, i francesi, schiacciati dal numero, dovettero
abbandonare il Carnatic, quella parte della penisola che comprende
un tratto della sua costa orientale.
Lord Clive, liberatosi dai concorrenti, non temendo più nulla né
dal Portogallo né dalla Francia, si occupò allora di assicurare la
conquista del Bengala, di cui lord Hastings venne nominato
governatore
generale.
Riforme
furono
introdotte
da
un'amministrazione abile e perseverante. Ma, da quel giorno, la
Compagnia delle Indie, così potente, anzi così assorbente, venne
colpita direttamente nei suoi interessi più vivi. Alcuni anni più tardi,
nel 1784, Pitt introdusse ancora delle modifiche alla sua primitiva
costituzione. Il suo scettro dovette passare nelle mani dei consiglieri
della Corona. Risultato di quel nuovo ordine di cose: nel 1813, la
Compagnia avrebbe perduto il monopolio del commercio delle Indie,
e, nel 1833, il monopolio del commercio della Cina.
Tuttavia, se l'Inghilterra non doveva più combattere contro le
associazioni straniere nella penisola, dovette sostenere difficili
guerre, sia con gli antichi padroni del suolo sia con gli ultimi
conquistatori asiatici di quel ricco dominio.
Sotto lord Cornwallis, nel 1784, vi fu la lotta contro Tippo Sahib,
ucciso il 4 maggio 1799, nell'ultimo attacco sferrato dal generale
Harris contro Seringapatam. Vi fu la guerra contro i Maharatti,
popolo di grande schiatta, potentissimo nel secolo XVIII, e la guerra
contro i Pindarri, che resistettero tanto coraggiosamente. Vi fu poi la
guerra contro i Gurgkha del Nepal, quegli arditi montanari che, nella
durissima prova del 1857, dovevano rimanere fedeli alleati degli
inglesi. Infine vi fu la guerra contro i Birmani, dal 1823 al 1824.
6
Joseph Francois Dupleix (1697-1763), governatore generale delle Indie Orientali
francesi, conquistò Madras e l'Haiderabad; Bertrand Francois de La Bourdonnais
(1699-1755), ufficiale di marina, contribuì validamente alla conquista di Madras;
Thomas Arthur Lally de Tollendal, generale francese, ultimo governatore delle
Indie francesi. (N.d.T.)
Nel 1828, gli inglesi erano padroni, direttamente o indirettamente,
di una gran parte del territorio. Con lord William Bentinck cominciò
una nuova fase amministrativa.
Dopo il riordinamento delle forze militari nell'India, l'esercito
aveva contato sempre due contingenti ben distinti: il contingente
europeo e il contingente nativo o indigeno. Il primo costituiva
l'esercito reale, composto di reggimenti di cavalleria, di battaglioni di
fanteria e di battaglioni di fanteria europea al servizio della
Compagnia delle Indie; il secondo costituiva l'esercito indigeno, il
quale comprendeva battaglioni di fanteria e battaglioni di cavalleria
regolari, ma indigeni, comandati da ufficiali inglesi. A questo
bisognava aggiungere l'artiglieria, il cui personale, appartenente alla
Compagnia, salvo poche batterie, era europeo.
Quali erano gli effettivi di questi reggimenti o battaglioni, come
sono chiamati indifferentemente nell'esercito reale? Per la fanteria
millecento uomini per battaglione nell'esercito del Bengala, e otto o
novecento negli eserciti di Bombay e di Madras; per la cavalleria
seicento sciabole in ogni reggimento dei due eserciti.
Insomma, nel 1857, come stabilisce con gran precisione il signor
Valbezen nella sua pregevolissima opera Nuovi studi sugli inglesi e
sull'India, «la forza totale delle tre presidenze poteva essere valutata
a duecentomila soldati indigeni e a quarantacinquemila soldati
europei».
Ora, i Cipay, pur formando un corpo regolare comandato da
ufficiali inglesi, sentivano una certa velleità di scuotere l'aspro giogo
della disciplina europea, che era loro imposto dai conquistatori. Già
nel 1806, forse anche sotto l'istigazione del figlio di Tippo Sahib, la
guarnigione dell'esercito indigeno di Madras, acquartierata a Vellore,
aveva massacrato la granguardia 7 del 69° reggimento dell'esercito
reale, incendiato le caserme, sgozzato gli ufficiali e le loro famiglie,
fucilato persino i soldati malati nell'ospedale. Qual era stata la causa
di quella ribellione, la causa apparente, per lo meno? Una pretesa
questione di baffi, di pettinatura e di orecchini. In fondo era l'odio dei
vinti contro gli invasori.
7
Posto della guardia principale in una fortezza, città o accampamento: dà il cambio
ai piccoli posti. (N.d.T.)
Quella prima ribellione fu prontamente soffocata dalle forze reali
acquartierate ad Ascot.
Una ragione analoga (anch'essa un pretesto) doveva pure
provocare il primo moto insurrezionale del 1857, moto ben altrimenti
temibile, che avrebbe forse distrutto la potenza inglese in India, se vi
avessero preso parte le truppe indigene delle presidenze di Madras e
di Bombay.
Prima di tutto, però, bisogna mettere bene in chiaro che quella
rivolta non fu nazionale. È certo che gli indù delle campagne e delle
città non vi presero assolutamente parte. Per di più essa restò limitata
agli Stati semi-indipendenti dell'India centrale, alle province del
nord-ovest e al regno di Oudh. Il Pendjab rimase fedele agli inglesi,
con il suo reggimento di tre squadroni del Caucaso indiano.
Rimasero fedeli anche i Sikh, operai di casta inferiore, che si
distinsero particolarmente nell'assedio di Delhi: fedeli i Gurgkha,
condotti in dodicimila all'assedio di Lucknow dal rajah del Nepal;
fedeli infine i maharajah di Gwalior e di Pattyalah, il rajah di
Rampore, la rhani di Bhopal, fedeli alle leggi dell'onore militare, e,
per usare l'espressione dei nativi dell'India, «fedeli al sale»8
Al principio dell'insurrezione, lord Canning era a capo
dell'amministrazione come governatore generale. Forse quello
statista si illuse circa l'importanza del movimento. Già da alcuni anni,
la stella del Regno Unito era visibilmente impallidita nel cielo
indiano. Nel 1842, la ritirata di Cabul aveva sminuito il prestigio dei
conquistatori europei. E più di una volta, durante la guerra di Crimea,
il comportamento dell'esercito inglese non era stato all'altezza della
sua reputazione militare. Così venne il momento in cui i Cipay, i
quali sapevano benissimo ciò che accadeva sulle rive del Mar Nero,
pensarono che una rivolta delle truppe indigene avrebbe potuto avere
successo. Del resto, mancava solo una scintilla per infiammare degli
animi già ben preparati, che i bardi, i bramini, i mulvis, eccitavano
con le loro prediche e con i loro canti. L'occasione si presentò
nell'anno 1857, durante il quale, per necessità dipendenti dalle
8
Si allude qui ad una famosa usanza indiana (e peraltro comune a molti popoli
dell'antichità): due persone (o due popoli) che avessero mangiato insieme il sale
sarebbero rimasti amici e alleati per sempre. (N.d.T.)
complicazioni esterne, si era dovuto ridurre di un poco il contingente
dell'esercito reale.
All'inizio di quell'anno, Nana Sahib, altrimenti detto il nababbo
Dandu-Pant, che risiedeva vicino a Cawnpore, si era recato a Delhi,
poi a Lucknow, allo scopo, senza dubbio, di provocare il
sollevamento preparato da un pezzo.
Infatti, il movimento insurrezionale scoppiava poco tempo dopo la
partenza del Nana.
Il governo inglese aveva allora introdotto nell'esercito indigeno
l'adozione della carabina Enfield, che rende necessario l'uso di
cartucce ingrassate. Un giorno, si diffuse la voce che quel grasso era
di vacca o di porco, a seconda che le cartucce erano destinate ai
soldati indù o musulmani dell'esercito indigeno.
Ora, in un paese in cui le popolazioni rinunciano a servirsi perfino
del sapone, perché a far parte della sua composizione può entrare il
grasso d'un animale sacro o vile, l'uso di cartucce coperte di questa
sostanza - cartucce che bisognava lacerare con i denti - poteva essere
difficilmente accettato. Il governo cedette in parte davanti ai reclami
che gli furono fatti; ma ebbe un bel modificare la manovra della
carabina, assicurare che i grassi in questione non servivano alla
fabbricazione delle cartucce, non rassicurò e non persuase nessuno
dell'esercito dei Cipay.
Il 24 febbraio, a Berampore, il 34° reggimento rifiuta le cartucce.
A metà del mese di marzo, un maresciallo viene massacrato, e il
reggimento, sciolto dopo l'esecuzione degli assassini, porterà nelle
province vicine più attivi fermenti di ribellione.
Il 10 maggio, a Mirat, un po' a nord di Delhi, il 3°, l'11° e il 20°
reggimento si ribellano, uccidono i loro colonnelli e molti ufficiali di
stato maggiore, saccheggiano la città, poi ripiegano su Delhi. Là, il
rajah, un discendente di Timur, si unisce a loro. L'arsenale cade in
loro potere, e gli ufficiali del 54° reggimento sono sgozzati.
L'11 maggio, a Delhi, il maggiore Fraser e i suoi ufficiali vengono
spietatamente trucidati dai ribelli di Mirat fin dentro il palazzo del
comandante europeo e, il 16 maggio, quarantanove prigionieri,
uomini, donne, fanciulli, cadono sotto la scure degli assassini.
Il 20 maggio, il 26° reggimento, accampato presso Lahore, uccide
il comandante del porto e il sergente maggiore europeo.
Il via a queste spaventose carneficine era dato.
Il 28 maggio, a Nurabad, nuove vittime fra gli ufficiali angloindiani.
Il 30 maggio, negli accampamenti di Lucknow, vengono
massacrati il generale comandante la piazza, il suo aiutante di campo
e molti altri ufficiali.
Il 31 maggio, a Bareilli, nel Rohilkhand, alcuni ufficiali vengono
sorpresi e assassinati mentre non possono nemmeno difendersi.
Nello stesso giorno, a Schajahanpore, assassinio, da parte dei
Cipay del 38° reggimento, del ricevitore delle imposte e di un certo
numero di ufficiali, mentre il giorno dopo, al di là di Barwar,
vengono sgozzati alcuni ufficiali, donne e fanciulli che si erano messi
in cammino per recarsi alla stazione di Sivapore, a un miglio da
Aurangabad.
Nei primi giorni di giugno, a Bhopal, massacro di una parte della
popolazione europea, e a Jansi, dietro istigazione della terribile rhani
spodestata, carneficina, con crudeltà di una raffinatezza senza pari,
delle donne e dei fanciulli rifugiati nel forte.
Il 6 giugno, ad Allahabad, otto giovani alfieri cadono sotto i colpi
dei Cipay.
Il 14 giugno, a Gwalior, rivolta di due reggimenti indigeni e
assassinio degli ufficiali.
Il 27 giugno, a Cawnpore, prima ecatombe di vittime d'ogni età e
sesso, fucilate o annegate, preludio dello spaventoso dramma che
doveva compiersi poche settimane più tardi.
A Holkar, il 1° luglio, massacro di trentaquattro europei, ufficiali,
donne, fanciulli, saccheggio o incendio; a Ugow, nello stesso giorno,
assassinio del colonnello e del maresciallo del 23° reggimento
dell'esercito reale.
Il 15 luglio, secondo eccidio a Cawnpore. Quel giorno, molte
centinaia di fanciulli e di donne, e fra queste lady Munro, vengono
sgozzate con una crudeltà senza pari per ordine del Nana in persona,
il quale chiamò in aiuto i beccai musulmani dei macelli. Orribile
carneficina, dopo la quale i corpi vennero gettati in un pozzo, rimasto
leggendario.
Il 26 settembre, su una piazza di Lucknow, che ora si chiama la
«Piazza delle Lettighe», molti feriti vengono fatti a pezzi a sciabolate
e gettati, ancora vivi, nelle fiamme.
E poi, molte altre uccisioni isolate, nelle città e nelle campagne,
che diedero a quella rivolta un orribile carattere d'atrocità!
A quelle carneficine, del resto, i generali inglesi risposero subito
con rappresaglie, - necessarie senza dubbio, poiché finirono con
l'ispirare il terrore del nome inglese fra i ribelli — che tuttavia furono
veramente spaventose!
All'inizio dell'insurrezione, a Lahore, il ministro della Giustizia
Montgomery e il generale Corbett avevano potuto disarmare, senza
versare sangue, protetti da dodici cannoni con la miccia accesa, i
reggimenti 8°, 16°, 26° e 49° dell'esercito indigeno. A Moultan, i
reggimenti indigeni 62° e 29° avevano dovuto anch'essi rendere le
armi, senza poter tentare una seria resistenza.
Anche a Peschawar, i reggimenti 24°, 27° e 51° furono disarmati
dal generale S. Colton e dal colonnello Nicholson nel momento in
cui la rivolta stava per scoppiare. Ma poiché alcuni ufficiali del 51°
reggimento erano fuggiti sulle montagne, sulle loro teste venne posta
una taglia e, in breve, furono riportate tutte dai montanari.
Era l'inizio delle rappresaglie.
Una colonna, comandata dal colonnello Nicholson, fu lanciata
allora contro un reggimento indigeno, che marciava verso Delhi. I
ribelli non tardarono ad essere raggiunti, battuti, dispersi, e
centoventi prigionieri rientrarono a Peschawar. Tutti indistintamente
furono condannati a morte; ma uno solo su tre doveva essere
giustiziato. Dieci cannoni furono allineati sul campo di manovre, a
ciascuna delle loro bocche venne legato un prigioniero e cinque volte
i dieci cannoni fecero fuoco, coprendo la pianura di avanzi informi,
in mezzo a un'atmosfera appestata dalla carne bruciata.
Questi giustiziati, secondo il signor di Valbezen, morirono quasi
tutti con quell'eroica indifferenza che gli indiani sanno conservare
così bene di fronte alla morte. — Signor capitano, — disse a uno
degli ufficiali che presiedevano all'esecuzione un bel Cipay ventenne
accarezzando indifferentemente con la mano lo strumento di morte,
— signor capitano, non c'è bisogno che mi leghino, non ho
intenzione di fuggire.
Quella fu la prima e orribile esecuzione, che doveva essere seguita
da tante altre.
Ecco, del resto, l'ordine del giorno che a quella stessa data, a
Lahore, il generale di brigata Chamberlain portava a conoscenza
delle truppe indigene, dopo l'esecuzione di due Cipay del 55°
reggimento:
«Avete appena visto legare vivi alla bocca dei cannoni e fare a
pezzi due dei vostri compagni; questo sarà il castigo di tutti i
traditori. La vostra coscienza vi dirà quali pene subiranno nell'altro
mondo. I due soldati sono stati uccisi con il cannone e non con la
forca, perché ho desiderato risparmiare loro la vergogna del contatto
del carnefice e provare così che il governo, anche in questi giorni di
crisi, non vuol far nulla che possa ferire minimamente i vostri
pregiudizi di religione e di casta».
Il 30 luglio, milleduecentotrentasette prigionieri cadevano
successivamente davanti al plotone d'esecuzione, e altri cinquanta
sfuggivano all'estremo supplizio solo per morire di fame e di
soffocamento nella prigione in cui erano stati rinchiusi.
Il 28 agosto, di ottocentosettanta Cipay che fuggivano da Lahore,
seicentocinquantanove venivano spietatamente trucidati dai soldati
dell'esercito reale.
Il 23 settembre, dopo la presa di Delhi, tre principi della famiglia
reale, l'erede presunto e i suoi due cugini, si arrendevano senza
condizioni al generale Hodson, che li condusse con una scorta di
cinque uomini soltanto, in mezzo a una folla minacciosa di
cinquemila indù, uno contro mille. Eppure, a mezza strada, Hodson
fece fermare il carro che portava i prigionieri, salì accanto a loro,
ordinò loro di scoprirsi il petto, e li uccise tutti e tre a colpi di
rivoltella. «Questa sanguinosa esecuzione, per mano di un ufficiale
inglese», dice il signor di Valbezen, «doveva suscitare nel Pendjab la
più alta ammirazione».
Dopo la caduta di Delhi, tremila prigionieri, fra i quali ventinove
membri della famiglia reale, morirono o sulla forca o uccisi a
cannonate. L'assedio di Delhi, per la verità, era costato agli assedianti
duemilacentocinquantuno europei e milleseicentottantasei indigeni.
Ad Allahabad, si fecero orribili carneficine umane, non più tra i
Cipay, ma tra la popolazione più misera che alcuni fanatici avevano
trascinata quasi inconsciamente al saccheggio.
A Lucknow, il 16 novembre, duemila Cipay fucilati al Sikander
Bagh coprivano con i loro cadaveri uno spazio di centoventi metri
quadrati.
A Cawnpore, dopo la carneficina, il colonnello Neil obbligava i
condannati, prima di consegnarli alla forca, a leccare e a pulire con la
lingua, proporzionalmente alla loro casta, ogni macchia di sangue
rimasta nella casa in cui erano perite le vittime. Per quegli indù era
un far precedere il disonore alla morte.
Durante la spedizione nell'India centrale, le esecuzioni dei
prigionieri furono incessanti, e, sotto i colpi di fucile, «mura di carne
umana crollavano a terra»!
Il 9 marzo 1858, nell'assalto della Casa Gialla, durante il secondo
assedio di Lucknow, dopo una spaventosa decimazione di Cipay,
sembra ormai certo che uno di quei disgraziati fu arrostito vivo dai
Sikh addirittura sotto gli occhi degli ufficiali inglesi.
Il giorno 11, a Lucknow, cinquanta corpi di Cipay giacevano nei
fossati del palazzo della begum, senza che un solo ferito venisse
risparmiato dai soldati frenetici.
Infine, in dodici giorni di combattimenti, tremila indigeni
morivano impiccati o fucilati, e fra questi trecentottanta fuggitivi
ammucchiati sulla isola di Hidaspe, i quali avevano cercato di
salvarsi fino al Cashmir.
Insomma, senza tener conto del numero dei Cipay uccisi con le
armi alla mano durante quella spietata repressione, - repressione che
non ammetteva prigionieri, - soltanto nella campagna del Pendjab, si
contano non meno di seicentoventotto indigeni fucilati o attaccati alle
bocche dei cannoni per ordine dell'autorità militare,
milletrecentosettanta per ordine dell'autorità civile, trecentottantasei
impiccati per ordine delle due autorità.
In totale, all'inizio del 1859 si valutava a più di centoventimila il
numero degli ufficiali e dei soldati indigeni uccisi, e a più di
duecentomila quello dei civili indigeni che pagarono con la vita la
loro partecipazione, spesso dubbia, all'insurrezione. Terribili
rappresaglie, contro le quali, forse non senza ragione, Gladstone
protestò con energia al parlamento inglese.
Per la narrazione che seguirà, era importante fare, da una parte e
dall'altra, il bilancio di questa necrologia. Era necessario per far
comprendere al lettore quale odio insaziato doveva rimanere tanto
nel cuore dei vinti, assetati di vendetta, quanto in quello dei vincitori,
che, dieci anni dopo, portavano ancora il lutto delle vittime di
Cawnpore e di Lucknow.
Quanto ai fatti puramente militari di tutta la campagna intrapresa
contro i ribelli, essi comprendono le spedizioni seguenti, che
citeremo sommariamente.
Per prima viene la prima campagna del Pendjab, che costò la vita
a sir John Laurence.
Poi segue l'assedio di Delhi, capitale dell'insurrezione, rafforzata
da migliaia di fuggitivi, e nella quale Mohammed Schah Bahadur fu
proclamato imperatore dell'Indostan. — Fatela finita con Delhi —
aveva imperiosamente ordinato il governatore generale in un ultimo
dispaccio al comandante in capo, e l'assedio, cominciato la notte del
13 giugno, terminava il 19 settembre, dopo essere costato la vita ai
generali sir Harry Barnard e John Nicholson.
Contemporaneamente, dopo che Nana Sahib si fu fatto dichiarare
Peischwah e incoronare nella fortezza di Bilhur, il generale Havelock
marciava su Cawnpore. Vi entrava il 17 luglio, ma troppo tardi per
impedire l'ultima carneficina e impadronirsi del Nana, che poté
fuggire con cinquemila uomini e quaranta cannoni.
Dopo ciò, Havelock intraprendeva una prima campagna nel regno
di Oudh, e il 28 luglio passava il Gange con millesettecento uomini e
dieci cannoni soltanto, dirigendosi verso Lucknow.
Sir Colin Campbell e il maggiore generale sir James Outram
entravano allora in scena. L'assedio di Lucknow doveva durare
ottantasette giorni, e costare la vita a sir Henry Lawrence e al
generale Havelock. Quindi Colin Campbell, dopo essere stato
costretto a ritirarsi su Cawnpore, di cui s'impadroniva
definitivamente, si preparava a una seconda campagna.
In quello stesso periodo, altre truppe liberavano Mohir, una delle
città dell'India centrale, e compivano una spedizione attraverso il
Malwa, che ristabiliva l'autorità inglese in quel regno.
All'inizio dell'anno 1858, Campbell e Outram ricominciavano una
seconda campagna nell'Oudh, con quattro divisioni di fanteria,
comandate dai maggiori generali sir James Outram, sir Edward
Lugar e dai generali di brigata Walpole e Franks. La cavalleria era
sotto il comando di sir Hope Grant, i corpi speciali sotto quello di
Wilson e di Robert Napier, in tutto circa venticinquemila
combattenti, che il maharajah del Nepal doveva raggiungere con
dodicimila Gurgkha. Ma l'esercito ribelle della begum non contava
meno di centoventimila uomini, e la città di Lucknow sette o
ottocentomila abitanti. Il primo attacco venne dato il 6 marzo. Il 16,
dopo una serie di combattimenti nei quali caddero il capitano di
vascello sir William Peel e il maggiore Hodson, gli inglesi erano in
possesso della parte della città posta sul Gumti. Nonostante questi
vantaggi, la begum e suo figlio resistevano ancora nel palazzo di
Musa-Bagh, all'estremità nord-ovest di Lucknow, e il Mulvi, capo
musulmano della rivolta, rifugiato nel centro stesso della città,
rifiutava di arrendersi. Il 19, un attacco di Outram e il 21 un
combattimento fortunato confermavano finalmente agli inglesi il
pieno possesso di quel temibile baluardo dell'insurrezione dei Cipay.
Nel mese di aprile, la ribellione entrava nella sua fase finale.
Veniva fatta una spedizione nel Rohilkhand, dove gli insorti fuggitivi
si erano recati in gran numero. Bareilli, capitale del regno, fu il primo
obiettivo dei capi dell'esercito reale. Gli inizi non furono felici. Gli
inglesi subirono una specie di disfatta a Judgespore; il generale di
brigata Adrien Hope fu ucciso. Ma verso la fine del mese giungeva
Campbell e, ripresa Schajahanpore, il 5 maggio attaccava Bareilli,
copriva di fuoco la città e se ne impadroniva, senza aver potuto
impedire ai ribelli di evacuarla.
Frattanto, nell'India centrale cominciavano le campagne di sir
Hugh Rose. Questo generale, agli inizi del gennaio 1858, marciava
su Saungor, attraverso il regno di Bhopal, ne liberava la guarnigione
il 3 febbraio, dieci giorni dopo espugnava il forte di Gurakota,
forzava le gole della catena dei Vindhya al colle di Mandanpore,
passava il Betwa, giungeva davanti a Jansi, difesa da undicimila
ribelli, agli ordini della truce rhani, la assaliva il 22 marzo, con un
caldo torrido, staccava duemila uomini dall'esercito assediante per
sbarrare la strada a ventimila uomini del contingente di Gwalior,
condotti dal famigerato Tantia-Topi, respingeva questo capo ribelle,
attaccava la città il 2 aprile, forzava le mura, si impadroniva della
cittadella, da cui la rhani riusciva a fuggire, riprendeva le operazioni
contro il forte di Calpi, dove la rhani e Tantia-Topi avevano deciso di
morire, e se ne impadroniva il 22 maggio, dopo un eroico assalto,
continuava l'impresa inseguendo la rhani e il suo compagno, che si
erano rifugiati a Gwalior, vi concentrava il 16 giugno le sue due
brigate che venivano raggiunte da un rinforzo del generale Napier,
schiacciava i ribelli a Morar, conquistava la piazza il 18, e ritornava a
Bombay, dopo una campagna trionfale.
Fu precisamente in uno scontro d'avamposti davanti a Gwalior,
che morì la rhani. Questa terribile regina, devota anima e corpo al
nababbo, la sua più fedele compagna durante l'insurrezione, fu uccisa
dalla mano dello stesso sir Edward Munro. Nana Sahib sul cadavere
di lady Munro, a Cawnpore, il colonnello sul cadavere della rhani, a
Gwalior, erano due uomini, nei quali si compendiavano la rivolta e la
repressione, due nemici, l'odio dei quali avrebbe avuto effetti
terribili, se si fossero ritrovati faccia a faccia!
Da quel momento si può considerare la rivolta come domata,
tranne forse in qualche parte del regno di Oudh. Campbell ritorna
dunque in campagna il 2 novembre, si impadronisce delle ultime
posizioni dei ribelli e obbliga alcuni capi importanti a sottomettersi.
Tuttavia uno di loro, Beni Madho, non viene preso. Si viene a sapere
in dicembre che si è rifugiato in un distretto limitrofo del Nepal. Si
dà per sicuro che Nana Sahib, Balao Rao, suo fratello, e la begum di
Oudh sono con lui. Più tardi, durante gli ultimi giorni dell'anno, corre
voce che sono andati a cercare asilo sul Rapti, ai limiti dei regni del
Nepal e dell'Oudh. Campbell li serra da vicino, ma essi passano la
frontiera. Fu soltanto nei primi giorni del febbraio 1859 che una
brigata inglese, uno dei reggimenti della quale era sotto il comando
del colonnello Munro, poté inseguirli fino nel Nepal. Beni Madho
venne ucciso, la begum di Oudh e suo figlio furono fatti prigionieri, e
ottennero il permesso di risiedere nella capitale del Nepal. Quanto a
Nana Sahib e a Balao Rao, per un pezzo furono creduti morti. Non lo
erano.
Ad ogni modo, la formidabile insurrezione era distrutta. TantiaTopi, consegnato dal suo luogotenente Man Singh e condannato a
morte, veniva giustiziato, il 15 aprile, a Sipri. Questo ribelle «figura
veramente notevole del gran dramma dell'insurrezione indiana», dice
il signor di Valbezen, «e che diede prova d'un genio politico pieno di
combinazioni e d'audacia», morì coraggiosamente sul patibolo.
Tuttavia, la fine di quella rivolta dei Cipay, che sarebbe forse
costata l'India agli inglesi, se si fosse estesa a tutta la penisola, e
soprattutto se la ribellione fosse stata nazionale, doveva provocare la
caduta dell'onorevole Compagnia delle Indie.
Infatti, la Corte dei Direttori era stata minacciata di decadenza da
lord Palmerston fin dalla fine dell'anno 1857.
Il primo novembre 1858, un proclama, pubblicato in venti lingue,
annunciava che S. M. Vittoria Beatrice, regina d'Inghilterra,
prendeva lo scettro dell'India, di cui, alcuni anni più tardi, doveva
essere incoronata imperatrice.
Ciò fu opera di lord Stanley. Il titolo di governatore, sostituito da
quello di viceré, un segretario di Stato e quindici membri componenti
il governo centrale, i membri del Consiglio dell'India presi fuori del
servizio indiano, i governatori delle presidenze di Madras e di
Bombay nominati dalla regina, i membri del servizio indiano e i
comandanti supremi scelti dal segretario di Stato, ecco le principali
disposizioni del nuovo governo.
Quanto alle forze militari, l'esercito reale conta oggi
diciassettemila uomini di più che non al tempo della rivolta dei
Cipay, ossia cinquantadue reggimenti di fanteria, nove reggimenti di
fucilieri e un'artiglieria considerevole, con cinquecento sciabole per
reggimento di cavalleria e settecento baionette per reggimento di
fanteria.
L'esercito indigeno si compone di centotrentasette reggimenti di
fanteria e quaranta di cavalleria; ma la sua artiglieria è, quasi senza
eccezione, europea.
Questo è lo stato attuale della penisola dal punto di vista
amministrativo e militare, questi sono gli effettivi delle forze che
custodiscono un territorio di quattrocentomila miglia quadrate.
«Gli inglesi», dice giustamente il signor Grandidier, «sono stati
fortunati a trovare in questo grande e magnifico paese un popolo
mite, industrioso, incivilito e avvezzo da un pezzo a tutti i gioghi. Ma
badino bene che la dolcezza ha i suoi limiti; facciano che il giogo
non sia troppo pesante, altrimenti le teste un giorno si rialzeranno e
lo spezzeranno».
CAPITOLO IV
NELLE GROTTE DI ELLORA
ERA FIN troppo vero. Il principe maharatto Dandu-Pant, il figlio
adottivo di Baji-Rao, Peischwah di Punah, in una parola, Nana Sahib,
forse a quel tempo l'unico superstite dei capi della rivolta dei Cipay,
aveva potuto lasciare il suo inaccessibile rifugio del Nepal.
Coraggioso, audace, avvezzo ad affrontare i pericoli immediati, abile
nello sviare gli inseguimenti, esperto nell'arte di confondere le sue
tracce, profondamente astuto, egli si era avventurato fino nelle
province del Deccan, sotto l'ispirazione sempre viva di un odio che le
terribili rappresaglie dell'insurrezione del 1857 non avevano fatto che
decuplicare.
Sì! era un odio mortale quello che il Nana aveva votato ai
conquistatori dell'India. Egli era l'erede di Baji-Rao, e quando il
Peischwah morì nel 1851, la Compagnia rifiutò di continuare a
versargli la pensione di otto lakhs di rupie, 9 alla quale egli aveva
diritto. Questa era una delle cause di quell'odio che doveva portare ai
maggiori eccessi.
Ma che cosa sperava dunque Nana Sahib? Da otto anni la rivolta
dei Cipay era interamente domata. Il governo inglese si era a poco a
poco sostituito all'onorevole Compagnia delle Indie, e teneva l'intera
penisola sotto una autorità ben altrimenti forte di quella
dell'Associazione dei mercanti. Della rivolta non rimanevano tracce,
nemmeno nelle file dell'esercito indigeno, interamente riordinato su
nuove basi. Il Nana pretendeva forse di riuscire a fomentare un
movimento nazionale fra le basse classi dell'Indostan? Sapremo fra
poco i suoi piani. In ogni caso, egli non ignorava più che la sua
presenza era stata segnalata nella provincia di Aurangabad, che il
9
Due milioni di franchi. (N.d.A.)
governatore generale ne aveva avvertito il viceré, a Calcutta, e che
sulla sua testa era stata messa una taglia. Certo è che egli aveva
dovuto fuggire precipitosamente, e che doveva rifugiarsi ancora in un
asilo ben nascosto per sfuggire alle ricerche degli agenti della polizia
anglo-indiana.
Il Nana, in quella notte dal 6 al 7 marzo, non perse un'ora.
Conosceva perfettamente il paese. Decise di recarsi a Ellora, posta a
venticinque miglia da Aurangabad, per raggiungervi uno dei suoi
complici.
La notte era buia. Il falso fachiro, dopo essersi assicurato che
nessuno lo inseguiva, si diresse verso il mausoleo, eretto a poca
distanza dalla città, in onore del maomettano Sha-Sufi, un santo le
cui reliquie hanno fama di operare guarigioni. Ma tutti dormivano in
quel momento nel mausoleo, preti e pellegrini, e il Nana poté passare
senza essere disturbato da domande indiscrete.
Tuttavia, l'oscurità non era tanto fitta che, quattro leghe più a
nord, il blocco di granito su cui sorge il forte imprendibile di
Daoulutabad e che si erge in mezzo a una pianura fino a un'altezza di
duecentoquaranta piedi, potesse nascondere allo sguardo il suo
enorme profilo. Il nababbo, scorgendolo, si ricordò che uno degli
imperatori del Deccan, uno dei suoi avi, aveva voluto fare la propria
capitale della grande città che un tempo sorgeva ai piedi di quel forte.
E in verità, quella sarebbe stata una posizione inespugnabile, fatta
veramente per diventare il centro d'un movimento insurrezionale in
quella parte dell'India. Ma Nana Sahib volse il capo, e non ebbe che
uno sguardo d'odio per quella fortezza ormai nelle mani dei suoi
nemici.
Passata quella pianura, apparve una regione più accidentata. Erano
le prime ondulazioni di un suolo che stava per farsi montagnoso. Il
Nana, ancora in tutta la forza dell'età, non rallentò il passo,
affrontando pendii già ripidi. In quella notte egli voleva percorrere
venticinque miglia, voleva, cioè, superare la distanza che separa
Ellora da Aurangabad. Là, egli sperava di poter riposare in piena
sicurezza. Perciò non volle fermarsi né in un caravanserraglio, aperto
al primo arrivato, che trovò sulla sua strada, né in un bungalow semi-
rovinato, dove avrebbe potuto dormire un'ora o due, nel cuore della
parte arretrata della montagna.
Allo spuntar del sole, il villaggio di Rauzah, che custodisce la
tomba semplicissima del più grande degli imperatori mongoli,
Aurangzeb, fu aggirato dal fuggitivo. Era finalmente giunto a quel
famoso gruppo di grotte scavate che hanno preso il nome di Ellora
dal piccolo villaggio vicino.
La collina nella quale sono state aperte quelle grotte, circa una
trentina, ha la forma di una mezza luna. Quattro templi, ventiquattro
monasteri buddistici, alcune grotte meno importanti, eccone i
monumenti. La cava di basalto è stata largamente sfruttata dalla
mano dell'uomo. Ma le pietre ne sono state estratte non per costruire
i capolavori sparsi qua e là sull'immensa superficie della penisola
dagli architetti indiani, nei primi secoli dell'era cristiana. No! Le
pietre sono state tolte semplicemente per aprire nella massa compatta
quei vani che sono diventati dei chaitya o dei vihara, secondo la loro
destinazione.
Il più straordinario fra questi templi è quello dei Kaila.
Immaginatevi un masso alto centoventi piedi, con seicento piedi di
circonferenza. Questo masso, con incredibile audacia, venne tagliato
nella montagna stessa, isolato in mezzo a un gran cortile lungo
trecentosessanta piedi e largo centottantasei, cortile conquistato dal
piccone a spese della cava di basalto. Quel blocco così isolato venne
poi scolpito dagli architetti come uno scultore avrebbe fatto d'un
pezzo d'avorio. All'esterno, essi hanno fatto delle colonne, foggiato
delle piccole piramidi, arrotondato delle cupole, risparmiando la
roccia necessaria per ottenere il risalto dei bassorilievi, nei quali certi
elefanti più grandi del vero sembra che sorreggano l'intero edificio;
all'interno hanno scavato una grande sala, circondata di cappelle, la
cui volta riposa sopra colonne staccate dalla massa totale. Infine, di
quel monolito, essi hanno fatto un tempio, che non è stato
«fabbricato», nel vero senso della parola, ma un tempio unico al
mondo, degno di gareggiare con i più meravigliosi edifici dell'India,
e che non ha nulla da perdere nemmeno se paragonato agli ipogei
dell'antico Egitto.
Questo tempio, ormai quasi abbandonato, è già stato colpito dal
tempo e va deteriorandosi in alcune parti. I suoi bassorilievi si
alterano come le pareti del masso da cui fu tirato fuori. Gli restano
ancora forse mille anni di esistenza. Ma ciò che è solo l'infanzia per
le opere della natura, è già caducità per le opere umane. Alcuni
profondi crepacci si erano aperti nel basamento laterale a sinistra, e
fu attraverso una di quelle aperture, seminascosta dalla groppa di uno
degli elefanti di sostegno, che Nana Sahib si lasciò scivolare senza
che. nessuno avesse potuto sospettare il suo arrivo a Ellora.
Il crepaccio si apriva internamente su un oscuro cunicolo che
correva attraverso il basamento, cacciandosi sotto la «cella» del
tempio. Là si allargava una specie di cripta, o piuttosto una cisterna,
asciutta allora, che serviva da ricettacolo per l'acqua piovana.
Il Nana, appena fu penetrato nel cunicolo, fece udire un certo
fischio, al quale rispose un fischio identico. Non si trattava di eco.
Una luce brillò nel buio.
Subito apparve un indù, che aveva in mano una piccola lanterna.
— Niente lume! — disse il Nana.
— Sei tu, Dandu-Pant? — rispose l'indù, che spense subito la
lanterna.
— Io, fratello!
— Ebbene?...
— Da mangiare, prima di tutto, — rispose il Nana, —
chiacchiereremo poi. Ma non ho bisogno di vederci né per parlare né
per mangiare. Prendimi la mano e guidami.
L'indù prese la mano del Nana, lo condusse in fondo alla stretta
cripta e lo aiutò a sdraiarsi su un mucchio di erbe secche che egli
stesso aveva appena lasciato. Il fischio del fachiro aveva interrotto il
suo ultimo sonno.
Quell'uomo, perfettamente abituato a muoversi in quell'oscuro
recesso, trovò subito alcune provviste, del pane, una specie di
pasticcio di murghis preparato con la carne di certi polli comunissimi
in India, e un fiasco contenente una mezza pinta di quel violento
liquore conosciuto sotto il nome di arak prodotto dalla distillazione
del succo di cocco.
Il Nana mangiò e bevve senza pronunciare parola. Moriva di fame
e di stanchezza. Tutta la sua vita si era concentrata allora negli occhi
che scintillavano nell'ombra come le pupille di una tigre.
L'indù, senza fare un movimento, aspettava che il nababbo si
decidesse a parlare.
Quell'uomo era Balao Rao, fratello di Nana Sahib.
Balao Rao, fratello maggiore di Dandu-Pant, ma di un anno
appena, gli somigliava tanto da esser preso per lui. Moralmente poi
era Nana Sahib tale e quale. Stesso odio per gli inglesi, stessa astuzia
nei piani, identica crudeltà nell'esecuzione, un'anima sola in due
corpi. Durante tutta l'insurrezione, i due fratelli non si erano mai
lasciati. Dopo la disfatta, il medesimo accampamento della frontiera
del Nepal aveva dato loro asilo. Ed ora, congiunti da quell'unico
pensiero di ricominciare la lotta, si ritrovavano entrambi pronti ad
agire.
Quando il Nana, ristorato da quel pasto divorato frettolosamente,
ebbe ricuperato le forze, rimase, per qualche tempo, con la testa fra le
mani. Balao Rao, credendo che volesse riposarsi con qualche ora di
sonno, stava sempre in silenzio.
Ma Dandu-Pant, rialzando il capo, afferrò la mano del fratello, e
con voce sorda:
— Sono stato segnalato nella presidenza di Bombay! — disse. —
Il governatore della presidenza ha messo una taglia sulla mia testa! Si
promettono duemila sterline a chi consegnerà Nana Sahib!
— Dandu-Pant! — esclamò Balao Rao, — la tua testa vale di più!
Sarebbe appena il prezzo della mia, e, prima che siano passati tre
mesi, sarebbero ben contenti di averle tutte e due per ventimila!
— Sì, — rispose il Nana, — fra tre mesi, il 23 giugno, è
l'anniversario di quella battaglia di Plassey, il cui centenario, nel
1857, doveva vedere la fine della dominazione inglese e
l'emancipazione della razza che viene dal sole! I nostri profeti lo
avevano predetto! I nostri bardi lo avevano cantato! Fra tre mesi,
fratello, saranno passati centonove anni, e l'India è ancora calpestata
dal piede degli invasori.
— Dandu-Pant, — rispose Balao Rao, — ciò che non è riuscito
nel 1857 può e deve riuscire dieci anni dopo. Nel 1827, nel 1837, nel
1847 ci sono state sommosse in India! Ogni dieci anni, gli indù sono
ripresi dalla febbre della rivolta! Ebbene, quest'anno guariranno
bagnandosi in un mare di sangue europeo!
— Brahma ci guidi, — mormorò il Nana — e allora, supplizio per
supplizio! Sventura sui capi dell'esercito reale che non sono caduti
sotto i colpi dei nostri Cipay! Lawrence è morto, Barnard è morto,
Hope è morto, Napier è morto, Hodson è morto, Havelock è morto!
Ma alcuni sono sopravvissuti! Campbell, Rose, vivono ancora, e con
loro quello che io odio più di tutti, il colonnello Munro, il
discendente di quel carnefice che per primo fece legare degli indù
alla bocca dei cannoni, l'uomo che ha ucciso con le sue mani la mia
compagna, la rhani di Jansi! Che egli cada in mio potere, e vedrà se
ho dimenticato gli orrori del colonnello Neil, i massacri del Sikander
Bagh, gli sgozzamenti del palazzo della begum, di Bareilli, di Jansi,
di Morar, dell'isola di Hidaspe e di Delhi! Vedrà se ho dimenticato
che egli ha giurato la mia morte, come io ho giurato la sua!
— Non ha lasciato l'esercito? — domandò Balao Rao.
— Oh! — rispose Nana Sahib, — ai primi sollevamenti riprenderà
servizio! Ma se l'insurrezione abortisce, andrò a pugnalarlo fin nel
suo bungalow di Calcutta!
— Sta bene, e ora?...
— Ora, bisogna continuare l'opera cominciata. Questa volta il
movimento sarà nazionale. Nelle città, nei campi, gli indù si
sollevino, e presto i Cipay avranno fatto causa comune con loro. Ho
percorso il centro e il nord del Deccan. Dappertutto ho trovato gli
animi disposti alla rivolta. Non c'è città, non c'è villaggio, in cui non
abbiamo dei capi pronti ad agire. I bramini renderanno il popolo
fanatico. La religione, questa volta, trascinerà i settari di Siva e di
Vishnu. Al momento fissato, al segnale convenuto, milioni di indù
insorgeranno, e l'esercito reale sarà distrutto!
— E Dandu-Pant?... — domandò Balao Rao, afferrando la mano
di suo fratello.
— Dandu-Pant, — rispose il Nana, — non sarà soltanto il
Peischwah incoronato nella fortezza di Bilhur! Egli sarà il sovrano
della terra sacra delle Indie!
Detto ciò, Nana Sahib con le braccia conserte, lo sguardo perduto
di chi osserva, non più il passato o il presente, ma l'avvenire, rimase
silenzioso.
Balao Rao si guardava bene dall'interromperlo. Amava lasciare
che quello spirito truce si infiammasse delle proprie idee, e, nel caso,
egli era là per attizzare tutto il fuoco che covava in lui. Nana Sahib
non poteva aver un complice più strettamente legato alla sua persona,
un consigliere più ardente a spingerlo verso la meta. L'abbiamo detto,
egli era un altro lui stesso.
Il Nana, dopo alcuni minuti di silenzio, risollevò il capo e ritornò
al momento presente.
— Dove sono i nostri compagni? — domandò.
— Nelle caverne di Adjuntah, dove è stato convenuto che ci
avrebbero atteso, — rispose Balao Rao.
— E i nostri cavalli?
— Li ho lasciati a un tiro di fucile, sulla strada che conduce da
Ellora a Boregami.
— È Kâlagani che li custodisce?
— Proprio lui, fratello. Son ben custoditi, ben rifocillati, ben
riposati, e non aspettano che noi per partire.
— Partiamo dunque, — rispose il Nana. — Bisogna che siamo ad
Adjuntah prima dell'alba.
— E dopo, — domandò Balao Rao, — dove andremo? Questa
fuga precipitosa non ha contrariato i tuoi piani?
— No, — rispose Nana Sahib. — Ci recheremo ai monti
Sautpurra, di cui conosco tutte le gole, e in mezzo ai quali posso
sfidare le ricerche della polizia inglese. Là, del resto, saremo sul
territorio dei Bilh e dei Gound, che sono rimasti fedeli alla nostra
causa. Là potrò aspettare il momento favorevole, nel cuore di quella
montagnosa regione dei Vindhya, dove il fermento della rivolta è
sempre pronto a manifestarsi!
— Andiamo! — rispose Balao Rao. — Ah! hanno promesso
duemila sterline a chi si impadronirà di te! Ma non basta mettere una
taglia su una testa, bisogna prenderla!
— Non la prenderanno, — rispose Nana Sahib. — Vieni, fratello,
senza perdere un istante, vieni!
Balao Rao avanzò con passo sicuro lungo lo stretto corridoio che
conduceva a quell'oscuro recesso scavato sotto il pavimento del
tempio. Quando fu giunto all'apertura nascosta dalla groppa
dell'elefante di pietra, spinse fuori prudentemente il capo, guardò
nell'ombra a destra e a sinistra, si accertò che tutto intorno fosse
deserto, e si arrischiò a uscire. Per colmo di precauzione, fece una
ventina di passi per il viale che si svolgeva lungo l'asse del tempio;
poi, non avendo veduto nulla di sospetto, fece un fischio, indicando
al Nana che la via era Ubera.
Alcuni istanti dopo, i due fratelli lasciavano quella vallata
artificiale, lunga mezza lega, che è tutta traforata di gallerie, di volte,
di scavi, che in alcuni punti si sovrappongono fino a grande altezza.
Evitarono di passare accanto a quel mausoleo maomettano che serve
da bungalow ai pellegrini o ai curiosi di tutte le nazionalità, attratti
dalle meraviglie di Ellora; e finalmente, dopo aver fatto il giro del
villaggio di Rauzah, si trovarono sulla strada che congiunge
Adjuntah a Boregami.
La distanza da percorrere, da Ellora a Adjuntah, era di cinquanta
miglia (ottanta chilometri circa); ma il Nana allora non era più il
fuggitivo che scappava a piedi da Aurangabad, senza mezzi di
trasporto. Come aveva detto Balao Rao, tre cavalli lo aspettavano
sulla via, custoditi dall'indù Kâlagani, fedele servitore di DanduPant. I cavalli erano stati nascosti in un bosco folto, a un miglio dal
villaggio. Uno era destinato al Nana, l'altro a Balao Rao, il terzo a
Kâlagani, e poco dopo galoppavano tutti e tre in direzione di
Adjuntah. Nessuno, del resto, si sarebbe stupito di vedere un fachiro
a cavallo. Infatti, parecchi di questi sfrontati mendicanti chiedono
l'elemosina dall'alto della loro cavalcatura.
Per di più, la strada era poco frequentata in quel periodo dell'anno,
meno favorevole ai pellegrinaggi. Il Nana e i suoi due compagni,
perciò, procedevano rapidamente senza temere nulla che potesse dar
loro fastidio o ritardarli. Si concedevano solo il tempo di far respirare
le loro bestie, e, durante quelle brevi soste, attingevano alle provviste
che Kâlagani portava appese all'arcione della propria sella. Evitarono
così le parti più frequentate della provincia, i bungalow e i villaggi,
fra cui la borgata di Roja, triste ammasso di case nere che il tempo ha
affumicato, come le cupe abitazioni della Cornovaglia, e Pulmary,
piccolo borgo sperduto fra le piantagioni di un paese già selvaggio.
Il suolo era unito e piano. In tutte le direzioni si estendevano
campi di erica solcati da boschetti di fitta jungla. Ma la regione si
fece più accidentata a mano a mano che ci si avvicinava a Adjuntah.
Le superbe grotte che portano questo nome, rivali delle
meravigliose grotte di Ellora, e forse più belle nel loro insieme,
occupano la parte inferiore di una piccola valle, a mezzo miglio circa
dalla città.
Nana Sahib poteva dunque evitare di passare da Adjuntah, dove il
manifesto del governatore doveva essere già affisso, Di conseguenza,
nessun timore d'essere riconosciuto.
Così, quindici ore dopo aver lasciato Ellora, i suoi due compagni e
lui si inoltravano in una stretta gola, che conduceva alla celebre valle,
in cui ventisette templi, tagliati alla lettera nella roccia, si ergono su
abissi vertiginosi.
La notte era superba, tutta scintillante di costellazioni, ma senza
luna. Numerosi alberi d'alto fusto, dei baniani, alcuni di quei bar che
stanno fra i giganti della flora indiana, spiccavano neri sul fondo
stellato del cielo. Non un alito di vento attraversava l'atmosfera, non
una foglia si muoveva, non un rumore si faceva udire, tranne il sordo
mormorio di un torrente, che scorreva qualche centinaio di piedi più
sotto, in fondo al burrone. Ma quel mormorio crebbe fino a divenire
un vero muggito, quando i cavalli ebbero raggiunto la cascata del
Satkhund, che precipita da un'altezza di cinquanta tese, rompendosi
sulle creste delle rocce di quarzo e di basalto. Una liquida polvere
turbinava nella gola, e si sarebbe tinta dei sette colori dell'arcobaleno,
se la luna avesse illuminato l'orizzonte in quella bella notte di
primavera.
Il Nana, Balao Rao e Kâlagani erano arrivati. Alla brusca svolta
della gola, che in quel punto fa un gomito, si apriva la vallata,
arricchita dai capolavori dell'architettura buddistica. Là sui muri di
quei templi, ornati a profusione di colonne, di rosoni, di arabeschi, di
verande, popolati di figure colossali di animali dalle forme
fantastiche, pieni di cupe celle, che un tempo erano abitate dai
sacerdoti, custodi di quelle sacre dimore, l'artista può ancora
ammirare alcuni affreschi che si direbbero dipinti ieri, e che
rappresentano cerimonie reali, processioni religiose, battaglie in cui
si vedono tutte le armi del tempo, così come furono in quello
splendido paese dell'India, ai primi tempi dell'era cristiana.
Nana Sahib conosceva tutti i segreti di quei misteriosi ipogei. Più
d'una volta i suoi compagni e lui, stretti troppo da vicino dalle truppe
reali, vi avevano trovato rifugio nei giorni tristi dell'insurrezione. Le
gallerie sotterranee che li univano, i più stretti corridoi praticati nella
roccia quarzosa, i sinuosi condotti scavati sotto tutti gli angoli, le
mille ramificazioni di quel labirinto, tanto intricato da stancare i più
pazienti, tutto ciò gli era familiare. Egli non ci si poteva perdere,
nemmeno quando una torcia non illuminava le loro buie profondità.
Il Nana, in quella notte tenebrosa, da uomo sicuro di ciò che fa,
andò dritto a uno degli scavi meno importanti del complesso.
L'apertura era chiusa da una cortina di fitti arbusti e da un cumulo di
grosse pietre, che un antico terremoto sembrava aver gettato là, tra
gli arbusti del suolo e le piante che crescono sulla roccia.
Bastò che il nababbo grattasse con l'unghia la parete perché la sua
presenza venisse segnalata all'apertura della grotta.
Due o tre teste di indù apparvero subito fra gli interstizi dèi rami,
poi dieci, poi venti altre, e ben presto dei corpi, che, strisciando fra le
pietre come serpi, formarono un drappello di una quarantina d'uomini
ben armati.
— In viaggio! — esclamò Nana Sahib.
E senza domandare spiegazione, senza sapere dove li conducesse,
quei fedeli compagni del nababbo lo seguirono, pronti a farsi
uccidere a un solo suo cenno. Erano a piedi, ma le loro gambe
potevano gareggiare in velocità con quelle di un cavallo.
Il piccolo drappello si inoltrò nella gola che costeggiava l'abisso,
risalendo verso nord, e fece il giro della montagna. Un'ora dopo
aveva raggiunto la strada del Kandeish, che va a perdersi nei passi
dei monti Sautpurra.
La diramazione per Nagpore della ferrovia Bombay-Allahabad, e
lo stesso ramo principale, che si dirige verso nord-est, furono
attraversati all'alba.
In quel momento il treno di Calcutta passava velocissimo,
gettando il suo fumo bianco verso i superbi baniani della via e i suoi
muggiti alle fiere spaventate delle jungle.
Il nababbo aveva fermato il proprio cavallo, e con voce forte e con
la mano tesa verso il treno che fuggiva:
— Va', — esclamò — va' a dire al viceré dell'India che Nana
Sahib è ancora vivo, e che annegherà nel sangue degli invasori
questa ferrovia, opera maledetta delle loro mani.
CAPITOLO V
IL GIGANTE D'ACCIAIO
NON RICORDO stupore maggiore di quello di cui i passanti fermi
sulla grande strada che va da Calcutta a Chandernagor, uomini,
donne, fanciulli, tanto indù quanto inglesi, davano segni
inequivocabili il mattino del 6 maggio. Per la verità, un profondo
senso di meraviglia era naturalissimo.
Infatti, all'alba, da uno degli ultimi sobborghi della capitale
dell'India, fra due dense file di curiosi, usciva un bizzarro
equipaggio, se si può dare questo nome allo stupefacente complesso
che risaliva la sponda dell'Hougly.
In testa e come unico motore del convoglio, un elefante
gigantesco, alto venti piedi, lungo trenta, largo in proporzione,
avanzava tranquillamente e misteriosamente. La sua proboscide era
incurvata, come un'enorme cornucopia, con la punta in aria. Le sue
zanne, tutte dorate, uscivano dalla gigantesca mascella, simili a due
falci minacciose. Sul corpo, di un verde cupo, bizzarramente
chiazzato, era stesa una ricca gualdrappa a colori vivaci, adorna di
filigrane d'argento e d'oro, orlata di una frangia a grosse ghiande
attorte. Il dorso sosteneva una specie di torretta riccamente ornata,
coronata da una cupola arrotondata all'uso indiano, le cui pareti erano
munite di grossi vetri lenticolari simili agli oblò di una cabina di
nave.
Quell'elefante trascinava un treno composto di due enormi carri, o
meglio due vere case, specie di bungalow mobili, montati ognuno su
quattro ruote scolpite ai mozzi, ai raggi e ai cerchi. Quelle ruote,
delle quali si vedeva solo il settore inferiore, si muovevano
all'interno di tamburi che nascondevano a metà il basamento di
quegli enormi apparecchi di locomozione. Una passerella articolata,
che si prestava ai capricci delle curve, congiungeva la prima carrozza
alla seconda.
Come poteva un solo elefante, per quanto forte, trascinare quelle
due massicce costruzioni, senza alcuno sforzo apparente? Eppure
quello stupefacente animale lo faceva! Le sue larghe zampe si
sollevavano e si abbassavano automaticamente con una regolarità
addirittura meccanica, e la bestia passava immediatamente dal passo
al trotto, senza che la voce o la mano di un mahout si facesse sentire
o vedere.
Di questo dovevano sulle prime stupirsi i curiosi finché stavano
un po' lontani. Ma se si avvicinavano al colosso, ecco che cosa
scoprivano e allo stupore seguiva l'ammirazione.
Infatti l'orecchio era colpito, prima di tutto, da una specie di
muggito cadenzato, molto simile a quello tutto particolare di questi
giganti della fauna indiana. Inoltre, a brevi intervalli, dalla
proboscide alzata verso il cielo sfuggiva un turbine di vapore.
Eppure, era proprio un elefante! La sua pelle rugosa, di un verde
nerastro, copriva senza dubbio una di quelle ossature poderose che la
natura ha concesso al re dei pachidermi! I suoi occhi brillavano dello
splendore della vita! Le sue membra erano dotate di movimento!
Sì! Ma se qualche curioso si fosse azzardato a posare una mano
sull'enorme animale, tutto si sarebbe spiegato. Non si trattava che di
una meravigliosa, sorprendente imitazione, la quale aveva tutte le
apparenze della vita, anche da vicino.
Infatti, quell'elefante era di lamiera d'acciaio, e nei suoi fianchi si
nascondeva un'intera locomotiva stradale.
Il treno poi, la «Steam-House», 10 per chiamarlo col suo nome, era
la casa viaggiante promessa dall'ingegnere.
Il primo carro, o piuttosto la prima casa, serviva da abitazione al
colonnello Munro, al capitano Hod, a Banks e a me.
La seconda era destinata ad alloggiare il sergente Mac Neil e
quanti costituivano il personale della spedizione.
Banks aveva mantenuto la sua promessa, il colonnello Munro la
propria, ed ecco perché quella mattina del 6 maggio eravamo partiti
10
Steam-House significa, in inglese, «casa a vapore»: da qui il titolo del romanzo.
(N.d.T.)
con quel convoglio straordinario, per visitare le regioni settentrionali
della penisola indiana.
Ma, a che cosa serviva l'elefante artificiale? Perché quel capriccio,
in disaccordo con lo spirito pratico degli inglesi? Mai fino ad allora
si era immaginato di dare a una locomotiva, destinata a circolare
sull'asfalto delle strade più importanti o sui binari delle ferrovie, la
forma di un quadrupede qualsiasi.
Bisogna confessarlo, la prima volta che fummo ammessi a vedere
quella macchina meravigliosa, fu uno stupore generale. I perché e i
come piovvero fitti sul nostro amico Banks. Era su suo progetto e
sotto la sua direzione che quella locomotiva stradale era stata
costruita. Chi dunque aveva potuto dargli la bizzarra idea di
nasconderla fra le pareti d'acciaio di un elefante meccanico?
— Amici miei — si accontentò di rispondere seriamente Banks —
conoscete il rajah di Buthan?
— Lo conosco — rispose il capitano Hod — o meglio lo
conoscevo, poiché è morto da tre mesi.
— Ebbene, prima di morire — rispose l'ingegnere — il rajah di
Buthan non solo era vivo, ma viveva in modo molto diverso dagli
altri. Egli amava tutti i fasti, di qualsiasi genere. Non si negava mai
nulla, dico nulla di ciò che gli passava per il capo. Il suo cervello si
logorava a immaginare l'impossibile, e se non fosse stata
inesauribile, la sua borsa si sarebbe vuotata nel tradurre in realtà tutto
ciò che egli immaginava. Era ricco come i nababbi di un tempo. I
lakhs di rupie abbondavano nelle sue casse. Se aveva qualche
preoccupazione, era solo quella di spendere il suo denaro in un modo
un po' meno banale dei suoi confratelli milionari. Ora, un giorno, gli
venne un'idea, che presto lo ossessionò al punto di non lasciarlo più
dormire, un'idea di cui Salomone sarebbe andato orgoglioso e che
avrebbe certamente realizzato se avesse conosciuto il vapore: era di
viaggiare in un modo assolutamente nuovo, e di avere un equipaggio
come nessuno avrebbe mai potuto sognare. Mi conosceva, mi chiamò
alla sua corte e mi disegnò egli stesso il piano del suo apparecchio di
locomozione. Ah! se credete, amici miei, che scoppiassi a ridere alla
proposta del rajah, vi sbagliate! Capii benissimo che quell'idea
grandiosa aveva dovuto nascere naturalmente nel cervello d'un
sovrano indiano, e non ebbi più che un desiderio: attuarla al più
presto in condizioni che potessero soddisfare il mio poetico cliente e
me stesso. Un ingegnere serio non ha tutti i giorni l'occasione di
trattare il fantastico, e di aggiungere un animale di propria fattura alla
fauna dell'Apocalisse o alle creazioni delle Mille e una notte.
Insomma, il capriccio del rajah era realizzabile. Voi sapete bene tutto
quello che si fa, tutto quello che si può fare, tutto quello che si farà
con la meccanica. Mi misi dunque al lavoro, ed in questo guscio di
lamiera d'acciaio che rappresenta un elefante, riuscii a chiudere la
caldaia, la meccanica e il tender di una locomotiva stradale con tutti i
suoi accessori. La proboscide articolata, che, in caso di necessità, può
alzarsi e abbassarsi, mi servì da ciminiera; un eccentrico mi permise
di collegare le gambe del mio animale alle ruote della macchina;
disposi i suoi occhi come le lenti di un faro, in modo da proiettare
due fasci di luce elettrica, e l'elefante artificiale fu fatto. Ma la
creazione non era stata di getto. Avevo dovuto vincere svariate
difficoltà, che sulle prime non ero riuscito a superare. Questo motore
- gigantesco giocattolo se volete - mi costò non poche veglie, tanto
che il mio rajah, che non stava in sé per l'impazienza e che passava la
maggior parte del suo tempo nelle mie officine, morì prima che
l'ultima martellata del montatore permettesse al suo elefante di
iniziare la corsa per il mondo. Il poveretto non aveva avuto tempo di
provare la sua casa mobile! Ma i suoi eredi, meno fantasiosi di lui,
esaminarono questa macchina con terrore e superstizione, come
opera di un pazzo. Si affrettarono quindi a sbarazzarsene anche per
una miseria e, parola mia, io ricomprai il tutto per conto del
colonnello. Eccovi, amici miei, come e perché noi soli al mondo, ci
scommetto, abbiamo a nostra disposizione un elefante a vapore della
forza di ottanta elefanti, di trecento chilogrammetri!
— Bravo! Bravo Banks! — esclamò il capitano Hod. — Un
ingegnere che sia per di più un artista e faccia della poesia col ferro e
con l'acciaio, è una vera perla rara.
— Morto il rajah, — rispose Banks, — e comprato il suo
equipaggio, non mi sono sentito di distruggere il mio elefante e di
rendere alla locomotiva la sua forma consueta!
— E avete fatto mille volte bene! — replicò il capitano. — È
superbo, il nostro elefante, superbo! E che effetto faremo con questo
gigantesco animale, quando ci condurrà per le pianure e attraverso le
jungle dell'Indostan! È un'idea da rajah! Ebbene, approfitteremo di
quest'idea, non è vero colonnello?
Il colonnello Munro aveva quasi sorriso. Era l'equivalente di
un'approvazione totale data da lui alle parole del capitano. Il viaggio
fu dunque deciso, ed ecco come un elefante d'acciaio, un animale
unico nel suo genere, un Leviathan artificiale, fu ridotto a trascinare
la casa mobile di quattro inglesi, invece di condurre a passeggio in
tutta la sua pompa uno dei più opulenti rajah della penisola indiana.
Come è fatta questa locomotiva stradale, nella quale Banks ha
ingegnosamente introdotto tutti i perfezionamenti della scienza
moderna? Così:
Tra le quattro ruote è disposto il complesso del meccanismo,
cilindri, bielle, cassetti di distribuzione, pompe di alimentazione,
eccentrici, coperto dal corpo della caldaia. Questa caldaia tubolare,
senza ritorni di fiamma, presenta sessanta metri quadrati di superficie
di riscaldamento. È contenuta interamente nella parte anteriore del
corpo dell'elefante di lamiera, mentre la parte posteriore racchiude il
tender destinato a trasportare l'acqua e il combustibile. La caldaia e il
tender, montati entrambi sul medesimo truck 11 sono separati da un
intervallo, lasciato libero per il servizio del fuochista.
Il macchinista, invece, sta nella torretta, costruita a prova di
pallottola, disposta sul dorso dell'animale, e nella quale, in caso di un
attacco serio, tutti potremo trovare rifugio. Sotto gli occhi del
macchinista si trovano le valvole di sicurezza e il manometro che
indica la pressione del vapore; a portata della mano l'acceleratore e la
leva che gli servono, l'uno a regolare l'immissione di vapore, l'altra
ad azionare i cassetti di distribuzione e di conseguenza a produrre il
movimento avanti o indietro della macchina. Da questa torretta,
attraverso spessi vetri lenticolari, sistemati ad hoc entro strette
strombature, egli può tener d'occhio la strada che gli si svolge
davanti, mentre un pedale, modificando l'angolazione delle ruote
anteriori, gli permette di seguirne le curve, qualunque esse siano.
11
Carrello ferroviario. (N.d.T.)
Molle, del miglior acciaio, fissate agli assali, sostengono la
caldaia e il tender, in modo da ammortizzare le scosse prodotte dalle
disuguaglianze del terreno. Quanto alle ruote, di solidità a tutta
prova, hanno i cerchioni rigati, per poter mordere il fondo stradale, il
che impedisce loro di «slittare».
Come ci ha detto Banks, la forza nominale della macchina è di
ottanta cavalli, ma se ne possono ottenere centocinquanta effettivi,
senza timore di provocare alcuno scoppio. Questa macchina,
costruita in base al «sistema Field», è a due cilindri, a espansione
variabile. Un involucro a chiusura ermetica avvolge tutto il
meccanismo, in modo da sottrarlo alla polvere delle strade, che ne
rovinerebbe rapidamente gli organi. Il suo massimo perfezionamento
consiste soprattutto in questo: che consuma poco e produce molto.
Infatti, il consumo medio, rispetto al risultato utilizzato, non è mai
stato tanto ben regolato, sia che essa funzioni a carbone sia a legna,
poiché le griglie del forno possono bruciare qualsiasi tipo di
combustibile. Quanto alla velocità normale di questa locomotiva
stradale, l'ingegnere la valuta a venticinque chilometri all'ora, ma, su
un fondo favorevole, potrà toccare i quaranta. Le ruote, come ho
detto, non sono esposte a slittare, non solo per il fatto che i loro
cerchioni mordono il terreno, ma anche perché la sospensione
dell'intero congegno su molle di prima qualità è perfettamente
stabilita e distribuisce egualmente il peso che i sobbalzi tendono a
rendere disuguale. Inoltre le ruote si possono facilmente regolare con
dei freni atmosferici, che producono o un rallentamento progressivo
o un blocco istantaneo che le fa arrestare quasi di colpo.
Notevole poi è la facilità che ha questa macchina di superare le
pendenze. Banks, infatti, ha ottenuto i migliori risultati, tenendo
conto del peso e della potenza propulsiva esercitata su ognuno dei
pistoni della sua locomotiva. Perciò essa può superare facilmente
pendenze di dieci-dodici centimetri per metro, il che è eccezionale.
Del resto, le strade che gli inglesi hanno aperto in India, e la cui
rete ha uno sviluppo di molte migliaia di miglia, sono magnifiche.
Devono prestarsi benissimo a questo tipo di locomozione. Per parlare
solo del Great Trunk Road, che attraversa la penisola, esso si stende
su uno spazio ininterrotto di milleduecento miglia, ossia di circa
duemila chilometri.
Ed ora, parliamo di quella Steam-House che l'elefante artificiale si
trascinava dietro.
Banks non aveva comprato dagli eredi del nababbo, per conto del
colonnello Munro, soltanto la locomotiva stradale, ma anche il treno
che essa trascinava. Nessuno si meraviglierà che il rajah di Buthan
l'avesse fatto costruire secondo il proprio gusto e secondo la moda
indiana. L'ho già chiamato bungalow a ruote; merita davvero questo
nome, e i due vagoni che lo compongono sono semplicemente un
capolavoro dell'architettura del paese.
Immaginiamoci due specie di pagode senza minareti, con i tetti a
doppio spiovente, arrotondati in cupole panciute, con l'aggetto delle
finestre sorretto da pilastri scolpiti, decorate a trafori multicolori in
legni pregiati, e i cui contorni tracciano piacevolmente delle curve
eleganti, con le verande riccamente rifinite che le terminano sul
davanti e sul dietro. Sì! due pagode che si direbbero staccate dalla
collina santa di Sonnaghur, e che, collegate l'una all'altra, a rimorchio
di questo elefante d'acciaio, dovevano percorrere le strade principali
del paese.
E bisogna aggiungere, poiché questo completa il prodigioso
apparecchio di locomozione, che esso può galleggiare.
Infatti, la parte inferiore del corpo dell'elefante, che contiene
caldaia e macchina, costituisce un'imbarcazione in lamiera leggera, a
cui alcune casse d'aria abilmente disposte garantiscono la possibilità
di galleggiare. Se si presenta un corso d'acqua, l'elefante vi si slancia,
il treno lo segue, e le zampe dell'animale, mosse dalle bielle,
trascinano tutta la Steam-House. Vantaggio senza pari in quell'ampia
regione dell'India, dove abbondano i fiumi senza ponti.
Ecco dunque come era quel treno, unico nel suo genere, così come
lo aveva voluto il capriccioso rajah di Buthan. Ma se Banks aveva
rispettato quel capriccio che dava al motore la forma di un elefante e
ai vagoni l'aspetto di pagode, aveva però creduto di dover sistemare
l'interno secondo il gusto inglese, adattandolo a un viaggio di lunga
durata. Il risultato era ottimo.
La Steam-House, come ho detto, si componeva di due vagoni,
che, internamente, non misuravano meno di sei metri di larghezza.
Superavano perciò gli assali delle ruote, che erano lunghi solo
cinque. Sospesi sopra molle lunghissime e molto flessibili, erano
pochissimo sensibili ai sobbalzi come avrebbero potuto esserlo alle
più lievi scosse su un binario ferroviario ben sistemato.
Il primo vagone era lungo quindici metri. Sul davanti, l'elegante
veranda, sorretta da leggeri pilastri, riparava un ampio balcone, sul
quale potevano stare comodamente dieci persone. Due finestre e una
porta si aprivano sul salotto, illuminato anche da due finestre laterali.
Questo salotto arredato con un tavolo e una libreria, fornito di
morbidi divani in tutta la sua larghezza, era artisticamente decorato e
tappezzato con ricche stoffe. Un bel tappeto di Smirne ne nascondeva
il pavimento. Dei tattis, specie di schermi di vetiveria,12 sistemati
davanti alle finestre, e innaffiati continuamente con acqua profumata,
mantenevano una gradevole frescura tanto nel salotto quanto nelle
cabine che servivano da camere. Dal soffitto pendeva una punka, che
una cinghia di trasmissione agitava automaticamente quando il treno
si muoveva, o che il braccio di un servitore metteva in moto durante
le fermate. Non bisognava forse premunirsi con ogni mezzo possibile
contro gli eccessi di una temperatura che, in certi mesi dell'anno,
supera all'ombra i quarantacinque gradi centigradi?
In fondo al salotto, una seconda porta, di legno pregiato, posta
dirimpetto alla porta della veranda, dava sulla sala da pranzo,
illuminata oltre che dalle finestre laterali, anche da un soffitto di
vetro smerigliato. Intorno alla tavola che ne occupava il centro,
potevano sedersi otto commensali. Noi eravamo solo quattro: ci
saremmo quindi stati comodamente. Armadi e credenze, carichi di
tutto quel lusso di argenteria, di cristallerie e di porcellane che esige
il comfort inglese, arredavano quella sala da pranzo. Ovviamente
tutti gli oggetti fragili, affondati a metà in incavi speciali, come si usa
a bordo delle navi, erano al riparo dagli urti, anche sulle strade
peggiori, se mai il nostro treno fosse stato costretto a percorrerle.
12
Pianta erbacea della famiglia delle Graminacee, le cui radici aromatiche vengono
utilizzate per la preparazione di profumi. (N.d.T.)
La porta, in fondo alla sala da pranzo, metteva in un corridoio che
portava a un balcone posteriore, protetto anch'esso da una seconda
veranda. Lungo quel corridoio erano disposte quattro camere,
illuminate lateralmente, ognuna delle quali conteneva un letto, una
toilette, un armadio, un divano, ed era sistemata come le cabine dei
più lussuosi transatlantici. La prima di quelle camere, a sinistra, era
occupata dal colonnello Munro; la seconda, a destra, dall'ingegner
Banks. La camera del capitano Hod seguiva, a destra, quella
dell'ingegnere; la mia, a sinistra, quella del colonnello Munro.
Il secondo vagone, lungo dodici metri, aveva, come il primo, un
balcone con veranda, che si apriva su un'ampia cucina, fiancheggiata
lateralmente da due dispense, e fornita di tutti i suoi accessori.
Questa cucina comunicava con un corridoio che si allargava in
quadrilatero nella sua parte centrale e formava una seconda sala da
pranzo, illuminata da un'apertura del soffitto, per il personale della
spedizione. Ai quattro angoli si aprivano quattro cabine occupate dal
sergente Mac Neil, dal fuochista, dal macchinista e dall'ordinanza del
colonnello Munro; poi, sul retro, c'erano due altre cabine, una
destinata al cuoco, l'altra all'attendente del capitano Hod; poi, altri
locali, che servivano da armeria, da ghiacciaia, da magazzino dei
bagagli, ecc., e che si aprivano sul balcone posteriore.
Come si vede, Banks aveva sistemato intelligentemente e
comodamente le due case ambulanti della Steam-House. Esse
potevano essere riscaldate, durante l'inverno, mediante un congegno
che faceva circolare l'aria calda, fornita dalla macchina, attraverso i
locali, senza contare due caminetti, posti nel salotto e nella sala da
pranzo. Potevamo dunque sfidare i rigori della stagione fredda, anche
sulle prime falde dei monti del Tibet.
L'importante problema delle provviste non era stato trascurato, lo
si può credere, e portavamo con noi, in conserve scelte, di che nutrire
per un anno tutto il personale della spedizione. Quello che avevamo
in maggior abbondanza, erano delle scatole di carne conservata delle
migliori fabbriche, principalmente di carne lessata, di stufato, e dei
pasticci di quei murghis, o polli che vengono consumati in così
grandi quantità in tutta la penisola indiana.
Non ci sarebbe mancato nemmeno il latte per la colazione del
mattino, che precede la colazione vera, né il brodo per il tiffin, che
precede il pranzo della sera, grazie ai nuovi preparati che permettono
di trasportarli allo stato concentrato.
Dopo essere stato sottoposto a evaporazione, in modo da prendere
consistenza pastosa, il latte viene chiuso in scatole saldate
ermeticamente che contengono quattrocentocinquanta grammi, i
quali, con l'aggiunta di un quintuplo del loro peso in acqua, possono
fornire tre litri di liquido. Così trattato è di composizione identica a
quella del latte normale e di buona qualità. Si ha lo stesso risultato
per il brodo, che, conservato con mezzi analoghi e ridotto in
tavolette, fatto sciogliere, fornisce delle minestre eccellenti.
Quanto al ghiaccio, così utile sotto quelle calde latitudini, ci era
facile ottenerlo in pochi istanti, grazie agli apparecchi Carré, che
producono l'abbassamento della temperatura con l'evaporazione
dell'ammoniaca liquida. Uno degli scompartimenti posteriori era anzi
sistemato a ghiacciaia, e sia per evaporazione dell'ammoniaca sia per
volatilizzazione dell'etere metilico, il frutto delle nostre cacce poteva
venir conservato indefinitamente, grazie all'applicazione dei metodi
di un francese, del mio compatriota 13 Charles Tellier. Si trattava,
bisogna convenirne, di un prezioso ritrovato, che doveva mettere a
nostra disposizione, in qualsiasi evenienza, cibi della migliore
qualità.
Per quanto riguarda le bevande, la cantina ne era ben fornita. Vini
francesi, birre diverse, acquavite, arak, occupavano scompartimenti
speciali in quantità sufficiente per le prime necessità.
Tuttavia va fatto notare che il nostro itinerario non doveva
allontanarci molto dalle province abitate della penisola. L'India non è
un deserto, tutt'altro. Pur di non risparmiare le rupie, è facile
procurarvisi non solo il necessario, ma anche il superfluo. Forse,
quando avessimo svernato nelle regioni settentrionali, ai piedi
dell'Himalaya, avremmo dovuto accontentarci delle nostre sole
provviste. Anche in questo caso, ci sarebbe stato facile far fronte a
tutte le esigenze di un'esistenza comoda. Lo spirito pratico del nostro
13
Il signor Maucler, che racconta la maggior parte del romanzo, è, come si
ricorderà, parigino. (N.d.T.)
amico Banks aveva previsto ogni cosa, e si poteva fare affidamento
su di lui anche nella necessità di approvvigionarci in viaggio.
E per finire, ecco l'itinerario del viaggio, itinerario che venne
tracciato in linea di massima, salvo le eventuali modifiche che
avrebbero potuto esservi apportate per circostanze impreviste:
Partire da Calcutta seguendo la valle del Gange fino ad Allahabad,
attraversare il regno di Oudh in modo da giungere ai primi pendii del
Tibet, accamparsi per qualche mese, ora in un luogo ora in un altro,
dando al capitano Hod ogni facilitazione per andare a caccia, poi
ridiscendere fino a Bombay.
Erano circa novecento leghe da percorrere. Ma la nostra casa e
tutto il suo personale viaggiavano con noi. In condizioni simili, chi si
rifiuterebbe di fare anche molte volte il giro del mondo?
CAPITOLO VI
PRIME TAPPE
IL 6 MAGGIO, all'alba, avevo lasciato l'hotel Spencer, uno dei
migliori di Calcutta, dove abitavo fin dal mio arrivo nella capitale
dell'India. Questa gran città ora non aveva più segreti per me.
Passeggiate mattutine a piedi, durante le prime ore del giorno;
passeggiate serali, in carrozza, nello Strand, fino alla spianata del
forte William, fra gli splendidi equipaggi degli europei che
s'incrociano abbastanza sdegnosamente con le non meno splendide
carrozze dei grossi e grassi babu indigeni; escursioni per quelle
curiose strade commerciali, che portano giustamente il nome di
bazar; visite ai campi di incinerazione dei morti, sulle rive del Gange,
all'orto botanico del naturalista; Hooker, alla «signora Kâli»,
l'orribile donna dalle quattro braccia, truce dea della morte, che si
nasconde in un tempietto di uno di quei sobborghi nei quali
camminano di pari passo la civiltà moderna e la barbarie nativa:
avevo fatto di tutto. Contemplare il palazzo del viceré, che sorge
proprio dirimpetto all'hotel Spencer, ammirare il curioso palazzo di
Chowringhi Road e il.
Town-Hall, consacrato alla memoria dei grandi uomini del nostro
tempo; studiare minutamente l'interessante moschea di Hougly;
percorrere il porto ingombro delle più belle navi mercantili della
marina inglese; dire infine addio agli arghilas, marescialli o filosofi questi uccelli hanno tanti nomi! -che sono incaricati di pulire le vie e
di mantenere la città in un perfetto stato di salubrità: anche questo
avevo fatto, e non mi rimaneva più che partire.
Dunque, quel mattino, un palkighari, specie di cattiva carrozza a
due cavalli e a quattro ruote - indegna di figurare fra i comodi
prodotti della carrozzeria inglese - venne a prendermi sulla piazza del
Governo e mi depose poco dopo alla porta del bungalow del
colonnello Munro.
Cento passi fuori del quartiere, il nostro treno ci aspettava. Non
c'era altro da fare che installarsi.
Ovviamente i nostri bagagli erano già stati sistemati nel loro
scompartimento speciale. Portavamo con noi, del resto, solo il
necessario. Soltanto, in fatto di armi, il capitano Hod aveva creduto
che il necessario dovesse comprendere non meno di quattro carabine
Enfield a proiettili esplosivi, quattro fucili da caccia, due spingarde,
senza contare un certo numero di fucili e di rivoltelle, - di che
armarci tutti quanti. Tutta quell'armeria minacciava più le fiere che
non la semplice selvaggina commestibile, ma sarebbe stato
impossibile far sentir ragione su questo argomento al Nemrod della
spedizione.
Il capitano Hod era proprio entusiasta! Il piacere di strappare il
colonnello alla solitudine del suo ritiro, la gioia di partire per le
province settentrionali dell'India con un equipaggio che non aveva
l'uguale, la prospettiva di esercizi ultra-cinegetici e di escursioni
nelle regioni himalayane, tutto ciò lo animava, lo eccitava, lo faceva
prorompere in interiezioni interminabili e in strette di mano da
stritolarvi le ossa.
L'ora della partenza era suonata. La caldaia era sotto pressione, la
macchina pronta ad avviarsi. Il macchinista era al suo posto, con la
mano sull'acceleratore. Venne lanciato il fischio regolamentare.
— In viaggio! — esclamò il capitano Hod agitando il proprio
cappello. — Gigante d'Acciaio, in viaggio!
Gigante d'Acciaio, questo nome che il nostro amico entusiasta
aveva dato al meraviglioso motore del nostro treno, esso lo meritava
davvero, e gli rimase.
Una parola sul personale della spedizione, che occupava la
seconda casa ambulante.
Il macchinista Storr, inglese, apparteneva alla Compagnia del
Great Southern of India, che aveva lasciato solo da pochi mesi.
Banks, che lo conosceva e lo sapeva molto competente, lo aveva
fatto entrare al servizio del colonnello Munro. Era un uomo di
quarant'anni, operaio abile, assai esperto nelle cose del suo mestiere,
e che doveva renderci dei grandi servigi.
Il fuochista si chiamava Kâlouth. Apparteneva a quella classe di
indù, così ricercati dalle compagnie ferroviarie, che possono
sopportare impunemente il calore tropicale delle Indie, raddoppiato
dal calore della caldaia. Avviene lo stesso degli arabi ai quali le
compagnie di trasporti marittimi affidano il servizio di alimentazione
dei forni durante le traversate del Mar Rosso. Quella brava gente si
limita tutt'al più a bollire, là dove degli europei arrostirebbero in
pochi istanti. Buona scelta anche questa.
L'ordinanza del colonnello Munro era un indù di trentacinque
anni, di razza Gurgkha, che si chiamava Goûmi. Apparteneva a quel
reggimento che, per far atto di buona disciplina, accettò di usare le
nuove munizioni, uso che fu l'occasione prima o almeno il pretesto
della rivolta dei Cipay. Piccolo, svelto, ben fatto, di una devozione a
tutta prova, egli portava ancora l'uniforme nera della brigata dei
rifles, alla quale teneva quanto alla propria pelle.
Il sergente Mac Neil e Goûmi erano, anima e corpo, i due fedeli
del colonnello Munro.
Dopo essersi battuti al suo fianco in tutte le guerre dell'India, dopo
averlo aiutato nei suoi tentativi infruttuosi per ritrovare Nana Sahib,
essi lo avevano seguito quando aveva abbandonato il servizio attivo e
non dovevano mai lasciarlo.
Se Goûmi era l'ordinanza del colonnello, Fox, un inglese puro
sangue, allegrissimo, comunicativo, era l'attendente del capitano
Hod, e cacciatore non meno arrabbiato di lui. Questo bravo ragazzo
non avrebbe cambiato la propria condizione sociale con qualsiasi
altra. La sua astuzia lo rendeva degno del nome che portava: Fox!
Volpe! ma una volpe che era alla sua trentasettesima tigre, tre meno
del suo capitano. Del resto, egli contava di non fermarsi lì.
Bisogna citare ancora, per completare il personale della
spedizione, il nostro cuoco negro, che regnava nella parte anteriore
della seconda casa fra le due dispense. Francese d'origine, che aveva
già fatto arrosti e fricassee sotto tutte le latitudini, il «signor
Parazard» (si chiamava così)1 era convinto di svolgere non un
mestiere volgare, ma una funzione d'alta importanza. Egli
pontificava, nel vero senso della parola, quando la sua mano passava
da un fornello all'altro distribuendo con la precisione di un chimico il
pepe, il sale e altri condimenti che davano maggior gusto alle sue
sapienti preparazioni. Insomma poi, siccome il signor Parazard era
abile e pulito, gli si perdonava volentieri quella vanità culinaria.
Dunque, sir Edward Munro, Banks, il capitano Hod e io da una
parte, Mac Neil, Storr, Kâlouth, Goûmi, Fox e il signor Parazard
dall'altra - dieci persone in tutto — ecco la spedizione che il Gigante
d'Acciaio portava verso il nord della penisola con il suo treno di due
case ambulanti. Non dimentichiamo i due cani Phann e Black, dei
quali il capitano aveva già potuto apprezzare le qualità nelle sue
cacce alla selvaggina da pelo e da penna.
Il Bengala è forse, se non la più curiosa, almeno la più ricca delle
presidenze dell'Indostan. Non è evidentemente il paese propriamente
detto dei rajah, che comprende più particolarmente il centro di quel
vasto regno; ma questa provincia si estende su un territorio assai
popoloso, che può essere considerato come il vero paese degli indù.
Essa giunge, a nord, fino alle insuperabili frontiere dell'Himalaya, e
il nostro itinerario doveva farcela tagliare obliquamente.
Dopo una discussione sulle prime tappe, ci eravamo tutti accordati
su questo progetto: risalire per alcune leghe l'Hougly, che è il braccio
del Gange che bagna Calcutta, lasciare sulla destra la città francese di
Chandernagor, di là seguire la linea ferroviaria fino a Burdwan, poi
attraversare di sbieco il Béhar, in modo da ritrovare il Gange a
Bénares.
— Amici miei, — aveva detto il colonnello Munro, — lascio
assolutamente a voi la direzione del viaggio... Decidete senza di me.
Tutto quello che farete sarà ben fatto.
— Mio caro Munro, — rispose Banks, — però bisogna che tu dia
il tuo parere...
— No, Banks, — riprese il colonnello, — mi rimetto a te, e non
ho davvero delle preferenze per visitare una provincia piuttosto che
un'altra. Mi limito a fare una sola domanda: quando avrete raggiunto
Bénares, che direzione contate di prendere?
— La direzione del nord! — esclamò impetuosamente il capitano
Hod — la strada che risale direttamente fino alle prime falde
dell'Himalaya, attraverso il regno d'Oudh!
— Ebbene, amici miei, allora... — rispose il colonnello Munro, —
forse vi domanderò di... Ma ne parleremo a suo tempo. Fino a quel
momento, andate come preferite!
Questa risposta di sir Edward Munro non mancò di stupirmi un
poco. Qual era dunque il suo pensiero? Aveva forse acconsentito a
intraprendere quel viaggio con l'idea che il caso avrebbe potuto
servirlo meglio di quanto aveva potuto fare la sua volontà? Pensava
che, se Nana Sahib non era morto, sarebbe forse riuscito a ritrovarlo
nel nord dell'India? Infine, aveva conservato qualche speranza di
potersi vendicare ancora? Quanto a me, avevo come un
presentimento che qualche pensiero nascosto guidasse il colonnello
Munro, e mi sembrò che il sergente Mac Neil dovesse conoscere il
segreto del suo padrone.
Durante le prime ore di quel mattino, ci eravamo sistemati nel
salotto della Steam-House. La porta e le due finestre della veranda
erano aperte, e la punka, agitando l'aria, rendeva la temperatura più
sopportabile.
Il Gigante d'Acciaio era mantenuto al passo dall'acceleratore di
Storr. Una lega all'ora era tutto quello che gli domandavano, per il
momento, i viaggiatori desiderosi di vedere il paese che
attraversavano.
All'uscita dai sobborghi di Calcutta, eravamo stati seguiti da un
certo numero di europei, meravigliati dal nostro equipaggio, e da una
folla di indù che stavano a guardarlo con una specie d'ammirazione
mista a timore. Quella folla si era a poco a poco diradata, ma non
sfuggivamo allo stupore dei passanti, che prodigavano i loro «wahs!
wahs!» di ammirazione. Naturalmente tutte quelle interiezioni non
erano tanto per i due superbi vagoni quanto per il gigantesco elefante
che li trascinava emettendo turbini di vapore.
Alle dieci, venne apparecchiata la tavola nella sala da pranzo, e
certamente con minori scosse della colazione del signor Parazard.
La strada che il nostro treno seguiva costeggiava allora la riva
sinistra dell’Hougly, il più occidentale dei numerosi bracci del
Gange, l'insieme dei quali costituisce l'inestricabile rete del delta
delle Sunderbunds. Tutta questa parte di territorio è di formazione
alluvionale.
— Quello che vedete laggiù, caro Maucler — mi disse Banks, —
è una conquista del fiume sacro sul golfo non meno sacro del
Bengala. Questione di tempo. Non c'è forse una particella di questa
terra che non sia venuta dalle frontiere dell'Himalaya, trasportata
dalla corrente del Gange. Il fiume, a poco a poco, ha smangiato la
montagna per formare il suolo di questa provincia, in cui si è aperto
un letto...
— Che abbandona spesso per un altro! — aggiunse il capitano
Hod.
— Ah! è capriccioso, bizzarro, lunatico, questo Gange! Si
costruisce una città sulle sue rive, e, alcuni secoli più tardi, la città è
in mezzo a una pianura, i suoi lungofiume sono a secco, il fiume ha
cambiato direzione e foce! Così è per Rajmahal, così per Gaur,
entrambe un tempo bagnate dall'infedele corso d'acqua, e che ora
muoiono di sete in mezzo alle risaie disseccate della pianura!
— Eh! — feci io, — non si può temere che una sorte simile sia
riservata a Calcutta?
— Chi lo sa?
— Beh! non ci siamo ancora! — ribatté Banks. — È solo
questione di dighe! Se è necessario, gli ingegneri sapranno bene
trattenere gli straripamenti del Gange! Gli si metterà la camicia di
forza!
— Fortunatamente per voi, caro Banks, — risposi, — gli indù non
vi sentono parlare così del loro fiume sacro! Non ve lo
perdonerebbero!
— Infatti, — rispose Banks, — il Gange è un figlio di Dio, se
pure non è Dio stesso, e nulla di quello che egli fa è mal fatto, ai loro
occhi!
— Nemmeno le febbri, il colera, la peste che mantiene allo stato
endemico! — esclamò il capitano Hod. — È vero che le tigri e i
coccodrilli che formicolano nelle Sunderbunds non ne soffrono.
Anzi! Si direbbe, in verità, che l'aria pestifera si addica a quegli
animali come l'aria pura di un sanitarium agli anglo-indiani durante
la stagione calda. Oh! questi carnivori! Fox? — disse Hod voltandosi
verso il suo attendente, che sparecchiava la tavola.
— Capitano? — rispose Fox.
— Non è là che hai ucciso la tua trentasettesima?
— Sì, capitano, a due miglia da Port-Canning, — rispose Fox. —
Era una sera...
— Basta, Fox! — riprese il capitano vuotando un gran bicchiere
di grog, — conosco la storia della trentasettesima. Quella della
trentottesima m'interesserebbe di più!
— La trentottesima non è ancora ammazzata, capitano!
— L'ammazzerai, Fox, come io ammazzerò la mia
quarantunesima!
Nelle conversazioni del capitano Hod e del suo attendente, la
parola «tigre», come si vede, non veniva mai pronunciata. Era
inutile. I due cacciatori si intendevano.
Frattanto, a mano a mano che procedevamo, l'Hougly, largo circa
un chilometro davanti a Calcutta, restringeva a poco a poco il suo
letto. A monte della città, le rive che ne contengono il corso sono
abbastanza basse. Là troppo spesso si formano violentissimi cicloni
che estendono i loro disastri su tutta la provincia. Quartieri
interamente distrutti, centinaia di case schiacciate le une contro le
altre, immense piantagioni devastate, migliaia di cadaveri sparsi per
la città e per la campagna, ecco le rovine che quegli irresistibili
fenomeni atmosferici si lasciano dietro e dei quali il ciclone del 1864
fu uno dei più terribili esempi.
È noto che il clima dell'India comprende tre stagioni: la stagione
delle piogge, la stagione fredda, la stagione calda. Quest'ultima è la
più corta, ma è anche la più dura da affrontare. Marzo, aprile e
maggio sono tre mesi particolarmente temibili. Fra tutti, maggio è il
più caldo. In questo mese, affrontare il sole a certe ore del giorno è
rischiare la vita, almeno per gli europei. Non è raro, infatti, che,
anche all'ombra, il. termometro salga fino a 106 gradi Fahrenheit
(circa 41 centigradi).
«Gli uomini», dice il signor di Valbezen, «ansimano allora come
cavalli bolsi, e, durante la guerra di repressione, ufficiali e soldati
erano costretti a ricorrere alle docce sulla testa per prevenire le
congestioni».
Tuttavia, grazie al movimento della Steam-House, all'agitazione
dell'aria prodotta dai battiti della punka, all'atmosfera umida che
circolava attraverso gli schermi di vetiveria bagnati frequentemente,
non soffrivamo troppo il caldo.
Del resto, la stagione delle piogge, che dura dal mese di giugno al
mese di ottobre, non era lontana, e si doveva temere che fosse più
sgradevole della stagione calda. In fin dei conti, nelle condizioni in
cui avveniva il nostro viaggio, non avevamo nulla di grave da
temere.
Verso l'una del pomeriggio, dopo una deliziosa passeggiata al
passo, fatta senza uscire da casa nostra, eravamo giunti a
Chandernagor.
Avevo già visitato questa parte di territorio, la sola che rimanga
alla Francia in tutta la presidenza del Bengala. Questa città, su cui
sventola la bandiera tricolore e che non ha diritto di tenere più di
quindici soldati di guardia, questa antica rivale di Calcutta durante le
lotte del secolo XVIII, è oggi molto decaduta, senza industrie, senza
commercio, i suoi bazar sono abbandonati, il suo forte è vuoto. Forse
Chandernagor avrebbe ripreso un po' di vitalità se la ferrovia di
Allahabad avesse attraversato o almeno costeggiato le sue mura; ma,
davanti alle esigenze del governo francese, la compagnia inglese ha
preferito far procedere obliquamente la linea ferroviaria in modo da
aggirare il nostro territorio, e così Chandernagor ha perduto l'unica
occasione per riacquistare un po' di importanza commerciale.
Il nostro treno non entrò dunque nella città. Si fermò a tre miglia,
sulla strada, all'ingresso d'un bosco di latanie. Quando venne posto il
campo, si sarebbe detto che in quel luogo stesse per sorgere un nuovo
villaggio. Ma il villaggio era mobile, e, il giorno seguente, 7 maggio,
riprendeva il suo cammino interrotto, dopo una notte calma, passata
nelle nostre comode cabine.
Durante quella sosta, Banks aveva fatto rinnovare il combustibile.
Benché la macchina avesse consumato poco, egli voleva che il tender
portasse sempre il suo carico intero, ossia acqua, legna e carbone
necessari per una autonomia di sessanta ore.
Il capitano Hod e il suo fedele Fox non mancavano di applicare
questa regola a loro stessi, e il loro forno interno (voglio dire il loro
stomaco, che offriva una grande superficie di riscaldamento) era
sempre munito di quel combustibile azotato, che è indispensabile per
far procedere bene e a lungo la macchina umana.
Questa volta, la tappa doveva essere più lunga. Dovevamo
viaggiare per due giorni, riposare due notti, in modo da giungere a
Burdwan e visitare questa città durante la giornata del 9.
Alle sei del mattino, Storr faceva dare un fischio acuto, spurgava i
cilindri, e il Gigante d'Acciaio prendeva un'andatura un po' più rapida
di quella del giorno precedente.
Per alcune ore avevamo costeggiato la ferrovia che da Burdwan
va a raggiungere a Rajmahal la valle del Gange, lungo la quale
prosegue poi fino al di là di Bénares. Il treno di Calcutta passò a
grande velocità. Sembrava sfidarci con le esclamazioni ammirative
dei viaggiatori. Non rispondemmo alla loro sfida. Potevano correre
più rapidamente di noi, ma più comodamente, no!
Il paese che attraversammo in quei due giorni era invariabilmente
piatto e, per ciò stesso, abbastanza monotono. Qua e là ondeggiava
qualche flessibile palma da cocco, i cui ultimi esemplari stavano per
rimanere indietro, al di là di Burdwan. Questi alberi, che
appartengono alla grande famiglia delle palme, prediligono le coste e
amano trovare delle molecole d'aria marina nell'atmosfera che
respirano. Perciò, all'infuori che in una zona abbastanza stretta che
confina con il litorale, non si incontrano più, ed è inutile cercarli
nell'India centrale. Ma la flora dell'interno non è per questo meno
interessante e varia.
Da ogni lato della strada non c'era, per parlare propriamente, che
un immenso scacchiere di risaie, che si disegnava a perdita d'occhio.
Il suolo era diviso in quadrilateri arginati come le saline o le colture
di ostriche di un litorale. Ma il colore verde dominava, e il raccolto
prometteva di essere ricco su quel territorio umido e caldo, le cui
nebbie ne indicavano la prodigiosa fertilità.
La sera successiva, all'ora fissata, con un'esattezza che un espresso
avrebbe invidiato, la macchina dava il suo ultimo colpo di vapore e si
fermava alle porte di Burdwan.
Amministrativamente, questa città è il capoluogo di un distretto
inglese, ma il distretto appartiene come proprietà a un maharajah, che
paga non meno di dieci milioni di tasse al governo. La città è in gran
parte composta di case basse, separate da bei viali d'alberi, palme da
cocco e areche. Questi viali erano larghi abbastanza da lasciar
passare il nostro treno. Andammo dunque ad accamparci in un posto
bellissimo, pieno d'ombra e di frescura. Quella sera, la capitale del
maharajah ebbe un piccolo quartiere di più. Era il nostro villaggio
portatile, il nostro villaggio di due case, e non l'avremmo cambiato
per tutto il quartiere in cui sorge lo splendido palazzo d'architettura
anglo-indiana del sovrano di Burdwan.
Il nostro elefante, lo si può bene immaginare, produsse il suo
solito effetto, ossia una specie di terrore ammirativo in tutti quei
bengalesi che accorrevano da ogni parte, con la testa nuda, i capelli
tagliati à la Titus 14 e, per tutto vestito, gli uomini un perizoma
intorno alle reni, le donne un sari bianco che le avvolgeva dalla testa
ai piedi.
— Ho un solo timore, — disse il capitano Hod, — che il
maharajah voglia comperare il nostro Gigante d'Acciaio, e che ne
offra una somma tale, che noi si debba essere costretti a venderlo a
Sua Altezza!
— Mai! — esclamò Banks. — Gli fabbricherò un altro elefante
quando vorrà, e così potente che sarà in grado di trascinare tutta la
sua capitale da un'estremità all'altra dei suoi Stati! Ma il nostro, non
lo venderemo a nessun prezzo, non è vero, Munro?
— A nessun prezzo! — rispose il colonnello con il tono di un
uomo che l'offerta di un milione non avrebbe potuto sedurre.
Del resto, l'acquisto del nostro colosso non ebbe occasione di
essere discusso. Il maharajah non era a Burdwan. La sola visita che
ricevemmo fu quella del suo kàmdar, specie di segretario intimo, che
venne a esaminare il nostro equipaggio. Dopo di che quel dignitario
ci offrì (e noi accettammo ben volentieri) di visitare i giardini del
palazzo, dove si trovavano i più begli esemplari della vegetazione
tropicale, innaffiati con acque vive che si distribuiscono in stagni o
corrono in ruscelli, di visitare il parco, adorno di chioschi bizzarri di
14
Ossia tagliati egualmente corti davanti come dietro. (N.d.T.)
effetto piacevolissimo, letteralmente tappezzato di aiuole
verdeggianti, popolato di caprioli, cervi, daini, elefanti, che
rappresentavano la fauna domestica, e di tigri, leoni, pantere, orsi,
rappresentanti la fauna selvaggia, sistemati in superbi serragli.
— Tigri in gabbia come uccelli, capitano! — esclamò Fox. — È
una cosa che fa pietà!
— Sì, Fox, — rispose il capitano. — Se si consultassero, queste
oneste belve, preferirebbero vagabondare liberamente nelle jungle...
anche a tiro di una carabina a proiettili esplosivi!
— Ah! come le capisco, capitano! — fece l'attendente lasciandosi
sfuggire un sospiro.
Il giorno seguente, 10 maggio, lasciavamo Burdwan. La SteamHouse, ben approvvigionata, attraversava la ferrovia a un passaggio a
livello, e si dirigeva direttamente verso Ramghur, città posta a
settantacinque leghe circa da Calcutta.
Questo itinerario lasciava, è vero, alla nostra destra, l'importante
città di Murchedabad, che non ha però nulla di curioso né nella sua
parte indiana né nella sua parte inglese; Monghir, una specie di
Birmingham dell'Indostan, appollaiata su un promontorio che domina
il corso del fiume sacro; Patna, la capitale di quel regno del Béhar
che dovevamo attraversare obliquamente, ricco centro di commercio
per l'oppio, e che tende a scomparire sotto l'invasione delle piante
rampicanti, di cui la sua flora è particolarmente ricca. Ma avevamo di
meglio da fare: seguire una direzione più meridionale, due gradi al
disotto della valle del Gange.
Durante questa parte del viaggio, il Gigante d'Acciaio fu spinto un
po' e mantenne un trotto leggero, che ci permise di apprezzare
l'eccellente sistemazione delle nostre case sospese. La strada,
d'altronde, era bella e si prestava alla prova. Era possibile che i
grandi carnivori si spaventassero alla vista del gigantesco elefante
che emetteva fumo e vapore? In ogni caso, con gran stupore del
capitano Hod, non ne vedevamo nessuno in mezzo alle jungle di quel
territorio. Del resto, era attraverso le regioni settentrionali dell'India,
non nelle province del Bengala, che egli contava di soddisfare i suoi
istinti di cacciatore e non pensava ancora a lamentarsi.
Il 15 maggio, eravamo vicini a Ramghur, a cinquanta leghe circa
da Burdwan. La media della velocità era stata di una quindicina di
leghe ogni dodici ore, non di più.
Tre giorni dopo, il 18, il treno si fermava cento chilometri più
lontano, vicino alla piccola città di Chittra.
Nessun incidente si era verificato durante questo primo periodo
del viaggio. Le giornate erano calde, ma quanto era facile la siesta al
riparo delle verande! Vi trascorrevamo le ore più calde in un
delizioso farniente 15
Venuta la sera, Storr e Kâlouth, sotto gli occhi di Banks, si
occupavano di pulire la caldaia e di esaminare la macchina.
Frattanto, il capitano Hod ed io, accompagnati da Fox, da Goûmi
e dai due cani da ferma, andavamo a cacciare nei dintorni
dell'accampamento. Si trattava ancora della piccola selvaggina da
pelo e da piuma; ma se il capitano la disprezzava come cacciatore,
non la disprezzava come buongustaio, e il giorno seguente, con gran
contentezza sua e con gran soddisfazione del signor Parazard, il
menu del pranzo conteneva qualche piatto saporito, che risparmiava
le nostre conserve.
Qualche volta, Goûmi e Fox rimanevano per adempiere alle
funzioni di taglialegna e di portatori d'acqua. Non bisognava forse
approvvigionare il tender per il giorno successivo? Perciò, per quanto
era possibile, Banks sceglieva i punti di fermata in riva a un ruscello,
vicino a qualche bosco. Tutto questo approvvigionamento
indispensabile si faceva sotto la direzione dell'ingegnere, che non
trascurava nessun particolare.
Poi, quando tutto era finito, accendevamo i nostri sigari, degli
ottimi cheruts di Manilla, e fumavamo chiacchierando di quel paese
che Hod e Banks conoscevano a fondo. Il capitano, sdegnando il
sigaro volgare, aspirava con i suoi vigorosi polmoni, attraverso un
tubo lungo venti piedi, il fumo aromatico di un houkah,
accuratamente riempito dal suo attendente.
Il nostro più gran desiderio sarebbe stato che il colonnello Munro
ci seguisse in quelle rapide escursioni nei dintorni
dell'accampamento. Invariabilmente glielo proponevamo al momento
15
In italiano nell'originale. (N.d.T.)
di partire, ma, altrettanto invariabilmente, egli declinava la nostra
offerta e rimaneva con il sergente Mac Neil. Entrambi allora
passeggiavano per la via, avanti e indietro per un centinaio di passi.
Parlavano poco, ma pareva che si comprendessero a meraviglia, e
non avevano bisogno di scambiarsi parole per scambiare dei pensieri.
Erano entrambi interamente assorti in quei funesti ricordi che nulla
poteva cancellare. Chissà anzi se tali ricordi non si ravvivavano a
mano a mano che sir Edward Munro e il sergente si avvicinavano al
teatro della sanguinosa insurrezione!
Evidentemente un'idea ben precisa, che dovevamo conoscere
soltanto più tardi, e non il semplice desiderio di non separarsi da noi,
aveva indotto il colonnello Munro a unirsi alla spedizione nel nord
dell'India. Devo dire che Banks e il capitano Hod condividevano il
mio parere a questo proposito. Perciò, tutti e tre, non senza una certa
inquietudine per l'avvenire, ci domandavamo se quell'elefante
d'acciaio, correndo attraverso le pianure della penisola, non
trascinasse con sé tutto un dramma.
CAPITOLO VII
I PELLEGRINI DEL PHALGU
IL BÉHAR formava un tempo l'impero di Magadha. Era una specie
di territorio sacro, al tempo dei buddisti, ed è ancora coperto di
templi e di monasteri. Ma, da molti secoli, i bramini sono succeduti
ai sacerdoti di Budda. Essi si sono impadroniti dei vihara, li
sfruttano, vivono dei prodotti del culto; i fedeli giungono loro da
ogni parte; ed essi fanno concorrenza alle acque sacre del Gange, ai
pellegrinaggi di Bénares, alle cerimonie di Jaggernaut; insomma si
può dire che la regione appartiene a loro.
Paese ricco, con le sue immense risaie verde smeraldo e le sue
vaste piantagioni di papaveri, con le sue numerose borgate, perdute
nella verzura, ombreggiate da palmizi, manghi, palme da dattero, da
taras, sui quali la natura ha gettato, come una rete, un inestricabile
viluppo di liane. Le strade percorse dalla Steam-House sono
altrettanti pergolati frondosi, in cui un terreno umido mantiene la
frescura. Procediamo, con la carta geografica sotto gli occhi, senza
mai temere di smarrirci. I barriti del nostro elefante si mescolano con
gli assordanti concerti degli uccelli e con i gridi discordi delle tribù
di scimmie. Il suo fumo avvolge di fitte volute i phénix campestri e i
banani, i cui frutti dorati spiccano come stelle in mezzo a nuvole
leggere. Al suo passaggio si alzano in volo stormi di quegli uccellini
delle risaie, che confondono le loro piume candide con le bianche
spirali del vapore. Qua e là gruppi di baniani, boschetti di pompelmi,
aiuole di dalhs, specie di pisello arborescente sostenuto da uno stelo
alto un metro, crescono vigorosamente e fanno contrasto con i
paesaggi dello sfondo.
Ma che caldo! È molto se un po' d'aria umida si propaga
attraverso gli schermi di vetiveria delle nostre finestre! Gli hot winds,
i venti caldi, che si sono caricati di calore accarezzando la superficie
delle lunghe pianure occidentali, coprono la campagna con il loro
soffio infuocato. È tempo che il monsone di giugno venga a
modificare lo stato atmosferico. Nessuno potrebbe sopportare gli
ardori di questo sole di fuoco, senza essere minacciato di
soffocamento mortale.
Quindi la campagna è deserta. I raiot stessi, benché agguerriti
contro questi raggi infuocati, non potrebbero dedicarsi ai lavori
agricoli. Soltanto la strada ombrosa è praticabile, a patto però di
percorrerla al riparo del nostro bungalow ambulante. Bisogna che il
fuochista Kalouth sia, non dirò di platino, perché il platino
fonderebbe, ma di carbonio puro, per non entrare in fusione davanti
alla grata ardente della sua caldaia. No! il bravo indù resiste. Si è
fabbricato una specie di seconda natura refrattaria, a forza di vivere
sulla piattaforma delle locomotive, percorrendo le linee ferroviarie
dell'India centrale!
Il termometro appeso alle pareti della sala da pranzo ha segnato
centosei gradi Fahrenheit (41° 11' centigradi) nella giornata del 19
maggio. Quella sera non abbiamo potuto fare la nostra passeggiata
igienica dell'hawakana. Questa parola significa esattamente
mangiare dell'aria, cioè che, dopo i soffocamenti prodotti da una
giornata tropicale, si va a respirare l'aria tiepida e pura della sera.
Questa volta, è l'atmosfera che ci avrebbe divorati.
— Signor Maucler, — mi disse il sergente Mac Neil, — questo mi
ricorda gli ultimi giorni di marzo, durante i quali sir Hugh Rose, con
una batteria di due pezzi soltanto, tentava di far breccia nella cinta di
Jansi. Erano sedici giorni che avevamo passato il Betwa, e da sedici
giorni non si era tolta la briglia ai cavalli. Ci battevamo fra enormi
mura di granito, che è come dire fra le pareti di mattoni di una
fornace. Fra le nostre file passavano alcuni chitsis che portavano
dell'acqua nei loro otri, e mentre noi sparavamo ce la versavano sul
capo, senza di che saremmo caduti fulminati. Guardate! Mi ricordo!
Ero sfinito. Il cranio mi scoppiava. Stavo per cadere... Il colonnello
Munro mi vede, e, strappato l'otre dalle mani di un chitsi, me lo versa
addosso... ed era l'ultimo che i portatori avevano potuto procurarsi!...
Queste cose non si dimenticano, vedete! No! goccia di sangue per
goccia d'acqua! E quando avrò dato tutto il mio per il colonnello,
sarò ancora suo debitore!
— Sergente Mac Neil, — domandai, — non vi pare che, dopo la
nostra partenza, il colonnello Munro abbia l'aria più preoccupata del
solito? Sembra che ogni giorno...
— Sì, signore, — rispose Mac Neil, che m'interruppe piuttosto
vivacemente, — ma è naturalissimo! Il colonnello si avvicina a
Lucknow, a Cawnpore, là dove Nana Sahib ha fatto trucidare... Ah!
non posso parlarne senza che il sangue mi salga alla testa! Forse
sarebbe stato meglio modificare l'itinerario del viaggio, e non
attraversare le province che la rivolta ha devastato! Siamo ancora
troppo vicini a quei terribili avvenimenti perché il ricordo ne sia
affievolito.
— Perché non cambiare strada? — dissi allora. — Se volete, Mac
Neil, ne parlerò a Banks, al capitano Hod...
— Troppo tardi, — rispose il sergente. — Ho ragione di credere,
del resto, che il colonnello ci tenga a rivedere, un'ultima volta forse,
il teatro di quella guerra orribile, e che voglia andare là dove lady
Munro ha trovato la morte, e quale morte!
— Se lo credete, Mac Neil, — feci io, — sarà meglio lasciar fare
il colonnello Munro, e non mutare nulla nei nostri progetti. Spesso
andare a piangere sulla tomba di coloro che ci son cari è una
consolazione, una specie di addolcimento del dolore...
— Sulla tomba, si! — esclamò Mac Neil. — Ma è forse una
tomba quel pozzo di Cawnpore, dove tante vittime sono state
precipitate alla rinfusa? È forse un monumento funebre, quello, che
ci possa ricordare quelli che mani pietose curano nei nostri cimiteri
di Scozia, in mezzo ai fiori, sotto l'ombra dei begli alberi, con un
nome, uno solo, il nome di colui che non è più? Ah! signore, temo
che il dolore del colonnello sia spaventoso! Ma, ve lo ripeto, ormai è
troppo tardi per distoglierlo da questa strada. Potrebbe darsi che in tal
caso egli rifiuterebbe di seguirci! Sì! lasciamo che le cose vadano per
conto loro, e che Dio ci guidi!
Evidentemente, Mac Neil, parlando così, sapeva come
comportarsi davanti ai progetti di sir Edward Munro. Ma mi diceva
tutto ed era solo il proposito di rivedere Cawnpore che aveva indotto
il colonnello a lasciare Calcutta? Ad ogni modo, ora egli era attirato
come da una calamita verso il teatro su cui si era svolta la
conclusione di quel funesto dramma!... Bisognava lasciarlo fare!
Pensai allora di domandare al sergente se, personalmente, egli
avesse rinunciato a ogni idea di vendetta, in una parola, se credesse
che Nana Sahib fosse morto.
— No, — mi rispose nettamente Mac Neil. — Benché non abbia
nessun indizio su cui basare la mia opinione, non credo, non posso
credere che Nana Sahib abbia potuto morire senza essere stato punito
di tanti delitti! No! Eppure, non so nulla, non ho appreso nulla!... E
come un istinto che mi spinge!... Ah! Signore! Farsi uno scopo di
una legittima vendetta, sarebbe qualche cosa nella vita! Voglia il
cielo che i miei presentimenti non mi ingannino, e un giorno...
Il sergente non finì la frase. Il suo gesto indicò ciò che la sua
bocca non aveva voluto dire. Il servitore era all'unisono con il
padrone.
Quando riferii la sostanza di questa conversazione a Banks e al
capitano Hod, entrambi furono d'accordo nel dire che l'itinerario non
doveva e non poteva essere modificato. Del resto non si era mai
parlato di passare per Cawnpore, e, una volta attraversato il Gange a
Bénares, dovevamo avviarci direttamente al nord attraversando la
parte orientale dei regni di Oudh e del Rohilkhand. Qualsiasi cosa
potesse pensare Mac Neil, non era provato che sir Edward Munro
volesse rivedere Lucknow o Cawnpore, che gli avrebbero richiamato
alla mente tanti orribili ricordi; ma infine, se lo avesse voluto, non lo
si sarebbe contrariato su tale argomento.
Quanto a Nana Sahib, la sua notorietà era tale che, se la notizia
che ne segnalava la riapparizione nella presidenza di Bombay era
vera, avremmo dovuto sentirne parlare ancora. Ma alla nostra
partenza da Calcutta non si parlava già più del nababbo, e le
informazioni che avevamo raccolto per via facevano pensare che le
autorità fossero state indotte in errore.
In ogni caso, se, per assurdo, vi fosse stato in esse qualche cosa di
vero, se il colonnello Munro aveva un piano segreto, poteva
sembrare strano che Banks, il suo più intimo amico, non ne fosse
stato fatto partecipe con la precedenza sul sergente Mac Neil. Ma ciò
doveva senza dubbio dipendere, come disse Banks, dal fatto che egli
avrebbe fatto di tutto per impedire al colonnello di buttarsi in
ricerche pericolose e inutili, mentre il sergente doveva spingervelo!
Il 19 maggio, verso mezzogiorno, avevamo superato la cittadina
di Chittra. La Steam-House era ormai a quattrocentocinquanta
chilometri dal punto di partenza.
L'indomani, 20 maggio, all'imbrunire, il Gigante d'Acciaio
giungeva, dopo una giornata torrida, nei dintorni di Gaya. La sosta
venne fatta sulla riva di un fiume sacro, il Phalgu, ben noto ai
pellegrini. Le due case vennero sistemate su una bella sponda,
ombreggiata da begli alberi, a due miglia circa dalla città.
Era nostra intenzione passare lì trentasei ore, ossia due notti e un
giorno, poiché il luogo era molto originale da visitare, come ho già
detto in precedenza.
Il giorno dopo, fin dalle quattro del mattino, per evitare i calori del
mezzogiorno, Banks, il capitano Hod e io, dopo esserci accomiatati
dal colonnello Munro, ci dirigemmo verso Gaya.
Dicono che in questo centro delle istituzioni bramimene
affluiscano ogni anno centocinquantamila devoti. Infatti, nei dintorni
della città, le strade erano invase da un grandissimo numero di
uomini, donne, vecchi e fanciulli. Tutta questa gente avanzava in
processione, attraverso la campagna, dopo avere sfidato le mille
fatiche di un lungo pellegrinaggio, per compiere i suoi doveri
religiosi.
Banks aveva già visitato questo territorio del Béhar quando stava
progettando una linea ferroviaria che non è ancora in via di
realizzazione. Perciò conosceva il paese, e non potevamo avere una
guida migliore. Del resto egli aveva costretto il capitano Hod a
lasciare all'accampamento tutto il suo equipaggiamento da
cacciatore. Non c'era da temere, dunque, che il nostro Nemrod ci
abbandonasse per strada.
Un po' prima di giungere alla città, alla quale si può dare
giustamente il nome di città santa, Banks ci fece sostare davanti a un
albero sacro, intorno al quale pellegrini di tutte le età e d'ogni sesso
stavano in atteggiamento d'adorazione.
Quell'albero era un pipai dal tronco enorme; ma benché la
maggior parte dei suoi rami fossero già caduti per vecchiaia, esso
non doveva avere più di due o trecento anni d'esistenza. È quanto
avrebbe constatato il signor Louis Rousselet, due anni più tardi, nel
suo interessante viaggio attraverso l'India dei rajah.
Albero Boddhi, ecco, in religione, il nome di quest'ultimo
rappresentante della generazione dei pipai sacri, che ombreggiarono
questa stessa piazza, per una lunga serie di secoli, ed il primo dei
quali fu piantato cinquecento anni prima dell'era cristiana. È
probabile che, per i fanatici prosternati ai suoi piedi, quello fosse lo
stesso albero consacrato da Budda in quel luogo. Ora esso sorge su
una terrazza in rovina, vicino a un tempio di mattoni, la cui origine è
evidentemente antichissima.
La presenza di tre europei in mezzo a quelle migliaia di indù non
fu vista molto di buon occhio. Quantunque non ci venisse detto nulla,
pure non potemmo giungere fino alla terrazza né penetrare nelle
rovine del tempio. Del resto i pellegrini le ingombravano e sarebbe
stato difficile aprirsi un passaggio in mezzo a loro.
— Se ci fosse stato qualche bramino, — disse Banks, — la nostra
visita sarebbe stata più completa, e forse avremmo potuto visitare
l'edificio fin nelle sue parti più interne.
— Come! — risposi, — un sacerdote sarebbe stato meno severo
dei propri fedeli?
— Mio caro Maucler, — rispose Banks, — non c'è severità che
resista all'offerta di qualche rupia. Dopo tutto bisogna pure che i
bramini campino come possono.
— Non ne vedo la necessità, — rispose il capitano Hod, che aveva
il torto di non nutrire per gli indù, i loro costumi, i loro pregiudizi, i
loro usi e gli oggetti della loro venerazione, la tolleranza che i suoi
compatrioti accordano loro molto giustamente.
Per il momento, l'India per lui era solo un ampio territorio di
«riserve di caccia», e, alla popolazione delle città o delle campagne,
egli preferiva sicuramente i feroci carnivori delle jungle.
Dopo una sosta adeguata ai piedi dell'albero sacro, Banks ci
condusse sulla strada in direzione di Gaya. A mano a mano che ci
avvicinavamo alla città santa, la folla dei pellegrini aumentava. Ben
presto, in una radura del bosco, Gaya ci apparve sulla vetta della rupe
che essa corona con le sue costruzioni pittoresche.
Ciò che attira soprattutto l'attenzione dei turisti in questo luogo è
il tempio di Vishnu. Esso è di costruzione moderna, poiché è stato
ricostruito, pochi anni or sono, dalla regina di Holcar. La grande
curiosità di questo tempio sono le impronte lasciate da Vishnu in
persona, quando si degnò di scendere sulla terra per lottare con il
demone Maya. La lotta fra un dio e un demonio non poteva rimanere
incerta per un pezzo. Il demone soccombette, e un macigno, che può
essere visto nel recinto stesso di Vishnu-Pad, attesta, mediante le
profonde impronte dei piedi del suo avversario, che quel diavolo
aveva a che fare con un avversario terribile.
Ho detto «un macigno che può essere visto», e mi affretto ad
aggiungere «che può essere visto solo dagli indù». Infatti, nessun
europeo viene ammesso a contemplare queste reliquie divine. Forse,
per distinguerle bene sulla pietra miracolosa, occorre una fede
robusta, che non si trova più nei credenti delle regioni occidentali.
Questa volta, checché ne dicesse, Banks fece inutilmente l'offerta
delle sue rupie. Nessun sacerdote volle accettare ciò che sarebbe
stato il premio per un sacrilegio. O forse la somma non fu alla altezza
della coscienza di un bramino? Non oserei chiarire questo punto.
Fatto è che non potemmo penetrare nel tempio, e non so ancora come
sia la misura del piede di quel dolce e bel giovane d'un colore
azzurrino, vestito come un re dei tempi antichi, celebre per le sue
dieci incarnazioni, che rappresenta il principio conservatore opposto
a Siva, il truce emblema del principio distruttore, e che i Vaichnava,
adoratori di Vishnu, riconoscono come il primo dei trecentotrenta
milioni di dèi che popolano la loro mitologia eminentemente
politeistica.
Ma non c'era da rammaricarci della nostra escursione alla città
santa e al Vishnu-Pad. Descrivere la confusione di templi, la
successione di corti, l’agglomeramento di vihara, che dovemmo
aggirare o attraversare per giungere fino ad esso, sarebbe
impossibile. Teseo stesso, con il filo d'Arianna in mano, si sarebbe
perduto in quel labirinto! Perciò ridiscendemmo la rupe di Gaya.
Il capitano Hod era furibondo. Avrebbe voluto conciare per le
feste il bramino che ci rifiutava l'accesso al Vishnu-Pad.
— Siete pazzo, Hod? — gli aveva detto Banks trattenendolo. —
Non sapete che gli indù considerano i loro sacerdoti, i bramini, non
solo come esseri di sangue illustre, ma anche come esseri di origine
superiore?
Quando fummo arrivati alla parte del Phalgu che bagna la rupe di
Gaya, l'enorme massa dei pellegrini si spiegò ampiamente sotto i
nostri occhi. Là stavano gomito a gomito, in una confusione senza
nome, uomini e donne, vecchi e bambini, cittadini e contadini, ricchi
babu e poveri raiot della più infima casta, Vaichya, mercanti e
agricoltori. Kchatrya, superbi guerrieri del paese, Sudra, miserabili
artigiani di sette diverse, paria, che sono fuori della legge e i cui
occhi contaminano gli oggetti che essi guardano; in una parola, tutte
le classi o tutte le caste dell'India, il vigoroso Radjupt che respinge
col gomito il debole bengalese, la gente del Pendjab contrapposta ai
maomettani dello Scind. Gli uni sono venuti in palanchino, gli altri in
carri trascinati dai grandi buoi gibbosi. Questi sono sdraiati accanto
ai loro cammelli, la cui testa viperina si allunga sul suolo; quelli
hanno fatto la strada a piedi, e ne giungono ancora da tutte le parti
della penisola. Qua e là si rizzano delle tende, qua e là si vedono dei
carri staccati, delle capanne di rami, che servono da dimora
provvisoria a tutta questa gente.
— Che folla! — disse il capitano Hod.
— Le acque del Phalgu non saranno molto potabili al tramonto!
— fece osservare Banks.
— E perché? — domandai.
— Perché sono acque sacre, e tutta questa folla sospetta vi si
bagnerà, come fanno i gangisti nelle acque del Gange.
— Siamo forse a valle? — esclamò Hod tendendo la mano nella
direzione in cui si trovava il nostro accampamento.
— No, capitano, rassicuratevi, — rispose l'ingegnere, — siamo a
monte.
— Alla buon'ora, Banks! Non bisogna abbeverare a questa
sorgente impura il nostro Gigante d'Acciaio!
Frattanto, passavamo in mezzo a quelle migliaia di indù,
ammucchiati in uno spazio tanto ristretto.
L'orecchio era colpito prima di tutto da un rumore discorde di
catene e di campanelli. Erano i mendicanti, che facevano appello alla
carità pubblica.
Là formicolavano esemplari svariati di quella confraternita di
vagabondi, tanto considerevole in tutta la penisola indiana. La
maggior parte ostentava delle false piaghe, come i ClopinTrouillefou del Medioevo. Ma se i mendicanti di professione sono
per la maggior parte falsi infermi, non è così dei fanatici. Infatti,
sarebbe stato difficile spingere più oltre la convinzione.
C'erano fachiri, gussain, seminudi, coperti di cenere; questo, con
il braccio anchilosato a causa di una prolungata tensione; quello, con
la mano trapassata dalle unghie delle proprie dita.
Altri si erano imposti di misurare con il proprio corpo tutto la
strada percorsa dalla loro partenza. Sdraiandosi sul suolo,
rialzandosi, sdraiandosi ancora, avevano percorso centinaia di leghe,
come se avessero servito da doppio decametro.
Qui alcuni fedeli, inebriati dall’hang (oppio liquido in un infuso
di canapa), erano appesi ai rami di alcuni alberi mediante uncini di
ferro cacciati nelle spalle. Così appesi, giravano su se stessi finché la
carne non avesse ceduto ed essi fossero caduti nelle acque del
Phalgu.
Più in là, altri, in onore di Siva, con le gambe bucate, la lingua
forata da frecce che la passavano da parte a parte, facevano lambire
da dei serpenti il sangue che colava dalle loro piaghe.
Tutto quello spettacolo non poteva essere che terribilmente
ributtante agli occhi di un europeo. Perciò io avevo fretta di passare
oltre, quando Banks, arrestandomi all'improvviso:
— L'ora della preghiera! — mi disse.
In quel momento, in mezzo alla folla apparve un bramino. Egli
alzò la mano destra e la tese verso il sole, che la rupe di Gaya aveva
nascosto fino allora.
Il primo raggio emesso dall'astro luminoso fu il segnale. La folla,
quasi nuda, entrò nelle acque sacre. Vi furono allora delle semplici
immersioni, come nei primi tempi del battesimo; ma, devo dirlo, non
tardarono a mutarsi in veri sguazzamenti, di cui era difficile afferrare
il carattere religioso. Ignoro se gli iniziati recitando gli sloca o
versetti che, per un prezzo convenuto, i sacerdoti dettavano loro,
pensassero più a lavare il loro corpo o la loro anima. Fatto è che,
dopo aver preso dell'acqua nel cavo della mano, dopo averne asperso
i quattro punti cardinali, essi se ne gettavano alcune gocce in faccia,
come bagnanti che si divertano su una spiaggia in riva al mare, là
dove si frangono le onde. Devo aggiungere, inoltre, che essi non
dimenticavano di strapparsi almeno un capello per ogni peccato che
avevano commesso. Quanti ce n'erano che avrebbero meritato
d'uscire calvi dalle acque del Phalgu!
Ecco quali erano le follie balneari di quei fedeli, che ora
intorbidavano l'acqua con i loro tuffi improvvisi, ora la battevano con
i talloni come fa un nuotatore esperto, a tal punto che gli alligatori
spaventati fuggivano alla riva opposta.
Là, con sguardo glauco, fisso su tutta quella folla rumorosa che
invadeva il loro dominio, essi guardavano e rimanevano allineati,
facendo risuonare l'aria con lo scricchiolio delle loro formidabili
mascelle. I pellegrini, del resto, non se ne curavano, come se essi
fossero stati delle lucertole inoffensive.
Era tempo di lasciare che quei bizzarri devoti si mettessero in
condizione di entrare nel Kaila, che è il paradiso di Brahma. Perciò
risalimmo la riva del Phalgu, per raggiungere l'accampamento.
La colazione ci riunì tutti a tavola, e il resto della giornata, che era
stata estremamente calda, passò senza incidenti. Il capitano Hod,
verso sera, andò a battere la pianura circostante e riportò della
selvaggina minuta. Frattanto, Storr, Kâlouth e Goûmi rinnovavano la
provvista d'acqua e di combustibile, e caricavano il forno. Si doveva,
infatti, partire all'alba.
Alle nove di sera, eravamo tutti nelle nostre camere. Si preparava
una notte calmissima, ma molto buia. Fitte nuvole nascondevano le
stelle e rendevano pesante l'atmosfera. Il calore non diminuiva di
intensità, nemmeno dopo il tramonto.
Stentai parecchio ad addormentarmi, tanto la temperatura era
soffocante. Attraverso la mia finestra, che avevo lasciato aperta,
penetrava solo un'aria ardente, che mi sembrava assai poco adatta
alle funzioni regolari dei polmoni.
Venne mezzanotte, senza che io avessi ancora trovato un solo
istante di riposo. Pure avevo la ferma intenzione di dormire per tre o
quattro ore prima della partenza, ma avevo anche il torto di voler
impormi il sonno. Il sonno mi fuggiva. La volontà non ci può far
nulla, tutt'altro.
Doveva essere circa l'una del mattino, quando credetti di udire un
rumore sordo che si propagava lungo le rive del Phalgu.
Dapprima mi venne l'idea che, sotto l'influenza di un'atmosfera
estremamente satura d'elettricità, qualche vento di burrasca
cominciasse a soffiare dall'ovest. Sarebbe stato ardente, senza
dubbio, ma alla fine avrebbe spostato gli strati d'aria e forse li
avrebbe resi più respirabili.
M'ingannavo. I rami degli alberi che servivano da riparo
all'accampamento mantenevano un'assoluta immobilità.
Sporsi il capo dalla mia finestra, e ascoltai. Il mormorio lontano si
fece udire ancora, ma non vidi nulla. Lo specchio liquido del Phalgu
era interamente scuro senza nessuno di quei riflessi tremolanti che
avrebbe prodotto un movimento qualsiasi della sua superficie. Il
rumore non veniva né dall'acqua né dall'aria.
Tuttavia, non vidi nulla di sospetto. Perciò mi ricoricai e,
finalmente vinto dalla stanchezza, cominciai ad assopirmi. Di tratto
in tratto, quell'inesplicabile mormorio giungeva ancora a ondate al
mio orecchio, ma finii con l'addormentarmi del tutto.
Due ore dopo, nel momento in cui i primi bagliori dell'alba si
diffondevano attraverso le tenebre, fui svegliato bruscamente.
Chiamavano l'ingegnere.
— Signor Banks?
— Che cosa volete?
— Venite dunque.
Avevo riconosciuto la voce di Banks e quella del macchinista, che
era entrato nel corridoio.
Mi alzai subito e lasciai la mia cabina. Banks e Storr erano già
sotto la veranda anteriore. Il colonnello Munro mi ci aveva
preceduto, e il capitano Hod non tardò a raggiungerci.
— Che cosa c'è? — domandò l'ingegnere.
— Guardate, signore, — rispose Storr.
I primi bagliori dell'alba permettevano di vedere le rive del Phalgu
e una parte della strada che si stendeva davanti per parecchie miglia.
La nostra sorpresa fu grande quando scorgemmo molte centinaia di
indù, coricati a gruppi, che ingombravano i lati e la carreggiata.
— Sono i nostri pellegrini di ieri, — disse il capitano Hod.
— Che cosa fanno là? — chiesi.
— Senza dubbio, aspettano che spunti il sole, — rispose il
capitano, — per tuffarsi nelle acque sacre!
— No, — rispose Banks. — Non possono forse fare le loro
abluzioni anche a Gaya? Se sono venuti qui, è perché...
— È perché il nostro Gigante d'Acciaio ha prodotto il suo solito
effetto! — esclamò il capitano Hod. — Avranno saputo che un
elefante gigantesco, un colosso come non ne avevano mai visti, era
nelle vicinanze, e sono venuti ad ammirarlo!
— Purché si limitino all'ammirazione! — rispose l'ingegnere
crollando il capo.
— Che cosa temi, Banks? — domandò il colonnello Munro.
— Eh! temo... che questi fanatici ci sbarrino la strada e ci
impediscano di proseguire!
— In ogni caso, sii prudente! Con devoti di questa fatta le
precauzioni non sono mai troppe.
— Infatti, — rispose Banks. Poi, chiamando il fuochista:
— Kâlouth, — domandò, — sono pronti i fuochi?
— Sì, signore.
— Ebbene, accendi.
— Sì, accendi, Kâlouth! — esclamò il capitano Hod. — Metti
sotto pressione, Kâlouth, e che il nostro elefante sputi in faccia a tutti
questi pellegrini il suo alito di fumo e di vapore!
Erano le tre e mezzo del mattino. Non occorreva che una mezz'ora
al massimo perché la macchina fosse sotto pressione. I fuochi furono
subito accesi, la legna crepitò nel forno, e un fumo nero sfuggì dalla
gigantesca proboscide dell'elefante, la cui estremità si perdeva tra i
rami dei grandi alberi.
In quel momento, alcuni gruppi di indù si avvicinarono. Nella
folla si produsse un movimento generale. Il nostro treno fu quasi
accerchiato. I pellegrini delle prime file alzavano le braccia al cielo,
le tendevano verso l'elefante, si inchinavano, si inginocchiavano, si
prosternavano fino nella polvere. Era adorazione portata
evidentemente al massimo.
Là, sotto la veranda, eravamo il colonnello Munro, il capitano
Hod e io, piuttosto preoccupati di sapere dove si sarebbe arrestato
quel fanatismo. Mac Neil ci aveva raggiunti e guardava
silenziosamente. Banks era andato a sistemarsi insieme con Storr
nella torretta disposta sopra l'enorme animale e dalla quale egli
poteva dirigerlo a suo piacimento.
Alle quattro la caldaia rombava. Questo rumore doveva essere
preso dagli indù per il brontolio irritato di un elefante d'un ordine
soprannaturale. In quel momento, il manometro indicava una
pressione di cinque atmosfere, e Storr lasciava sfuggire dalle valvole
il vapore, come se esso avesse traspirato attraverso la pelle del
gigantesco pachiderma.
— Siamo sotto pressione, Munro! — gridò Banks.
— Avanti, Banks, — rispose il colonnello, — ma con prudenza e
non schiacciamo nessuno!
Era quasi giorno. La strada che segue la riva del Phalgu era
interamente occupata da quella folla di devoti, poco disposta a
lasciarci passare. In quella situazione, andare avanti senza
schiacciare nessuno non era cosa facile.
Banks diede due o tre colpi di fischietto, ai quali i pellegrini
risposero con urla frenetiche.
— Fatevi da parte! Fatevi da parte! — gridò l'ingegnere,
ordinando al macchinista di azionare un po' l'acceleratore.
I muggiti del vapore che si precipitava nei cilindri si fecero udire.
La macchina si mosse di un mezzo giro di ruota. Un getto poderoso
di fumo bianco usci dalla proboscide.
La folla si era fatta da parte per un istante. L'acceleratore fu allora
azionato a metà. I barriti del Gigante d'Acciaio crebbero, e il nostro
treno cominciò a muoversi tra le fitte file degli indù, che non pareva
volessero fargli posto.
— Banks, attenzione! — esclamai ad un tratto.
Sporgendomi al di fuori della veranda, avevo visto una dozzina di
quei fanatici gettarsi in mezzo alla carreggiata con l'evidentissimo
desiderio di farsi schiacciare sotto le ruote della pesante macchina.
— Attenzione! Attenzione! Toglietevi di lì! — diceva il
colonnello Munro, che faceva loro cenno di rialzarsi.
— Imbecilli! — gridava a sua volta il capitano Hod. — Prendono
il nostro treno per il carro di Jaggernaut! Vogliono farsi schiacciare
sotto i piedi dell'elefante sacro!
A un cenno di Banks, il macchinista sospese l'immissione del
vapore. I pellegrini, sdraiati attraverso la strada, sembravano decisi a
non rialzarsi. Intorno a loro, la folla fanatica emetteva grida e li
incoraggiava con i gesti.
La macchina si era fermata. Banks non sapeva più che cosa fare
ed era assai imbarazzato.
— Ah! Ma staremo un po' a vedere! — disse.
Aprì immediatamente gli sfiatatoi dei cilindri, e violenti getti di
vapore sprizzarono raso al suolo, mentre l'aria echeggiava di fischi
stridenti.
— Hurrah! Hurrah! Hurrah! — gridò il capitano Hod. —
Frustateli, amico Banks, frustateli!
Il mezzo era buono. I fanatici, colpiti dai getti di vapore, si
rialzarono urlando come se li avessero scorticati. Farsi schiacciare,
passi, ma farsi scottare, no!
La folla indietreggiò e la strada ritornò libera. L'acceleratore
venne allora azionato completamente, le ruote morsero
profondamente il terreno.
— Avanti! Avanti! — gridò il capitano Hod, che batteva le mani e
rideva di tutto cuore.
E, con un passo più rapido, il Gigante d'Acciaio, procedendo
dritto sulla strada, scomparve in breve dagli occhi della folla
sbalordita, come un animale fantastico in una nuvola di vapore.
CAPITOLO VIII
ALCUNE ORE A BÉNARES
LA STRADA era ormai libera davanti alla Steam-House, quella
strada che, via Sasserâm, doveva portarci alla riva destra del Gange,
di fronte a Bénares.
Un miglio più in là dell'accampamento, la macchina rallentò e
prese un'andatura più moderata, di circa due leghe e mezzo all'ora.
L'intenzione di Banks era di accamparsi quella sera stessa a
venticinque leghe da Gaya, e di passare tranquillamente la notte nei
dintorni della piccola città di Sasserâm.
In generale, le strade dell'India evitano, per quanto è possibile, i
corsi d'acqua, che richiedono dei ponti, la cui erezione è molto
costosa su questi terreni alluvionali. Per di più, non se ne sono
neppure ancora costruiti in molti di quei luoghi nei quali non è stato
possibile evitare che un fiume o un corso d'acqua sbarrino il
cammino. È vero che vi è il traghetto, ma questo antiquato e
rudimentale mezzo di trasporto sarebbe stato certamente insufficiente
per traghettare il nostro treno. Fortunatamente potevamo farne a
meno.
Proprio durante quella giornata si dovette attraversare un
importante corso d'acqua, il Sône. Questo fiume, alimentato al
disopra di Rhotas dai suoi affluenti Coput e Coyle, va a perdersi nel
Gange, pressappoco fra Arrah e Dinapore.
Nulla fu più facile di questo passaggio. L'elefante si trasformò con
estrema naturalezza in motore marino. Scese l'argine per un pendio
dolce, entrò nel fiume, si mantenne alla superficie, e battendo l'acqua
con le sue larghe zampe, simili alle pale d'una ruota motrice, trascinò
dolcemente il treno, che gli galleggiava dietro.
Il capitano Hod non stava in sé dalla gioia.
— Una casa ambulante! — esclamava, — una casa che è
contemporaneamente carrozza e piroscafo! Non le mancano che le ali
per trasformarsi in apparecchio volante e attraversare lo spazio!
— Lo si farà un giorno o l'altro, amico Hod, — rispose seriamente
l'ingegnere.
— Lo so bene, amico Banks, — replicò altrettanto seriamente il
capitano. — Tutto si farà! Ma quello che non si farà, sarà che ci
venga resa la vita fra duecento anni per vedere queste meraviglie! La
vita non è allegra tutti i giorni, eppure acconsentirei volentieri a
vivere dieci secoli, per pura curiosità!
La sera, a dodici ore da Gaya, dopo aver passato il magnifico
ponte tubolare che sostiene la linea ferroviaria, ottanta piedi al
disopra del letto del Sône, ci accampavamo nei pressi di Sasserâm.
Non si trattava che di passare una notte in quel luogo, per rifornirci
di legna e d'acqua, e ripartire all'alba.
Questo programma fu eseguito punto per punto, e la mattina
successiva, 22 maggio, prima di quelle ore ardenti che ci riservava il
sole cocente di mezzogiorno, avevamo ripreso la nostra strada.
Il paese era sempre lo stesso, ossia ricchissimo, molto coltivato.
Così esso si mostra nelle vicinanze della meravigliosa valle del
Gange. Non parlerò dei numerosi villaggi che si perdono in mezzo
alle immense risaie, fra i ciuffi di palme taras dal fitto fogliame
disposto a volta sotto l'ombra dei manghi e di altri alberi dalla
vegetazione lussureggiante. Del resto, noi non ci fermavamo. Se,
talvolta, la strada era sbarrata da qualche carro, trascinato lentamente
dagli zebù, due o tre fischi lo facevano tirar da parte, e il nostro treno
passava, con gran stupore dei raiot.
Per tutta quella giornata, ebbi il gradito piacere di vedere parecchi
campi di rose. Infatti, non eravamo lontani da Ghazipore, importante
centro di produzione dell'acqua o, meglio, dell'essenza fatta con
questi fiori.
Domandai a Banks se potesse darmi qualche particolare su quel
prodotto tanto ricercato, che sembra essere la più alta espressione
della profumeria.
— Ecco delle cifre, caro amico, — mi rispose Banks, — e vi
mostreranno quanto sia costosa questa fabbricazione. Quaranta libbre
di rose vengono inizialmente sottoposte a una specie di distillazione
lenta su un fuoco moderato, e il tutto dà circa trenta libbre d'acqua di
rose. Quest'acqua viene versata su un altro mucchio di quaranta
libbre di fiori, la cui distillazione viene spinta fino al momento in cui
la miscela è ridotta a venti libbre. Si espone questa miscela, per
dodici ore, all'aria fresca della notte, e il giorno dopo si trova,
coagulata alla sua superficie, che cosa? un'oncia d'olio odoroso.
Dunque, da ottanta libbre di rose, quantità che, si dice, contiene non
meno di duecentomila fiori, si è ricavata alla fine solo un'oncia di
liquido. Un vero massacro! Perciò non c'è da stupirsi se, anche nel
paese produttore, l'essenza di rose costi quaranta rupie o cento
franchi l'oncia.
— Eh! — replicò il capitano Hod, — se per fabbricare un'oncia
d'acquavite ci volessero ottanta libbre d'uva, allora si che il grog
sarebbe caro!
Durante quella giornata, dovemmo attraversare ancora il
Karamnaca, uno degli affluenti del Gange. Gli indù hanno fatto di
questo innocuo fiume una specie di Stige, sul quale non è
conveniente navigare. Le sue rive non sono meno maledette di quelle
del Giordano o del Mar Morto. Esso porta i cadaveri che gli si
affidano direttamente all'inferno braminico. Non discuto queste
credenze; ma quanto ad ammettere che l'acqua di questo diabolico
fiume sia sgradevole al gusto e malsana per lo stomaco, protesto. È
ottima.
La sera, dopo aver attraversato un paese pochissimo accidentato,
fra gli immensi campi di papaveri e la vasta scacchiera delle risaie, ci
accampavamo sulla riva destra del Gange, di fronte all'antica
Gerusalemme degli indù, la città santa di Bénares.
— Ventiquattro ore di sosta! — disse Banks.
— A che distanza siamo ora da Calcutta? — chiesi all'ingegnere.
— A trecentocinquanta miglia circa, — mi rispose, — e
confesserete, caro amico, che non ci siamo accorti né della lunghezza
del percorso né delle fatiche del viaggio!
Il Gange! C'è forse un altro fiume il cui nome evochi leggende più
poetiche, e non sembra forse che tutta l'India si riassuma in lui? C'è
forse al mondo una valle paragonabile a quella che, per dirigere il
corso superbo di quel fiume, si stende per uno spazio di cinquecento
leghe e non conta meno di cento milioni d'abitanti? C'è forse un
punto del globo in cui sia stato ammucchiato un numero più grande
di meraviglie dopo l'apparizione delle razze asiatiche? Che cosa
avrebbe mai detto del Gange Victor Hugo, che ha cantato così
superbamente il Danubio? Sì, si può parlare ad alta voce quando si
ha:
... comme une mer sa houle,
Quand sur le globe on se déroule
Comme un serpent, et quand on roule
De l'occident à l'orient! 16
Ma anche il Gange ha la sua onda lunga, i suoi cicloni, più
terribili degli uragani su un fiume europeo! Anch'esso si stende come
un serpente nelle più poetiche regioni del mondo! Anch'esso scorre
dall'occidente all'oriente! E non da un modesto gruppo di colline esso
trae la sua sorgente! È dalla più alta catena del globo, è dalle
montagne del Tibet che esso si precipita assorbendo tutti gli affluenti
che trova per via! Scende dall'Himalaya!
Il giorno dopo, 23 maggio, al levar del sole, l'ampio specchio
d'acqua scintillava dinanzi ai nostri occhi. Sulla sabbia bianca, alcuni
gruppi di grossi alligatori sembravano sorbire i primi raggi del sole.
Erano immobili, rivolti verso l'astro radioso, come se fossero stati i
più fedeli seguaci di Brahma. Ma alcuni cadaveri, che passavano
galleggiando, li strapparono alla loro adorazione. È stato detto che
questi cadaveri trasportati dalla corrente galleggiano stesi sul dorso
quando sono di uomini, bocconi quando sono di donne. Potei
constatare che non c'è nulla di vero in questa osservazione. Un
momento dopo i mostri si gettavano su quella preda, che forniscono
loro quotidianamente i corsi d'acqua della penisola, e la trascinavano
nelle profondità del fiume.
La linea ferroviaria di Calcutta, prima di biforcarsi ad Allahabad
per correre verso Delhi, a nord-ovest, e verso Bombay, a sud-ovest,
16
... come un mare l'onda lunga, / Quando ci si stende sul globo / Come un
serpente, e quando si scorre / Dall'Occidente all'Oriente! (N.d.T.)
segue costantemente la riva destra del Gange, di cui risparmia,
seguendo una linea retta, le numerose sinuosità. Alla stazione di
Mogul-Serai, da cui distavamo solamente poche miglia, se ne stacca
un piccolo tronco che fa il servizio per Bénares, attraversando il
fiume, e per la valle del Goumti va fino a Jaunpore, percorrendo una
sessantina di chilometri.
Bénares è dunque sulla riva sinistra. Non era però in quel punto
che dovevamo attraversare il Gange, bensì ad Allahabad. Il Gigante
d'Acciaio rimase dunque al campo che era stato scelto la sera del
giorno precedente, 22 maggio. Delle gondole erano alla fonda
accanto alla riva, pronte a condurci alla città santa, che desideravo
visitare con una certa cura.
Il colonnello Munro non aveva nulla da apprendere, nulla da
vedere in quelle città da lui visitate tanto spesso. Tuttavia, quel
giorno, ebbe per un momento il pensiero di accompagnarci; ma, dopo
aver riflettuto, decise di fare un'escursione sulle rive del fiume, in
compagnia del sergente Mac Neil. Infatti, entrambi lasciarono la
Steam-House, ancora prima che ne fossimo partiti noi. Quanto al
capitano Hod, che era già stato di guarnigione a Bénares, era sua
intenzione andare a trovare alcuni suoi compagni. Dunque, Banks ed
io, poiché l'ingegnere aveva voluto farmi da guida, fummo i soli ad
essere attirati da un senso di curiosità verso la città.
Quando dico che il capitano Hod era stato di guarnigione a
Bénares, bisogna sapere che le truppe dell'esercito reale non
risiedono abitualmente nelle città indù. Le loro caserme sono poste in
«accantonamenti» che, di fatto, diventano vere e proprie città inglesi.
Così ad Allahabad, così a Bénares, così in altri punti del territorio,
dove non solo i militari, ma anche i funzionari, i negozianti, i
possidenti, si raccolgono di preferenza. Ognuna di queste grandi
città, dunque, è doppia, una con tutte le comodità dell'Europa
moderna, l'altra che ha conservato i costumi del paese e gli usi indù
con tutto il loro colore locale!
La città inglese annessa a Bénares è Sécrole, i cui bungalow, i
viali, le chiese cristiane sono poco interessanti da visitare. Là si
trovano pure i principali alberghi ricercati dai turisti. Sécrole è una di
quelle città prefabbricate che i costruttori del Regno Unito
potrebbero spedire in casse, per esser rimontate sul posto. Dunque,
nulla di curioso da vedere. Perciò, Banks ed io, dopo esserci
imbarcati su una gondola, attraversammo obliquamente il Gange, in
modo da avere inizialmente una panoramica di quel magnifico
anfiteatro che Bénares descrive al disopra di un alto argine.
— Bénares, — mi disse Banks, — è la città sacra dell'India, per
eccellenza. È la Mecca indiana, e chiunque vi abbia vissuto, fosse
solo per ventiquattro ore, si è assicurato una parte nelle felicità
eterne. Si comprende dunque quale affluenza di pellegrini può
produrre una credenza simile, e che numero di abitanti deve avere
una città, alla quale Brahma ha riservato delle immunità di tale
importanza.
Si danno a Bénares più di trenta secoli d'esistenza. Essa sarebbe
dunque stata fondata pressappoco nell'epoca in cui Troia stava per
scomparire. Dopo aver esercitato sempre una grande influenza, non
politica, ma spirituale sull'Indostan, essa fu il centro principale della
religione buddistica fino al IX secolo. Allora avvenne una
rivoluzione religiosa. Il brahamanesimo distrusse l'antico culto.
Bénares divenne la capitale dei bramini, il centro d'attrazione dei
fedeli, e si afferma che trecentomila pellegrini la visitino
annualmente.
L'autorità metropolitana ha conservato alla città santa il suo rajah.
Questo principe, pagato piuttosto magramente dall'Inghilterra, abita
una magnifica residenza a Ramnagur, sul Gange. È un autentico
discendente dei re di Kaci, antico nome di Bénares, ma non ha più
nessun'influenza, e se ne consolerebbe, se la sua pensione non fosse
ridotta a un lakh di rupie (ossia centomila rupie, o
duecentocinquantamila franchi circa, che costituiscono appena il
denaro per le piccole spese per un nababbo di un tempo).
Bénares, come quasi tutte le città della valle del Gange, fu toccata
relativamente poco dalla grande insurrezione del 1857. A
quell'epoca, la sua guarnigione si componeva del 37° reggimento di
fanteria indigena, di un corpo di cavalleria irregolare e di un mezzo
reggimento Sikh. Di truppe reali, essa non possedeva che una mezza
batteria d'artiglieria europea. Quel pugno d'uomini non poteva
pretendere di disarmare i soldati indigeni. Perciò le autorità
aspettarono, non senza impazienza, l'arrivo del colonnello Neil, che
si era messo in marcia per Allahabad con il 10° reggimento
dell'esercito reale. Il colonnello Neil entrò a Bénares con soltanto
duecentocinquanta uomini, e fu ordinata una rivista al campo di
manovra.
Quando i Cipay furono riuniti, venne loro ordinato di deporre le
armi. Rifiutarono. La lotta si impegnò fra loro e la fanteria del
colonnello Neil; ma ai ribelli si unì quasi subito la cavalleria
irregolare e poi i Sikh, che si credettero traditi. Allora la mezza
batteria aprì il fuoco, coprì gli insorti di mitraglia, e, nonostante il
loro coraggio, nonostante il loro accanimento, furono messi tutti in
rotta.
Quel combattimento si era svolto fuori della città. All'interno vi fu
soltanto un modesto tentativo d'insurrezione dei musulmani, i quali
issarono la bandiera verde, tentativo subito abortito. Da quel giorno,
per tutta la durata della rivolta, Bénares non fu più turbata, nemmeno
nei momenti in cui la insurrezione parve trionfare nelle province
occidentali.
Banks mi aveva dato questi particolari mentre la nostra gondola
scivolava lentamente sulle acque del Gange.
— Caro amico, — mi disse, — stiamo per visitare Bénares, va
bene! Ma per quanto questa capitale sia antica, non vi troverete un
monumento che abbia più di trecento anni d'esistenza. Non
stupitevene. È la conseguenza delle lotte religiose, nelle quali il ferro
e il fuoco hanno avuto una parte troppo triste. Ad ogni modo,
Bénares non ha cessato di essere una città curiosa, e non dovrete
rammaricarvi della vostra passeggiata!
Poco dopo la nostra gondola si arrestò a una distanza che ci
permetteva di contemplare, in fondo a una baia azzurra come la baia
di Napoli, il pittoresco anfiteatro delle case che si schierano sulla
collina, e la massa dei palazzi, una parte dei quali minaccia di
crollare in seguito al cedimento della loro base, minata di continuo
dalle acque del fiume. Una pagoda nepalese, di architettura cinese,
dedicata a Budda, una foresta di torri, di guglie, di minareti, di
piccole piramidi, proiettata dalle moschee e dai templi, dominata
dalla guglia d'oro del lingam di Siva, e dalle due sottili guglie della
moschea di Aurangzeb, corona questo meraviglioso panorama.
Invece di sbarcare subito a uno dei ghàts o scale che collegano le
rive alla piattaforma degli argini, Banks fece passare la gondola
davanti ai lungofiume, i cui corsi più bassi si bagnano nel fiume. Qui
trovai una ripetizione della scena di Gaya, ma in un altro paesaggio.
Invece delle due foreste verdi del Phalgu, erano le prospettive della
città santa che formavano lo sfondo del quadro. Quanto al soggetto
principale, era pressappoco lo stesso.
Infatti, migliaia di pellegrini coprivano l'argine, le terrazze, le
scale, e venivano a tuffarsi devotamente nel fiume in file triple o
quadruple. Non si creda che quel bagno fosse gratuito. Alcuni
guardiani in turbante rosso, con la sciabola al fianco, posti sugli
ultimi gradini dei ghàts, esigevano il tributo, in compagnia di abili
bramini che vendevano reliquie, amuleti o altri articoli di devozione.
Inoltre, c'erano non solo pellegrini che si bagnavano per proprio
contò, ma anche dei trafficanti, il cui unico commercio consisteva
nell'attingere un po' di quelle acque sacrosante per portarle fin nei
paesi più lontani della penisola. Come garanzia, ogni fiala è marcata
con il sigillo dei bramini. Tuttavia bisogna credere che la frode venga
esercitata su vasta scala, tanto è diventata considerevole
l'esportazione di questo liquido miracoloso.
— Forse addirittura, — mi disse Banks, — tutta l'acqua del Gange
non basterebbe ai bisogni dei fedeli!
Gli domandai allora se quei «bagni» non causassero spesso delle
disgrazie, che non si cercava di prevenire. Non c'erano bagnini per
fermare gli imprudenti che si arrischiavano nella rapida corrente del
fiume.
— Le disgrazie sono frequenti, — mi rispose Banks, — ma se il
corpo del devoto si perde, l'anima si salva. Perciò non si va tanto per
il sottile.
— E i coccodrilli? — aggiunsi.
— I coccodrilli, — mi rispose Banks, — stanno generalmente in
disparte. Tutto questo rumore li spaventa. Non sono questi mostri che
si devono temere, quanto piuttosto dei malfattori, che si tuffano,
scivolano sott'acqua, afferrano le donne, i fanciulli, li trascinano con
loro e ne rubano i gioielli. Si cita anzi, uno di questi furfanti che, con
in capo una testa meccanica, ha fatto per un pezzo la parte di falso
coccodrillo, guadagnandosi una piccola fortuna con questo mestiere,
proficuo e pericoloso nello stesso tempo. Infatti, un giorno
quell'intruso è stato divorato da un vero alligatore, e non si è
ritrovato che la sua testa di pelle conciata, che galleggiava sulla
superficie del fiume.
Del resto, ci sono anche dei fanatici arrabbiati che vengono a
cercare volontariamente la morte nei flutti del Gange, e ci mettono
anche particolari raffinatezze. Si legano intorno al corpo una
ghirlanda di urne vuote, ma scoperchiate. A poco a poco l'acqua
penetra nelle urne e le sommerge pian piano fra gli applausi fragorosi
dei devoti.
La nostra gondola ci condusse ben presto davanti al Manmenka
Ghàt. Là, si ergono i roghi a piani sovrapposti sui quali vengono
bruciati i cadaveri di tutti i defunti che si sono preoccupati in qualche
modo della propria vita futura. La cremazione, in questo santo luogo,
è avidamente ricercata dai fedeli, e i roghi ardono notte e giorno. I
ricchi babu dei territori lontani si fanno trasportare a Bénares, non
appena si sentono colpiti da una malattia letale. Bénares,
indubbiamente, è il miglior punto di partenza per il «viaggio per
l'altro mondo». Se il defunto non ha che dei peccati veniali da
rimproverarsi, la sua anima trasportata sui fiumi del Manmenka,
andrà direttamente nel soggiorno delle felicità eterne. Se è stato un
grande peccatore, la sua anima dovrà, invece, prima rigenerarsi nel
corpo di qualche bramino che deve ancora nascere. Bisogna dunque
sperare che, durante questa seconda incarnazione, poiché la sua vita è
stata esemplare, non gli venga imposto un terzo avatar, prima che
egli sia definitivamente ammesso a partecipare alle delizie del cielo
di Brahma.
Dedicammo il resto della giornata a visitare la città, i suoi
principali monumenti, i suoi bazar fiancheggiati da botteghe scure,
alla moda araba. Vi si vendono soprattutto fini mussole di un
prezioso tessuto e il kinkòb, un tipo di stoffa di seta ricamata d'oro,
che è uno dei principali prodotti dell'industria di Bénares. Le vie
erano molto pulite, ma strette, come si addice alle città che i raggi di
un sole tropicale colpiscono quasi a perpendicolo. Se vi si trovava
ombra, il caldo era pur sempre soffocante. Compativo i portatori del
nostro palanchino, che però non sembravano lamentarsene troppo.
Del resto, quei poveri diavoli avevano in quel momento
un'occasione di guadagnare qualche rupia, e ciò bastava a dar loro
forza e coraggio. Ma così non era per un certo indù, o meglio un
bengalese, dall'occhio vivace, dalla fisionomia astuta, che, senza
cercar troppo di nasconderlo, ci seguì durante tutta la nostra
escursione.
Sbarcando sul lungofiume del Manmenka Ghàt, avevo,
chiacchierando con Banks, pronunciato ad alta voce il nome del
colonnello Munro. Il bengalese, che guardava accostare la nostra
gondola, non aveva potuto trattenersi dal trasalire. Non vi avevo fatto
attenzione più di quanto fosse necessario, ma me ne ricordai quando
trovai quella specie di spia costantemente dietro a noi. Non ci
lasciava che per ricomparire alle nostre spalle, alcuni istanti più tardi.
Era un amico o un nemico? non lo sapevo, ma era un uomo a cui il
nome del colonnello Munro, certamente, non era indifferente.
Il nostro palanchino non tardò a fermarsi alla base dell'ampia
scalinata di cento gradini che sale dal lungofiume alla moschea di
Aurangzeb.
Una volta, i devoti non salivano che in ginocchio quella specie di
Scala Santa, così come fanno i fedeli di Roma. Allora, in quel luogo
sorgeva il tempio di Vishnu; ora gli si è sostituita la moschea del
conquistatore.
Mi sarebbe piaciuto contemplare Bénares dall'alto di uno dei
minareti di quella moschea, la costruzione dei quali è considerata
come un prodigio di architettura. Alti centotrentadue piedi, hanno
appena il diametro di una modesta ciminiera da officina, eppure una
scala a chiocciola si svolge nel loro fusto cilindrico; ma non è più
permesso salirvi, e non senza ragione. Questi due minareti si
allontanano già sensibilmente dalla linea verticale e, dotati di minor
vitalità della torre di Pisa, un giorno o l'altro finiranno con il cadere.
Lasciando la moschea di Aurangzeb, ritrovai il bengalese che ci
aspettava presso la porta. Questa volta, lo guardai fisso, ed egli
abbassò gli occhi. Prima di richiamare l'attenzione di Banks su
questo incidente, volli vedere se la condotta equivoca di
quell'individuo sarebbe continuata, e non dissi nulla.
Le pagode e le moschee si contano a centinaia in questa
meravigliosa città di Bénares. E così pure quegli splendidi palazzi, il
più bello dei quali, senza contraddizione, appartiene al re di Nagpore.
Pochi rajah, infatti, trascurano d'avere una casa nella città santa, e vi
vengono all'epoca delle grandi feste religiose di Mela.
Non potevo pretendere di visitare tutti quegli edifici nel poco
tempo di cui disponevamo. Mi limitai dunque a visitare il tempio di
Bichêshwar, dove sorge il lingam di Siva. Questa pietra informe,
considerata una parte del corpo del più truce degli dèi della mitologia
indiana, ricopre un pozzo, la cui acqua stagnante possiede, si dice,
virtù miracolose. Vidi pure il Mankarnika, o fontana sacra, nella
quale si bagnano i devoti per il maggior profitto dei bramini, poi il
Mân-Mundir, osservatorio costruito duecento anni or sono
dall'imperatore Akbar, tutti gli strumenti del quale, di un'immobilità
marmorea, sono semplicemente riprodotti in pietra.
Avevo anche sentito parlare di un palazzo delle scimmie, che i
turisti non mancano di visitare a Bénares. Un parigino doveva
credere naturalmente che si sarebbe trovato davanti la celebre gabbia
dell'Orto Botanico. Niente del genere.
Questo palazzo è semplicemente un tempio, il Durga-Khund,
situato un po' fuori dei sobborghi. Esso risale al secolo IX, ed è uno
dei più antichi monumenti della città. Le scimmie non vi sono chiuse
in una gabbia a sbarre di ferro. Esse vagano liberamente per i cortili,
saltano da un muro all'altro, si arrampicano in cima a enormi manghi,
si contendono con violente grida i grani abbrustoliti, di cui sono
ghiottissime, e che i visitatori portano loro. Anche qui, come
dappertutto, i bramini, custodi del Durga-Khund, riscuotono un
piccolo tributo, che fa evidentemente di questa professione una delle
più lucrose dell'India.
Naturalmente eravamo piuttosto stanchi a causa del caldo,
quando, verso sera, pensammo di ritornare alla Steam-House.
Avevamo fatto colazione e cenato a Sécrole, in uno dei migliori
alberghi della città inglese, eppure, devo confessare che la cucina ci
fece rimpiangere quella del signor Parazard.
Quando la gondola ritornò alla base del ghàt per riportarci sulla
riva destra del Gange, ritrovai un'ultima volta il bengalese a due passi
dalla barca. Un canotto montato da un indù lo aspettava. Egli
s'imbarcò. Voleva dunque passare il fiume e seguirci ancora fino
all'accampamento. La cosa si faceva molto sospetta.
— Banks, — dissi allora a bassa voce, mostrando il bengalese —
ecco una spia che non ci ha lasciato un attimo...
— L'ho visto anch'io, — rispose Banks, — e ho notato che è stato
il nome del colonnello, pronunciato da voi, che lo ha messo sul chi
vive.
— Non sarebbe il caso?... — dissi allora.
— No! Lasciamolo fare, — rispose Banks. — È meglio che non si
accorga di essere sospettato... Del resto, è già scomparso.
Infatti, il canotto del bengalese era già sparito fra le numerose
barche di ogni tipo che solcavano allora le scure acque del Gange.
Poi, Banks, rivolgendosi al nostro barcaiolo:
— Conosci quell'uomo? — gli domandò con un tono che
simulava indifferenza.
— No, è la prima volta che lo vedo, — rispose il barcaiolo.
Era scesa la notte. Centinaia di imbarcazioni pavesate, illuminate
da lanterne variopinte, piene di cantanti e di suonatori, s'incrociavano
in tutte le direzioni sul fiume in festa. Dalla riva sinistra si alzavano
svariati fuochi artificiali, i quali mi ricordavano che non eravamo
lontani dal Celeste Impero, dove sono in tanto onore. Sarebbe
difficile dare una descrizione di questo spettacolo, che era veramente
senza paragone. Per quale motivo si celebrasse quella festa notturna,
che sembrava improvvisata e alla quale prendevano parte gli indù di
ogni classe, non mi fu possibile saperlo. Nel momento in cui essa
finiva, la gondola aveva già accostato l'altra riva.
Fu dunque come una visione. Non ebbe che la durata di quei
fuochi artificiali che illuminarono per un istante lo spazio e si
spensero nel buio. Ma l'India, l'ho già detto, adora trecento milioni di
dèi, semidei, santi e beati di ogni genere, e l'anno non ha addirittura
abbastanza ore, minuti e secondi, che possano essere dedicati a
ognuna di queste divinità.
Quando fummo di ritorno all'accampamento, il colonnello Munro
e Mac Neil vi erano già tornati. Banks domandò al sergente se non
fosse accaduto nulla di nuovo durante la nostra assenza.
— Nulla, — rispose Mac Neil.
— Non avete visto gironzolare nessuna faccia sospetta?
— Nessuna, signor Banks. Avreste forse qualche motivo di
sospettare?...
— Siamo stati spiati durante la nostra escursione a Bénares, —
rispose l'ingegnere, — e non mi piace che qualcuno ci spii.
— Quella spia era...
— Un bengalese, che è stato messo sul chi vive dal nome del
colonnello Munro.
— Che cosa può volere da noi quell'uomo?
— Non so, Mac Neil. Bisognerà stare attenti!
— Staremo attenti, — rispose il sergente.
CAPITOLO IX
ALLAHABAD
LA DISTANZA fra Allahabad e Bénares è di circa centotrenta
chilometri. La strada segue quasi invariabilmente la riva destra del
Gange, tra la linea ferroviaria e il fiume. Storr si era procurato del
carbone in mattonelle e ne aveva caricato il tender. L'elefante aveva
dunque il nutrimento assicurato per molti giorni. Ben pulito (stavo
per dire ben strigliato), lucido come se uscisse dall'officina di
carrozzeria, esso aspettava con impazienza il momento di partire.
Non scalpitava, no, certamente, ma certi fremiti delle sue ruote
attestavano la tensione dei vapori che riempivano i suoi polmoni
d'acciaio.
Il nostro treno partì dunque di buon mattino, il 24, a una velocità
di tre o quattro miglia all'ora.
La notte era passata senza incidenti, è non avevamo rivisto il
bengalese.
Diciamo ora, una volta per tutte, che il programma di ogni
giornata, riguardante l'ora di alzarsi, l'ora di coricarsi, della
colazione, del pranzo, della cena, della siesta, veniva attuato con
puntualità militare. L'esistenza nella Steam-House si svolgeva
regolarmente come nel bungalow di Calcutta.
Il panorama mutava di continuo ai nostri sguardi, senza che la
nostra abitazione desse l'impressione di spostarsi. Eravamo
assolutamente abituati a questa nuova vita, come un passeggero alla
vita di bordo di un transatlantico, meno la monotonia, dato che non
eravamo sempre chiusi nello stesso orizzonte di mare.
Alle undici di quel giorno, apparve nella pianura un curioso
mausoleo, di architettura mongola, che è stato eretto in onore di due
santi personaggi dell'Islam, Kassim-Soliman, padre e figlio. Una
mezz'ora dopo si trovava l'importante fortezza di Chunar, i cui
pittoreschi bastioni coronano una roccia imprendibile, che sorge
centocinquanta piedi a picco sul Gange.
Non si discusse nemmeno se fare una sosta per visitare questa
fortezza, una delle più importanti della valle del Gange, situata in
modo da poter risparmiare in caso di attacco polvere e proiettili.
Infatti, qualsiasi colonna d'assalto che cercasse di giungere alle sue
mura verrebbe schiacciata da una valanga di macigni disposti a
questo scopo.
Ai suoi piedi si stende la città che porta il suo nome, e le cui
civettuole abitazioni si perdono fra il verde degli alberi.
A Bénares, come abbiamo visto, esistono molti luoghi privilegiati,
che gli indù considerano come i più sacri del mondo. Facendo un
conteggio accurato se ne troverebbero centinaia di quel genere in
tutta la penisola. Anche la fortezza di Chunar possiede una di queste
miracolose stazioni. Là vi mostrano una lastra di marmo, sulla quale
un dio qualunque viene regolarmente ogni giorno a fare la sua siesta.
Vero è che questo dio rimane invisibile: perciò non abbiamo cercato
di vederlo.
La sera, il Gigante d'Acciaio si fermava presso Mirzapore per
trascorrervi la notte. La città non è sprovvista di templi, ma
soprattutto possiede degli stabilimenti e un porto di carico per il
cotone che si produce nel territorio. Sarà un giorno una ricca città
commerciale.
Il giorno seguente, 25 maggio, verso le due del pomeriggio,
guadavamo il piccolo fiume Tonsa, che in quel periodo aveva meno
di un piede d'acqua. Alle cinque veniva superato il raccordo con
l'importante tronco ferroviario Bombay-Calcutta. Quasi nel punto in
cui il Jumna si immette nel Gange, potevamo ammirare il magnifico
viadotto di ferro, che bagna i suoi sedici piloni, alti sessanta piedi,
nelle acque di quel superbo affluente. Giunti al ponte di barche,
lungo un chilometro, che congiunge la riva destra a quella sinistra del
fiume, lo attraversammo senza eccessive difficoltà, e nella serata
venivamo ad accamparci all'estremità di uno dei sobborghi di
Allahabad.
La giornata del 26 doveva essere dedicata alla visita di questa
importante città, da cui si diramano le principali linee ferroviarie
dell'India. Essa sorge in una splendida posizione, in mezzo a un
ricchissimo territorio, fra i due bracci del Jumna e del Gange.
La natura ha certamente fatto di tutto perché Allahabad sia la
capitale dell'India inglese, il centro del governo, la residenza del
viceré. Non è dunque impossibile che lo diventi un giorno, se i
cicloni giocano qualche brutto tiro a Calcutta, la metropoli odierna.
Certo è che alcuni previdenti hanno già intravisto e previsto questa
possibilità. In questo grande corpo che si chiama India, Allahabad è
posta dove si trova il cuore, come Parigi è nel cuore della Francia. È
vero che Londra non è nel cuore del Regno Unito, ma appunto per
questo Londra non ha sulle grandi città inglesi, Liverpool,
Manchester, Birmingham, la preminenza che Parigi ha su tutte le
altre città della Francia.
— E a partire da questo punto, — domandai a Banks, — ci
dirigeremo direttamente verso il nord?
— Sì, — riprese Banks, — o perlomeno quasi direttamente.
Allahabad è, verso ovest, il limite di questa prima parte della nostra
spedizione.
— Finalmente! — esclamò il capitano Hod, — le grandi città sono
belle, ma le grandi pianure, le grandi jungle, sono migliori!
Continuando a seguire a questo modo le linee ferroviarie finiremmo
con lo scorrervi sopra, e il nostro Gigante d'Acciaio verrebbe
declassato a semplice locomotiva! Che decadenza!
— Rassicuratevi, Hod, — rispose l'ingegnere, — questo non
accadrà. Ben presto ci spingeremo nei vostri territori prediletti.
— Dunque, Banks, andremo direttamente alla frontiera
indocinese, senza attraversare Lucknow?
— Il mio parere è di evitare questa città, e soprattutto Cawnpore,
troppo piena di funesti ricordi per il colonnello Munro.
— Avete ragione, — risposi, — e non ne passeremo mai
abbastanza lontani!
— Ditemi, Banks, — domandò il capitano Hod, — durante la
vostra visita a Bénares non avete sentito dire nulla riguardo a Nana
Sahib?
— Nulla, — rispose l'ingegnere. — È probabile che il governatore
di Bombay sia stato tratto in errore ancora una volta, e che il Nana
non sia mai riapparso nella presidenza di Bombay.
— È probabile, effettivamente, — rispose il capitano, — perché
altrimenti quell'ex ribelle avrebbe già fatto parlare di sé.
— Ad ogni modo, — disse Banks, — mi preme lasciare questa
valle del Gange, che è stata teatro di tanti disastri durante
l'insurrezione dei Cipay, da Allahabad fino a Cawnpore. Ma
soprattutto, che il nome di questa città come quello di Nana Sahib
non vengano mai proferiti davanti al colonnello! Lasciamolo padrone
dei suoi pensieri.
Il giorno seguente, Banks volle accompagnarmi ancora durante le
poche ore che avrei dedicato alla visita di Allahabad. Forse ci
sarebbero voluti tre giorni per visitare bene le tre città che la
compongono, ma, in fondo, essa è meno bizzarra di Bénares, benché
anch'essa rientri fra le città sante.
Della città indù, non c'è niente da dire. È un agglomerato di case
basse, separate da vie strette, dominate qua e là da tamarindi
magnifici.
Della città inglese e degli accantonamenti, pure niente. Bei viali
fiancheggiati da begli alberi, ricche abitazioni, piazze larghe, tutti gli
elementi d'una città destinata a diventare una grande capitale.
Il tutto è situato in un'ampia pianura, limitata a nord e a sud dal
doppio corso del Jumna e del Gange. Si chiama «la pianura delle
Elemosine», perché i principi indù vi sono venuti in ogni tempo a
fare opere di carità. Stando a ciò che ne riferisce il signor Rousselet,
che cita un passo della Vita di Hionen Thsang, «è più meritorio dare
una sola moneta in questo luogo che non centomila altrove».
Il Dio dei cristiani, invece, si limita a rendere il cento per uno; è
cento volte meno, senza dubbio, ma m'ispira maggior fiducia.
Una parola sul forte di Allahabad, che è originale da visitare. È
costruito a ovest della grande pianura delle Elemosine, e si disegna
arditamente con le sue alte mura d'arenaria rossa, dalle quali i
proiettili possono, concedetemi la espressione, «fiaccare le braccia»
ai due fiumi. Al centro del forte c'è un palazzo, diventato ora
arsenale, ma un tempo residenza preferita del sultano Akbar (in uno
degli angoli, il Lât di Feroze-Schachs, superbo monolito di trentasei
piedi, che sostiene un leone), poco lontano, un tempietto, che gli
indù, ai quali è vietato l'accesso al forte, non possono visitare, benché
sia uno dei luoghi più sacri del mondo: ecco i punti principali della
fortezza che richiamano l'attenzione dei turisti.
Banks mi disse che anche il forte di Allahabad aveva la sua
leggenda, che ricorda la leggenda biblica, relativa alla ricostruzione
del tempio di Salomone a Gerusalemme.
Quando il sultano volle costruire il forte di Allahabad, sembra che
le pietre vi si mostrassero contrarie. Appena un muro era stato eretto,
subito crollava. Verme consultato l'oracolo; e l'oracolo rispose, come
sempre, che ci voleva una vittima volontaria per scongiurare la mala
sorte. Un indù si offerse in olocausto; egli fu sacrificato, e il forte
venne terminato. Quell'indù si chiamava Brog, ed ecco perché la città
viene ancora oggi designata con il doppio nome di Brog-Allahabad.
Banks mi condusse poi nei giardini di Khusru, che sono celebri e
che meritano la loro celebrità. Sotto l'ombra dei più bei tamarindi del
mondo, vi sorgono molti mausolei maomettani. Uno di essi è
l'estrema dimora del sultano di cui questi giardini portano il nome.
Su uno dei muri di marmo bianco è impresso il palmo di una enorme
mano, che ci venne mostrato con una compiacenza che non avevamo
osservato quando ci furono fatte vedere le sacre impronte di Gaya.
È vero che questa non era l'orma del piede di un dio, bensì quella
della mano di un semplice mortale, pronipote di Maometto.
Durante l'insurrezione del 1857, il sangue non fu risparmiato ad
Allahabad più che alle altre città della valle del Gange. La battaglia
data dall'esercito reale ai ribelli, sul campo di manovre di Bénares,
provocò il sollevamento delle truppe indigene, e particolarmente la
rivolta del 6° reggimento dell'esercito del Bengala. Otto alfieri
furono trucidati, inizialmente; ma, grazie all'atteggiamento energico
di alcuni artiglieri europei, che appartenevano al corpo degli invalidi
di Chunar, i Cipay finirono col deporre le armi.
Negli accantonamenti, la cosa fu più seria. Gli indigeni si
sollevarono, le prigioni vennero aperte, i docks saccheggiati, le
abitazioni europee incendiate. Mentre avveniva ciò, giunse, dopo
aver ristabilito l'ordine a Bénares, il colonnello Neil con il suo
reggimento e cento fucilieri del reggimento di Madras. Egli riprese
agli insorti il ponte di barche, espugnò i sobborghi della città nella
giornata del 18 giugno, disperse i membri di un governo provvisorio
che un musulmano aveva installato, e ridivenne padrone della
provincia.
Durante questa breve escursione ad Allahabad, Banks e io
osservammo con cura se fossimo seguiti come lo eravamo stati a
Bénares, ma questa volta non notammo nulla di sospetto.
— Non importa, — mi disse l'ingegnere, — bisogna sempre
diffidare! Avrei voluto passare in incognito, dato che il nome del
colonnello Munro è troppo noto agli indigeni di questa provincia.
Alle sei eravamo di ritorno per il desinare. Sir Edward Munro, che
aveva lasciato l'accampamento per un'ora o due, era già ritornato e ci
aspettava. Il capitano Hod, che era andato a far visita ad alcuni suoi
compagni di guarnigione negli accantonamenti, rientrava quasi
insieme con noi.
Osservai allora, e feci osservare a Banks, che il colonnello Munro
sembrava non più triste, ma più pensieroso del solito. Mi sembrava
di sorprendere nei suoi sguardi un fuoco che le lacrime avrebbero
dovuto avervi spento da un pezzo!
— Avete ragione, — mi rispose Banks, — c'è qualche cosa! Che è
accaduto dunque?
— Se lo domandaste a Mac Neil? — dissi.
— Sì, Mac Neil forse saprà...
E l'ingegnere, lasciando il salotto, andò ad aprire la porta della
cabina del sergente.
Il sergente non c'era.
— Dov'è Mac Neil? — chiese Banks a Goûmi, che si preparava a
servirci a tavola.
— Ha lasciato l'accampamento, — rispose Goûmi.
— Da quando?
— Da un'ora circa, e per ordine del colonnello Munro.
— Non sapete dove sia andato?
— No, signor Banks, e non saprei perché sia partito.
— Non c'è stato nulla di nuovo durante la nostra assenza?
— Nulla.
Banks ritornò, mi disse dell'assenza del sergente per un motivo
che nessuno conosceva, e ripetè:
— Non so che cosa ci sia, ma qualche cosa c'è di certo!
Aspettiamo. Ci mettemmo a tavola. Di solito il colonnello Munro
prendeva parte alla conversazione durante il pasto. Gli piaceva farsi
narrare le nostre escursioni, e si interessava a tutto ciò che avevamo
fatto durante la giornata. Io avevo cura di non parlargli mai di ciò che
poteva ricordargli, anche da lontano, l'insurrezione dei Cipay. Credo
che se ne rendesse conto, ma mi era grato del mio riserbo? La cosa,
del resto, era abbastanza difficile quando si trattava di città, come
Bénares ed Allahabad, che erano state teatro di episodi
insurrezionali.
Oggi, e proprio durante il pranzo, potevo dunque temere d'essere
costretto a parlare di Allahabad. Inutile timore. Il colonnello Munro
non interrogò né Banks né me sull'impiego della nostra giornata.
Rimase zitto per tutto il tempo del pasto. La sua preoccupazione
sembrava anzi crescere a mano a mano. Egli guardava di frequente
verso la strada che porta agli accantonamenti, e credo anzi che più
d'una volta fu sul punto di alzarsi da tavola per veder meglio in
quella direzione. Era evidentemente il ritorno del sergente Mac Neil
che sir Edward aspettava con impazienza.
Il pranzo fu dunque piuttosto triste. Il capitano Hod interrogava
Banks con lo sguardo, per domandargli che cosa ci fosse. Ma Banks
non ne sapeva più di lui.
Terminato il pranzo, il colonnello Munro, invece di rimanere a far
la siesta, secondo la sua abitudine, scese il predellino della veranda,
fece alcuni passi sulla strada, vi diede per l'ultima volta un lungo
sguardo, poi, rivolgendosi a noi:
— Banks, Hod, e anche voi, Maucler, — disse, — vorreste
accompagnarmi fino alle prime case degli accantonamenti?
Lasciammo immediatamente la tavola, seguendo il colonnello,
che camminava lentamente, senza pronunciar parola.
Dopo aver fatto un centinaio di passi, sir Edward Munro si arrestò
davanti a un palo eretto sulla destra della strada, e sul quale era
attaccato un manifesto.
— Leggete, — disse.
Era l'affisso, oramai vecchio di due mesi, che metteva una taglia
sulla testa del nababbo Nana Sahib e denunciava la sua presenza
nella presidenza di Bombay.
Banks e Hod non poterono trattenere un gesto di disappunto. Fino
allora, tanto a Calcutta quanto durante il viaggio, erano riusciti a
evitare che quel manifesto cadesse sotto gli occhi del colonnello.
Uno spiacevole scherzo del caso faceva andare a vuoto tutte le loro
precauzioni.
— Banks, — disse sir Edward Munro, afferrando la mano
dell'ingegnere, — tu conoscevi questo manifesto?
Banks non rispose.
— Sapevi, due mesi or sono, — soggiunse il colonnello, — che la
presenza di Nana Sahib era stata segnalata nella presidenza di
Bombay e non mi hai detto nulla!
Banks rimaneva in silenzio, senza sapere che cosa rispondere.
— Ebbene, si, colonnello, — esclamò il capitano Hod, — si, lo
sapevamo, ma perché dirvelo? Chi prova che il fatto annunciato da
questo manifesto sia vero, e a quale scopo richiamare alla vostra
mente dei ricordi che vi fanno tanto male?
— Banks, — esclamò il colonnello Munro, il cui volto si era quasi
trasformato, — hai dunque dimenticato che è a me, a me più che a
ogni altro, che spetta di far giustizia di quest'uomo! Sappi questo: se
ho acconsentito a lasciare Calcutta, è perché questo viaggio doveva
ricondurmi verso il nord dell'India, è perché non ho creduto un
giorno solo alla morte di Nana Sahib, è perché non ho mai
dimenticato i miei doveri di giustiziere! Partendo con voi, non ho
avuto che un'idea, una speranza. Ho fatto assegnamento, per
avvicinarmi al mio scopo, sui casi fortuiti del viaggio e sull'aiuto di
Dio! Ho avuto ragione! Dio mi ha portato davanti a questo
manifesto! Non è più a nord che bisogna andare a cercare Nana
Sahib, è a sud! Sta bene, andrò a sud!
I nostri presentimenti non ci avevano dunque ingannato! Era fin
troppo vero! Un pensiero nascosto, o, meglio ancora, un'idea fissa,
dominava tuttora, dominava più che mai il colonnello Munro. Egli
ora ce l'aveva manifestata completamente.
— Munro, — rispose Banks, — se non ti ho detto nulla, è perché
non credevo alla presenza di Nana Sahib nella presidenza di
Bombay. Le autorità, non c'è dubbio, sono state ingannate ancora una
volta. Infatti, questo manifesto porta la data del 6 marzo, e da quel
giorno nulla è venuto a confermare la notizia della comparsa del
nababbo.
Il colonnello Munro dapprima non rispose a questa osservazione
dell'ingegnere. Gettò ancora un ultimo sguardo sulla via. Poi:
— Amici miei, — disse, — ora saprò come stanno le cose; Mac
Neil è andato ad Allahabad con una lettera per il governatore. Fra
poco saprò se Nana Sahib è veramente riapparso in una delle
province occidentali, se vi è ancora, o se è scomparso.
— E se è stato veduto, se il fatto è indubitabile, che cosa farai,
Munro? — domandò Banks, afferrando la mano del colonnello.
— Partirò! — rispose sir Edward Munro. — Andrò dappertutto
dove è mio dovere andare!
— È assolutamente deciso, Munro?
— Sì, Banks, assolutamente. Voi continuerete il vostro viaggio
senza di me, amici miei... Questa sera stessa prenderò il treno di
Bombay.
— Sta bene, ma non andrai solo! — rispose l'ingegnere
volgendosi verso di noi. — Munro, noi ti accompagneremo!
— Sì, si, colonnello! — esclamò il capitano Hod. — Non vi
lasceremo partire senza di noi. Invece di andare a caccia di belve,
ebbene, andremo a caccia di furfanti!
— Colonnello Munro, — aggiunsi, — spero che mi permetterete
di unirmi al capitano e ai vostri amici!
— Sì, Maucler, — rispose Banks, — e questa sera stessa
lasceremo tutti Allahabad...
— Inutile! — disse una voce grave.
Ci voltammo. Il sergente Mac Neil ci stava davanti con un
giornale in mano.
— Leggete, colonnello, — disse. — Ecco ciò che il governatore
mi ha detto di mostrarvi.
E sir Edward Munro lesse quanto segue:
«Il governatore della presidenza di Bombay porta a conoscenza
del pubblico che il manifesto del 6 marzo scorso, concernente il
nababbo Dandu-Pant, deve essere considerato ormai come privo
d'oggetto. Ieri, Nana Sahib, assalito nelle gole dei monti Sautpurra,
dove si era rifugiato con i suoi, è stato ucciso nella lotta. Non vi è
alcun dubbio possibile sulla sua identità; egli è stato riconosciuto da
alcuni abitanti di Cawnpore e di Lucknow. Gli mancava un dito della
mano sinistra, e si sa che Nana Sahib si era amputato un dito nel
momento in cui, mediante false esequie, volle far credere alla sua
morte. Il regno d'India non ha dunque più nulla da temere dalle
manovre del crudele nababbo che gli è costato tanto sangue».
Il colonnello Munro aveva letto queste righe con voce sorda, poi
lasciò cadere il giornale.
Noi restammo in silenzio. La morte di Nana Sahib, questa volta
indiscutibile, ci liberava da ogni timore per l'avvenire.
Il colonnello Munro, dopo alcuni minuti, si passò la mano sugli
occhi come per cancellare degli orribili ricordi, poi:
— Quando dobbiamo lasciare Allahabad? — domandò.
— Domani, all'alba — rispose l'ingegnere.
— Banks, — soggiunse il colonnello Munro, — non possiamo
fermarci qualche ora a Cawnpore?
— Lo vuoi?...
— Sì, Banks, vorrei... voglio rivedere ancora una volta... un'ultima
volta Cawnpore!
— Vi saremo fra due giorni, — rispose semplicemente
l'ingegnere.
— E dopo?... — soggiunse il colonnello Munro.
— Dopo?... — rispose Banks, — continueremo la nostra
spedizione verso il nord dell'India.
— Sì... a nord! a nord!... — disse il colonnello con una voce che
mi commosse fino in fondo al cuore.
Davvero, c'era da credere che sir Edward Munro conservasse
ancora qualche dubbio sul risultato di quell'ultima lotta fra Nana
Sahib e gli agenti dell'autorità inglese. Aveva ragione davanti a ciò
che sembrava essere così evidente?
L'avvenire ce lo dirà.
CAPITOLO X
VIA DOLOROSA
IL REGNO di Oudh era un tempo uno dei più importanti della
penisola, e oggi è ancora uno dei più ricchi dell'India. Esso ebbe
sovrani potenti e sovrani deboli. La debolezza di uno di loro, WajadAli-Schah, causò l'annessione del suo regno al dominio della
Compagnia, il 6 febbraio 1857. Come si vede, ciò avveniva solo
pochi mesi prima dell'insurrezione; ed è precisamente su questo
territorio che furono commesse le stragi più orrende, seguite dalle più
terribili rappresaglie.
Due nomi di città sono rimasti tristamente celebri a quel tempo,
Lucknow e Cawnpore.
Lucknow è la capitale, Cawnpore è una delle principali città
dell'ex regno.
È a Cawnpore che voleva andare il colonnello Munro, ed è là che
arrivammo la mattina del 29 maggio, dopo aver seguito la riva destra
del Gange, attraverso una pianura su cui si stendevano immensi
campi d'indaco. Per due giorni il Gigante d'Acciaio aveva camminato
a una velocità media di tre leghe all'ora, superando così i
duecentocinquanta chilometri che separano Cawnpore da Allahabad.
Eravamo allora a circa mille chilometri da Calcutta, nostro punto
di partenza.
Cawnpore è una città di circa sessantamila abitanti. Occupa sulla
riva destra del Gange una striscia di terreno lunga cinque miglia. Vi
si trova un accantonamento militare nel quale sono acquartierati
settemila uomini.
Il turista cercherebbe invano, in questa città, qualche monumento
degno di attirare la sua attenzione, benché essa sia d'origine
antichissima e anteriore, a quanto si dice, all'era cristiana. Nessun
sentimento di curiosità ci avrebbe dunque condotti a Cawnpore; solo
la volontà di sir Edward Munro ci aveva guidati.
La mattina del 30 maggio avevamo lasciato il nostro
accampamento; Banks, il capitano Hod e io, seguivamo il colonnello
e il sergente Mac Neil lungo quella via dolorosa, di cui sir Edward
Munro aveva voluto rifare una ultima volta le stazioni.
Ecco quanto bisogna sapere, e quanto dirò brevemente, riferendo
il racconto che Banks mi aveva fatto.
— Cawnpore, che aveva una guarnigione di truppe sicurissime al
momento dell'annessione del regno di Oudh, all'inizio
dell'insurrezione non contava più di duecentocinquanta soldati
dell'esercito reale contro tre reggimenti indigeni di fanteria, il 1°, il
53° e il 56°, due reggimenti di cavalleria e una batteria d'artiglieria
dell'esercito del Bengala. Inoltre vi si trovavano un numero
abbastanza grande di europei, impiegati, funzionari, negozianti, e,
per di più, ottocentocinquanta fra donne e bambini del 32°
reggimento dell'esercito reale, che era di stanza a Lucknow.
«Da molti anni il colonnello Munro abitava a Cawnpore. Fu là che
conobbe la giovane che fece sua sposa.
«Miss Laurence Honlay era una giovane inglese leggiadra,
intelligente, di indole elevata, nobile cuore, natura eroica, degna
d'essere amata da un uomo come il colonnello, che l'ammirava e
l'adorava. Ella abitava con sua madre in un bungalow nei dintorni
della città, e fu là, nel 1855, che Edward Munro la sposò.
«Due anni dopo il suo matrimonio, nel 1857, quando scoppiarono
i primi atti della rivolta a Mirat, il colonnello Munro dovette
raggiungere il suo reggimento senza perdere un giorno. Egli fu
dunque costretto a lasciare sua moglie e sua suocera a Cawnpore,
raccomandando loro di fare immediatamente i preparativi di partenza
per Calcutta. Il colonnello Munro pensava che Cawnpore non fosse
sicura, ahimè! e i fatti avevano in seguito giustificato i suoi
presentimenti.
«La partenza di mistress Honlay e di lady Munro subì dei ritardi
che ebbero conseguenze nefaste. Le sventurate donne furono
sorprese dagli avvenimenti e non poterono lasciare Cawnpore.
«La divisione era allora comandata dal generale sir Hugh
Wheeler, soldato retto e leale, che doveva essere ben presto vittima
delle astute manovre di Nana Sahib.
«Il nababbo occupava allora, a dieci miglia da Cawnpore, il suo
castello di Bilhur, e da un pezzo fingeva di vivere nei migliori
rapporti con gli europei.
«Sapete, caro Maucler, che i primi tentativi dell'insurrezione
vennero fatti a Mirat e a Delhi. La notizia ne giunse il 14 maggio a
Cawnpore, e in quello stesso giorno il 1° reggimento dei Cipay
manifestava intenzioni ostili.
«Fu allora che Nana Sahib offrì al governo i suoi buoni uffici. Il
generale Wheeler fu tanto ingenuo da credere alla buona fede di quel
furfante, le cui truppe personali vennero subito a occupare gli edifici
della Tesoreria.
«Lo stesso giorno, un reggimento irregolare di Cipay, di
passaggio a Cawnpore, trucidava i suoi ufficiali europei addirittura
alle porte della città.
«Il pericolo apparve allora qual era, immenso. Il generale Wheeler
ordinò a tutti gli europei di rifugiarsi nella caserma in cui abitavano
le donne e i bambini del 32° reggimento di Lucknow, caserma situata
nel punto più vicino alla strada di Allahabad, la sola per la quale i
soccorsi avrebbero potuto arrivare.
«È là che lady Munro e sua madre dovettero chiudersi. Per tutta la
durata di quella prigionia, la giovane donna mostrò una dedizione
illimitata per i suoi compagni di sventura. Li curò con le proprie
mani, li aiutò con il proprio denaro, li incoraggiò con il proprio
esempio e con le proprie parole, si mostrò quella che era, un gran
cuore, e, come vi ho detto, una donna eroica.
«Frattanto non si tardò ad affidare l'arsenale alla custodia dei
soldati di Nana Sahib.
«Il traditore inalberò allora la bandiera dell'insurrezione, e, dietro
sua pressante richiesta, il 7 giugno i Cipay assalirono la caserma, che
non aveva trecento soldati validi per difenderla.
«Tuttavia quei coraggiosi si difesero, sotto il fuoco degli
assedianti, sotto la pioggia dei loro proiettili, fra malattie d'ogni
genere, morenti di fame e di sete, senza viveri, perché le provviste
erano insufficienti, senz'acqua, poiché i pozzi in breve si
prosciugarono.
«Quella resistenza durò fino al 27 giugno.
«Nana Sahib propose allora una capitolazione, alla quale il
generale Wheeler commise l'imperdonabile colpa di sottoscrivere,
benché lady Munro lo scongiurasse di continuare la lotta.
«In seguito a tale capitolazione, uomini, donne e fanciulli,
cinquecento persone circa (lady Munro e sua madre ne facevano
parte) furono imbarcate su alcune barche che dovevano ridiscendere
il Gange e ricondurle ad Allahabad.
«Le barche si sono appena staccate dalla riva, che il fuoco viene
aperto dai Cipay. Una vera grandine di proiettili e di mitraglia!
Alcune affondarono, altre furono incendiate. Una, però, riuscì a
ridiscendere il fiume per qualche miglio.
«Lady Munro e sua madre erano su quella barca. Esse poterono
credere per un istante di essere salve. Ma i soldati del Nana le
inseguirono, le ripresero e le ricondussero negli accantonamenti.
«Là, venne fatta una scelta fra i prigionieri. Tutti gli uomini
furono immediatamente passati per le armi. Quanto alle donne e ai
bambini, furono uniti agli altri bambini e alle altre donne, che non
erano stati trucidati il 27 giugno.
«In tutto erano duecento vittime, alle quali era riservata una lunga
agonia, e che furono chiuse in un bungalow, il cui nome, Bibi-Ghar,
è rimasto tristamente celebre.»
— Ma come avete saputo questi orribili particolari? — domandai
a Banks.
— Tramite un vecchio sergente del 32° reggimento dell'esercito
reale, — mi rispose l'ingegnere. — Quest'uomo, sfuggito per
miracolo, fu accolto dal rajah di Raischwarah, una delle province del
regno di Oudh, il quale lo ricevette insieme con alcuni altri fuggitivi,
con la più grande umanità.
— E di lady Munro e di sua madre, che avvenne?
— Caro amico, — mi rispose Banks — non abbiamo più la
testimonianza diretta di quanto avvenne da quel momento, ma è fin
troppo facile congetturarlo. Infatti, i Cipay erano i padroni di
Cawnpore. Lo furono fino al 15 luglio, e durante quei diciannove
giorni, diciannove secoli!, le misere vittime aspettarono di ora in ora
un soccorso che doveva giungere troppo tardi.
«Già da qualche tempo il generale Havelock, partito da Calcutta,
avanzava in aiuto di Cawnpore, e, dopo aver battuto i ribelli molte
volte, vi entrava il 17 luglio.
«Ma, due giorni prima, quando Nana Sahib seppe che le truppe
reali avevano passato il fiume Pandu-Naddi, decise di rendere
memorabili con eccidi spaventosi le ultime ore della sua
occupazione. Tutto gli sembrava permesso nei confronti degli
invasori dell'India!
«Alcuni prigionieri, che avevano condiviso la cattività delle
prigioniere del Bibi-Ghar, gli furono condotti davanti e sgozzati sotto
i suoi occhi.
«Rimaneva la massa di donne e fanciulli, e, in quella massa, lady
Munro e sua madre. Un plotone del 6" reggimento di Cipay ricevette
l'ordine di fucilare tutti attraverso le finestre del Bibi-Ghar.
L'esecuzione cominciò, ma siccome non procedeva con la rapidità
che il Nana, costretto a battere in ritirata, avrebbe voluto, questo
principe sanguinario aggiunse dei macellai musulmani ai soldati
della sua guardia... Fu la carneficina di un macello!
«Il giorno dopo, morti o vivi, bambini e donne venivano
precipitati in un pozzo vicino, e quando giunsero i soldati di
Havelock quel pozzo, colmo di cadaveri fino all'orlo, fumava ancora!
«Allora incominciarono le rappresaglie. Un certo numero di
ribelli, complici di Nana Sahib, erano caduti nelle mani del generale
Havelock. Questi emise il seguente terribile ordine del giorno, di cui
non dimenticherò mai i termini:
«"Il pozzo nel quale riposano le spoglie mortali delle povere
donne e dei fanciulli trucidati per ordine del miscredente Nana Sahib
verrà colmato e coperto con cura in forma di tomba. Un
distaccamento di soldati europei, comandato da un ufficiale,
adempirà stasera a questo pietoso dovere. La casa e le camere in cui
l'eccidio ha avuto luogo non verranno pulite o imbiancate dai
compatrioti delle vittime. Il generale ordina che ogni goccia del
sangue innocente venga pulita o leccata con la lingua dai condannati
prima dell'esecuzione, proporzionalmente al loro grado di casta e alla
parte che hanno avuto nell'eccidio. Di conseguenza, dopo aver
ascoltato la lettura della sentenza di morte, ogni condannato verrà
condotto nella casa del massacro e costretto a pulire una data parte
del pavimento. Si avrà cura di rendere tale operazione il più
rivoltante possibile per i sentimenti religiosi del condannato, e il
maresciallo preposto non risparmierà lo staffile, se sarà necessario.
Terminata l'operazione, la sentenza verrà eseguita alla forca eretta
presso la casa".
«Questo fu», soggiunse commosso Banks, «l'ordine del giorno.
Esso fu eseguito in tutte le sue prescrizioni. Ma le vittime non erano
più. Erano state trucidate, mutilate, lacerate! Quando il colonnello
Munro, giunto due giorni dopo, volle tentare di riconoscere qualche
avanzo di lady Munro e di sua madre, non trovò nulla... nulla!».
Ecco quanto mi aveva raccontato Banks, prima del nostro arrivo a
Cawnpore, ed era verso il luogo di quello spaventoso eccidio che si
dirigeva il colonnello.
Ma, prima, egli volle rivedere il bungalow dove aveva abitato lady
Munro, dove ella aveva passato la giovinezza, quell'abitazione in cui
egli l'aveva vista per l'ultima volta, quella soglia sulla quale egli
aveva ricevuto i suoi ultimi baci.
Quel bungalow era costruito un po' fuori dei sobborghi della città,
non lontano dalla linea degli accantonamenti militari. Alcuni ruderi,
dei pezzi di muro ancora anneriti, qualche albero abbattuto e secco,
ecco tutto quello che rimaneva dell'abitazione. Il colonnello non
aveva permesso che nulla venisse riparato. Il bungalow era, dopo sei
anni, così come lo aveva ridotto la mano degli incendiari.
Passammo un'ora in quel luogo desolato. Sir Edward Munro
camminava silenziosamente attraverso quelle rovine, da cui
uscivano, per lui, tanti ricordi. Il suo pensiero rievocava tutta
quell'esistenza di felicità che nulla ormai poteva rendergli. Egli
rivedeva la giovane, felice, in quella casa nella quale era nata, dove
egli l'aveva conosciuta, e, talvolta, chiudeva gli occhi come per
rivederla meglio!
Ma alla fine, bruscamente, come se avesse dovuto fare violenza a
se stesso, ritornò indietro e ci trascinò fuori.
Banks aveva sperato che il colonnello si limitasse a visitare il
bungalow... Ma no! Sir Edward Munro aveva deciso di esaurire fino
all'ultimo le amarezze che gli serbava quella funesta città! Dopo
l'abitazione di lady Munro, volle rivedere la caserma in cui tante
vittime, alle quali l'energica donna si era così eroicamente dedicata,
avevano subito tutti gli orrori d'un assedio.
La caserma era posta nella pianura, fuori della città, e sulla sua
area, là dove la popolazione di Cawnpore aveva dovuto cercar
rifugio, si costruiva allora una chiesa. Per arrivarvi, seguimmo una
via asfaltata, ombreggiata da begli alberi.
È là che si era compiuto il primo atto dell'orribile tragedia. Là
avevano vissuto, sofferto, agonizzato, lady Munro e sua madre, fino
al momento in cui la capitolazione mise nelle mani di Nana Sahib
quella torma di vittime, già destinate a uno spaventoso massacro, e
che il traditore aveva promesso di far condurre sane e salve ad
Allahabad.
Intorno alla costruzione non ancora ultimata, si distinguevano
degli avanzi di muri di mattoni, ruderi di quelle opere di difesa che
erano state erette dal generale Wheeler. 17
Il colonnello Munro rimase a lungo immobile e silenzioso davanti
a quei ruderi. Alla sua memoria si presentavano più vivamente le
orribili scene di cui essi erano stati teatro. Dopo il bungalow in cui
lady Munro aveva vissuto felice, la caserma nella quale ella aveva
sofferto più di quanto è possibile immaginare!
Rimaneva da visitare il Bibi-Ghar, l'abitazione di cui il Nana fece
una prigione, dove si apriva il pozzo in fondo al quale le vittime
erano state confuse nella morte.
Quando Banks vide il colonnello dirigersi da quella parte, gli
prese il braccio come per trattenerlo.
Sir Edward Munro lo guardò bene in faccia, e con voce
orribilmente pacata:
— Andiamo! — disse.
17
Da quel tempo, la chiesa commemorativa è stata terminata. Sulle lapidi di
marmo, alcune iscrizioni ricordano i tecnici della ferrovia East Indian che
morirono di malattia o per ferite durante la grande insurrezione del 1857, gli
ufficiali, sergenti e soldati del 34° reggimento dell'esercito reale uccisi nel
combattimento del 17 novembre davanti a Cawnpore, il capitano Stuart Beatson,
gli ufficiali, gli uomini e le donne del 32° reggimento, morti durante gli assedi di
Lucknow e di Cawnpore o durante l'insurrezione, infine i martiri del Bibi-Ghar,
trucidati nel luglio 1857. (N.d.A)
— Munro, te ne prego!...
— Allora andrò solo. Non c'era da resistere.
Ci siamo allora diretti verso il Bibi-Ghar, davanti al quale vi sono
dei giardini ben disegnati e pieni d'alberi bellissimi.
Là si erge un porticato di stile gotico, di forma ottagonale. Esso
circonda il luogo nel quale si apriva il pozzo e la cui bocca è ora
chiusa da un rivestimento di pietre. Forma una specie di base su cui è
posta una statua di marmo bianco, l'Angelo della Pietà, una delle
ultime opere dovute allo scalpello dello scultore Marocchetti.
Fu lord Canning, governatore generale dell'India durante la
terribile insurrezione del 1857, che fece erigere quel monumento
espiatorio, costruito su disegno del colonnello del genio Yule, e che
volle addirittura pagarlo di tasca propria.
Davanti a quel pozzo in cui le due donne, madre e figlia, dopo
essere state colpite dai macellai di Nana Sahib, erano state
precipitate, forse ancora vive, sir Edward Munro non poté trattenere
le lacrime. Egli cadde in ginocchio sulla pietra del monumento.
Il sergente Mac Neil, accanto a lui, piangeva in silenzio.
Avevamo tutti il cuore spezzato, non trovando nulla da dire per
placare quel dolore inconsolabile, sperando che sir Edward Munro
esaurisse là le ultime lacrime dei suoi occhi!
Ah! se egli fosse stato uno di quei primi soldati dell'esercito reale
che entrarono a Cawnpore, che penetrarono in quel Bibi-Ghar dopo
lo spaventoso massacro, sarebbe morto di dolore!
Infatti, ecco quanto riferisce uno degli ufficiali inglesi, narrazione che venne raccolta dal signor Rousselet:
«Appena entrati in Cawnpore, corremmo in cerca delle povere
donne che sapevamo essere nelle mani dell'odioso Nana, ma presto
venimmo a sapere di quella orribile esecuzione. Torturati da una
terribile sete di vendetta e coscienti delle spaventose sofferenze che
avevano dovuto sopportare le infelici vittime, sentivamo risvegliarsi
in noi idee strane e selvagge. Furenti e quasi pazzi, corremmo verso
il triste luogo del martirio. Il sangue coagulato, frammisto ad avanzi
senza nome, copriva il suolo della piccola stanza in cui esse erano
state chiuse e ci arrivava alle caviglie. Lunghe trecce di capelli
lunghi e morbidi, lembi di vesti, scarpine di bambini, balocchi
ingombravano il suolo bagnato. I muri, imbrattati di sangue,
portavano le tracce dell'orribile agonia. Raccolsi un libriccino di
preghiere, sulla prima pagina del quale c'erano queste commoventi
scritte: "27 giugno, lasciato le barche... 7 luglio, prigionieri del
Nana... fatale giornata". Ma non erano questi i soli orrori che ci
attendevano. Molto più orribile ancora era la vista del pozzo
profondo e stretto in cui erano ammucchiati i resti mutilati di quelle
tenere creature!...»
Sir Edward Munro non era là nelle prime ore in cui i soldati di
Havelock si impadronivano della città! Egli giunse solamente due
giorni dopo l'odioso eccidio! Ed ora, non aveva davanti agli occhi
altro che l'area su cui si apriva il funesto pozzo, tomba senza nome
delle duecento vittime di Nana Sahib.
Questa volta, Banks, aiutato dal sergente, riuscì a trascinarlo via
con la forza.
Il colonnello Munro non doveva dimenticare mai queste due
parole che uno dei soldati di Havelock aveva inciso con la baionetta
sulla vera del pozzo:
«Remember Cawnpore!
Ricordati di Cawnpore!».
CAPITOLO XI
IL CAMBIAMENTO DI MONSONE
ALLE UNDICI eravamo di ritorno all'accampamento, e tutti
avevamo, lo si può ben comprendere, gran fretta di lasciare
Cawnpore; ma alcune riparazioni che si dovevano fare alla pompa
d'alimentazione della macchina non ci permettevano di partire prima
della mattina seguente.
Mi rimaneva dunque una mezza giornata. Credetti di non poterla
impiegare meglio che visitando Lucknow. Banks non intendeva
passare da questa città, nella quale il colonnello Munro si sarebbe
trovato su uno dei principali teatri della guerra. Aveva ragione!
Anche là vi erano ricordi troppo penosi per lui.
A mezzogiorno, dunque, dopo aver lasciata la Steam-House, presi
la piccola ferrovia secondaria che congiunge Cawnpore a Lucknow.
La distanza non supera una ventina di leghe, e in due ore giunsi in
questa importante capitale del regno di Oudh, alla quale non volevo
fare che una visita, tanto per averne un'idea.
Riconobbi, del resto, la verità di quanto avevo sentito dire a
proposito dei monumenti di Lucknow, costruiti sotto il regno degli
imperatori musulmani nel secolo XVII.
Fu un francese di Lione, un certo Martin, semplice soldato
dell'esercito di Lally-Tollendal, che, nel 1730, divenuto il favorito
del re, fu il creatore, l'ordinatore, si potrebbe dire l'architetto delle
pretese meraviglie della capitale di Oudh. La residenza ufficiale dei
sovrani, il Kaiserbâgh, eterogeneo miscuglio di tutti gli stili che
potevano uscire dalla fantasia di un caporale, è solamente un'opera di
apparenza. Niente all'interno, tutto all'esterno, ma questo esterno è
contemporaneamente indù, cinese, moresco e... europeo. Lo stesso si
può dire di un altro palazzo più piccolo, il Farid Bàkch, che è pure
opera del Martin. Quanto all'Imàmbara, costruito nel mezzo della
fortezza da Kaifiàtulla, che fu il primo architetto delle Indie nel
secolo XVII, è effettivamente superbo, e produce un effetto
grandioso con i mille piccoli campanili che adornano le sue cortine.
Non potevo lasciare Lucknow senza visitare il palazzo Costantino,
che è anch'esso opera personale del caporale francese, e porta il
nome di palazzo de la Martinière. Volli vedere anche il giardino
vicino, il Sikander Bagh, dove furono trucidati a centinaia i Cipay
che avevano violato la tomba dell'umile soldato prima di
abbandonare la città.
È il caso di aggiungere che il nome di Martin non è il solo nome
francese che venga onorato a Lucknow. Un ex sottufficiale dei
cacciatori d'Africa, di nome Duprat, si distinse talmente per il suo
coraggio durante l'insurrezione, che i ribelli gli offrirono di farlo loro
capo. Duprat rifiutò nobilmente, nonostante le ricchezze che gli
furono promesse, nonostante le minacce che gli vennero fatte.
Rimase fedele agli inglesi. Ma preso di mira in modo particolare dai
colpi dei Cipay che non avevano potuto fare di lui un traditore, egli
fu ucciso in uno scontro. — Cane infedele, — avevano detto i ribelli,
— ti avremo tuo malgrado! — Lo ebbero, ma morto.
I nomi di questi due soldati francesi erano dunque stati uniti nelle
medesime rappresaglie. I Cipay, che avevano violato la tomba
dell'uno e scavato quella dell'altro, furono trucidati senza pietà.
Finalmente, dopo aver ammirato i bellissimi parchi che fanno una
specie di cintura di verde e di fiori a questa grande città di
cinquecentomila abitanti, dopo aver percorso a dorso d'elefante le sue
vie principali e il suo magnifico boulevard dell'Hazrat Gaudj, ripresi
il treno e ritornai la sera stessa a Cawnpore.
Il giorno dopo, 31 maggio, eravamo in cammino fino dall'alba.
— Finalmente, — esclamò il capitano Hod, — l'abbiamo finita
dunque con le Allahabad, le Cawnpore e le Lucknow e altre città, di
cui a me non importa un fico!
— Sì, è finita, Hod, — rispose Banks, — e ora ci dirigeremo
direttamente verso nord, in modo da raggiungere quasi in linea retta
la base dell'Himalaya.
— Bravo! — replicò il capitano. — Quello che io chiamo l'India
per eccellenza, non sono le province irte di città o popolate di indù, è
il paese in cui vivono in libertà i miei amici elefanti, leoni, tigri,
pantere, leopardi, orsi, bufali, serpenti! Quella è la sola parte
veramente abitabile della penisola! Vedrete, Maucler, e non
rimpiangerete le meraviglie della valle del Gange!
— Non rimpiangerò nulla in vostra compagnia, caro capitano, —
risposi.
— Eppure, — disse Banks, — a nord-ovest ci sono ancora altre
città interessantissime, Delhi, Agra, Lahore...
— Eh! amico Banks, — esclamò Hod. — Chi ha mai sentito
parlare di queste borgate miserabili?
— Miserabili borgate! — replicò Banks. — Niente affatto, Hod,
sono città magnifiche! State tranquillo, caro amico, — aggiunse
l'ingegnere rivolgendosi a me, — cercheremo di mostrarvele senza
scompigliare i piani di campagna del capitano.
— Alla buon'ora, Banks, — rispose Hod, — ma è da oggi soltanto
che comincia il nostro viaggio.
Poi con voce forte:
— Fox! — gridò. L'attendente accorse.
— Presente! capitano, — disse.
— Fox, che i fucili, le carabine e le rivoltelle siano pronti!
— Sono pronti.
— Controlla le batterie.
— Sono controllate.
— Prepara le cartucce.
— Sono preparate.
— È tutto in ordine?
— Tutto.
— Allora, fa' che sia ancora più in ordine, se è possibile!
— Lo sarà.
— La trentottesima non tarderà a schierarsi su quella lista che
forma la tua gloria, Fox!
— La trentottesima! — esclamò l'attendente, nei cui occhi balenò
come un lampo. — Le preparerò una bella pallottola esplosiva di cui
certamente non potrà lamentarsi!
— Va', Fox, va'!
Fox salutò militarmente, fece dietro-front, e andò a chiudersi nel
suo arsenale.
Ecco ora l'itinerario di questa seconda parte del nostro viaggio,
itinerario che non deve essere modificato, a meno che non si
verifichino avvenimenti impossibili a prevedersi.
Per settantacinque chilometri circa, questo itinerario risale il corso
del Gange dirigendosi verso nord-ovest; ma, a partire da questo
punto, si raddrizza, corre diritto verso nord tra un affluente del gran
fiume e un altro affluente importante del Goùtmi. Evita così un certo
numero di corsi di acqua, che si disperdono a destra e a sinistra, e,
passando da Biswah, si alza obliquamente fino alle prime
ondulazioni dei rilievi del Nepal, attraverso la parte occidentale del
regno di Oudh e del Rohilkhand.
Questo percorso era stato scelto saggiamente dall'ingegnere, in
modo da evitare ogni difficoltà. Se diventava più difficile trovare il
carbone nel nord dell'Indostan, la legna non doveva mai mancare. Il
nostro Gigante d'Acciaio avrebbe potuto circolare facilmente, a
qualsiasi andatura, per quelle strade così ben tenute, attraverso le più
belle foreste della penisola indiana.
Ottanta chilometri circa ci separavano dalla cittadina di Biswah.
Si stabilì che li avremmo superati a velocità molto moderata, in sei
giorni. Questo avrebbe permesso di fermarsi quando la località ci
fosse piaciuta, e i cacciatori della spedizione avrebbero avuto il
tempo di compiere le loro prodezze. Del resto, il capitano Hod e il
suo attendente Fox, a cui si univa volentieri Goûmi, avrebbero potuto
facilmente andare in perlustrazione, mentre il Gigante d'Acciaio
avrebbe proceduto a piccoli passi. A me poi non era proibito di
accompagnarli nelle loro battute, benché fossi un cacciatore poco
esperto, e qualche volta andai con loro.
Devo dire che dal momento in cui il nostro viaggio entrò nella
nuova fase, il colonnello Munro si tenne un po' meno in disparte. Mi
sembrò che fuori delle città, in mezzo alle foreste e alle pianure,
lontano dalla valle del Gange che avevamo percorso, egli diventasse
più socievole. Pareva che in queste condizioni ritrovasse la vita
calma che conduceva a Calcutta. Eppure poteva dimenticare che la
sua casa ambulante si dirigeva verso quel nord dell'India dove lo
attirava una fatalità irresistibile? In ogni caso, la sua conversazione
era più animata durante i pasti, durante la siesta, e spesso anche nelle
ore di sosta, si prolungava molto in quelle belle notti che la stagione
calda ci dava ancora. Mac Neil, invece, dopo la visita al pozzo di
Cawnpore, mi sembrava più cupo del solito. La vista del Bibi-Ghar
aveva forse ravvivato in lui un odio che sperava ancora di saziare?
— Nana Sahib, — mi disse un giorno, — no, signore, no! non è
possibile che lo abbiano ucciso!
La prima giornata passò senza incidenti che valgano la pena
d'essere narrati. Né il capitano Hod né Fox ebbero occasione di
prendere di mira il minimo animale. Era desolante, e anche
straordinario al punto che ci si poteva chiedere se fosse l'apparizione
del Gigante d'Acciaio a tenere lontane le terribili belve di quelle
pianure. Infatti, si costeggiarono alcune jungle, rifugio abituale delle
tigri e di altri carnivori della razza felina. Non se ne mostrò uno solo.
Eppure i due cacciatori si erano scostati di un miglio o due ai lati del
nostro treno. Dovettero dunque rassegnarsi a condurre con loro Black
e Phann, per cacciare la piccola selvaggina, di cui il signor Parazard
reclamava la sua fornitura quotidiana. A questo proposito, il nostro
cuoco negro non voleva sentir ragioni, e quando l'attendente gli
parlava di tigri, di leopardi o di altre belve poco commestibili, alzava
sdegnosamente le spalle dicendo:
— Come se fosse roba che si mangia!
Quella sera ci accampammo al riparo di un gruppo di enormi
baniani. E anche la notte fu tranquilla quanto era stato calmo il
giorno. Il silenzio non fu turbato nemmeno dagli urli delle belve. Il
nostro elefante intanto riposava. Non si udivano più i suoi barriti. I
fuochi dell'accampamento erano spenti e, per soddisfare il capitano,
Banks non aveva nemmeno inserito la corrente elettrica che
trasformava gli occhi del Gigante d'Acciaio in due potenti fanali. Ma
nulla!
Lo stesso accadde durante le giornate dell'1 e del 2 giugno. Era
una cosa disperante.
— Mi hanno cambiato il mio regno di Oudh! — ripeteva il
capitano Hod. — Lo hanno trasportato in piena Europa! Qui non ci
sono più tigri di quante ce ne siano nelle basse terre della Scozia!
— È possibile, caro Hod, — rispose il colonnello Munro, — che
siano state fatte di recente delle battute su questi territori, e che gli
animali abbiano emigrato in massa. Ma non disperate, e aspettate che
siamo giunti ai piedi delle montagne del Nepal. Là avrete di che
esercitare utilmente i vostri istinti di cacciatore.
— Bisogna sperarlo, colonnello, — rispose, Hod, crollando il
capo — altrimenti non ci rimarrebbe che rifondere le nostre
pallottole per farne pallini!
La giornata del 3 giugno fu una delle più calde che avessimo
sopportate. Se la strada non fosse stata ombreggiata da grandi alberi,
credo che saremmo letteralmente cotti nella nostra casa ambulante. Il
termometro sali a 47° all'ombra, e non c'era un alito di vento. Era
dunque possibile che, con una temperatura simile, in quell'atmosfera
di fuoco, i carnivori non pensassero minimamente a lasciare le loro
tane, nemmeno durante la notte.
Il giorno dopo, 4 giugno, all'alba, l'orizzonte, per la prima volta, si
mostrò piuttosto velato di nebbia verso ovest. Avemmo allora il
magnifico spettacolo di uno di quei fenomeni di miraggio che, in
certe parti dell'India, si chiamano seekote o castelli aerei, e in altre
dessasur o illusioni.
Non era già l'apparenza di una massa d'acqua con i suoi curiosi
effetti di rifrazione che si stendeva davanti ai nostri sguardi, era tutta
una catena di colline poco elevate, cariche dei più fantastici castelli
del mondo, qualcosa come le alture d'una vallata del Reno, con le
loro antiche dimore di burgravi. Ci trovavamo in un istante
trasportati, non solo nella parte romanza della vecchia Europa, ma
cinque o seicento anni indietro, in pieno Medioevo.
Questo fenomeno, la cui nitidezza era sorprendente, ci dava
l'impressione di una assoluta realtà. Perciò il Gigante d'Acciaio che,
con tutti i suoi congegni dovuti alla meccanica moderna, camminava
verso una città dell'XI secolo mi sembrava molto più spaesato di
quando percorreva, tutto impennacchiato di fumo, il paese di Vishnu
e di Brahma.
— Grazie, signora natura! — esclamò il capitano Hod. — Dopo
tanti minareti e tante cupole, dopo tante moschee e pagode, ecco
qualche vecchia città del tempo feudale, con le meraviglie romaniche
o gotiche che mi mette sotto gli occhi!
— Come è poeta, stamattina, il nostro amico Hod! — rispose
Banks. — Prima di far colazione ha forse inghiottito qualche ballata?
— Ridete, Banks, scherzate, prendetemi in giro! — ribatté il
capitano Hod, — ma guardate! Ecco che gli oggetti si ingrandiscono
nei primi piani! Ecco che gli arbusti diventano alberi, le colline
diventano montagne, i...
— I gatti diventerebbero tigri, se ci fossero dei gatti, vero, Hod?
— Ah! Banks, non sarebbero da disprezzare!... Bene! — esclamò
il capitano — ecco i miei castelli del Reno che si sfasciano, la città
che crolla, e noi ricadiamo nel reale, un semplice paesaggio del regno
di Oudh, che nemmeno le belve vogliono più abitare!
Il sole, alzandosi sull'orizzonte orientale, aveva trasformato in un
istante gli scherzi della rifrazione. I castelli, da veri castelli di carte,
crollavano insieme con la collina, che si trasformava in pianura.
— Ebbene, dato che il miraggio è scomparso, — disse Banks — e
che con esso si è dissipata tutta la vena poetica del capitano Hod,
volete sapere, amici miei, che cosa fa presagire questo fenomeno?
— Dite, ingegnere! — esclamò il capitano.
— Un mutamento di tempo molto vicino, — rispose Banks. —
Del resto, siamo ai primi giorni di giugno, che provocano
modificazioni climatiche. Il cambiamento del monsone porterà la
stagione delle piogge periodiche.
— Caro Banks, — feci io, — siamo ben protetti, non è vero?
Ebbene, che venga la pioggia! Fosse anche il diluvio, mi sembra
preferibile a questi calori...
— Sarete soddisfatto, caro amico, — rispose Banks. — Credo che
la pioggia non sia lontana, e che fra poco vedremo salire le prime
nubi da sud-ovest.
Banks non s'ingannava. Verso sera, l'orizzonte occidentale
cominciò a coprirsi di vapori, il che indicava che il monsone, come
accade spesso, avrebbe cominciato a soffiare durante la notte. Era
l'oceano Indiano che ci mandava, attraverso la penisola, i suoi vapori
saturi di elettricità, come tanti grossi otri del dio Eolo, che
contenevano l'uragano e la tempesta.
Anche alcuni altri fenomeni, sui quali un anglo-indiano non
avrebbe potuto ingannarsi, si erano manifestati durante quella
giornata. Volute di polvere sottilissima avevano turbinato sulla strada
durante la marcia del treno. Il movimento delle ruote, delle ruote
della macchina e di quelle dei due vagoni, poco rapido del resto,
avrebbe certamente potuto sollevare della polvere, ma non con tanta
intensità. La si sarebbe detta una nuvola di quei pulviscoli che fa
danzare una macchina elettrica messa in azione. Il suolo poteva
dunque venire paragonato a un immenso condensatore, nel quale
l'elettricità si fosse raccolta da molti giorni. Inoltre, quella polvere
prendeva dei riflessi giallognoli, di effetto stranissimo, e in ogni
molecola brillava un piccolo centro luminoso. C'erano stati dei
momenti in cui tutto il nostro treno sembrava camminare in mezzo
alle fiamme, fiamme senza calore, ma che, né per il colore né per la
vivacità, ricordavano quelle dei fuochi di Sant'Elmo.
Storr ci raccontò che aveva visto alcune volte dei treni correre
così sulle loro rotaie fra una doppia siepe di polvere luminosa, e
Banks confermò le parole del meccanico. Per un quarto d'ora avevo
potuto osservare con molta esattezza questo bizzarro fenomeno
attraverso gli oblò della torretta, da dove dominavo la strada per un
tratto di cinque o sei chilometri. La via, senza alberi, era polverosa,
riscaldata a bianco dai raggi a perpendicolo del sole. In quel
momento mi parve che il calore dell'atmosfera superasse addirittura
quello del forno della macchina. Era veramente insostenibile, e
quando venni a respirare un'aria più fresca sotto le ali sventolanti
della punka, ero semisoffocato.
La sera, verso le sette, la Steam-House si fermò. La località della
sosta scelta da Banks fu il confine d'una foresta di magnifici baniani,
che sembrava estendersi all'infinito verso nord. Una strada
abbastanza bella la attraversava, e ci riprometteva per il giorno
successivo un tragitto più facile sotto le ampie e alte cupole di
verzura.
I baniani, giganti della flora indù, sono veri avi, potremmo dire
dei capifamiglia vegetali, circondati dai loro figli e dai loro nipotini.
Questi, slanciandosi da una radice comune, salgono dritti intorno al
tronco principale, da cui sono interamente staccati, e vanno a
perdersi fra gli altri rami paterni. Danno veramente la impressione di
essere covati sotto quel fitto fogliame, come i pulcini sotto le ali della
madre. Da ciò, il curioso aspetto che presentano queste foreste più
volte secolari. I vecchi alberi assomigliano a pilastri isolati, che
sostengono l'immensa volta, le cui sottili nervature si appoggiano su
dei giovani baniani, che diventeranno pilastri a loro volta.
Quella sera, l'accampamento fu allestito più accuratamente del
solito. Infatti, se la giornata seguente doveva essere calda quanto lo
era stata la precedente, Banks si proponeva di prolungare la sosta a
rischio di viaggiare durante la notte.
Il colonnello Munro non chiedeva di meglio che di passare alcune
ore in quella bella foresta così ombrosa e calma. Tutti erano stati del
suo parere, gli uni perché avevano veramente bisogno di riposo, gli
altri perché volevano cercare d'incontrare finalmente qualche
animale, degno della fucilata di un Anderson o di un Gerard. Si può
immaginare chi fossero questi ultimi.
— Fox, Goûmi, sono solo le sette! — gridò il capitano Hod. —
Facciamo un giro nella foresta prima che scenda la notte! Ci
accompagnerete, Maucler?
— Caro Hod, — disse Banks, prima che io potessi rispondere, —
fareste meglio a non allontanarvi dall'accampamento. Le minacce del
cielo sono serie. Se si scatena l'uragano, forse stenterete a
raggiungerci. Domani, se ci fermeremo in questa località, andrete...
— Domani sarà chiaro, — rispose il capitano Hod, — è adesso
l'ora propizia per tentare l'avventura!
— Lo so, Hod, ma la notte che si prepara non è davvero
rassicurante. In ogni caso, se volete assolutamente partire, non
allontanatevi. Fra un'ora sarà già molto buio, e potreste trovarvi
seriamente imbarazzati per ritrovare l'accampamento.
— State tranquillo, Banks. Sono appena le sette, e domando al
colonnello solo un permesso fino alle dieci.
— Andate dunque, caro Hod — rispose sir Edward Munro, — ma
tenete conto delle raccomandazioni di Banks.
— Sì, colonnello.
Il capitano Hod, Fox e Goûmi, armati di ottime carabine da
caccia, lasciarono l'accampamento, e scomparvero sotto gli alti
baniani che fiancheggiavano il lato destro della strada.
Il caldo mi aveva stancato tanto, durante quella giornata, che
preferii rimanere nella Steam-House.
Tuttavia, per ordine di Banks, i fuochi, invece di venir spenti del
tutto, furono soltanto spinti in fondo al forno, in modo da conservare
un'atmosfera o due di pressione nella caldaia. L'ingegnere voleva
essere, in ogni caso, pronto a tutto.
Storr e Kâlouth si occuparono allora di rinnovare il combustibile e
l'acqua. Un ruscelletto, che scorreva sul lato sinistro della strada,
fornì loro l'acqua necessaria e gli alberi vicini la legna di cui
avevamo bisogno per caricare il tender. Frattanto, il signor Parazard
si dedicava alle proprie occupazioni abituali, e mentre sparecchiava
gli avanzi del pranzo del giorno, meditava il menu del pranzo del
giorno dopo.
Era ancora abbastanza chiaro. Il colonnello Munro, Banks, il
sergente Mac Neil e io andammo a fare la siesta sulla riva del
ruscello. La corrente di quell'acqua limpida rinfrescava l'atmosfera,
che era veramente soffocante, anche a quell'ora. Il sole non era
ancora tramontato. La sua luce, per opposizione, tingeva d'un colore
d'inchiostro azzurro la massa dei vapori, che si vedevano accumularsi
a poco a poco allo zenit, attraverso le grandi lacerature del fogliame.
Erano nuvole pesanti, spesse, condensate, che nessun vento sembrava
spingere, e che sembravano avere in loro stesse il proprio motore.
Le nostre chiacchiere durarono fino alle otto circa. Ogni tanto,
Banks si alzava e andava a esaminare un tratto più ampio di
orizzonte, avanzando fino al limitare della foresta che tagliava
bruscamente la pianura, a meno di un quarto di miglio
dall'accampamento. Quando ritornava, scuoteva il capo con aria poco
rassicurata.
L'ultima volta lo avevamo accompagnato. Cominciava già a farsi
buio sotto la volta dei baniani. Giunti al limitare della foresta, vidi
che verso ovest si stendeva un'immensa pianura fino a una serie di
collinette vagamente profilate, che si confondevano già con le
nuvole.
L'aspetto del cielo era allora terribile nella sua calma. Non un alito
di vento agitava le alte foglie degli alberi. Non era il riposo della
natura addormentata che i poeti hanno cantato tanto spesso; era, al
contrario, un sonno pesante e morboso. Sembrava che ci fosse una
specie di tensione contenuta dell'atmosfera. Non posso paragonare
meglio lo spazio che alla camera del vapore di una caldaia quando il
fluido troppo compresso è pronto a esplodere.
Lo scoppio era imminente.
Le nuvole burrascose, infatti, erano molto alte, come avviene di
solito sopra le pianure, e presentavano larghi contorni curvilinei,
disegnati assai nitidamente. Sembravano persino gonfiarsi, diminuire
di numero e aumentare di grandezza, pur rimanendo attaccate alla
stessa base. Evidentemente si sarebbero presto fuse tutte in una
massa sola, che avrebbe aumentato la densità della nuvola unica. Già
quelle piccole secondarie, subendo una specie d'influenza attrattiva,
urtate, respinte, schiacciate le une contro le altre, si perdevano
confusamente nell'insieme.
Verso le otto e mezzo, un lampo a zig-zag, ad angoli acutissimi,
squarciò tutta quella massa cupa per una lunghezza di
duemilacinquecento-tremila metri.
Sessantacinque secondi dopo, un tuono scoppiava e prolungava i
suoi sordi brontolii, propri di questo genere di lampi, che durarono
circa quindici secondi.
— Ventun chilometri. — disse Banks dopo aver consultato il suo
orologio. — È quasi la distanza massima a cui il tuono può farsi
udire. Ma l'uragano, una volta scatenato, verrà presto, e non bisogna
aspettarlo. Rientriamo in casa, amici miei.
— E il capitano Hod? — disse il sergente Mac Neil.
— Il tuono gli darà l'ordine di ritornare, — rispose Banks. —
Spero che obbedirà.
Cinque minuti dopo, eravamo di ritorno all'accampamento, e ci
sistemavamo sotto la veranda del salotto.
CAPITOLO XII
TRIPLICI FUOCHI
L'INDIA divide con alcuni territori del Brasile — quello di Rio de
Janeiro per esempio - il privilegio di essere il più sconvolto dagli
uragani, fra tutti i paesi del globo. Se in Francia, in Inghilterra, in
Germania, nella parte media dell'Europa, non si valuta a più di venti
per anno il numero dei giorni in cui si fanno sentire gli scoppi di
uragano, nella penisola indiana tale numero sale annualmente a oltre
cinquanta.
Questo per la meteorologia generale. Nel caso specifico, tenendo
conto delle circostanze nelle quali esso si produceva, dovevamo
aspettarci un uragano di violenza estrema.
Come fummo rientrati nella Steam-House, consultai il barometro.
La colonna di mercurio subì improvvisamente un abbassamento di
due pollici, da 29 a 27 pollici. 18
Lo feci notare al colonnello Munro.
— Sono preoccupato per l'assenza del capitano Hod e dei suoi
compagni — mi rispose. — L'uragano è imminente, la notte si
avvicina, il buio aumenta. I cacciatori si allontanano sempre più di
quanto promettono e più anche di quanto vorrebbero. Come potranno
ritrovare la strada in questa profonda oscurità?
— Quei fanatici! — disse Banks. — È stato impossibile far loro
intendere ragione! Certamente avrebbero fatto meglio a non partire!
— Senza dubbio, Banks, ma sono partiti, — rispose il colonnello
Munro, — e bisogna fare di tutto perché ritornino.
— Non c'è modo di segnalare il luogo in cui siamo? — chiesi
all'ingegnere.
18
Circa 730 millimetri. (N.d.A.)
— Sì, — rispose Banks, — accendendo i nostri fanali elettrici, che
sono di gran potenza illuminante e si vedono da molto lontano.
Inserirò la corrente.
— Ottima idea, Banks.
— Volete che vada in cerca del capitano Hod? — domandò il
sergente.
— No, mio vecchio Neil, — rispose il colonnello Munro, — non
lo troveresti e ti smarriresti a tua volta.
Banks fece in modo di utilizzare i fuochi di cui disponeva. Gli
elementi della pila vennero attivati, venne inserita la corrente e poco
dopo i due occhi del Gigante d'Acciaio, come due fari elettrici,
proiettavano i loro fasci luminosi attraverso la buia volta dei baniani.
È certo che, in quella notte oscura, la portata di quei fari doveva
essere grande e poteva guidare i nostri cacciatori.
In quel momento si scatenò un uragano di estrema violenza.
Lacerò la cima degli alberi, piegò verso il suolo fischiando attraverso
le colonnette dei baniani, come se avesse attraversato i tubi sonori di
un mantice di qualche organo.
Fu una cosa improvvisa.
Una grandine di rami secchi, una pioggia di foglie strappate, coprì
la strada. I tetti della Steam-House risuonarono lamentosamente sotto
quella tempesta che produceva un rovinio continuo.
Dovemmo rifugiarci nel salotto e chiudere tutte le finestre. La
pioggia non cadeva ancora.
— È una specie di tofan, — disse Banks.
Gli indù danno questo nome agli uragani impetuosi e improvvisi
che devastano più particolarmente le regioni montuose e sono molto
temuti nel paese.
— Storr! — gridò Banks al macchinista, — hai chiuso bene le
aperture della torretta?
— Sì, signor Banks, — rispose il macchinista. — Non c'è nulla da
temere da quel lato.
— Dov'è Kâlouth?
— Finisce di sistemare il combustibile nel tender.
— Domani — rispose l'ingegnere — avremo soltanto la fatica di
raccogliere la legna! Il vento si fa boscaiolo e ci risparmia del lavoro.
Mantieni la pressione, Storr, e torna a metterti al riparo.
— Subito, signore.
— I serbatoi d'acqua sono pieni, Kâlouth? — domandò Banks.
— Sì, signor Banks — rispose il fuochista. — Ora la riserva
d'acqua è completa.
— Bene! Rientra! Rientra!
Il macchinista e il fuochista trovarono ben presto riparo nella
seconda carrozza.
I lampi erano frequenti, e l'esplosione dei nembi elettrici faceva
udire un sordo brontolio. Il tofan non aveva rinfrescato l'aria. Era un
vento torrido, un alito infuocato, che bruciava come se fosse uscito
dalla bocca di un forno.
Sir Edward Munro, Banks, Mac Neil e io, lasciavamo il salotto
solamente per recarci sotto la veranda. Guardando gli alti rami dei
baniani, lì si vedevano disegnarsi come un fine merletto nero sul
fondo igneo del cielo. Non c'era un lampo che non fosse seguito,
pochi secondi dopo, dagli scoppi di tuono. Un'eco non aveva il
tempo di spegnersi, che già si sentiva scoppiare un altro fulmine. Di
conseguenza, una profonda nota bassa si manteneva costante e su
questo accompagnamento si staccavano quelle secche detonazioni
che Lucrezio ha così giustamente paragonato al rumore stridente
della carta che si lacera.
— Come mai l'uragano non li ha fatti ancora ritornare a casa? —
diceva il colonnello Munro.
— Forse — rispose il sergente — il capitano Hod e i suoi
compagni avranno trovato un riparo nella foresta, nel cavo di qualche
albero o di qualche roccia, e ci raggiungeranno solo domattina.
L'accampamento sarà sempre qui per riceverli!
Banks scosse il capo da uomo che non è rassicurato. Egli non
sembrava condividere l'opinione di Mac Neil.
In quel momento - erano quasi le nove — la pioggia cominciò a
cadere con estrema violenza. Era mista a enormi chicchi di grandine
che ci lapidavano e crepitavano sul tetto sonoro della Steam-House.
Era come un secco rullare di tamburi. Sarebbe stato impossibile
sentirsi parlare, anche nel caso che gli scoppi di tuono non avessero
riempito lo spazio. Le foglie dei baniani, fatte a pezzi dalla grandine,
turbinavano da ogni parte.
Banks, non potendo farsi udire in mezzo a quel tumulto
assordante, allungò allora il braccio e ci mostrò i chicchi di grandine
che flagellavano i fianchi del Gigante d'Acciaio.
Era da non credere! Tutto scintillava al contatto di quei corpi duri.
Si sarebbe detto che dalle nuvole cadessero vere e proprie gocce di
metallo in fusione, che scintillavano nel percuotere la lamiera. Tale
fenomeno mostrava fino a che punto l'atmosfera fosse satura di
elettricità. I fulmini l'attraversavano continuamente, cosicché tutto lo
spazio sembrava essere in fiamme.
Banks, con un cenno, ci fece rientrare nel salotto, e chiuse la porta
che dava sulla veranda. Era davvero pericoloso esporsi, all'aria
aperta, all'urto delle correnti elettriche.
All'interno eravamo in un'oscurità resa più completa dall'effetto
dei fulmini al di fuori. Quale non fu il nostro stupore, quando
vedemmo che la nostra stessa saliva era luminosa! Bisognava che
fossimo impregnati del fluido ambiente in modo straordinario.
«Sputavamo fuoco», per adoperare l'espressione che è servita a
caratterizzare questo fenomeno, che si osserva raramente, ma che è
sempre spaventoso. In verità, in mezzo a quella conflagrazione
continua, fuoco di dentro, fuoco di fuori, nel fracasso di quei tuoni
interrotti da grandi scoppi di fulmine, il cuore più saldo non poteva
trattenersi dal battere con più rapidità.
— E loro? — disse il colonnello Munro.
— Loro!... sì! loro! — rispose Banks.
Era terribilmente preoccupante. Non potevamo fare nulla per
aiutare il capitano Hod e i suoi compagni, minacciati tanto
gravemente.
Infatti, se avevano trovato qualche riparo, non poteva essere che
sotto gli alberi, ed è noto, in quelle condizioni, quali pericoli si
corrano durante gli uragani. In una foresta così fitta, come avrebbero
potuto ripararsi a cinque o sei metri dalla verticale che passa
dall'estremità dei rami più lunghi, come si raccomanda alle persone
che si trovano sorprese dalla tempesta in prossimità degli alberi?
Mi venivano in mente tutti questi pensieri, quando si udì
all'improvviso uno scoppio di tuono, più secco degli altri. Mezzo
secondo appena lo aveva separato dal lampo.
La Steam-House ne tremò e fu come sollevata sulle sue
sospensioni. Credetti che il treno dovesse rovesciarsi.
Contemporaneamente un odore acuto riempi lo spazio, un odore
penetrante di vapori nitrosi: con tutta probabilità, infatti, l'acqua
piovana caduta durante questo uragano doveva contenere una gran
quantità di acido nitrico.
— Il fulmine è caduto... — disse Mac Neil.
— Storr! Kâlouth! Parazard! — gridò Banks.
I tre uomini accorsero nel salotto. Fortunatamente, nessuno era
stato colpito.
L'ingegnere spinse allora la porta della veranda e avanzò sul
balcone.
— Là!... guardate!... — disse.
Un enorme baniano era stato colpito dal fulmine, a dieci passi,
sulla sinistra della strada. Sotto l'incessante bagliore elettrico, ci si
vedeva allora come di pieno giorno. L'immenso tronco, che i suoi
polloni non potevano più sostenere, era caduto di traverso sugli alberi
vicini. Era scortecciato nettamente in tutta la sua lunghezza, e una
lunga striscia di scorza, che le raffiche agitavano come un serpente,
si torceva frustando l'aria. Bisognava che lo scortecciamento fosse
avvenuto dal basso in alto sotto l'azione di un fulmine ascendente di
incredibile violenza.
— Per poco la Steam-House non è stata colpita! — disse
l'ingegnere. — Tuttavia restiamo qui. È ancora un riparo più sicuro
di quello degli alberi!
— Restiamo pure! — rispose il colonnello Munro.
In quel momento, si udirono delle grida. Erano i nostri compagni
che finalmente ritornavano?
— È la voce di Parazard — disse Storr.
Infatti, il cuoco, che era sotto l'ultima veranda, ci chiamava a gran
voce. Corremmo subito da lui.
A meno di cento metri indietro, sulla destra dell'accampamento, la
foresta di baniani era in fiamme. Le cime più alte degli alberi erano
già avvolte da una cortina di fuoco. L'incendio si estendeva con
incredibile intensità e si dirigeva verso la Steam-House più
rapidamente di quanto si sarebbe potuto credere.
Il pericolo era imminente. Una lunga siccità, l'elevazione della
temperatura durante i tre mesi della stagione calda, avevano seccato
alberi, arbusti, erbe. L'incendio si alimentava di tutto quel
combustibile estremamente infiammabile. Come accade spesso in
India, l'intera foresta minacciava di essere divorata.
Infatti, si vedeva il fuoco estendere il suo cerchio di fiamme e
avanzare sempre di più. Se fosse giunto sul luogo
dell'accampamento, in pochi minuti i due vagoni sarebbero stati
distrutti, giacché i loro sottili pannelli non potevano difenderli contro
il fuoco, come fanno le grosse pareti laminate di una cassaforte.
Rimanevamo silenziosi davanti a quel pericolo. Il colonnello
Munro stava a braccia conserte. Poi:
— Banks, — disse con semplicità, — tocca a te toglierci
d'impiccio!
— Sì, Munro, — rispose l'ingegnere, — e poiché non abbiamo
nessun mezzo per spegnere questo incendio, bisogna fuggirlo!
— A piedi? — esclamai.
— No, con il nostro treno.
— E il capitano Hod, e i suoi compagni? — disse Mac Neil.
— Non possiamo fare nulla per loro! Se non sono di ritorno prima
della nostra partenza, partiremo ugualmente!
— Non bisogna abbandonarli! — disse il colonnello.
— Munro, — rispose Banks, — quando il treno sarà al sicuro,
lontano dall'incendio, ritorneremo e batteremo la foresta finché non li
avremo trovati!
— Fa', dunque, Banks, — rispose il colonnello Munro, che
dovette arrendersi al consiglio dell'ingegnere, che era in realtà il solo
da seguire.
— Storr, — disse Banks, — alla macchina! Kâlouth, alla caldaia,
e attizza i fuochi! Che pressione sul manometro?
— Due atmosfere, — rispose il macchinista.
— Bisogna che, entro dieci minuti, ne abbiamo quattro! Andate,
amici miei, andate!
Il macchinista e il fuochista non persero un istante. Poco dopo, dei
torrenti di fumo nero scaturirono dalla proboscide dell'elefante e si
mescolarono ai torrenti di pioggia, che il gigante sembrava sfidare.
Ai lampi che illuminavano lo spazio, esso rispondeva con turbini di
scintille. Un getto di vapore fischiava nella ciminiera, e il tiraggio
forzato attivava la combustione della legna che Kâlouth
ammucchiava nel suo forno.
Sir Edward Munro, Banks e io, eravamo rimasti sotto la veranda
posteriore, osservando i progressi dell'incendio attraverso la foresta.
Erano rapidi e spaventosi. I grandi alberi crollavano in
quell'immenso braciere, i rami crepitavano come rivoltellate, le liane
si contorcevano da un tronco all'altro, il fuoco si comunicava quasi
immediatamente a nuovi focolai. In cinque minuti, l'incendio era
avanzato di cinquanta metri, e le fiamme frastagliate, o si potrebbe
dire lacerate dalla raffica, raggiungevano un'altezza tale che i lampi
le solcavano in ogni senso.
— Bisogna che fra cinque minuti abbiamo lasciato questo posto,
— disse Banks, — oppure tutto prenderà fuoco!
— Cammina veloce, questo incendio! — risposi io.
— Andremo più in fretta di lui.
— Se Hod fosse qui, se i suoi compagni fossero di ritorno! —
disse sir Edward Munro.
— Dei fischi! dei fischi! — gridò Banks. — Forse li sentiranno.
E precipitandosi verso la torretta, fece subito echeggiare l'aria di
suoni acuti che superavano il brontolio profondo del tuono, e
dovevano udirsi da lontano.
Ci si può immaginare la situazione ma non si saprebbe
descriverla.
Da un lato, necessità di fuggire al più presto; dall'altro, obbligo di
aspettare coloro che non erano ancora tornati!
Banks era ritornato sotto la veranda posteriore. La fronte
dell'incendio era ora a meno di cinquanta piedi dalla Steam-House.
Un calore insopportabile si propagava, e l'aria ardente sarebbe ben
presto diventata irrespirabile. Numerose scintille cadevano già fin sul
nostro treno. Fortunatamente la pioggia torrenziale lo proteggeva
ancora abbastanza, ma non avrebbe potuto evidentemente difenderlo
contro gli attacchi diretti del fuoco.
La macchina mandava sempre i suoi fischi striduli. Né Hod né
Fox né Goûmi riapparivano.
In quel momento, il macchinista raggiunse Banks.
— Siamo sotto pressione, — disse.
— Ebbene, partiamo, Storr! — rispose Banks, — ma non troppo
in fretta! Quanto è necessario soltanto per tenerci fuori portata
dell'incendio!
— Aspetta, Banks, aspetta! — disse il colonnello Munro, che non
poteva decidersi a lasciare l'accampamento.
— Tre minuti ancora, Munro, — rispose freddamente Banks, —
ma non di più. Fra tre minuti, la parte posteriore del treno
comincerebbe a prendere fuoco!
Passarono due minuti. Ormai era impossibile rimanere sotto la
veranda. Non era addirittura più possibile appoggiare la mano sulle
lastre ardenti che cominciavano a «imbarcarsi». Rimanere alcuni
istanti di più sarebbe stata un'enorme imprudenza!
— Andiamo, Storr! — gridò Banks.
— Ah! — esclamò il sergente.
— Loro!... — feci io.
Il capitano Hod e Fox apparivano sulla destra della strada.
Portavano a braccia Goûmi, come un corpo inerte, e giunsero al
predellino posteriore.
— Morto! — esclamò Banks.
— No, colpito dal fulmine che gli ha spezzato il fucile in mano,
— rispose il capitano Hod, — e paralizzato, ma solo alla gamba
sinistra!
— Sia ringraziato Dio! — disse il colonnello Munro.
— Grazie, Banks! — aggiunse il capitano. — Senza i vostri fischi,
non avremmo potuto ritrovare l'accampamento!
— Andiamo! — esclamò Banks. — Andiamo!
Hod e Fox si erano precipitati sul treno, e Goûmi, che non aveva
perduto conoscenza, fu deposto nella sua cabina.
— Che pressione abbiamo? — domandò Banks, che aveva
raggiunto il macchinista.
— Quasi cinque atmosfere, — rispose Storr.
— Andiamo! — ripeté Banks.
Erano le dieci e mezzo. Banks e Storr andarono a mettersi nella
torretta. Venne azionato l'acceleratore, il vapore precipitò nei
cilindri, si fecero udire i primi barriti, e il treno avanzò a piccola
velocità, in mezzo a quella triplice intensità di luce, prodotta
dall'incendio della foresta, dall'elettricità dei fanali e dai fulmini del
cielo.
In poche parole, il capitano Hod ci narrò quanto era accaduto
durante la sua escursione. I suoi compagni e lui non avevano trovato
traccia d'animali. Con l'uragano che si avvicinava, l'oscurità calò più
rapidamente, e soprattutto più profondamente di quanto avessero
supposto. Perciò vennero sorpresi dal primo scoppio di tuono quando
si trovavano già a più di tre miglia dall'accampamento. Allora vollero
tornare indietro, ma in qualsiasi modo facessero per orientarsi, non
tardarono a smarrirsi in mezzo a quei gruppi di baniani che si
assomigliano tutti, e senza che nessun sentiero indicasse loro la
direzione che bisognava seguire.
L'uragano scoppiò poco dopo con estrema violenza. In quel
momento erano tutti e tre fuori della portata dei fanali elettrici.
Perciò non poterono dirigersi in linea retta verso la Steam-House. La
grandine e la pioggia cadevano a torrenti. Non c'era nessun riparo,
tranne la volta insufficiente degli alberi, che non tardò a essere
crivellata.
A un tratto un tuono scoppiò accompagnato da un violento lampo.
Goûmi cadde colpito dal fulmine accanto al capitano Hod, ai piedi di
Fox. Del fucile che egli stringeva non rimaneva che il calcio; la
canna, la camera di scoppio, il ponticello, tutto quello che era metallo
era stato distrutto istantaneamente.
I suoi compagni lo credettero morto. Fortunatamente non era così;
ma la sua gamba sinistra, benché non fosse stata colpita direttamente
dal fluido, era paralizzata. Il povero Goûmi non poteva fare un passo.
Bisognava portarlo, dunque. Invano egli chiese che lo lasciassero là,
pronti a venirlo a riprendere più tardi. I suoi compagni non vollero
acconsentirvi, e, uno reggendolo per le spalle, l'altro per i piedi, si
avventurarono alla meglio nella buia foresta.
Per due ore Hod e Fox vagarono a casaccio, esitando,
arrestandosi, ripigliando il cammino, senza alcun punto di
riferimento che potesse indicare loro la direzione della Steam-House.
Per fortuna, finalmente, i fischi, più percettibili delle fucilate in
mezzo al frastuono degli elementi, echeggiarono nella bufera. Era la
voce del Gigante d'Acciaio.
Un quarto d'ora dopo, tutti e tre arrivavano nel momento in cui il
luogo di fermata stava per essere abbandonato. Appena in tempo!
Frattanto, se il treno correva sulla strada larga e piana della
foresta, l'incendio camminava presto quanto lui. Ciò che rendeva il
pericolo più minaccioso, era che il vento era cambiato, come fa di
frequente durante questi fenomeni sconvolgenti che sono gli uragani.
Invece di soffiare di fianco, soffiava ora di dietro, e con la sua
violenza, attizzava tutto quell'incendio, come un ventilatore che
saturi di ossigeno un focolare. Il fuoco guadagnava visibilmente
terreno. I rami accesi, le scintille ardenti piovevano in mezzo ad una
nuvola di ceneri calde, sollevate dal suolo come se qualche cratere
avesse vomitato nello spazio del materiale eruttivo. Effettivamente,
non si sarebbe potuto paragonare quell'incendio ad altro che
all'avanzare di un fiume di lava attraverso la campagna divorando
ogni cosa al suo passaggio.
Banks lo notò. E anche se non lo avesse visto, lo avrebbe sentito
dall'alito infuocato che passava nell'atmosfera.
La corsa fu perciò accelerata, benché fosse piuttosto pericoloso
farlo su quella strada sconosciuta. Ma la strada, allora invasa dalle
acque del cielo, era scavata così profondamente, che la macchina non
poteva venire spinta come avrebbe voluto l'ingegnere.
Verso le undici e mezzo, nuovo scoppio di tuono, che fu terribile,
e nuovo fulmine! Un grido ci sfuggì. Credemmo che Banks e Storr
fossero stati colpiti entrambi nella torretta dalla quale dirigevano le
mosse del treno.
Quella sventura ci fu risparmiata. Era il nostro elefante che era
stato colpito dalla scarica elettrica, alla punta di una delle sue lunghe
orecchie pendenti.
Non ne era derivato, fortunatamente, nessun danno per la
macchina, e sembrò che il Gigante d'Acciaio volesse rispondere ai
colpi dell'uragano con i suoi più precipitati barriti.
— Hurrah! — gridò il capitano Hod, — hurrah! Un elefante in
carne e ossa sarebbe caduto stecchito! Tu, invece, sfidi il fulmine, e
nulla può arrestarti! Hurrah, Gigante d'Acciaio, hurrah!
Per mezz'ora ancora, il treno mantenne la sua distanza. Nel timore
di urtare troppo violentemente in qualche ostacolo, Banks lo
spingeva solamente alla velocità necessaria per non essere raggiunto
dal fuoco.
Dalla veranda su cui il colonnello Munro, Hod e io avevamo preso
posto, vedevamo passare delle grandi ombre, che balzavano nei raggi
luminosi dell'incendio e dei lampi. Erano belve, finalmente.
Per precauzione, il capitano Hod afferrò il fucile, perché era
possibile che quelle bestie spaventate volessero gettarsi sul treno per
cercarvi un riparo o un rifugio.
E infatti, un'enorme tigre lo tentò; ma slanciandosi con un balzo
prodigioso, fu presa per il collo fra due polloni di baniani. L'albero
principale, curvandosi in quel momento sotto l'uragano, tese i polloni
come due immense corde, che strangolarono l'animale.
— Povera bestia! — disse Fox.
— Queste belve, — rispose il capitano Hod sdegnato, — sono
fatte per essere uccise da un'onesta pallottola di carabina! Sì! povera
bestia!
Davvero, il capitano Hod non aveva fortuna! Quando cercava le
tigri, non ne vedeva, e quando non le cercava più, gli passavano al
volo sotto il naso, senza che egli potesse prenderle di mira, oppure si
strangolavano come un topo nel cappio di una trappola!
All'una del mattino, il pericolo, per grande che fosse stato fino
allora, raddoppiò ancora.
Sotto l'influenza di quei venti impazziti che saltavano da un punto
all'altro della bussola, l'incendio aveva raggiunto la strada davanti a
noi, e ormai, eravamo completamente accerchiati.
Tuttavia l'uragano era diminuito molto di violenza, come accade
quasi sempre, quando questi fenomeni atmosferici passano sopra una
foresta, i cui alberi carpiscono ed esauriscono a poco a poco
l'elettricità. Ma se i lampi erano più rari, i tuoni più distanziati, se la
pioggia cadeva con minor forza, il vento soffiava sempre con furore
incredibile.
Ad ogni costo si dovette affrettare la corsa del treno, a rischio di
mandarlo a sbattere contro un ostacolo, o di farlo precipitare in
qualche larga buca;
Così fece Banks, ma con un sangue freddo meraviglioso, con gli
occhi fissi ai vetri lenticolari della torretta, con la mano
sull'acceleratore che non lasciava più.
La strada sembrava ancora semiaperta fra due siepi di fuoco. Era
dunque indispensabile passarvi in mezzo.
Banks vi si lanciò risolutamente a una velocità di sei o sette miglia
all'ora.
Credetti che vi saremmo rimasti, soprattutto quando si dovette
superare un punto strettissimo della fornace per un tratto di cinquanta
metri. Le ruote del treno stridettero sui carboni ardenti che
ingombravano il suolo e un'aria infuocata lo avvolse tutto quanto!...
Eravamo passati!
Finalmente, alle due del mattino, al bagliore dei rari lampi,
apparve l'estremo limite del bosco. Dietro di noi si spiegava una
grande distesa di fiamme. L'incendio si sarebbe estinto solo dopo
aver divorato fino all'ultimo baniano dell'immensa foresta.
All'alba, il treno finalmente si fermò; l'uragano si era calmato del
tutto, e si preparò un accampamento provvisorio.
Il nostro elefante, che venne visitato con cura, aveva la punta
dell'orecchio destro forata da molti buchi, le cui frastagliature
irregolari erano piegate io direzioni contrarie.
Certamente, sotto un simile fulmine qualsiasi animale, che non
fosse stato d'acciaio, sarebbe caduto per non rialzarsi più e l'incendio
avrebbe divorato rapidamente il treno.
Alle sei del mattino, dopo un sommario riposo, ci rimettemmo in
cammino, e a mezzogiorno ci accampavamo nei dintorni di Rewah.
CAPITOLO XIII
PRODEZZE DEL CAPITANO HOD
LA MEZZA giornata del 5 giugno e la notte seguente vennero
trascorse tranquillamente nell'accampamento. Dopo tante fatiche,
accresciute da tanti pericoli, quel riposo ci era proprio dovuto.
Non era più il regno di Oudh che stendeva le sue ricche pianure
davanti a noi. La Steam-House correva allora attraverso quel
territorio, ancora fertile, ma fratturato da nullahs o precipizi, che
forma il Rohilkhand. Bareilli è la capitale di questo ampio quadrato
di centocinquantacinque miglia di lato, abbondantemente irrigato dai
numerosi affluenti o sub-affluenti del Cogra, :on gruppi di magnifici
manghi qua e là, disseminato di fitte jungle, che tendono a
scomparire davanti alle coltivazioni.
Qui fu il centro dell'insurrezione, dopo la presa di Delhi, qui ebbe
luogo una delle campagne di sir Colin Campbell; qui la colonna del
generale di brigata Walpole iniziò la sua campagna non troppo
felicemente; qui perì un unico di sir Edward Munro, colonnello del
93° Scozzese, che si era distinto nei due assalti di Lucknow il famoso
14 aprile.
Data la sua costituzione, nessun altro terreno sarebbe stato più
favorevole alla marcia del nostro treno. Belle strade, ben livellate,
corsi d'acqua facili da guadare fra le due arterie più importanti che
scendono dal nord, tutto concorreva a rendere facile questa parte
dell'itinerario. Non ci rimanevano più che poche centinaia di
chilometri da percorrere prima di avvertire i primi rilievi del suolo
che congiungono la pianura alle montagne del Nepal.
Soltanto, ora bisognava tener seriamente conto della stagione
delle piogge.
Il monsone, che soffia da nord-est a sud-ovest durante i primi
mesi dell'anno, aveva appena invertito direzione. Il periodo delle
piogge è più violento sul litorale che non nell'interno della penisola,
ed anche un po' più tardivo. Ciò deriva dal fatto che le nuvole si
sciolgono prima di giungere nel centro dell'India. Inoltre, la loro
direzione viene anche un po' modificata dalla barriera delle alte
montagne, che forma come una specie di gorgo atmosferico. Sulla
costa del Malabar, il monsone comincia nel mese di maggio; in
mezzo alle province centrali e settentrionali, esso si fa sentire solo
alcune settimane più tardi, nel mese di giugno.
Ora eravamo in giugno, ed era in queste circostanze particolari,
ma previste, che il nostro viaggio doveva ormai effettuarsi.
Devo dire anzitutto che, fino dal giorno dopo, il nostro bravo
Goûmi, disarmato in così malo modo dal fulmine, stava meglio. La
paralisi alla gamba sinistra fu solo temporanea. Non gliene restò
traccia, ma mi sembrò che gli serbasse rancore al fuoco del cielo.
Durante le due giornate del 6 e del 7 giugno, il capitano Hod fece
una caccia migliore con l'aiuto di Phann e di Black. Egli poté
uccidere una coppia di quelle antilopi che, nella zona, si chiamano
nilgau. Sono i buoi azzurri degli indù, che sarebbe più giusto
chiamare cervi, perché assomigliano più ai cervi che non ai
confratelli del dio Api. Bisognerebbe anzi chiamarli cervi grigio
perla, poiché il loro colore ricorda certamente meglio quello del cielo
burrascoso che non quello del cielo azzurro. Si assicura tuttavia che
in qualche esemplare di questi magnifici animali, dalle piccole corna
acuminate e diritte, dalla testa lunga e leggermente bombata, il
mantello diventa quasi azzurro, tinta che la natura sembra aver
sempre rifiutato ai quadrupedi, perfino alla volpe azzurra, la cui
pelliccia è piuttosto nera.
Non erano ancora i carnivori sognati dal capitano Hod. Però, il
nilgau, se non è feroce, diventa pericoloso quando, ferito
leggermente, si avventa sul cacciatore. Una prima pallottola del
capitano, una seconda di Fox, arrestarono di colpo nel loro slancio
quei due superbi animali. Furono uccisi quasi al volo. Perciò, per
Fox, non era che selvaggina da penna!
Il signor Parazard, invece, fu di tutt'altra opinione, e gli ottimi
cosciotti arrostiti proprio a puntino, che ci servì quello stesso giorno,
ci fecero schierare dalla sua parte.
L'8 giugno, all'alba, lasciavamo il nostro accampamento che era
stato posto presso un piccolo villaggio del Rohilkhand. Vi eravamo
giunti la sera prima, dopo aver percorso i quaranta chilometri che lo
separano da Rewah. Il nostro treno aveva dunque camminato a una
velocità molto moderata su un terreno che le piogge continuavano ad
ammollare. Inoltre, i corsi d'acqua cominciavano a gonfiarsi, e
parecchi guadi ci causarono un ritardo di alcune ore. Ma, dopo tutto,
non si trattava che di uno o due giorni. La regione montuosa in cui
contavamo di sistemare la Steam-House durante molti mesi della
stagione estiva, come in mezzo a un sanitarium, eravamo sicuri di
raggiungerla prima della fine di giugno. Perciò nessuna
preoccupazione al riguardo.
Durante questa giornata dell'8, il capitano Hod dovette
rimpiangere un bel tiro.
La via era fiancheggiata da folte jungle di bambù, come se ne
incontrano di frequente intorno a questi villaggi, che sembrano
costruiti dentro cesti di fiori. Non era ancora la jungla vera e propria,
quella che, per gli indù, è la pianura aspra, nuda, sterile, dominata da
arbusti grigiastri. Eravamo, al contrario, in un paese coltivato, in un
territorio fertile, disseminato generalmente di risaie acquitrinose.
Il Gigante d'Acciaio se ne andava tranquillamente, diretto dalla
mano di Storr, lanciando i suoi eleganti pennacchi di vapore, che il
vento sparpagliava sui bambù della via.
Ad un tratto, un animale si slanciò con agilità sorprendente e si
gettò al collo del nostro elefante.
— Un tchîta, un tchîta! — gridò il macchinista.
A quel grido, il capitano Hod balzò sul balcone anteriore, e afferrò
il suo fucile, sempre carico e a portata di mano.
— Un tchîta — esclamò a sua volta.
— Via, tirate! — gridai.
— Ho tempo! — rispose il capitano Hod, che si accontentò di
prendere di mira l'animale.
Il tchîta è una specie di leopardo caratteristico dell'India, meno
grosso della tigre, ma quasi altrettanto temibile, tanto è vivace,
svelto, robusto.
Il colonnello Munro, Banks e io, ritti sotto la veranda, lo
osservavamo, aspettando la fucilata del capitano.
Evidentemente, quel leopardo era stato ingannato dall'aspetto del
nostro elefante. Gli si era arditamente gettato addosso; ma là dove
credeva di trovare della carne viva, nella quale affondare i denti o gli
artigli, trovava invece una carne di lamiera che né i suoi artigli né i
suoi denti potevano intaccare. Furibondo del proprio scacco, si
aggrappava alle lunghe orecchie del falso animale, e stava senza
dubbio per abbandonarlo, quando ci vide.
Il capitano Hod lo teneva sempre sotto mira, da cacciatore che,
sicuro del proprio colpo, non vuole colpire la belva se non nel
momento opportuno e nel punto migliore.
Il tchîta si rizzò, ruggendo. Senza dubbio sentì il pericolo, ma non
parve che lo volesse fuggire. Forse, cercava il momento favorevole
per slanciarsi sulla veranda.
Infatti, lo vedemmo di lì a poco arrampicarsi sulla testa
dell'elefante, abbracciare con le zampe la proboscide che serviva da
ciminiera, poi salire fin quasi al suo orifizio, dal quale sfuggivano gli
sbuffi di vapore.
— Tirate dunque, Hod! — dissi ancora.
— Ho tempo — rispose il capitano.
Poi rivolgendosi a me, senza peraltro perdere di vista il leopardo,
che ci guardava:
— Non avete mai ammazzato un tchîta, Maucler? — mi
domandò.
— Mai.
— Volete ammazzarne uno?
— Capitano, — risposi, — non voglio privarvi di questo colpo
magnifico...
— Peuh! — disse Hod, — non è un colpo da cacciatore! Prendete
un fucile, mirate quella bestia all'attaccatura della spalla! Se la
sbagliate, la prenderò al volo!
— E va bene.
Fox, che era venuto a raggiungerci, mi passò una carabina a due
canne che teneva in mano. La presi, la caricai, mirai alla spalla del
leopardo sempre immobile, e feci fuoco.
L'animale, ferito, ma leggermente, fece un balzo enorme, e
passando sopra la torretta del macchinista, venne a cadere sul primo
tetto della Steam-House.
Il capitano Hod, per buon cacciatore che fosse, non aveva avuto il
tempo di colpirlo al volo...
— A noi, Fox, a noi! — esclamò.
Ed entrambi, slanciandosi fuori della veranda, andarono ad
appostarsi nella torretta.
Il leopardo, che andava e veniva, si slanciò sul secondo tetto, dopo
aver attraversato con un balzo la passerella.
Nel momento in cui il capitano stava per far fuoco, l'animale
spiccò un altro balzo, si precipitò al suolo, si rialzò con slancio
vigoroso, e scomparve nella jungla.
— Ferma! ferma! — gridò vivamente Banks al macchinista, il
quale, fermando l'immissione del vapore, bloccò istantaneamente le
ruote di tutto il treno con il freno ad aria.
Il capitano e Fox balzarono sulla strada, e si slanciarono nella
macchia per raggiungere il tchîta.
Passarono alcuni minuti. Ascoltavamo, non senza una certa
impazienza, ma non si sentirono fucilate. I due cacciatori ritornarono
a mani vuote.
— Scomparso! fuggito! — esclamò il capitano Hod, — e neppure
una traccia di sangue sull'erba!
— È colpa mia, — dissi al capitano. — Avreste fatto meglio a far
fuoco su quel tchîta in vece mia. Non lo avreste sbagliato.
— Bene! lo avete ferito, — rispose Hod, — ne sono sicuro, ma
non nel punto giusto.
— Non è quello, capitano, che farà la mia trentottesima, né la
vostra quarantunesima! — disse Fox un po' dispiaciuto.
— Bah! — replicò Hod con tono di noncuranza un po' affettato,
— un tchîta non è una tigre! Altrimenti, caro Maucler, non sarei stato
capace di cedervi quel tiro!
— A tavola, amici, — disse allora il colonnello Munro. — La
colazione ci aspetta e vi consolerà...
— Tanto più, — disse Mac Neil, — che la colpa è tutta di Fox.
— Colpa mia? — rispose l'attendente, sbigottito da quella
osservazione inaspettata.
— Senza dubbio, Fox, — riprese il sergente. — La carabina che
hai consegnato al signor Maucier era stata caricata solo con del
piombo da sei!
E Mac Neil mostrava la seconda cartuccia che aveva estratto
dall'arma di cui mi ero servito. Non conteneva, infatti, che pallini da
pernice.
— Fox! — disse il capitano Hod.
— Capitano?
— Due giorni di cella di rigore!
— Sì, capitano.
E Fox se ne andò nella sua cabina, deciso a non ricomparirci
davanti se non quarantotto ore dopo. Si vergognava profondamente
del proprio errore, e voleva nascondere la sua vergogna.
Il giorno dopo, 9 giugno, il capitano Hod, Goûmi e io andammo a
battere la pianura lungo la strada, durante la mezza giornata di sosta
che Banks aveva concesso. Era piovuto tutta la mattina, ma, verso
mezzogiorno, il cielo si era un po' rasserenato, e si poteva sperare in
una schiarita di alcune ore.
Del resto, non era Hod, il cacciatore di belve, che mi conduceva,
questa volta era il cacciatore di selvaggina. Nell'interesse della
mensa, egli andava a gironzolare tranquillamente sul bordo delle
risaie, in compagnia di Black e di Phann. Il signor Parazard aveva
fatto sapere al capitano che la dispensa era vuota, ed egli aspettava da
Suo Onore, che Suo Onore volesse «prendere i provvedimenti
necessari» per riempirla.
Il capitano Hod si rassegnò, e partimmo armati di semplici fucili
da caccia. Per due ore, la nostra battuta non ebbe altro risultato che
quello di far alzare qualche pernice o di far stanare qualche lepre, ma
a tali distanze, che, nonostante la buona volontà dei nostri cani, si
dovette rinunciare alla speranza di raggiungerle.
Perciò il capitano Hod era di pessimo umore. D'altra parte, in
mezzo a quell'ampia pianura, senza jungle, senza boschi cedui,
sparsa di villaggi e di fattorie, non poteva fare assegnamento
sull'incontro di un carnivoro qualsiasi, che lo avrebbe compensato
del leopardo mancato il giorno prima. Era lì solo come
approvvigionatore e si preoccupava del modo in cui lo avrebbe
ricevuto il signor Parazard nel caso che fosse ritornato con il carniere
vuoto.
Eppure, non era colpa nostra. Alle quattro non avevamo ancora
avuto occasione di tirare una sola fucilata. Soffiava un vento asciutto
e, come ho detto, tutta la selvaggina si portava fuori tiro...
— Caro amico, — mi disse allora il capitano Hod, —
decisamente, la cosa non va! Lasciando Calcutta, vi ho promesso
delle cacce magnifiche, e una cattiva fortuna, una fatalità persistente,
di cui non capisco un bel nulla, m'impedisce di mantenere la
promessa!
— Via, capitano, — risposi, — non bisogna disperare. Se provo
un po' di rammarico, è meno per me che per voi!... Ci prenderemo la
rivincita, del resto, nelle montagne del Nepal.
— Sì, — disse il capitano Hod, — là, su quelle prime balze
dell'Himalaya, le condizioni operative saranno migliori. Vedete,
Maucler, scommetterei che il nostro treno, con tutti i suoi congegni, i
muggiti del suo vapore, e soprattutto il suo elefante gigantesco,
spaventa queste dannate belve più ancora di quanto le spaventi un
treno ferroviario, e sarà così finché sarà in moto! Quando sarà fermo,
speriamolo, saremo più fortunati. Davvero, quel leopardo era pazzo!
Bisognava che morisse di fame per gettarsi sul nostro Gigante
d'Acciaio e si meritava di essere fatto secco da una buona pallottola!
Dannato Fox! Non dimenticherò mai quello che ha combinato! Che
ora è?
— Sono quasi le cinque.
— Già le cinque, e non abbiamo ancora potuto bruciare una
cartuccia!
— All'accampamento non ci aspettano che per le sette. Forse
prima di allora...
— No! la fortuna ci è contraria, — esclamò il capitano Hod, — e,
vedete, la fortuna è metà della riuscita!
— Anche la perseveranza, — risposi. — Ebbene, scommettiamo,
capitano, che non ritorneremo a casa con le mani vuote. Vi va?
— Se mi va! — esclamò Hod. — Muoia chi si disdice!
— Siamo intesi.
— Vedete, Maucler, porterei a casa anche un topo o uno
scoiattolo, piuttosto che tornarmene a mani vuote!
Il capitano Hod, Goûmi e io, eravamo in quella disposizione
d'animo per cui tutto è buona guerra. La caccia venne dunque
continuata con una ostinazione degna di miglior sorte; ma sembrava
che gli uccelli più innocui avessero indovinato le nostre intenzioni
ostili. Impossibile poterne avvicinare uno solo.
Procedevamo così in mezzo alle risaie, battendo ora un lato della
via ora l'altro, ritornando poi indietro, per non allontanarci troppo
dall'accampamento. Fatica inutile! Alle sei e mezzo della sera, le
cartucce dei nostri fucili erano ancora intatte. Avremmo potuto venir
là con il bastone da passeggio in mano, il risultato sarebbe stato lo
stesso.
Guardavo il capitano Hod. Egli camminava a denti stretti. Sulla
fronte una grossa ruga, profondamente scavata fra le due
sopracciglia, denunciava una rabbia sorda. Borbottava fra le labbra
serrate non so quali vane minacce contro ogni essere vivente, coperto
di pelo o di penne, di cui non si vedeva un solo esemplare in quella
pianura. Evidentemente, avrebbe finito con lo scaricare il fucile
contro un oggetto qualsiasi, albero o rupe: maniera cinegetica per
sfogare la propria collera. L'arma gli scottava fra le dita, lo si vedeva.
La gettava sul braccio, la rimetteva a tracolla, la imbracciava quasi
suo malgrado.
Goûmi lo guardava.
— Il capitano diventerà furioso, se la cosa continua! — mi disse
scuotendo il capo.
— Sì, — risposi — e pagherei volentieri trenta scellini il più
modesto dei colombi domestici che una mano caritatevole gli
mettesse a tiro! Ciò lo calmerebbe.
Ma, né per trenta scellini né per il doppio né per il triplo,
avremmo potuto procurarci a quell'ora la meno costosa e la più
volgare delle selvaggine. La campagna allora era deserta, e non
vedevamo più né fattorie né villaggi.
In verità, credo che se fosse stato possibile, avrei mandato Goûmi
a comperare a qualunque prezzo un volatile qualsiasi, addirittura un
pollo spennato, per abbandonarlo come rappresaglia ai colpi del
nostro indispettito capitano!
Intanto, la notte si avvicinava. Fra un'ora non ci sarebbe più stata
abbastanza luce per poter continuare quella spedizione infruttuosa.
Benché ci fossimo giurati che non saremmo ritornati
all'accampamento con il carniere vuoto, pure vi saremmo stati
costretti, a meno di voler passare la notte nella pianura. Ma, senza
contare che quella notte minacciava di essere piovosa, il colonnello
Munro e Banks, non vedendoci ritornare, sarebbero rimasti in uno
stato di preoccupazione che bisognava risparmiare loro.
Il capitano Hod, con gli occhi spalancati, guardando da sinistra a
destra e da destra a sinistra con la rapidità di un uccello, camminava
dieci passi avanti, e in una direzione che non ci avvicinava
assolutamente alla Steam-House.
Stavo per affrettare il passo e raggiungerlo per dirgli di rinunciare
una buona volta a lottare contro la cattiva sorte, quando alla mia
destra si udì un forte sbatter d'ali. Guardai.
Una massa biancastra si alzava lentamente sopra una macchia.
Subito, senza lasciare al capitano Hod il tempo di voltarsi,
imbracciai il fucile, e i miei due colpi partirono successivamente.
Il volatile ignoto a cui avevo sparato cadde pesantemente sull'orlo
di una risaia.
Phann si slanciò d'un balzo, si impadronì della selvaggina che
avevo abbattuto, e la riportò al capitano.
— Finalmente! — esclamò Hod. — Se il signor Parazard non è
contento, che si precipiti nella pentola, a capofitto!
— Ma, almeno, è una selvaggina che si mangia? — domandai.
— Certamente... in mancanza di meglio! — rispose il capitano.
— Fortunatamente nessuno vi ha visto, signor Maucler! — mi
disse Goûmi.
— Che cosa ho fatto dunque di riprovevole?
— Eh! Avete ucciso un pavone, ed è proibito uccidere i pavoni,
che sono uccelli sacri in tutta l'India.
— Il diavolo si porti gli uccelli sacri e quelli che li consacrano! —
esclamò il capitano Hod. — Questo è ucciso, e lo mangeremo... con
devozione, se vorrete, ma lo mangeremo!...
Infatti nel paese dei bramini, dopo la spedizione di Alessandro,
epoca in cui il pavone si diffuse nella penisola, esso è un animale fra
i più sacri. Gli indù ne hanno fatto l'emblema della dea Saravasti, che
presiede alle nascite e ai matrimoni. È proibito distruggere questo
volatile pena gravi sanzioni che la legge inglese ha confermato.
Quell'esemplare dei gallinacei, che formava la gioia del capitano
Hod, era magnifico, con le sue ali verde cupo a riflessi metallici,
orlate da una striscia d'oro. La sua coda, ben fornita e tutta occhiuta,
formava un superbo ventaglio di barbe seriche.
— Andiamo! andiamo! — disse il capitano. — Domani il signor
Parazard ci farà mangiare del pavone, checché ne possano pensare
tutti i bramini dell'India! Dato che il pavone, in sostanza, non è che
un pollo pretenzioso, questo, con le sue penne artisticamente rialzate,
farà bella figura sulla nostra tavola.
— Finalmente eccovi soddisfatto, capitano?
— Soddisfatto... di voi, sì, caro amico, ma assolutamente
scontentissimo di me! La mia cattiva sorte non è ancora passata, e
bisognerà pure che passi! Andiamo!
Eccoci dunque ritornare sui nostri passi verso l'accampamento da
cui dovevamo essere lontani tre miglia circa. Sul sentiero che
disegnava il suo sinuoso tracciato attraverso le fitte jungle di bambù,
il capitano Hod e io, camminavamo l'uno accanto all'altro. Goûmi,
che portava la nostra selvaggina, era due o tre passi più indietro. Il
sole non era ancora scomparso, ma grosse nubi lo velavano, e
bisognava cercare la via nella semioscurità.
Ad un tratto, un ruggito formidabile esplose in una macchia sulla
destra. Questo ruggito mi parve così terrificante, che mi fermai di
colpo, quasi mio malgrado.
Il capitano Hod mi afferrò la mano.
— Una tigre! — disse.
Poi gli sfuggì una bestemmia.
— Fulmini delle Indie! — esclamò, — e abbiamo solo pallini da
pernice nei nostri fucili!
Purtroppo era vero, e né Hod né Goûmi né io avevamo cartucce a
palla.
D'altra parte non avremmo avuto il tempo di caricare le nostre
armi. Dieci secondi dopo aver emesso il suo ruggito, l'animale si
slanciava fuori dalla macchia e ricadeva con un solo balzo a venti
passi sulla strada.
Era una magnifica tigre, di quella specie che gli indù chiamano
mangiatrici d'uomini, eater men, feroci carnivori, le cui vittime si
contano ogni anno a centinaia.
La situazione era terribile.
Io guardavo la tigre, la divoravo con gli occhi, e, lo confesso, il
fucile mi tremava in mano. Misurava nove o dieci piedi di lunghezza
e aveva il mantello fulvo, solcato da strisce bianche e nere.
Anche lei ci guardava. I suoi occhi da gatto fiammeggiavano nella
penombra. La sua coda spazzava febbrilmente il terreno. Si
appiattiva al suolo e si raccoglieva su se stessa come per slanciarsi.
Hod non aveva perduto il suo sangue freddo. Teneva sotto mira
l'animale, e mormorava con un tono impossibile a rendere:
— Pallini da sei! Fulminare una tigre con dei pallini da sei! Se
non faccio fuoco a bruciapelo, negli occhi, siamo...
Il capitano non poté finire. La tigre avanzava, non a balzi, ma a
piccoli passi.
Goûmi, raggomitolato dietro, la teneva lui pure sotto mira, ma
anche il suo fucile non conteneva che dei pallini. Quanto al mio, non
era nemmeno carico.
Volli prendere una cartuccia nella cartuccera.
— Non movetevi — mi disse il capitano a bassa voce. — La tigre
balzerebbe, e non bisogna che lo faccia!
Ce ne stavamo perciò tutti e tre immobili.
La tigre avanzava lentamente. La sua testa, che un attimo prima
dondolava, non si muoveva più. I suoi occhi guardavano fisso, ma
come di sotto in su. Con la grande mandibola semiaperta, tenuta raso
al suolo, sembrava aspirarne le emanazioni.
In breve, la formidabile belva fu a soli dodici passi dal capitano.
Hod, ben piantato sulle gambe, immobile come una statua,
concentrava tutta la sua vita nello sguardo. La lotta spaventosa che si
preparava, da cui forse nessuno di noi sarebbe uscito vivo, non gli
faceva nemmeno aumentare i battiti del cuore!
Credetti, in quel momento, che la tigre stesse finalmente per
balzare.
Fece ancora cinque passi. Ebbi bisogno di tutta la mia forza per
non gridare al capitano Hod:
— Ma sparate, dunque! Sparate, dunque!
No! Il capitano lo aveva detto, ed era evidentemente il solo mezzo
di salvezza, egli voleva bruciare gli occhi all'animale; ma, per far
questo, bisognava sparargli solamente a bruciapelo.
La tigre fece ancora tre passi e si rizzò per lanciarsi...
Risuonò una violenta detonazione, che fu seguita quasi subito da
una seconda.
Il secondo scoppio era avvenuto nel corpo stesso dell'animale,
che, dopo tre o quattro sussulti e dei ruggiti di dolore, ricadde
esanime al suolo.
— Miracolo! — esclamò il capitano Hod. — Il mio fucile era
carico a palla, dunque, e a proiettile esplosivo! Ah! questa volta
grazie, Fox, grazie!
— Possibile! — esclamai.
— Guardate!
E, aprendo la sua arma, il capitano Hod ne estrasse la cartuccia
della canna di sinistra.
Era una cartuccia a palla.
Tutto si spiegava.
Il capitano Hod aveva una carabina doppia e un fucile doppio,
entrambi dello stesso calibro. Ora, Fox, mentre per errore aveva
caricato la carabina con le cartucce a pallini, aveva caricato il fucile
da caccia con le cartucce a proiettili esplosivi, e se, il giorno prima,
quell'errore aveva salvato la vita al leopardo, oggi l'aveva salvata a
noi!
— Sì, — riprese il capitano Hod, — e non mi sono mai trovato
più vicino alla morte!
Mezz'ora dopo eravamo di ritorno all'accampamento. Hod faceva
chiamare Fox e raccontava quanto era accaduto.
— Capitano, — rispose l'attendente, — questo dimostra che,
invece di due giorni di consegna, ne merito quattro, poiché mi sono
ingannato due volte!
— È anche il mio parere, — rispose il capitano Hod; — ma
poiché il tuo errore mi ha fruttato la mia quarantunesima, è mio
parere pure offrirti questa ghinea...
— E parere mio prenderla, — rispose Fox, che intascò la moneta
d'oro. Questi furono gli incidenti che segnalarono il primo incontro
del capitano Hod e della sua quarantunesima tigre.
La sera del 12 giugno, il nostro treno si fermava presso una
borgata poco importante, e, il giorno seguente, ripartivamo per
superare i centocinquanta chilometri che ci separavano ancora dalle
montagne del Nepal.
CAPITOLO XIV
UNO CONTRO TRE
ALCUNI giorni ancora e avremmo finalmente cominciato ad
arrampicarci sulle prime balze di quelle regioni settentrionali
dell'India che, di piano in piano, di collina in collina, di montagna in
montagna, vanno a raggiungere le maggiori altezze del globo. Fino
allora, il suolo non aveva seguito che un dislivello insensibile, la sua
pendenza si notava solo leggermente, e il nostro Gigante d'Acciaio
non sembrava nemmeno accorgersene.
Il tempo era burrascoso, soprattutto piovoso, ma la temperatura si
manteneva ad una media sopportabile. Le strade non erano ancora
cattive e resistevano bene sotto i larghi cerchioni delle ruote del
treno, per quanto esso fosse pesante. Quando qualche solco
affondava eccessivamente, bastava un colpetto della mano di Storr
all'acceleratore per provocare una più energica spinta del fluido
obbediente, e l'ostacolo veniva superato. La potenza non mancava
alla nostra macchina, lo si sa, e un quarto di giro, impresso alle
valvole di immissione, aggiungeva istantaneamente alla sua forza
effettiva alcune dozzine di cavalli-vapore.
Per la verità, finora non avevamo che da complimentarci tanto per
quel genere di locomozione quanto del motore che Banks aveva
adottato e della comodità delle nostre case ambulanti, sempre in
cerca di nuovi orizzonti che si modificavano continuamente sotto il
nostro sguardo.
Infatti non era più quella pianura sconfinata che si stende dalla
valle del Gange fino ai territori dell'Oudh e del Rohilkhand. Le vette
dell'Himalaya formavano a nord una gigantesca barriera, contro la
quale venivano a inciampare le nuvole cacciate dal vento di sudovest. Era ancora impossibile vedere bene il pittoresco profilo di una
catena che si stagliava a una media di ottomila metri sopra il livello
del mare; ma, avvicinandoci alla frontiera tibetana, l'aspetto del
paese diventava più selvaggio, e le jungle invadevano il suolo a spese
dei campi coltivati.
Anche la flora di quella parte del territorio indù non è più la
stessa. Già i palmizi erano scomparsi per cedere il posto a quei
magnifici baniani, a quei manghi fronzuti che forniscono il frutto
migliore dell'India e più ancora ai gruppi di bambù, i cui rami si
aprivano a mazzo fino a cento piedi dal suolo. Si vedevano anche
magnolie dai larghi fiori che impregnavano l'aria di profumi
penetranti, aceri superbi, querce di diverse specie, castani dai frutti
irti di punte come ricci di mare, alberi della gomma la cui linfa
sgorgava dalle vene semiaperte, pini dalle foglie enormi della specie
dei pandani; poi, più modesti di dimensioni, più splendidi di colori,
gerani, rododendri, lauri, disposti ad aiuole, che fiancheggiavano le
strade.
Si vedevano ancora dei villaggi con capanne di paglia o di bambù,
due o tre fattorie, perdute in mezzo ai grandi alberi, ma già
distanziati da un maggior numero di miglia. La popolazione
diminuiva con l'avvicinarsi alle alte terre.
Sopra questi ampi paesaggi, come sfondo, bisogna ora mettere un
cielo grigio e nebbioso. Aggiungerò anzi che la pioggia cadeva
generalmente in violenti acquazzoni. Per quattro giorni, dal 13 al 17
giugno, non avemmo forse una mezza giornata di tregua. Quindi,
eravamo costretti a rimanere nel salotto della Steam-House e a
ingannare le lunghe ore come si sarebbe fatto in una casa stabile,
fumando e chiacchierando, giocando a whist.
Frattanto, i fucili restavano inoperosi, con gran dispiacere del
capitano Hod; ma due slam, che egli fece in una sera sola, gli resero
il suo solito buon umore.
— Si può sempre ammazzare una tigre, — disse, — ma non
sempre si può fare uno slam!
Non c'era nulla da ribattere a una proposizione tanto esatta e
formulata così nettamente.
Il 17 giugno, l'accampamento venne rizzato presso un serai, nome
che portano i bungalow riservati in particolar modo ai viaggiatori. Il
tempo si era leggermente schiarito, e il Gigante d'Acciaio, che aveva
lavorato duramente in quei quattro giorni, reclamava, se non un po'
di riposo, almeno delle cure. Si stabilì quindi di passare la mezza
giornata e la notte seguente in quel luogo.
Il serai è il caravanserraglio, la locanda pubblica delle strade
principali della penisola, un quadrilatero di costruzioni poco elevate
che circondano una corte interna, e, per lo più, sormontate da quattro
torrette agli angoli, il che dà loro un'aria decisamente orientale. In
questi serai, vi è del personale addetto in particolar modo al servizio
interno; il bhisti o portatore d'acqua, il cuoco, provvidenza dei
viaggiatori che, poco esigenti, sanno accontentarsi di uova e di
pollame, e il khansama, cioè il fornitore di viveri, con il quale si può
trattare direttamente, e, generalmente, a buon prezzo.
Il guardiano del serai, il fante, è semplicemente un agente
dell'onorevolissima Compagnia, alla quale appartengono quasi tutti
questi stabilimenti, che essa fa ispezionare dall'ingegnere capo del
distretto.
Una regola abbastanza strana, ma osservata rigorosamente in
quegli stabilimenti, è questa: qualsiasi viaggiatore può occupare il
serai per ventiquattro ore; se vi vuol soggiornare più a lungo, deve
avere un permesso dell'ispettore. In mancanza di tale permesso, il
primo venuto, inglese o indù, può esigere che gli ceda il posto.
Naturalmente, appena fummo arrivati al nostro luogo di fermata,
il Gigante d'Acciaio produsse il solito effetto, ossia fu molto
osservato, forse anche molto invidiato. Tuttavia devo ammettere che
gli ospiti che si trovavano allora nel serai lo considerarono piuttosto
con una specie di disprezzo, disprezzo troppo affettato per essere
sincero.
È vero che non avevamo a che fare con dei semplici mortali, che
viaggiassero per commercio o per diporto. Non si trattava né di
qualche ufficiale inglese che ritornasse agli accantonamenti della
frontiera nepalese né di qualche mercante indù, che conducesse la
sua carovana verso le steppe dell'Afghanistan, al di là di Labore o di
Peshawar.
Era nientemeno che il principe Guru Singh in persona, figlio di un
rajah indipendente del Guzarate, anch'egli rajah, che viaggiava con
gran pompa nel nord della penisola indiana.
Questo principe occupava non solo le tre o quattro sale del serai,
ma anche tutti i dintorni, che erano stati sistemati in modo da
alloggiare le persone del suo seguito.
Non avevo ancora visto nessun rajah in viaggio. Perciò appena il
nostro accampamento fu preparato a un quarto di miglio circa dal
serai, in un luogo delizioso, sulla sponda di un piccolo corso d'acqua,
e al riparo di magnifici pandani, mi recai, in compagnia del capitano
Hod e di Banks, a visitare l'accampamento del principe Guru Singh.
Il figlio di un rajah in viaggio non si sposta da solo, tutt'altro! Se
c'è della gente che non invidio, sono proprio quelli che non possono
muovere una gamba né fare un passo, senza mettere immediatamente
in moto alcune centinaia d'uomini! Molto meglio essere un semplice
viandante con il sacco in spalla, il bastone in mano e il fucile a
bandoliera, piuttosto che un principe che viaggi nell'India, con tutto il
cerimoniale che il suo rango gli impone.
— Non è un uomo che va da una città all'altra, — mi disse Banks,
— è un villaggio intero che modifica le proprie coordinate
geografiche!
— Preferisco la Steam-House, — risposi, — e non farei il cambio
con questo figlio di rajah!
— E chissà,— riprese il capitano Hod, — se questo principe non
preferirebbe la nostra casa ambulante a tutta questa fastidiosa
messinscena da campagna!
— Non ha che da dire una parola, — esclamò Banks, — e gli
fabbricherò un palazzo a vapore, purché paghi le spese! Ma, in attesa
della sua ordinazione, vediamo un po' questo accampamento, se ne
vale la pena!
Il seguito del principe non comprendeva meno di cinquecento
persone. Fuori, sotto i grandi alberi della pianura, erano disposti
simmetricamente come le tende di un vasto campo duecento carri.
Per trascinarli, gli uni avevano degli zebù, altri dei bufali, senza
contare tre magnifici elefanti che portavano sul dorso dei ricchissimi
palanchini, e una ventina di quei cammelli, venuti dai paesi all'ovest
dell'Indo, che si attaccano alla Daumont. 19 Nulla mancava a quella
19
Sistema per attaccare i cavalli a una carrozza, che deriva il suo nome dal duca
d'Aumont che per primo lo introdusse in Francia sotto la Restaurazione; esso
carovana, né i suonatori che deliziavano le orecchie di Sua Altezza,
né le baiadere che rallegravano i suoi occhi, né i giocolieri che
divertivano i suoi ozi. Trecento portatori e duecento alabardieri
completavano il seguito, i cui stipendi avrebbero esaurito qualsiasi
borsa che non fosse stata quella di un rajah indipendente dell'India.
I musicisti erano suonatori di piccoli tamburi, di cembali, di tamtam, appartenenti a quella scuola che sostituisce ai suoni i rumori;
poi degli strimpellatori di chitarra e di violino a quattro corde, i cui
strumenti non erano mai passati per le mani dell'accordatore.
Fra i giocolieri c'erano alcuni di quei sapwallah, o incantatori di
serpenti, che con i loro incantesimi allontanano e attirano i rettili; dei
nutui, abilissimi nelle evoluzioni con la sciabola; degli acrobati che
ballano sulla corda lenta, con in testa una piramide di vasi di coccio e
ai piedi zoccoli di corna di bufalo; e finalmente di quei prestigiatori
che hanno l'abilità di trasformare in velenosi cobra delle vecchie pelli
di serpente o viceversa, a piacimento dello spettatore.
Le baiadere appartenevano alla classe di quelle graziosissime
boundeli, tanto ricercate per le nautch o feste serali, nelle quali
adempiono la doppia funzione di cantanti e di ballerine. Vestite
molto elegantemente, alcune di mussola ricamata d'oro, altre di
gonne a pieghe e di sciarpe che sciolgono eseguendo i loro passi,
quelle ballerine erano adorne di ricchi gioielli, braccialetti preziosi
alle braccia, anelli d'oro alle dita dei piedi e delle mani, sonagli
d'argento alle caviglie. In tale abbigliamento, esse eseguono la
famosa danza delle uova con grazia e destrezza veramente
straordinarie, e io speravo che mi sarebbe stato concesso di
ammirarle dietro invito speciale del rajah.
Poi un certo numero d'uomini, di donne e di fanciulli figurava non
so a quale titolo nel personale della carovana. Gli uomini erano
avvolti in una lunga striscia di stoffa che si chiama dhoti o vestiti
della camicia angarkah e della lunga veste bianca jamah, che forma
un costume molto pittoresco.
consiste in un tiro di quattro cavalli attaccati alla carrozza senza timone e guidati
da due postiglioni che montano i primi due animali. (N.d.T.)
Le donne portavano il choli, specie di giacchetta a maniche corte,
e il sari, equivalente del dhoti degli uomini, che esse si avvolgono
intorno al corpo, e la cui estremità gettano con civetteria sul capo.
Questi indù, sdraiati sotto gli alberi, aspettando l'ora del pasto,
fumavano delle sigarette avvolte in una foglia verde, oppure il
garguli destinato all'incenerazione del gurago, specie di marmellata
nerastra composta di tabacco, melassa e oppio. Altri masticavano
quel miscuglio di foglia di betel, noce di arek e calce spenta, che ha
certamente delle proprietà digestive, utilissime sotto il clima infocato
dell'India.
Tutta quella gente, abituata a muoversi in carovana, viveva in
buon accordo, e mostrava animazione solo in occasione delle feste.
Si sarebbero dette comparse di una compagnia teatrale, che ricadono
nella più completa apatia appena sono fuori di scena.
Tuttavia, quando giungemmo all'accampamento, quegli indù si
affrettarono a rivolgerci dei salam inchinandosi fino a terra. La
maggior parte di loro gridava: Sahib! Sahib! che significa: Signore!
Signore! e noi rispondemmo loro con gesti amichevoli.
Come ho detto, mi era venuto in mente che il principe Guru Singh
avrebbe forse voluto dare in nostro onore una di quelle feste di cui i
rajah non sono avari. La grande corte del bungalow, adattissima per
una cerimonia di questo genere, mi pareva una degna cornice per le
danze delle baiadere, gli incantesimi degli incantatori e i giochi degli
acrobati. Sarei stato felice, lo confesso, di poter assistere a questo
spettacolo in un serai, sotto l'ombra di magnifici alberi, e con la
scenografia naturale costituita dal personale della carovana. Sarebbe
stato meglio certamente del palcoscenico di un teatro ristretto, con le
quinte di tela dipinta, le strisce di falso verde e le poche comparse.
Comunicai il mio pensiero ai miei compagni, i quali, pur
condividendo il mio desiderio, non credettero che potesse realizzarsi.
— Il rajah di Guzarate, — mi disse Banks, — è un indipendente
che si è appena sottomesso, dopo la rivolta dei Cipay, durante la
quale la sua condotta è stata per lo meno ambigua. Egli non ama
affatto gli inglesi, e suo figlio non farà nulla per farci piacere.
— Ebbene, faremo a meno delle sue nautch! — rispose il capitano
Hod con una sdegnosa alzata di spalle.
Doveva essere così, e non fummo neppure ammessi a visitare
l'interno del serai. Forse il principe Guru Singh si aspettava la visita
ufficiale del colonnello. Ma sir Edward Munro non aveva nulla da
chiedere a quel personaggio, non ne aspettava nulla, e non si
scomodò.
Ritornammo perciò al luogo della sosta e facemmo onore
all'ottimo pranzo che il signor Parazard ci preparò. Devo dire che le
conserve ne formavano la parte principale. Da molti giorni la caccia
ci era stata vietata a causa del cattivo tempo; ma il nostro cuoco era
un uomo abile, e sotto la sua mano sapiente le carni e i legumi
conservati ripresero la freschezza e il sapore naturale.
Per tutta la serata, e nonostante quello che diceva Banks, aspettai,
spinto da un senso di curiosità, un invito che non venne. Il capitano
Hod scherzò sulla mia passione per i balli all'aperto, e sostenne anzi
che «era molto meglio» all'Opera. Non volli credergli, ma a causa
della poca cortesia del principe, mi fu impossibile constatarlo.
Il giorno dopo, 18 giugno, venne preparato tutto, perché la nostra
partenza potesse avvenire all'alba.
Alle cinque, Kâlouth cominciò a attivare la caldaia. Il nostro
elefante, che era stato staccato, era a una cinquantina di passi dal
treno, e il macchinista era occupato a rinnovare la provvista d'acqua.
Frattanto noi passeggiavamo sulla riva del fiumicello.
Quaranta minuti più tardi, la caldaia aveva raggiunto una
pressione sufficiente, e Storr stava per cominciare la manovra di
retromarcia, quando un gruppo di indù si avvicinò.
Erano cinque o sei, riccamente vestiti con vesti bianche, tuniche di
seta, turbanti adorni di ricami d'oro. Una dozzina di guardie armate
di moschetti e di sciabole li accompagnava. Uno di questi soldati
portava una corona di foglie verdi, il che indicava la presenza di
qualche personaggio importante.
Infatti, il personaggio importante era il principe Guru Singh in
persona, uomo di circa trentacinque anni, dall'aria altera, esemplare
abbastanza ben riuscito dei discendenti di quei rajah leggendari, nei
lineamenti dei quali si ritrovava il tipo maharatto.
Il principe non degnò nemmeno di notare la nostra presenza. Fece
alcuni passi, e si avvicinò al gigantesco elefante che la mano di Storr
stava per mettere in moto. Poi, dopo averlo esaminato, non senza un
certo senso di curiosità, benché non volesse lasciarlo vedere:
— Chi ha costruito questa macchina? — domandò a Storr.
Il macchinista mostrò l'ingegnere, che ci aveva raggiunti e stava a
pochi passi.
Il principe Guru Singh si esprimeva facilmente in inglese, e,
rivolgendosi a Banks:
— Siete voi che avete?... — disse a labbra strette.
— Sono io che ho! — rispose Banks.
— Mi hanno detto che è stato un capriccio del defunto rajah di
Buthan. Banks fece un cenno affermativo con il capo.
— A che cosa serve, — riprese Sua Altezza, con una scortese
alzata di spalle, — a che serve farsi trascinare da una macchina
quando si hanno al proprio servizio degli elefanti di carne e d'ossa?
— Beh, probabilmente, questo elefante è più potente di tutti quelli
di cui il defunto rajah si serviva.
— Oh! — disse Guru Singh, allungando sdegnosamente le labbra
— più potente!...
— Infinitamente di più! — rispose Banks.
— Non uno dei vostri, — disse allora il capitano Hod, al quale
quel modo di fare dava estremamente fastidio, — non uno dei vostri
sarebbe capace di far muovere una zampa a questo elefante, se non lo
volesse.
— Voi dite?... — disse il principe.
— Il mio amico afferma, ribatté l'ingegnere, — e anch'io lo
affermo con lui, che questo animale artificiale potrebbe resistere alla
trazione di dieci coppie di cavalli, e che i vostri tre elefanti, attaccati
insieme, non riuscirebbero a farlo indietreggiare di un passo.
— Non lo credo affatto, — rispose il principe.
— Avete torto a non crederlo affatto, — replicò il capitano Hod.
— E quando Vostra Altezza vorrà spendere, — aggiunse Banks
— mi impegno a fornirgliene uno che avrà la forza di venti elefanti
scelti fra i migliori delle sue scuderie!
— Cose che si dicono, — disse molto seccamente Guru Singh.
— E che si fanno, — rispose Banks.
Il principe cominciava a scaldarsi. Si vedeva che non sopportava
facilmente la contraddizione.
— Si potrebbe provarlo subito, — disse dopo un momento di
riflessione.
— È possibile, — rispose l'ingegnere.
— E anche, — aggiunse il principe Guru Singh, — fare di questa
prova l'oggetto di una scommessa importante, a meno che non vi
tiriate indietro per timore di perderla, come indietreggerebbe il vostro
elefante, senza dubbio, se dovesse lottare con i miei!
— Il Gigante d'Acciaio indietreggiare! — esclamò il capitano
Hod. — Chi osa pretendere che il Gigante d'Acciaio
indietreggerebbe?
— Io, — rispose Guru Singh.
— E quanto scommetterebbe Vostra Altezza? — domandò
l'ingegnere incrociando le braccia.
— Quattromila rupie, — rispose il principe, — se avete
quattromila rupie da perdere!
Erano circa diecimila franchi. La cifra era forte, e vidi bene che
Banks, per quanto fosse fiducioso, non voleva rischiare una somma
simile.
Il capitano Hod avrebbe accettato il doppio, se la sua modesta
paga glielo avesse permesso.
— Rifiutate! — disse allora Sua Altezza, per il quale quattromila
rupie rappresentavano appena il prezzo di un capriccio passeggero.
— Avete paura di scommettere quattromila rupie?
— Accettato, — disse il colonnello Munro, che si era avvicinato e
che interveniva con questa sola parola, ma che aveva il suo peso.
— Il colonnello Munro scommette quattromila rupie? —
domandò il principe Guru Singh.
— E anche diecimila, — rispose sir Edward Munro, — se ciò
conviene a Vostra Altezza.
— Sia pure! — rispose Guru Singh.
Davvero, la cosa si faceva interessante. L'ingegnere aveva stretto
la mano del colonnello, come per ringraziarlo di non averlo lasciato
umiliato dinanzi a quello sdegnoso rajah, ma le sue sopracciglia si
erano aggrottate per un istante, e mi domandai se egli non avesse
presunto troppo dalla potenza meccanica della sua macchina.
Quanto al capitano Hod, era raggiante, si fregava le mani, e
avanzando verso l'elefante:
— Attento, Gigante d'Acciaio! — esclamò. — Si tratta di lavorare
per l'onore della nostra vecchia Inghilterra!
Tutti i nostri uomini si erano schierati su uno dei lati della via. Un
centinaio di indù avevano lasciato l'accampamento del serai e
accorrevano per assistere alla lotta che si preparava.
Banks ci aveva lasciati per salire nella torretta, accanto a Storr, il
quale, con un tiraggio forzato, attivava il forno lanciando un getto di
vapore attraverso la proboscide del Gigante d'Acciaio.
Frattanto, a un cenno del principe Guru Singh, alcuni dei suoi
servitori erano andati al serai, e riconducevano i tre elefanti,
sbarazzati di tutta la loro bardatura da viaggio. Erano tre magnifici
animali, originari del Bengala, e di statura più alta di quelli dell'India
meridionale. Quei superbi animali, in tutta la forza dell'età, mi
ispirarono una specie di inquietudine.
I mahout, aggrappati sul loro enorme collo, li dirigevano con la
mano e li incitavano con la voce.
Quando quegli elefanti passarono davanti a Sua Altezza, il più
grande dei tre, un vero gigante della specie, si fermò, piegò le
ginocchia anteriori, alzò la proboscide e salutò il principe da
cortigiano ben educato. Poi, i suoi due compagni e lui si
avvicinarono al Gigante d'Acciaio che sembrarono guardare con
stupore misto a un po' di paura.
Forti catene di ferro furono allora fissate sul piano del tender alle
barre d'attacco nascoste nella parte posteriore del nostro elefante.
Confesso che mi batteva il cuore. Quanto al capitano Hod, si
mordeva i baffi e non poteva star fermo.
Il colonnello Munro era calmo quanto il principe Guru Singh,
direi anzi di più.
— Siamo pronti, — disse l'ingegnere. — Quando Vostra Altezza
desidera...
— Va bene, — rispose il principe.
Guru Singh fece un cenno, i mahout emisero un fischio
particolare, e i tre elefanti, puntando sul suolo le gambe potenti,
tirarono con un accordo perfetto. La macchina cominciò ad
indietreggiare di qualche passo.
Mi sfuggì un grido. Hod batté il piede.
— Blocca le ruote! — disse semplicemente l'ingegnere,
rivolgendosi al macchinista.
E con un gesto rapido, che fu seguito da un fischio di vapore, il
freno ad aria venne applicato istantaneamente.
Il Gigante d'Acciaio si arrestò e non si mosse più.
I mahout incitarono i tre elefanti, che, con i muscoli tesi, fecero un
nuovo sforzo.
Fu inutile. Il nostro elefante sembrava abbarbicato al suolo.
Il principe Guru Singh si morse le labbra a sangue. Il capitano
Hod batté le mani.
— Avanti! — gridò Banks.
— Sì! avanti,— ripete il capitano, — avanti!
L'acceleratore fu azionato completamente. Grosse volute di
vapore sfuggirono a un tratto dalla proboscide, le ruote sbloccate
girarono lentamente mordendo la pavimentazione della strada, e i tre
elefanti, nonostante la loro terribile resistenza, furono trascinati
indietro, scavando nel suolo dei solchi profondi.
— Go head! go head! — urlava il capitano Hod.
E siccome il Gigante d'Acciaio seguitava a proseguire, i tre
enormi animali caddero sul fianco, e furono trascinati per una ventina
di passi, senza che il nostro elefante sembrasse avvedersene.
— Hurrah! hurrah! hurrah! — gridava il capitano Hod, che non
era più padrone di se stesso. — Si potrebbe unire ai suoi elefanti tutto
il serai di Sua Altezza! Non peserà più di una piuma per il nostro
Gigante d'Acciaio.
Il colonnello Munro fece un segno con la mano. Banks disinnestò
l'acceleratore e la macchina si arrestò.
Non c'era niente di più miserando dello spettacolo dei tre elefanti
di Sua Altezza, con la proboscide impazzita, le zampe all'aria, che si
agitavano come giganteschi scarabei rovesciati sul dorso!
Quanto al principe, non meno irritato che vergognoso, se ne era
andato senza nemmeno aspettare la fine della prova.
I tre elefanti vennero allora staccati. Si rialzarono, visibilmente
umiliati della loro disfatta. Quando ripassarono davanti al Gigante
d'Acciaio, il più grande, nonostante il suo cornac, non poté
trattenersi dal piegare le ginocchia e dal salutare con la proboscide,
così come aveva fatto davanti al principe Guru Singh.
Un quarto d'ora dopo, un indù, il kàmdar o segretario di Sua
Altezza, giungeva al nostro accampamento e consegnava al
colonnello un sacco contenente diecimila rupie, l'ammontare della
scommessa perduta.
Il colonnello Munro prese il sacco e gettandolo sdegnosamente:
— Per il seguito di Sua Altezza! — disse.
Poi, si diresse tranquillamente verso la Steam-House.
Non si poteva dare una lezione migliore al principe arrogante, che
ci aveva provocato così sdegnosamente.
Frattanto, poiché il Gigante d'Acciaio era stato attaccato, Banks
diede subito il segnale della partenza, e fra un enorme concorso di
indù attoniti, il nostro treno parti a gran velocità.
Delle grida lo salutarono al passaggio, e ben presto avevamo
perduto di vista, a una svolta della strada, il serai del principe Guru
Singh.
Il giorno seguente, la Steam-House cominciò a salire le prime
pendenze che congiungono la pianura alla base della frontiera
himalayana.
Fu uno scherzo per il nostro Gigante d'Acciaio, al quale gli ottanta
cavalli-vapore chiusi nei suoi fianchi avevano permesso di lottare
senza alcun fastidio contro i tre elefanti del principe Guru Singh.
Esso si inerpicò dunque facilmente sulle strade in salita di questa
regione, senza che fosse necessario aumentare la pressione normale
del vapore.
Per la verità, era uno spettacolo bizzarro vedere il colosso,
vomitante fasci di scintille, che trascinava, con barriti meno
precipitati ma più prolungati, i due vagoni che salivano su per il
tracciato a zig-zag delle strade. I cerchioni rigati delle ruote striavano
il suolo la cui pavimentazione strideva cedendo. Bisogna pur
confessarlo, il nostro pesante animale si lasciava dietro delle
profonde carreggiate e danneggiava la strada, già inzuppata dalle
piogge torrenziali.
Ad ogni modo, a poco a poco la Steam-House saliva, il panorama
si allargava alle nostre spalle, la pianura si abbassava, e, vèrso sud,
l'orizzonte, svolgendosi su un perimetro più largo, indietreggiava a
perdita d'occhio.
L'effetto prodotto era ancora più sensibile quando, per qualche
ora, la strada si cacciava sotto gli alberi di una folta foresta. Allora,
quando qualche ampia radura si apriva come un'immensa finestra
sulla groppa della montagna, il treno si fermava, un attimo appena, se
qualche nebbia umida oscurava il paesaggio, una mezza giornata, se
il paesaggio si disegnava più nitidamente agli sguardi. E tutti e
quattro, con i gomiti appoggiati alla balaustra della veranda
posteriore, ce ne stavamo a contemplare lungamene il magnifico
panorama che si svolgeva sotto i nostri occhi.
Questa ascensione, intervallata da soste più o meno prolungate,
secondo il caso, interrotta dagli accampamenti notturni, non durò
meno di sette giorni, dal 19 al 25 giugno.
— Con un po' di pazienza, — diceva il capitano Hod, — il nostro
treno salirebbe fino alle più alte vette dell'Himalaya!
— Non tanta ambizione, capitano, — rispondeva l'ingegnere.
— Credete, Banks, lo farebbe!
— Sì, Hod, lo farebbe, se la strada praticabile non venisse ben
presto a mancargli, e a condizione di portare con sé del combustibile,
che non troverebbe più sui ghiacciai, e dell'aria respirabile, che gli
mancherebbe a duemila tese d'altezza. Ma a noi non interessa affatto
di superare la zona abitabile dell'Himalaya. Quando il Gigante
d'Acciaio avrà raggiunto l'altezza media dei sanitarium, si fermerà in
qualche bella località, sul ciglio di una foresta montana, in un clima
rinfrescato dagli strati superiori dell'atmosfera.
Il nostro amico Munro avrà trasferito il suo bungalow da Calcutta
nelle montagne del Nepal, ecco tutto, e vi soggiorneremo fintanto
che egli vorrà.
Questo luogo di sosta, dove dovevamo accamparci per alcuni
mesi, venne trovato fortunatamente nella giornata del 25 giugno. Da
quarantotto ore, la strada diventava sempre meno praticabile, sia che
avesse un fondo costruito meno bene, sia che le piogge l'avessero
guastata. Il Gigante d'Acciaio dovette «sudare», come si dice
volgarmente, ma se la cavò consumando un po' più di combustibile.
Alcuni pezzi di legno, aggiunti nel forno di Kâlouth, bastavano ad
aumentare la pressione del vapore. Ma non fu mai necessario caricare
le valvole, la cui farfalla non lasciava sfuggire il fluido che sotto una
pressione di sette atmosfere, pressione che non venne superata.
Da quarantotto ore, poi, il nostro treno si avventurava su un
territorio pressappoco deserto. Di borgate o villaggi, non se ne
incontravano più. Appena qualche abitazione isolata, talvolta una
fattoria, perduta in quelle grandi foreste di pini che rendono irta la
groppa meridionale dei contrafforti. Tre o quattro volte, dei rari
montanari ci salutarono con interiezioni ammirative. Nel vedere
quella macchina meravigliosa arrampicarsi sulla montagna, non era
lecito che credessero che Brahma si concedesse il capriccio di
trasportare tutta una pagoda su qualche altura inaccessibile della
frontiera nepalese?
Finalmente, in quella giornata del 25 giugno, Banks ci gettò
un'ultima volta la parola: «Alt!» che poneva termine alla prima parte
del nostro viaggio nell'India settentrionale. Il treno si fermava in
un'ampia radura, vicino a un torrente, la cui acqua limpida doveva
bastare a tutte le necessità di un accampamento per qualche mese. Da
quel punto, lo sguardo poteva abbracciare la pianura su un perimetro
di cinquanta o sessanta miglia.
La Steam-House si trovava allora a trecentoventicinque leghe dal
suo punto di partenza, a duemila metri circa sopra il livello del mare,
e ai piedi di quel Dawalaghiri, la cui vetta si perdeva a
venticinquemila piedi nell'aria.
CAPITOLO XV
IL «PÀL» DI TANDÎT
DOBBIAMO lasciare per un poco il colonnello Munro e i suoi
compagni: l'ingegner Banks, il capitano Hod, il francese Maucler, e
interrompere per qualche pagina il racconto di questo viaggio, la
prima parte del quale comprende l'itinerario da Calcutta alla frontiera
indocinese e termina alla base delle montagne del Tibet.
Si ricorderà l'incidente che era accaduto al passaggio della SteamHouse da Allahabad. Un numero del giornale cittadino, recante la
data del 25 maggio, aveva informato il colonnello Munro della morte
di Nana Sahib. Questa notizia, spesso diffusa e sempre smentita,
questa volta era vera? Sir Edward Munro, con dei particolari così
precisi, poteva dubitare ancora, e non doveva finalmente rinunciare a
farsi giustizia del ribelle del 1857?
Se ne giudicherà.
Ecco quanto era accaduto dopo quella notte tra il 7 e l’8 marzo,
nella quale Nana Sahib, accompagnato da suo fratello Balao Rao,
scortato dai suoi più fedeli compagni d'armi, e seguito dall'indiano
Kâlagani, aveva lasciato le grotte di Adjuntah.
Sessanta ore più tardi, il nababbo giungeva alle strette gole dei
monti Sautpurra dopo avere attraversato il Tapi, che va a gettarsi
sulla costa occidentale della penisola, presso Surate. Egli era allora a
cento miglia da Adjuntah, in una zona poco frequentata della
provincia, il che, per il momento, gli garantiva una certa sicurezza.
Il luogo era scelto bene.
I monti Sautpurra, di media altezza, dominano verso sud il bacino
del Nerbudda, il cui limite settentrionale è coronato dai monti
Vindhya. Queste due catene, correndo quasi parallele l'una all'altra,
intersecano le loro ramificazioni, e offrono, in questo paese
accidentato, dei rifugi difficili da scoprire. Ma se i Vindhya,
all'altezza del 23° grado di latitudine, tagliano l'India quasi
interamente da ovest a est, formando uno dei lati maggiori del
triangolo centrale della penisola, non è così dei Sautpurra, che non
superano il 75° grado di longitudine, e vengono a congiungervisi nel
monte Kaligong.
Là, Nana Sahib si trovava all'ingresso del paese dei Gound,
temibili tribù di quei popoli di vecchia razza, non ancora ben
assoggettati, che egli voleva indurre alla rivolta.
Un territorio di duecento miglia quadrate, una popolazione di oltre
tre milioni d'abitanti, questo è il paese del Gondwana, di cui il signor
Rousselet considera gli abitanti come autoctoni e nel quale i fermenti
di ribellione sono sempre all'ordine. È questa una parte importante
dell'Indostan, e, a dire la verità, non è che nominalmente sotto il
dominio inglese. La ferrovia Bombay-Allahabad attraversa si questa
regione da sud-ovest a nord-est, getta anzi un tronco fino al centro
della provincia di Nagpore, ma le tribù sono rimaste selvagge,
refrattarie a ogni idea di civilizzazione, insofferenti del giogo
europeo, insomma, difficilissime da sottomettere nelle loro
montagne, e Nana Sahib lo sapeva bene.
Era dunque là che egli aveva voluto inizialmente cercare rifugio,
per sfuggire alle ricerche della polizia inglese, aspettando l'ora di
provocare il movimento insurrezionale.
Se il nababbo fosse riuscito nella propria impresa, se i Gound
fossero insorti alla sua voce e lo avessero seguito, la ribellione
avrebbe potuto prendere rapidamente una grande estensione.
Infatti, a nord del Gondwana, c'è il Bundelkund, che comprende
tutta la regione montuosa situata fra l'altipiano superiore dei Vindhya
e l'importante corso d'acqua Jumna. In questo paese, coperto o
meglio irto delle più belle foreste vergini dell'Indostan, vive un
popolo di Boundelas, astuto e crudele, presso il quale tutti i criminali,
politici o di altra natura, cercano volentieri e trovano facilmente un
rifugio; là si ammassa una popolazione di due milioni e mezzo di
abitanti su una superficie di ventottomila chilometri quadrati; là, le
province sono rimaste barbare; là vivono ancora alcuni di quei vecchi
partigiani che lottarono contro gli invasori sotto Tippo Sahib; là sono
nati i celebri strangolatori Thug, che furono per tanto tempo il terrore
dell'India, fanatici assassini, che, senza mai versare sangue, hanno
fatto innumerevoli vittime; là le bande dei Pindarri hanno compiuto
quasi impunemente i più odiosi eccidi; là pullulano ancora quei
terribili Dacoit, setta di avvelenatori, che seguono le orme dei Thug;
là, finalmente, si era già rifugiato Nana Sahib, dopo essere sfuggito
alle truppe reali, che si erano impadronite di Jansi; là egli aveva
sviato tutte le ricerche, prima di andare a chiedere un asilo più sicuro
ai rifugi inaccessibili della frontiera indocinese.
A est del Gondwana c'è il Khondistan, o paese dei Khound. Così
si chiamano i feroci seguaci di Tado Pennor, il dio della terra, e di
Maunck Soro, il dio rosso dei combattimenti, quegli adepti
sanguinari dei meriah, o sacrifici umani, che gli inglesi stentano
tanto a distruggere, quei selvaggi degni di essere paragonati agli
indigeni delle isole più barbare della Polinesia, contro i quali dal
1840 al 1854, il maggiore generale John Campbell, i capitani
Macpherson, Macvkcar e Frye, intrapresero delle terribili e lunghe
spedizioni, fanatici pronti a tutto osare, qualora, sotto qualche
pretesto religioso, una mano potente li avesse spinti avanti.
A ovest del Gondwana, c'è un paese di un milione e mezzo o due
milioni di persone, occupato dai Bhîl, un tempo potenti nel Malwa e
nel Rajputuna, ora divisi in clan, sparsi in tutta la regione dei
Vindhya, quasi sempre ubriachi di quell'acquavite che fornisce loro
l'albero del mhotvah, ma coraggiosi, audaci, robusti, agili, con
l'orecchio sempre aperto al kisri che è il loro grido di guerra e di
saccheggio.
Come si vede, Nana Sahib aveva scelto bene. In quella regione
centrale della penisola, invece di una semplice insurrezione militare,
egli sperava, questa volta, di provocare un movimento nazionale, al
quale avrebbero preso parte gli indù di ogni casta.
Ma, prima d'intraprendere qualsiasi cosa, bisognava stabilirsi nel
paese, per agire efficacemente sulle popolazioni nella misura che le
circostanze permettessero. Dunque, era necessario trovare un rifugio
sicuro, momentaneamente almeno, salvo abbandonarlo qualora
diventasse sospetto.
Questa fu la prima preoccupazione di Nana Sahib. Gli indù che lo
avevano seguito fino a Adjuntah, potevano andare e venire
liberamente in tutta la presidenza. Balao Rao, che non era preso di
mira dal manifesto del governatore, avrebbe potuto godere anch'egli
della stessa immunità, se non fosse stato per la sua somiglianza con il
fratello. Dopo la sua fuga, fino alle frontiere del Nepal, l'attenzione
non era più stata richiamata sulla sua persona, e c'erano tutte le
ragioni per crederlo morto. Ma, preso per Nana Sahib, sarebbe stato
arrestato, cosa che bisognava evitare ad ogni costo.
Perciò dunque, per quei due fratelli uniti nello stesso pensiero,
diretti a un identico scopo, era necessario un unico rifugio. Quanto al
trovarlo, non doveva essere né lungo né difficile in quelle gole dei
monti Sautpurra.
E infatti, il rifugio fu subito indicato da uno degli indù del
drappello, un Gound, che conosceva la vallata fin nei suoi più
profondi recessi.
Sulla riva destra di un piccolo affluente del Nerbudda, si trovava
un pâl abbandonato, che si chiamava il pâl di Tandît.
Il pâl è meno di un villaggio, è appena un minuscolo paese, un
gruppo di capanne, spesso addirittura un'abitazione isolata. La
famiglia nomade che lo occupa è venuta a stabilirvisi
temporaneamente. Dopo aver bruciato qualche albero, le cui ceneri
concimano il terreno per una breve stagione, il Gound ed i suoi si
sono costruiti la casa. Ma, siccome il paese è tutt'altro che sicuro, la
casa ha preso l'aspetto di un fortino. La circonda una palizzata, ed è
in grado di difendersi contro una sorpresa. Del resto, nascosta in
qualche fitta macchia, sepolta, per così dire, sotto una pergola di
cactus e di cespugli, non è facile scoprirla.
Per lo più, il pâl si trova in cima a qualche monticello, sul pendio
di una valle stretta, fra due contrafforti scoscesi, in mezzo a fustaie
impenetrabili. Pare impossibile che delle creature umane abbiano
potuto cercarvi rifugio. Niente strade che vi conducano; nessuna
traccia di sentieri che vi diano accesso. Per giungervi, bisogna
talvolta risalire il letto scosceso di un torrente, la cui acqua cancella
ogni impronta. Chi lo supera, non lascia impronte dietro di sé: nella
stagione calda, vi si entra fino alla caviglia, nella stagione fredda fino
al ginocchio, e nulla indica che un essere vivente vi sia passato.
Inoltre, una valanga di rocce che la mano di un fanciullo basterebbe a
far precipitare, schiaccerebbe chiunque tentasse di giungere al pâl
contro il volere dei suoi abitanti.
Pure, per quanto siano isolati nei loro recessi inaccessibili, i
Gound possono comunicare rapidamente di pâl in pâl. Dalla sommità
delle giogaie diseguali dei Sautpurra, i segnali si propagano in pochi
minuti per venti leghe di paese. Ora è un fuoco acceso sulla vetta di
un picco aguzzo, ora è un albero trasformato in torcia gigantesca, ora
un semplice fumo che impennacchia la vetta di un contrafforte. Si sa
che cosa significano questi segnali. Il nemico, ossia un distaccamento
di soldati dell'esercito reale, un drappello di agenti della polizia
inglese, è penetrato nella valle, risale il corso del Nerbudda, fruga
nelle gole della catena, in cerca di qualche malfattore, al quale questo
paese offre volentieri rifugio. Il grido di guerra, così familiare
all'orecchio dei montanari, diventa grido di allarme. Uno straniero lo
confonderebbe con l'ululato degli uccelli notturni o con il fischio dei
rettili. Il Gound, invece, non si sbaglia. Bisogna vegliare, si veglia;
bisogna fuggire, si fugge. I pâl sospetti vengono abbandonati,
talvolta anzi bruciati. Questi nomadi si rifugiano in altri recessi, che
abbandoneranno ancora, se sono serrati troppo da vicino, e su quei
terreni coperti di cenere, gli agenti dell'autorità non trovano più che
rovine.
Era a uno di questi pâl - il pâl di Tandît - che Nana Sahib e i suoi
erano venuti a chiedere rifugio. Li aveva condotti direttamente là il
fedele Gound devoto al nababbo. Essi arrivarono là nella giornata del
12 marzo.
Prima preoccupazione dei due fratelli, appena ebbero preso
possesso del pâl di Tandît, fu di riconoscerne con cura i dintorni.
Essi osservarono in quale direzione e a quale distanza lo sguardo si
poteva spingere, si fecero indicare quali erano le abitazioni più
vicine, si informarono circa coloro che le occupavano. Studiarono la
posizione di quella cresta isolata, sormontata dal pâl di Tandît, in
mezzo a una macchia di alberi, e si resero infine conto
dell'impossibilità di penetrarvi, senza seguire il letto di un torrente, il
torrente di Nazzur, che avevano risalito essi stessi.
Il pâl di Tandît offriva dunque tutte le condizioni di sicurezza,
tanto più che si elevava sopra un sotterraneo le cui uscite segrete si
aprivano sul fianco del contrafforte, e all'occorrenza permettevano di
fuggire.
Nana Sahib e suo fratello non avrebbero potuto trovare un rifugio
più sicuro.
Ma a Balao Rao non bastava sapere che cosa fosse al momento il
pâl di Tandît, egli voleva conoscere che cosa era stato, e, mentre il
nababbo visitava l'interno del fortino, egli continuò a interrogare il
Gound.
— Alcune domande ancora, — gli disse. — Da quanto tempo è
abbandonato questo pâl?
— Da più di un anno, — rispose il Gound.
— Chi lo abitava?
— Una famiglia di nomadi, che vi è rimasta solo pochi mesi.
— Perché lo hanno lasciato?
— Perché il terreno, destinato a nutrirli, non poteva più assicurare
loro il nutrimento.
— E dopo la loro partenza, nessuno, che tu sappia, vi ha cercato
rifugio?
— Nessuno.
— Nessun soldato dell'esercito reale, nessun agente di polizia ha
mai messo piede nel recinto di questo pâl?
— Mai.
— Nessuno straniero lo ha visitato?
— Nessuno... — rispose il Gound, — tranne una donna.
— Una donna? — rispose vivamente Balao Rao.
— Sì, una donna, che, da circa tre anni, vaga nella valle del
Nerbudda.
— Chi è questa donna?
— Chi sia, lo ignoro, — rispose il Gound, — di dove venga, non
posso dirlo, ed in tutta la valle, nessuno ne sa più di me sul suo
conto! È una straniera, è un'indù? Non si è mai potuto saperlo!
Balao Rao rifletté un istante; poi riprese:
— Che cosa fa questa donna?
— Va, viene, — rispose il Gound. — Vive unicamente di
elemosine. In tutta la valle, si ha per lei una specie di venerazione
superstiziosa. Molte volte, l'ho ricevuta nel mio pâl. Non parla mai.
Si potrebbe credere che sia muta, e non mi meraviglierei che lo fosse.
La notte, la si vede passeggiare, con in mano un ramo resinoso
acceso. Perciò non la si conosce che con il nome di «Fiamma
Errante»!
— Ma, — disse Balao Rao, — se questa donna conosce il pâl di
Tandît, non può tornarci mentre noi lo occupereremo, e noi non
abbiamo nulla da temere di lei?
— Nulla, — rispose il Gound. — Questa donna ha perduto la
ragione. La testa non le appartiene più; i suoi occhi non guardano
quello che vedono; le sue orecchie non ascoltano quello che sentono;
la sua lingua non sa più pronunciare una parola. È come se fosse
cieca, sorda, muta, per tutte le cose esterne. È una pazza, e una pazza
è una morta che continua a vivere!
Il Gound, con quel linguaggio proprio degli indù delle montagne
aveva fatto il ritratto di una strana creatura, conosciutissima nella
valle, la «Fiamma Errante» del Nerbudda.
Era una donna, il cui viso pallido, ancora bello, invecchiato e non
vecchio, ma privo di qualsiasi espressione, non indicava né l'origine
né l'età. Si sarebbe detto che i suoi occhi smarriti si fossero chiusi
alla vita intellettuale su qualche scena spaventosa che continuavano a
vedere «dal di dentro».
A questa creatura inoffensiva e priva della ragione, i montanari
avevano fatto buona accoglienza. I pazzi, per questi Gound, come per
tutti i popoli selvaggi, sono esseri sacri protetti da un rispetto
superstizioso. Perciò la Fiamma Errante era ricevuta ospitalmente
dovunque ella si presentava. Nessun pâl le chiudeva la porta. La si
nutriva quando aveva fame, le si dava un giaciglio quando cadeva di
stanchezza, senza aspettare una parola di ringraziamento che la sua
bocca non poteva più pronunciare.
Da quanto tempo durava quell'esistenza? Di dove veniva quella
donna? In quale periodo era apparsa nel Gondwana? Sarebbe stato
difficile dirlo con precisione. Perché passeggiava con una fiamma in
mano? Era per guidare i propri passi? Era per allontanare le belve?
non si sarebbe potuto dire. Le accadeva di sparire per dei mesi interi.
Che ne era allora? Lasciava forse le gole dei monti Sautpurra per
quelle dei Vindhya? Si smarriva al di là del Nerbudda, fino nel
Malwa o nel Bundelkund? Nessuno lo sapeva. Più d'una volta, la sua
assenza si era prolungata tanto, che si poté credere che la sua triste
vita avesse avuto termine. Ma no! La si vedeva ritornare, sempre
uguale, senza che né la fatica né la malattia né la miseria sembrassero
avere logorato la sua natura, in apparenza così fragile.
Balao Rao aveva ascoltato l'indù con grande attenzione.
Continuava ancora a domandarsi se non vi fosse un qualche pericolo
nel fatto che la Fiamma Errante conoscesse il pâl di Tandît, che vi
avesse già cercato rifugio, che il suo istinto potesse ricondurvela.
Ritornò dunque su questo punto, e domandò al Gound se lui o i
suoi sapevano dove si trovasse ora quella pazza.
— Lo ignoro, — rispose il Gound. — Sono più di sei mesi che
nessuno l'ha rivista nella valle. Perciò è possibile che sia morta. Ma
poi, se anche riapparisse e ritornasse al pâl di Tandît, non vi sarebbe
nulla da temere dalla sua presenza. Non è che una statua vivente; non
vi vedrebbe, non vi ascolterebbe, non saprebbe chi siete. Entrerebbe,
si siederebbe al vostro focolare, per un giorno, per due giorni, poi
riaccenderebbe la sua torcia spenta, vi lascerebbe e ricomincerebbe a
vagare di casa in casa. Questa è tutta la sua vita. Del resto, la sua
assenza si prolunga tanto questa volta, che è probabile che non ritorni
mai. Colei che era già morta di spirito deve ormai essere morta anche
di corpo.
Balao Rao non credette di dover parlare di questo incidente a
Nana Sahib, ed egli stesso non gli diede ben presto più nessuna
importanza.
Un mese dopo il loro arrivo al pâl di Tandît, il ritorno della
Fiamma Errante non era stato segnalato nella valle del Nerbudda.
CAPITOLO XVI
LA FIAMMA ERRANTE
PER UN mese intero, dal 12 marzo al 12 aprile, Nana Sahib rimase
nascosto nel pâl. Egli voleva dare alle autorità inglesi il tempo o
d'abbandonare le ricerche, o di mettersi su qualche falsa pista.
Se, durante il giorno, i due fratelli non uscivano, i loro fedeli
percorrevano la vallata, visitavano i villaggi e i casali, annunciavano
con parole velate la prossima apparizione di un «formidabile moniti»,
metà dio e metà uomo, e preparavano gli spiriti a un'insurrezione
nazionale.
Venuta la notte, Nana Sahib e Balao Rao si arrischiavano a
lasciare il loro covo, avventurandosi fin sulle rive del Nerbudda.
Andavano di villaggio in villaggio, di pâl in pâl, aspettando l'ora
nella quale avrebbero potuto percorrere con una certa sicurezza il
dominio dei rajah infeudati agli inglesi. Nana Sahib sapeva, del resto,
che molti semindipendenti, insofferenti del giogo straniero, si
sarebbero uniti a lui. Ma, per il momento, non si trattava che delle
popolazioni selvagge del Gondwana.
Questi Bhîl barbari, questi Kound nomadi, questi Gound, non più
civili degli indigeni delle isole del Pacifico, il Nana li trovò tutti
pronti a insorgere, tutti pronti a seguirlo. Se, per prudenza, egli non si
diede a conoscere che a due o tre potenti capi tribù, ciò bastò a
provargli che il suo solo nome avrebbe trascinato molti milioni di
quegli indù, che sono sparsi sull'altipiano centrale dell'Indostan.
Quando i due fratelli erano rientrati al pâl di Tandît, si rendevano
conto a vicenda di ciò che avevano udito, visto, fatto. Allora i loro
compagni li raggiungevano, portando da ogni parte la notizia che lo
spirito di ribellione soffiava come un vento di tempesta nella valle
del Nerbudda. I Gound non chiedevano che di lanciare il kisri, il
grido di guerra dei montanari, e di precipitarsi sugli accantonamenti
militari della presidenza.
Il momento non era ancora venuto.
Non sarebbe bastato, infatti, che tutta la regione compresa fra i
monti Sautpurra e i Vindhya fosse in fuoco. Bisognava anche che
l'incendio potesse estendersi sempre più. Era dunque necessario
ammucchiare gli elementi infiammabili nelle province vicine al
Nerbudda, che erano più direttamente sotto le autorità inglesi. Di
ogni città, di ogni borgata del Bhopal, del Malwa, del Bundelkund, e
di tutto quell'ampio regno di Scindia, bisognava fare un immenso
focolare, pronto ad accendersi. Ma Nana Sahib, con ragione, voleva
prendere su di sé la cura di visitare gli antichi partigiani
dell'insurrezione del 1857, tutti quegli indigeni che, rimasti fedeli
alla sua causa e non avendo mai creduto alla sua morte, si
aspettavano di vederlo ricomparire di giorno in giorno.
Un mese dopo il suo arrivo al pâl di Tandît, Nana Sahib credette
di poter agire in tutta sicurezza. Pensò che il fatto della sua
riapparizione nella provincia fosse stato riconosciuto falso. Alcuni
fidi lo tenevano informato di tutto quanto aveva fatto il governatore
della presidenza di Bombay per effettuare la sua cattura. Egli sapeva
che, nei primi giorni, le autorità si erano dedicate alle ricerche più
attive, ma senza risultato. Il pescatore di Aurangabad, l'ex prigioniero
del Nana, era caduto sotto il pugnale, e nessuno aveva potuto
sospettare che il fachiro fuggitivo fosse il nababbo Dandu-Pand, sulla
testa del quale era stata messa una taglia. Una settimana dopo, le
dicerie cessarono, gli aspiranti al premio di duemila sterline persero
ogni speranza, e il nome di Nana Sahib ricadde nell'oblio.
Il nababbo poté dunque agire personalmente, e, senza timore di
essere riconosciuto, ricominciare la sua campagna insurrezionale.
Ora sotto le vesti di un parsi, ora sotto quelle d'un semplice raiot, un
giorno da solo, un altro accompagnato da suo fratello, egli cominciò
ad allontanarsi dal pâl di Tandît, a risalire verso il nord, sull'altra
sponda del Nerbudda, e anche al di là del versante settentrionale del
Vindhya.
Una spia, che avesse voluto seguirlo in tutte le sue mosse, lo
avrebbe trovato a Indore, fin dal 12 aprile.
In questa capitale del regno di Holcar, Nana Sahib, pur
conservando il più stretto incognito, si mise in contatto con la
numerosa popolazione rurale, addetta alla coltivazione dei campi di
papaveri. Erano dei Rihilla, dei Mèkrani, dei Valayali, ardenti,
coraggiosi, fanatici, per lo più Cipay disertori dell'esercito indigeno,
che si nascondevano sotto le vesti del contadino indù.
Poi, Nana Sahib passò il Betwa, affluente del Jumna, che corre
verso nord, sulla frontiera occidentale del Bundelkund, e il 19 aprile,
attraversando una magnifica valle nella quale le palme da dattero e i
manghi si moltiplicavano a profusione, giungeva a Suari.
Là sorgono alcune curiose costruzioni antichissime. Sono dei
tôpes, specie di tumuli sormontati da cupole emisferiche, che
formano il gruppo principale di Saldhara, nella parte settentrionale
della valle. Da questi monumenti funebri, da queste abitazioni dei
morti, i cui altari, dedicati ai riti buddistici, sono riparati sotto dei
baldacchini di pietra, da queste tombe vuote da tanti secoli, uscirono,
alla voce di Nana Sahib, centinaia di fuggitivi. Nascosti in quelle
rovine per sfuggire alle terribili rappresaglie degli inglesi, bastò una
parola per far comprendere loro ciò che il nababbo si aspettava dal
loro concorso: sarebbe bastato un cenno, quando fosse venuta l'ora
per gettarli in massa sugli invasori.
Il 24 aprile, Nana Sahib era a Bhîlsa, capoluogo di un distretto
importante del Malwa, e, nelle rovine dell'antica città, egli radunava
degli elementi di ribellione che la nuova non gli avrebbe fornito.
Il 27 aprile, Nana Sahib giunse a Raygurh, vicino alla frontiera del
regno di Pannah, ed il 30, ai ruderi della vecchia città di Sangor, non
lontano dal luogo in cui il generale sir Hugh Rose diede contro gli
insorti una sanguinosa battaglia, che lo rese padrone del colle di
Mandapore, la chiave delle gole dei Vindhya.
Là, il nababbo fu raggiunto da suo fratello, accompagnato da
Kâlagani, ed entrambi si fecero conoscere ai capi delle principali
tribù, di cui erano assolutamente sicuri. In quei conciliaboli furono
discussi e stabiliti i preliminari di un'insurrezione generale. Mentre
Nana Sahib e Balao Rao avrebbero agito a sud, i loro alleati
dovevano manovrare sul versante settentrionale dei Vindhya.
Prima di ritornare nella valle del Nerbudda, i due fratelli vollero
visitare anche il regno di Pannah. Si spinsero lungo il Keyne, sotto la
volta di tek giganteschi, di bambù colossali, protetti da quelle
innumerevoli piante che si moltiplicano, le quali sembrano destinate
a invadere tutta quanta l'India. Là furono arruolati numerosi e feroci
adepti fra il miserabile personale che sfrutta, per conto del rajah, le
ricche miniere di diamanti del territorio. Questo rajah, dice il signor
Rousselet, «comprendendo la posizione che fa il dominio inglese ai
principi del Bundelkund ha preferito la parte del ricco proprietario a
quella di un insignificante principotto». Ricco proprietario, lo è
davvero! La regione diamantifera che possiede si stende per una
lunghezza di trenta chilometri a nord di Pannah, e il traffico delle sue
miniere di diamanti, le più stimate sui mercati di Bénares e di
Allahabad, occupa un gran numero di indù. Ma fra questi disgraziati,
sottoposti ai lavori più duri e che il rajah fa decapitare appena
diminuisce la rendita della miniera, Nana Sahib doveva trovare
migliaia di partigiani, pronti a farsi uccidere per l'indipendenza del
loro paese, e li trovò.
Partendo da questo punto, i due fratelli ridiscesero verso il
Nerbudda per ritornare al pâl di Tandît. Tuttavia, prima di andare a
provocare l'insurrezione del sud, che doveva coincidere con quella
del nord, vollero fermarsi a Bhopal. Si tratta di un'importante città
musulmana, che è rimasta la capitale dell'islamismo nell'India, e la
cui begum rimase fedele agli inglesi durante tutto il periodo
insurrezionale.
Nana Sahib e Balao Rao, accompagnati da una dozzina di Gound,
giunsero a Bhopal il 24 maggio, ultimo giorno delle feste del
Moharum, istituite per celebrare il rinnovamento dell'anno
musulmano. Entrambi avevano indossato i cenci dei joguis, sinistri
mendicanti religiosi armati di lunghi pugnali a lama arrotondata, con
i quali si feriscono per fanatismo, ma senza gran male né pericolo.
I due fratelli, irriconoscibili sotto quel travestimento, avevano
seguito la processione per le vie della città, in mezzo ai numerosi
elefanti, che portavano sul dorso dei tadzias, specie di tempietti alti
venti piedi; avevano potuto mescolarsi con i musulmani, riccamente
vestiti di tuniche ricamate d'oro, e con in capo dei tocchi di mussola;
si erano confusi nelle schiere dei suonatori, dei soldati, delle
baiadere, dei giovani travestiti da donna, gruppi bizzarri che davano
a quella cerimonia un aspetto carnevalesco. Con quegli indù di ogni
genere, fra i quali essi avevano numerosi fedeli, avevano potuto
scambiare una specie di segno massonico, familiare agli antichi
ribelli del 1857.
Venuta la sera, tutta quella gente si era recata verso il lago, che
bagna il sobborgo orientale della città.
Là, fra grida assordanti, spari di armi da fuoco, scoppi di petardi,
alla luce di migliaia di torce, tutti quei fanatici gettarono i tadzias
nelle acque del lago. Le feste del Moharum erano finite.
In quel momento, Nana Sahib sentì una mano posarsi sulla sua
spalla. Si voltò. Un bengalese gli stava accanto.
Nana Sahib riconobbe in quell'indù uno dei suoi vecchi compagni
d'armi di Lucknow. Lo interrogò con lo sguardo.
Il bengalese si limitò a mormorare le seguenti parole che Nana
Sahib udì senza che un gesto tradisse la sua emozione:
— Dov'è?
— Ieri era a Bénares.
— Dove va?
— Alla frontiera del Nepal.
— Per quale motivo?
— Per soggiornarvi per qualche mese.
— E poi?...
— Ritornare a Bombay.
Echeggiò un fischio; un indù, cacciandosi nella folla, giunse
vicino a Nana Sahib. Era Kâlagani.
— Parti subito, — disse il nababbo. — Raggiungi Munro che
risale verso nord. Stagli accanto. Imponiti rendendo qualche servizio,
e rischia la vita, se occorre. Non lasciarlo prima che sia ridisceso al
di là dei Vindhya, fino alla valle del Nerbudda. Allora, ma allora
soltanto, vieni ad avvertirmi della sua presenza.
Kâlagani si accontentò di rispondere con un cenno affermativo, e
scomparve nella folla. Un cenno del nababbo era un ordine per lui.
Dieci minuti dopo, aveva lasciato Bhopal.
In quel momento, Balao Rao si avvicinò al fratello.
— È tempo di partire, — gli disse.
— Sì, — rispose Nana Sahib, — e bisogna che prima dell'alba
siamo al pâl di Tandît.
— Andiamo.
Entrambi, seguiti dai loro Gound, risalirono la riva settentrionale
del lago fino a una fattoria isolata. Là, li aspettavano dei cavalli, per
loro e per la loro scorta. Erano di quei cavalli veloci, ai quali si dà un
nutrimento misto a droghe, e che possono fare cinquanta miglia in
una sola notte. Alle otto, galoppavano sulla via che da Bhopal porta
ai Vindhya.
Se il nababbo voleva giungere prima dell'alba al pâl di Tandît, era
solo per misura di prudenza. Infatti era meglio che il suo ritorno nella
valle passasse inosservato.
Il piccolo drappello camminò dunque velocissimamente.
Nana Sahib e Balao Rao, l'uno accanto all'altro, non parlavano,
ma lo stesso pensiero occupava la loro mente. Da quell'escursione al
di là dei Vindhya, essi riportarono più che la speranza, la certezza
che innumerevoli partigiani si univano alla loro causa. L'altipiano
centrale dell'India era interamente nelle loro mani. Gli
accantonamenti militari, ripartiti su quell'ampio territorio, non
avrebbero potuto resistere ai primi assalti degli insorti. La loro
distruzione avrebbe lasciato libero il posto alla rivolta, che non
avrebbe tardato a sollevare da una costa all'altra tutta una barriera di
indù fanatici, contro la quale sarebbe venuto a rompersi l'esercito
reale.
Ma, nello stesso tempo, Nana Sahib pensava a quel caso fortunato
che stava per consegnargli Munro. Il colonnello aveva finalmente
lasciato Calcutta, dove era difficile colpirlo. Ormai nessuno dei suoi
movimenti sarebbe sfuggito al nababbo. Senza che egli potesse
dubitarne, la mano di Kâlagani lo avrebbe guidato verso la selvaggia
regione dei Vindhya, e là nessuno avrebbe potuto sottrarlo al
supplizio che gli riservava l'odio di Nana Sahib.
Balao Rao non sapeva ancora nulla di quanto era stato detto fra il
bengalese e suo fratello. Fu solo nelle vicinanze del pâl di Tandît,
mentre i cavalli respiravano un istante, che Nana Sahib si limitò a
farglielo sapere con queste parole:
— Munro ha lasciato Calcutta e si dirige verso Bombay.
— La strada di Bombay, — esclamò Balao Rao — va fino alla
costa dell'oceano Indiano!
— La strada di Bombay, questa volta, — rispose Nana Sahib, —
si fermerà ai Vindhya!
Questa risposta diceva tutto.
I cavalli ripartirono al galoppo e si slanciarono attraverso la
macchia d'alberi, che sorgeva sul confine della valle del Nerbudda.
Erano allora le cinque del mattino. Il giorno cominciava a
spuntare. Nana Sahib, Balao Rao ed i loro compagni erano giunti al
letto torrentizio del Nazzur, che saliva verso il pâl.
I cavalli si arrestarono in quel luogo e furono lasciati sotto la
custodia di due Gound, incaricati di condurli al villaggio più vicino.
Gli altri seguirono i due fratelli, che salivano i gradini tremanti
sotto l'acqua del torrente.
Tutto era tranquillo. I primi rumori del giorno non avevano ancora
interrotto il silenzio della notte.
Improvvisamente si udì una fucilata, che fu seguita da molte altre.
Contemporaneamente si udivano queste grida:
— Hurrah! hurrah! avanti!
Un ufficiale, alla testa di una cinquantina di soldati dell'esercito
reale, apparve sulla cresta del pâl.
— Fuoco! Che non ne sfugga nessuno! — gridò ancora.
Nuova scarica, diretta quasi a bruciapelo sul drappello dei Gound,
che circondava Nana Sahib e suo fratello.
Cinque o sei indù caddero. Gli altri, gettandosi nel letto del
Nazzur, scomparvero sotto i primi alberi della foresta.
— Nana Sahib! Nana Sahib! — gridarono gli inglesi cacciandosi
nello stretto burrone.
Allora, uno di coloro che erano stati colpiti mortalmente si rialzò,
con la mano tesa verso di loro.
— Morte agli invasori! — gridò una voce ancora terribile, e
ricadde immobile.
L'ufficiale si avvicinò al cadavere.
— È proprio Nana Sahib? — domandò.
— È lui, — risposero due soldati del distaccamento che, essendo
stati di guarnigione a Cawnpore, conoscevano perfettamente il
nababbo.
— E ora agli altri! — gridò l'ufficiale.
E tutto il distaccamento si gettò nella foresta dietro ai Gound.
Era appena scomparso, che un'ombra scivolava sulla scarpa sopra
la quale sorgeva il pâl.
Era la Fiamma Errante, avvolta in un lungo cencio bruno, che il
cordone di un languti stringeva alla vita.
La sera precedente, la pazza era stata la guida incosciente
dell'ufficiale inglese e dei suoi uomini. Rientrata nella valle fin dal
giorno prima, ella ritornava macchinalmente al pâl di Tandît, verso il
quale la riconduceva una specie di istinto. Ma, questa volta, la strana
creatura, che si credeva muta, lasciava sfuggire dalle sue labbra un
nome, uno solo, quello del massacratore di Cawnpore!
— Nana Sahib! Nana Sahib! — ripeteva, come se l'immagine del
nababbo, per qualche presentimento inesplicabile, le si fosse levata
davanti alla mente.
Questo nome fece sussultare l'ufficiale. Egli seguì i passi della
pazza. Questa non parve nemmeno vedere lui e i soldati che la
seguirono fino al pâl. Era dunque là che si era rifugiato il nababbo,
sulla cui testa era stata messa la taglia? L'ufficiale prese le misure
necessarie e fece sorvegliare il letto del Nazzur, aspettando il giorno.
Quando Nana Sahib e i suoi Gound vi si furono inoltrati, li accolse
con una scarica, che ne gettò molti a terra, e, fra loro, il capo della
rivolta dei Cipay.
Questo fu lo scontro che il telegrafo segnalò il giorno stesso al
governatore della presidenza di Bombay. Quel telegramma si diffuse
in tutta la penisola, i giornali lo riprodussero immediatamente, e fu
così che il colonnello Munro poté prenderne conoscenza il 26
maggio, sul giornale di Allahabad.
Non c'era da dubitare, questa volta, della morte di Nana Sahib. La
sua identità era stata accertata, e il giornale poteva dire con ragione:
«Il regno dell'India non ha più nulla da temere ormai dal crudele
rajah che gli è costato tanto sangue!».
Frattanto, la pazza, dopo avere lasciato il pâl, scendeva il letto del
Nazzur. Dai suoi occhi smarriti usciva come il bagliore di un fuoco
interno che si fosse ad un tratto riacceso in lei, e le sue labbra
lasciavano sfuggire macchinalmente il nome del nababbo.
Ella giunse così al luogo in cui giacevano i cadaveri, e si fermò
davanti a colui che era stato riconosciuto dai soldati di Lucknow. 20 Il
viso contratto di quel morto sembrava minacciare ancora. Si sarebbe
detto che, dopo aver vissuto soltanto per la vendetta, l'odio fosse
sopravvissuto in lui.
La pazza s'inginocchiò, posò le due mani su quel corpo crivellato
dai proiettili, il cui sangue macchiò le pieghe del suo cencio. Lo
guardò a lungo, poi, rialzandosi e scuotendo la testa, scese
lentamente il letto del Nazzur.
Ma, allora, la Fiamma Errante era ricaduta nella sua consueta
indifferenza, e la sua bocca non ripeteva più il nome maledetto di
Nana Sahib.
20
Lapsus dell'Autore: poco più sopra egli ha parlato di Cawnpore. (N.d.T.)
PARTE SECONDA
CAPITOLO I
IL NOSTRO «SAMTARIUM»
GLI INCOMMENSURABILI della creazione! questa espressione
magnifica, di cui il mineralologo Haüy si è servito per definire le
Ande americane, non sarebbe forse più giusta se la si applicasse al
complesso di quella catena dell'Himalaya, che l'uomo è ancora
impotente a misurare con precisione matematica?
Ecco ciò che io provo davanti all'aspetto di questa regione
incomparabile, nella quale il colonnello Munro, il capitano Hod,
Banks ed io dovremo soggiornare per alcune settimane.
— Non solamente questi monti sono incommensurabili, — ci dice
l'ingegnere, — ma la loro vetta deve essere considerata come
inaccessibile, poiché l'organismo umano non può funzionare a tali
altezze, dove l'aria non è più abbastanza densa per bastare ai bisogni
della respirazione!
Una barriera di rocce primitive, granito, gneiss, micaschisto, lunga
duemilaottocento chilometri, che si erge dal 72° meridiano fino al
95°, coprendo due presidenze, Agra e Calcutta, due regni, il Buthan e
il Nepal; - una catena la cui altezza media, superiore di un terzo alla
vetta del monte Bianco, comprende tre zone distinte, la prima, alta
cinquemila piedi, più temperata della pianura inferiore, e che produce
un raccolto di grano durante l'inverno, un raccolto di riso durante
l'estate; la seconda, da cinque a novemila piedi, dove la neve si
scioglie al ritorno della primavera; la terza da novemila piedi a
venticinquemila, coperta di grossi ghiacci, i quali, anche nella
stagione più calda, sfidano i raggi solari; - attraverso questa
grandiosa tumescenza del globo, undici passi, alcuni dei quali forano
la montagna a ventimila piedi d'altezza, e che, minacciati di continuo
dalle valanghe, scavati dai torrenti, invasi dai ghiacci, non
permettono di andare dall'India nel Tibet se non a prezzo di difficoltà
estreme; - al disopra di questa cresta, ora arrotondata in larghe
cupole, ora piatta come la Tavola del capo di Buona Speranza, sette o
otto picchi aguzzi, alcuni vulcanici, che dominano le sorgenti del
Cogra, del Djumna e del Gange, il Dukia e il Kinchinjinga, che
superano i settemila metri, il Dhiodunga che tocca gli ottomila, il
Dawalaghiri gli ottomilacinquecento, il Tchamulari gli
ottomilasettecento, il monte Everest, che innalza a novemila metri la
sua vetta, dall'alto della quale l'occhio d'un osservatore potrebbe
percorrere una circonferenza uguale a quella della Francia intera; un mucchio di montagne, infine, che le Alpi sulle Alpi, i Pirenei sulle
Ande, non supererebbero nella scala delle altitudini terrestri, ecco
come è questo sollevamento colossale, di cui il piede dei più arditi
alpinisti non calpesterà forse mai le più alte vette, e che si chiama i
monti Himalaya!
I primi gradini di questi propilei giganteschi sono ampiamente e
fittamente coperti di boschi. Vi si trovano ancora diversi
rappresentanti di quella ricca famiglia delle palme, che, in una zona
superiore, cederanno il posto alle grandi foreste di querce, di cipressi
e di pini, ai fitti ciuffi di bambù e di piante erbacee.
Banks, che ci dà questi particolari, ci dice anche che, se la linea
inferiore delle nevi scende a quattromila metri sul versante indiano
della catena, sale a seimila sul versante tibetano. Ciò dipende dal
fatto che i vapori, portati dai venti del sud, vengono fermati
dall'enorme barriera. Ecco perché, sull'altro versante, si son potuti
fondare dei villaggi fino a un'altezza di quindicimila piedi, in mezzo
a campi d'orzo e a praterie magnifiche. Stando agli indigeni, basta
una notte perché quei pascoli siano tappezzati da una messe di erbe.
Nella zona media, pavoni, pernici, fagiani, ottarde, quaglie,
rappresentano i volatili. Le capre vi abbondano, e così i montoni.
Nella zona alta, s'incontrano solo il cinghiale, il camoscio, il gatto
selvatico, e l'aquila è la sola a librarsi al disopra dei rari vegetali, che
non sono più se non gli umili campioni di una flora artica.
Ma quella non era roba che potesse tentare il capitano Hod.
Perché mai questo Nemrod sarebbe venuto nella regione himalayana,
se non si fosse trattato che di proseguire il suo mestiere di cacciatore
di selvaggina domestica? Fortunatamente per lui i grandi carnivori,
degni del suo Enfield e dei suoi proiettili esplosivi, non dovevano
mancare.
Infatti, al piede dei primi declivi della catena, si stende una zona
inferiore, che gli indù chiamano la cintura del Tarryani. È una lunga
pianura in pendio, larga da sette a otto chilometri, umida, calda, dalla
vegetazione scura, coperta di fitte foreste, nelle quali le belve
cercano volentieri rifugio. Questo Eden del cacciatore che ama le
forti emozioni della lotta era dominato dal nostro accampamento a
soli millecinquecento metri. Era dunque facile ridiscendere su quella
riserva di caccia che si custodiva da sola.
Perciò era probabile che il capitano Hod avrebbe visitato i piani
inferiori dell'Himalaya più volentieri delle zone superiori. Là, in ogni
caso, anche dopo il più umorista dei viaggiatori, Victor Jasquemont,
rimangono ancora da fare importanti scoperte geografiche.
— Dunque questa enorme catena è conosciuta molto
imperfettamente, vero? — domandai a Banks.
— Molto imperfettamente, — rispose l'ingegnere. — L'Himalaya
è come una specie di piccolo pianeta, che si è attaccato al nostro
globo, e che conserva i suoi segreti.
— Tuttavia è stata percorsa — risposi, — è stata frugata per
quanto era possibile!
— Oh! i viaggiatori himalayani non sono mancati! — rispose
Banks. — I fratelli Gerard de Webb, gli ufficiali Kirpatrik e Fraser,
Hogdson, Herbert, Lloyd, Hooker, Cunningham, Strabing, Skinner,
Johnson, Moorcroft, Thomson Griffith, Vigne, Hügel, i missionari
Huc e Gabet, e più recentemente i fratelli Schlagintweit, il colonnello
Wangh, i tenenti Reuillier e Montgomery, mediante lavori
considerevoli, hanno fatto conoscere ampiamente la disposizione
orografica di questo sollevamento. Tuttavia, amici miei, rimangono
ancora molti desiderata da realizzare. L'altezza esatta delle vette
principali ha richiesto innumerevoli rettifiche. Così, una volta, il
Dawalaghiri era il re di tutta la catena; poi, in seguito a nuove
misure, ha dovuto cedere il posto al Kinchinjinga, che sembra ormai
detronizzato dal monte Everest. Per ora, quest'ultimo, batte tutti i
suoi rivali. Però, stando ai cinesi, il Kuin-Lun, al quale, è vero, i
metodi precisi dei geometri europei non sono ancora stati applicati,
supererebbe un po' il monte Everest, e non sarebbe più nell'Himalaya
che bisognerebbe cercare il punto più elevato del nostro globo. Ma,
in realtà, queste misure non potranno venir considerate come
matematiche se non il giorno in cui saranno state ottenute
barometricamente, e con tutte le precauzioni che esige questa
determinazione diretta. Ma come ottenerle, senza portare un
barometro sulla punta estrema di questi picchi quasi inaccessibili? Ed
è appunto questo che finora non si è potuto fare.
— Lo si farà, — rispose il capitano Hod, — come si faranno un
giorno i viaggi al polo Sud e al polo Nord!
— Evidentemente!
— Il viaggio fino nelle massime profondità dell'Oceano!
— Senza dubbio!
— Il viaggio al centro della terra!
— Bravo, Hod!
— Come si farà tutto! — aggiunsi io.
— Anche un viaggio in ognuno dei pianeti del mondo solare, —
rispose il capitano Hod, che niente poteva più fermare.
— No, capitano, — risposi. — L'uomo, semplice abitante della
terra, non riuscirebbe a superarne i confini! Ma se è incatenato alla
sua scorza, può penetrarne tutti i segreti.
— Lo può, lo deve! — rispose Banks. — Tutto ciò che è nei limiti
del possibile deve essere e sarà compiuto. Poi, quando l'uomo non
avrà più nulla da conoscere del globo che abita...
— Sparirà con il pianeta che non avrà più misteri per lui, —
rispose il capitano Hod.
— Niente affatto! — riprese Banks. — Ne godrà da padrone,
allora, e ne ricaverà un miglior profitto. Ma, amico Hod, dato che
siamo nella regione himalayana, vi indicherò una scoperta curiosa da
fare, fra le tante, e che certamente vi interesserà.
— Di che si tratta, Banks?
— Nel racconto dei suoi viaggi, il missionario Huc parla di uno
strano albero, che nel Tibet chiamano «l'albero dalle diecimila
immagini». Secondo la leggenda indiana, Tong-Kabac, il riformatore
della religione buddistica, sarebbe stato trasformato in albero, alcune
migliaia d'anni dopo che la stessa sorte era toccata a Filemone, a
Bauci, a Dafne, bizzarri esseri vegetali della flora mitologica. I
capelli di Tong-Kabac sarebbero diventati le fronde di quest'albero
sacro, e su queste foglie, il missionario afferma di aver visto (visto
con i suoi occhi) dei caratteri tibetani, distintamente formati dai tratti
delle loro nervature.
— Un albero che produce delle foglie stampate! — esclamai.
— E sulle quali si leggono detti della più alta morale, — rispose
l'ingegnere.
— Questo vale la pena di essere accertato, — dissi ridendo.
— Cercatelo dunque, amici miei, — rispose Banks. — Se esistono
alberi del genere nella parte meridionale del Tibet, se ne devono
trovare anche nella zona superiore, sul versante sud dell'Himalaya.
Dunque, durante le vostre escursioni, cercate questo... come lo
chiamerò?... questo «sentenziano»...
— In fede mia, no! — rispose il capitano Hod. — Sono qui per
andare a caccia, e non ho niente da guadagnare a fare l'alpinista.
— Ma, amico Hod! — soggiunse Banks, — un audace
arrampicatore come voi non farà proprio nessuna ascensione nella
catena?
— Mai! — gridò il capitano.
— E perché dunque?
— Ho rinunciato alle ascensioni.
— E da quando?...
— Dal giorno in cui, dopo avervi rischiato la vita venti volte, —
rispose il capitano Hod, — sono riuscito a raggiungere la vetta del
Vrigel, nel regno di Buthan. Si affermava che mai essere umano
aveva calpestato la cima di quella montagna! Ci mettevo dunque un
po' d'amor proprio! Finalmente, dopo mille pericoli, giungo sulla
vetta, e che cosa vedo? Queste parole incise in una roccia: «Durand,
dentista, 14 rue Caumartin, Parigi»! Da quel giorno, non faccio più
ascensioni!
Bravo capitano. Però bisogna confessare che narrandoci questo
smacco, Hod faceva una smorfia così divertente, che era impossibile
non ridere di cuore!
Ho parlato molte volte dei sanitarium della penisola. Queste
stazioni climatiche, situate nella montagna, sono molto frequentate,
durante l'estate, dai ricchi possidenti, dai funzionari e dai negozianti
dell'India, che sono bruciati dall'ardente canicola della pianura.
Prima di tutto, bisogna citare Simla, posta sul 31° parallelo, ed a
ovest del 75° meridiano. È un angolino di Svizzera, con i suoi
torrenti, i suoi ruscelli, i suoi chalets posti in amene posizioni
all'ombra dei cedri e dei pini a duemila metri sopra il livello del
mare.
Dopo Simla, citerò Dorjiling, dalle case bianche, dominata dal
Kinchinjinga, cinquecento chilometri a nord di Calcutta, e a
duemilatrecento metri d'altezza, vicino all'86° grado di longitudine e
al 27° grado di latitudine, una posizione incantevole nel più bel paese
del mondo.
Altri sanitarium sono pure stati fondati in diversi punti della
catena himalayana.
E ora, a queste stazioni climatiche fresche e sane, rese
indispensabili dal clima ardente dell'India, bisogna aggiungere la
nostra Steam-House. Ma questa, ci appartiene. Offre tutte le
comodità delle più lussuose abitazioni della penisola. Vi troveremo,
in una zona fortunata, unitamente alle esigenze della vita moderna,
una calma che si cercherebbe invano a Simla o a Dorjiling, dove gli
anglo-indiani abbondano.
Il luogo è stato scelto opportunamente. La strada che porta alla
parte inferiore della montagna, a questa altezza si biforca per
raggiungere alcuni paesini sparsi a est e a ovest. Il più vicino di
questi villaggi è a cinque miglia dalla Steam-House. È abitato da una
razza ospitale di montanari, allevatori di capre e di montoni, e che
coltivano ricchi campi di grano e d'orzo.
Con l'intervento del nostro personale, sotto la direzione di Banks,
ci sono volute solo poche ore per organizzare un accampamento nel
quale dobbiamo soggiornare per sei o sette settimane.
Un contrafforte, che si stacca da una di quelle capricciose piccole
catene che puntellano l'enorme ossatura dell'Himalaya, ci ha offerto
un altipiano dolcemente ondulato, lungo un miglio circa e largo
mezzo. Il tappeto di verde che lo copre è una spessa moquette di erba
corta, compatta, felpata si potrebbe dire, e tutta cosparsa di violette.
Ciuffi di rododendri arborescenti, alti come piccole querce, cesti
naturali di camelie, vi formano un centinaio di macchie di effetto
piacevolissimo. La natura non ha avuto bisogno degli operai di
Ispahan o di Smirne per fabbricare questo tappeto di folta lana
vegetale. Alcune migliaia di semi, portati dal vento di mezzogiorno
su quel terreno fecondo, un po' d'acqua, un po' di sole, sono bastati
per fare questo tessuto morbido e che non si consuma.
Una dozzina di gruppi d'alberi magnifici si ergono su questo
altipiano. Si direbbe che si siano staccati, quasi fuorilegge,
dall'immensa foresta che rende irti i fianchi del contrafforte,
risalendo sulle piccole catene vicine, a un'altezza di seicento metri.
Cedri, querce, pandani dalle lunghe foglie, faggi, aceri, si mescolano
ai banani, ai bambù, alle magnolie, ai carrubi, ai fichi del Giappone.
Alcuni di questi giganti stendono i loro rami più alti a più di cento
piedi dal suolo. Sembra che siano stati disposti in questo luogo per
fare ombra a qualche casa forestale. La Steam-House, giunta a
proposito, ha completato il paesaggio. I tetti a cupola delle sue due
pagode si sposano felicemente con tutti quei rami variati, rigidi o
flessibili, foglie piccole e fragili come ali di farfalle, larghe e lunghe
come pagaie polinesiane. Il treno con i vagoni è scomparso sotto un
mucchio di verde e di fiori. Nulla rivela la casa mobile, e là c'è
solamente una casa stabile, fissa al suolo, fatta per non muoversi più.
Sullo sfondo, un torrente, di cui si può seguire il corso argenteo
fino a molte migliaia di piedi d'altezza, scorre sulla destra del quadro
sul fianco del contrafforte, e si precipita in un bacino naturale
ombreggiato da un ciuffo di begli alberi.
Da questo bacino, il sovrappiù si versa in un ruscello, corre
attraverso la prateria, e finisce in una cascata rumorosa che cade in
un abisso la cui profondità sfugge allo sguardo.
Ecco come è stata disposta la Steam-House per la maggior
comodità della vita comune e il maggior piacere degli occhi.
Se si va sulla cresta anteriore dell'altipiano, lo si vede dominare
altre terrazze meno importanti dello zoccolo dell'Himalaya, che
scendono come giganteschi scaglioni fino alla pianura. Da
quell'altezza, lo sguardo può abbracciarne tutto l'insieme.
A destra, la prima casa della Steam-House è sistemata
diagonalmente in modo che la vista dell'orizzonte verso sud si
presenti altrettanto bene sia al balcone della veranda sia alle finestre
laterali del salotto, della sala da pranzo e delle cabine di sinistra.
Grandi cedri la sovrastano e si stagliano robustamente in nero sullo
sfondo lontano della gran catena, tappezzata di nevi eterne.
A sinistra, la seconda casa è addossata al fianco di un'enorme rupe
di granito. Questa rupe, sia per la sua strana forma sia per il suo
colore caldo, ricorda quei giganteschi plum puddings di sasso di cui
parla il signor Russell-Killough nel racconto del suo viaggio
attraverso l'India meridionale. Di questa abitazione, riservata al
sergente Mac Neil e ai suoi compagni del personale, si vede solo il
fianco. Essa è piazzata a venti passi dalla casa principale, come una
dipendenza di qualche pagoda più importante. All'estremità di uno
dei tetti che la coprono un sottile filo di fumo azzurrognolo sfugge
dal laboratorio culinario del signor Parazard. Più a sinistra un gruppo
di alberi, appena staccati dalla foresta, risale sul dorso ovest, e forma
la quinta laterale di questo paesaggio.
In fondo, fra le due case, si erge un gigantesco mastodonte. È il
nostro Gigante d'Acciaio. Esso è stato messo al coperto sotto un
padiglione di grandi pandani. Con la sua proboscide rialzata, si
direbbe che ne mangi i rami più alti. È fermo; si riposa benché non
abbia nessun bisogno di riposo. Ora, immobile guardiano della
Steam-House, come un enorme animale antidiluviano, ne vieta
l'ingresso al termine di quella strada su per la quale ha trainato tutto
quel villaggio mobile.
Per esempio, per colossale che sia il nostro elefante, a meno di
staccarlo con il pensiero dalla catena che si erge a seimila metri sopra
l'altipiano, non sembra avere più nulla di quel gigante artificiale, di
cui la mano di Banks ha dotato la fauna indù.
— Una mosca sulla facciata di una cattedrale! — dice il capitano
Hod, non senza un certo dispetto.
E non c'è nulla di più vero. Vi è, sullo sfondo, un blocco di granito
nel quale si potrebbero tagliare facilmente mille elefanti della
grandezza del nostro, e questo blocco non è che un semplice scalino,
uno dei cento di quella scala che sale fino alla cresta della catena, e
che il Dawalaghiri domina con la sua cima aguzza.
A volte, il cielo di questo quadro si abbassa fino all'occhio
dell'osservatore. Non solo le alte cime, ma la cresta media della
catena, spariscono in un istante. Sono densi vapori che corrono sulla
zona mediana dell'Himalaya e avvolgono di nebbia tutta la sua parte
superiore. Il paesaggio rimpicciolisce, e allora, per un effetto ottico,
si direbbe che le case, gli alberi, le terrazze vicine e anche il Gigante
d'Acciaio riprendano le loro vere dimensioni.
Accade anche che, spinte da certi venti umidi, le nuvole, ancora
più basse, si stendano al di sotto dell'altipiano. L'occhio allora non
vede altro che un mare tempestoso di nuvole, alla cui superficie il
sole provoca meravigliosi giochi di luce. Tanto in alto quanto in
basso, l'orizzonte è scomparso, e ci sembra di essere trasportati in
qualche regione aerea, oltre i confini della terra.
Ma il vento cambia, una brezza dal nord, precipitandosi per le
brecce della catena, viene a spazzare tutta questa nebbia, il mare di
vapori si condensa quasi istantaneamente, la pianura ricompare
all'orizzonte a sud, le sublimi proiezioni dell'Himalaya si profilano di
nuovo sullo sfondo spazzato del cielo, la cornice del quadro ritrova la
sua grandezza normale, e lo sguardo, di cui nulla limita più la
portata, afferra tutti i particolari di un panorama per un orizzonte di
sessanta miglia.
CAPITOLO II
MATHIAS VAN GUITT
IL GIORNO dopo, 26 giugno, un rumore di voci ben note mi
risvegliò fino dall'alba. Mi alzai subito. Il capitano Hod e il suo
attendente Fox erano in gran conversazione nella sala da pranzo della
Steam-House. Li raggiunsi immediatamente.
Nello stesso momento Banks lasciava la sua cabina, e il capitano
interpellandolo con la sua voce sonora:
— Ebbene, amico Banks, — gli disse, — eccoci finalmente
arrivati in porto! Questa volta, è definitivo. Non si tratta più di una
sosta di poche ore, ma di un soggiorno di qualche mese.
— Sì, caro Hod, — rispose l'ingegnere, — e potete organizzare le
vostre cacce a vostro piacimento. Il fischio del Gigante d'Acciaio non
vi richiamerà più all'accampamento.
— Hai sentito, Fox?
— Sì, capitano, — rispose l'attendente.
— Il cielo mi aiuti! — esclamò Hod, — ma non lascerò il
sanitarium della Steam-House prima che la cinquantesima sia caduta
sotto i miei colpi! La cinquantesima, Fox! Ho idea che debba essere
la più difficile di tutte da acchiappare!
— Ma la acchiapperemo lo stesso, — rispose Fox.
— Da dove vi viene quest'idea, capitano Hod? — gli chiesi.
— Oh! Maucler, è un presentimento da cacciatore, nient'altro!
— Dunque, — disse Banks, — fin da oggi lascerete
l'accampamento per mettervi in campagna?
— Fin da oggi — rispose il capitano Hod. — Cominceremo prima
di tutto con il riconoscere il terreno, in modo da esplorare la zona
inferiore, scendendo fino alle foreste del Tarryani. Purché le tigri non
abbiano abbandonato questa residenza!
— Potete crederlo?...
— Eh! la mia cattiva sorte!
— La cattiva sorte!... nell'Himalaya!... — rispose l'ingegnere. —
È possibile?
— Insomma, vedremo! Ci accompagnerete, Maucler? —
domandò il capitano Hod, rivolgendosi a me.
— Sì, certamente.
— E voi, Banks?
— Anch'io, — rispose l'ingegnere — e credo che Munro verrà con
voi come me... da dilettante!
— Oh! — rispose il capitano Hod, — da dilettanti, va bene! ma da
dilettanti ben armati! Non si tratta di andare a spasso col bastone in
mano! Sarebbe una cosa che umilierebbe le belve del Tarryani!
— D'accordo! — rispose l'ingegnere.
— Dunque, Fox, — soggiunse il capitano, rivolgendosi al suo
attendente, — niente sbagli questa volta! Quattro carabine Enfield
per il colonnello, Banks, Maucler e me, due fucili a proiettili
esplosivi per te e per Goûmi.
— State tranquillo, capitano, — rispose Fox. — La selvaggina
non avrà da lamentarsi.
La giornata doveva dunque essere dedicata alla ricognizione di
quella foresta del Tarryani che ricopre la parte inferiore
dell'Himalaya al disotto del nostro sanitarium. Così, verso le undici,
dopo la colazione, sir Edward Munro, Banks, Hod, Fox, Goûmi e io,
tutti ben armati, scendevamo la strada che obliqua verso la pianura,
dopo aver avuto cura di lasciare all'accampamento i due cani, di cui
non sapevamo che fare in quella spedizione.
Il sergente Mac Neil era rimasto alla Steam-House, con Storr,
Kâlouth e il cuoco, per terminare i lavori di installazione. Dopo un
viaggio di due mesi, il Gigante d'Acciaio aveva bisogno di essere,
all'interno e all'esterno, visitato, pulito e messo in assetto. Ciò
rappresentava un lavoro lungo, minuzioso, delicato, che non avrebbe
permesso ai suoi cornac abituali, il fuochista e il macchinista, di stare
in ozio.
Alle undici avevamo lasciato il sanitarium, e, alcuni minuti dopo,
alla prima svolta della strada, la Steam-House spariva dietro la fitta
cortina d'alberi.
Non pioveva più. Sotto la spinta di un vento fresco di nord-est, le
nuvole, più scomposte, correndo negli alti strati dell'atmosfera,
fuggivano velocemente. Il cielo era grigio, la temperatura adatta a dei
pedoni; ma mancavano anche quei giochi di luce e d'ombra che
formano il fascino dei grandi boschi.
Duemila metri da scendere per una strada diretta, sarebbero stati
questione di venticinque o trenta minuti, ma la strada era allungata da
tutte le sinuosità con le quali compensava la ripidezza dei pendii.
Impiegammo non meno di un'ora e mezzo per giungere al limite
superiore delle foreste del Tarryani, cinque o seicento piedi al di
sopra della pianura. La passeggiata era stata compiuta allegramente.
— Attenzione! — disse il capitano Hod. — Entriamo nel regno
delle tigri, dei leoni, delle pantere, dei leopardi e di altri animali
benefattori della regione himalayana! È bene distruggere le belve, ma
è meglio non lasciarsi distruggere da loro! Dunque, non
allontaniamoci gli uni dagli altri, e siamo prudenti!
Una raccomandazione simile nella bocca di quell'accanito
cacciatore aveva gran valore. Perciò ognuno di noi ne tenne conto.
Le carabine e i fucili furono caricati, le batterie controllate, i grilletti
messi in sicura. Eravamo pronti a qualsiasi avvenimento.
Aggiungerò che bisognava diffidare non solo dei carnivori, ma
anche dei serpenti, i più pericolosi dei quali si incontrano nelle
foreste dell'India. I belongas, i serpenti verdi, i serpenti-staffile, e
molti altri, sono velenosissimi. Il numero delle vittime che
soccombono annualmente per il morso di tali rettili è cinque o sei
volte maggiore di quello degli animali domestici o degli uomini
periti sotto le zanne delle belve.
Dunque, in quella regione di Tarryani, sono norme di elementare
prudenza lo stare attenti a tutto, il guardare dove si mettono i piedi,
dove si appoggia la mano, il prestare orecchio ai minimi rumori che
corrono sotto le erbe o si propagano attraverso i cespugli.
Alle dodici e mezzo, eravamo entrati sotto le chiome dei grandi
alberi riuniti sul limitare della foresta. I loro alti rami si stendevano al
di sopra di alcuni larghi viali, per i quali il Gigante d'Acciaio, seguito
dal treno che trascinava solitamente, sarebbe passato con facilità.
Infatti, questa parte della foresta era da tempo sistemata in modo da
lasciare passare i carri di legna dei montanari: lo si capiva da certi
solchi scavati di fresco nella creta molle. Questi viali principali
correvano nel senso della catena montuosa e, seguendo la lunghezza
maggiore del Tarryani, congiungevano tra loro le radure aperte qua e
là dalla scure del boscaiolo; ma, sui lati, non davano accesso che a
stretti sentieri che si perdevano sotto fustaie impenetrabili.
Seguivamo dunque questi viali, più come agrimensori che come
cacciatori, per riconoscere la loro direzione generale. Nessun urlo
turbava il silenzio nella profondità del bosco. Tuttavia alcune larghe
impronte, lasciate di recente sul suolo, provavano che i carnivori non
avevano abbandonato il Tarryani.
All'improvviso, mentre stavamo facendo il giro di una delle svolte
del viale, un'esclamazione del capitano Hod, che procedeva in testa,
ci fece arrestare.
A venti passi, nell'angolo di una radura, bordata da grandi
pandani, sorgeva una costruzione per lo meno curiosa per la sua
forma. Non era una casa: non aveva né camino né finestre. Non era
un capanno per cacciatori: non aveva né finestrelle né feritoie
strombate. La si sarebbe detta piuttosto una tomba indù, sperduta nel
cuore di quella foresta.
Infatti, si immagini una specie di lungo cubo, formato di tronchi,
accostati verticalmente, saldamente piantati nel terreno, tenuti vicini
nella loro parte superiore mediante un robusto cordone di rami. Per
tetto, altri tronchi trasversali, solidamente incastrati nella parte
superiore della costruzione. Evidentemente, il costruttore di quel
ridotto aveva voluto dargli una solidità a tutta prova sui suoi cinque
lati. Esso misurava circa sei piedi di altezza per dodici di lunghezza e
cinque di larghezza. Di apertura, non si vedeva traccia, a meno che
non fosse nascosta, sulla sua facciata anteriore, da una grossa trave,
la cui testa arrotondata sorpassava di un poco l'insieme della
costruzione.
Al disopra del tetto si ergevano delle lunghe pertiche flessibili
disposte in uno strano modo e riunite fra loro. Dall'estremità di una
leva orizzontale, che sosteneva questa armatura, pendeva un nodo
scorsoio, o meglio un anello formato da una grossa treccia di liane.
— Ma che cos'è questo? — esclamai.
— Questo, — rispose Banks dopo aver osservato bene, — è
semplicemente una trappola, ma vi lascio indovinare, amici miei, che
razza di topi sia destinata a prendere!
— Una trappola per tigri! — esclamò il capitano Hod.
— Sì, — rispose Banks, — una trappola per tigri, il cui usciolo,
chiuso dalla trave che era trattenuta da questo anello di liane, è
ricaduto giù, perché il bilanciere interno è stato toccato da qualche
animale.
— È la prima volta, — rispose Hod, — che vedo in una foresta
dell'India una costruzione di questo genere. È una trappola infatti!
Una cosa veramente indegna di un cacciatore!
— E di una tigre, — aggiunse Fox.
— Senza dubbio, — replicò Banks, — ma se si tratta di
distruggere questi feroci animali e non di dar loro la caccia per
divertimento, la migliore trappola è quella che ne prende di più. Ora,
questa mi sembra eseguita abbastanza abilmente per attirare e
trattenere delle belve, per diffidenti e robuste che siano!
— Aggiungo, — disse allora il colonnello Munro, — che, dato
che l'equilibrio del bilanciere che sosteneva l'usciolo della trappola è
stato rotto, è probabile che qualche animale vi si sia fatto pigliare.
— Lo sapremo subito, — esclamò il capitano Hod, — e se il topo
non è morto!...
Il capitano, unendo il gesto alle parole, fece scattare la batteria
della sua carabina. Tutti lo imitarono e si tennero pronti a far fuoco.
Evidentemente, non potevamo mettere in dubbio che quella
costruzione non fosse una trappola, sul tipo di quelle che si
incontrano frequentemente nelle foreste della Malesia. Ma, se non
era opera di un indù, presentava tutti i requisiti che rendono pratici
questi congegni di distruzione: sensibilità eccessiva e solidità a tutta
prova.
Prese le nostre disposizioni, il capitano Hod, Fox e Goûmi si
avvicinarono alla trappola di cui volevano prima di tutto fare il giro.
Nessun interstizio fra i tronchi verticali permise loro di guardare
all'interno.
Ascoltarono attentamente. Nessun rumore rivelava la presenza di
un essere vivente in quel cubo di legno, muto come una tomba.
Il capitano Hod e i suoi compagni ritornarono verso la parte
anteriore. Accertarono che la trave mobile era scivolata in due larghe
scanalature disposte verticalmente. Bastava dunque risollevarla per
penetrare nell'interno della trappola.
— Non il minimo rumore! — disse il capitano Hod, che aveva
appoggiato l'orecchio alla porta. — Nemmeno un alito! La trappola è
vuota!
— Non importa, abbiate prudenza! — rispose il colonnello
Munro.
E andò a sedersi su un tronco d'albero, a sinistra della radura; io
mi posi accanto a lui.
— Andiamo, Goûmi! — disse il capitano Hod.
Goûmi, svelto, dal fisico atletico, nonostante la piccola statura,
agile come una scimmia, flessibile come un leopardo, vero clown
indiano, comprese che cosa voleva il capitano. La sua agilità lo
designava naturalmente per il compito che si voleva da lui. Egli saltò
con un balzo sul tetto della trappola, e in un istante, a forza di polsi,
raggiunse una delle pertiche che formavano l'armatura superiore. Poi
scivolò lungo la leva fino all'anello di liane, e, con il suo peso, lo
abbassò fino alla testa della trave che chiudeva l'apertura.
Quel cappio venne allora passato in un incavo praticato
tutt'intorno alla testa della trave. Non restava più che da produrre un
movimento di contrappeso, facendo forza sull'altra estremità della
leva.
Ma allora, bisognò ricorrere alle forze riunite del nostro piccolo
drappello. Il colonnello Munro, Banks, Fox e io, andammo dunque
dietro la trappola per produrre questo movimento.
Goûmi era rimasto sull'armatura per liberare la leva nel caso che
qualche ostacolo le avesse impedito di agire liberamente.
— Amici miei, — ci gridò il capitano Hod, — se è necessario che
mi unisca a voi, verrò, ma se potete far a meno di me, preferisco
rimanere davanti alla trappola. Almeno, se ne esce una tigre, sarà
salutata da una pallottola al suo passaggio!
— E sarà la quarantaduesima? — chiesi al capitano.
— Perché no? — rispose Hod. — Se cade sotto la mia fucilata,
sarà almeno caduta in piena libertà!
— Non vendiamo la pelle dell'orso... — replicò l'ingegnere, —
prima che sia caduto!
— Soprattutto quando l'orso potrebbe anche essere una tigre!... —
soggiunse il colonnello Munro.
— Insieme, amici miei, — gridò Banks, — insieme!
La trave era pesante e scorreva male nelle sue guide. Pure,
riuscimmo a smuoverla. Oscillò un istante e rimase sospesa a un
piede dal suolo.
Il capitano Hod, piegato in due con la carabina spianata, cercava
di vedere se qualche enorme zampa o delle fauci ansanti si
mostrassero all'orifizio della trappola. Non appariva ancora nulla.
— Ancora uno sforzo, amici miei! — gridò Banks.
E grazie a Goûmi, che venne a dare qualche scossa all'estremità
della leva, la trave cominciò a risalire a poco a poco. Ben presto
l'apertura fu sufficiente per lasciar passare anche un animale di
grandi dimensioni.
Non se ne vedeva nessuno di nessun genere.
Ma, dopo tutto, poteva darsi, che al rumore che si faceva intorno
alla trappola, il prigioniero si fosse rifugiato nella parte più fonda
della prigione. Anzi, forse non aspettava che il momento favorevole
per slanciarsi con un balzo, rovesciare chiunque si opponesse alla sua
fuga, e sparire nelle profondità della foresta.
Era un momento piuttosto emozionante.
Vidi allora il capitano Hod fare qualche passo avanti con il dito
sul grilletto della carabina, e disporsi in modo da cacciare lo sguardo
fino in fondo alla trappola.
La trave era allora completamente alzata, e la luce entrava
largamente dall'orifizio.
In questo momento, un leggero rumore si fece udire attraverso le
pareti, poi un sordo mugolio, o meglio uno sbadiglio formidabile,
che trovai molto sospetto.
Evidentemente, là dentro vi era un animale che dormiva, e noi lo
avevamo svegliato bruscamente.
Il capitano Hod si avvicinò ancora e spianò la carabina contro una
massa che vide muoversi nella penombra.
Ad un tratto, all'interno si udì un movimento. Echeggiò un grido
di terrore che fu subito seguito da queste parole, pronunciate in buon
inglese:
— Non fate fuoco, per Dio! non fate fuoco! Un uomo si slanciò
fuori della trappola.
Il nostro stupore fu tale, che le nostre mani lasciarono andare
l'armatura e la trave ricadde pesantemente con un sordo rumore
davanti all'orifizio, che otturò un'altra volta.
Frattanto il personaggio comparso in modo tanto inatteso andava
incontro al capitano Hod, la cui carabina gli era spianata in pieno
petto, e in tono pretenzioso, accompagnato da un gesto enfatico, gli
disse:
— Abbiate la cortesia di abbassare la vostra arma, signore. Non
avete a che fare con una tigre del Tarryani!
Il capitano Hod, dopo un po' d'esitazione, sistemò la carabina in
posizione meno minacciosa.
— Con chi abbiamo l'onore di parlare? — domandò Banks
avanzando verso quel personaggio.
— Con il naturalista Mathias Van Guitt, fornitore regolare di
pachidermi, tardigradi, plantigradi, proboscidati, carnivori e altri
mammiferi, delle ditte Charles Rice di Londra e Hagenbeck di
Amburgo!
Poi, accennando a noi con un gesto circolare:
— I signori?...
— Il colonnello Munro e i suoi compagni di viaggio, — rispose
Banks.
— A passeggio per le foreste dell'Himalaya, — soggiunse il
fornitore. — Piacevole escursione, in verità! A buon rendere, signori,
a buon rendere!
Chi era questo strano uomo con cui avevamo a che fare? Non si
poteva pensare che gli avesse dato di volta il cervello durante quella
prigionia nella trappola per tigri? Era pazzo o in tutte le sue facoltà
mentali? Insomma, a quale categoria di bimani apparteneva
quell'individuo?
Dovevamo saperlo poco dopo, e in seguito, dovevamo imparare a
conoscere meglio quel curioso personaggio che si definiva naturalista
e che lo era stato infatti.
Il signor Mathias Van Guitt, fornitore di zoo, era un tipo con gli
occhiali, sulla cinquantina. Il viso glabro, gli occhi che sbattevano
continuamente, il naso voltato all'insù, la persona in continuo
movimento, i gesti estremamente espressivi, appropriati a ognuna
delle frasi che uscivano dalla sua larga bocca, tutto ciò ne faceva il
tipo conosciutissimo del vecchio commediante di provincia. Chi non
ha incontrato in qualche angolo del mondo uno di questi vecchi
attori, la cui esistenza, ristretta all'orizzonte di una ribalta e di un
fondale, è trascorsa tutta quanta fra il «lato corte e il «lato giardino»
di un teatro da melodramma? Parlatori instancabili, gesticolatori
noiosi, infatuati di se stessi, essi tengono alta, gettandola all'indietro,
la testa, troppo vuota nella vecchiaia per non essere mai stata molto
piena nell'età matura. C'era certamente del vecchio guitto in questo
Mathias Van Guitt.
Una volta ho udito raccontare questo divertente aneddoto su un
povero diavolo di cantante, che credeva di dover sottolineare con un
gesto particolare tutte le parole della sua parte.
Per esempio, nel Masaniello, quando intonava a piena voce:
Se mai d'un pescato napoletano...
il suo braccio destro, teso verso il pubblico, si muoveva
febbrilmente, come se avesse tenuto all'estremità della lenza della
sua canna da pesca il luccio preso all'amo. Poi continuando:
Il Ciel voleva fare un gran monarca,
mentre una delle sue mani si alzava dritta verso lo zenit per
indicare il cielo, l'altra, tracciando un cerchio intorno alla testa
fieramente alzata, dava l'immagine d'una corona reale.
Direbbe egli al destin: Decreto vano!
E tutto il suo corpo resisteva violentemente a una spinta che
tendeva a gettarlo indietro.
Seguitando a vogar nella sua barca...
E allora, le sue due braccia, vivamente spinte da sinistra a destra e
da destra a sinistra, come se egli avesse manovrato il remo,
mostravano la sua abilità nel dirigere la barca.
Ebbene, questi sistemi, familiari al cantante in questione, erano,
pressappoco, quelli del fornitore Mathias Van Guitt. Nel suo
linguaggio egli non adoperava che vocaboli fioriti, e dava un bel
fastidio al suo interlocutore che non avesse potuto mettersi fuori
portata dei suoi gesti.
Come venimmo a sapere più tardi e dalla sua stessa bocca,
Mathias Van Guitt era un ex professore di storia naturale al Museo di
Rotterdam, a cui l'insegnamento non era riuscito. Certo che quel
brav'uomo si prestava alla presa in giro, e se gli allievi correvano in
folla alle sue lezioni, era per divertirsi e non per imparare. In fin dei
conti, le circostanze avevano fatto si che, stanco di insegnare senza
risultato la zoologia teorica, egli era venuto in India per fare della
zoologia pratica. Questo genere di commercio gli riuscì meglio, e
egli divenne il fornitore ufficiale delle importanti ditte di Amburgo e
di Londra, dalle quali si riforniscono generalmente gli zoo pubblici e
privati dei due mondi.
E se Mathias Van Guitt si trovava in quel periodo nel Tarryani,
era perché ve lo aveva portato un'importante ordinazione di belve per
l'Europa. Infatti, il suo accampamento era a sole due miglia da quella
trappola, dalla quale lo avevamo tirato fuori.
Ma come mai il fornitore era in quella trappola? È quanto Banks
gli chiese subito, ed ecco che cosa egli rispose in un linguaggio
sottolineato da una grande varietà di gesti:
— Ieri, quando il sole aveva già quasi concluso il semicerchio
della sua rotazione diurna, mi venne in mente d'andare a visitare una
delle trappole per tigri preparate di mia mano. Lasciai dunque il mio
kraal, che voi, signori, vorrete onorare di una vostra visita, e giunsi a
questa radura. Ero solo; il mio personale era occupato in alcuni lavori
urgenti dai quali non avevo voluto distrarlo. Era un'imprudenza.
Quando fui arrivato davanti a questa trappola, notai subito che la
botola, formata dalla trave mobile, era sollevata. Dal che dedussi,
non senza logica, che nessuna belva vi si era lasciata pigliare.
Tuttavia, volli verificare se l'esca era sempre al suo posto, e se il
bilanciere a contrappeso funzionasse sempre. Perciò, con un agile
movimento di reptazione, mi insinuai nella stretta apertura.
La mano di Mathias Van Guitt indicava con un'elegante
ondulazione il movimento di un serpente che si caccia attraverso le
alte erbe.
— Quando fui giunto in fondo alla trappola, — riprese il
fornitore, — esaminai il quarto di capra, le cui emanazioni dovevano
attirare gli ospiti di questa parte della foresta. L'esca era intatta.
Stavo per ritirarmi, quando un urto involontario del mio braccio fece
oscillare il bilanciere; l'armatura si staccò, la botola cadde, e io mi
trovai preso nella mia stessa trappola, senza nessuna possibilità di
uscirne.
Qui, Mathias Van Guitt, si arrestò un istante per far comprendere
meglio tutta la gravità della sua situazione.
— Ciononostante, signori — soggiunse, — non vi nasconderò
che, da principio, considerai la cosa dal suo lato comico. Ero
prigioniero, sia pure! Nessun carceriere che potesse aprirmi la porta,
ne convengo! Ma pensai che i miei servi non vedendomi ricomparire
al kraal, si sarebbero preoccupati per la mia assenza prolungata e
avrebbero iniziato delle ricerche, che, presto o tardi, avrebbero dato il
loro frutto. Non era che questione di tempo.
Car que faire en un gîte, à moins que l'on ne songe,21
ha detto un favolista francese. Perciò io mi misi a riflettere, e
passarono alcune ore senza che nulla venisse a modificare la mia
situazione. Venuta la sera, la fame si fece sentire. Pensai che il
meglio che mi rimanesse da fare fosse d'ingannarla con il sonno.
Presi dunque la mia decisione da filosofo, e mi addormentai
profondamente. La notte fu calma in mezzo al gran silenzio della
foresta. Nulla turbò il mio sonno, e forse dormirei ancora se non fossi
21
«E che fare in una tana se non pensare?» La Fontaine, Fables, II, 14. (N.d.T.)
stato svegliato da un rumore insolito. La botola della trappola si
alzava, la luce entrava a fiotti nel mio oscuro ridotto, non mi
rimaneva più che lanciarmi fuori!... Quale fu il mio turbamento
quando vidi lo strumento mortifero diretto verso il mio petto! Un
istante ancora, e sarei stato colpito! L'ora della mia liberazione
sarebbe stata l'ultima della mia vita!... Ma il signor capitano fu tanto
gentile da riconoscere in me una creatura della sua specie... e non mi
rimane che ringraziarvi, signori, per avermi restituito alla libertà.
Questo fu il racconto del fornitore. Bisogna confessare che non fu
senza fatica che riuscimmo a frenare il sorriso provocato dal suo tono
e dai suoi gesti.
— Dunque, signore, — gli domandò Banks, — il vostro
accampamento è posto in questa parte del Tarryani?
— Sì, signore, — rispose Mathias Van Guitt. — Come ho avuto il
piacere di dirvi, il mio kraal è a due miglia da qui, e se volete
onorarlo della vostra presenza, sarò felice di ricevervi.
— Certamente, signor Van Guitt, — rispose il colonnello Munro,
— verremo a farvi visita!
— Siamo cacciatori, — aggiunse il capitano Hod, — e la
sistemazione di un kraal c'interesserà.
— Cacciatori! — esclamò Mathias Van Guitt, — cacciatori!
E non poté impedire alla sua fisionomia di rivelare che egli aveva
una stima molto relativa per i figli di Nemrod.
— Voi cacciate le belve... per ucciderle, senza dubbio? —
soggiunse rivolgendosi al capitano.
— Unicamente per ucciderle, — rispose Hod.
— E io unicamente per prenderle! — replicò il fornitore, che
trovò un bel gesto di fierezza.
— Ebbene, signor Van Guitt, non ci faremo concorrenza! —
ribatté il capitano Hod.
Il fornitore crollò il capo. Tuttavia la nostra qualità di cacciatori
non era tale da farlo pentire del suo invito.
— Quando vorrete seguirmi, signori! — disse inchinandosi con
grazia. Ma, in quel momento si fecero udire nel bosco molte voci, ed
una mezza dozzina di indù apparve alla svolta del grande viale che si
apriva al di là dalla radura.
— Ah! ecco i miei servi, — disse Mathias Van Guitt.
Poi, avvicinandosi a noi e mettendosi un dito sulla bocca,
spingendo un po' avanti le labbra:
— Non una parola della mia vicenda! — aggiunse. — Non
bisogna che il personale del kraal sappia che mi sono lasciato
pigliare nella mia trappola come una belva qualunque! Ciò potrebbe
diminuire il grado di correttezza che devo sempre conservare ai suoi
occhi!
Un segno di consenso da parte nostra rassicurò il fornitore.
— Padrone — disse allora uno degli indù, il cui viso impassibile
ed intelligente attirò la mia attenzione — padrone, vi cerchiamo da
più di un'ora senza aver...
— Ero con questi signori che acconsentono ad accompagnarmi
fino al kraal — rispose Van Guitt. — Ma, prima di lasciare la radura,
bisogna rimettere a posto la trappola.
Su un ordine del fornitore, gli indù procedettero a risistemare la
botola.
Frattanto Mathias Van Guitt ci invitò a visitare l'interno della
trappola. Il capitano Hod vi si cacciò dietro di lui, ed io lo seguii.
Il luogo era un po' stretto per lo sviluppo dei gesti del nostro
ospite, che si comportava come se fosse stato in una sala.
— Complimenti — disse il capitano Hod, dopo aver esaminato il
congegno. — È molto bene escogitato!
— Statene certo, signor capitano — rispose Mathias Van Guitt. —
Questo genere di trappole è infinitamente preferibile alle vecchie
fosse munite di pioli di legno indurito e agli alberi flessibili, ricurvi
ad arco, trattenuti da un nodo scorsoio. Nel primo caso, l'animale si
sventra; nel secondo si strangola. Ciò importa poco, evidentemente,
quando non si tratta che di distruggere le belve! Ma a me che vi
parlo, occorrono vive, intatte, senza alcuna avaria!
— Certamente — rispose il capitano Hod — non procediamo nel
medesimo modo.
— Il mio è forse quello buono! — replicò il fornitore. — Se si
consultassero le belve...
— Io non le consulto! — rispose il capitano.
Decisamente il capitano Hod e Mathias Van Guitt avrebbero
stentato a intendersi.
— Ma, — domandai al fornitore, — quando questi animali sono
presi in trappola, come fate per tirarli fuori?
— Una gabbia a ruote viene spinta davanti alla botola — rispose
Mathias Van Guitt — i prigionieri vi si gettano da sé, e a me non
rimane che riportarli al kraal al passo tranquillo e lento dei miei
bufali domestici.
Questa frase era appena finita, che delle grida si udivano al di
fuori.
Il nostro primo movimento, del capitano Hod e mio, fu di
precipitarci fuori della trappola.
Che cosa era accaduto?
Un serpente-staffile, della specie più maligna, era stato tagliato in
due dal bastone che un indù teneva in mano, e ciò nel momento
stesso in cui il rettile velenoso si slanciava sul colonnello.
Quell'indù era quello che io avevo già notato. Il suo rapido
intervento aveva certamente salvato sir Edward Munro da una morte
immediata, come ci fu dato di vedere.
Infatti le grida che avevamo udito erano lanciate da uno dei servi
del kraal, che si dibatteva a terra nelle ultime contorsioni dell'agonia.
Per una deplorevole fatalità, la testa del serpente, tagliata di netto,
era balzata al suo petto, i denti vi si erano fissati, e il disgraziato,
pervaso dal sottile veleno, spirava in meno di un minuto, senza che
fosse stato possibile portargli soccorso.
Atterriti da principio da questo orribile spettacolo, ci eravamo poi
precipitati verso il colonnello Munro.
— Non sei stato toccato? — domandò Banks, che gli afferrò
precipitosamente la mano.
— No, Banks, rassicurati — rispose sir Edward Munro. Poi,
rialzandosi e andando verso l'indù a cui doveva la vita:
— Grazie, amico — gli disse.
L'indù, con un gesto, fece comprendere che non gli era dovuto
nessun ringraziamento per ciò.
— Come ti chiami? — gli domandò il colonnello Munro.
— Kâlagani — rispose l'indù.
CAPITOLO III
IL «KRAAL»
LA MORTE di quel disgraziato ci aveva vivamente impressionati,
soprattutto nelle condizioni in cui si era verificata. Ma il morso del
serpente-staffile, uno dei più velenosi della penisola, non perdona.
Era una vittima in più da aggiungere alle migliaia che questi terribili
rettili fanno ogni anno in India. 22 Si dice, - per scherzo, penso - che,
un tempo, non vi erano serpenti alla Martinica, e che sono stati gli
inglesi a portarveli, quando hanno dovuto restituire l'isola alla
Francia. I francesi non hanno avuto bisogno di ricorrere a questo
genere di rappresaglie, quando hanno abbandonato le loro conquiste
nell'India. Era inutile, e bisogna convenire che la natura si è mostrata
prodiga a questo proposito.
Il corpo dell'indù, sotto l'influenza del veleno, si decomponeva
rapidamente. Si dovette procedere immediatamente a seppellirlo. I
suoi compagni vi si occuparono, ed il cadavere fu deposto in una
fossa abbastanza profonda, che i carnivori non potessero
dissotterrarlo.
Compiuta questa triste cerimonia, Mathias Van Guitt ci invitò ad
accompagnarlo al kraal, invito che fu accettato subito.
Una mezz'ora ci bastò per giungere al campo del fornitore. Questo
campo giustificava il nome di kraal, che vien adoperato più
particolarmente dai coloni del Sud Africa.
Era un gran recinto oblungo, sistemato nel cuore della foresta, in
una ampia radura. Mathias Van Guitt lo aveva allestito con una
perfetta comprensione delle necessità del suo mestiere. Una fila di
alte palizzate, in cui si apriva una porta larga tanto da lasciar passare
22
Nel 1877, 1677 esseri umani sono morti a causa del morso dei serpenti. I premi
pagati dal Governo per la distruzione di questi rettili indicano che in quello stesso
anno ne vennero uccisi 127.295. (N.d.A.)
i carri, lo circondava sui quattro lati. In fondo, al centro, una lunga
capanna, fatta di tronchi d'albero e di tavole, serviva da unica
abitazione a tutti gli abitanti del kraal. Sei gabbie, divise in vari
scompartimenti, montate ognuna su quattro ruote, erano disposte a
squadra all'estremità sinistra del recinto. Dai ruggiti che ne uscivano,
si poteva giudicare che gli ospiti non vi mancavano. A destra, una
dozzina di bufali nutriti dai grossi pascoli della montagna, se ne
stavano all'aria aperta. Era il tipo ordinario del serraglio viaggiante.
Sei carrettieri, addetti alla guida dei carri, dieci indù,
particolarmente addestrati alla caccia delle belve, completavano il
personale del campo.
I carrettieri erano noleggiati soltanto per la durata della campagna;
il loro servizio consisteva nel guidare i carri sui luoghi di caccia, poi
nel ricondurli alla più vicina stazione ferroviaria. Là, i carri erano
posti su trucks, e potevano raggiungere rapidamente, via Allahabad,
o Bombay o Calcutta.
I cacciatori, di razza indù, appartenevano a quella categoria di
persone del mestiere che si chiamano chikaris. Essi hanno il compito
di cercare le tracce degli animali feroci, di stanarli e di catturarli.
Ecco il personale del kraal. Mathias Van Guitt e i suoi servi vi
vivevano da alcuni mesi. Vi si trovavano esposti, non solo agli
attacchi delle fiere, ma anche alle febbri, da cui il Tarryani è
particolarmente infestato. L'umidità delle notti, l'evaporazione dei
fermenti perniciosi del suolo, il caldo umido sviluppato sotto la
chioma degli alberi, che i raggi solari penetrano solo a stento, fanno
della zona inferiore dell'Himalaya una regione malsana.
Eppure, il fornitore ed i suoi indù si erano così ben acclimatati a
quella regione, che la malaria non li colpiva più di quanto colpisse le
tigri o gli altri animali del Tarryani. Ma a noi non sarebbe stato
permesso il soggiornare impunemente nel kraal; del resto, ciò non
faceva parte dei piani del capitano Hod. Salvo qualche notte passata
in agguato, dovevamo vivere nella Steam-House in quella zona
superiore, che i vapori malsani della pianura non possono
raggiungere.
Eravamo dunque arrivati all'accampamento di Mathias Van Guitt,
e la porta si aperse per lasciarci entrare. Mathias Van Guitt sembrava
particolarmente lusingato dalla nostra visita.
— Ora, signori — ci disse — permettetemi di farvi gli onori del
kraal. Questo campo risponde a tutte le esigenze della mia arte.
Veramente, non è che una capanna in grande, ciò che, nella penisola,
i cacciatori chiamano un houddi.
Così parlando, il fornitore ci aveva aperta la porta della capanna,
che lui e i suoi servi occupavano in comune. Nulla di meno lussuoso.
Una prima camera per il padrone, una seconda per i chikaris, una
terza per i carrettieri; in ognuna di quelle camere, come unico
arredamento, un letto da campo; una quarta sala, più ampia, che
serviva nello stesso tempo da cucina e da sala da pranzo. L'abitazione
di Mathias Van Guitt, come si vede, non era che rudimentale, e
meritava giustamente la qualifica di houddi. Un vagabondo nella sua
capanna, niente di più.
Dopo aver visitato l'abitazione di quei «bimani appartenenti al
primo gruppo dei mammiferi», fummo invitati ad esaminare più da
vicino l'abitazione dei quadrupedi.
Era la parte interessante della sistemazione del kraal, e ricordava
più quella di un serraglio da fiera, che le installazioni confortevoli di
un giardino zoologico. Vi mancavano, infatti, soltanto quelle tele
dipinte a tempera, appese sopra il palco e rappresentanti a colori
accesi un domatore in maglietta rosa e frac di velluto, in mezzo a
un'orda tumultuante di quelle belve che con le fauci insanguinate, gli
artigli protesi, si piegano sotto la frusta di un Bidel o d'un eroico
Pezon! È vero che mancava il pubblico per invadere il palco.
Pochi passi più in là erano riuniti i bufali domestici. Essi
occupavano, sulla destra, un settore laterale del kraal, nel quale
veniva loro portata ogni giorno la razione d'erba fresca. Sarebbe stato
impossibile lasciare quegli animali vagare nei pascoli vicini. Come
disse elegantemente Mathias Van Guitt: «quella libertà di pascolo,
permessa nelle regioni del Regno Unito, è incompatibile con i
pericoli che presentano le foreste himalayane».
Il serraglio propriamente detto comprendeva sei gabbie montate
su quattro ruote. Ogni gabbia, munita di sbarre sul lato anteriore, era
divisa in tre scompartimenti. Delle porte, o meglio dei tramezzi
mobili dal basso in alto, permettevano di spingere gli animali da uno
scompartimento all'altro per le necessità del servizio. Queste gabbie
contenevano allora sette tigri, due leoni, tre pantere e due leopardi.
Mathias Van Guitt ci disse che la sua provvista sarebbe stata
completa solo quando avesse preso ancora due leopardi, tre tigri e un
leone. Allora, avrebbe lasciato l'accampamento, avrebbe raggiunto la
più vicina stazione ferroviaria, e si sarebbe diretto a Bombay.
Le belve, che si potevano osservare facilmente nelle loro gabbie,
erano magnifiche, ma ferocissime. Erano state prese troppo di
recente per essersi assuefatte a quello stato di prigionia; lo si capiva
dai loro ruggiti spaventosi, dai loro bruschi andirivieni da un
tramezzo all'altro, dai violenti colpi di zampa che assestavano
attraverso le sbarre, contorte in vari punti.
Al nostro arrivo dinanzi alle gabbie, quelle violenze aumentarono
ancora, senza che Mathias Van Guitt sembrasse preoccuparsene.
— Povere bestie! — disse il capitano Hod.
— Povere bestie! — ripeté Fox.
— Credete dunque che siano da compiangere più di quelle che voi
ammazzate? — domandò il fornitore in tono piuttosto secco.
— Sono meno da compiangere che da biasimare... per essersi
lasciate prendere! — ribatté il capitano Hod.
Se è vero che talvolta ai carnivori nei paesi come il continente
africano, dove sono rari i ruminanti che costituiscono il loro unico
nutrimento, viene imposto un lungo digiuno, non è la stessa cosa in
tutta questa zona del Tarryani. Qui abbondano i bisonti, i bufali, gli
zebù, i cinghiali, le antilopi, ai quali leoni, tigri e pantere danno la
caccia incessantemente. Inoltre, le capre, i montoni, senza parlare dei
raiot loro guardiani, offrono ai carnivori una preda sicura e facile.
Essi trovano dunque, nelle foreste dell'Himalaya, di che soddisfare
facilmente la fame. Perciò la loro ferocia, che non si riduce mai, non
ha scuse.
Era principalmente di carne di bisonte e di zebù che il fornitore
nutriva gli ospiti del suo serraglio, e spettava ai chikaris la cura di
rinnovare le provviste in determinati giorni.
Si avrebbe torto di credere che questa caccia sia senza pericoli.
Tutt'altro. La stessa tigre ha molto da temere dal bufalo selvatico, che
è un animale terribile quando è ferito. Più di un cacciatore lo ha visto
sradicare a colpi di corna l'albero sul quale egli aveva cercato rifugio.
Senza dubbio, si dice con ragione che l'occhio del ruminante è una
vera e propria lente d'ingrandimento, che la grandezza degli oggetti
aumenta di tre volte ai suoi occhi, che l'uomo, sotto questo aspetto
gigantesco, gli si impone. Si pretende pure che la posizione eretta
dell'essere umano, in cammino, è tale da spaventare gli animali
feroci, e che è meglio sfidarli in piedi piuttosto che accoccolati o
coricati.
Non so che cosa vi sia di vero in queste osservazioni, ma è certo
che l'uomo, anche quando si erge in tutta la sua statura, non produce
il minimo effetto sul bufalo selvatico, e se la sua arma gli fa cilecca,
è praticamente perduto.
Lo stesso dicasi del bisonte indiano, dalla testa corta e quadrata,
dalle corna svelte e schiacciate verso la base, dal dorso gibboso
(questa struttura lo accosta al suo confratello americano), dalle
zampe bianche, dallo zoccolo fino al ginocchio, e la cui lunghezza,
misurata dall'attaccatura della coda alla estremità del muso, è talvolta
di quattro metri. Anche lui, se è forse meno violento quando pascola
in branchi fra le alte erbe della pianura, diventa terribile per qualsiasi
cacciatore che lo assalga imprudentemente.
Questi erano dunque i ruminanti più particolarmente destinati a
nutrire i carnivori del serraglio Van Guitt. Perciò, per impadronirsene
con maggior sicurezza e quasi senza pericolo, i chikaris cercavano di
preferenza di pigliarli mediante delle trappole e non li ritiravano che
morti, o pressappoco.
Del resto, il fornitore, da uomo che sapeva il suo mestiere,
distribuiva il cibo ai suoi ospiti con grande parsimonia. Una volta al
giorno, a mezzogiorno, venivano loro distribuite quattro o cinque
libbre di carne e nient'altro. E (non certo per motivo «festivo») essi
venivano lasciati digiunare dal sabato al lunedì. Triste domenica di
dieta, per la verità! Perciò quando, dopo quarantotto ore, arrivava la
modesta pietanza, era una rabbia irrefrenabile, un concerto di urli,
un'agitazione spaventosa, dei balzi formidabili, che imprimevano alle
gabbie mobili un movimento avanti e indietro da far credere che
dovessero spezzarsi!
Sì, povere bestie! si sarebbe tentati di ripetere col capitano Hod.
Ma Mathias Van Guitt non agiva così senza ragione. Quell'astinenza
nella prigionia risparmiava alle sue belve le affezioni cutanee, e
aumentava il loro valore sui mercati dell'Europa.
Frattanto, lo si immaginerà facilmente, mentre Mathias Van Guitt
ci mostrava la sua collezione, più da naturalista che da domatore di
belve, la sua bocca non stava in ozio. Tutt'altro. Egli parlava,
narrava, raccontava, e poiché i carnivori del Tarryani costituivano
l'argomento principale dei suoi periodi ridondanti, la cosa ci
interessava abbastanza. Perciò, non dovevamo lasciare il kraal se non
quando la zoologia dell'Himalaya ci avesse svelato tutti i suoi segreti.
— Ma, signor Van Guitt, — disse Banks, — potreste dirmi se le
rendite del mestiere sono proporzionate ai suoi rischi?
— Signore, — rispose il fornitore, — un tempo erano molto
rimunerative. Tuttavia, da alcuni anni, devo riconoscerlo, gli animali
feroci sono in ribasso. Potreste giudicarne dai prezzi correnti
dell'ultimo bollettino. Il nostro mercato principale è il giardino
zoologico di Anversa. Volatili, ofidi, campioni delle famiglie
scimmiesche e sauriane, rappresentanti dei carnivori dei due mondi, è
là che io spedisco abitudinariamente...
Il capitano Hod s'inchinò davanti a questa parola.
— ... i prodotti delle nostre cacce avventurose nelle foreste della
penisola. Ad ogni modo, il gusto del pubblico sembra mutare, e i
prezzi di vendita arriveranno a essere inferiori ai prezzi di costo! Per
esempio, recentemente, uno struzzo maschio è stato venduto a soli
millecento franchi, e la femmina a ottocento franchi soltanto. Una
pantera nera ha trovato un compratore solo per milleseicento franchi,
una tigre di Giava per duemilaquattrocento, e una "famiglia di leoni
(padre, madre, uno zio e due leoncini promettenti) a settemila franchi
tutti insieme!
— Sono veramente regalati! — rispose Banks.
— Quanto ai proboscidati... — soggiunse Mathias Van Guitt.
— Proboscidati? — fece il capitano Hod.
— Noi definiamo con questo vocabolo scientifico i pachidermi ai
quali la natura ha fornito una proboscide.
— Gli elefanti, allora!
— Sì, gli elefanti, dall'era quaternaria, i mastodonti nei periodi
preistorici...
— Vi ringrazio, — rispose il capitano Hod.
— Quanto ai proboscidati, — soggiunse Mathias Van Guitt, —
bisogna rinunciare a catturarli, se non per raccoglierne le zanne, dato
che il consumo dell'avorio non è diminuito. Infatti da quando alcuni
autori drammatici, a corto di espedienti, hanno immaginato di
mostrarli nelle loro commedie, gli impresari li portano in giro di città
in città, e lo stesso elefante, che percorre la provincia con la
compagnia ambulante, basta alla curiosità di tutto un paese. Così
anche gli elefanti sono meno ricercati di un tempo.
— Ma, — domandai, — voi dunque fornite questi campioni della
fauna indiana, solo agli zoo d'Europa?
— Mi perdonerete, signore — rispose Mathias Van Guitt, — se, a
questo proposito, mi permetto, senza essere troppo curioso, di farvi
una semplice domanda.
M'inchinai in segno d'assenso.
— Voi siete francese, signore, — soggiunse il fornitore. — Lo si
riconosce non solo dal vostro accento, ma anche dal vostro tipo, che
è un miscuglio piacevole di galloromano e di celtico. Ora, come
francese, non dovete avere molta propensione per i viaggi lontani, e,
senza dubbio, non avete mai fatto il giro del mondo?
Qui il gesto di Mathias Van Guitt descrisse uno dei cerchi
massimi della sfera.
— Non ho ancora avuto questo piacere! — risposi.
— Vi domanderò dunque, signore, — soggiunse il fornitore, —
non se siete venuto in India, dato che ci siete, ma se conoscete a
fondo la penisola indiana.
— La conosco ancora male, — risposi. — Però ho già visitato
Bombay, Calcutta, Bénares, Allahabad, la valle del Gange. Ho visto i
loro monumenti, ho ammirato...
— Eh! ma che cosa c'entra, signore, che cosa c'entra questo! —
rispose Mathias Van Guitt voltando il capo dall'altra parte, mentre la
sua mano, agitata febbrilmente, esprimeva un supremo disprezzo.
Poi, procedendo per ipotiposi, ossia abbandonandosi a una
descrizione vivace e animata:
— Sì, che cosa c'entra questo, se non avete visitato i serragli di
quei potenti rajah che hanno conservato il culto degli animali superbi
di cui si onora il territorio sacro dell'India. Orsù, signore, riprendete
il bastone del turista! Andate nel Guicowar a rendere omaggio al re
di Baroda! Esaminate i suoi serragli, che devono a me la maggior
parte dei loro ospiti, leoni del Kattyawar, orsi, pantere, tchîta, linci,
tigri! Assistete alla celebrazione del matrimonio dei suoi
sessantamila piccioni, che si celebra, ogni anno, con gran pompa!
Ammirate i suoi cinquecento bulbuls, usignoli della penisola, della
cui educazione si ha cura come se fossero gli eredi del trono!
Contemplate i suoi elefanti, uno dei quali, consacrato al mestiere di
carnefice, ha per missione di schiacciare la testa del condannato sul
ceppo del supplizio! Poi, recatevi nella dimora del rajah di Maissur,
il più ricco sovrano dell'Asia! Penetrate in quel palazzo in cui si
contano a centinaia i rinoceronti, gli elefanti, le tigri e tutte le belve
di alta classe che appartengono all'aristocrazia animalesca dell'India!
E quando avrete visto tutto questo, signore, allora forse non potrete
più essere accusato di ignoranza circa le meraviglie di questo
incomparabile paese!
Non mi rimaneva che inchinarmi alle osservazioni di Mathias Van
Guitt. La sua maniera appassionata di presentare le cose non
permetteva evidentemente la discussione.
Tuttavia, il capitano Hod lo bloccò più particolarmente sulla fauna
propria di quella regione del Tarryani.
— Datemi qualche particolare, per cortesia — gli chiese — a
proposito dei carnivori che sono venuto a cercare in questa parte
dell'India. Benché io non sia che un cacciatore, ve lo ripeto, non vi
farò concorrenza, signor Van Guitt, e anzi se posso aiutarvi a
prendere qualcuna delle tigri che mancano ancora alla vostra
collezione, mi ci dedicherò volentieri. Ma, quando il vostro serraglio
sarà completo, non ve ne avrete a male se io mi dedicherò alla
distruzione di questi animali per mio divertimento personale!
Mathias Van Guitt prese l'atteggiamento di chi è rassegnato a
subire una cosa che disapprova, ma che non potrebbe impedire.
Convenne, del resto, che il Tarryani racchiudeva un grandissimo
numero di animali nocivi, generalmente poco richiesti sui mercati
dell'Europa, e che gli sembrava permesso di sacrificare.
— Ammazzate i cinghiali, d'accordo — rispose. — Benché questi
suini, dell'ordine dei pachidermi, non siano carnari...
— Carnari? — disse il capitano Hod.
— Voglio dire che sono erbivori; la loro ferocia è tale, che fanno
correre i più grandi pericoli ai cacciatori che sono tanto audaci da
assalirli!
— E i lupi?
— I lupi sono numerosi in tutta le penisola, e molto temibili,
quando si gettano in branchi contro qualche fattoria isolata. Questi
animali assomigliano un po' al lupo rosso di Polonia, e io li considero
alla stregua degli sciacalli o dei cani selvatici. Non nego, tuttavia, i
danni che essi fanno, ma siccome non hanno nessun valore
commerciale e sono indegni di figurare fra gli zoocrati delle classi
alte, vi lascio anche questi, capitano Hod.
— E gli orsi? — domandai.
— Gli orsi hanno del buono, signore — rispose il fornitore
approvando con un cenno del capo. — Quelli dell'India non sono
ricercati tanto quanto i loro confratelli della famiglia degli ursidi,
però possiedono un certo valore commerciale che li raccomanda alla
benevola attenzione dei conoscitori. Il gusto può esitare fra i due tipi
che troviamo nelle valli del Cashmir e nelle colline del Raymahal.
Ma, tranne forse che nel periodo del letargo, questi animali sono
quasi inoffensivi, e, in sostanza, non possono tentare gli istinti
cinegetici di un vero cacciatore quale appare ai miei occhi il capitano
Hod.
Il capitano si inchinò in tono significativo, mostrando chiaramente
che, con o senza il permesso di Mathias Van Guitt, egli su queste
questioni particolari avrebbe fatto affidamento solo su se stesso.
— Del resto — soggiunse il fornitore — questi orsi sono
solamente animali botanofagi...
— Botanofagi? — disse il capitano.
— Sì — rispose Mathias Van Guitt — vivono solo di vegetali e
non hanno nulla in comune con le specie feroci, di cui la penisola
giustamente s'inorgoglisce.
— Fra queste belve contate il leopardo? — domandò il capitano
Hod.
— Senza dubbio, signore. Questo felino è agile, audace, pieno di
coraggio; si arrampica sugli alberi, e, per questo stesso fatto, è
qualche volta più temibile della tigre...
— Oh! — disse il capitano Hod.
— Signore — rispose Mathias Van Guitt in tono secco — quando
un cacciatore non è più sicuro di trovare un rifugio sugli alberi, è
molto vicino ad essere cacciato a sua volta!
— E la pantera? — domandò il capitano Hod, che volle troncare
quella discussione.
— La pantera è superba — rispose Mathias Van Guitt — e potete
vedere, signori, che ne ho dei magnifici esemplari! Meravigliosi
animali, che, per una bizzarra contraddizione, un'antilogia, per usare
una parola meno comune, possono essere addestrati alle lotte della
caccia! Sì, signori, nel Guicowar specialmente, i rajah allenano le
pantere a questo nobile esercizio! Vengono condotte in palanchino,
con la testa incappucciata, come i girifalchi o gli smerigli! Per la
verità sono autentici falchi a quattro zampe! Appena i cacciatori sono
in vista di un gregge di antilopi, la pantera viene scappucciata, e si
slancia sui timidi ruminanti, che le loro gambe, per agili che siano,
non possono sottrarre ai suoi terribili artigli! Sì, signor capitano, si!
Troverete delle pantere nel Tarryani! Ne troverete più di quante ne
vorreste, forse, ma vi avverto cortesemente che queste non sono
addomesticate!
— Lo spero bene — rispose il capitano Hod.
— Non più dei leoni, del resto — aggiunse il fornitore piuttosto
seccato da quella risposta.
— Ah! i leoni! — disse il capitano Hod. — Parliamo un po' dei
leoni, di grazia!
— Ebbene, signore, — riprese Mathias Van Guitt, — considero
questi pretesi re degli animali come inferiori ai loro confratelli
dell'antica Libia. Qui i maschi non portano quella criniera che è
l'appannaggio del leone africano, e non sono altro, a parere mio, che
dei Sansoni spiacevolmente tosati! Del resto, sono quasi totalmente
scomparsi dall'India centrale, per rifugiarsi nel Kattyawar, nel
deserto di Theil e nel Tarryani. Questi felini degeneri, che vivono
ormai da eremiti, da solitari, non possono ritemprarsi frequentando i
loro simili. Perciò non li pongo al primo posto nella scala dei
quadrupedi. Davvero, signori, si può sfuggire al leone, alla tigre mai!
— Ah! le tigri! — esclamò il capitano Hod.
— Sì! le tigri! — ripeté Fox.
— La tigre, — soggiunse Mathias Van Guitt animandosi, — a lei
spetta la corona! Si dice la tigre reale, e non il leone reale, ed è
giusto! L'India le appartiene tutta quanta e si riassume in lei! Non è
forse stata la prima ad occupare il suolo? Non è forse suo diritto
considerare invasori, non solo i rappresentanti della razza
anglosassone, ma anche i figli della razza del Sole? Non è forse lei la
vera figlia di quella terra santa dell'Argavarta? Perciò si vedono
queste belve meravigliose diffuse in tutta la superficie della penisola,
e non hanno abbandonato uno solo dei distretti dei loro antenati, dal
capo Comorin fino alla frontiera himalayana!
E il braccio di Mathias Van Guitt, dopo aver tracciato un
promontorio avanzando in direzione sud, risalì verso nord per
disegnare tutta una cresta di montagne.
— Nel Sunderbund, — continuò, — esse sono di casa! Vi regnano
da padrone, e sventura a chi tentasse di disputare loro quel territorio!
Nei Nilgheries, vanno in giro in torme, come i gatti selvatici,
si parva licet componere magnis. 23
«Comprenderete dunque, perché questi superbi felini siano
richiesti su tutti i mercati d'Europa e perché rappresentino l'orgoglio
dei belluari! Qual è la grande attrattiva degli zoo pubblici o privati?
La tigre! Quando temete per la vita del domatore? Quando il
23
Se mi è concesso di accostare il piccolo al grande. (N.d.T.)
domatore entra nella gabbia della tigre! Quale animale i rajah pagano
a peso d'oro per ornamento dei loro giardini reali? La tigre! Qual è
l'animale più ricercato sulle piazze di Londra, Anversa e Amburgo?
La tigre! In quali cacce si illustrano i cacciatori indiani, ufficiali
dell'esercito reale o dell'esercito indigeno? Nella caccia della tigre!
Sapete, signori, quale divertimento offrono i sovrani dell'India
indipendente ai loro ospiti? Viene portata una tigre reale in gabbia.
La gabbia viene posta in mezzo a un'ampia pianura. Il rajah, i suoi
invitati, i suoi ufficiali, le sue guardie, sono armati di lance, rivoltelle
e carabine e montati per lo più su valenti solipedi...»
— Solipedi? — disse il capitano Hod.
— I loro cavalli, se preferite questa parola un po' volgare. Ma i
solipedi, spaventati dalla vicinanza del felino, dal suo odore di
selvatico, dal lampo che brilla nei suoi occhi, si impennano .e ci
vuole tutta l'abilità dei cavalieri per trattenerli. Ad un tratto, viene
aperta la porta della gabbia! Il mostro si slancia, balza, vola, si getta
sui gruppi sparsi, immola alla sua rabbia una ecatombe di vittime! Se
qualche volta riesce a rompere il cerchio di ferro e di fuoco che lo
stringe, generalmente però soccombe, uno contro cento! Ma almeno
la sua morte è gloriosa, è anticipatamente vendicata!
— Bravo! signor Mathias Van Guitt, — esclamò il capitano Hod
che cominciava a rianimarsi a sua volta. — Sì! Dev'essere un bello
spettacolo! Sì! la tigre è il re degli animali!
— Regalità che sfida le rivoluzioni, — aggiunse il fornitore.
— E se voi, signor Van Guitt, ne avete catturate, io ne ho
ammazzate e spero di non lasciare il Tarryani prima che la
cinquantesima sia caduta sotto i miei colpi!
— Capitano, — disse il fornitore corrugando le sopracciglia, — vi
ho ceduto i cinghiali, i lupi, gli orsi, i bufali! Questo non basta
dunque alla vostra rabbia venatoria?
Vidi che il nostro amico Hod stava per accalorarsi con lo stesso
trasporto di Mathias Van Guitt su questa questione palpitante.
L'uno aveva preso più tigri di quante l'altro avesse ucciso? Che
argomento per una discussione! Era meglio catturarle o distruggerle?
Che tesi da far trionfare!
Entrambi, il capitano e il fornitore, cominciavano già a scambiarsi
delle frasi rapide, e per dire tutto, a parlare contemporaneamente
senza capirsi più.
Banks intervenne.
— Le tigri, — disse, — sono le regine della creazione, siamo
d'accordo, signori, ma mi permetterò di aggiungere che sono regine
pericolosissime per i loro sudditi. Nel 1862, se non mi sbaglio, questi
ottimi felini hanno divorato gli impiegati del telegrafo della stazione
dell'isola Sangor. Si cita pure una tigre femmina che, in tre anni, ha
fatto non meno di centodiciotto vittime, e un'altra che, nel medesimo
periodo di tempo, ha sterminato centoventisette persone. È troppo,
anche per delle regine! Infine, dopo il disarmo dei Cipay, in un
periodo di tre anni, dodicimilacinquecentocinquantaquattro persone
sono morte sotto i denti delle tigri.
— Ma, signore, — rispose Mathias Van Guitt, — sembrate
dimenticare che questi animali sono omofagi?
— Omofagi? — disse il capitano Hod.
— Sì, mangiatori di carne cruda, e gli indù pretendono addirittura
che, quando hanno assaggiata una volta la carne umana, non ne
vogliono più nessun'altra!
— Ebbene, signore?... — disse Banks.
— Ebbene, signore, — rispose sorridendo Mathias Van Guitt, —
obbediscono alla loro natura!... Bisogna bene che mangino.
CAPITOLO IV
UNA REGINA DEL TARRYANI
QUESTA osservazione del fornitore concluse la nostra visita al
kraal; era venuta l'ora di ritornare alla Steam-House.
In sostanza, il capitano Hod e Mathias Van Guitt non si
separavano certo come se fossero i due migliori amici del mondo. Se
l'uno voleva distruggere le belve del Tarryani, l'altro voleva
catturarle, e sì che ce n'era abbastanza per accontentarli tutti e due.
Con tutto ciò venne stabilito che i rapporti fra il kraal e il
sanitarium sarebbero stati frequenti. Ci saremmo avvertiti a vicenda
dei bei colpi che ci fossero da fare. I chikaris di Mathias Van Guitt,
che avevano molta esperienza di questo tipo di spedizioni e che
conoscevano i sentieri del Tarryani, erano in grado di rendersi utili al
capitano Hod, segnalandogli i passaggi degli animali. Il fornitore li
mise cortesemente a sua disposizione, e in particolar modo Kâlagani.
Questo indù, benché entrato da poco al servizio del kraal, si
mostrava molto intelligente, e si poteva fare assoluto affidamento su
di lui.
In compenso, il capitano Hod promise di fornire, nel limite dei
suoi mezzi, il proprio aiuto alla cattura delle belve che mancavano
allo stock di Mathias Van Guitt.
Prima di lasciare il kraal, sir Edward Munro, che non contava
probabilmente di farvi visite frequenti, ringraziò ancora una volta
Kâlagani, che lo aveva salvato. Gli disse che sarebbe sempre stato il
benvenuto alla Steam-House.
L'indù s'inchinò freddamente. Per quanta soddisfazione potesse
provare nel sentir parlare così l'uomo che gli doveva la vita, non ne
lasciò scorgere nulla.
Eravamo ritornati per l'ora del pranzo. Mathias Van Guitt, lo si
può ben credere, fece le spese della conversazione.
— Per mille diavoli! Che bei gesti ha quel fornitore! — ripeteva il
capitano Hod. — Che scelta di parole! Che giri di frase! Solo, se
nelle belve non vede che soggetti da mettere in mostra, si sbaglia!
I giorni seguenti, 27, 28 e 29 giugno, piovve con tale violenza, che
i nostri cacciatori, per arrabbiati che fossero, non poterono lasciare la
Steam-House. Con quel tempo orribile, del resto, non si potevano
riconoscere le tracce e i carnivori, che come i gatti non amano
l'acqua, non lasciano volentieri le loro tane.
Il 30 giugno il tempo migliorò e il cielo si fece più sereno. Quel
giorno, il capitano Hod, Fox, Goûmi ed io, facemmo i nostri
preparativi per scendere al kraal.
La mattina, alcuni montanari vennero a farci visita. Avevano
inteso dire che una pagoda, miracolosa si era trasportata nella regione
dell'Himalaya, e un vivo sentimento di curiosità li aveva condotti alla
Steam-House.
Questi indigeni della frontiera tibetana sono bei tipi dall'animo
guerresco, di una lealtà a tutta prova; praticano largamente
l'ospitalità, e son molto superiori, moralmente e fisicamente, agli
indù delle pianure.
Se la pretesa pagoda li meravigliò, il Gigante d'Acciaio li
impressionò fino a provocare da parte loro segni d'adorazione;
eppure, era in riposo.
Che cosa avrebbe provato, quella brava gente, se lo avesse visto,
eruttante fumo e fiamme, salire con passo sicuro le aspre pendenze
delle sue montagne?
Il colonnello Munro accolse bene quegli indigeni, alcuni dei quali
percorrono per lo più i territori del Nepal, lungo la frontiera
indocinese. La conversazione si svolse per un po' su quella parte
della frontiera in cui Nana Sahib aveva cercato rifugio dopo la
disfatta dei Cipay, quando fu inseguito per tutto il territorio
dell'India.
Quei montanari non sapevano altro che quello che noi sapevamo.
La notizia della morte del nababbo era giunta fino a loro e non
sembravano metterla in dubbio. Quanto a quelli dei suoi compagni,
che gli erano sopravvissuti, non se ne parlava più. Forse, erano andati
a cercare un rifugio più sicuro fino nel cuore del Tibet; ma ritrovarli
in quel paese sarebbe stato difficile.
Davvero, se il colonnello Munro aveva avuto, dirigendosi verso il
nord della penisola, il pensiero di mettere in chiaro tutto ciò che
riguardava da vicino o da lontano Nana Sahib, questa risposta doveva
certamente distoglierlo da tale proposito. Ma, ascoltando quei
montanari, egli rimase pensieroso e non prese più parte alla
conversazione.
Il capitano Hod, invece, rivolse loro alcune domande, ma da
tutt'altro punto di vista. Essi gli dissero che delle belve, e
particolarmente delle tigri, provocavano terribili disastri nella zona
inferiore dell'Himalaya. Gli abitanti avevano dovuto abbandonare
fattorie, e persino interi villaggi. Molti greggi di capre e di montoni
erano già stati distrutti e si contavano anche numerose vittime fra gli
indigeni. Nonostante il premio elevato offerto dal governo, - trecento
rupie per ogni tigre, - il numero di quei felini non sembrava
diminuire, e ci si domandava se l'uomo non sarebbe stato in breve
costretto a ceder loro il posto.
I montanari aggiunsero anche questo particolare: che le tigri non
stavano solamente nel Tarryani. Ovunque la pianura offriva loro alte
erbe, jungle, cespugli nei quali potevano mettersi in agguato, era
possibile incontrarle in gran numero.
— Bestie cattive! — dissero.
Quella brava gente, e con ragione si vede, non manifestava nei
confronti delle tigri le stesse idee del fornitore Mathias Van Guitt e
del nostro amico capitano Hod.
I montanari si ritirarono lietissimi dell'accoglienza ricevuta, e
promisero di ripetere la loro visita alla Steam-House.
Dopo la loro partenza, essendo terminati i nostri preparativi, il
capitano Hod, i nostri due compagni ed io, ben armati, pronti a
qualsiasi incontro, scendemmo verso il Tarryani.
Giungendo alla radura in cui si trovava la trappola dalla quale
avevamo così felicemente estratto Mathias Van Guitt, questi si
presentò ai nostri occhi, non senza cerimonie.
Cinque o sei dei suoi uomini, e fra essi Kâlagani, erano occupati a
far passare dalla trappola in una gabbia su ruote una tigre che si era
lasciata prendere durante la notte.
Magnifico animale davvero, che fece una grande invidia al
capitano Hod!
— Una di meno nel Tarryani! — egli mormorò fra due sospiri,
che trovarono eco nel petto di Fox.
— Una di più nel serraglio, — rispose il fornitore. — Ancora due
tigri, un leone, due leopardi, e sarò in grado di far onore ai miei
impegni prima della fine della campagna. Venite con me al kraal,
signori?
— Vi ringraziamo, — disse il capitano Hod, — ma oggi andiamo
a caccia per nostro conto.
— Kâlagani è a vostra disposizione, capitano Hod, — rispose il
fornitore. — Conosce bene la foresta e può esservi utile.
— L'accettiamo volentieri per guida.
— Ora, signori, — aggiunse Mathias Van Guitt, — buona
fortuna! Ma promettetemi di non ucciderle tutte!
— No, ve ne lasceremo qualcuna! — ribatté il capitano Hod.
E Mathias Van Guitt, salutandoci con un gesto superbo,
scomparve sotto gli alberi dietro la sua gabbia a ruote.
— In cammino, — disse il capitano Hod, — in cammino, amici
miei. Alla mia quarantaduesima.
— Alla mia ventottesima! — rispose Fox.
— Alla mia prima! — aggiunsi io.
Ma il tono con cui pronunciai queste parole fece sorridere il
capitano. Evidentemente non avevo il fuoco sacro. Hod si era rivolto
verso Kâlagani.
— Conosci bene il Tarryani? — gli domandò.
— L'ho percorso venti volte, notte e giorno, in tutte le direzioni,
— rispose l'indù.
— Hai sentito dire che una tigre si sia più particolarmente fatta
vedere nei dintorni del kraal?
— Sì, ma è una tigre femmina. È stata vista, a due miglia da qui,
nella parte alta della foresta, e da alcuni giorni si cerca di catturarla.
Volete che...
— Se vogliamo? — rispose il capitano Hod senza lasciare all'indù
il tempo di terminare la frase.
Infatti, non ci rimaneva nulla di meglio da fare che seguire
Kâlagani, ed è ciò che facemmo.
È certo che le belve sono molto numerose nel Tarryani, e là, come
altrove, esse hanno bisogno di non meno di due buoi alla settimana
per il loro consumo particolare!
Calcolate quanto costi questo mantenimento all'intera penisola!
Ma se le tigri vi si trovano in gran numero, non si deve pensare
che corrano in lungo e in largo per le campagne. Fintanto che la fame
non le spinge, se ne stanno nascoste nelle loro tane, e sarebbe errore
credere di poterle incontrare ad ogni passo. Quanti viaggiatori hanno
percorso le foreste o le jungle senza averne mai viste! Quando viene
organizzata una caccia, bisogna incominciare con il riconoscere i
luoghi di passaggio abituale di quegli animali, e, soprattutto, scoprire
il ruscello o la sorgente a cui vanno di solito a dissetarsi.
Questo anzi non basta ancora, e bisogna anche adescarle. Lo si fa
abbastanza facilmente, mettendo un quarto di bue, appeso ad un palo,
in qualche luogo circondato da alberi o da massi, che possano servire
da nascondiglio ai cacciatori. È così, perlomeno, che si procede nelle
foreste.
In pianura, le cose vanno diversamente, e l'elefante diventa il più
utile ausilio dell'uomo in quelle pericolose cacce di inseguimento.
Ma questi animali devono essere perfettamente addestrati a tale
manovra, e, nonostante tutto, sono presi talvolta dal panico che rende
pericolosissima la posizione dei cacciatori appollaiati sul loro dorso.
Bisogna anche dire che la tigre non esita ad avventarsi contro
l'elefante. La lotta fra essa e l'uomo avviene allora sul dorso del
gigantesco pachiderma, che si imbizzarrisce, ed è raro che non
termini col vantaggio della belva...
È così, per altro, che si fanno le grandi cacce dei rajah e dei ricchi
sportivi dell'India degne di figurare negli annali cinegetici.
Ma non era quello il sistema adottato dal capitano Hod. Era a
piedi che egli andava alla ricerca delle tigri, era a piedi che era solito
combatterle.
Frattanto, noi seguivamo Kâlagani, che camminava di buon passo.
Da indù riservato, parlava poco e si limitava a rispondere brevemente
alle domande che gli venivano fatte.
Un'ora dopo, ci fermavamo presso un ruscello torrentizio, sulle
cui sponde si vedevano delle impronte di animali ancora fresche. In
mezzo ad una piccola radura, sorgeva un palo, dal quale pendeva un
intero quarto di bue.
L'esca non era stata interamente rispettata. Vi si vedevano le
tracce recenti dei denti degli sciacalli, che sono i ladruncoli della
fauna indiana, sempre in cerca di qualche preda, anche se non
destinata loro. Una dozzina di questi carnivori fuggì quando ci
avvicinammo, cedendoci il posto.
— Capitano, — disse Kâlagani, — è qui che aspetteremo la tigre.
Vedete che il luogo è favorevole per un appostamento.
Infatti, era facile appostarsi tra gli alberi o dietro i massi, in modo
da poter sparare a fuoco incrociato sul palo isolato in mezzo alla
radura.
Così fu fatto immediatamente. Goûmi ed io avevamo preso posto
sullo stesso ramo. Il capitano Hod e Fox, entrambi appollaiati sulla
prima biforcazione di due grandi querce verdi, stavano di fronte.
Kâlagani, invece, si era seminascosto dietro un'alta roccia, su cui
poteva arrampicarsi qualora il pericolo si fosse fatto imminente.
L'animale sarebbe così rimasto preso in un cerchio di fuoco, dal
quale non avrebbe potuto uscire. Tutte le sorti gli erano dunque
contro, benché si dovesse, tuttavia, tener conto anche dell'imprevisto.
Non ci rimaneva altro che aspettare.
Gli sciacalli, dispersi qua e là, facevano sempre udire i loro rauchi
latrati nelle macchie vicine, ma non osavano più venire a mordere il
quarto di bue.
Non era passata un'ora che quei latrati cessarono di colpo. Quasi
subito, due o tre sciacalli, balzando fuori dalla macchia,
attraversarono la radura e scomparvero nel più fitto del bosco.
Un cenno di Kâlagani, che si preparava a salire sulla roccia, ci
avvertì di stare in guardia.
Infatti, quella fuga precipitosa degli sciacalli non aveva potuto
essere provocata altro che dall'avvicinarsi di qualche belva, - la tigre
senza dubbio, - e bisognava prepararsi a vederla comparire da un
istante all'altro in qualche punto della radura.
Le nostre armi erano pronte. Le carabine del capitano Hod e del
suo attendente, già puntate verso la parte della macchia da cui erano
usciti gli sciacalli, non aspettavano che una pressione del dito per far
fuoco.
Poco dopo, mi parve di vedere un leggero movimento dei rami
superiori della macchia. Contemporaneamente si fece udire uno
scricchiolio di legna secca. Un animale qualsiasi si avanzava, ma
prudentemente, senza affrettarsi. Di quei cacciatori che lo spiavano
nascosti tra un fitto fogliame, non poteva evidentemente veder nulla.
Tuttavia, il suo istinto doveva lasciargli presentire che il luogo non
era sicuro per lui. Certamente, se non fosse stato spinto dalla fame, se
il quarto di bue non lo avesse attirato con il suo odore, esso non si
sarebbe arrischiato oltre.
Comparve, però, attraverso i rami di un cespuglio, e si arrestò
come per un senso di diffidenza.
Era proprio una tigre, femmina, di alta statura, dalla testa
poderosa, dal corpo agile. Cominciò ad avanzare appiattendosi al
suolo con le ondulazioni di un rettile.
Tutti d'accordo, lasciammo che si avvicinasse al palo. Essa fiutava
il terreno, si rizzava, inarcava il dorso, come un enorme gatto, che
non voglia slanciarsi.
Ad un tratto, si fecero udire due spari di carabina.
— Quarantadue! — gridò il capitano Hod.
— Trentotto! — gridò Fox.
Il capitano e il suo attendente avevano sparato
contemporaneamente e avevano mirato così bene, che la tigre colpita
al cuore da un proiettile, se non da due, rotolava a terra.
Kâlagani si era precipitato verso l'animale. Noi eravamo balzati a
terra.
La tigre non si muoveva più.
Ma a chi spettava l'onore di averla colpita a morte? Al capitano o
a Fox? Era importante saperlo, come si può immaginare.
L'animale fu squartato. Il cuore era stato attraversato da due
proiettili.
— Via, — disse il capitano Hod, non senza un po' di rammarico,
— mezza per uno!
— Mezza, capitano! — rispose Fox con lo stesso tono.
E credo che né l'uno né l'altro avrebbero ceduto la parte che
doveva venire registrata sul proprio conto.
Questo fu il risultato di quel colpo meraviglioso, la cui
conseguenza più evidente era che l'animale era morto senza lotta, e
perciò, senza pericolo per gli assalitori, risultato rarissimo nelle cacce
di quel genere.
Fox e Goûmi rimasero sul campo di battaglia per togliere
all'animale la sua superba pelliccia, mentre il capitano Hod ed io
ritornavamo alla Steam-House.
Non è mia intenzione notare minutamente gli incidenti delle
nostre spedizioni nel Tarryani, a meno che non presentino qualche
caratteristica particolare. Mi limito dunque a dire fin d'ora che il
capitano Hod e Fox non ebbero da lamentarsi.
Il 10 luglio, durante una caccia all'houddi, ossia in capanno, una
combinazione fortunata li favorì ancora, senza che avessero corso
veri pericoli.
L'houddi, del resto è ben sistemato per la posta alle grandi belve.
È una specie di piccolo fortino merlato, le cui muraglie, munite di
feritoie, dominano le sponde di un fiumiciattolo, dove gli animali
sono soliti andare a bere. Abituati a vedere queste costruzioni, non
possono diffidare e si espongono direttamente alle fucilate. Ma là,
come dappertutto, si tratta di colpirli mortalmente al primo colpo,
altrimenti la lotta diventa pericolosa, e l'houddi non mette sempre il
cacciatore al riparo dai balzi formidabili delle belve, che le ferite
rendono furibonde.
Fu precisamente quanto accadde in quest'occasione, come si
vedrà.
Mathias Van Guitt ci accompagnava. Forse sperava che una tigre,
leggermente ferita, potesse essere condotta al kraal, dove egli si
sarebbe incaricato di curarla e di farla guarire.
Ora, quel giorno, il nostro drappello di cacciatori incontrò tre tigri,
a cui la prima scarica non impedì di slanciarsi sulle mura dell'houddi.
Le due prime, con grande dispiacere del fornitore, furono uccise da
una seconda scarica, mentre superavano il recinto merlato. Quanto
alla terza, balzò fino nell'interno, con una spalla insanguinata, ma
non mortalmente ferita.
— Questa la piglieremo! — esclamò Mathias Van Guitt, che,
parlando così, si spingeva un po' troppo avanti, — la piglieremo
viva!...
Non aveva terminato la sua frase imprudente che l'animale gli si
precipitava addosso, lo rovesciava, e il fornitore sarebbe stato
spacciato, se un proiettile del capitano Hod non avesse colpito alla
testa la tigre, che cadde fulminata.
Mathias Van Guitt si era alzato rapidamente.
— Eh! capitano, — esclamò, invece di ringraziare il nostro
compagno, — avreste anche potuto aspettare!...
— Aspettare... che cosa?... — rispose il capitano Hod... — Che
quell'animale vi avesse aperto il petto con una zampata?
— Una zampata non è mortale!...
— Va bene! — replicò tranquillamente il capitano Hod. —
Un'altra volta, aspetterò!
Ad ogni modo, la belva, che non era in grado di figurare nel
serraglio del kraal, non poteva più servire che per fare uno
scendiletto; ma quella fortunata spedizione portò a quarantadue per il
capitano e a trentotto per il suo attendente la cifra delle tigri uccise da
loro, senza contare la mezza che figurava già al loro attivo.
Non bisogna credere che le grandi cacce ci facessero dimenticare
le piccole. Il signor Parazard non lo avrebbe permesso. Antilopi,
camosci, grosse ottarde, che erano numerosissime intorno alla
Steam-House, pernici, lepri, fornivano alla nostra tavola grande
varietà di selvaggina.
Quando battevamo il Tarryani, era raro che Banks si unisse a noi.
Se queste spedizioni cominciavano a interessarmi, lui invece non se
ne lasciava tentare. Le zone superiori dell'Himalaya gli offrivano
evidentemente maggiori attrattive, ed egli si divertiva in quelle
escursioni, soprattutto quando il colonnello Munro acconsentiva ad
accompagnarlo.
Ma una volta o due soltanto le passeggiate dell'ingegnere si fecero
in quelle condizioni. Egli aveva potuto osservare che, da quando si
era sistemato nel sanitarium, sir Edward Munro era ridiventato
pensieroso. Parlava meno, si teneva più in disparte, a volte
confabulava con il sergente Mac Neil. Meditavano forse entrambi
qualche nuovo piano che volevano nascondere anche a Banks?
Il 13 luglio Mathias Van Guitt venne a farci visita. Meno
fortunato del capitano Hod, non aveva potuto aggiungere nuovi ospiti
al suo serraglio. Né tigri né leoni né leopardi sembravano disposti a
lasciarsi catturare. L'idea di andare a esibirsi nei paesi dell'estremo
Occidente senza dubbio non li tentava. Perciò un vero dispetto, che il
fornitore non cercava di dissimulare.
Kâlagani e due chikaris del suo personale accompagnavano
Mathias Van Guitt in questa visita.
La sistemazione del sanitarium, in quella bella posizione, gli
piacque moltissimo. Il colonnello Munro lo pregò di rimanere a
pranzo; egli accettò con premura e promise di far onore alla nostra
mensa.
Aspettando il pranzo Mathias Van Guitt volle visitare la SteamHouse, le cui comodità erano in contrasto con la sua modesta
sistemazione al kraal. Le due case ambulanti provocarono da parte
sua dei complimenti; ma devo confessare che il Gigante d'Acciaio
non suscitò affatto la sua ammirazione. Un naturalista pari suo non
doveva che rimanere insensibile davanti a quel capolavoro di
meccanica. Come avrebbe potuto approvare, per notevole che fosse,
la creazione di quell'animale artificiale?
— Non pensate male del nostro elefante, signor Mathias Van
Guitt! — gli disse Banks. — È un animale poderoso, e, qualora
occorresse, non sarebbe imbarazzato a trascinare, insieme con i nostri
due vagoni, tutte le gabbie del vostro serraglio ambulante!
— Ho i miei bufali, — rispose il fornitore, — e preferisco il loro
passo tranquillo e sicuro.
— Il Gigante d'Acciaio non teme né gli artigli né i denti delle
tigri! — esclamò il capitano Hod.
— Senza dubbio, signore, — rispose Mathias Van Guitt, — ma
perché mai le belve dovrebbero assalirlo? Si interessano ben poco di
carne di lamiera!
In compenso, se il naturalista non dissimulò la sua indifferenza
per il nostro elefante, i suoi indù, e in particolar modo Kâlagani, lo
divorarono con lo sguardo. Si sentiva che, nella loro ammirazione
per il gigantesco animale, entrava una certa dose di superstizioso
rispetto.
Kâlagani parve anzi molto sorpreso quando l'ingegnere ripete che
il Gigante d'Acciaio era più potente di tutte le bestie da tiro del kraal.
Per il capitano Hod fu un'occasione per narrare, non senza un po' di
superbia, la nostra avventura con i tre «proboscidati» del principe
Guru Singh. Un lieve sorriso d'incredulità passò sulle labbra del
fornitore, ma egli non insistette.
Il pranzo si svolse ottimamente. Mathias Van Guitt gli fece
largamente onore. Bisogna dire che la dispensa era piacevolmente
fornita con i prodotti delle nostre ultime cacce, e che il signor
Parazard aveva voluto superare se stesso.
Anche la cantina della Steam-House fornì delle bevande variate,
che il nostro ospite parve apprezzare, soprattutto due o tre bicchieri
di vino francese, la cui degustazione fu seguita da uno schiocco di
lingua impareggiabile.
Tanto che, dopo il pranzo, al momento di separarci, si poté
giudicare dall'«incertezza della sua. deambulazione», che, se il vino
gli dava alla testa, gli scendeva pure nelle gambe.
Venuta la notte, ci separammo come i migliori amici del mondo, e
grazie ai suoi compagni Mathias Van Guitt poté ritornare al kraal
senza fastidi.
Tuttavia, il 16 luglio, un incidente rischiò di guastare i rapporti fra
il fornitore e il capitano Hod.
Una tigre venne uccisa dal capitano nel momento in cui stava per
entrare in una delle trappole a bilanciere. Ma, se quella tigre fu la sua
quarantatreesima, non fu l'ottava del fornitore.
Ad ogni modo, dopo uno scambio di osservazioni piuttosto vivaci,
i buoni rapporti furono ripresi, grazie all'intervento del colonnello
Munro, e il capitano Hod si impegnò a rispettare le belve che
«avessero intenzione» di lasciarsi prendere nelle trappole di Mathias
Van Guitt.
Nei giorni successivi, il tempo fu orribile. Volenti o nolenti, si
dovette rimanere nella Steam-House. Ci premeva che la stagione
delle piogge finisse, il che non poteva tardare, dato che durava già da
più di tre mesi. Se il programma del nostro viaggio procedeva nelle
condizioni che Banks aveva stabilito, non ci restavano più che sei
settimane da passare nel sanitarium.
Il 23 luglio, alcuni montanari della frontiera vennero a fare una
seconda visita al colonnello Munro. Il loro villaggio, chiamato Suari,
era a sole cinque miglia dal nostro accampamento, quasi al limite
superiore del Tarryani.
Uno di loro ci disse che, da alcune settimane, una tigre femmina
faceva tremendi danni in quella parte del territorio. I greggi erano
decimati, e si parlava già di abbandonare Suari, divenuto inabitabile.
Non vi era più sicurezza né per gli animali domestici né per le
persone. Trappole, agguati, tranelli, nulla aveva potuto avere la
meglio su quella feroce belva, che era già posta fra le più terribili di
cui i vecchi montanari avessero mai udito parlare.
Quel racconto, è chiaro, era fatto per eccitare gli istinti del
capitano Hod. Egli offrì subito ai montanari di accompagnarli al
villaggio di Suari, disposto a mettere la sua esperienza di cacciatore e
l'acutezza del suo occhio al servizio di quella brava gente, che,
immagino, confidava un po' in quell'offerta.
— Verrete, Maucler? — mi domandò il capitano Hod, con il tono
di chi non cerca di influire su una determinazione.
— Certamente, — risposi. — Non voglio perdere una spedizione
così interessante!
— Vi accompagnerò, questa volta, — disse l'ingegnere.
— Ecco un'ottima idea, Banks.
— Sì, Hod! Ho un vivo desiderio di vedervi all'opera.
— Ed io, non sarò forse della partita, capitano? — domandò Fox.
— Ah! il sornione, — esclamò il capitano Hod. — Non gli
dispiacerebbe affatto completare la sua mezza tigre! Sì, Fox, sì, sarai
della partita!
Siccome si trattava di lasciare la Steam-House per tre o quattro
giorni, Banks domandò al colonnello se desiderava accompagnarci al
villaggio di Suari.
Sir Edward Munro lo ringraziò. Egli si proponeva di approfittare
della nostra assenza per visitare la zona media dell'Himalaya, al di
sopra del Tarryani, con Goûmi e con il sergente Mac Neil.
Banks non insistette.
Venne dunque deciso che saremmo partiti quello stesso giorno per
il kraal per farci prestare da Mathias Van Guitt alcuni dei suoi
chikaris, che potevano esserci utilissimi.
Un'ora dopo, verso mezzogiorno, eravamo giunti. Il fornitore fu
informato dei nostri progetti. Egli non nascose la sua segreta
soddisfazione, nel venire a sapere le imprese di quella tigre «capace»
disse, «di risollevare nell'animo degli intenditori la reputazione dei
felini della penisola». Poi, mise a nostra disposizione tre dei suoi
indù, senza contare Kâlagani, sempre pronto ad affrontare il pericolo.
Fu soltanto messo bene in chiaro con il capitano Hod che, se per
assurdo quella tigre si fosse lasciata prendere viva, sarebbe
appartenuta di diritto al serraglio di Mathias Van Guitt. Che attrattiva
quando un cartello, appeso alle sbarre della sua gabbia, avrebbe
raccontato con cifre eloquenti le gesta di una delle «regine del
Tarryani, che ha divorato non meno di 138 persone dei due sessi»!
Il nostro drappello lasciò il kraal verso le due del pomeriggio.
Prima delle quattro, dopo esser risalito verso est, giungeva a Suari
senza incidenti.
Là il panico era al colmo. Quella stessa mattina, una disgraziata
indù, sorpresa all'improvviso dalla tigre presso un ruscello, era stata
trascinata nella foresta.
La casa di uno dei montanari, ricco fittavolo inglese del territorio,
ci ricevette ospitalmente. Il nostro ospite aveva avuto da lagnarsi più
di ogni altro dell'inafferrabile belva, ed avrebbe pagato volentieri la
sua pelle molte migliaia di rupie.
— Capitano Hod, — disse, — alcuni anni or sono, nelle province
centrali una tigre femmina obbligò gli abitanti di tredici villaggi a
fuggire, e duecentocinquanta miglia quadrate di buon terreno sono
dovute rimanere incolte! Ebbene, qui, per poco che la cosa duri, sarà
la provincia tutta quanta che si dovrà abbandonare!
— Avete adoperato tutti i mezzi di distruzione possibili contro
questa tigre? — domandò Banks.
— Tutti, signor ingegnere, trappole, fosse, perfino le esche
avvelenate con la stricnina, nulla ha avuto effetto!
— Amico mio, — disse il capitano Hod, — non prometto che
riusciremo a darvi soddisfazione, ma faremo del nostro meglio!
Non appena ci fummo sistemati a Suari, quello stesso giorno fu
organizzata una battuta. A noi e alla nostra gente, e ai cbikarts del
kraal, si unirono una ventina di montanari che conoscevano
perfettamente il territorio sul quale bisognava operare. Banks, per
quanto fosse poco cacciatore, mi sembrò seguire la nostra spedizione
col massimo interesse.
Per tre giorni, il 24, il 25 e il 26 luglio, tutta quella parte della
montagna venne frugata, senza che le nostre ricerche portassero ad
alcun risultato, tranne che due altre tigri, a cui non si pensava
minimamente, caddero ancora sotto i proiettili del capitano.
— Quarantacinque! — si accontentò di dire Hod, senza darvi
molta importanza.
Finalmente, il 27, la tigre annunciò la sua comparsa con un nuovo
misfatto. Un bufalo, appartenente al nostro ospite, scomparve da un
pascolo vicino a Suari, e non se ne ritrovarono più che i resti a un
quarto di miglio dal villaggio. L'assassinio, - omicidio premeditato,
avrebbe detto un giurista -aveva avuto luogo un po' prima dell'alba.
L'assassino non poteva essere lontano.
Ma l'autore principale del delitto era proprio la tigre che avevano
tanto inutilmente cercata fino allora?
Gli indù di Suari non ne dubitavano.
— È lo zio, non può essere che lui, che ha fatto il colpo! — ci
disse uno dei montanari.
Lo zio! È così che gli indù definiscono generalmente la tigre nella
maggior parte dei territori della penisola. Ciò dipende dal fatto che
essi credono che ognuno dei loro antenati abiti per l'eternità nel
corpo di uno di questi membri della famiglia dei felini.
Ma, questa volta, avrebbero potuto dire più giustamente: è la zia!
Fu subito presa la decisione di mettersi sulle tracce dell'animale,
senza neppure aspettare la notte, poiché la notte gli avrebbe permesso
di sfuggire meglio alle ricerche. Del resto doveva essere sazio, e non
avrebbe più lasciato il suo covo per due o tre giorni.
Ci mettemmo in campagna. Incominciando dal luogo in cui il
bufalo era stato preso, delle impronte sanguinose segnavano la via
seguita dalla tigre. Queste impronte si dirigevano verso un boschetto,
che era già stato esplorato molte volte senza che vi potessimo
scoprire nulla. Decidemmo dunque di circondare quel boschetto, in
modo da formare un cerchio che l'animale non avrebbe potuto
superare, perlomeno senza essere veduto.
I montanari si dispersero in modo da radunarsi a poco a poco
verso il centro, restringendo il loro circolo. Il capitano Hod, Kâlagani
ed io, eravamo da una parte, Banks e Fox dall'altra, ma
costantemente in comunicazione con le persone del kraal e del
villaggio. Evidentemente, ogni punto di quella circonferenza era
pericoloso poiché la tigre poteva cercare di romperla in ogni punto.
Non si poteva dubitare, d'altra parte, che l'animale fosse nel
boschetto. Infatti, le impronte, che vi conducevano da una parte, non
riapparivano dall'altra. Che fosse quello il suo covo abituale, non era
provato, poiché ve lo avevamo già cercato senza successo; ma, in
quel momento, tutto faceva credere che quel boschetto gli servisse da
rifugio.
Erano le otto del mattino. Prese tutte le disposizioni, avanzavamo
a poco a poco senza rumore, stringendo sempre più il cerchio
d'investimento. Mezz'ora dopo, eravamo al limite dei primi alberi.
Non era avvenuto nessun incidente, nulla rivelava la presenza
dell'animale, e, per conto mio, mi chiedevo se non lavorassimo
inutilmente.
Coloro che occupavano un arco ristretto della circonferenza, non
potevano più vedersi, eppure era necessario camminare con un
perfetto insieme.
Era dunque stato convenuto in precedenza che si sarebbe sparata
una fucilata nel momento in cui il primo di noi fosse penetrato nel
bosco.
Il segnale fu dato dal capitano Hod, che era sempre in testa, ed il
lembo del bosco fu superato. Guardai l'ora sul mio orologio: segnava
le otto e trentacinque.
Un quarto d'ora dopo il cerchio si era ristretto, eravamo gomito a
gomito e ci arrestavamo nella parte più fitta del boschetto senza aver
incontrato nulla.
Il silenzio non era stato turbato fino allora se non dal rumore dei
rami secchi che, per quante precauzioni si pigliassero, si rompevano
sotto i nostri piedi.
In quel momento si udì un ruggito.
— La belva è là! — esclamò il capitano Hod mostrando l'ingresso
di una caverna scavata in un cumulo di massi coronato da un gruppo
di grandi alberi.
Il capitano Hod non si sbagliava. Se non era il covo consueto della
tigre, era là almeno che essa si era rifugiata, sentendosi braccata da
tutta una frotta di cacciatori.
Hod, Banks, Fox, Kâlagani, molti degli uomini del kraal, e io ci
eravamo avvicinati alla stretta apertura, alla quale portavano le
impronte sanguinose.
— Bisogna penetrare là dentro, — disse il capitano Hod.
— Cosa pericolosa! — fece osservare Banks. — Chi vi entrerà per
primo rischierà delle gravi ferite.
— Entrerò lo stesso! — disse Hod, assicurandosi che la sua
carabina fosse pronta a far fuoco.
— Dopo di me, capitano! — rispose Fox, che si curvò verso
l'apertura della caverna.
— No, Fox, no! — esclamò Hod. — La cosa riguarda me.
— Ah! capitano, — rispose dolcemente Fox, in tono di
rimprovero — sono indietro di sette!...
Pensavano a contare le loro tigri in un momento simile!
— Non ci entrerete né l'uno né l'altro! — esclamò Banks. — No,
non vi lascerò...
— Ci sarebbe forse un mezzo — disse allora Kâlagani,
interrompendo l'ingegnere.
— Quale?
— Sarebbe di affumicare il covo, — rispose l'indù. — L'animale
sarebbe obbligato a uscire. Avremmo meno rischi e maggior facilità
per ucciderlo al di fuori.
— Kâlagani ha ragione, — disse Banks. — Su, amici, della legna
morta, delle erbe secche! Ostruitemi per bene questa apertura! Il
vento caccerà all'interno le fiamme ed il fumo. Bisognerà pure che la
belva si lasci abbrustolire o fugga!
— Fuggirà! — ribatté l'indù.
— Va bene! — rispose il capitano Hod. — Saremo là per salutarla
al passaggio!
In un istante, sterpi, erbe secche, legna morta - e non ne mancava
in quel boschetto — tutto un mucchio di materiale combustibile fu
disposto davanti all'ingresso della caverna.
Nulla si era mosso all'interno. Nulla appariva in quel cunicolo
tenebroso, che doveva essere profondo. Pure, le nostre orecchie non
avevano potuto ingannarci, il ruggito era certamente uscito di là.
Fu dato fuoco alle erbe, che fiammeggiarono. Quel fuoco sviluppò
un fumo acre e denso che il vento spinse all'interno, e che vi doveva
rendere l'aria irrespirabile.
Un secondo ruggito, più furibondo del primo, si fece udire allora.
L'animale si sentiva messo alle strette, e per non essere soffocato,
stava per essere costretto a slanciarsi fuori.
Lo aspettavamo, appostati a squadra lungo le pareti laterali della
rupe seminascosti dai tronchi d'albero, in modo da evitare l'urto di un
primo balzo.
Il capitano, invece, aveva scelto un altro posto, e, bisogna ben
riconoscerlo, il più pericoloso. Era all'ingresso di un'apertura
praticata nel boschetto, la sola che potesse lasciar passare la tigre,
quando avesse tentato di fuggire attraverso il bosco. Hod aveva
messo un ginocchio a terra per assicurare meglio il suo colpo, e
imbracciava saldamente la carabina; tutto il suo corpo aveva
l'immobilità del marmo.
Erano passati appena tre minuti dal momento in cui era stato
appiccato il fuoco al mucchio di legna, quando un terzo ruggito, o
meglio, questa volta, un rantolo di soffocazione, echeggiò
all'apertura della caverna. Il fuoco fu disperso in un istante, e un
enorme corpo apparve fra le volute di fumo.
Era proprio la tigre.
— Fuoco! — gridò Banks.
Rimbombarono dieci fucilate, ma più tardi potemmo accertare che
nessun proiettile aveva toccato l'animale. La sua apparizione era stata
troppo rapida. Come si sarebbe potuto mirare giusto in mezzo alle
volute di fumo che l'avvolgevano?
Ma, dopo il suo primo balzo, se la tigre aveva toccato terra, non
era stato che per riprendere un punto d'appoggio e slanciarsi verso la
macchia con un altro balzo ancora più lungo.
Il capitano Hod aspettava l'animale con estremo sangue freddo, e
colpendolo, per così dire, al volo, gli mandò un proiettile, che lo
colpì solo alla giuntura della spalla.
In un lampo, la tigre si era precipitata sul nostro compagno, lo
aveva rovesciato, e stava per fracassargli la testa con un colpo delle
sue formidabili zampe...
Kâlagani balzò avanti, con in mano un largo coltello.
Il grido che ci sfuggì echeggiava ancora, che il coraggioso indù,
piombando sulla belva, la afferrava alla gola nel momento in cui il
suo artiglio destro stava per piombare sul cranio del capitano.
L'animale, distratto da questo brusco assalto, rovesciò l'indù con
un movimento del fianco, e si gettò addosso a lui.
Ma il capitano Hod si era rialzato d'un balzo, e, raccogliendo il
coltello che Kâlagani aveva lasciato cadere, con mano sicura lo
immerse tutto quanto nel cuore della belva.
La tigre rotolò a terra.
Cinque secondi al massimo erano bastati per le diverse peripezie
di questa scena emozionante.
Il capitano Hod era ancora in ginocchio quando gli giungemmo
vicino. Kâlagani, con la spalla insanguinata, si era rialzato.
— Bag mahryaga! Bag mahryaga! — gridavano gli indù, il che
significava: la tigre è morta!
Sì, proprio morta! Che animale superbo! Dieci piedi di lunghezza
dal muso all'estremità della coda, corporatura in proporzione, zampe
enormi armate di lunghi artigli aguzzi, che sembravano arrotati sulla
mola di un arrotino!
Mentre ammiravamo la belva, gli indù, molto vendicativi e con
ragione, la colmavano di invettive. Kâlagani si era avvicinato al
capitano Hod.
— Grazie, capitano! — disse.
— Come! grazie? — esclamò Hod. — Ma sono io, coraggioso
amico, che ti devo ringraziare! Senza il tuo aiuto, uno dei capitani del
primo squadrone di fucilieri dell'esercito reale sarebbe stato
spacciato!
— Senza di voi, sarei morto! — rispose freddamente l'indù.
— Eh! per mille diavoli! Non ti sei forse lanciato con il coltello in
mano per pugnalare questa tigre, nel momento in cui stava per
fracassarmi il cranio?
— Siete voi che l'avete uccisa, capitano, e costituisce la vostra
quarantaseiesima!
— Hurrah! hurrah! — gridarono gli indù. — Hurrah per il
capitano Hod!
E in verità il capitano aveva bene il diritto di segnare quella tigre
al suo attivo, ma egli ripagò Kâlagani con una buona stretta di mano.
— Venite alla Steam-House, — disse Banks a Kâlagani. — Avete
la spalla lacerata da un colpo d'artiglio, ma troveremo nella farmacia
da viaggio di che medicare la vostra ferita.
Kâlagani s'inchinò in segno di assenso, e tutti, dopo aver preso
congedo dai montanari di Suari, che non risparmiarono i
ringraziamenti, ci dirigemmo verso il sanitarium.
I chikaris ci lasciarono per ritornare al kraal. Anche questa volta
vi ritornavano a mani vuote, e se Mathias Van Guitt aveva fatto
assegnamento su quella «regina del Tarryani», avrebbe dovuto
rassegnarsi. È vero che, in condizioni simili, sarebbe stato
impossibile prenderla viva.
Verso mezzogiorno eravamo giunti alla Steam-House. Là
trovammo un incidente inatteso. Con nostro grande disappunto, il
colonnello Munro, il sergente Mac Neil e Goûmi erano partiti.
Un biglietto, diretto a Banks, gli diceva di non preoccuparsi per la
loro assenza, che sir Edward Munro, desideroso di fare una
ricognizione fino alla frontiera del Nepal, voleva chiarire ancora certi
dubbi relativi ai compagni di Nana Sahib, e che sarebbe stato di
ritorno prima del tempo in cui dovevamo lasciare l'Himalaya.
Alla lettura di quel biglietto, mi parve che a Kâlagani sfuggisse un
moto di contrarietà, quasi involontario.
Perché tale moto? Certo mi sbagliavo.
CAPITOLO V
ASSALTO NOTTURNO
LA PARTENZA del colonnello fece sorgere in noi una viva
preoccupazione. Egli si riportava evidentemente a un passato che
avevamo creduto chiuso per sempre. Ma, che fare? Mettersi sulle
tracce di sir Edward Munro? Ignoravamo quale direzione avesse
preso, quale punto della frontiera nepalese si proponesse di
raggiungere. Non potevamo, d'altra parte, nasconderci che, se egli
non aveva parlato di nulla a Banks, era perché temeva le osservazioni
dell'amico, alle quali voleva sottrarsi. Banks rimpianse molto di
averci seguiti nella spedizione.
Bisognava dunque rassegnarsi e aspettare. Il colonnello Munro
sarebbe certamente ritornato prima della fine d'agosto, poiché quel
mese era l'ultimo che avremmo dovuto passare al sanitarium, prima
di prendere, attraverso il sud-ovest, la strada di Bombay.
Kâlagani, ben medicato da Banks, rimase solo ventiquattro ore
alla Steam-House. La sua ferita si sarebbe cicatrizzata rapidamente,
ed egli ci lasciò per andare a riprendere il suo servizio al kraal.
Il mese d'agosto incominciò ancora con piogge violente. — Un
tempo da far venire il raffreddore alle rane — diceva il capitano Hod;
ma, in sostanza, sarebbe stato meno piovoso del mese di luglio, e, per
conseguenza, più propizio alle nostre escursioni nel Tarryani.
Frattanto i rapporti con il kraal erano frequenti. Mathias Van
Guitt era poco contento. Anch'egli contava di lasciare
l'accampamento ai primi giorni di settembre. Ma al suo serraglio
mancavano ancora un leone, due tigri e due leopardi ed egli si
domandava se avrebbe potuto completare la serie.
In compenso, in mancanza degli attori che voleva scritturare per
conto dei suoi committenti, altri vennero a presentarsi alla sua
agenzia, ma egli non sapeva che farne.
Fu così che, nella giornata del 4 agosto, un bell'orso si fece
prendere in una delle sue trappole.
Eravamo appunto al kraal, quando i suoi chikaris gli condussero
nella gabbia a ruote un prigioniero di grosse dimensioni, pelliccia
nera, artigli acuminati, grandi orecchie pelose, cosa piuttosto
particolare per questi rappresentanti della famiglia degli ursidi nelle
Indie.
— Eh! che bisogno ho io di questo inutile tardigrado! — esclamò
il fornitore alzando le spalle.
— Fratello Ballon! fratello Ballon! — ripetevano gli indù.
A quanto pare, se gli indù non sono che nipoti delle tigri, degli
orsi sono fratelli.
Ma Mathias Van Guitt, nonostante questo grado di parentela,
ricevette il fratello Ballon con inequivocabile dimostrazione di
cattivo umore. Prendere degli orsi quando gli occorrevano delle tigri,
non era cosa da accontentarlo. Che cosa avrebbe fatto di
quell'animale importuno? Gli conveniva poco di nutrirlo senza
speranza di ricavarne le spese; l'orso indiano è richiesto ben poco sui
mercati d'Europa. Non ha il valore mercantile del grizzly d'America,
né quello dell'orso polare. Ecco perché Mathias Van Guitt, buon
commerciante, non si curava di un animale ingombrante e di cui
avrebbe trovato difficilmente il modo di disfarsi.
— Lo volete? — domandò al capitano Hod.
— E che cosa volete che ne faccia? — rispose il capitano.
— Ne farete bistecche — disse il fornitore — se pure posso usare
questa catacresi!
— Signor Van Guitt — rispose seriamente Banks — la catacresi è
una figura permessa, quando, in mancanza di altra espressione, rende
adeguatamente il pensiero.
— Siamo d'accordo — replicò il fornitore.
— Ebbene, Hod — disse Banks — prendete o non prendete l'orso
del signor Van Guitt?
— In fede mia, no! — rispose il capitano Hod. — Passi, mangiare
delle bistecche d'orso quando l'orso è ucciso; ma uccidere l'orso
apposta per mangiarne le bistecche, non mi stuzzica l'appetito!
— Allora, che questo plantigrado sia restituito alla libertà — disse
Mathias Van Guitt, rivolgendosi ai suoi chikaris.
Il fornitore fu obbedito. La gabbia venne portata fuori del kraal, e
uno degli indù ne aprì la porta.
Fratello Ballon, che sembrava vergognarsi parecchio della propria
situazione, non se lo fece dire due volte. Usci tranquillamente dalla
gabbia, fece un piccolo dondolio con il capo, che si poteva prendere
per un ringraziamento, e se la svignò mandando un grugnito di
soddisfazione.
— Avete fatto una buona azione — disse Banks. — Vi porterà
fortuna, signor Van Guitt.
Banks non sapeva di essere così buon indovino. La giornata del 6
agosto doveva ricompensare il fornitore, procurandogli una delle
belve che mancavano al serraglio.
Ecco in quali circostanze:
Mathias Van Guitt, il capitano Hod e io, accompagnati da Fox, dal
macchinista Storr e da Kâlagani, percorrevamo, fin dall'alba, una fitta
macchia di cactus e di lentischi, quando si udirono dei ruggiti
semisoffocati.
Immediatamente, con i fucili pronti a far fuoco, ben in gruppo
tutti e sei, in modo da difenderci contro un attacco isolato, ci
dirigemmo verso il luogo sospetto.
Cinquanta passi più in là, il fornitore ci fece fermare. Dalla natura
dei ruggiti gli sembrava di aver riconosciuto di che cosa si trattava, e
rivolgendosi particolarmente al capitano Hod:
— Soprattutto, niente fucilate inutili — disse.
Poi, dopo essere avanzato di alcuni passi, mentre, a un suo cenno,
noi rimanevamo indietro:
— Un leone! — esclamò.
Infatti, all'estremità di una robusta corda, legata alla forcella di un
grosso ramo, si dibatteva un animale.
Era proprio un leone, uno di quei leoni senza criniera, - che per
questo appunto si distinguono dai loro confratelli d'Africa, - ma un
vero leone, il leone richiesto da Mathias Van Guitt.
La feroce belva, appesa per una delle zampe anteriori, stretta dal
nodo scorsoio della corda, dava delle scosse terribili, senza riuscire a
liberarsi.
Il primo movimento del capitano Hod, nonostante la
raccomandazione del fornitore, fu di far fuoco.
— Non sparate, capitano! — esclamò Mathias Van Guitt. — Ve
ne scongiuro, non sparate!
— Ma...
— No! no! vi dico! Questo leone è stato preso in una delle mie
trappole, e mi appartiene!
Era una trappola infatti, una trappola-forca, molto semplice e
ingegnosa.
Una corda resistente viene fissata a un ramo d'albero forte e
flessibile. Questo ramo viene curvato verso il suolo, in modo che
l'estremità inferiore della corda, che termina in un nodo scorsoio,
possa essere inserita nella tacca di un piolo solidamente conficcato in
terra. Sopra questo piolo si mette un'esca, in modo che, se un animale
vuol toccarla, dovrà cacciare nel nodo o la testa o una delle zampe.
Ma appena lo ha fatto, l'esca, per poco che sia stata mossa, fa uscire
la corda dalla tacca, il ramo si raddrizza, l'animale viene sollevato, e
nel medesimo istante, un pesante cilindro di legno, scivolando lungo
la corda, cade sul nodo, lo stringe fortemente e gli impedisce di
sciogliersi agli sforzi dell'impiccato.
Questo tipo di trappola viene usato di frequente nelle foreste
dell'India, e le belve vi si lasciano prendere molto più comunemente
di quel che si possa credere.
Per lo più, accade che l'animale venga preso per il collo, il che
porta allo strangolamento quasi immediato, mentre la testa è quasi
fracassata dal pesante cilindro di legno. Ma il leone che si dibatteva
sotto i nostri occhi era stato preso solo per la zampa. Era dunque
vivo, vivissimo e degno di figurare fra gli ospiti del fornitore.
Mathias Van Guitt, lietissimo della cosa, mandò Kâlagani al kraal
con l'ordine di far venire la gabbia a ruote sotto la guida di un
carrettiere. Frattanto, potemmo osservare a nostro agio l'animale, che
per la nostra presenza si infuriava sempre più.
Il fornitore, poi, non ne staccava gli occhi. Girava intorno
all'albero, avendo però cura di tenersi fuori della portata delle
zampate che il leone tirava a destra e a sinistra.
Mezz'ora dopo giungeva la gabbia trascinata da due bufali.
L'impiccato vi veniva calato dentro, non senza fatica, e riprendevamo
la via del kraal.
— Cominciavo proprio a disperare, — ci disse Mathias Van Guitt.
— I leoni non figurano per una cifra importante fra le belve nemorali
dell'India...
— Nemorali? — disse il capitano Hod.
— Sì, gli animali che infestano le foreste, e mi rallegro di aver
potuto catturare questa belva che farà onore al mio serraglio!
Del resto, Mathias Van Guitt da quel giorno in poi non dovette più
lamentarsi della sua cattiva sorte.
L'11 agosto, furono presi insieme due leopardi in quella prima
trappola da tigri, dalla quale avevamo tirato fuori il fornitore.
Erano due tchîtas, simili a quello che aveva assalito così
audacemente il Gigante d'Acciaio nelle pianure del Rohilkhand, e di
cui non avevamo potuto impadronirci.
Mancavano solo due tigri perché la raccolta di Mathias Van Guitt
fosse completa.
Eravamo al 15 agosto. Il colonnello Munro non era ancora
ricomparso; non la minima sua notizia. Banks era più preoccupato di
quanto volesse far credere. Egli interrogò Kâlagani, che conosceva la
frontiera nepalese, sui pericoli che poteva correre sir Edward Munro
avventurandosi in quei territori indipendenti. L'indù gli assicurò che
non rimaneva più uno solo dei partigiani di Nana Sahib al confine del
Tibet. Tuttavia parve dolersi che il colonnello non lo avesse scelto
per guida. I suoi servigi gli sarebbero stati utilissimi in un paese di
cui conosceva perfino i più stretti sentieri. Ma ormai non si poteva
pensare a raggiungerlo.
Frattanto, il capitano Hod e Fox, in particolare, continuavano le
loro escursioni nel Tarryani. Aiutati dai chikaris del kraal, riuscirono
ad ammazzare tre altre tigri, di medie dimensioni, non senza correre
gravi rischi. Due di queste belve furono messe sul conto del capitano,
la terza su quello dell'attendente.
— Quarantotto! — disse Hod, che avrebbe voluto raggiungere la
cifra rotonda di cinquanta prima di lasciare l'Himalaya.
— Trentanove! — aveva detto Fox, senza parlare di una
pericolosissima pantera, che era caduta sotto i suoi proiettili.
Il 20 agosto, la penultima delle tigri volute da Mathias Van Guitt
si fece prendere in una di quelle fosse, dalle quali, o per istinto, o per
caso, erano sfuggite fino allora. L'animale, come accade per lo più, si
ferì nella caduta, ma la ferita non era grave. Alcuni giorni di riposo
sarebbero bastati a garantire la sua guarigione, e nessuno se ne
sarebbe accorto quando ne fosse fatta la consegna per conto della
ditta Hagenbeck di Amburgo.
L'uso di queste fosse è considerato dagli intenditori come un
metodo barbaro. Quando si tratta soltanto di distruggere gli animali,
è evidente che qualsiasi mezzo è buono; ma se si vuol prenderli vivi,
la morte è troppo spesso la conseguenza della loro caduta, soprattutto
quando cadono in quelle fosse, profonde quindici o venti piedi,
destinate alla cattura degli elefanti. Di dieci animali, è molto se se ne
può ritrovare uno senza qualche frattura mortale. Perciò, perfino nel
Mysore, dove questo sistema era molto usato, ci disse il fornitore, si
comincia ad abbandonarlo.
In fin dei conti, mancava una sola tigre al serraglio del kraal, e
Mathias Van Guitt avrebbe voluto averla già in gabbia; aveva fretta
di partire per Bombay.
Non doveva tardare ad impadronirsi di quella tigre, ma a che
prezzo! La cosa va raccontata con un po' di particolari, perché
quell'animale venne pagato caro, troppo caro.
A cura del capitano Hod era stata organizzata una spedizione per
la notte del 26 agosto. Le circostanze promettevano che la caccia si
sarebbe svolta in condizioni favorevoli, poiché il cielo era sgombro
di nuvole, l'atmosfera tranquilla e la luna calante. Quando le tenebre
sono molto profonde, le belve lasciano volentieri le loro tane, mentre
la semioscurità le invita. Per l'esattezza, il menisco (vocabolo di
Mathias Van Guitt che definisce il quarto di luna) avrebbe
cominciato a brillare dopo mezzanotte.
Il capitano Hod e io, Fox e Storr, che aveva cominciato a
prendervi gusto, formavamo il nucleo di questa spedizione, alla quale
dovevano unirsi il fornitore, Kâlagani e alcuni dei suoi indù.
Dunque, terminato il pranzo, dopo esserci accomiatati da Banks,
che aveva declinato l'invito di accompagnarci, lasciammo la SteamHouse verso le sette di sera, e alle otto giungevamo al kraal senza
aver fatto cattivi incontri.
Mathias Van Guitt terminava di cenare in quel momento; ci
ricevette con le sue solite manifestazioni. Tenemmo consiglio, e
venne subito fissato il piano della caccia.
Si trattava di andare ad appostarsi sulla riva di un torrente, in
fondo a uno di quei burroni che si chiamano nullahs, a due miglia dal
kraal, in un punto che una coppia di tigri visitava abbastanza
regolarmente durante la notte. Non vi era stata disposta
precedentemente nessuna esca. Stando a quello che dicevano gli
indù, era inutile. Una ricognizione, fatta poco tempo prima in quella
parte del Tarryani, provava che il bisogno di dissetarsi bastava ad
attirare le tigri in fondo a quel nullah. Si sapeva anche che sarebbe
stato facile trovare dei buoni appostamenti.
Non dovevamo lasciare il kraal prima di mezzanotte. Ora, erano
solo le otto. Bisognava dunque aspettare, senza annoiarsi troppo, il
momento della partenza.
__ Signori, — ci disse Mathias Van Guitt, — la mia casa è tutta
quanta a vostra disposizione. Vi consiglio di fare come me, di
coricarvi. Si tratta di essere più che mattinieri, e qualche ora di sonno
non può che prepararci meglio alla lotta.
— Avete forse voglia di dormire, Maucler? — mi domandò il
capitano Hod.
— No, — risposi, — e preferisco aspettare l'ora passeggiando,
piuttosto che essere costretto a svegliarmi dal pieno sonno.
— Come vorrete, signori, — rispose il fornitore. — Quanto a me,
provo già quel battito spasmodico delle palpebre che è provocato dal
bisogno di dormire. Vedete, comincio già a fare dei movimenti di
pendicolazione!
E Mathias Van Guitt, alzando le braccia, rovesciando indietro la
testa e il tronco per un'estensione involontaria dei muscoli
addominali, lasciò sfuggire alcuni sbadigli molto espressivi.
Dunque, quando ebbe «pendicolato» a suo agio, ci fece un ultimo
cenno d'addio, entrò nella sua capanna, e, senza dubbio, non tardò ad
addormentarvisi.
— E noi, che cosa faremo? — domandai.
— Andiamo a spasso, Maucler, — mi rispose il capitano Hod, —
andiamo a spasso per il kraal. La notte è bella, e sarò meglio
disposto alla partenza che non se dormissi tre o quattr'ore. Del resto,
se il sonno è il nostro miglior amico, è un amico che spesso si fa
aspettare molto.
Incominciammo a andare su e giù per il kraal pensando e
chiacchierando. Storr, «che il suo miglior amico non aveva
l'abitudine di far aspettare», era sdraiato sotto un albero e dormiva
già. I chikaris e i carrettieri si erano pure rannicchiati nel loro
cantuccio, e nel recinto non c'era più nessuno che vegliasse.
Era inutile, in sostanza, poiché il kraal, circondato da una solida
palizzata, era perfettamente chiuso.
Kâlagani andò ad assicurarsi di persona che la porta fosse stata
chiusa con cura; fatto ciò, poi, dopo averci augurato la buona sera
passando, ritornò nella stanza comune ai suoi compagni ed a lui.
Il capitano Hod e io eravamo assolutamente soli.
Non solo il personale di Van Guitt, ma anche gli animali
domestici e le belve dormivano, queste nelle loro gabbie, quelli
aggruppati sotto i grandi alberi, in fondo al kraal. Silenzio assoluto
tanto dentro quanto fuori.
La passeggiata ci condusse dapprima verso il luogo occupato dai
bufali. Questi magnifici ruminanti, tranquilli e docili, non erano
neppure impastoiati. Abituati a riposare sotto il fogliame degli aceri
giganteschi, li vedevamo pacificamente sdraiati, con le corna
aggrovigliate, le zampe ripiegate, e da quelle masse enormi si udiva
uscire una lenta e rumorosa respirazione.
Non si svegliarono neppure quando ci avvicinammo. Uno solo di
loro raddrizzò per un attimo la grossa testa, ci gettò addosso quello
sguardo vago che è proprio degli animali di questa specie, poi si
riaddormentò come gli altri.
— Ecco in che stato li riduce la domesticità, o meglio
l'addomesticamento, — dissi al capitano.
— Sì, — mi rispose Hod, — eppure, questi bufali sono degli
animali terribili, quando vivono allo stato selvaggio. Ma se hanno per
sé la forza, non hanno l'agilità, e che cosa possono fare le loro corna
contro i denti dei leoni o gli artigli delle tigri? Decisamente, sono le
belve ad essere in vantaggio.
Così chiacchierando, eravamo ritornati verso le gabbie. Anche là,
riposo assoluto. Tigri, leoni, pantere, leopardi, dormivano nei loro
scompartimenti separati. Mathias Van Guitt li riuniva solo quando
erano resi docili da alcune settimane di prigionia, e aveva ragione.
Certamente, infatti, quei feroci animali, nei primi giorni di prigionia,
si sarebbero divorati fra di loro.
I tre leoni, perfettamente immobili, erano coricati in semicerchio
come grossi gatti. Non si vedeva più la loro testa, nascosta in una
folta pelliccia nera, e dormivano il sonno del giusto.
Assopimento meno completo negli scompartimenti delle tigri.
Occhi ardenti fiammeggiavano nel buio. Una grossa zampa si
allungava ogni tanto e artigliava le sbarre di ferro. Era un sonno da
carnivori che mordono il freno.
— Fanno dei brutti sogni, e si capisce! — disse il
compassionevole capitano.
Dei rimorsi, senza dubbio, agitavano anche le tre pantere, o, per lo
meno, dei rimpianti. A quell'ora, libere da qualsiasi legame,
avrebbero corso per la foresta! Avrebbero gironzolato intorno ai
pascoli in cerca di carne viva!
Quanto ai quattro leopardi, nessun incubo turbava il loro sonno.
Riposavano tranquillamente. Due di quei felini, il maschio e la
femmina, occupavano la stessa camera da letto, e se ne stavano là
così bene come se fossero stati in fondo alla loro tana.
Un solo scompartimento era ancora vuoto, quello che doveva
occupare la sesta imprendibile tigre, di cui Mathias Van Guitt
aspettava solo la cattura per lasciare il Tarryani.
La nostra passeggiata durò un'ora circa. Dopo aver fatto il giro del
recinto interno del kraal, ritornammo ad accomodarci ai piedi di
un'enorme mimosa.
Un silenzio perfetto regnava in tutta la foresta. Il vento che
stormiva ancora attraverso le foglie, al cader del giorno, era cessato.
Non si muoveva una foglia. Lo spazio era calmo tanto alla superficie
del suolo quanto negli alti strati vuoti d'aria, dove la luna spostava il
suo mezzo disco.
Il capitano Hod ed io, seduti uno accanto all'altro, non
chiacchieravamo più. Ma il sonno non ci prendeva. Era piuttosto
quella specie di assorbimento, più morale che fisico, di cui si subisce
l'influenza durante il riposo totale della natura. Si pensa, ma non si
formulano i pensieri. Si sogna come sognerebbe un uomo che non
dorme, e lo sguardo, non ancora velato dalle palpebre, tende piuttosto
a perdersi dietro qualche visione fantastica.
Tuttavia, un fatto curioso stupiva il capitano, e parlando a bassa
voce, come si fa quasi inconsciamente quando tutto tace intorno a
noi, mi disse:
— Maucler, un silenzio simile mi stupisce! Le belve ruggiscono
di solito nel buio, e durante la notte la foresta è rumorosa. In
mancanza di tigri o di pantere, sono gli sciacalli, che non sono mai in
ozio. Questo kraal pieno di creature vive dovrebbe attirarli a
centinaia, eppure, non sentiamo nulla, non un solo scricchiolio di
ramo secco al suolo, non un urlo di fuori. Se Mathias Van Guitt fosse
sveglio, certamente non sarebbe meno sorpreso di me, e troverebbe
qualche vocabolo straordinario per manifestare il suo stupore!
— La vostra osservazione è giusta, caro Hod, — risposi, — e non
so a quale causa attribuire l'assenza di quei vagabondi notturni. Ma
badiamo a noi stessi, oppure, in mezzo a questa calma, finiremo con
l'addormentarci!
— Resistiamo, resistiamo! — rispose il capitano Hod stirandosi le
braccia. — Si avvicina l'ora in cui bisognerà partire.
E riprendemmo a chiacchierare a frasi strascicate, rotte da lunghi
silenzi.
Quanto tempo durò questa fantasticheria, non avrei potuto dirlo,
ma ad un tratto si verificò una sorda agitazione che mi tolse di colpo
da quello stato di sonnolenza.
Il capitano Hod, scosso lui pure dal suo torpore, si era alzato
insieme con me.
Non c'era da dubitarne, l'agitazione si era verificata nelle gabbie
delle belve.
Leoni, tigri, pantere, leopardi, fino a quel momento tanto
tranquilli, ora facevano udire un sordo brontolio di collera. In piedi
nei loro scompartimenti, andavano e venivano a passi brevi,
fiutavano fortemente qualche odore esterno, e si alzavano sulle
gambe posteriori sbuffando contro le sbarre di ferro delle gabbie.
— Ma che cosa hanno? — feci io.
— Non so, — rispose il capitano Hod, — ma temo che abbiano
sentito l'avvicinarsi di...
Ad un tratto, si udirono dei formidabili ruggiti intorno al recinto
del kraal.
— Delle tigri! — esclamò il capitano Hod, precipitandosi verso la
capanna di Mathias Van Guitt.
Ma la violenza di quei ruggiti era stata tale, che tutto il personale
del kraal era già in piedi, e il fornitore, seguito dai suoi servi,
appariva sulla porta.
— Un attacco!... — gridò.
— Lo credo, — rispose il capitano Hod.
— Aspettate! Bisogna vedere!...
E, senza nemmeno finire la frase, Mathias Van Guitt, afferrata una
scala, la appoggiò contro la palizzata. In un istante ne raggiunse
l'ultimo scalino.
— Dieci tigri e una dozzina di pantere! — esclamò.
— Sarà una cosa seria, — rispose il capitano Hod. — Volevamo
dar loro la caccia, ed ora sono loro che ce la danno!
— Ai fucili! ai fucili! — gridò il fornitore.
E tutti, obbedendo ai suoi ordini, in venti secondi, eravamo pronti
a far fuoco.
Questi attacchi in massa di belve non sono rari in India. Molte
volte gli abitanti dei territori battuti dalle tigri, e in modo particolare
quelli del Sunderbund, sono stati assediati nelle loro abitazioni. È
una pericolosa eventualità, e, troppo spesso, il vantaggio tocca agli
assalitori!
Frattanto, ai ruggiti esterni si erano aggiunti gli urli interni. Il
kraal rispondeva alla foresta; non ci si poteva più udire nel recinto.
— Alle palizzate! — gridò Mathias Van Guitt, che si fece
intendere a gesti più che a parole.
Tutti ci precipitammo verso la cinta.
In quel momento, i bufali, in preda al terrore, si dibattevano per
abbandonare il posto in cui erano chiusi. I carrettieri cercavano
invano di trattenerveli.
Improvvisamente, la porta, la cui sbarra, senza dubbio, era stata
chiusa male, si aprì violentemente, ed una turba di belve forzò
l'ingresso del kraal.
Eppure, Kâlagani aveva chiuso quella porta con la massima cura,
come faceva tutte le sere!
— Alla capanna! alla capanna! — gridò Mathias Van Guitt,
lanciandosi verso l'edificio, l'unico che potesse offrire un rifugio.
Ma avremmo avuto il tempo di giungervi? Già due dei chikaris,
raggiunti dalle tigri, erano rotolati a terra. Gli altri, non potendo più
giungere alla capanna, fuggivano per il kraal, cercando un riparo
qualsiasi.
Il fornitore, Storr e sei indù raggiunsero finalmente la capanna, la
cui porta fu chiusa nel momento in cui due pantere stavano per
precipitarvisi.
Kâlagani, Fox e gli altri, aggrappandosi agli alberi, si erano
arrampicati fino ai primi rami. Il capitano Hod e io non avevamo
avuto né il tempo né la possibilità di raggiungere Mathias Van Guitt.
— Maucler! Maucler! — gridò il capitano Hod, il cui braccio
destro era stato lacerato da un colpo d'artiglio.
Con un colpo di coda, un'enorme tigre mi aveva gettato a terra. Mi
rialzai nel momento in cui l'animale tornava a dirigersi verso di me, e
corsi verso il capitano Hod per dargli aiuto.
Un solo rifugio ci rimaneva allora: lo scompartimento vuoto della
sesta gabbia. In un istante, Hod ed io vi fummo dentro, e la porta
chiusa ci metteva momentaneamente al riparo dalle belve, che si
gettarono urlando contro le sbarre di ferro.
Fu tale allora l'accanimento di quelle belve furibonde, unito alla
collera delle tigri imprigionate negli scompartimenti vicini, che la
gabbia, oscillando sulle ruote, per poco non venne rovesciata.
Ma le tigri l'abbandonarono presto per rivolgersi a prede più
sicure.
Che scena della quale non perdevamo nessun particolare
guardando attraverso le sbarre della nostra gabbia!
— È il mondo alla rovescia! — esclamò il capitano Hod, che era
furioso. — Loro fuori, e noi dentro!
— E la vostra ferita? — domandai.
— Non è nulla!
Cinque o sei fucilate scoppiarono in quel momento. Partivano
dalla capanna occupata da Mathias Van Guitt, contro la quale si
avventavano due tigri e tre pantere.
Uno di quegli animali cadde fulminato da un proiettile esplosivo,
che doveva provenire dalla carabina di Storr.
Quanto agli altri, dapprima si erano precipitati sul gruppo dei
bufali, e questi disgraziati ruminanti stavano per trovarsi senza difesa
contro simili avversari.
Fox, Kâlagani e gli indù, che avevano dovuto gettar via le loro
armi per arrampicarsi più in fretta sugli alberi, non potevano andare
in loro aiuto.
Frattanto il capitano Hod, passando la carabina attraverso le sbarre
della nostra gabbia, fece fuoco. Benché il suo braccio destro,
semiparalizzato dalla ferita, non gli permettesse di tirare con la
precisione abituale, ebbe la fortuna di abbattere la sua
quarantanovesima tigre.
In quel momento i bufali, fuori di sé, si precipitarono muggendo
attraverso il recinto. Invano tentarono di fronteggiare le tigri, le quali,
con balzi formidabili sfuggivano alle cornate. Uno di loro, portando
sul dorso una pantera, i cui artigli gli laceravano il garrese, giunse
davanti alla porta del kraal e si slanciò fuori.
Cinque o sei altri, stretti da vicino dalle belve, gli corsero dietro e
scomparvero.
Alcune tigri si gettarono al loro inseguimento; ma i bufali che non
avevano potuto abbandonare il kraal, sgozzati, sventrati, giacevano
ormai al suolo.
Altre fucilate scoppiavano attraverso le finestre della capanna. Dal
canto nostro, il capitano Hod e io, facevamo del nostro meglio. Un
nuovo pericolo ci minacciava.
Gli animali chiusi nelle gabbie, eccitati dall'accanimento della
lotta, dall'odore del sangue e dagli urli dei loro confratelli, si
dibattevano con violenza indescrivibile. Sarebbero riusciti a spezzare
le loro sbarre? In verità dovevamo temerlo.
Infatti, una delle gabbie delle tigri fu rovesciata; credetti per un
istante che le sue pareti spezzate le avessero lasciate libere!...
Fortunatamente non era così; i prigionieri non potevano più
nemmeno vedere ciò che accadeva al di fuori, poiché era la faccia
provvista di inferriata della loro gabbia che posava contro la terra.
— Decisamente sono troppi! — mormorò il capitano Hod,
ricaricando la carabina.
In quel momento una tigre diede un balzo prodigioso, e con l'aiuto
degli artigli, riuscì ad aggrapparsi alla biforcazione di un albero, su
cui avevano cercato rifugio due o tre chikaris.
Uno di questi disgraziati, afferrato alla gola, tentò invano di
resistere e fu precipitato a terra.
Una pantera venne a disputare alla tigre quel corpo già privo di
vita, le cui ossa scricchiolarono in mezzo ad una pozza di sangue.
— Ma fuoco! fuoco dunque! — gridava il capitano Hod, come se
avesse potuto farsi udire da Mathias Van Guitt e dai suoi compagni.
Quanto a noi, era ormai impossibile che intervenissimo! Le nostre
cartucce erano terminate, e non potevamo più essere che spettatori
impotenti di quella lotta.
Ma ecco che, nello scompartimento vicino al nostro, una tigre, che
cercava di spezzare le sue sbarre, riuscì, dando una scossa violenta, a
rompere l'equilibrio della gabbia. Essa oscillò un istante e si rovesciò
quasi subito.
Leggermente contusi nella caduta, ci eravamo alzati in ginocchio.
Le pareti avevano resistito, ma non potevamo vedere più nulla di
quanto accadeva fuori.
Se non si vedeva, almeno si udiva! Che sabba di urli nel recinto
del kraall Che odore di sangue impregnava l'atmosfera! Sembrava
che la lotta avesse preso un carattere più violento. Che cosa era
dunque accaduto? I prigionieri delle altre gabbie erano forse fuggiti?
Assalivano forse la capanna di Mathias Van Guitt? Oppure, tigri e
pantere si slanciavano sugli alberi per strapparne gli indù?
— E non poter uscire da questa scatola! — esclamava il capitano
Hod in preda ad un vero accesso di rabbia.
Un quarto d'ora circa, un quarto d'ora di cui contavamo gli
interminabili minuti!, trascorse in quelle condizioni.
Poi, a poco a poco, il rumore della lotta diminuì. Gli urli si fecero
più deboli. I balzi delle tigri che occupavano gli scompartimenti della
nostra gabbia divennero più rari. Il massacro era dunque finito!
Ad un tratto udii la porta del kraal che si chiudeva con gran
fracasso; poi, Kâlagani ci chiamò con grandi grida. Alla sua voce si
univa quella di Fox, che ripeteva:
— Capitano! capitano!
— Da questa parte! — rispose Hod.
Venne udito, e quasi subito sentii che la gabbia veniva rialzata.
Un istante dopo eravamo liberi.
— Fox! Storr! — gridò il capitano, il cui primo pensiero fu per i
suoi compagni.
— Presenti! — risposero il macchinista e l'attendente.
Non erano nemmeno feriti. Anche Mathias Van Guitt e Kâlagani
erano sani e salvi. Due tigri ed una pantera giacevano morte a terra;
le altre avevano lasciato il kraal, di cui Kâlagani aveva richiusa la
porta. Eravamo tutti al sicuro.
Nessuna delle belve del serraglio era riuscita a fuggire durante la
lotta, e anzi il fornitore aveva un prigioniero in più. Era una giovane
tigre, rimasta imprigionata nella piccola gabbia mobile, che le si era
rovesciata addosso, e sotto la quale era stata presa come in una
trappola.
Lo stock di Mathias Van Guitt era dunque al completo; ma quanto
gli costava caro! Cinque dei suoi bufali erano sgozzati, gli altri erano
fuggiti, e tre indù, orrendamente mutilati, nuotavano nel loro sangue
sul suolo del kraal.
CAPITOLO VI
L'ULTIMO ADDIO DI MATHIAS VAN GUITT
DURANTE il resto della notte non avvenne nessun incidente, né al
di dentro né al di fuori del recinto. La porta era stata saldamente
chiusa, questa volta. Come mai aveva potuto aprirsi nel momento in
cui la massa di belve circondava la palizzata? Era inesplicabile,
poiché lo stesso Kâlagani aveva assicurato nei loro incastri le robuste
traverse che ne assicuravano la chiusura.
La ferita del capitano Hod lo faceva soffrire molto, benché fosse
solo una graffiatura. Ma era mancato poco che perdesse l'uso del
braccio destro.
Per conto mio, non sentivo più nulla del violento colpo di coda
che mi aveva gettato a terra.
Decidemmo dunque di ritornare alla Steam-House non appena
fosse spuntato il giorno.
Quanto a Mathias Van Guitt, tranne il vivo rammarico d'aver
perduto tre dei suoi uomini, non si mostrava affatto scontento della
situazione, benché l'essere rimasto privato dei bufali dovesse
metterlo in un certo imbarazzo, al momento della partenza.
— Sono gli incerti del mestiere, — ci disse, — ed avevo come un
presentimento che mi sarebbe accaduta qualche avventura di questo
genere.
Poi, diede ordine che si procedesse alla sepoltura dei tre indù, i cui
cadaveri furono inumati in un angolo del kraal, a una profondità
sufficiente perché le belve non potessero dissotterrarli.
Frattanto, l'alba non tardò a imbiancare le pendici del Tarryani, e
dopo molte strette di mano, ci accomiatammo da Mathias Van Guitt.
Per accompagnarci, almeno durante il nostro passaggio attraverso
la foresta, il fornitore volle mettere a nostra disposizione Kâlagani e
due dei suoi indù. La sua offerta venne accettata, e alle sei uscimmo
dal recinto del kraal.
Nessun cattivo incontro distinse il nostro ritorno. Di tigri, di
pantere, non rimaneva più la minima traccia. Le belve, ben pasciute,
erano senza dubbio ritornate nei loro covi, e non era quello il
momento di andarvele a cercare.
Quanto ai bufali che erano fuggiti dal kraal, o erano stati sgozzati
e giacevano sotto le alte erbe oppure, smarriti nelle profondità del
Tarryani, non bisognava illudersi che il loro istinto li avrebbe
ricondotti al kraal. Andavano perciò considerati come
definitivamente perduti per il fornitore.
Alla fine della foresta, Kâlagani e i due indù ci lasciarono. Un'ora
dopo, Phann e Black annunciavano con i loro latrati il nostro ritorno
alla Steam-House.
Feci a Banks il resoconto delle nostre avventure. Inutile dire come
si felicitò con noi per essercela cavata così a buon mercato! Troppo
spesso, durante attacchi di questo genere, nessuno degli assaliti ha
potuto ritornare a raccontare le gesta degli assalitori!
Quanto al capitano Hod, dovette, di buona o di mala voglia,
portarsi il braccio al collo; ma l'ingegnere, che era il vero medico
della spedizione, non trovò nulla di grave nella sua ferita, e affermò
che in pochi giorni sarebbe guarito.
In fondo, il capitano Hod era molto mortificato di aver ricevuto un
colpo senza averlo potuto restituire. Eppure, aveva aggiunto una tigre
alle quarantotto che figuravano già nel suo attivo.
Il giorno dopo, 27 agosto, nel pomeriggio, i latrati dei cani
echeggiarono con forza, ma allegramente.
Erano il colonnello Munro, Mac Neil e Goûmi che ritornavano al
sanitarium. Il loro ritorno ci tolse da un gran pensiero. Sir Edward
Munro aveva condotto a buon fine la sua spedizione? Non lo
sapevamo ancora. Ritornava sano e salvo, questo era l'importante.
Subito, Banks gli era corso incontro, gli stringeva la mano,
interrogandolo con lo sguardo.
— Nulla! — si limitò a rispondere il colonnello Munro con un
semplice cenno del capo.
Quella parola significava non solo che le ricerche intraprese sulla
frontiera nepalese non avevano dato alcun risultato, ma che ogni
conversazione su quell'argomento diventava inutile. Sembrava dirci
che non c'era più bisogno di parlarne.
Mac Neil e Goûmi, che Banks interrogò la sera, furono più
espliciti. Essi gli dissero che il colonnello Munro aveva
effettivamente voluto rivedere quella parte dell'Indostan in cui Nana
Sahib si era rifugiato prima della sua riapparizione nella presidenza
di Bombay. Assicurarsi di quello che era avvenuto dei compagni del
nababbo, cercare se non fosse rimasta qualche traccia del loro
passaggio su quel punto della frontiera indocinese, tentare di sapere
se, in mancanza di Nana Sahib, suo fratello Balao Rao si nascondesse
in quella regione, non ancora soggetta al dominio inglese, ecco qual
era stato lo scopo di sir Edward Munro. Ora, dalle sue ricerche
risultava, in modo certo, che i ribelli avevano lasciato il paese. Del
loro accampamento, in cui erano state celebrate le false esequie
destinate ad accreditare la morte di Nana Sahib, non rimaneva più
traccia. Di Balao Rao, nessuna notizia. Dei suoi compagni, nulla che
potesse permettere di mettersi sulle loro tracce. Il nababbo ucciso
nelle gole dei monti Sautpurra, i suoi seguaci dispersi, probabilmente
oltre i confini della penisola, l'opera di giustiziere non era più da
compiere. Lasciare la frontiera himalayana, continuare il viaggio
ritornando a sud, terminare, insomma, il nostro itinerario da Calcutta
a Bombay, ecco a che cosa dovevamo pensare unicamente.
La partenza fu dunque stabilita e fissata fra otto giorni, al 3
settembre. Bisognava lasciare al capitano Hod il tempo necessario
per la completa guarigione della sua ferita. D'altra parte il colonnello
Munro, visibilmente stanco in seguito alla sua faticosa escursione in
un paese così difficile, aveva bisogno di alcuni giorni di riposo.
In quel periodo Banks avrebbe cominciato a fare i suoi
preparativi. Per rimettere il nostro treno in condizioni di ridiscendere
nella pianura e di prendere la strada dall'Himalaya alla presidenza di
Bombay, c'era di che tenerlo occupato per una settimana intera.
Anzitutto, fu stabilito che l'itinerario sarebbe stato modificato una
seconda volta, in modo da evitare le grandi città di nord-ovest, Mirat,
Delhi, Agra, Gwalior, Jansi e altre, nelle quali l'insurrezione del 1857
aveva lasciato troppi disastri. Con gli ultimi ribelli dell'insurrezione
doveva scomparire tutto ciò che poteva rammentarla al colonnello
Munro. Le nostre case ambulanti avrebbero dunque proceduto
attraverso le province senza fermarsi nelle città principali, ma il
paese valeva la pena di essere visitato se non altro per le sue bellezze
naturali. L'immenso regno di Scindia, sotto questo aspetto, è
insuperabile. Davanti al nostro Gigante d'Acciaio, si sarebbero aperte
le vie più pittoresche della penisola.
Il monsone era finito con la stagione delle piogge, che non si
prolunga oltre il mese d'agosto. I primi giorni di settembre
promettevano una temperatura gradevole, che doveva rendere meno
penosa quella seconda parte del viaggio.
Durante quella seconda settimana del nostro soggiorno al
sanitarium, Fox e Goûmi dovettero farsi fornitori quotidiani della
dispensa. Accompagnati dai due cani, percorsero la zona media in
cui pullulano le pernici, i fagiani, le ottarde. Questi volatili,
conservati nella ghiacciaia della Steam-House, dovevano fornire
dell'ottima selvaggina per il viaggio.
Andammo a far visita al kraal due o tre volte ancora. Là, anche
Mathias Van Guitt era intento a prepararsi alla partenza per Bombay,
affrontando le seccature da filosofo che si sente superiore alle piccole
e alle grandi miserie dell'esistenza.
Si sa che, con la cattura della decima tigre, che era costata così
cara, il serraglio era completo. Mathias Van Guitt dunque doveva
preoccuparsi solo di ricostituire i suoi tiri di bufali. Non uno solo dei
ruminanti che erano fuggiti durante l'attacco era riapparso al kraal.
Era probabilissimo che, dispersi nella foresta, fossero morti di morte
violenta. Si trattava dunque di sostituirli, cosa che, in queste
circostanze, non mancava di essere difficile. A quello scopo, il
fornitore aveva mandato Kâlagani a visitare le fattorie e le borgate
vicine del Tarryani, e aspettava il suo ritorno con una certa
impazienza.
Quell'ultima settimana del nostro soggiorno al sanitarium passò
senza incidenti. La ferita del capitano Hod guariva a poco a poco.
Forse addirittura egli calcolava di chiudere la sua campagna con
un'ultima spedizione; ma dovette rinunciarvi in seguito alle
insistenze del colonnello Munro. Dal momento che non era più così
sicuro del suo braccio, perché esporsi? Se avesse incontrato qualche
belva sulla sua strada, durante il resto del viaggio, non avrebbe avuto
forse un'occasione naturalissima di prendersi la rivincita?
— D'altra parte, — gli fece osservare Banks, — voi siete ancora
vivo, capitano, e quarantanove tigri sono morte per vostra mano,
senza contare quelle ferite. Il bilancio è dunque ancora in vostro
favore!
— Sì, quarantanove! — rispose sospirando il capitano Hod, — ma
avrei proprio voluto completare la cinquantina.
Evidentemente, la cosa gli stava a cuore.
Venne il 2 settembre. Eravamo alla vigilia della partenza.
Nella mattina di quel giorno, Goûmi venne ad annunciarci la
visita del fornitore.
Infatti, Mathias Van Guitt, accompagnato da Kâlagani, giungeva
alla Steam-House. Senza dubbio, al momento della partenza, voleva
farci i suoi addii in piena regola.
Il colonnello Munro lo ricevette cordialmente. Mathias Van Guitt
si lanciò in una serie di periodi, in cui si ritrovavano tutte le sorprese
della sua solita fraseologia. Ma mi sembrò che i suoi complimenti
nascondessero qualche segreto pensiero che egli esitava a formulare.
E proprio Banks toccò il vivo della questione quando chiese a
Mathias Van Guitt se aveva avuto la fortuna di poter rinnovare i suoi
tiri.
— No, signor Banks, — rispose il fornitore. — Kâlagani ha
percorso invano i villaggi. Benché fosse munito dei miei pieni poteri,
non ha potuto procurarsi una sola coppia di questi utili ruminanti.
Sono dunque costretto a confessare con rammarico, che, per condurre
il mio serraglio verso la stazione più vicina, il motore mi manca
assolutamente. La dispersione dei miei bufali, provocata
dall'improvviso attacco della notte tra il 25 e il 26 agosto, mi mette
dunque in un certo imbarazzo... Le mie gabbie, con i loro ospiti a
quattro zampe, sono pesanti... e...
— E come farete per condurle alla stazione? — domandò
l'ingegnere.
— Non lo so bene, — rispose Mathias Van Guitt. — Cerco...
combino... esito... Eppure... l'ora della partenza è suonata, e il 20
settembre, ossia fra diciotto giorni, devo consegnare a Bombay le
mie belve...
— Diciotto giorni! — soggiunse Banks, — ma allora non avete
un'ora da perdere!
— Lo so, signor ingegnere. Perciò ho un unico mezzo, uno solo!
— Quale?
— È, pur non volendo incomodarlo minimamente, di rivolgere al
colonnello una domanda molto indiscreta... senza dubbio...
— Parlate dunque, signor Van Guitt, — disse il colonnello Munro
— e se posso esservi utile, credete pure che lo farò con piacere.
Mathias Van Guitt s'inchinò, portò la mano destra alle labbra, la
parte superiore del suo corpo si agitò dolcemente, e tutta la sua
attitudine fu quella di un uomo che si sente oppresso da
un'inaspettata bontà.
Insomma, il fornitore chiese, data la potenza di trazione del
Gigante d'Acciaio, se non fosse possibile attaccare le sue gabbie a
ruote in coda al nostro treno, e rimorchiarle così fino a Etawah, la
stazione più vicina della ferrovia Delhi-Allahabad.
Era un tragitto che non superava i trecentocinquanta chilometri,
per una strada abbastanza facile.
— È possibile aiutare il signor Van Guitt? — domandò il
colonnello all'ingegnere.
— Non ci vedo alcuna difficoltà, — rispose Banks, — e il Gigante
d'Acciaio non si accorgerà neppure di questo aumento di carico.
— Concesso, signor Van Guitt, — disse il colonnello Munro, —
condurremo il vostro materiale fino a Etawah. Fra vicini bisogna
sapersi aiutare, anche nell'Himalaya.
— Colonnello, — rispose Mathias Van Guitt, — conoscevo la
vostra bontà, e, per essere sincero, siccome si trattava di togliermi
d'impaccio, avevo fatto un po' d'assegnamento sulla vostra cortesia.
— Avete avuto ragione, — rispose il colonnello Munro.
Stabilita così ogni cosa, Mathias Van Guitt si preparò a ritornare
al kraal, per licenziare una parte del suo personale, che gli diventava
inutile. Egli contava di tenere con sé solo quattro chikarìs, necessari
per la manutenzione delle gabbie.
— A domani dunque, — disse il colonnello Munro.
— A domani, signori, — rispose Mathias Van Guitt. — Aspetterò
al kraal l'arrivo del vostro Gigante d'Acciaio!
E il fornitore, lietissimo della riuscita della sua visita alla SteamHouse, si ritirò, non senza aver fatto la sua uscita come un attore che
rientra fra le quinte secondo tutte le tradizioni della commedia
moderna.
Kâlagani, dopo aver guardato lungamente il colonnello Munro, il
cui viaggio alla frontiera del Nepal sembrava averlo seriamente
impensierito, seguì il fornitore.
I nostri ultimi preparativi erano terminati. II materiale era stato
ricollocato al suo posto. Del sanitarium della Steam-House non
rimaneva più nulla. I due carri aspettavano soltanto il nostro Gigante
d'Acciaio. L'elefante doveva trascinarli prima di tutto fino alla
pianura, poi andare al kraal a prendere le gabbie e ricondurle per
formare il treno. Dopo di che, si sarebbe mosso direttamente
attraverso le pianure del Rohilkhand.
Il giorno seguente, 3 settembre, alle sette del mattino, il Gigante
d'Acciaio era pronto a riprendere le funzioni che aveva espletate così
coscienziosamente fino allora. Ma, in quel momento, avvenne, con
grande stupore di tutti, un incidente assolutamente inatteso.
Il forno della caldaia, chiusa nei fianchi dell'animale, era stato
caricato di combustibile. Kâlouth, che lo aveva acceso, ebbe l'idea di
aprire il cassetta del tiraggio, alla cui parete sono collegati i tubi
destinati a condurre i prodotti della combustione attraverso la
caldaia, per vedere se qualcosa ostacolava il tiraggio.
Ma, appena ebbe aperto lo sportello del cassetto, indietreggiò
precipitosamente, e una ventina di cinghie vennero proiettate fuori
con un sibilo bizzarro.
Banks, Storr e io guardavamo senza poter indovinare la causa di
quel fenomeno.
— Ehi! Kâlouth, che cosa c'è? — domandò Banks.
— Una pioggia di serpenti, signore! — esclamò il fuochista.
Infatti, quelle cinghie erano serpenti, che avevano eletto domicilio
nei tubi della caldaia certo per dormirvi meglio. Le prime fiamme del
forno li avevano raggiunti. Alcuni di quei rettili, già bruciati, erano
caduti a terra, e se Kâlouth non avesse aperto il cassetto del tiraggio,
sarebbero ben presto arrostiti tutti.
— Come! — esclamò il capitano Hod, che accorse, — il nostro
Gigante d'Acciaio ha un nido di serpenti nelle viscere!
Sì, in fede mia!, e dei più pericolosi, di quei whip snakes, serpentistaffile, goulabis, cobra neri, naja con gli occhiali, appartenenti alle
specie più velenose.
E nello stesso tempo, un magnifico pitone-tigre, della famiglia dei
boa, mostrava la sua testa aguzza all'imbocco superiore della
ciminiera, ossia all'estremità della proboscide dell'elefante,
svolgendosi in mezzo alle prime volute di vapore.
I serpenti usciti vivi dai tubi si erano rapidamente dispersi nei
cespugli, senza che avessimo il tempo di distruggerli.
Ma il pitone non poté svignarsela così facilmente dal cilindro di
lamiera, così il capitano Hod si affrettò ad andare a prendere la sua
carabina, e, con una pallottola, gli spezzò la testa.
Goûmi, arrampicandosi allora sul Gigante d'Acciaio, si issò fino
all'orifizio superiore della sua proboscide, e con l'aiuto di Kâlouth e
di Storr riuscì a tirar fuori l'enorme rettile.
Nulla di più splendido di quel boa, con la pelle d'un verde misto
d'azzurro, decorata ad anelli regolari, e che sembrava tagliata in una
pelle di tigre. Misurava non meno di cinque metri di lunghezza, ed
era grosso come un braccio.
Era dunque un superbo esemplare di quegli ofidi dell'India, e
avrebbe fatto una bellissima figura nel serraglio di Mathias Van
Guitt, dato il nome di pitone-tigre che gli viene affibbiato. Ma, devo
confessare che il capitano Hod non credette di doverlo inserire nel
suo conteggio.
Fatto ciò, Kâlouth richiuse il cassetto, il tiraggio prese a
funzionare regolarmente, il fuoco del forno si ravvivò, con il
passaggio della corrente d'aria, la caldaia non tardò a brontolare
sordamente, e tre quarti d'ora dopo il manometro indicava una
pressione sufficiente del vapore. Non restava più che partire.
I due carri furono agganciati l'uno all'altro, e il Gigante d'Acciaio
manovrò in modo da venirsi a mettere in testa al treno.
Venne data un'ultima occhiata al magnifico panorama che si
svolgeva a sud, un ultimo sguardo a quella meravigliosa catena il cui
profilo si stagliava sul fondo del cielo verso nord, un ultimo addio al
Dawalaghiri, che dominava con la sua vetta tutto quel territorio
dell'India settentrionale, e un fischio annunciò la partenza.
La discesa per la strada tortuosa avvenne senza difficoltà. Il freno
atmosferico tratteneva irresistibilmente le ruote sulle pendenze
troppo ripide. Un'ora dopo, il nostro treno si fermava al limite
inferiore del Tarryani, al confine con la pianura.
Il Gigante d'Acciaio allora venne staccato, e, sotto la guida di
Banks, del macchinista e del fuochista, prese ad avanzare lentamente
per una delle larghe strade della foresta.
Due ore dopo, i suoi barriti tornavano a farsi udire, ed egli
sbucava dalla fitta macchia rimorchiando le sei gabbie del serraglio.
Appena fu arrivato, Mathias Van Guitt rinnovò i suoi
ringraziamenti al colonnello Munro. Le gabbie, precedute da una
carrozza destinata ad alloggiare il fornitore e i suoi uomini, furono
agganciate al nostro treno, un vero convoglio composto di otto
vagoni.
Nuovo segnale di Banks, nuovo fischio regolamentare, e il
Gigante d'Acciaio, muovendosi, avanzò maestosamente sulla
magnifica strada che scendeva verso sud. La Steam-House e le
gabbie di Mathias Van Guitt, cariche di belve, sembrava che non gli
pesassero più di un modesto furgone da traslochi.
— Ebbene, che cosa ne pensate, signor fornitore? — domandò il
capitano Hod.
— Penso, capitano, — rispose non senza un po' di ragione
Mathias Van Guitt — che se questo elefante fosse di carne e d'ossa,
sarebbe più straordinario ancora!
La strada non era più quella che ci aveva condotto ai piedi
dell'Himalaya. Essa piegava a sud-ovest verso Philibit, cittadina che
si trovava a centocinquanta chilometri dal nostro punto di partenza.
Questo tragitto fu fatto tranquillamente, a una velocità moderata,
senza noie e senza impacci.
Mathias Van Guitt prendeva posto quotidianamente alla tavola
della Steam-House, dove il suo straordinario appetito faceva sempre
onore alla cucina del signor Parazard.
Il buon funzionamento della dispensa non tardò ad esigere che i
soliti fornitori prestassero la loro opera, e il capitano Hod,
perfettamente guarito, (la fucilata al pitone lo aveva dimostrato)
riprese il fucile.
Del resto, bisognava pensare a nutrire, insieme con il personale,
anche gli animali del serraglio. Questo compito spettava ai chikaris.
Questi abili indù, diretti da Kâlagani, lui stesso ottimo tiratore, non
lasciarono mancare la carne di bisonte e d'antilope. Quel Kâlagani
era davvero un uomo eccezionale. Benché fosse poco comunicativo,
il colonnello Munro lo trattava molto amichevolmente, non essendo
egli di quelle persone che dimenticano un servizio ricevuto.
Il 10 settembre, il treno aggirava Philibit, senza fermarvisi, ma
non poté evitare un grande assembramento di indù che vennero a
fargli visita.
Decisamente, le belve di Mathias Van Guitt, per notevoli che
fossero, non potevano sostenere alcun paragone con il Gigante
d'Acciaio. Non le guardavano neppure attraverso le sbarre delle loro
gabbie, e tutta l'ammirazione era per l'elefante meccanico.
Il treno continuava a scendere le lunghe pianure dell'India
settentrionale lasciando, a qualche lega a ovest, Bareilli, una delle
principali città del Rohilkhand. Ora avanzava in mezzo a foreste
popolate da una quantità d'uccelli di cui Mathias Van Guitt ci faceva
ammirare lo «smagliante piumaggio», ora in pianura, attraverso
quelle macchie di acacie spinose, alte due o tre metri, che gli inglesi
chiamano wait-a-bit-bush. Là si trovavano cinghiali in gran numero,
ghiottissimi delle bacche giallognole che questi arbusti producono.
Alcuni di questi suini furono uccisi, non senza pericolo, poiché sono
animali veramente selvaggi e pericolosi. In diverse occasioni, il
capitano Hod e Kâlagani poterono mostrare quel sangue freddo e
quell'abilità che ne facevano due cacciatori straordinari.
Tra Philibit e la stazione di Etawah, il treno dovette attraversare
un tratto dell'alto Gange, e, poco tempo dopo, uno dei suoi importanti
affluenti, il Kali-Nadi.
Tutto il materiale ambulante del serraglio fu staccato, e la SteamHouse, trasformata in congegno galleggiante, passò facilmente da
una riva all'altra sulla superficie del fiume.
Non così avvenne per il treno di Mathias Van Guitt. Il traghetto
venne requisito e le gabbie dovettero attraversare i due corsi d'acqua
l'uno dopo l'altro. Se questo passaggio richiese un certo tempo, fu
fatto, almeno, senza grandi difficoltà. Il fornitore non era alla sua
prima esperienza del genere, e i suoi uomini avevano già dovuto
superare molti fiumi, quando si recavano alla frontiera himalayana.
Insomma, il 17 settembre eravamo giunti alla linea ferroviaria che
va da Delhi ad Allahabad, a meno di cento passi dalla stazione di
Etawah, senza incidenti degni di essere narrati.
Era là che il nostro convoglio doveva dividersi in due parti, che
non erano destinate a ricongiungersi.
La prima doveva continuare a scendere verso sud attraverso i
territori dell'ampio regno di Scindia, in modo da giungere ai Vindhya
e alla presidenza di Bombay.
La seconda, posta su carrelli ferroviari, doveva raggiungere
Allahabad, e di là, con il treno di Bombay, giungere al litorale
dell'oceano Indiano.
Perciò ci fermammo, e venne preparato l'accampamento per la
notte. Il giorno seguente, all'alba, mentre il fornitore avrebbe preso la
via di sud-est, noi dovevamo, tagliando quella via ad angolo retto,
seguire pressappoco il 77° meridiano.
Ma, mentre lasciava noi, Mathias Van Guitt doveva separarsi
anche da quella parte del suo personale che non gli era più utile.
Tranne due indù, necessari per il servizio delle gabbie durante un
viaggio che non doveva durare che due o tre giorni, egli non aveva
bisogno di nessuno. Giunto al porto di Bombay, dove lo aspettava
una nave in partenza per l'Europa, il trasbordo della sua mercanzia
sarebbe stato fatto dagli scaricatori ordinari del porto.
Dunque, alcuni dei suoi chikaris ritornavano disponibili, e in
particolar modo Kâlagani.
Si sa come e perché eravamo veramente affezionati a questo indù,
dopo i servizi che egli aveva reso al colonnello Munro e al capitano
Hod.
Quando Mathias Van Guitt ebbe congedato i suoi uomini, Banks
credette di notare che Kâlagani non sapesse proprio che cosa fare, e
gli domandò se gli avrebbe interessato accompagnarci fino a
Bombay.
Kâlagani, dopo aver riflettuto un istante, accettò l'offerta
dell'ingegnere, e il colonnello Munro dimostrò la soddisfazione che
provava nel venirgli in aiuto in quell'occasione. L'indù avrebbe
dunque fatto parte del personale della Steam-House e, grazie alla sua
conoscenza di tutta quella parte dell'India, poteva esserci utilissimo.
Il giorno seguente, il campo veniva levato. Non avevamo più
nessun interesse per prolungare la nostra fermata. Il Gigante
d'Acciaio era sotto pressione, e Banks diede a Storr l'ordine di tenersi
pronto.
Non restava più che accomiatarci dal nostro amico fornitore. Fu
semplicissimo da parte nostra; da parte sua, invece, fu naturalmente
molto più teatrale.
I ringraziamenti di Mathias Van Guitt per il servizio che gli aveva
reso il colonnello Munro presero necessariamente forma amplificata.
Egli «recitò» magnificamente quest'ultimo atto, e fu perfetto nella
scena madre degli addii.
Con un movimento dei muscoli dell'avambraccio, la sua mano
destra si dispose tesa in avanti, in modo che la palma rimaneva volta
verso la terra. Ciò voleva dire che quaggiù egli non avrebbe mai
dimenticato quanto doveva al colonnello Munro, e che se la
riconoscenza fosse stata bandita da questo mondo, avrebbe trovato
un ultimo asilo nel suo cuore.
Poi, con un movimento inverso, rivoltò la mano verso l'alto, ossia
ne volse la palma verso lo zenit. Il che significava che, anche lassù, i
sentimenti non si sarebbero spenti in lui, e tutta un'eternità di
gratitudine non avrebbe potuto pagare gli obblighi che egli aveva
contratto.
Il colonnello Munro ringraziò Mathias Van Guitt come si
conveniva, e pochi minuti dopo, il fornitore delle ditte di Amburgo e
di Londra era scomparso ai nostri occhi.
CAPITOLO VII
IL PASSAGGIO DEL BETWA
ESATTAMENTE a quella data, 18 settembre, ecco qual era con
precisione la nostra posizione, calcolata dal punto di partenza, dal
punto di sosta e dal punto d'arrivo:
1° Da Calcutta, milletrecento chilometri;
2° Dal sanitarium dell'Himalaya, trecentottanta chilometri;
3° Da Bombay, milleseicento chilometri. Considerando soltanto le
distanze, non avevamo ancora compiuto la metà del nostro itinerario;
ma, tenendo conto delle sette settimane che la Steam-House aveva
passato sulla frontiera himalayana, più della metà del tempo che
doveva essere dedicato a quel viaggio era trascorsa. Avevamo
lasciato Calcutta il 6 marzo. Fra due mesi, se nulla fosse avvenuto a
contrastare il nostro cammino, facevamo conto di avere raggiunto il
litorale ovest dell'Indostan.
Il nostro itinerario, d'altra parte, sarebbe stato un poco ridotto. La
decisione che avevamo preso, di evitare le grandi città compromesse
nella rivolta del 1857, ci obbligava a scendere più direttamente a sud.
Attraverso le magnifiche province del regno di Scindia si aprivano
belle strade carrozzabili, e il Gigante d'Acciaio non doveva
incontrare nessun ostacolo, almeno fino alle montagne del centro. Il
viaggio prometteva dunque di compiersi nelle migliori condizioni di
facilità e di sicurezza.
Ciò che doveva renderlo ancora più facile, era la presenza di
Kâlagani fra il personale della Steam-House. Questo indù conosceva
perfettamente tutta quella parte della penisola: Banks poté
accertarsene quel giorno stesso. Dopo colazione, mentre il colonnello
Munro e il capitano Hod facevano la siesta, Banks gli chiese con
quali mansioni egli aveva percorso tante volte quelle province.
— Ero addetto — rispose Kâlagani — a una di quelle numerose
carovane di Banjari, che trasportano a dorso di buoi le provviste di
cereali, sia per conto del governo, sia per conto dei privati. Con
queste mansioni ho risalito e sceso venti volte i territori del centro e
del nord dell'India.
— Quelle carovane percorrono ancora questa parte della penisola?
— domandò l'ingegnere.
— Sì, signore — rispose Kâlagani — e in questo periodo
dell'anno sarei ben stupito se non incontrassimo un gruppo di Banjari
in cammino verso nord.
— Ebbene, Kâlagani — soggiunse Banks — la perfetta
conoscenza che avete di questi territori ci sarà utilissima. Invece di
passare per le grandi città del regno di Scindia, andremo attraverso le
campagne, e voi sarete la nostra guida.
— Volentieri, signore — rispose l'indù, con quel tono freddo che
gli era solito, e al quale non avevo ancora potuto abituarmi.
Poi aggiunse:
— Volete che vi indichi in linea di massima la direzione che
dovremo seguire?
— Ve ne sarò grato.
E, così dicendo, Banks stese sulla tavola una carta a grande scala
che riproduceva quella parte dell'India, per controllare l'esattezza
delle indicazioni di Kâlagani.
— Niente di più semplice — riprese l'indù. — Una linea quasi
retta ci condurrà dalla linea ferroviaria di Delhi a quella di Bombay,
che si ricongiungono ad Allahabad. Dalla stazione di Etawah che
abbiamo lasciato alla frontiera del Bundelkund, dovremo attraversare
un corso d'acqua importante, il Jumna, e da quella frontiera ai monti
Vindhya, un secondo corso d'acqua, il Betwa. Anche nel caso in cui
questi due fiumi fossero straripati a causa della stagione delle piogge,
il treno galleggiante non sarà impacciato, immagino, per passare da
una riva all'altra.
— Non ci sarà nessuna difficoltà grave — rispose l'ingegnere. —
E quando saremo giunti ai Vindhya?...
— Piegheremo un poco verso sud-est, per scegliere un passaggio
praticabile. Anche là nessun ostacolo ci impedirà il cammino;
conosco un passaggio che ha pendenze moderate. È il colle di Sirgur,
che i carri preferiscono.
— Dovunque passano dei cavalli — dissi — non può passare
forse anche il nostro Gigante d'Acciaio?
— Lo può certamente — rispose Banks; — ma al di là del colle
Sirgur, la regione è molto accidentata. Non vi sarebbe modo di
giungere ai Vindhya, dirigendoci attraverso il Bhopal?
— Là, le città sono numerose — rispose Kâlagani — sarà difficile
evitarle, e i Cipay vi si sono distinti più particolarmente nella guerra
per l'indipendenza.
Fui un po' stupito di quella definizione di «guerra per
l'indipendenza» che Kâlagani dava alla rivolta del 1857. Ma non
bisognava dimenticare che era un indù, non un inglese che parlava.
Non sembrava, d'altra parte, che Kâlagani avesse preso parte alla
rivolta, o, almeno, non aveva mai detto nulla che potesse farlo
credere.
— Va bene — riprese Banks — lasceremo le città del Bhopal a
ovest, e se siete certo che il colle di Sirgur ci dia accesso a qualche
strada praticabile...
— Una strada che ho percorso spesso, signore, e che, dopo aver
aggirato il lago Puturia, termina, quaranta miglia più lontano, alla
ferrovia Bombay-Allahabad, presso Jubbulpore.
— Infatti — rispose Banks che seguiva sulla carta le indicazioni
date dall'indù; — e partendo da questo punto?...
— La strada si dirige verso sud-ovest e segue, per così dire, la
ferrovia fino a Bombay.
— Siamo intesi — rispose Banks. — Non vedo nessun ostacolo
grave ad attraversare i Vindhya, e questo itinerario ci conviene. Ai
servizi che ci avete già resi, Kâlagani, ne aggiungete un altro che non
dimenticheremo.
Kâlagani s'inchinò e stava per ritirarsi quando, pentito, ritornò
verso l'ingegnere.
— Volete chiedermi qualcosa? — disse Banks.
— Sì, signore — rispose l'indù. — Potrei chiedervi perché tenete
particolarmente ad evitare le principali città del Bundelkund?
Banks mi guardò. Non c'era nessuna ragione per nascondere a
Kâlagani quanto concerneva sir Edward Munro, e l'indù fu informato
della situazione del colonnello.
Kâlagani ascoltò molto attentamente ciò che gli disse l'ingegnere,
poi, con un tono che denotava un certo stupore:
— Il colonnello Munro — disse — non ha più nulla da temere da
Nana Sahib, almeno in queste province.
— Né in queste province, né altrove — rispose Banks. — Perché
dite «in queste province»?
— Perché se il nababbo è riapparso, come si pretendeva alcuni
mesi fa, nella presidenza di Bombay — disse Kâlagani — le ricerche
non hanno potuto far sapere dove si nasconda, ed è probabilissimo
che egli abbia attraversato di nuovo la frontiera indocinese.
Questa risposta sembrava provare che Kâlagani ignorava quanto
era accaduto nella regione dei monti Sautpurra, e che, nello scorso
maggio, Nana Sahib era stato ucciso dai soldati dell'esercito reale al
pâl di Tandît.
— Vedo, Kâlagani, — disse allora Banks, — che le notizie che
corrono per l'India stentano a giungere fino alle foreste
dell'Himalaya!
L'indù ci guardò attentamente, senza rispondere, come uno che
non capisce.
— Sì, — soggiunse Banks, — sembrate ignorare che Nana Sahib
è morto.
— Nana Sahib è morto? — gridò Kâlagani.
— Senza dubbio, — rispose Banks; — e il governo ha fatto sapere
in quali circostanze è stato ucciso.
— Ucciso? — disse Kâlagani scuotendo il capo. — E dove
sarebbe stato ucciso Nana Sahib?
— Al pâl di Tandît, nei monti Sautpurra.
— E quando?...
— Circa quattro mesi fa, — rispose l'ingegnere, — il 21 maggio
scorso. Kâlagani, il cui sguardo mi parve strano in quel momento,
aveva incrociato le braccia e rimaneva silenzioso.
— Avete delle ragioni — gli domandai, — per non credere alla
morte di Nana Sahib?
— Nessuna, signori, — si accontentò di rispondere Kâlagani. —
Credo a ciò che voi mi dite.
Un istante dopo, Banks ed io eravamo soli, e l'ingegnere
aggiungeva, non senza ragione:
— Tutti gli indù si assomigliano. Il capo dei Cipay ribelli è
diventato leggendario. Questi superstiziosi non crederanno mai che
sia stato ucciso, poiché non l'hanno visto impiccare!
— Si comportano, — risposi, — come i vecchi grognards 24
dell'Impero, i quali, vent'anni dopo la morte di Napoleone,
sostenevano che viveva ancora!
Dopo il passaggio dell'alto Gange, che la Steam-House aveva
effettuato quindici giorni prima, una fertile regione stendeva le sue
magnifiche strade davanti al Gigante d'Acciaio. Era il Doàb,
compreso in quell'angolo formato dal Gange e dal Jumna, prima che
si ricongiungano vicino a Allahabad. Pianure alluvionali, dissodate
dai seguaci di Brahma venti secoli prima dell'era cristiana, processi
di coltura ancora molto rudimentali presso i contadini, grandi opere
di irrigazione dovute agli ingegneri inglesi, piantagioni di cotone che
prosperano in modo particolare su questo territorio, gemiti del
torchio per il cotone che è in funzione presso ogni villaggio, canti
degli operai che lo mettono in movimento, ecco le impressioni che
mi sono rimaste di questo Doàb, dove un tempo venne fondata la
chiesa primitiva.
Il viaggio procedeva nelle migliori condizioni. I luoghi variavano,
diremmo quasi, a seconda dei nostri capricci. La casa si spostava,
senza fatica, per il piacere dei nostri occhi. Non era forse quella,
come aveva preteso Banks, l'ultima parola del progresso nell'arte
della locomozione? Carri a buoi, carrozze a cavalli o a muli, vagoni
ferroviari, non siete nulla paragonati alla nostra casa ambulante!
Il 19 settembre, la Steam-House si fermava sulla riva sinistra del
Jumna. Questo importante corso di acqua separa nella parte centrale
della penisola il paese dei Rajah propriamente detto, o Rajasthan,
dall'Indostan, che è più particolarmente il paese degli indù.
24
Lett.: brontoloni; con questo termine venivano definiti i veterani delle guerre
napoleoniche. (N.d.T.)
Una piena agli inizi incominciava ad alzare le acque del Jumna.
La corrente si faceva sentire più rapidamente; ma, pur rendendo il
nostro passaggio un po' meno facile, non poteva impedirlo. Banks
prese alcune precauzioni. Si dovette cercare un migliore punto
d'approdo, e lo si trovò. Mezz'ora dopo la Steam-House risaliva
l'argine opposto del fiume. Ai treni delle linee ferroviarie occorrono
ponti costruiti con grandi spese, e uno di questi ponti, di costruzione
tubolare, scavalca il Jumna presso la fortezza di Selimgarh vicino a
Delhi. Al nostro Gigante d'Acciaio e ai due vagoni che esso
rimorchiava, i corsi d'acqua offrivano una via facile quanto le più
belle strade asfaltate della penisola.
Al di là del Jumna, i territori del Rajasthan comprendono un certo
numero di quelle città che la previdenza dell'ingegnere voleva lasciar
fuori del suo itinerario. Sulla sinistra c'era Gwalior, in riva al fiume
Sawunrika, piantata sulla sua base di basalto, con la superba moschea
di Musjid, il palazzo di Pâl, la curiosa porta degli Elefanti, la celebre
fortezza, il Vihara di creazione buddistica; vecchia città a cui la città
moderna di Lashkar, costruita due chilometri più lontano, fa ormai
una seria concorrenza. Là, in fondo a questa Gibilterra dell'India, la
rhani di Jansi, la fedele compagna di Nana Sahib, aveva lottato
eroicamente fino all'ultimo. Là, in quello scontro con due squadroni
dell'8° ussari dell'esercito reale, ella fu uccisa, come si sa, per mano
del colonnello Munro, che aveva preso parte all'azione con un
battaglione del suo reggimento. Da quel giorno, anche questo è noto,
era incominciato l'odio implacabile di Nana Sahib, che il nababbo
aveva tentato di soddisfare fino all'ultimo respiro! Sì! era meglio che
sir Edward Munro non andasse a ravvivare i suoi ricordi alle porte di
Gwalior!
Dopo Gwalior, a ovest del nostro nuovo itinerario, veniva Antri, e
la sua ampia pianura, su cui si ergono qua e là molte vette, come
isolotti d'un arcipelago. Poi veniva Duttiah, che non ha ancora cinque
secoli di esistenza, di cui si ammirano le graziose case, la fortezza
centrale, i templi dalle svariate guglie, il palazzo abbandonato di
Birsing-Deo, l'arsenale di Tôpe-Kana, ... tutto quello che costituiva la
capitale di quel regno di Duttiah, tagliato nell'angolo nord del
Bundelkund, e che si è messo sotto la protezione dell'Inghilterra.
Come Gwalior, Antri e Duttiah erano state gravemente colpite dal
movimento insurrezionale del 1857.
Finalmente c'era Jansi, da cui passavamo a meno di quaranta
chilometri il 22 settembre. Quella città è la più importante stazione
militare del Bundelkund, e lo spirito di ribellione vi è sempre vivace
nel popolino. Jansi, città relativamente moderna, fa un importante
commercio di mussole indigene e di stoffe azzurre di cotone. Non vi
si trova nessun monumento precedente la sua fondazione, che data
solo dal XVII secolo. Pure è interessante visitare la sua cittadella, di
cui i proiettili inglesi non hanno potuto distruggere le mura esterne, e
la sua necropoli dei rajah, di aspetto assai pittoresco. Essa fu la
fortezza principale dei Cipay ribelli dell'India centrale. Qui,
l'intrepida rhani provocò il primo sollevamento che doveva in breve
invadere tutto il Bundelkund. Qui sir Hugh Rose dovette dare un
combattimento che non durò meno di sei giorni, nel quale perdette il
quindici per cento dei suoi uomini. Qui, nonostante il loro
accanimento, Tantia Topi, Balao Rao, fratello di Nana Sahib, e infine
la rhani, benché fossero aiutati da una guarnigione di dodicimila
Cipay e soccorsi da un esercito di ventimila uomini, dovettero cedere
alla superiorità delle armi inglesi. Qui, come ci aveva narrato Mac
Neil, il colonnello Munro aveva salvato la vita al sergente,
cedendogli l'ultima goccia d'acqua che gli rimaneva. Sì! Jansi, più di
qualsiasi altra di quelle città dai funesti ricordi, doveva essere
lasciata in disparte in un itinerario le cui tappe erano state scelte dai
migliori amici del colonnello!
Il giorno dopo, 23 settembre, un incontro, che ci trattenne alcune
ore, venne a giustificare una delle osservazioni fatte precedentemente
da Kâlagani.
Erano le undici del mattino. Terminata la colazione, ci eravamo
seduti tutti per la siesta, gli uni sotto la veranda, gli altri nel salotto
della Steam-House. Il Gigante d'Acciaio camminava in ragione di
nove o dieci chilometri all'ora. Una magnifica strada ombreggiata da
begli alberi gli si disegnava dinanzi fra campi di cotone e di cereali.
Il tempo era bello, il sole ardente. Un innaffiamento «comunale» di
questa grande strada non sarebbe stato da disprezzare, bisogna
convenirne, e il vento sollevava una fine polvere bianca davanti al
nostro treno.
Ma le cose cambiarono, quando, alla distanza di due o tre miglia,
l'atmosfera ci apparve a tal punto piena di tali turbini di polvere che
un violento simun non avrebbe sollevato nuvole più fitte nel deserto
libico.
— Non capisco come questo fenomeno possa verificarsi, — disse
Banks, — poiché la brezza è leggera.
— Kâlagani ce lo spiegherà, — rispose il colonnello Munro.
Fu chiamato l'indù, che venne fin sotto la veranda, osservò la
strada, e, senza esitare:
— È una lunga carovana che risale verso nord, — disse — e come
vi ho già detto, signor Banks, è probabilmente una carovana di
Banjari.
— Ebbene, Kâlagani, — disse Banks, — ritroverete senza dubbio
qualcuno dei vostri vecchi compagni, là in mezzo?
— È possibile, signore, — rispose l'indù, — poiché ho vissuto un
pezzo fra queste tribù nomadi.
— Avete dunque l'intenzione di lasciarci per unirvi a loro? —
domandò il capitano Hod.
— Niente affatto, — rispose Kâlagani.
L'indù non si era ingannato. Mezz'ora dopo, il Gigante d'Acciaio,
per potente che fosse, era costretto a fermarsi davanti a una muraglia
di ruminanti.
Ma non ci fu ragione di rimpiangere quel ritardo. Lo spettacolo
che si offriva ai nostri occhi valeva la pena di essere osservato.
Un gregge, che comprendeva almeno quattro o cinquemila buoi
ingombrava la strada verso sud, per uno spazio di molti chilometri.
Come aveva annunciato Kâlagani, quel convoglio di ruminanti
apparteneva a una carovana di Banjari.
— I Banjari, — ci disse Banks — sono i veri zingari dell'Indostan.
Popolo più che tribù, senza fissa dimora, d'estate vivono sotto una
tenda, d'inverno in una capanna. Sono i facchini della penisola, e li
ho visti all'opera durante l'insurrezione del 1857. Per una specie di
tacita convenzione fra i belligeranti, si lasciava che i loro convogli
attraversassero le province turbate dalla ribellione. Erano, infatti, gli
approvvigionatori del paese, e nutrivano tanto l'esercito reale quanto
l'indigeno. Se fosse assolutamente necessario assegnare una patria
nell'India a questi nomadi, sarebbe il Raputana, e più particolarmente
forse il regno di Milwar. Ma poiché ci passeranno davanti, caro
Maucler, vi consiglio d'esaminare attentamente questi Banjari.
Il nostro treno si era prudentemente tirato su uno dei lati della
grande strada. Non avrebbe potuto resistere a quella valanga di
animali cornuti, davanti alla quale le stesse belve non esitano a
svignarsela.
Come mi aveva raccomandato Banks, osservai attentamente quel
lungo corteo; ma, prima di tutto, devo notare che la Steam-House
non parve produrre il suo solito effetto. Il Gigante d'Acciaio, tanto
solito a provocare l'ammirazione generale, attirò appena l'attenzione
di quei Banjari, abituati senza dubbio a non stupirsi di nulla.
Uomini e donne di quella razza zingaresca erano meravigliosi; gli
uni alti, vigorosi, con lineamenti fini, naso aquilino, capelli ricciuti,
colore della pelle di un bronzo in cui il rame rosso dominava lo
stagno, vestiti della lunga tunica e del turbante, armati di lancia, di
scudo, di rotella e della grande spada che si porta a tracollarle altre
alte di statura, ben proporzionate, fiere come gli uomini del loro clan,
con il busto serrato in un corsetto, la parte inferiore del corpo perduta
sotto le pieghe di una larga gonnella, il tutto avvolto, dalla testa ai
piedi, in un elegante drappeggio, con gioielli agli orecchi, collane al
collo, braccialetti alle braccia, anelli alle caviglie, d'oro, d'avorio, di
conchiglie.
Accanto a tutti quegli uomini, donne, vecchi, fanciulli,
camminavano con passo tranquillo migliaia di buoi, senza sella né
cavezza, agitando le ghiande rosse o facendo suonare le campanelle
che avevano in testa, portando sul dorso un doppio sacco, che
contiene il grano o gli altri cereali.
Era una tribù intera, partita in carovana, sotto la direzione di un
capo eletto, il naik, il cui potere è illimitato per tutta la durata del suo
mandato. A lui solo spetta dirigere il convoglio, stabilire le ore di
fermata, disporre l'ordine dell'accampamento.
In testa camminava un toro di grandi dimensioni, dal portamento
superbo, coperto di splendide stoffe, ornato con un grappolo di
sonagli e con monili di conchiglie. Domandai a Banks se sapesse
quali fossero i compiti di quel magnifico animale.
— Kâlagani potrebbe dircelo con certezza — rispose l'ingegnere.
— Dov'è?
Venne chiamato Kâlagani, ma non comparve. Lo si cercò, ma non
era più alla Steam-House.
— È andato senza dubbio a rinnovare conoscenza con qualcuno
dei suoi vecchi compagni — disse il colonnello Munro, — ma ci
raggiungerà prima della partenza.
Nulla di più naturale. Perciò non c'era da preoccuparsi
dell'assenza momentanea dell'indù; eppure, dentro di me,
quell'assenza mi turbò.
— Ebbene — disse allora Banks — se non mi sbaglio, quel toro,
nelle carovane di Banjari, rappresenta la loro divinità. Dove va lui, lo
si segue; quando si ferma, si pone il campo, ma credo che ubbidisca
segretamente agli ordini del naik. Insomma tutta la religione di questi
nomadi si riassume in lui.
Non fu che due ore dopo l'inizio della sfilata, che cominciammo a
vedere la fine di quell'interminabile corteo. Cercavo Kâlagani nella
retroguardia, quando egli comparve, accompagnato da un indù che
non apparteneva al tipo Banjari. Senza dubbio era uno di quegli
indigeni che affittano temporaneamente i propri servigi alle
carovane, come aveva fatto molte volte Kâlagani. Entrambi
discorrevano freddamente, si potrebbe dire a mezza bocca. Di chi o
di che cosa parlavano? Probabilmente del paese che aveva
attraversato la tribù, paese nel quale dovevamo inoltrarci sotto la
direzione della nostra nuova guida.
Quell'indigeno, che era rimasto in coda alla carovana, si arrestò un
istante passando davanti alla Steam-House. Osservò con interesse il
treno preceduto dall'elefante artificiale, e mi parve che guardasse più
particolarmente il colonnello Munro, ma non ci rivolse la parola. Poi,
facendo un cenno d'addio a Kâlagani, raggiunse la colonna e in breve
scomparve in una nuvola di polvere.
Quando Kâlagani fu tornato presso di noi, si rivolse al colonnello
Munro, senza aspettare di essere interrogato:
— Uno dei miei vecchi compagni, che è da due mesi al servizio
della carovana, — si limitò a dire.
Fu tutto. Kâlagani riprese il suo posto nel nostro treno, e poco
dopo la Steam-House correva sulla strada, che portava le larghe
impronte degli zoccoli di quelle migliaia di buoi.
Il giorno seguente, 24 settembre, il treno si fermava per passare la
notte cinque o sei chilometri a est di Ourtcha, sulla riva sinistra del
Betwa, uno dei principali affluenti del Jumna.
Su Ourtcha, niente da dire né da vedere. È l'antica capitale del
Bundelkund, una città che fu fiorente nella prima metà del XVII
secolo. Ma i mongoli da una parte, i maharatti dall'altra, le inflissero
terribili colpi, dai quali non riuscì più a risollevarsi. E ora, una delle
grandi città dell'India centrale non è più che un villaggio che
raccoglie miseramente poche centinaia di contadini.
Ho detto che eravamo venuti ad accamparci sulle sponde del
Betwa. È più giusto dire che il treno si fermò a una certa distanza
dalla sua sponda sinistra.
Infatti questo importante corso d'acqua, in piena, era allora
straripato dal suo letto e ricopriva largamente i suoi argini. Da ciò
qualche difficoltà, forse, per effettuare il nostro passaggio. Avremmo
però esaminato la cosa il giorno dopo; la notte era già troppo buia per
permettere a Banks di decidere.
Ne derivò dunque che, subito dopo la siesta della sera, ognuno di
noi si ritirò nella propria cabina e andò a riposarsi.
A meno di circostanze particolari, non facevamo mai sorvegliare
l'accampamento durante la notte. A che scopo? Si potevano forse
rubare le nostre case ambulanti? No! Si poteva forse rubare il nostro
elefante? Nemmeno; si sarebbe difeso soltanto con il suo peso.
Quanto alla possibilità di un attacco da parte di qualcuno di quei
briganti che battono queste province, sarebbe stata proprio
inverosimile. D'altra parte, se nessuno dei nostri uomini montava la
guardia durante la notte, i due cani, Phann e Black, erano là, e ci
avrebbero avvertiti di qualsiasi avvicinarsi sospetto.
È precisamente ciò che accadde durante quella notte. Verso le due
del mattino, dei latrati ci svegliarono. Mi alzai subito e trovai i miei
compagni in piedi.
— Che cosa c'è? — domandò il colonnello Munro.
— I cani abbaiano — rispose Banks — e certamente non lo fanno
senza ragione.
— Sarà qualche pantera che avrà ringhiato nelle macchie vicine!
— disse il capitano Hod. — Scendiamo, esploriamo il limite del
bosco, e, per precauzione, prendiamo i fucili.
Il sergente Mac Neil, Kâlagani, Goûmi, erano già davanti
all'accampamento, ascoltando, discutendo, cercando di rendersi
conto di quanto accadeva nell'oscurità. Noi li raggiungemmo.
— Ebbene — disse il capitano Hod — avremo forse a che fare
con due o tre belve venute a bere sull'argine?
— Kâlagani non lo crede — rispose Mac Neil.
— Che cosa c'è allora, secondo voi? — domandò il colonnello
Munro all'indù, che ci aveva raggiunto.
— Non so, colonnello Munro — rispose Kâlagani — ma non si
tratta né di tigri né di pantere, e nemmeno di sciacalli. Credo di
intravedere sotto gli alberi una massa confusa...
— Lo sapremo bene! — esclamò il capitano Hod, pensando
sempre alla cinquantesima tigre che gli mancava.
— Aspettate, Hod — gli disse Banks. — Nel Bundelkund, è
sempre meglio diffidare dei banditi di strade maestre.
— Siamo in parecchi, e ben armati! — rispose il capitano Hod. —
Voglio chiarire la cosa!
— Va bene! — disse Banks.
I due cani abbaiavano sempre, ma senza manifestare alcun
sintomo di quella collera che l'avvicinarsi di animali feroci avrebbe
immancabilmente provocato.
— Munro, — disse allora Banks — resta all'accampamento con
Mac Neil e gli altri. Intanto, Hod, Maucler, Kâlagani e io, andremo in
ricognizione.
— Venite? — gridò il capitano Hod, che nello stesso tempo fece
segno a Fox d'accompagnarlo.
Phann e Black, già sotto i primi alberi, mostravano la via. Non
rimaneva che seguirli.
Appena fummo nel bosco si udì un rumore di passi.
Evidentemente un drappello numeroso era in perlustrazione ai
confini del nostro accampamento. Si intravedevano alcune ombre
silenziose che fuggivano attraverso le macchie.
I due cani, correndo, abbaiando, andavano e venivano alcuni passi
più avanti.
— Chi va là? — gridò il capitano Hod. Nessuna risposta.
— O quella gente non vuol rispondere — disse Banks — o non
capisce l'inglese.
— Ebbene, capiscono l'indiano — risposi io.
— Kâlagani — disse Banks — gridate in indiano, che se non
rispondono, facciamo fuoco.
Kâlagani, usando il dialetto proprio degli indigeni dell'India
centrale, diede ordine ai vagabondi di farsi avanti.
Stesso silenzio della volta precedente.
Allora si udì una fucilata. L'impaziente capitano Hod aveva
sparato a casaccio su un'ombra che fuggiva fra gli alberi.
Una confusa agitazione seguì la detonazione della carabina; ci
parve che tutta una banda di persone si disperdesse a destra e a
sinistra. La cosa fu anzi certa, quando Phann e Black, che si erano
lanciati avanti, tornarono tranquillamente senza dare più alcun segno
di inquietudine.
— Chiunque siano, vagabondi o ladri, — disse il capitano Hod, —
quella gente se l'è svignata in fretta!
— Evidentemente, — rispose Banks, — e non ci resta più che
ritornare alla Steam-House. Ma, per precauzione, si veglierà fino
all'alba.
Alcuni istanti dopo avevamo raggiunto i nostri compagni. Mac
Neil, Goûmi, Fox, si accordarono per avvicendarsi alla guardia
dell'accampamento, mentre noi ritornavamo alle nostre cabine.
La notte terminò senza turbamenti. Si poteva dunque pensare che,
vedendo la Steam-House ben difesa, i visitatori avessero rinunciato a
prolungare la loro visita.
Il giorno seguente, 25 settembre, mentre si facevano i preparativi
per la partenza, il colonnello Munro, il capitano Hod, Mac Neil,
Kâlagani ed io, volemmo esplorare un'ultima volta il limitare della
foresta.
Della banda che vi si era avventurata durante la notte, non
rimaneva alcuna traccia. Ad ogni modo, non c'era nessuna necessità
di preoccuparsene.
Quando fummo di ritorno, Banks si preparò per effettuare il
passaggio del Betwa. Questo fiume, che era abbondantemente
straripato, stendeva le sue acque giallastre molto più in là degli
argini. La corrente si spostava con gran rapidità, ed il Gigante
d'Acciaio avrebbe dovuto prenderla frontalmente per non essere
trascinato troppo a valle.
L'ingegnere si era occupato prima di tutto di trovare il luogo più
favorevole allo sbarco; con il cannocchiale davanti agli occhi,
cercava di scoprire il punto in cui sarebbe stato meglio raggiungere la
riva destra. Il letto del Betwa si svolgeva, in questa parte del suo
corso, per una larghezza di circa un miglio. Sarebbe stato dunque il
più lungo tragitto nautico che il treno galleggiante avrebbe dovuto
fare fino allora.
— Ma, — domandai, — come fanno i viaggiatori o i mercanti,
quando si trovano bloccati davanti ai corsi d'acqua da piene di questo
genere? Mi sembra difficile che dei traghetti possano resistere a
correnti che assomigliano a rapide.
— Ebbene, — rispose il capitano Hod, — niente di più semplice:
non passano!
— Sì, — rispose Banks, — passano, quando hanno degli elefanti a
loro disposizione.
— Come! degli elefanti possono superare simili distanze a nuoto?
— Senza dubbio, ed ecco come si fa, — rispose l'ingegnere. —
Tutti i bagagli vengono messi sul dorso di questi...
— Proboscidati!... — disse il capitano Hod, ricordando il suo
amico Mathias Van Guitt.
— E i mahout li costringono ad entrare nella corrente, —
soggiunse Banks. — All'inizio l'animale esita, indietreggia, barrisce;
ma, decidendosi presto, entra nel fiume, si mette a nuotare e
attraversa coraggiosamente il corso d'acqua. Alcuni, ne convengo,
sono a volte trascinati e spariscono tra le rapide, ma è piuttosto raro,
quando sono diretti da un'abile guida.
— Benissimo! — disse il capitano Hod, — se non abbiamo degli
elefanti, ne abbiamo uno...
— E ci basterà, — rispose Banks. — Non assomiglia forse a
quell'Oructor Amphibolis dell'americano Evans, che, fin dal 1804,
camminava sulla terra e nuotava nell'acqua?
Ognuno riprese il suo posto nel treno, Kalôuth al forno, Storr nella
torretta, Banks accanto a lui, con funzioni di timoniere.
Bisognava attraversare una cinquantina di piedi di argine inondato
prima di raggiungere i primi strati della corrente. Il Gigante
d'Acciaio si mosse adagio e si mise in cammino. Le sue larghe
zampe si bagnarono, ma esso non galleggiava ancora; il passaggio
dal terreno solido alla superficie liquida doveva essere fatto con
precauzione.
Ad un tratto, il rumore dell'agitazione che si era prodotta durante
la notte si propagò fino a noi.
Un centinaio di individui erano usciti dal bosco gesticolando e
facendo delle smorfie.
— Per mille diavoli! Erano scimmie! — esclamò il capitano Hod
ridendo di cuore.
Ed infatti, tutto un intero gruppo di questi rappresentanti dei
quadrumani avanzava compatto verso la Steam-House.
— Che cosa vogliono? — domandò Mac Neil.
— Assalirci, senza dubbio! — rispose il capitano Hod, sempre
pronto alla difesa.
— No! non c'è nulla da temere, — rispose Kâlagani, che aveva
avuto tempo di osservare la banda di scimmie.
— Ma che cosa vogliono dunque? — domandò una seconda volta
il sergente Mac Neil.
— Passare il fiume in nostra compagnia e niente altro! — rispose
l'indù. Kâlagani non si sbagliava. Non avevamo a che fare con dei
gibboni dalle lunghe braccia villose, importuni e insolenti, né con dei
«membri della aristocratica famiglia» che abita il palazzo di Bénares.
Erano scimmie della specie dei languri, le più grandi della penisola,
agili quadrumani, dalla pelle nera, con il muso senza peli circondato
da un collare di basette bianche che dà loro l'aspetto di vecchi
avvocati. In fatto di pose bizzarre e di gesti esagerati, avrebbero dato
delle lezioni allo stesso Mathias Van Guitt.
La loro pelliccia morbida era grigia sul dorso, bianca sul ventre, e
portavano la coda all'insù.
Allora seppi che questi languri sono animali sacri in tutta l'India.
Una leggenda dice che essi discendono da quei guerrieri del Rama
che conquistarono l'isola di Ceylon. Ad Amber, occupano un
palazzo, il Zenanah, di cui fanno amichevolmente gli onori ai turisti.
È espressamente vietato ucciderli, e la trasgressione di questa legge è
già costata la vita a molti ufficiali inglesi.
Queste scimmie, d'indole piuttosto mite, facilmente
addomesticabili, sono pericolosissime quando vengono assalite, e se
sono solo ferite, il signor Louis Rousselet ha potuto dire giustamente
che diventano terribili come le iene o le pantere.
Ma non si trattava di attaccare quei languri, ed il capitano Hod
mise il suo fucile in riposo.
Kâlagani aveva dunque ragione di pretendere che tutta quella
banda, non osando affrontare la corrente di quelle acque straripate,
voleva approfittare del nostro treno galleggiante per passare il
Betwa?
Era possibile, e l'avremmo visto.
Il Gigante d'Acciaio che aveva attraversato l'argine, era giunto al
letto del fiume. Ben presto tutto il treno vi galleggiava con lui. Un
gomito della riva produceva in quel luogo una specie di gorgo di
acque stagnanti, e, dapprima, la Steam-House rimase quasi
immobile.
La banda di scimmie, si era avvicinata e sguazzava già nell'acqua
poco profonda che copriva la scarpata dell'argine.
Non fecero nessuna dimostrazione ostile, ma ad un tratto eccoli,
maschi, femmine, vecchi e giovani, sgambettare, prendersi per mano
e finalmente balzare fino sul treno che sembrava aspettarli.
In pochi secondi ce ne furono dieci sul Gigante d'Acciaio, trenta
sopra ciascuna delle case, in tutto un centinaio, allegre, amichevoli,
si potrebbe quasi dire ciarliere, almeno fra di loro, e felicitandosi
senza dubbio di aver incontrato così opportunamente un mezzo
navigante che permettesse loro di continuare il viaggio.
Il Gigante d'Acciaio entrò subito nella corrente, e volgendosi a
monte, la risalì.
Banks aveva potuto temere per un istante che il treno fosse troppo
pesante con quel carico extra di passeggeri, ma non fu così. Quelle
scimmie si erano suddivise in modo molto intelligente; ce n'erano
sulla groppa, sulla torretta, sul collo dell'elefante, perfino
all'estremità della proboscide, e non si spaventavano minimamente
per i getti di vapore. Ce n'erano sui tetti arrotondati delle nostre
pagode, le une accoccolate, le altre ritte, queste piantate sulle zampe,
quelle appese per la coda, fin sotto la veranda dei balconi. Ma la
Steam-House si manteneva sulla sua linea di galleggiamento e grazie
alla felice disposizione dei suoi serbatoi d'aria, non c'era nulla da
temere da quell'eccesso di peso.
Il capitano Hod e Fox erano meravigliati, soprattutto l'attendente.
Poco mancò che non facesse gli onori della Steam-House a quella
frotta smorfiosa e disinvolta. Egli parlava ai languri, stringeva loro la
mano, li salutava col cappello; avrebbe esaurito volentieri tutti i
dolciumi della dispensa, se il signor Parazard, offeso di trovarsi in
una simile compagnia, non vi avesse posto rimedio.
Frattanto il Gigante d'Acciaio lavorava duramente con le quattro
zampe che battevano l'acqua e fungevano da larghe pagaie. Pur
derivando, seguiva la linea obliqua che ci doveva condurre al punto
d'approdo.
Mezz'ora dopo lo aveva raggiunto; ma appena si fu accostato alla
riva tutta la banda di quei clown a quattro mani saltò sull'argine e
scomparve sgambettando.
— Avrebbero ben potuto dire grazie! — esclamò Fox, scontento
del comportamento di quei compagni di traversata.
Una risata gli rispose. Era tutto ciò che meritava l'osservazione
dell'attendente.
CAPITOLO VIII
HOD CONTRO BANKS
IL BETWA era stato passato. Cento chilometri ci separavano ormai
dalla stazione di Etawah.
Passarono quattro giorni senza incidenti, nemmeno incidenti di
caccia. Le belve erano poco numerose in quella parte del regno di
Scindia.
— Decisamente, — ripeteva il capitano Hod, non senza un certo
dispetto, — giungerò a Bombay senza aver ucciso la mia
cinquantesima!
Kâlagani ci guidava con meravigliosa sagacia attraverso la parte
meno popolata del territorio di cui egli conosceva bene la topografia
e, il 29 settembre, il treno cominciava a salire il versante
settentrionale dei Vindhya, per varcarli al colle di Sirgur.
Finora la nostra traversata del Bundelkund si era effettuata senza
fastidi. Eppure, questo paese è uno dei più sospetti dell'India; i
malfattori vi cercano volentieri rifugio. I predoni di strada non vi
mancano. È là che i Dacoit si dedicano in modo particolare al loro
doppio mestiere di avvelenatori e di ladri. È dunque prudente
starsene molto seriamente sul chi vive quando si attraversa questo
territorio.
La parte peggiore del Bundelkund è precisamente quella regione
montagnosa dei Vindhya nella quale la Steam-House stava per
entrare. Il tragitto non era lungo, cento chilometri al massimo, fino a
Jubbulpore, la stazione più vicina della ferrovia Bombay-Allahabad.
Ma non bisognava calcolare di poter procedere rapidamente e
facilmente come avevamo fatto attraverso le pianure dello Scindia.
Pendii molto ripidi, strade mal tracciate, terreno roccioso, svolte
brusche, strozzature di certi punti del percorso, tutto doveva
concorrere a ridurre la media della nostra velocità. Banks non
credeva di poter ottenere più di quindici o venti chilometri nelle dieci
ore di cui si componevano le nostre giornate di cammino. Aggiungo
che, giorno e notte, bisognava aver cura di sorvegliare attentamente i
dintorni delle strade e degli accampamenti.
Kâlagani era stato il primo a darci questi consigli. Non già che
non fossimo in forza e ben armati; il nostro piccolo drappello, con le
sue due case e la torretta, vera casamatta che il Gigante d'Acciaio
portava sul dorso, offriva una certa «superficie di resistenza», per
usare un'espressione di moda. Dei briganti, Dacoit o altri, fossero
anche stati dei Thug (se pure ne rimanevano ancora in quella parte
selvaggia del Bundelkund) avrebbero senza dubbio esitato ad
assalirci. Ma la prudenza non è mai troppa, ed era meglio essere
pronti ad ogni eventualità.
Durante le prime ore di quella giornata, giungemmo al colle di
Sirgur, e il treno incominciò a risalirlo senza troppa fatica. Talvolta,
risalendo delle gole piuttosto ardue, si dovette forzare il tiraggio; ma
il Gigante d'Acciaio sotto la mano di Storr, impiegava
istantaneamente la potenza necessaria, e molte volte furono superate
certe pendenze di dodici o quindici centimetri al metro.
Quanto agli errori di itinerario, non sembrava che si dovessero
temere. Kâlagani conosceva perfettamente quei passi sinuosi della
regione dei Vindhya, e in particolare il colle di Sirgur, così non
esitava mai, anche quando diverse strade venivano a immettersi in
qualche crocicchio perduto fra le alte rupi, in fondo a gole strette, in
mezzo a quelle fitte foreste d'alberi alpestri che limitavano la portata
dello sguardo a due o tre centinaia di passi. Se talvolta ci lasciava, o
andava avanti, ora solo, ora accompagnato da Banks, da me o da un
altro qualunque dei nostri compagni, era per riconoscere, non la
strada, ma il suo stato di viabilità.
Infatti, le piogge, durante la stagione umida che era appena finita,
avevano deteriorato le massicciate, fatto franare il suolo, circostanze
di cui bisognava tener conto, prima di procedere su delle strade dove
non sarebbe stato facile fare retromarcia.
Dal punto di vista puro e semplice della locomozione, tutto
andava dunque benissimo. La pioggia era cessata del tutto; il cielo,
semivelato da leggere nebbie che temperavano i raggi solari, non
minacciava nessuno di quegli uragani di cui si teme la violenza nella
regione centrale della penisola. Il caldo, senza essere intenso, non
mancava però di tormentarci un po' durante alcune ore del giorno;
ma, in complesso, la temperatura si manteneva ad un livello medio,
sopportabilissimo per dei viaggiatori perfettamente chiusi e coperti.
La selvaggina minuta non mancava, e i nostri cacciatori
provvedevano ai bisogni della mensa senza allontanarsi più del
necessario dalla Steam-House.
Soltanto il capitano Hod, e anche Fox senza dubbio, potevano
rimpiangere l'assenza di quelle belve che abbondavano nel Tarryani.
Ma dovevano forse aspettarsi d'incontrare leoni, tigri, pantere, là
dove mancavano i ruminanti necessari al loro nutrimento?
Pure, se questi carnivori mancavano alla fauna dei Vindhya, si
presentò per noi un'occasione di fare una conoscenza più ampia con
gli elefanti indiani, voglio dire gli elefanti selvaggi, di cui non
avevamo visto finora che rari esemplari.
Fu nella giornata del 30 settembre verso mezzogiorno, che una
coppia di questi superbi animali fu segnalata davanti al treno. Al
nostro avvicinarsi, si gettarono sui lati della strada, per lasciar
passare quell'equipaggio, nuovo per loro, che senza dubbio li
spaventava.
A che pro ucciderli senza necessità per pura soddisfazione di
cacciatori? Il capitano Hod non ci pensò neppure. Egli si accontentò
di ammirare quei magnifici animali in piena libertà, che percorrevano
quelle gole deserte, dove ruscelli, torrenti e pascoli dovevano bastare
a tutti i loro bisogni.
— Sarebbe una bell'occasione — disse — per il nostro amico Van
Guitt di farci un corso di zoologia pratica!
Si sa che l'India è, per eccellenza, il paese degli elefanti. Questi
pachidermi appartengono tutti alla stessa specie, che è un po' più
piccola di quella degli elefanti africani, tanto quelli che percorrono le
diverse province della penisola, quanto quelli di cui si vanno a
cercare le tracce nella Birmania, nel regno del Siam e fino in tutti i
territori posti a est del golfo del Bengala.
Come si catturano? Per lo più in un kiddah, recinto circondato da
palizzate. Quando si tratta di catturare un intero gruppo, i cacciatori,
in numero di tre o quattrocento, sotto la guida particolare di un
djamadar o sergente indigeno, li spingono a poco a poco nel kiddah,
ve li chiudono, li separano gli uni dagli altri con l'aiuto di elefanti
domestici addestrati a questo scopo, li impastoiano alle zampe
posteriori, e tutto è fatto.
Ma questo metodo, che esige del tempo ed un certo impiego di
forze, è per lo più inefficace quando ci si vuole impadronire dei
grossi maschi. Questi infatti sono animali più astuti, e abbastanza
intelligenti per forzare il cerchio dei battitori, e sanno sfuggire
l'imprigionamento nel kiddah. Allora, alcune femmine addomesticate
vengono incaricate di seguire questi maschi per alcuni giorni. Esse
portano sul dorso i loro mahout, avvolti in coperte di colore scuro, e
quando gli elefanti, che non sospettano nulla, si abbandonano
tranquillamente alle dolcezze del sonno, vengono afferrati,
incatenati, trascinati via senza neppur aver avuto il tempo di
raccapezzarsi.
Una volta, ho già avuto occasione di dirlo, gli elefanti si
catturavano per mezzo di fosse, in mezzo alle loro piste, e profonde
una quindicina di piedi; ma nella caduta l'animale si feriva o si
uccideva, ed ormai si è rinunciato quasi generalmente a questo
metodo barbaro.
Infine nel Bengala e nel Nepal si adopera ancora il lasso. È una
vera caccia, con vicende interessanti. Elefanti ben addestrati vengono
montati da tre uomini. Sul collo, un mahout, che li guida; sui quarti
posteriori un pungolatore che li incita con una mazza o con l'uncino;
sul dorso l'indù incaricato di gettare il lasso munito del suo nodo
scorsoio. Così equipaggiati questi pachidermi inseguono l'elefante
selvaggio, talvolta per delle ore, in mezzo alle pianure, attraverso le
foreste, spesso con gran danno di quelli che li montano, e finalmente
l'animale preso con il lasso cade pesantemente al suolo alla mercé
dei cacciatori.
Con questi vari metodi si catturano annualmente in India
moltissimi elefanti; non è una cattiva speculazione. Una femmina si
vende fino a settemila franchi, un maschio fino a ventimila e anche a
cinquantamila quando è di razza pura.
Ma sono proprio utili questi animali per pagarli tanto? Sì, e a patto
di nutrirli adeguatamente (cioè con sei o settecento libbre di foraggio
verde ogni diciotto ore, ossia pressappoco quello che possono portare
di peso per una tappa media) se ne ottengono dei veri servizi:
trasporto di soldati e di approvvigionamenti militari, trasporto
dell'artiglieria nei paesi montuosi o nelle jungle inaccessibili ai
cavalli, lavori di forza per conto dei privati che li adoperano come
animali da tiro. Questi giganti, poderosi e docili, facilmente e presto
addomesticabili, grazie a un istinto speciale che li induce
all'obbedienza, sono di uso generale nelle diverse province
dell'Indostan. Ora, siccome allo stato domestico non si moltiplicano,
bisogna dar loro la caccia di continuo per poter soddisfare alle
richieste della penisola e dell'estero.
Perciò vengono inseguiti, circondati e presi con tutti i mezzi
suddetti. Eppure, nonostante il consumo che se ne fa, il loro numero
non sembra diminuire, ne rimangono moltissimi nei diversi territori
dell'India.
E, aggiungo, ne rimangono «troppi», come si vedrà.
I due elefanti si erano tirati da parte, come ho detto, in modo da
lasciar passare il nostro treno; ma, dietro di lui, avevano ripreso la
loro strada interrotta per un momento. Quasi subito altri elefanti
apparivano più indietro, e affrettando il passo raggiungevano la
coppia che avevamo superato. Un quarto d'ora dopo se ne poteva
contare una dozzina. Essi osservavano la Steam-House, ci seguivano
tenendosi a una distanza di cinquanta metri al massimo. Non
sembravano affatto desiderosi di raggiungerci, ma nemmeno di
lasciarci. Ora, ciò riusciva loro tanto più facile, in quanto che, su
quelle rampe che aggiravano le principali groppe dei Vindhya, il
Gigante d'Acciaio non poteva accelerare il passo.
Un elefante, del resto, sa muoversi con una velocità maggiore di
quanto si possa credere, velocità che, secondo il signor Sanderson,
competentissimo in materia, supera talvolta i venticinque chilometri
all'ora. Per quelli che erano là, non c'era nulla di più facile, per
conseguenza, sia di raggiungerci sia di sorpassarci.
Ma quella non sembrava la loro intenzione, in questo momento
almeno. Senza dubbio, quanto volevano era riunirsi in un numero
maggiore. Infatti a certe grida emesse come un richiamo dalle loro
ampie gole, rispondevano grida di ritardatari che seguivano la stessa
strada.
Verso l'una del pomeriggio una trentina di elefanti radunati sulla
strada camminavano dietro a noi. Erano ormai un intero branco e
nulla provava che il loro numero non dovesse crescere ancora. Se un
branco di questi pachidermi si compone per lo più di trenta o
quaranta individui, che formano una famiglia di parenti più o meno
prossimi, non è raro incontrare branchi di un centinaio di questi
animali, e i viaggiatori non potrebbero considerare senza una certa
inquietudine questa eventualità.
Il colonnello Munro, Banks, Hod, il sergente, Kâlagani e io,
avevamo preso posto sotto la veranda del secondo vagone, e
osservavamo ciò che avveniva dietro di noi.
— Il loro numero aumenta ancora, — disse Banks, — e sarà
ingrossato senza dubbio da tutti gli elefanti dispersi sul territorio!
— Eppure, — feci osservare, — non possono farsi udire oltre una
certa distanza.
— No, — rispose l'ingegnere, — fiutano, e la finezza del loro
odorato è tale, che degli elefanti domestici riconoscono la presenza di
elefanti selvatici anche a tre o quattro miglia.
— È una vera migrazione, — disse allora il colonnello Munro. —
Guardate! Dietro il nostro treno, c'è tutta una mandria, divisa in
gruppi di dieci o dodici elefanti, e quei gruppi vengono a prender
parte al movimento generale. Bisognerà affrettare il nostro cammino,
Banks.
— Il Gigante d'Acciaio fa quello che può, Munro, — rispose
l'ingegnere. — Siamo a cinque atmosfere di pressione a tiraggio
forzato, e la strada è molto ripida!
— Ma a che serve affrettarsi? — esclamò il capitano Hod, nel
quale questi incidenti suscitavano sempre il buonumore. — Lasciamo
che ci accompagnino, queste brave bestie! È un corteo degno del
nostro treno! Il paese era deserto, ora non lo è più, ed ecco che
camminiamo scortati come rajah in viaggio!
— Lasciarli fare, — rispose Banks, — è necessario! Del resto,
non vedo come potremmo impedire loro di seguirci.
— Ma che cosa temete? — domandò il capitano Hod. — Certo
non ignorate che un branco è sempre meno temibile di un elefante
solitario! Questi animali sono bravissimi!... Dei montoni, dei grossi
montoni con la proboscide, ecco tutto!
— Bene! Ecco Hod che si entusiasma! — disse il colonnello
Munro. — Ammetto che, se questo branco rimane indietro e
mantiene la sua distanza, non abbiamo nulla da temere; ma se gli
salta il ticchio di volerci superare su questa stretta strada, ne potrebbe
risultare più d'un danno per la Steam-House!
— Senza contare, — aggiunsi, — che quando si troveranno, per la
prima volta, faccia a faccia col nostro Gigante d'Acciaio, non so bene
quale accoglienza gli faranno!
— Lo saluteranno, per mille diavoli! — esclamò il capitano Hod.
— Lo saluteranno come l'hanno salutato gli elefanti del principe
Guru Singh!
— Quelli erano elefanti addomesticati, — fece osservare, non
senza ragione, il sergente Mac Neil.
— Ebbene, — ribatté il capitano Hod, — questi si
addomesticheranno, o meglio, davanti al nostro gigante, saranno
colpiti da uno stupore che si trasformerà in rispetto!
Si vede che il nostro amico non aveva perduto nulla del suo
entusiasmo per l'elefante artificiale, «capolavoro della creazione
meccanica, creato dalla mano di un ingegnere inglese»!
— Del resto, — aggiunse, — questi proboscidati (decisamente
questa parola gli stava a cuore), questi proboscidati sono
intelligentissimi, ragionano, giudicano, paragonano, associano le
idee, danno prova di un'intelligenza quasi umana!
— La cosa è contestabile, — rispose Banks.
— Come, contestabile! — esclamò il capitano Hod. — Ma
bisognerebbe non aver vissuto in India per parlare così! Forse che
questi bravi animali non vengono usati per tutte le utilizzazioni
domestiche? Vi è forse un servitore bipede implume che possa
eguagliarli? Forse che, nella casa del suo padrone, l'elefante non è
pronto a far di tutto? Ma non sapete, Maucler, che cosa ne dicono gli
autori che lo hanno conosciuto bene? Secondo loro, l'elefante è
cortese con quelli che ama, li allevia dei loro carichi, va a cogliere
per loro fiori o frutti, va a fare la questua per la comunità, come
fanno gli elefanti della celebre pagoda di Willenoor, presso
Pondichery, paga nei bazar le canne da zucchero, i banani o i manghi
che compera per proprio conto, nel Sunderbund protegge i greggi e
l'abitazione del suo padrone contro le belve, pompa l'acqua dalle
cisterne, porta a spasso i fanciulli che gli vengono affidati, con
maggior cura della migliore delle bambinaie di tutta l'Inghilterra! È
umano, riconoscente, perché ha una memoria prodigiosa, non
dimentica né i benefici né le ingiustizie! Ecco, amici miei, a questi
giganti dell'umanità, si, dico dell'umanità, non si farebbe schiacciare
un insetto innocuo! Un amico mio, queste sono cose che non si
possono dimenticare, ha visto collocare un insetto sopra un sasso, e
ordinare ad un elefante addomesticato di schiacciarlo! Ebbene, quel
buonissimo pachiderma sollevava la zampa tutte le volte che passava
sul sasso, e non vi furono né ordini né colpi che potessero indurlo a
posarla sull'insetto! Al contrario, se gli si comandava di portarlo, lo
prendeva delicatamente con quella specie di mano meravigliosa che
ha all'estremità della proboscide, e gli dava la libertà! E ora, Banks,
continuerete a dire che l'elefante non è buono, generoso, superiore a
tutti gli altri animali, anche alla scimmia, anche al cane, e non
bisogna riconoscere che gli indù hanno ragione quando gli accordano
quasi altrettanta intelligenza dell'uomo?
E il capitano Hod, per concludere la sua tirata, non trovò nulla di
meglio che togliersi il cappello per salutare il preoccupante branco
che ci seguiva a passi misurati.
— Ben detto, capitano Hod! — rispose il colonnello Munro
sorridendo.
— Gli elefanti hanno in voi un acceso difensore!
— Ma non ho forse decisamente ragione, colonnello? — domandò
il capitano Hod.
— È possibile che il capitano Hod abbia ragione — rispose
Banks, — ma credo di aver ragione anch'io col Sanderson, un
cacciatore d'elefanti, che è diventato maestro in tutto ciò che riguarda
questi animali.
— E che cosa dice dunque il vostro Sanderson? — esclamò il
capitano in tono un po' sprezzante.
— Pretende che l'elefante non ha che una media d'intelligenza
comunissima, che gli atti più stupefacenti che si vedono compiere da
questi animali non risultano che da un'obbedienza abbastanza servile
agli ordini che vengono loro dati più o meno segretamente dai loro
cornac.
— Questa poi! — disse il capitano Hod, che si accalorava.
— Infatti, egli osserva, — continuò Banks, — che gli indù non
hanno mai scelto l'elefante come simbolo di intelligenza, per le loro
sculture e per i loro disegni sacri, e che hanno accordato la
preferenza alla volpe, al corvo e alla scimmia!
— Protesto! — esclamò il capitano Hod, il cui braccio,
gesticolando, prendeva il movimento rotatorio d'una tromba.
— Protestate, capitano, ma ascoltate! — soggiunse Banks. —
Sanderson aggiunge che quanto distingue in modo particolare
l'elefante, è che esso ha in maggior grado la protuberanza
dell'obbedienza, che deve formare una bella gobba sul suo cranio!
Osserva pure che l'elefante si lascia catturare in trappole infantili (usa
proprio questo termine), come le fosse coperte di rami, e che non fa
nessuno sforzo per uscirne! Nota che si lascia chiudere in certi recinti
in cui sarebbe impossibile spingere altri animali selvatici! Infine
osserva che gli elefanti prigionieri che riescono a svignarsela si fanno
riprendere con una facilità che non fa onore al loro buon senso!
L'esperienza non insegna loro nemmeno ad essere prudenti!
— Povere bestie! — ribatté il capitano Hod, in tono comico, —
come vi maltratta questo ingegnere!
— Aggiungo infine, ed è un ulteriore argomento in favore della
mia tesi, — soggiunse Banks — che gli elefanti resistono spesso ad
ogni tentativo di addomesticamento, in mancanza di un'intelligenza
sufficiente ed è spesso difficilissimo assoggettarli, soprattutto quando
sono giovani o quando appartengono al sesso debole!
— È una somiglianza in più con gli esseri umani! — rispose il
capitano Hod. — Forse che gli uomini non sono più facili da menare
per il naso che non i fanciulli e le donne?
— Capitano — rispose Banks — siamo tutti e due troppo celibi
per essere competenti in materia!
— Ben risposto!
— Per concludere — aggiunse Banks — dico che non bisogna
fidarsi troppo della pretesa bontà dell'elefante, che sarebbe
impossibile resistere a un branco di questi giganti, se un motivo
qualunque li facesse inferocire, e che preferirei che quelli che ci
seguono in questo momento avessero da fare a nord, visto che noi
andiamo a sud!
— Tanto più, Banks — rispose il colonnello Munro — che mentre
tu e Hod discutete, il loro numero cresce in proporzioni
preoccupanti!
CAPITOLO IX
CENTO CONTRO UNO
SIR EDWARD Munro non si sbagliava. Una massa di cinquanta o
sessanta elefanti camminava ora dietro il nostro treno. Andavano in
file serrate, e i primi si erano già avvicinati abbastanza alla SteamHouse, a meno di dieci metri, perché fosse possibile osservarli
minutamente.
In testa camminava in quel momento uno dei più grossi del
branco, sebbene la sua altezza, misurata verticalmente alla spalla,
non superasse certo i tre metri. Come ho già detto, è una statura
inferiore a quella degli elefanti africani, alcuni dei quali sono alti fino
a quattro metri. Le sue zanne, anche esse meno lunghe di quelle dei
suoi confratelli africani, non misuravano più di un metro e cinquanta
centimetri alla curvatura esterna, e quaranta centimetri misurandole
al perno osseo che serve loro di base. Se si trovano nell'isola di
Ceylon un certo numero di questi animali privi di tali appendici, armi
formidabili di cui si servono abilmente, questi muknas, è il nome che
si dà loro, sono piuttosto rari sui territori propriamente detti
dell'Indostan.
Dietro questo elefante venivano molte femmine, che sono le vere
direttrici della carovana. Senza la presenza della Steam-House, esse
avrebbero formato l'avanguardia, e quel maschio sarebbe certamente
rimasto indietro nelle file dei suoi compagni. Infatti, i maschi non
s'intendono affatto della direzione del branco. Essi non hanno
l'incarico dei piccini, non possono sapere quando sia necessario
fermarsi per i bisogni di questi lattanti, né che tipo di accampamento
convenga loro. Sono dunque le femmine che, moralmente, hanno
l'autorità domestica e dirigono le grandi migrazioni.
Ora, sarebbe stato difficile rispondere alla domanda perché questo
branco d'elefanti andava a quel modo, se lo spingeva attraverso le
gole dei Vindhya il bisogno di lasciare dei pascoli esausti, la
necessità di fuggire la puntura di certe mosche perniciosissime,
ovvero il desiderio di seguire il nostro bizzarro equipaggio. Il paese
era abbastanza scoperto, e secondo la loro usanza, quando non sono
più in regioni boschive, quegli elefanti viaggiavano di pieno giorno.
Quando fosse venuta la notte si sarebbero fermati, come saremmo
stati costretti a fare anche noi?
— Capitano Hod — domandai al nostro amico — ecco che la
nostra retroguardia di elefanti aumenta! Persistete a non temere
nulla?
— Peuh! — disse il capitano Hod. — Perché mai quelle bestie
potrebbero farci del male? Non sono mica tigri, vero Fox?
— Nemmeno pantere! — rispose l'attendente, associandosi
naturalmente alle idee del suo padrone.
Ma, a questa risposta, vidi Kâlagani scuotere il capo in atto di
disapprovazione. Evidentemente egli non condivideva la perfetta
tranquillità dei due cacciatori.
— Non sembrate rassicurato, Kâlagani — gli disse Banks, che lo
guardava in quel momento.
— Non si può affrettare un po' la marcia del treno? — si
accontentò di rispondere l'indù.
— È difficile — rispose l'ingegnere. — Però, proveremo.
E Banks, lasciando la veranda posteriore, ritornò sulla torretta
dove stava Storr. Quasi subito i barriti del Gigante d'Acciaio
divennero più precipitosi, e la velocità del treno aumentò.
Era poco, poiché la strada era dura. Ma quand'anche tale velocità
fosse stata raddoppiata, lo stato delle cose non si sarebbe affatto
modificato. Il branco d'elefanti avrebbe accelerato il passo, ecco
tutto. È appunto quello che fece, e la distanza che lo separava dalla
Steam-House non diminuì.
Passarono così molte ore, senza nulla di nuovo. Dopo il pranzo,
tornammo a prender posto sotto la veranda del secondo vagone.
In quel momento, la strada si stendeva dietro a noi in linea retta
per due miglia almeno. Perciò lo sguardo non era più limitato da
brusche svolte.
Quale non fu la nostra serissima preoccupazione nel vedere che il
numero degli elefanti era cresciuto ancora da un'ora a questa parte!
Se ne contavano non meno di un centinaio.
Gli animali camminavano allora in fila doppia o tripla, secondo la
larghezza della strada, silenziosamente, tutti addirittura con lo stesso
passo, gli uni con la proboscide alzata, gli altri con le zanne in aria.
Era come il ribollimento del mare prodotto da grandi ondate di
fondo. Nulla rompeva ancora, per stare alla metafora; ma se una
tempesta avesse scatenato quella massa in movimento, a quali
pericoli saremmo stati esposti?
Frattanto a poco a poco scendeva la notte, una notte a cui
dovevano mancare la luce della luna e il bagliore delle stelle. Una
specie di nebbia correva negli alti strati del cielo.
Come aveva detto Banks, quando questa notte fosse stata
profonda, non sarebbe stato possibile ostinarsi a seguire quelle
difficili strade, sarebbe stato necessario fermarsi. L'ingegnere decise
dunque di fare sosta non appena uno slargo della vallata o qualche
fondo in una gola meno stretta avesse potuto permettere al branco
minaccioso di passare di fianco al treno e di proseguire la sua
migrazione verso sud.
Ma avrebbe poi fatto così, questo branco, oppure si sarebbe
accampato nel luogo in cui ci fossimo fermati noi?
Era questo il grosso interrogativo.
Fu del resto evidente che, con il cadere della notte, gli elefanti
manifestavano una certa apprensione di cui non avevamo notato
alcun sintomo durante il giorno. Una specie di muggito, poderoso ma
sordo, sfuggì dai loro ampi polmoni. Poi, a quel fracasso inquietante
seguì un altro rumore di tipo speciale.
— Che rumore è questo? — domandò il colonnello Munro.
— È il suono che questi animali producono, — rispose Kâlagani,
— quando qualche nemico si trova in loro presenza!
— E siamo noi, non possiamo essere che noi, che considerano
tali? — domandò Banks.
— Lo temo! — rispose l'indù.
Quel rumore somigliava allora a un tuono lontano. Ricordava
quello che si produce fra le quinte di un teatro facendo vibrare una
lamiera sospesa. Sfregando l'estremità della proboscide contro terra,
gli elefanti emettevano degli enormi sbuffi d'aria raccolta con una
aspirazione prolungata. Da ciò quella sonorità poderosa e profonda
che vi serrava il cuore come il brontolio del tuono.
Erano le nove di sera.
In quel luogo una specie di piccola pianura, quasi circolare, larga
circa mezzo miglio, serviva di sbocco alla via che conduceva al lago
Puturia, presso il quale Kâlagani aveva pensato di far porre il nostro
accampamento. Ma questo lago si trovava ancora a quindici
chilometri e bisognava rinunciare a raggiungerlo prima che
scendesse la notte.
Banks diede dunque il segnale di fermata. Il Gigante d'Acciaio si
arrestò, ma non venne staccato. I fuochi non vennero nemmeno spinti
in fondo al forno. Storr ricevette l'ordine di stare sempre sotto
pressione affinché il treno fosse in grado di partire al primo segnale.
Bisognava essere pronti a ogni eventualità.
Il colonnello Munro si ritirò nella sua cabina. Quanto a Banks e al
capitano Hod, non vollero coricarsi, e io preferii rimanere con loro.
Tutto il personale, del resto, era in piedi. Ma che cosa avremmo
potuto fare se agli elefanti fosse saltato il ticchio di gettarsi addosso
alla Steam-House?
Durante la prima ora di veglia, un sordo mormorio continuò a
propagarsi intorno all'accampamento. Evidentemente, quelle grandi
masse si spiegavano sulla piccola pianura. Volevano forse
attraversarla e proseguire il loro cammino verso sud?
— Può essere, in fin dei conti, — disse Banks.
— Anzi è probabile, — aggiunse il capitano Hod, il cui ottimismo
non faceva una piega.
Verso le undici circa, il rumore diminuì a poco a poco, e dieci
minuti dopo era cessato del tutto.
La notte, allora, era perfettamente calma. Il minimo suono sarebbe
giunto fino alle nostre orecchie. Non si udiva nulla, tranne il sordo
russare del Gigante d'Acciaio nell'ombra; non si vedeva nulla, tranne
il fascio di scintille che sfuggiva talvolta dalla sua proboscide.
— Ebbene, — disse il capitano Hod, — non avevo forse ragione?
Sono partiti, quei bravi elefanti!
— Buon viaggio! — risposi.
— Partiti! — rispose Banks, scuotendo il capo. — Lo vedremo!
— Poi, chiamando il macchinista:
— Storr, — disse, — i fanali!
— Subito, signor Banks!
Venti secondi dopo, due fasci di luce elettrica scaturivano dagli
occhi del Gigante d'Acciaio, e mediante un meccanismo automatico,
giravano verso tutti i punti dell'orizzonte.
Gli elefanti erano là, in gran cerchio, intorno alla Steam-House,
immobili come addormentati, e forse addormentati davvero. Quei
fari che illuminavano confusamente le loro masse cupe, sembravano
animarli di una vita soprannaturale. Per una semplice illusione ottica,
i mostri sui quali dardeggiava la luce assumevano proporzioni
gigantesche, degne di gareggiare con quelle del Gigante d'Acciaio.
Colpiti dai vivi bagliori, si alzavano di colpo come se fossero stati
toccati da un pungolo di fuoco. La loro proboscide si protendeva in
avanti, le loro zanne si drizzavano. Si sarebbe detto che volessero
slanciarsi all'assalto del treno. Rauchi brontolii uscivano dalle loro
ampie mascelle. Anzi, ben presto, quell'improvviso furore si
comunicò a tutti, e intorno al nostro accampamento si levò un
concerto assordante, come se cento tromboni avessero suonato
contemporaneamente un appello rimbombante.
— Spegni! — gridò Banks.
La corrente elettrica fu subito interrotta, e il sabba cessò quasi
subito.
— Sono là, schierati in cerchio, — disse l'ingegnere, — e saranno
ancora là all'alba!
— Uhm! — esclamò il capitano Hod, la cui fiducia mi parve un
po' scossa.
Che decisione prendere? Venne consultato Kâlagani, ed egli non
nascose la preoccupazione che provava.
Si poteva pensare a lasciare l'accampamento in quella notte buia?
Era impossibile. E del resto a che cosa sarebbe servito? Il branco
d'elefanti ci avrebbe certamente seguito e le difficoltà sarebbero state
maggiori che non durante il giorno.
Fu dunque stabilito che la partenza avrebbe avuto luogo solo
all'alba. Si sarebbe proceduto con tutta la prudenza e tutta la celerità
possibili, ma senza spaventare quel terribile corteo.
— E se questi animali si ostinano a seguirci? — domandai.
— Cercheremo di giungere in qualche luogo in cui la Steam House possa mettersi al di fuori della loro portata, — rispose Banks.
— Troveremo questo luogo prima di uscire dai Vindhya? — fece
il capitano Hod.
— Ce n'è uno, — rispose l'indù.
— Quale? — domandò Banks.
— Il lago Puturia.
— A che distanza si trova?
— A nove miglia circa.
— Ma gli elefanti nuotano, — rispose Banks, — e forse meglio di
qualsiasi altro quadrupede! Se ne sono visti di quelli che si sono
tenuti a galla per più di mezza giornata! Ora non c'è da temere che ci
seguano sul lago Puturia, e che la situazione della Steam-House
venga peggiorata ulteriormente?
— Non vedo altro mezzo per sottrarci al loro assalto! — disse
l'indù.
— Lo tenteremo dunque! — rispose l'ingegnere.
Era, infatti, la sola decisione da prendere. Forse, gli elefanti non
avrebbero osato avventurarsi a nuoto in quelle condizioni, e forse
avremmo anche potuto batterli in velocità!
Aspettammo ansiosamente il giorno, che non tardò a spuntare.
Nessuna dimostrazione ostile era stata fatta durante il resto della
notte; ma all'alba, non un elefante si era mosso, e la Steam-House era
circondata da ogni lato.
Sul luogo della sosta, allora, si verificò un movimento generale. Si
sarebbe detto che gli elefanti obbedissero a una parola d'ordine.
Agitarono la proboscide, sfregarono le zanne contro il suolo, fecero
la loro toeletta aspergendosi d'acqua fresca, terminarono di brucare
qua e là qualche manciata di un'erba fitta, di cui quel pascolo era
abbondantemente fornito, e infine si avvicinarono tanto alla SteamHouse, che sarebbe stato possibile raggiungerli con dei colpi di picca
attraverso le finestre.
Banks, ciononostante, ci fece l'espressa raccomandazione di non
provocarli. L'importante era di non offrire alcun pretesto per
un'aggressione improvvisa.
Frattanto, qualcuno di quegli elefanti stringeva più da vicino il
nostro Gigante d'Acciaio. Evidentemente, volevano sapere che cosa
fosse quell'enorme animale, allora immobile. Lo consideravano come
uno dei loro confratelli? Sospettavano che vi fosse in lui una potenza
meravigliosa? Il giorno prima non avevano avuto occasione di
vederlo all'opera, poiché le loro prime file si erano sempre tenute a
una certa distanza dietro il treno.
Ma che cosa avrebbero fatto quando lo avessero udito barrire,
quando la sua proboscide avesse gettato torrenti di vapore, quando lo
avessero visto sollevare e abbassare le larghe zampe articolate,
mettersi in moto, trascinarsi dietro i due vagoni?
Il colonnello Munro, il capitano Hod, Kâlagani e io avevamo
preso posto nella parte anteriore del treno. Il sergente Mac Neil e i
suoi compagni stavano in quella posteriore.
Kâlouth era davanti al forno della caldaia che continuava a
caricare di combustibile, benché la pressione del vapore avesse già
raggiunto le cinque atmosfere.
Banks, nella torretta, vicino a Storr, appoggiava la mano
sull'acceleratore.
Era venuto il momento di partire. A un cenno di Banks, il
macchinista spinse la leva della sirena, e si udì un fischio violento.
Gli elefanti rizzarono le orecchie; poi, indietreggiando un po',
lasciarono la via libera per alcuni passi.
Il fluido fu introdotto nei cilindri, un getto di vapore sgorgò dalla
proboscide, le ruote della macchina, messe in movimento,
azionarono le zampe del Gigante d'Acciaio, e il treno si mosse.
Nessuno dei miei compagni mi contraddirà se affermo che vi fu
dapprima un vivace movimento di stupore fra gli animali che si
stringevano nelle prime file. Fra di loro si aprì un passaggio più largo
e la via parve abbastanza sgombra da permettere d'imprimere alla
Steam-House una velocità pari a quella d'un cavallo al piccolo trotto.
Ma, subito, tutta la «massa proboscidata», espressione del
capitano Hod, si mosse davanti e dietro. I primi gruppi andarono in
testa al corteo, gli altri seguirono il treno. Tutti sembravano decisi a
non abbandonarlo.
Contemporaneamente sui lati della via, più larga in quel punto,
altri elefanti ci accompagnarono, come cavalieri agli sportelli di una
carrozza. Maschi e femmine si mischiavano; ce n'erano di tutte le
dimensioni, di tutte le età, adulti di venticinque anni, «uomini
maturi» di sessanta, vecchi pachidermi più che centenari, lattanti
presso le loro madri, che con le labbra applicate alle loro mammelle,
e non con la proboscide, come si è creduto a volte, poppavano
camminando. Tutto il branco conservava un certo ordine, non si
affrettava più del necessario, regolava il proprio passo su quello del
Gigante d'Acciaio.
— Che ci scortino così fino al lago, — disse il colonnello Munro,
— vi acconsento...
— Sì, — rispose Kâlagani, — ma che cosa accadrà quando la
strada si farà più stretta?
Là stava il pericolo.
Durante le tre ore impiegate per superare dodici dei quindici
chilometri che separavano l'accampamento dal lago Puturia, non
avvenne nessun incidente. Due o tre volte soltanto, alcuni elefanti si
erano portati attraverso la strada, come se avessero avuto intenzione
di sbarrarla; ma il Gigante d'Acciaio, con le zanne protese
orizzontalmente, mosse loro incontro, sputò loro in faccia il suo
vapore, e quelli si fecero da parte per lasciarlo passare.
Alle dieci del mattino, rimanevano da percorrere quattro o cinque
chilometri per giungere al lago. Là, almeno lo si sperava, saremmo
stati relativamente al sicuro.
S'intende che, se le dimostrazioni ostili dell'enorme branco non
fossero peggiorate prima del nostro arrivo al lago, Banks contava di
lasciare il Puturia a ovest, senza fermarvisi, in modo da uscire il
giorno seguente dalla regione dei Vindhya. Di là alla stazione di
Jubbulpore, non sarebbe più stato che questione di poche ore.
Aggiungerò che il paese era non solo molto selvaggio, ma
assolutamente deserto. Non un villaggio, non una fattoria (del che era
causa l'insufficienza dei pascoli), non una carovana, nemmeno un
viaggiatore. Dopo il nostro ingresso in quella parte montagnosa del
Bundelkund, non avevamo incontrato anima viva.
Verso le undici, la valle seguita dalla Steam-House, fra due
poderosi contrafforti della catena, cominciò a restringersi. Come
aveva detto Kâlagani, la strada doveva tornare strettissima fino al
punto in cui sboccava al lago.
La nostra situazione, già molto preoccupante, non poteva dunque
che aggravarsi ancora.
Infatti, se le file degli elefanti si fossero semplicemente allungate
davanti e dietro al treno, le difficoltà non sarebbero cresciute. Ma
quelli che camminavano ai lati, non potevano rimanervi; ci avrebbero
schiacciati contro le pareti rocciose della strada, oppure sarebbero
stati rovesciati nei precipizi che la costeggiavano in molti punti. Per
istinto, tentarono dunque di mettersi, sia in testa, sia in coda, e in
breve ne risultò che non fu più possibile andare né avanti né indietro.
— La cosa si complica, — disse il colonnello Munro.
— Sì, — rispose Banks, — ed eccoci nella necessità di sfondare
questa massa.
— Ebbene, sfondiamo, sfondiamo! — esclamò il capitano Hod.
— Che diavolo! Le zanne d'acciaio del nostro gigante valgono bene
le zanne di avorio di questi sciocchi animali!
I proboscidati non erano più che «sciocchi animali» per il
mutevole capitano!
— Senza dubbio, — rispose il sergente Mac Neil, — ma siamo
uno contro cento!
— Avanti ad ogni costo! — esclamò Banks, — oppure tutto
questo branco ci passerà sopra!.
Il vapore impresse un moto più rapido al Gigante d'Acciaio. Le
sue zanne colpirono la groppa di uno degli elefanti che gli stavano
davanti.
L'animale mandò un grido di dolore, a cui risposero i clamori
furenti di tutto il branco. Una lotta, di cui non si poteva prevedere il
risultato, era imminente.
Avevamo preso le nostre armi, i fucili carichi con proiettili conici,
le carabine cariche di proiettili esplosivi, le rivoltelle munite delle
cartucce. Bisognava essere pronti a respingere qualsiasi aggressione.
Il primo assalto venne da un maschio gigantesco, dall'aspetto
truce, che, con le zanne protese, le zampe posteriori saldamente
piantate sul suolo, si rivolse contro il Gigante d'Acciaio.
— Un gunesh! — esclamò Kâlagani.
— Bah! non ha che una zanna sola! — ribatté il capitano Hod, che
alzò le spalle in segno di disprezzo.
— Appunto per questo è più temibile! — rispose l'indù.
Kâlagani aveva dato a quell'elefante il nome di cui i cacciatori si
servono per designare i maschi che hanno una zanna sola. Sono
animali particolarmente riveriti dagli indù, soprattutto quando la
zanna che manca loro è la destra. Questo era uno di quelli, e, come
aveva detto Kâlagani, era temibilissimo, come tutti quelli della sua
specie.
E lo vedemmo bene. Il gunesh emise una lunga nota da trombone,
ripiegò la proboscide, di cui gli elefanti non si servono mai per
combattere, e si precipitò contro il nostro Gigante d'Acciaio.
La sua zanna colpì perpendicolarmente la lamiera del petto, la
attraversò da parte a parte; ma incontrando la grossa armatura interna
della caldaia, si spezzò di netto all'urto.
L'intero treno ne sentì la scossa. Ma la forza acquisita lo trascinò
avanti, e esso respinse il gunesh, che, affrontandolo, tentò invano di
resistere.
Ma il suo appello era stato udito e compreso. Tutta la massa
anteriore del branco si arrestò e presentò un insormontabile ostacolo
di carne vivente. Contemporaneamente, i gruppi posteriori,
continuando la loro marcia, si spinsero violentemente contro la
veranda. Come resistere a una simile forza schiacciante?
Frattanto, alcuni di quelli che avevamo ai fianchi, con le
proboscidi alzate, si aggrappavano ai montanti delle carrozze che
scrollavano con violenza.
Non bisognava fermarsi, o il treno era perduto, ma bisognava
difendersi. L'esitazione non era più possibile. Fucili e carabine
furono puntati contro gli assalitori.
— Non perdete un colpo! — gridò il capitano Hod. — Amici
miei, mirate all'attaccatura della proboscide o nel cavo sotto l'occhio.
È il punto migliore!
Il capitano Hod fu ubbidito. Si udirono molti spari, che furono
seguiti da urla di dolore.
Tre o quattro elefanti, colpiti al punto giusto, erano caduti, dietro e
ai fianchi, e fu una fortuna, poiché i cadaveri non ostruivano la
strada. I primi gruppi avevano indietreggiato un poco, e il treno poté
continuare la sua marcia.
— Ricaricate e aspettate! — gridò il capitano Hod.
Se ciò che egli ordinava di aspettare era l'assalto di tutto il branco
in massa, l'attesa non fu lunga. Esso avvenne con un impeto tale che
ci credemmo perduti.
Un concerto di urla furiose e rauche scoppiò improvvisamente. Si
sarebbero detti di quegli elefanti da combattimento che gli indù, con
un trattamento particolare, portano a quell'eccitamento di rabbia
chiamato musth. Nulla è più tremendo, ed i più audaci elefantadors,
addestrati nel Guicowar per lottare contro questi formidabili animali,
avrebbero certamente indietreggiato davanti agli assalitori della
Steam-House.
— Avanti! — gridava Banks.
— Fuoco! — gridava Hod.
E ai barriti precipitosi della macchina si univano le detonazioni
delle armi. Ma in quella massa confusa diventava difficile mirare
giusto, come aveva raccomandato il capitano. Ogni pallottola trovava
si un pezzo di carne da forare, ma non colpiva mortalmente. Perciò
gli elefanti, feriti, raddoppiavano di furore, e alle nostre fucilate
rispondevano con dei colpi di zanne che sventravano le pareti della
Steam - House.
Frattanto, agli spari delle carabine scaricate sia dal davanti sia dal
retro del treno, allo scoppio dei proiettili esplosivi nel corpo degli
animali, si univano i fischi del vapore, surriscaldato per il tiraggio
forzato. La pressione aumentava sempre. Il Gigante d'Acciaio
entrava
nel
mucchio,
lo
divideva,
lo
respingeva.
Contemporaneamente la sua proboscide mobile, alzandosi ed
abbassandosi come una formidabile mazza, picchiava a colpi reiterati
sulla massa carnosa che le sue zanne laceravano.
E si avanzava per la stretta via. A volte, le ruote slittavano sulla
superficie del suolo, ma finivano con il morderla di nuovo con i loro
cerchioni rigati, e noi guadagnavamo strada verso il lago.
— Hurrah! — gridava il capitano Hod, come un soldato che si
getta nel più folto della mischia.
— Hurrah! Hurrah! — gridavamo dopo di lui.
Ma, quasi subito, una proboscide si abbatte sulla veranda
anteriore. Vedo l'attimo in cui il colonnello Munro, sollevato da quel
lasso vivente, sta per essere precipitato sotto i piedi degli elefanti. E
così sarebbe avvenuto, senza l'intervento di Kâlagani, che tagliò la
proboscide con un vigoroso colpo di scure.
Dunque, pur prendendo parte alla difesa comune, l'indù non
perdeva di vista sir Edward Munro. Con questa devozione alla
persona del colonnello, devozione che non si era mai smentita, egli
sembrava comprendere che di tutti noi era lui quello che bisognava
proteggere prima di tutto.
Ah! che potenza conteneva nei suoi fianchi il nostro Gigante
d'Acciaio! Con quale sicurezza si cacciava nella massa, come un
cuneo, la cui forza di penetrazione è, per così dire, infinita! E
siccome nello stesso tempo gli elefanti della retroguardia ci
spingevano con la testa, il treno continuava ad avanzare senza soste,
se non senza scosse, e procedeva anzi più presto di quanto avessimo
potuto sperare.
Improvvisamente, in mezzo al fracasso generale, si udì un nuovo
rumore. Era la seconda carrozza che un gruppo di elefanti
cominciava a schiacciare contro le rupi della strada.
— Raggiungeteci! raggiungeteci! — gridò Banks a quelli dei
nostri compagni che difendevano la parte posteriore della SteamHouse.
Goûmi, il sergente e Fox erano passati precipitosamente dalla
seconda carrozza nella prima.
— E Parazard? — disse il capitano Hod.
— Non vuol lasciare la sua cucina, — rispose Fox.
— Portatelo via! portatelo via!
Senza dubbio, il nostro cuoco pensava che sarebbe stato un
disonore per lui abbandonare il posto che gli era stato affidato. Ma
voler resistere alle braccia vigorose di Goûmi, quando quelle braccia
si mettevano all'opera, sarebbe stato come pretendere di sfuggire a
una tenaglia. Il signor Parazard fu dunque deposto nella sala da
pranzo.
— Ci siete tutti? — gridò Banks.
— Sì, signore, — rispose Goûmi.
— Tagliate la barra di aggancio!
— Abbandonare metà del treno!... — esclamò il capitano Hod.
— È necessario! — rispose Banks.
E, tagliata la barra, spezzata la passerella a colpi di scure, la nostra
seconda carrozza rimase indietro.
Era tempo. La carrozza venne scossa, sollevata, poi rovesciata, e
gli elefanti, gettandovisi sopra, finirono di schiacciarla con tutto il
loro peso. Essa non era più che un rudere informe, che ormai ostruiva
la strada retrostante.
— Mah! — disse il capitano Hod con un tono che ci avrebbe fatto
ridere se il momento fosse stato opportuno, — e dire che questi
animali non schiaccerebbero nemmeno un insetto!
Se gli elefanti, infuriati, avessero trattato la prima carrozza come
avevano trattato la seconda, non c'era più da farsi illusioni sulla sorte
che ci aspettava.
— Forza i fuochi, Kâlouth! — gridò l'ingegnere.
Mezzo chilometro ancora, un ultimo sforzo, e forse saremmo
giunti al lago Puturia!
Quest'ultimo sforzo che ci aspettavamo dal Gigante d'Acciaio, il
poderoso animale lo fece sotto la mano di Storr, che azionò fino in
fondo l'acceleratore. Fece una vera breccia attraverso quel bastione di
elefanti, le cui groppe si disegnavano sopra la massa come quelle
enormi groppe di cavalli che si vedono nei quadri di battaglia di
Salvator Rosa. Poi, egli non si accontentò di tormentarli con le sue
zanne; lanciò contro di loro dei getti di vapore ardente, come aveva
fatto con i pellegrini del Phalgu, li sferzò con altri getti d'acqua
bollente!... Era magnifico!
Finalmente il lago apparve all'ultima svolta della strada.
Se avesse potuto resistere ancora dieci minuti, il nostro treno si
sarebbe trovato relativamente al sicuro.
Gli elefanti, senza dubbio, lo capirono, il che era una prova in
favore della loro intelligenza, di cui il capitano Hod aveva difeso la
causa. Ancora una volta vollero rovesciare la nostra carrozza.
Ma le armi da fuoco tuonarono di nuovo, i proiettili grandinarono
fino sui primi gruppi. Solo cinque o sei elefanti ci sbarravano ancora
il passaggio. Caddero quasi tutti, e le ruote stridettero su un terreno
arrossato di sangue.
A cento passi dal lago, bisognò respingere quei pochi animali che
formavano un ultimo ostacolo.
— Ancora! ancora! — gridò Banks al macchinista.
Il Gigante d'Acciaio ruggiva come se avesse contenuto un'officina
di aspatrici meccaniche nei suoi fianchi. Il vapore sfuggiva dalle
valvole a una pressione di otto atmosfere. Per poco che le si fossero
caricate ancora, si sarebbe fatta scoppiare la caldaia, le cui lamiere
fremevano. Fu inutile, fortunatamente. La forza del Gigante
d'Acciaio era ormai irresistibile; si sarebbe potuto credere che
spiccasse dei balzi sotto i colpi di stantuffo. Ciò che rimaneva del
treno lo seguì, schiacciando le membra degli elefanti buttati a terra, a
rischio di capovolgersi. Se fosse avvenuto un accidente simile, tutti
gli ospiti della Steam-House sarebbero stati spacciati.
Ma non accadde; la riva del lago fu finalmente raggiunta, e il
treno galleggiò poco dopo sulle acque tranquille.
— Dio sia lodato! — disse il colonnello Munro.
Due o tre elefanti, accecati dal furore, si precipitarono nel lago e
tentarono di inseguire sulla sua superficie coloro che non avevano
potuto annientare sulla terraferma.
Ma le zampe del Gigante d'Acciaio fecero il loro dovere. Il treno
si allontanò a poco a poco dalla riva e alcuni ultimi proiettili, ben
diretti, ci liberarono di quei «mostri marini» nel momento in cui le
loro proboscidi stavano per piombare sulla veranda posteriore.
— Ebbene, capitano,,— esclamò Banks, — che ne pensate della
mitezza degli elefanti indiani?
— Peuh! — disse il capitano Hod, — non valgono le belve!
Mettetemi soltanto una trentina di tigri al posto di quel centinaio di
pachidermi, e voglio perdere il mio grado se a quest'ora uno solo di
noi sarebbe ancora in vita per raccontare l'avventura!
CAPITOLO X
IL LAGO PUTURIA
IL LAGO Puturia, sul quale la Steam-House aveva trovato
provvisoriamente rifugio, è situato a quaranta chilometri circa a est di
Dumoh. Questa città, capoluogo della provincia inglese a cui dà il
suo nome, sta prosperando, e con i suoi dodicimila abitanti, rinforzati
da una piccola guarnigione, comanda questa pericolosa parte del
Bundelkund. Ma, al di là delle sue mura, soprattutto verso la parte
orientale del paese, nella regione più incolta dei Vindhya, di cui il
lago occupa il centro, la sua influenza si fa sentire a stento.
In fin dei conti che cosa ci poteva accadere ormai di peggio di
quell'incontro di elefanti, da cui eravamo riusciti a uscire sani e
salvi?
La situazione, tuttavia, non cessava di essere preoccupante, poiché
la maggior parte del nostro materiale era scomparsa. Una delle
carrozze componenti il treno della Steam-House era distrutta. Non
c'era nessun mezzo di «rimetterla a galla» per usare un'espressione
del linguaggio marinaresco. Rovesciata a terra, schiacciata contro le
rocce, della sua carcassa, sulla quale era passata inevitabilmente la
massa degli elefanti, non dovevano più rimanere che avanzi informi.
Ma, oltre a servire ad alloggiare il personale della spedizione,
quella carrozza conteneva non solo la cucina e la dispensa, ma anche
le provviste di cibo e di munizioni. Di queste ultime ci rimanevano
soltanto una dozzina di cartucce, ma non era probabile che
dovessimo fare uso delle armi da fuoco prima del nostro arrivo a
Jubbulpore.
Quanto al cibo, era un altro problema e di più difficile soluzione.
Infatti non rimaneva più nulla delle provviste della dispensa. Pur
ammettendo che la sera successiva fossimo giunti alla stazione,
lontana ancora settanta chilometri, ci si sarebbe dovuti rassegnare a
passare ventiquattro ore senza mangiare.
In fede mia, ci saremmo rassegnati!
In questa circostanza, il più desolato di tutti fu naturalmente il
signor Parazard. La perdita della sua dispensa, la distruzione del suo
laboratorio, la dispersione delle sue provviste, lo avevano colpito al
cuore. Egli non nascose la propria disperazione e, dimenticando i
pericoli ai quali eravamo quasi miracolosamente sfuggiti, si mostrò
preoccupato solo della situazione personale in cui si trovava.
Dunque, nel momento in cui, riuniti nel salotto, stavamo per
discutere le decisioni che si dovevano adottare in quelle circostanze,
il signor Parazard, sempre solenne, apparve sulla soglia e chiese di
«fare una comunicazione importantissima».
— Parlate, signor Parazard, — gli rispose il colonnello Munro,
invitandolo a entrare.
— Signori, — disse gravemente il nostro cuoco negro, — voi
sapete certamente che tutto il materiale che la seconda abitazione
della Steam-House portava è stato distrutto in questa catastrofe! E se
anche ci fosse rimasta qualche provvista, sarei stato molto
imbarazzato, in mancanza di cucina, per prepararvi un pasto, per
modesto che fosse.
— Lo sappiamo, signor Parazard, — rispose il colonnello Munro.
— È una cosa spiacevole, ma faremo come potremo e digiuneremo
se bisognerà digiunare.
— La cosa è tanto più spiacevole, infatti, signori, — soggiunse il
nostro cuoco, — in quanto che, alla vista di quei gruppi d'elefanti che
ci assalivano e più d'uno dei quali è caduto sotto i vostri proiettili
mortiferi...
— Bella frase, signor Parazard! — disse il capitano Hod. — In
poche lezioni riuscirete a esprimervi con la stessa eleganza del nostro
amico Mathias Van Guitt.
Il signor Parazard s'inchinò a quel complimento che prese molto
sul serio, e dopo un sospiro continuò così:
— Dicevo dunque, signori, che mi era offerta un'occasione unica
per distinguermi nelle mie funzioni. La carne d'elefante, checché se
ne sia potuto pensare, non è buona in tutte le sue parti, alcune delle
quali sono incontestabilmente dure e coriacee; ma sembra che
l'Autore di tutte le cose abbia voluto riservare, in quella massa
carnosa, due pezzi di prima qualità, degni di essere serviti alla mensa
del viceré delle Indie. Dico la lingua dell'animale, che è
saporitissima, quando è preparata con una ricetta la cui applicazione
mi è esclusivamente personale, e i piedi del pachiderma...
— Pachiderma?... Benissimo, benché proboscidato sia più
elegante, — disse il capitano Hod, approvando col gesto.
— ... piedi, — soggiunse il signor Parazard, — con i quali si fa
una delle migliori zuppe conosciute in quell'arte culinaria di cui sono
il rappresentante nella Steam-House.
— Ci fate venire l'acquolina in bocca, signor Parazard, — rispose
Banks. — Disgraziatamente da una parte, e fortunatamente dall'altra,
gli elefanti non ci hanno seguito sul lago, e temo proprio che si debba
rinunciare, per qualche tempo almeno, alla zuppa di piede e agli
intingoli di lingua di questo saporito ma terribile animale.
— Non sarebbe possibile, — propose il cuoco, — tornare a terra
per procurarsi?...
— Non è possibile, signor Parazard. Per squisite che avrebbero
potuto essere le vostre preparazioni, non possiamo correre questo
rischio.
— Ebbene, signori, — soggiunse il nostro cuoco, — vogliate
ricevere l'espressione di tutti i rammarichi che mi fa provare questa
deplorevole avventura.
— I vostri rammarichi sono stati espressi, signor Parazard, —
rispose il colonnello Munro, — e ve ne diamo atto. Quanto al pranzo
e alla colazione, non preoccupatevene prima del nostro arrivo a
Jubbulpore.
— Non mi rimane dunque che ritirarmi, — disse il signor
Parazard, inchinandosi, senza perder nulla della sua solita gravità.
Avremmo riso volentieri dell'atteggiamento del nostro cuoco, se
non avessimo dovuto affrontare altre preoccupazioni.
Infatti, una complicazione si era aggiunta a tutte le altre. Banks ci
fece sapere che in quel momento la cosa più spiacevole non era la
mancanza di viveri o di munizioni, ma la mancanza di combustibile.
Non c'era da stupirsi di ciò, poiché da quarantotto ore non era stato
possibile rinnovare la provvista di legna necessaria all'alimentazione
della macchina. Tutta la riserva era consumata al nostro arrivo sul
lago. Se ci fosse stato necessario camminare un'ora di più, sarebbe
stato impossibile giungervi, e la prima carrozza della Steam-House
avrebbe avuto la stessa sorte della seconda.
— Ora, — aggiunse Banks, — non abbiamo più nulla da bruciare,
la pressione cala, è già scesa a due atmosfere, e non c'è mezzo per
aumentarla!
— La situazione è dunque grave quanto pare che tu creda, Banks?
— domandò il colonnello Munro.
— Se si trattasse soltanto di tornare alla riva, da cui siamo ancora
poco lontani, — rispose Banks, — sarebbe cosa fattibile. Un quarto
d'ora basterebbe a ricondurci là. Ma tornare dove il branco di elefanti
è ancora senza dubbio riunito, sarebbe troppo imprudente. No,
bisogna invece attraversare il Puturia e cercare un punto di sbarco
sulla sua riva sud.
— Quale può essere la larghezza del lago in questo luogo? —
domandò il colonnello Munro.
— Kâlagani calcola questa distanza a sette o otto miglia circa.
Ora, nelle condizioni in cui ci troviamo, sarebbero necessarie molte
ore per superarla, e, ve lo ripeto, fra quaranta minuti la macchina non
sarà più in condizioni di funzionare.
— Ebbene, — rispose sir Edward Munro, — passiamo
tranquillamente la notte sul lago; qui siamo al sicuro. Domani
provvederemo.
Era il meglio che ci rimanesse da fare. Del resto, avevamo un gran
bisogno di riposo. All'ultimo luogo di sosta, circondati da quel
cerchio di elefanti, nessuno aveva potuto dormire nella Steam-House,
e la notte era stata, come si suol dire, una notte bianca.
Ma se quella era stata bianca, questa doveva essere nera, più nera
del necessario.
Infatti, verso le sette, sul lago cominciò ad alzarsi una leggera
nebbia. Si ricorderà che fitte nebbie correvano già negli alti strati del
cielo fin dalla notte precedente. Qui, si era verificata una modifica,
dovuta alle differenze di località. Se all'accampamento degli elefanti,
quei vapori si erano mantenuti alcune centinaia di piedi al di sopra
del suolo, non fu lo stesso alla superficie del Puturia, a causa
dell'evaporazione delle acque. Dopo una giornata piuttosto calda, gli
alti e i bassi strati dell'atmosfera si confusero fra loro e tutto il lago
non tardò a sparire sotto una nebbia, poco fitta dapprima, ma che si
addensava sempre più.
Ecco dunque, come aveva detto Banks, una complicazione di cui
bisognava tener conto.
Come egli aveva pure annunciato, verso le sette e mezzo si
udirono gli ultimi gemiti del Gigante d'Acciaio, i colpi di stantuffo
divennero meno rapidi, le zampe articolate cessarono di battere
l'acqua, e la pressione scese al disotto di un'atmosfera. Non c'era più
combustibile né alcun mezzo di procurarsene.
Il Gigante d'Acciaio e l'unica carrozza che rimorchiava allora
galleggiavano tranquillamente sulle acque del lago, ma non si
movevano più.
In simili condizioni, in mezzo alle nebbie, sarebbe stato difficile
rilevare esattamente la nostra posizione. Nel poco tempo che la
macchina aveva funzionato, il treno si era diretto verso la riva sud-est
del lago, per cercarvi un punto di sbarco. Ora, siccome il Puturia ha
la forma di un ovale piuttosto allungato, era possibile che la SteamHouse non fosse più molto lontana dall'una o dall'altra delle sue rive.
È chiaro che le grida degli elefanti che ci avevano inseguito per
un'ora circa, spente ora in lontananza, non si facevano più udire.
Discutevamo dunque delle diverse eventualità che ci riservava
quella nuova situazione. Banks fece chiamare Kâlagani che voleva
consultare.
L'indù venne subito e fu invitato a dare il suo parere.
Eravamo riuniti allora nella sala da pranzo, che, ricevendo la luce
dal lucernario superiore, non aveva finestre laterali. In questo modo,
il bagliore delle lampade accese non poteva trasmettersi all'esterno.
Precauzione utile, poiché era meglio che la posizione della SteamHouse non fosse nota ai banditi che percorrevano forse le rive del
lago.
Kâlagani sembrò dapprima esitare a rispondere alle domande che
gli vennero fatte, almeno così mi parve. Si trattava di stabilire la
posizione che doveva occupare il treno galleggiante sulle acque del
Puturia, e mi rendo conto che la risposta doveva essere imbarazzante.
Poteva darsi che una debole brezza di nord-ovest avesse agito sulla
massa della Steam-House. Forse anche una leggera corrente ci
trascinava verso la punta inferiore del lago.
— Vediamo, Kâlagani, — disse Banks insistendo, — voi
conoscete perfettamente l'estensione del Puturia?
— Senza dubbio, signore, — rispose l'indù, — ma è difficile, in
mezzo a questa nebbia...
— Potete stimare approssimativamente la distanza a cui ci
troviamo in questo momento dalla riva più vicina?
— Sì, — rispose l'indù, dopo averci pensato per qualche tempo.
— Questa distanza non deve superare il miglio e mezzo.
— Verso est? — domandò Banks.
— Verso est.
— Dunque, se ci accostassimo a questa riva, saremmo più vicini a
Jubbulpore che a Dumoh?
— Certamente.
— Dunque è a Jubbulpore che bisognerebbe rifare
l'approvvigionamento, — disse Banks. — Ora, chissà quando e come
potremo giungere alla riva! La cosa può durare un giorno, due giorni,
e le nostre provviste sono esaurite!
— Ma, — disse Kâlagani — non si potrebbe tentare, o almeno,
uno di noi non potrebbe tentare di recarsi a terra questa notte stessa?
— E come?
— Raggiungendo la riva a nuoto.
— Un miglio e mezzo, in questa fitta nebbia! — rispose Banks. —
Sarebbe rischiare la vita...
— Non è una ragione per non tentarlo, — rispose l'indù.
Non so perché, mi parve ancora che la voce di Kâlagani non
avesse la sua franchezza consueta.
— Tentereste di attraversare il lago a nuoto? — domandò il
colonnello Munro che osservava attentamente l'indù.
— Sì, colonnello, e credo che vi riuscirei.
— Ebbene, amico mio, — soggiunse Banks — ci fareste un gran
servizio! Una volta a terra, vi sarebbe facile giungere alla stazione di
Jubbulpore e condurci i soccorsi di cui abbiamo bisogno.
— Sono pronto a partire! — rispose semplicemente Kâlagani.
Mi aspettavo che il colonnello Munro ringraziasse la nostra guida,
che si offriva di compiere un'impresa così pericolosa; ma, dopo
averla guardata ancora più attentamente, egli chiamò Goûmi.
Goûmi comparve subito.
— Goûmi — disse sir Edward Munro — tu sei un bravo
nuotatore?
— Sì, colonnello.
— Un miglio e mezzo da fare, stanotte, sulle acque calme del
lago, non ti darebbero fastidio?
— Né un miglio, né due.
— Ebbene, — soggiunse il colonnello Munro — ecco Kâlagani
che si offre di recarsi a nuoto alla riva più vicina a Jubbulpore. Ora,
tanto sul lago quanto in questa parte del Bundeikund, due uomini
intelligenti e arditi, che possano aiutarsi a vicenda, hanno maggiori
probabilità di riuscita. Vuoi accompagnare Kâlagani?
— Subito, colonnello — rispose Goûmi.
— Non ho bisogno di nessuno, — ribatté Kâlagani — ma se il
colonnello Munro ci tiene, accetto volentieri Goûmi per compagno.
— Andate dunque, amici miei, — disse Banks — e siate prudenti
quanto siete coraggiosi.
Stabilito ciò, il colonnello Munro, prendendo Goûmi in disparte,
gli fece alcune raccomandazioni, brevemente formulate. Cinque
minuti dopo, i due indù, con un pacco di abiti legato sul capo, si
tuffarono nelle acque del lago. La nebbia era molto fitta allora, e
poche bracciate bastarono a farli scomparire.
Domandai allora al colonnello Munro perché si era mostrato così
desideroso di dare un compagno a Kâlagani.
— Amici miei, — rispose sir Edward Munro — le risposte di
quell'indù, della cui fedeltà finora non ho mai sospettato, non mi
sono sembrate sincere!
— Ho provato la stessa impressione anch'io — dissi.
— Io, invece, non ho osservato nulla... — fece notare l'ingegnere.
— Ascolta, Banks — riprese il colonnello Munro. — Offrendoci
di recarsi a terra, Kâlagani aveva un secondo fine.
— Quale?
— Non so, ma se ha chiesto di sbarcare non è per andare a cercare
soccorsi a Jubbulpore.
— Eh! — esclamò il capitano Hod.
Banks guardava il colonnello corrugando le sopracciglia, poi:
— Munro, — disse, — finora questo indù si è sempre mostrato
affezionatissimo, e specialmente verso di te! Oggi tu pretendi che
Kâlagani ci tradisce! Che prova hai?
— Mentre Kâlagani parlava, — rispose il colonnello Munro, —
ho visto la sua pelle farsi più scura, e quando le persone dalla pelle
ramata si fanno più scure, è segno che mentono! Venti volte ho
potuto confondere a questo modo indù e bengalesi, e non mi sono
mai ingannato. Ripeto dunque che Kâlagani, nonostante tutto quello
che si può pensare in suo favore, non ha detto la verità.
Questa osservazione di sir Edward Munro, l'ho spesso constatato
in seguito, era fondata.
Quando mentono, gli indù diventano leggermente più scuri, così
come i bianchi arrossiscono. Questo sintomo non era potuto sfuggire
alla perspicacia del colonnello, e bisognava tener conto della sua
osservazione.
— Ma quali sarebbero dunque i piani di Kâlagani, — domandò
Banks, — e perché dovrebbe tradirci?
— È quanto sapremo più tardi... — rispose il colonnello Munro,
— troppo tardi forse!
— Troppo tardi, colonnello! — esclamò il capitano Hod. — Non
siamo ancora perduti, immagino!
— In ogni caso, Munro, — soggiunse l'ingegnere, — hai fatto
bene a dargli Goûmi per compagno. Quello ci sarà fedele fino alla
morte; svelto, intelligente, se sospetta qualche pericolo, saprà...
— Tanto più, — rispose il colonnello Munro, — che è avvertito e
che diffiderà del suo compagno.
— Bene, — disse Banks. — Ora, non ci rimane che aspettare il
giorno. Questa nebbia si alzerà senza dubbio con il sole, e allora
vedremo che cosa dovremo decidere.
Aspettare, sì! Quella notte doveva dunque passare ancora in
completa insonnia.
La nebbia era diventata più fitta, ma nulla faceva presagire
l'avvicinarsi del cattivo tempo. Era una fortuna, poiché, se il nostro
treno poteva galleggiare, non era fatto per «tenere il mare»! Si poteva
dunque sperare che tutte quelle bollicine di vapore si sarebbero
condensate all'alba, il che avrebbe assicurato una bella giornata per
domani.
Dunque, mentre il nostro personale si sistemava nella sala da
pranzo, noi ci sdraiammo sui divani del salotto, chiacchierando poco,
ma prestando orecchio a tutti i rumori esterni.
Di colpo, verso le due dopo la mezzanotte, un concerto di belve
venne a turbare il silenzio della notte.
La riva era dunque là, in direzione sud-est, ma doveva essere
ancora abbastanza lontana. Quegli urli erano assai indeboliti da una
distanza che Banks stimò non inferiore a un buon miglio. Una frotta
d'animali selvatici, senza dubbio, era venuta a dissetarsi alla punta
estrema del lago.
Ma, ben presto fu anche accertato che, sotto l'influenza di una
brezza leggera, il treno galleggiante si dirigeva verso la riva, in modo
lento ma continuo. Infatti, non solo quelle grida giungevano più
distinte alle nostre orecchie, ma si distingueva già il cupo ruggito
della tigre dall'urlo rauco delle pantere.
— Eh! — non poté trattenersi dal dire il capitano Hod, — che
bell'occasione per ammazzare la mia cinquantesima!
— Un'altra volta, capitano! — rispose Banks. — Spuntato il
giorno, gradirei pensare che, nel momento in cui ci avvicineremo alla
riva, questa frotta di belve ci avrà ceduto il posto!
— Ci sarebbe qualche inconveniente, — domandai, — ad
azionare i fanali elettrici?
— Non credo, — rispose Banks. — Questa parte della riva molto
probabilmente è occupata solo da animali che stanno bevendo. Non
vi è dunque alcun inconveniente nel tentare di riconoscerli.
E, a un ordine di Banks, due fasci luminosi furono proiettati nella
direzione di sud-est. Ma la luce elettrica, impotente a trafiggere
quella fitta nebbia, non poté illuminarla che per un breve settore
davanti alla Steam-House, e la riva rimase assolutamente invisibile ai
nostri sguardi.
Frattanto, quegli urli, la cui intensità cresceva a poco a poco,
indicavano che il treno continuava ad andare alla deriva sulla
superficie del lago. Evidentemente, gli animali rimasti in quel luogo
dovevano essere numerosissimi. In ciò non c'era nulla di
straordinario, poiché il lago Puturia è come un abbeveratoio naturale
per le belve di questa parte del Bundelkund.
— Purché Goûmi e Kâlagani non siano caduti in mezzo a tutte
quelle belve! — disse il capitano Hod.
— Non sono le tigri che temo per Goûmi! — rispose il colonnello
Munro.
Decisamente, i sospetti non avevano fatto che crescere nell'animo
del colonnello, e cominciavo a esserne impressionato anch'io.
Eppure, i buoni uffici di Kâlagani, dal nostro arrivo nella regione
dell'Himalaya, i suoi servizi incontestabili, la sua devozione nelle
due circostanze in cui aveva arrischiato la vita per sir Edward Munro
e per il capitano Hod, tutto testimoniava a suo favore. Ma quando
l'animo si lascia trascinare al dubbio, il valore dei fatti compiuti si
altera, là loro fisionomia muta, si dimentica il passato, si teme per
l'avvenire.
Pure, quale movente poteva spingere quell'indù a tradirci? Aveva
dei motivi di odio personale contro gli ospiti della Steam-House? No,
certamente! Perché avrebbe dovuto attirarli in un tranello? Era
inesplicabile. Ognuno si abbandonava dunque a pensieri molto
confusi, e attendevamo con impazienza di vedere gli sviluppi di
quella situazione.
A un tratto, verso le quattro del mattino, gli animali smisero
bruscamente le loro grida. Ciò che ci colpì tutti quanti è che essi non
sembravano essersi allontanati a poco a poco, gli uni dopo gli altri,
emettendo un ultimo grido dopo l'ultima bevuta. No, la cosa si
verificò da un momento all'altro. Si sarebbe detto che una circostanza
fortuita li avesse turbati nella loro operazione costringendoli a
fuggire. Evidentemente, tornavano nelle loro tane, non come belve
che vi rientrano, ma come belve che vi si rifugiano.
Il silenzio era dunque seguito al rumore senza transizione. La
causa di questo fenomeno ci sfuggiva ancora, ma aumentava la
nostra preoccupazione.
Per prudenza, Banks diede l'ordine di spegnere i fanali. Se gli
animali erano fuggiti davanti a qualche banda di quei banditi di
strada che battono il Bundelkund e i Vindhya, bisognava nascondere
loro accuratamente la posizione della Steam-House.
Il silenzio, oramai, non era più turbato nemmeno dal rumore
dell'acqua: il vento era cessato, ed era impossibile sapere se il treno
continuasse a andare alla deriva sotto la spinta della corrente. Ma non
poteva tardare a farsi giorno, e il sole, senza dubbio, avrebbe
spazzato quelle nebbie, che occupavano solo gli strati bassi
dell'atmosfera.
Guardai il mio orologio: erano le cinque. Senza la nebbia, l'alba
già avrebbe allargato il cerchio visivo di qualche miglio. La riva
avrebbe dunque dovuto essere in vista; ma il velo non si lacerava e
bisognava aver pazienza ancora.
Il colonnello Munro, Mac Neil e io davanti al salotto, Fox,
Kâlouth e il signor Parazard dietro la sala da pranzo, Banks e Storr
nella torretta, il capitano Hod appollaiato sul dorso del gigantesco
animale, vicino alla proboscide, come un marinaio di guardia sulla
prua di una nave, aspettavamo che qualcuno di noi gridasse: Terra!
Verso le sei, si levò una brezzolina, appena sensibile, ma che ben
presto rinfrescò. I primi raggi del sole trapassarono la nebbia, e
l'orizzonte si scoprì ai nostri sguardi.
La riva apparve verso sud-est. Essa formava all'estremità del lago
una specie di ansa profonda con grandi boschi sullo sfondo. I vapori
salirono a poco a poco, e lasciarono vedere in fondo delle montagne,
le cui vette si delinearono rapidamente.
— Terra! — aveva gridato il capitano Hod.
Il treno galleggiante non era allora a più di duecento metri dal
fondo dell'ansa del Puturia, e andava alla deriva spinto dalla brezza
che soffiava da nord-ovest.
Nulla su quella riva. Né un animale né un essere umano.
Sembrava assolutamente deserta. Non una casa, del resto, non una
fattoria sotto il fitto, fogliame dei primi alberi; sembrava dunque che
si potesse approdare senza pericolo.
Con l'aiuto del vento, l'approdo fu facile, presso una riva piatta
come un greto di sabbia. Ma, mancando il vapore, non era possibile
né risalirla né lanciarsi su una strada che, consultando la direzione
data dalla bussola, doveva essere la via di Jubbulpore.
Senza perdere un istante, avevamo seguito il capitano Hod, che,
per primo, era balzato a terra.
— In cerca di combustibile! — gridò Banks. — Fra un'ora saremo
in pressione, e avanti!
La raccolta era facile. Legna ce n'era dappertutto per terra, ed era
abbastanza secca da poter venire utilizzata subito. Bastava dunque
riempirne il forno e caricarne il tender.
Tutti si diedero da fare. Solo Kâlouth rimase davanti alla caldaia
mentre noi raccoglievamo combustibile sufficiente per ventiquattro
ore. Era più di quanto occorresse per giungere alla stazione di
Jubbulpore, dove il carbone non ci sarebbe mancato. Quanto al cibo,
il cui bisogno si faceva sentire, non sarebbe stato certamente proibito
ai cacciatori della spedizione di procurarlo durante la marcia. Il
signor Parazard avrebbe preso a prestito il fuoco da Kâlouth e, o bene
o male, avremmo saziato la nostra fame.
Tre quarti d'ora dopo, il Gigante d'Acciaio si metteva in moto, e
saliva finalmente la scarpata della riva all'imbocco della strada.
— A Jubbulpore! — gridò Banks.
Ma Storr non aveva avuto il tempo di cominciare ad azionare
l'acceleratore, che sul ciglio della foresta scoppiarono delle grida
furibonde. Una turba di centocinquanta indù almeno si gettava sulla
Steam-House. La torretta del Gigante d'Acciaio, la carrozza, tanto
davanti quanto di dietro, erano invase, prima ancora che avessimo
potuto raccapezzarci!
Quasi subito, gli indù ci trascinavano a cinquanta passi dal treno,
ed eravamo messi nell'impossibilità di fuggire.
Si immagini la nostra collera, la nostra rabbia, alla scena di
distruzione e di saccheggio che seguì. Gli indù, con la scure in mano,
si precipitarono all'assalto della Steam-House. Tutto fu saccheggiato,
devastato, distrutto. Dell'arredamento interno ben presto non rimase
più nulla! Poi, il fuoco terminò l'opera di distruzione, ed in pochi
minuti, tutto ciò che poteva bruciare della nostra ultima carrozza fu
divorato dalle fiamme!
— Mascalzoni! Canaglie! — gridava il capitano Hod, che molti
indù riuscivano a stento a trattenere.
Ma, come noi, doveva limitarsi a delle inutili ingiurie, che quegli
indù non sembravano nemmeno comprendere. Quanto a sottrarci a
coloro che ci custodivano, non bisognava nemmeno pensarci.
Le ultime fiamme si spensero, e poco dopo non rimase altro che la
carcassa informe di quella pagoda ambulante che aveva attraversato
mezza penisola!
Gli indù avevano poi assalito il nostro Gigante d'Acciaio;
avrebbero voluto distruggere anche lui! Ma questa volta, non lo
poterono. Né la scure né il fuoco avevano qualche efficacia né contro
la grossa armatura di lamiera che formava il corpo dell'elefante
artificiale né contro la macchina che portava dentro di sé. Nonostante
i loro sforzi, rimase intatto, in mezzo agli applausi del capitano Hod,
che lanciava degli hurrah nello stesso tempo di piacere e di rabbia.
In quel momento apparve un uomo. Doveva essere il capo di
quegli indù.
Tutta la banda venne subito a schierarsi davanti a lui.
Un altro uomo lo accompagnava. Tutto si spiegò; quell'uomo era
la nostra guida, era Kâlagani.
Di Goûmi non si vedeva nessuna traccia. Il fedele era scomparso,
il traditore era rimasto. Senza dubbio, la devozione del nostro bravo
servitore gli era costata la vita, e non dovevamo più rivederlo!
Kâlagani avanzò verso il colonnello Munro, e freddamente, senza
abbassare gli occhi, indicandolo:
— Lui! — disse.
Ad un cenno, sir Edward Munro fu preso, trascinato via e
scomparve in mezzo alla banda che risaliva la strada verso il sud,
senza aver potuto né stringerci un'ultima volta la mano né darci un
ultimo addio!
Il capitano Hod, Banks, il sergente, Fox, tutti noi avevamo cercato
di liberarci per strapparlo dalle mani di quegli indù!...
Cinquanta braccia ci avevano trattenuto al suolo; un movimento di
più e saremmo stati sgozzati.
— Non fate resistenza! — disse Banks.
L'ingegnere aveva ragione. Non potevamo far nulla in quel
momento per liberare il colonnello Munro; era dunque meglio
riservarci in vista dei successivi avvenimenti.
Un quarto d'ora dopo gli indù ci abbandonavano a loro volta, e si
lanciavano sulle tracce del primo drappello. Seguirli sarebbe stato
produrre una catastrofe, senza profitto per il colonnello Munro,
tuttavia avremmo tentato tutto per raggiungerlo...
— Non un passo di più! — disse Banks. Gli obbedimmo.
In sostanza, era dunque contro il colonnello Munro, contro lui
solo, che quegli indù condotti da Kâlagani l'avevano. Quali erano le
intenzioni di quel traditore? Egli non poteva, evidentemente, agire
per proprio conto. Ma, allora, a chi obbediva?... Il nome di Nana
Sahib mi si presentò alla mente!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qui finisce il manoscritto redatto da Maucler. Il giovane francese
non doveva vedere più nulla degli avvenimenti che dovevano
precipitare lo scioglimento di questo dramma. Ma questi avvenimenti
si sono saputi più tardi, e raccolti in forma di racconto, completano la
relazione di questo viaggio attraverso l'India settentrionale.
CAPITOLO XI
A FACCIA A FACCIA
I THUG, di sanguinosa memoria, dei quali l'Indostan sembra
essersi liberato, hanno lasciato però dei successori degni di loro.
Sono i Dacoit, specie di Thug trasformati. I sistemi di uccisione di
questi delinquenti sono cambiati, lo scopo degli assassini non è più lo
stesso, ma il risultato è identico: è l'omicidio premeditato,
l'assassinio.
Non si tratta più, senza dubbio, di offrire una vittima alla truce
Kâli, dea della morte. Se questi nuovi fanatici non praticano lo
strangolamento, avvelenano per derubare; agli strangolatori si sono
sostituiti dei criminali più pratici, ma altrettanto temibili.
I Dacoit, che formano delle bande separate in certi territori della
penisola, accolgono tutti gli omicidi che la giustizia anglo-indiana
lascia passare attraverso le maglie della sua rete. Essi battono giorno
e notte le grandi strade, soprattutto nelle regioni più selvagge, e si sa
che il Bundelkund offre dei teatri adatti a queste scene di violenza e
di saccheggio. Spesso anzi, questi banditi si riuniscono in numero
maggiore per assalire un villaggio isolato. Allora la popolazione non
ha che un mezzo, fuggire; ma la tortura, con tutte le sue raffinatezze,
aspetta coloro che rimangono fra le mani dei Dacoit. Qui riappaiono
le tradizioni dei torturatori dell'estremo Occidente. Stando al signor
Louis Rousselet, le «astuzie di questi miserabili, i loro mezzi
d'azione superano tutto quello che i più fantasiosi romanzieri hanno
mai immaginato»!
Il colonnello Munro era caduto in potere di una banda di Dacoit
guidata da Kâlagani. Prima che avesse avuto il tempo di
raccapezzarsi, brutalmente separato dai suoi compagni, egli era stato
trascinato sulla via di Jubbulpore.
Il comportamento di Kâlagani, dal giorno in cui era entrato in
relazione con gli ospiti della Steam-House, era stato quello di un
traditore. Era proprio Nana Sahib che lo aveva mandato, e da lui solo
era stato scelto per preparare la sua vendetta.
Si ricorderà che, il 24 maggio precedente, a Bhopal, durante le
ultime feste del Moharum, a cui egli si era audacemente mescolato, il
nababbo era stato avvertito della partenza di sir Edward Munro per le
province settentrionali dell'India. Dietro suo ordine, Kâlagani, uno
degli indù più devoti alla sua causa ed alla sua persona, aveva
lasciato Bhopal. Lanciarsi sulle tracce del colonnello, ritrovarlo,
seguirlo, non perderlo più di vista, arrischiare la propria vita
all'occorrenza, per farsi ammettere nel seguito dell'implacabile
nemico di Nana Sahib, ecco la sua missione.
Kâlagani era partito immediatamente, dirigendosi verso le regioni
del nord. A Cawnpore aveva potuto raggiungere il treno della SteamHouse. Da quel momento, senza mai lasciarsi scorgere, aveva spiato
in attesa di occasioni che non si presentarono. Ecco perché, mentre il
colonnello Munro ed i suoi compagni si installavano nel sanitarium
dell'Himalaya, egli decideva di entrare al servizio di Mathias Van
Guitt.
L'istinto di Kâlagani gli diceva che rapporti quasi quotidiani si
sarebbero necessariamente stabiliti fra il kraal e il sanitarium. Fu
quello che avvenne e fin dal primo giorno, fu tanto fortunato, non
solo da attirare l'attenzione del colonnello Munro, ma anche da
meritarsi la sua riconoscenza.
Il più era fatto; si sa il resto. L'indù venne spesso alla SteamHouse, fu informato dei progetti successivi dei suoi ospiti, conobbe
l'itinerario che Banks si proponeva di seguire. Da quel momento, una
sola idea dominò tutte le sue azioni: riuscire a farsi accettare come
guida della spedizione, quando essa sarebbe ridiscesa verso sud.
Per riuscirvi, Kâlagani non trascurò nulla; non esitò ad arrischiare
non solo la vita degli altri, ma anche la propria. In quali circostanze?
Nessuno può averlo dimenticato.
Infatti, gli era venuto il pensiero che, se avesse accompagnato la
spedizione fin dal principio del viaggio, pur rimanendo al servizio di
Mathias Van Guitt, il fatto avrebbe sviato ogni sospetto, e avrebbe
forse indotto il colonnello Munro a offrirgli appunto quello che egli
voleva ottenere.
Ma, per arrivare a questo, bisognava che il fornitore, privato dei
suoi tiri di bufali, fosse ridotto a chiedere l'aiuto del Gigante
d'Acciaio. Ecco il motivo dell'assalto delle belve, assalto inaspettato,
è vero, ma di cui Kâlagani seppe approfittare. A rischio di provocare
un disastro, non esitò, senza che nessuno se ne avvedesse, a togliere
le sbarre che chiudevano la porta del kraal. Le tigri e le pantere si
precipitarono nel recinto, i bufali furono dispersi o distrutti, molti
indù perirono, ma il piano di Kâlagani era riuscito. Mathias Van
Guitt sarebbe stato costretto a ricorrere al colonnello Munro per
riprendere il cammino per Bombay col suo serraglio ambulante.
Infatti, rinnovare i suoi tiri in quella regione quasi deserta
dell'Himalaya sarebbe stato difficile. In ogni caso, fu Kâlagani che
s'incaricò di questo affare per conto del fornitore. S'intende che non
vi riuscì, e per questo motivo Mathias Van Guitt, rimorchiato dal
Gigante d'Acciaio, scese con tutto il suo personale alla stazione di
Etawah. Là, la ferrovia doveva trasportare il materiale del serraglio. I
chikaris furono dunque licenziati e Kâlagani, che non era più utile,
doveva seguire la loro sorte. Fu allora che egli si mostrò molto
impacciato del proprio avvenire, e Banks cadde nella trappola. Egli
pensò che quell'indù, intelligente ed affezionato, perfettamente
pratico di tutta quella parte dell'India, poteva essere di preziosa
utilità. Gli offrì dunque di essere la loro guida fino a Bombay, e da
quel giorno la sorte della spedizione fu in mano di Kâlagani.
Nessuno poteva sospettare un traditore in quell'indù, sempre
pronto ad arrischiar la vita per gli altri.
Vi fu un momento in cui Kâlagani per poco non si tradì. Fu
quando Banks gli parlò della morte di Nana Sahib. Egli non seppe
trattenere un gesto d'incredulità e crollò il capo da uomo che non ci
poteva credere. Ma non sarebbe forse avvenuta la stessa cosa con
qualsiasi altro indù, per cui il leggendario nababbo era uno di quegli
esseri soprannaturali che la morte non può colpire?
Kâlagani, a questo proposito, ebbe la conferma della notizia,
quando, e non A caso, egli incontrò uno dei suoi antichi compagni
nella carovana dei Banjari? Non si sa, ma bisogna credere che
sapesse esattamente come comportarsi.
Ad ogni modo il traditore non abbandonò i suoi odiosi progetti,
come se avesse voluto fare propri i piani del nababbo.
Ecco perché la Steam-House proseguì il suo cammino attraverso
le gole dei Vindhya, e, dopo le note peripezie, i viaggiatori giunsero
sulle rive del lago Puturia, su cui ci si dovette rifugiare.
Là, quando Kâlagani volle lasciare il treno galleggiante, col
pretesto di recarsi a Jubbulpore, si lasciò scoprire. Per quanto fosse
padrone di se stesso, un semplice fenomeno fisiologico, che non
poteva sfuggire alla perspicacia del colonnello, lo aveva reso
sospetto, ed ora si sa che i sospetti di sir Edward Munro erano fin
troppo giustificati.
Fu lasciato partire, ma gli fu dato per compagno Goûmi. Entrambi
si tuffarono nelle acque del lago, e un'ora dopo, erano giunti alla riva
sud-est del Puturia.
Eccoli dunque camminare insieme, in quella notte buia, uno
sospettoso dell'altro, l'altro non immaginandosi d'essere sospettato. Il
vantaggio, per il momento, era per Goûmi, un secondo Mac Neil del
colonnello.
Per tre ore, i due indù camminarono così per quella grande strada
che attraversa le catene meridionali dei Vindhya per portare alla
stazione di Jubbulpore. La nebbia era molto meno intensa nella
campagna che sul lago, e Goûmi sorvegliava attentamente il suo
compagno. Portava alla cintola un solido coltello; al primo
movimento sospetto, spiccio per natura, egli si proponeva di balzare
addosso a Kâlagani e di metterlo nell'impossibilità di nuocere.
Disgraziatamente, il fedele indù non ebbe il tempo d'agire come
sperava.
La notte, senza luna, era buia; a venti passi, non si sarebbe visto
un uomo in cammino.
Accadde dunque che, a una delle svolte della strada, si fece udire
bruscamente una voce che chiamava Kâlagani.
— Sì, Nassim! — rispose l'indù.
E, in quello stesso momento, un grido acuto, molto strano, risuonò
sulla sinistra della strada.
Quel grido era il kisri di quelle truci tribù del Gondwana, che
Goûmi conosceva benissimo!
Goûmi, colto di sorpresa, non aveva potuto tentare nulla. D'altra
parte, morto Kâlagani, egli che cosa avrebbe mai potuto fare contro
tutta una banda di indù, a cui quel grido doveva servire di richiamo?
Un presentimento gli disse di fuggire, per tentare di avvertire i suoi
compagni. Sì! rimanere libero, prima di tutto, poi ritornare al lago e
cercar di raggiungere a nuoto il Gigante d'Acciaio per impedirgli di
accostarsi alla riva, non rimaneva altro da fare.
Goûmi non esitò. Nel momento in cui Kâlagani raggiungeva quel
Nassim che gli aveva risposto, si gettò da un lato e scomparve nelle
jungle che fiancheggiavano la strada.
E quando Kâlagani ritornò col suo complice, con l'intenzione di
sbarazzarsi del compagno che il colonnello Munro gli aveva imposto,
Goûmi non c'era più.
Nassim era il capo di una banda di Dacoit devoti alla causa di
Nana Sahib. Quando fu informato della scomparsa di Goûmi, lanciò i
suoi uomini attraverso le jungle; voleva riprendere ad ogni costo
l'ardito servitore che gli era sfuggito.
Le ricerche furono inutili; Goûmi, sia che si fosse perduto nel buio
sia che si fosse rifugiato in un buco qualsiasi, era scomparso, e
bisognò rinunciare a ritrovarlo.
Ma, in sostanza, che cosa potevano temere quei Dacoit, da Goûmi,
abbandonato a se stesso, in mezzo a quella regione selvaggia, già a
tre ore di cammino dal lago Puturia, al quale, per quanto avesse fatto,
non avrebbe potuto giungere prima di loro?
Kâlagani si rassegnò dunque. Conferì per un istante con il capo
dei Dacoit, che sembrava aspettare i suoi ordini. Poi, ridiscendendo
la strada, tutti si diressero a grandi passi verso il lago.
E se quella banda aveva lasciato le gole dei Vindhya, dove era
accampata da qualche tempo, è perché Kâlagani aveva potuto far
sapere il prossimo arrivo del colonnello Munro nei dintorni del lago
Puturia. Per mezzo di chi? Di quell'indù, che non era altri che
Nassim, che seguiva la carovana dei Banjari. A chi? A colui la cui
mano dirigeva nell'ombra tutto questo complotto!
Infatti, quanto era accaduto, quanto accadeva allora, era il risultato
di un piano ben stabilito, a cui il colonnello Munro e i suoi compagni
non potevano sottrarsi. Ecco perché, nel momento in cui il treno
toccava la punta meridionale del lago, i Dacoit poterono assalirlo,
sotto gli ordini di Nassim e di Kâlagani.
Ma l'avevano con il colonnello Munro, con lui solo. I suoi
compagni, abbandonati in quel paese, distrutta la loro ultima casa,
non erano più da temere. Egli fu dunque trascinato via, e alle sette
del mattino sei miglia lo separavano già dal lago Puturia.
Che Kâlagani conducesse sir Edward Munro alla stazione di
Jubbulpore non era ammissibile. Perciò egli pensava di non dover
lasciare la regione dei Vindhya e che, caduto in potere dei suoi
nemici, non ne sarebbe uscito forse mai.
Ciononostante, quell'uomo coraggioso non aveva perduto nulla
del suo sangue freddo. Camminava fra quei feroci indù, pronto a
qualsiasi evento. Egli anzi fingeva di non vedere Kâlagani; il
traditore si era messo in testa al drappello, di cui effettivamente era il
capo. Quanto a fuggire, non era possibile. Benché non fosse legato, il
colonnello Munro non vedeva né davanti né dietro né sui fianchi
della sua scorta, nessun vuoto che lo potesse lasciar passare; d'altra
parte, sarebbe stato immediatamente ripreso.
Pensava dunque alle conseguenze della propria situazione.
Doveva credere che la mano di Nana Sahib entrasse in tutto questo?
No! Per lui, il nababbo era assolutamente morto; ma qualche
compagno dell'antico capo dei ribelli, Balao Rao per esempio, non
poteva forse aver deciso di saziare il suo odio, compiendo quella
vendetta a cui suo fratello aveva dedicato la vita? Sir Edward Munro
presentiva qualche cosa di simile.
Nello stesso tempo, egli pensava al disgraziato Goûmi, che non
era prigioniero dei Dacoit. Aveva potuto fuggire? era possibile.
Aveva forse dovuto soccombere fin da principio? era più probabile.
Si poteva fare assegnamento sul suo aiuto, caso mai fosse stato sano
e salvo? era difficile.
Infatti, se Goûmi avesse creduto di doversi spingere fino alla
stazione di Jubbulpore per cercarvi dei soccorsi, sarebbe giunto
troppo tardi.
Se, al contrario, era venuto a raggiungere Banks ed i suoi
compagni alla punta meridionale del lago, che cosa avrebbero mai
potuto fare questi, quasi privi di munizioni? Si sarebbero gettati sulla
via di Jubbulpore?... Ma prima che avessero potuto giungervi, il
prigioniero sarebbe già stato trascinato in qualche inaccessibile
rifugio dei Vindhya!
Dunque, da quella parte, non bisognava serbare alcuna speranza.
Il colonnello Munro esaminava freddamente la situazione. Egli
non disperava, non essendo uomo da lasciarsi abbattere, ma preferiva
veder le cose nella loro realtà, invece di abbandonarsi a qualche
illusione indegna di un animo che nulla poteva turbare.
Frattanto, il drappello camminava con grande velocità.
Evidentemente, Nassim e Kâlagani volevano giungere, prima del
tramonto, a qualche ritrovo stabilito, dove si sarebbe decisa la sorte
del colonnello. Se il traditore aveva fretta, sir Edward Munro non era
meno frettoloso di farla finita, qualunque fosse la fine che lo
aspettasse.
Una volta sola, verso mezzogiorno, per mezz'ora circa, Kâlagani
fece fare una fermata. I Dacoit erano forniti di viveri, e mangiarono
sulle sponde di un ruscello.
Un po' di pane e di carne secca furono messi a disposizione del
colonnello, che non rifiutò di mangiare. Non aveva preso cibo dal
giorno prima, e non voleva dare ai suoi nemici la gioia di vederlo
indebolire fisicamente nell'ora suprema.
Fino a quel momento, quasi sedici miglia erano state fatte in
quella marcia forzata. A un ordine di Kâlagani, ci si rimise in
cammino, seguendo sempre la direzione di Jubbulpore.
Fu solo verso le cinque del pomeriggio che la banda di Dacoit
abbandonò la strada principale per prendere a sinistra. Se dunque il
colonnello Munro aveva potuto conservare una parvenza di speranza
fintanto che la seguiva, comprese allora che ormai era nelle mani di
Dio.
Un quarto d'ora dopo Kâlagani e i suoi attraversavano una stretta
gola che costituiva l'estremo limite della valle del Nerbudda, verso la
parte più selvaggia del Bundelkund.
Il luogo era a trecentocinquanta chilometri circa dal pâl di Tandît,
a est di quei monti Sautpurra che si possono considerare come il
prolungamento occidentale dei Vindhya.
Là, su uno degli ultimi contrafforti, sorgeva la vecchia fortezza di
Ripore, abbandonata da un pezzo, perché non poteva essere rifornita
nel caso che le gole dell'ovest fossero occupate dal nemico.
Questa fortezza dominava una delle ultime sporgenze della
catena, una specie di rivellino naturale, alto cinquecento piedi, che
strapiombava sopra una larga apertura della gola, in mezzo alle
giogaie vicine. Non vi si poteva giungere che seguendo uno stretto
sentiero, praticato tortuosamente nella viva roccia, sentiero
praticabile appena da uomini a piedi.
Là, su quell'altipiano, si profilavano ancora delle cortine
smantellate, alcuni bastioni in rovina. In mezzo alla spianata, chiusa
verso l'abisso da un parapetto di pietra, sorgeva un edificio,
semidistrutto, che serviva un tempo di caserma alla piccola
guarnigione di Ripore, e che ora non avrebbe potuto servire neppure
di stalla.
In mezzo all'altipiano centrale, rimaneva un unico pezzo
d'artiglieria di quanti un tempo si allungavano attraverso le feritoie
del parapetto. Era un enorme cannone, puntato verso la parte
anteriore della spianata. Troppo pesante per essere calato giù, troppo
deteriorato, del resto, per conservare un valore qualsiasi, era stato
lasciato là, sul suo affusto, abbandonato ai morsi della ruggine, che
rodeva il suo involucro di ferro.
Per lunghezza e per grossezza era la degna copia del celebre
cannone di bronzo di Bhîlsa, fuso al tempo di Jehanghir, enorme
pezzo lungo sei metri, con un calibro di quarantaquattro. Lo si
sarebbe potuto paragonare anche al non meno famoso cannone di
Bidjapur, il cui sparo, secondo gli indigeni, non avrebbe lasciato in
piedi uno solo dei monumenti della città.
Questa era la fortezza di Ripore, nella quale il prigioniero fu
condotto dal drappello di Kâlagani. Erano le cinque di sera quando vi
giunse, dopo una giornata di cammino di più di venticinque miglia.
Davanti a quale dei suoi nemici il colonnello Munro si sarebbe
finalmente trovato? Non avrebbe tardato a saperlo.
Un drappello di indù occupava allora l'edificio in rovina che
sorgeva in fondo alla spianata. Questo drappello si mosse, mentre la
banda dei Dacoit si schierava in circolo davanti al parapetto.
Il colonnello Munro occupava il centro di quel circolo; a braccia
incrociate, aspettava.
Kâlagani lasciò il posto che occupava nelle file e fece alcuni passi
incontro al drappello.
Un indù, vestito con semplicità, camminava davanti a tutti.
Kâlagani si fermò di fronte a lui e s'inchinò. L'indù gli porse una
mano che Kâlagani baciò rispettosamente; un cenno di capo gli
dimostrò che si era contenti del suo operato.
Poi, l'indù avanzò verso il prigioniero, lentamente, ma con
l'occhio acceso, con tutti i sintomi d'una collera appena trattenuta. Lo
si sarebbe detto una belva che andasse verso la sua preda.
Il colonnello Munro lo lasciò avvicinarsi, senza indietreggiare di
un passo, guardandolo con la stessa fissità con cui egli stesso era
guardato.
Quando l'indù fu a soli cinque passi da lui:
— È soltanto Balao Rao, il fratello del nababbo! — disse il
colonnello con un tono che indicava il più profondo disprezzo.
— Guarda meglio! — rispose l'indù.
— Nana Sahib! — esclamò il colonnello Munro indietreggiando,
questa volta, suo malgrado. — Nana Sahib vivo!...
Sì, il nababbo in persona, l'antico capo della rivolta dei Cipay,
l'implacabile nemico di Munro.
Ma chi era morto dunque al pâl di Tandît? Balao Rao, suo fratello.
La straordinaria somiglianza di quei due uomini, entrambi
butterati in viso, entrambi amputati del medesimo dito della stessa
mano, aveva ingannato i soldati di Lucknow e di Cawnpore. Essi non
avevano esitato a riconoscere il nababbo in colui che era solo suo
fratello, e sarebbe stato impossibile non commettere questo errore.
Perciò quando la comunicazione fatta alle autorità annunciò la morte
del nababbo, Nana Sahib era ancora vivo; era Balao Rao che era
morto.
Nana Sahib si era preoccupato grandemente di sfruttare questa
nuova circostanza. Una volta di più, essa gli dava una sicurezza quasi
assoluta. Infatti, suo fratello non sarebbe stato ricercato dalla polizia
inglese con lo stesso accanimento di lui, e non lo fu. Non solo non gli
erano imputati gli eccidi di Cawnpore, ma egli non aveva sugli indù
del centro l'influenza perniciosa che possedeva il nababbo.
Nana Sahib, vedendosi braccato così da vicino, decise dunque di
fare il morto fino al momento in cui avrebbe potuto agire
definitivamente, e, rinunciando temporaneamente ai suoi progetti
insurrezionali, si era votato interamente alla sua vendetta. Mai, del
resto, le circostanze erano state più favorevoli. Il colonnello Munro,
sempre sorvegliato dai suoi agenti, aveva lasciato Calcutta per un
viaggio che doveva condurlo a Bombay. Non sarebbe stato possibile
condurlo nella regione dei Vindhya attraverso le province del
Bundelkund? Nana Sahib lo credette, e fu a questo scopo che gli
mandò l'intelligente Kâlagani.
Il nababbo lasciò il pâl di Tandît, che non gli offriva più un
rifugio sicuro. Penetrò nella valle del Nerbudda, fino alle ultime gole
dei Vindhya. Là sorgeva la fortezza di Ripore, che gli parve un luogo
di rifugio dove la polizia non avrebbe affatto pensato a cercarlo,
poiché doveva crederlo morto.
Nana Sahib vi si sistemò dunque con i pochi indù a lui devoti. Ben
presto li rinforzò con una banda di Dacoit, degni di schierarsi sotto
gli ordini di un capo simile, ed aspettò.
Ma che cosa aspettava da quattro mesi? Che Kâlagani avesse
compiuto la missione, e lo avvertisse del prossimo arrivo del
colonnello Munro in quella parte dei Vindhya, dove sarebbe caduto
in suo potere.
Tuttavia, un timore s'impadronì di Nana Sahib, e fu che la notizia
della sua morte, diffusasi in tutta la penisola, giungesse alle orecchie
di Kâlagani. Se quello vi avesse creduto, avrebbe forse abbandonato
la sua opera di tradimento verso il colonnello Munro?
Perciò, un altro indù venne mandato sulle strade del Bundelkund,
quel Nassim che, mescolatosi alla carovana dei Banjari, incontrò il
treno della Steam-House sulla strada dello Scindia, si mise in
comunicazione con Kâlagani, e lo informò del vero stato delle cose.
Ciò fatto, Nassim, senza perdere un'ora, tornò alla fortezza di
Ripore, ed informò Nana Sahib di tutto quanto era accaduto dal
giorno in cui Kâlagani aveva lasciato Bhopal. Il colonnello Munro e i
suoi compagni avanzavano a piccole giornate verso i Vindhya.
Kâlagani li guidava, ed era nei dintorni del lago Puturia che
bisognava aspettarli.
Tutto era dunque riuscito secondo i desideri del nababbo; la sua
vendetta non poteva più sfuggirgli.
Ed infatti, quella sera, il colonnello Munro era solo, inerme, alla
sua presenza, alla sua mercé.
Dopo aver scambiate le prime parole, quei due uomini si
guardarono un istante in silenzio.
Ma subito, essendo l'immagine di lady Munro ripassata più
vivamente davanti ai suoi occhi, il colonnello si sentì affluire il
sangue dal cuore alla testa; si slanciò sull'omicida dei prigionieri di
Cawnpore!
Nana Sahib si accontentò di fare due passi indietro.
Tre indù si erano subito gettati addosso al colonnello, e lo
trattennero, non senza stento.
Frattanto sir Edward Munro si era calmato; il nababbo senza
dubbio lo comprese, poiché, con un gesto, allontanò gli indù.
I due nemici si trovarono un'altra volta a faccia a faccia.
— Munro, — disse Nana Sahib, — i tuoi hanno legato alla bocca
dei loro cannoni i centoventi prigionieri di Peschawar, e da quel
giorno, più di milleduecento Cipay sono periti di questa morte
spaventosa! I tuoi hanno trucidato senza pietà i fuggitivi di Lahore,
hanno sgozzato, dopo la presa di Delhi, tre principi e ventinove
membri della famiglia reale, hanno trucidato a Lucknow seimila dei
nostri e tremila dopo la campagna del Pendjab! In tutto, col cannone,
col fucile, con la forca o con la sciabola, centoventimila ufficiali o
soldati indigeni e duecentomila civili hanno pagata con la vita
quell'insurrezione per l'indipendenza nazionale!
— A morte! a morte!— esclamarono i Dacoit e gli indù schierati
intorno a Nana Sahib.
Il nababbo impose loro silenzio con la mano, e aspettò che il
colonnello Munro gli rispondesse.
Il colonnello non rispose.
— Quanto a te, Munro, — soggiunse il nababbo, — hai ucciso di
tua mano la rhani di Jansi, mia fedele compagna... ed ella non è
ancora vendicata! Nessuna risposta del colonnello Munro.
— Infine, quattro mesi or sono, — disse Nana Sahib, — mio
fratello Balao Rao è caduto sotto le pallottole inglesi dirette contro di
me... e mio fratello non è ancora vendicato!
— A morte! a morte!
Tali grida scoppiarono questa volta con maggior violenza, e tutta
la banda sembrò voler gettarsi sul prigioniero.
— Silenzio! — esclamò Nana Sahib. — Aspettate l'ora della
giustizia! Tutti tacquero.
— Munro, — soggiunse il nababbo, — fu uno dei tuoi antenati, fu
Hector Munro, che osò adottare per la prima volta quello spaventoso
supplizio, di cui i tuoi hanno fatto un uso così terribile durante la
guerra del 1857! Fu lui che diede l'ordine di legare vivi, alla bocca
dei suoi cannoni, degli indù, nostri parenti, nostri fratelli! Nuove
grida, nuove dimostrazioni, che Nana Sahib, questa volta, non
avrebbe potuto reprimere. Perciò:
— Rappresaglia per rappresaglia — egli aggiunse, — Munro, tu
morirai come sono morti tanti dei nostri!
Poi, voltandosi:
— Guarda quel cannone!
Ed il nababbo mostrava l'enorme pezzo, lungo più di cinque metri,
che occupava il centro della spianata.
— Sarai legato, — disse, — alla bocca di quel cannone! È carico,
e domani, all'alba, il suo sparo, ripercuotendosi fino in fondo ai
Vindhya, farà sapere a tutti che la vendetta di Nana Sahib è
finalmente compiuta!
Il colonnello Munro guardava fissamente il nababbo con una
calma che l'annuncio del suo prossimo supplizio non poteva turbare.
— Sta bene, — disse, — tu fai quello che avrei fatto anch'io se tu
fossi caduto in mio potere!
E andò a mettersi egli stesso davanti alla bocca del cannone, alla
quale, con le mani legate dietro il dorso, fu assicurato con robuste
corde.
Ed allora, per una lunga ora, tutta quella banda di Dacoit e di indù
venne ad insultarlo vigliaccamente. Si sarebbero detti Sioux
dell'America del Nord intorno a un prigioniero incatenato al palo del
supplizio.
Il colonnello Munro rimase impassibile di fronte all'oltraggio,
come voleva esserlo di fronte alla morte.
Poi, scesa la notte, Nana Sahib, Kâlagani e Nassim si ritirarono
nella vecchia caserma. Tutta la banda, stanca finalmente, raggiunse i
suoi capi.
Sir Edward Munro rimase in presenza della morte e di Dio.
CAPITOLO XII
ALLA BOCCA DI UN CANNONE
IL SILENZIO non durò un pezzo. La banda dei Dacoit era stata
fornita di provviste e mentre essi mangiavano, si potevano sentire
gridare, vociferare, sotto l'influenza di quel violento liquore d'arak,
di cui facevano uso smodato.
Ma tutto quel baccano si placò a poco a poco. Il sonno non doveva
tardare ad impadronirsi di quei bruti, che avevano anche sulle spalle
le fatiche di una lunga giornata.
Sir Edward Munro stava dunque per essere lasciato senza
guardiani fino al momento in cui fosse suonata l'ora della sua morte?
Nana Sahib non avrebbe forse fatto sorvegliare il suo prigioniero,
benché costui, saldamente legato dai triplici giri di corda che gli
stringevano le braccia ed il petto, non fosse in grado di fare un
movimento?
Il colonnello se lo chiedeva, quando, verso le otto, vide un indù
lasciare la caserma ed avanzare sulla spianata.
Quell'indù aveva per consegna di rimanere tutta la notte presso il
colonnello Munro.
Anzitutto, dopo aver attraversato obliquamente la spianata, venne
dritto al cannone, per assicurarsi che il prigioniero fosse sempre là.
Con mano robusta saggiò le corde, che non cedettero; poi, senza
rivolgersi al colonnello, ma parlando a se stesso:
— Dieci libbre di buona polvere! — disse. — È un pezzo che il
vecchio cannone di Ripore non ha parlato; ma domani parlerà!...
Questa riflessione portò un sorriso di disprezzo sul volto fiero del
colonnello Munro; la morte, per quanto orrenda dovesse essere, non
lo spaventava.
L'indù, dopo aver esaminato la parte anteriore del cannone, tornò
un po' indietro, accarezzò con la mano la grossa culatta, ed il suo dito
si posò un istante sul focone che la polvere dell'esca riempiva fino
all'orlo.
Poi, l'indù rimase appoggiato al bottone della culatta. Sembrava
che avesse assolutamente dimenticato che il prigioniero fosse là,
come un paziente al piede della forca, aspettando che la botola gli si
spalanchi sotto i piedi.
Fosse indifferenza o effetto dell'arak che aveva bevuto, l'indù
canticchiava fra i denti un vecchio ritornello del Gondwana. Si
interrompeva e ricominciava, come uomo al quale, sotto l'influenza
di una mezza sbronza, il pensiero sfugge poco alla volta.
Un quarto d'ora più tardi, l'indù si raddrizzò. Accarezzata con la
mano la groppa del cannone, ne fece il giro e, arrestandosi davanti al
colonnello Munro, lo guardò mormorando delle parole incoerenti.
Per istinto, le sue dita afferrarono un'ultima volta le corde, come per
stringerle più saldamente; poi, scuotendo il capo, da uomo
rassicurato, andò ad appoggiarsi al parapetto, a una decina di passi,
alla sinistra del pezzo.
Per dieci minuti ancora, l'indù rimase in quella posizione, ora
rivolto verso la spianata, ora affacciato al di fuori, spingendo lo
sguardo nell'abisso che si spalancava ai piedi della fortezza.
Era chiaro che faceva un ultimo sforzo per non cedere al sonno;
ma finalmente la stanchezza lo vinse ed egli si lasciò scivolare a
terra, vi si sdraiò; e l'ombra del parapetto lo rese assolutamente
invisibile.
Del resto, la notte era già profonda. Dense nuvole immobili si
allungavano nel cielo; l'atmosfera era tranquilla come se le molecole
dell'aria fossero state saldate l'una all'altra. I rumori della vallata non
giungevano fino a quell'altitudine; il silenzio era assoluto.
Come si sarebbe svolta quella notte d'angoscia per il colonnello
Munro, bisogna riferirlo, a tutto onore di quell'uomo energico. Egli
non pensò un solo istante a quell'ultimo momento della sua vita,
durante il quale i tessuti del suo corpo, lacerati violentemente, le sue
membra orribilmente disperse, sarebbero andati a perdersi nello
spazio. Non sarebbe stato che un attimo fulmineo, in fin dei conti, e
certo non era cosa da scuotere una natura sulla quale il terrore fisico
o morale non aveva mai avuto presa. Gli rimanevano ancora poche
ore di vita: esse appartenevano a quell'esistenza che era stata così
felice nel suo periodo più lungo. La sua vita gli si spiegava davanti
tutta quanta con singolare precisione, tutto il suo passato si
ripresentava al suo animo.
L'immagine di lady Munro gli si ergeva davanti. Egli la rivedeva,
la udiva, quell'infelice che egli piangeva come nei primi giorni, non
più con gli occhi ma con il cuore! La ritrovava fanciulla in quella
funesta città di Cawnpore, in quell'abitazione dove l'aveva per la
prima volta ammirata, conosciuta, amata! Quei pochi anni di felicità,
terminati bruscamente nella più spaventosa delle catastrofi, si
ravvivarono nel suo animo. Tutti i loro particolari, per piccoli che
fossero, gli si ripresentarono alla memoria con tale limpidezza, che la
realtà non sarebbe stata forse più vera! Più di metà della notte era già
passata, e sir Edward Munro non se ne era avveduto. Egli era vissuto
tutto nei suoi ricordi senza che nulla lo distraesse da essi, laggiù,
presso la sua adorata moglie. In tre ore erano stati riassunti i tre anni
che egli aveva trascorso accanto a lei! Sì! la sua immaginazione lo
aveva tolto irresistibilmente dalla spianata della fortezza di Ripore, lo
aveva strappato dalla bocca di quel cannone, di cui il primo raggio
del sole avrebbe dovuto, per così dire, accendere l'esca!
Ma allora gli apparve l'orribile conclusione dell'assedio di
Cawnpore, la prigionia di lady Munro e di sua madre nel Bibi-Ghar,
il massacro delle loro disgraziate compagne, e finalmente quel pozzo,
tomba di duecento vittime, sul quale quattro mesi prima egli era
andato a piangere un'ultima volta.
E quell'odioso Nana Sahib che era là, a pochi passi, dietro le mura
di quella caserma in rovina, l'ordinatore dei massacri, l'assassino di
lady Munro e di tante altre sventurate! Ed egli era caduto fra le sue
mani, lui che aveva voluto farsi giustiziere di quell'assassino che la
giustizia non aveva potuto colpire!
Sir Edward Munro, sotto l'azione di una collera cieca, fece uno
sforzo disperato per rompere i suoi legami. Le corde scricchiolarono,
e i nodi, serrati, gli entrarono nelle carni. Egli emise un grido, non di
dolore, ma di rabbia impotente.
A quel grido, l'indù, sdraiato all'ombra del parapetto, alzò il capo.
Egli riafferrò il senso della sua situazione, e si ricordò che era il
guardiano del prigioniero.
Si rialzò dunque, si accostò incerto al colonnello Munro, gli pose
la mano sulla spalla, per assicurarsi che era sempre là, e con il tono
di un uomo semiaddormentato :
— Domani, — disse, — al levar del sole... bum!
Poi, ritornò verso il parapetto, per ripigliarvi un punto d'appoggio.
Appena lo ebbe toccato, si sdraiò a terra e non tardò ad assopirsi del
tutto.
Dopo questo sforzo inutile, una specie di calma aveva ripreso il
colonnello Munro. Il corso dei suoi pensieri mutò, senza che egli
pensasse più oltre alla sorte che lo aspettava. Per un'associazione di
idee naturalissima, pensò ai suoi amici, ai suoi compagni; si chiese se
anche essi non fossero caduti nelle mani di un'altra banda di quei
Dacoit che formicolavano nei Vindhya, se non fosse stata loro
riservata una sorte simile alla sua, e questo pensiero gli strinse il
cuore.
Ma quasi subito pensò che ciò non poteva essere. Infatti, se il
nababbo avesse deciso la loro morte, li avrebbe uniti a lui nel
medesimo supplizio, avrebbe voluto raddoppiare le sue angosce con
quelle dei suoi amici. No! su di lui, su di lui solo, almeno tentava di
sperarlo, Nana Sahib voleva saziare il proprio odio!
Pure, se mai, caso impossibile, Banks, il capitano Hod, Maucler,
erano liberi, che cosa facevano? Avevano preso la via di Jubbulpore,
sulla quale il Gigante d'Acciaio, che i Dacoit non avevano potuto
distruggere, poteva trasportarli rapidamente? Là, i soccorsi non
sarebbero mancati! Ma a che cosa potevano servire? Come avrebbero
potuto sapere dove era il colonnello Munro? Nessuno conosceva la
fortezza di Ripore, la tana di Nana Sahib. E del resto, perché mai il
nome del nababbo si sarebbe loro presentato alla mente? Nana Sahib
non era forse morto per loro? Non era caduto nell'assalto del pâl di
Tandît? No, essi non potevano far nulla per il prigioniero!
Quanto a Goûmi, nessuna speranza nemmeno da quella parte.
Kâlagani aveva avuto il massimo interesse a disfarsi di
quell'affezionato servitore, e poiché Goûmi non era là, era segno che
aveva preceduto il suo padrone nella tomba!
Fare assegnamento su una probabilità qualunque di salvezza
sarebbe stato inutile. Il colonnello Munro non era un uomo da farsi
delle illusioni; vedeva le cose nella loro realtà, e tornò ai suoi
pensieri iniziali, ai ricordi dei giorni felici che gli riempivano il
cuore.
Quante ore fossero passate mentre egli fantasticava così, gli
sarebbe stato difficile dirlo. La notte era sempre buia. Sulla vetta
della montagna a est non appariva ancora nulla che annunciasse i
primi bagliori dell'alba.
Pure, dovevano essere circa le quattro del mattino, quando
l'attenzione del colonnello Munro fu attirata da un fenomeno
bizzarro. Fino a quel momento, nel suo ritorno all'esistenza passata,
egli aveva guardato dentro di sé piuttosto che al di fuori. Gli oggetti
esterni, poco distinti in quelle profonde tenebre, non avrebbero
potuto distrarlo; ma allora, i suoi occhi divennero più fissi, e tutte le
immagini evocate nella sua memoria si cancellarono di colpo davanti
a una specie d'apparizione, tanto inaspettata quanto inesplicabile.
Infatti, il colonnello Munro non era più solo sulla spianata di
Ripore. Una luce, ancora indecisa, era apparsa verso l'estremità del
sentiero, alla pusterla della fortezza. Essa andava e veniva, vacillante,
turbata, minacciando di spegnersi, tornando a splendere, come se
fosse stata retta da una mano poco sicura.
Nella situazione in cui si trovava il prigioniero, qualsiasi incidente
poteva avere la sua importanza. Perciò i suoi occhi non lasciarono
più quel fuoco; egli osservò che da esso sfuggiva una specie di
vapore fuligginoso e che era mobile, donde concluse che non doveva
essere chiuso in un fanale.
«Uno dei miei compagni», pensò il colonnello Munro... «Goûmi
forse! Ma no!... Non sarebbe venuto con un lume che lo tradirebbe...
Che cos'è dunque?»
Il lume si avvicinava lentamente. Scivolò dapprima lungo il muro
della vecchia caserma, e sir Edward Munro poté temere che dovesse
essere veduto da qualcuno degli indù che vi dormivano.
Ma non fu così; il lume passò senza essere notato; talvolta, la
mano che lo reggeva si agitava con moto febbrile, ed esso si
ravvivava e brillava di splendore più vivo.
Poco dopo il lume aveva raggiunto il muro del parapetto, e ne
seguì la cresta, come un fuoco di Sant'Elmo nelle notti d'uragano.
Allora il colonnello Munro cominciò a distinguere una specie di
fantasma, senza forma definita, un'ombra, che quella luce illuminava
vagamente. L'essere, qualunque fosse, che avanzava così, doveva
essere coperto di un lungo mantello, sotto il quale si nascondevano le
sue braccia e la sua testa.
Il prigioniero non si muoveva, tratteneva il respiro. Temeva di
spaventare quell'apparizione, di vedere spegnersi la fiamma, la cui
luce la guidava nell'ombra. Egli era immobile quanto il pesante
cannone che sembrava tenerlo nelle sue enormi fauci.
Frattanto, il fantasma continuava ad avanzare lungo il parapetto.
Non poteva accadere che andasse a urtare contro il corpo dell'indù
addormentato? No, l'indù era sdraiato a sinistra del cannone, e
l'apparizione veniva da destra, a volte fermandosi, poi riprendendo il
cammino a piccoli passi.
Finalmente, fu vicina abbastanza perché il colonnello Munro
potesse distinguerla nitidamente.
Era un essere di media statura, il cui corpo era coperto
effettivamente da un lungo drappo. Da quel drappo usciva una mano,
che reggeva un ramo resinoso acceso.
«Qualche pazzo che ha l'abitudine di visitare l'attendamento dei
Dacoit», pensò il colonnello Munro; «e al quale non si bada neppure!
Perché, invece, di un lume, non ha in mano un pugnale? Forse,
potrei!...».
Non era un pazzo, eppure sir Edward Munro aveva quasi
indovinato.
Era la pazza della valle del Nerbudda, la creatura incosciente che,
da quattro mesi, vagava attraverso i Vindhya sempre rispettata ed
ospitalmente accolta da quei Gound superstiziosi. Né Nana Sahib né
nessuno dei suoi compagni sapeva quale parte la Fiamma Errante
aveva avuto nell'assalto del pâl di Tandît. Spesso l'avevano
incontrata in quella parte montagnosa del Bundelkund, e non si erano
mai preoccupati per la sua presenza. Già molte volte, nelle sue corse
incessanti, essa si era spinta fino alla fortezza di Ripore, e nessuno
aveva pensato di cacciarla via. Era solo una delle sue fortuite
peregrinazioni notturne che la conduceva lì anche quella notte.
Il colonnello Munro non sapeva nulla di quanto si riferiva alla
pazza; egli non aveva mai udito parlare della Fiamma Errante,
eppure, quell'essere sconosciuto che si avvicinava, che stava per
toccarlo, per parlargli forse, gli faceva battere il cuore con una
violenza inesplicabile.
A poco a poco, la pazza si era avvicinata al cannone; la sua torcia
resinosa non gettava più che deboli bagliori ed ella sembrava che non
vedesse il prigioniero, benché gli fosse di fronte e i suoi occhi
fossero quasi visibili attraverso quel mantello, in cui si aprivano dei
buchi, come nel cappuccio di un incappucciato.
Sir Edward Munro non si moveva; non cercava di attirare
l'attenzione di quella strana creatura né con un cenno del capo né con
una parola.
Del resto, essa tornò quasi subito indietro, in modo da fare il giro
dell'enorme cannone, sulla cui superficie la sua torcia disegnava
piccole ombre vacillanti.
Capiva forse, la povera folle, a che cosa doveva servire quel
cannone, steso là come un mostro, perché quell'uomo era legato a
quella bocca, che al primo raggio del sole avrebbe vomitato il tuono
e il fulmine?
No, senza dubbio. La Fiamma Errante era là, come dappertutto,
inconsapevole; quella notte, essa vagava come aveva già fatto molte
volte, sulla spianata di Ripore. Poi, l'avrebbe lasciata, avrebbe
ridisceso il sentiero sinuoso, sarebbe ritornata nella vallata, e avrebbe
diretto di nuovo i suoi passi là dove l'avesse spinta la sua fantasia
vagabonda.
Il colonnello Munro, che poteva voltare il capo liberamente,
seguiva tutti i suoi movimenti. Egli la vide passare dietro il cannone;
di là, essa si diresse in modo da giungere al muro del parapetto, per
seguirlo, senza dubbio, fino al punto in cui si congiungeva alla
pusterla.
Infatti, la Fiamma Errante camminò in quella direzione, ma,
fermatasi improvvisamente, a pochi passi dall'indù addormentato, si
voltò. Qualche impedimento invisibile le impediva dunque di andare
avanti? Checché ne fosse, un inesplicabile istinto la ricondusse verso
il colonnello Munro, e rimase ancora immobile davanti a lui.
Questa volta, il cuore di sir Edward Munro batteva con tanta
forza, che egli avrebbe voluto portarvici le mani per trattenerlo!
La Fiamma Errante si era avvicinata maggiormente. Aveva
sollevato la fiaccola all'altezza del viso del prigioniero, come se
avesse voluto vederlo meglio. Attraverso i buchi del suo cappuccio, i
suoi occhi si accesero di una luce ardente.
Il colonnello Munro, involontariamente affascinato da quel fuoco,
la divorava con lo sguardo.
Allora, la mano sinistra della pazza scostò a poco a poco le pieghe
del mantello. Poco dopo, il suo viso si mostrò scoperto, ed in quel
momento, con la mano destra, ella agitò la torcia, che mandò una
luce più intensa.
Un grido, un grido mezzo soffocato, sfuggì dal petto del
prigioniero:
— Laurence! Laurence!
Si credette pazzo a sua volta!... I suoi occhi si chiusero per un
istante. Era lady Munro! Sì! lady Munro in persona, che gli stava
davanti!
— Laurence!... tu... tu! — ripeté.
Lady Munro non rispose nulla. Non lo riconosceva. Non
sembrava neppure udirlo.
— Laurence! Pazza! pazza, si!... ma viva!
Sir Edward Munro non aveva potuto ingannarsi con ima pretesa
somiglianza. L'immagine della sua giovane moglie era troppo
profondamente scolpita in lui! No! Anche dopo nove anni di una
separazione che egli doveva credere eterna, era lady Munro, mutata
senza dubbio, ma ancora bella, era lady Munro, sfuggita per miracolo
ai carnefici di Nana Sahib, che gli stava davanti! La sventurata, dopo
aver fatto di tutto per difendere sua madre, sgozzata sotto i suoi
occhi, era caduta. Ferita, ma non mortalmente, confusa con tante
altre vittime, ella fu tra le ultime ad essere precipitata nel pozzo di
Cawnpore, sulle vittime ammonticchiate che già lo riempivano.
Venuta la notte, un supremo istinto di conservazione la ricondusse
all'orlo del pozzo, solo l'istinto, poiché la ragione, in seguito a quelle
scene spaventose, l'aveva già abbandonata. Dopo tutto quanto aveva
sofferto dal principio dell'assedio, nella prigione del Bibi-Ghar, sul
teatro del massacro, dopo aver visto sgozzare sua madre, aveva
perduto il senno. Era pazza, pazza, ma viva! proprio come aveva
riconosciuto Munro. Pazza, si era trascinata fuori del pozzo, aveva
girovagato nei dintorni e aveva potuto lasciare la città, nel momento
in cui Nana Sahib e i suoi l'abbandonavano, dopo il sanguinoso
eccidio. Pazza, era fuggita nelle tenebre, andando sempre dritto
davanti a sé, attraverso la campagna. Evitando le città, fuggendo i
territori abitati, ospitata qua e là da poveri raiot, rispettata come un
essere privo di senno, la povera pazza era andata così fino ai monti
Sautpurra, fino ai Vindhya! E, morta per tutti da nove anni, ma con
lo spirito sempre impressionato dal ricordo degli incendi dell'assedio,
vagava di continuo!
Sì, era proprio lei!
Il colonnello Munro la chiamò ancora... ella non rispose. Quanto
avrebbe dato per poterla stringere fra le braccia, sollevarla, portarla
via, ricominciare accanto a lei una nuova esistenza, renderle la
ragione a forza di cure e d'amore!... Ed egli era legato a quella massa
di metallo, il sangue gli sgorgava dalle braccia dalle ferite che vi
scavavano le corde, e nulla poteva strapparlo con lei da quel luogo
maledetto!
Quale supplizio, quale tortura che nemmeno la crudele
immaginazione di Nana Sahib aveva potuto sognare! Ah! se quel
mostro fosse stato presente, se avesse saputo che lady Munro era in
suo potere, quale orribile gioia ne avrebbe provato! Quale
raffinatezza avrebbe aggiunto senza dubbio alle angosce del
prigioniero!
— Laurence! Laurence! — ripeteva sir Edward Munro.
E la chiamava ad alta voce, a rischio di risvegliare l'indù
addormentato a pochi passi, a rischio di attirare i Dacoit, coricati
nella vecchia caserma, e lo stesso Nana Sahib.
Ma lady Munro, senza comprendere, continuava a guardarlo con
gli occhi smarriti. Ella non vedeva nulla delle spaventose sofferenze
che subiva quello sventurato, che la ritrovava nel momento in cui
egli doveva morire! Ella dondolava il capo, come se non avesse
voluto rispondere.
Passarono così alcuni minuti; poi, la sua mano si abbassò, il velo
le ricadde sul viso ed ella indietreggiò di un passo.
Il colonnello Munro credette che volesse andarsene.
— Laurence! — gridò un'ultima volta, come se le avesse gettato
un supremo addio.
Ma no! Lady Munro non pensava a lasciare la spianata di Ripore,
e la situazione, per quanto fosse già spaventosa, doveva aggravarsi
ancora.
Infatti, lady Munro si fermò. Evidentemente, quel cannone aveva
attirato la sua attenzione. Forse in lei si risvegliava qualche oscuro
ricordo dell'assedio di Cawnpore! Ella tornò dunque indietro a passi
lenti. La mano che reggeva la torcia resinosa ne faceva passare la
fiamma sul cilindro di metallo, e bastava che una scintilla accendesse
l'esca perché il colpo partisse.
Munro doveva dunque morire per sua mano?
Egli non poté sopportare tale idea! Era meglio perire sotto gli
occhi di Nana Sahib e dei suoi!
Munro stava per chiamare, per risvegliare i suoi carnefici!...
A un tratto sentì dall'interno del cannone una mano che stringeva
le sue, legate dietro il dorso. Era la pressione di una mano amica che
cercava di sciogliere i suoi legami. Poco dopo, il freddo d'una lama
d'acciaio, insinuandosi con precauzione fra le corde e i suoi polsi, lo
avvertì che nell'interno stesso di quel cannone enorme stava, per
quale miracolo? un liberatore.
Non poteva ingannarsi! le corde che lo legavano venivano
recise!...
In un secondo, fu cosa fatta! Egli poté fare un passo avanti: era
libero!
Per quanto fosse padrone di sé, fu sul punto di emettere un grido
che lo avrebbe perduto!...
Una mano si allungò fuori della bocca del cannone... Munro
l'afferrò, la tirò, ed un uomo, uscendo con un ultimo sforzo
dall'orifizio del cannone, cadeva ai suoi piedi.
Era Goûmi!
Il fedele servitore, dopo essere fuggito, aveva continuato a seguire
la strada di Jubbulpore, invece di ritornare al lago, verso il quale si
dirigeva il drappello di Nassim. Giunto al sentiero di Ripore, aveva
dovuto nascondersi una seconda volta. Un drappello di indù era là e
parlava del colonnello Munro che i Dacoit diretti da Kâlagani,
dovevano condurre alla fortezza, dove Nana Sahib gli riservava la
morte per mezzo del cannone. Senza esitare, Goûmi era scivolato
nell'ombra fino al sentiero tutto svolte, era giunto alla spianata, in
quel momento deserta, ed allora gli era venuta l'idea di introdursi
nell'enorme macchina, con l'idea di liberare il suo padrone, se le
circostanze lo avessero permesso, oppure, se non avesse potuto
salvarlo, di subire con lui la medesima morte.
— Sta per spuntare il giorno! — disse Goûmi a bassa voce. —
Fuggiamo!
— E lady Munro?
Il colonnello mostrava la pazza, in piedi, immobile. La sua mano
era, in quel momento, appoggiata alla culatta del cannone.
— Fra le nostre braccia, padrone... — rispose Goûmi senza
chiedere altre spiegazioni.
Era troppo tardi!
Nel momento in cui il colonnello e Goûmi le si accostarono per
afferrarla, lady Munro, volendo sfuggir loro, si aggrappò con la mano
al cannone, la fiaccola le cadde sull'esca, e una terribile detonazione,
ripercossa dagli echi dei Vindhya, riempi di un fragore di tuono tutta
la valle del Nerbudda.
CAPITOLO XIII
IL GIGANTE D'ACCIAIO
AL RUMORE di quello scoppio, lady Munro era caduta svenuta fra
le braccia del marito.
Senza perdere un istante, il colonnello si slanciò attraverso la
spianata, seguito da Goûmi. L'indù, armato del suo largo coltello,
ebbe la meglio in un istante del guardiano sbigottito che la
detonazione aveva fatto rizzare in piedi. Poi entrambi si gettarono
nello stretto sentiero che conduceva alla strada di Ripore.
Sir Edward Munro e Goûmi avevano appena superato la pusterla
che la banda di Nana Sahib, bruscamente destata, invadeva la
spianata.
Fra gli indù vi fu un attimo d'esitazione che poteva essere
favorevole ai fuggitivi.
Infatti, Nana Sahib passava raramente la notte intera nella
fortezza. La sera prima, dopo aver fatto legare il colonnello Munro
alla bocca del cannone, era andato a raggiungere alcuni capi di tribù
del Gondwana, che non visitava mai di pieno giorno. Ma quella era
l'ora in cui egli di solito ritornava, e non poteva tardare a riapparire.
Kâlagani, Nassim, gli indù, i Dacoit, più di cento uomini erano
pronti a inseguire il prigioniero; un pensiero solo li tratteneva ancora.
Che cosa fosse accaduto lo ignoravano assolutamente. Il cadavere
dell'indù che era stato messo di guardia al colonnello non poteva dir
loro nulla.
Ora, di tutte le probabilità, in questa essi dovevano credere: che,
per una circostanza fortuita, fosse stato dato fuoco al cannone prima
dell'ora fissata per il supplizio, e che del prigioniero non rimanessero
più ormai che dei brandelli informi!
Il furore di Kâlagani e degli altri si manifestò con un concerto di
maledizioni. Né Nana Sahib, né alcuno di loro avrebbe avuto dunque
la gioia di assistere agli ultimi momenti del colonnello Munro!
Ma il nababbo non era lontano. Aveva dovuto sentire la
detonazione, e sarebbe ritornato in gran fretta alla fortezza. Che cosa
gli avrebbero risposto quando avesse chiesto conto del prigioniero
che aveva lasciato?
Da ciò, nacque in tutti un'esitazione che aveva dato ai fuggitivi il
tempo di guadagnare strada, prima di essere veduti.
Perciò, sir Edward Munro e Goûmi, pieni di speranza, dopo quella
liberazione miracolosa, scendevano rapidamente il tortuoso sentiero.
Lady Munro, benché svenuta, non pesava molto per le braccia
robuste del colonnello; il suo servitore era là, del resto, per venirgli
in aiuto.
Cinque minuti dopo aver passato la pusterla, entrambi erano a
mezza strada fra la spianata e la valle. Ma cominciava a spuntare il
giorno, e i primi bagliori dell'alba penetravano già fino in fondo alla
stretta gola.
Delle alte grida scoppiarono allora sopra di loro.
Curvo sul parapetto, Kâlagani aveva visto vagamente il profilo di
due uomini che fuggivano; uno di quegli uomini non poteva essere
che il prigioniero di Nana Sahib!
— Munro! È Munro! — gridò Kâlagani, pazzo di furore.
E, superando la pusterla, prese ad inseguirlo, accompagnato da
tutta la banda.
— Siamo stati veduti! — disse il colonnello senza rallentare il
passo.
— Io fermerò i primi! — rispose Goûmi. — Mi uccideranno, ma
questo forse vi darà il tempo di giungere alla strada.
— Ci uccideranno entrambi, o sfuggiremo loro insieme! —
esclamò Munro.
Il colonnello e Goûmi avevano affrettato il passo. Giunti alla parte
inferiore del sentiero, già meno ripido, potevano correre. Non
mancavano più che una quarantina di passi per giungere alla via di
Ripore, che immetteva nella strada principale, sulla quale la fuga
sarebbe stata facile.
Ma anche l'inseguimento sarebbe stato più facile. Cercare un
rifugio sarebbe stato inutile, in breve sarebbero stati scoperti
entrambi. Dunque, bisognava lasciarsi indietro gli indù, ed uscire
prima di loro dalle gole dei Vindhya.
Il colonnello Munro si decise immediatamente; egli non sarebbe
ricaduto vivo nelle mani di Nana Sahib. Con il pugnale di Goûmi
avrebbe colpito colei che gli era stata restituita, piuttosto che
consegnarla al nababbo, poi con lo stesso pugnale avrebbe colpito se
stesso!
Entrambi avevano allora un vantaggio di cinque minuti circa. Nel
momento in cui i primi indù superavano la pusterla, il colonnello
Munro e Goûmi intravedevano già la via a cui portava il sentiero, e la
strada principale non era che a un quarto di miglio.
— Coraggio, padrone! — diceva Goûmi, pronto a fare scudo al
colonnello col proprio corpo. — Fra cinque minuti, saremo sulla via
di Jubbulpore!
— Dio voglia che vi troviamo aiuto! — mormorò il colonnello
Munro.
I clamori degli indù si facevano sempre più distinti.
Nel momento in cui i fuggitivi sbucavano sulla via, due uomini,
che camminavano rapidamente, giungevano all'inizio del sentiero.
Era abbastanza chiaro allora da potersi riconoscere, e due nomi,
come due grida d'odio, s'incrociarono contemporaneamente:
— Munro!
— Nana Sahib!
Il nababbo, al rombo della detonazione, era accorso e risaliva in
tutta fretta alla fortezza. Egli non poteva comprendere perché i suoi
ordini fossero stati eseguiti prima dell'ora stabilita.
Un indù lo accompagnava, ma, prima che questo indù avesse
potuto fare un passo o un gesto, cadeva ai piedi di Goûmi,
mortalmente colpito dal coltello che aveva reciso i lacci del
colonnello.
— A me! — gridò Nana Sahib, chiamando tutta la banda che
scendeva il sentiero.
— Sì, a te! — rispose Goûmi.
E più pronto del lampo, si gettò sul nababbo.
Era sua intenzione, almeno se non fosse riuscito a ucciderlo al
primo colpo, di lottare con lui, in modo da dare al colonnello Munro
il tempo di giungere alla strada; ma la mano di ferro del nababbo
aveva fermato la sua, e il coltello gli era sfuggito di mano.
Furibondo di sentirsi disarmato, Goûmi afferrò allora il suo
avversario alla cintola, e stringendolo contro il petto lo portò via
nelle sue braccia robuste, deciso a precipitarsi con lui nel primo
abisso che avesse incontrato.
Frattanto, Kâlagani e i suoi compagni, avvicinandosi, stavano per
giungere all'estremità inferiore del sentiero, ed allora non ci sarebbe
più stata speranza di sfuggire loro!
— Ancora uno sforzo! — ripeteva Goûmi. — Io terrò duro per
alcuni minuti, facendomi scudo del loro nababbo! Fuggite, padrone,
fuggite senza di me!
Ma tre minuti appena separavano ormai i fuggitivi da coloro che li
inseguivano, e il nababbo chiamava Kâlagani con voce soffocata.
Ad un tratto, venti passi più avanti, si udirono delle grida.
— Munro! Munro!
Banks era là, sulla strada di Ripore, con il capitano Hod, Maucler,
il sergente Mac Neil, Fox, Parazard e a cento passi da loro, sulla
strada principale, il Gigante d'Acciaio, lanciando turbini di fumo, li
aspettava con Storr e Kâlouth.
Dopo la distruzione dell'ultima casa della Steam-House,
l'ingegnere e i suoi compagni avevano soltanto una cosa da fare:
utilizzare come veicolo l'elefante che la banda dei Dacoit non aveva
potuto distruggere. Perciò, inerpicati sul Gigante d'Acciaio, avevano
subito lasciato il lago Puturia e risalito la via di Jubbulpore. Ma nel
momento in cui passavano davanti alla strada che conduceva alla
fortezza, una formidabile detonazione era echeggiata sopra le loro
teste, e si erano fermati.
Un presentimento, un istinto, se si vuole, li aveva indotti a
spingersi su quella via. Che cosa speravano? Non lo avrebbero potuto
dire. Fatto è che, pochi minuti dopo, il colonnello era davanti a loro,
e gridava:
— Salvate lady Munro!
— E tenete fermo Nana Sahib, quello vero! — esclamò Goûmi.
Egli aveva, con un ultimo sforzo furibondo, gettato a terra il
nababbo, semisoffocato, di cui il capitano Hod, Mac Neil e Fox
s'impadronirono.
Poi, senza chiedere alcuna spiegazione, Banks e i suoi raggiunsero
il Gigante d'Acciaio sulla strada.
Per ordine del colonnello, che voleva consegnarlo alla giustizia
inglese, Nana Sahib fu legato sul collo dell'elefante. Quanto a lady
Munro, fu deposta nella torretta, e suo marito le si mise al fianco.
Tutto rivolto a sua moglie, che cominciava a riprendere i sensi,
spiava in lei qualche bagliore di ragione.
L'ingegnere e i suoi compagni si erano inerpicati rapidamente sul
dorso del Gigante d'Acciaio.
— A tutta velocità! — gridò Banks.
Il giorno era spuntato. Un primo drappello di indù appariva già a
un centinaio di passi di distanza. Ad ogni costo, bisognava giungere,
prima di loro, al posto avanzato dell'accantonamento militare di
Jubbulpore, che controlla l'ultima gola dei Vindhya.
Il Gigante d'Acciaio era abbondantemente fornito d'acqua e di
combustibile, tutto ciò che era necessario per mantenerlo sotto
pressione e dargli il suo massimo di velocità. Ma non poteva
lanciarsi alla cieca su quella strada dalle svolte brusche.
Le grida degli indù raddoppiavano, e tutta la banda gli si
avvicinava.
— Bisognerà difendersi — disse il sergente Mac Neil.
— Ci difenderemo! — rispose il capitano Hod.
Rimanevano ancora una dozzina di colpi da sparare; dunque non
bisognava perdere un solo proiettile, perché gli indù erano armati, ed
era necessario tenerli distanti.
Il capitano Hod e Fox, con la carabina in mano, si appostarono
sulla groppa dell'elefante un po' dietro la torretta. Goûmi si mise sul
davanti, col fucile spianato, in modo da tirare diagonalmente. Mac
Neil, accanto a Nana Sahib, con una rivoltella in una mano e un
pugnale nell'altra, era pronto a colpirlo, se mai gli indù fossero giunti
fino a lui. Kâlouth e Parazard, davanti al forno, lo caricavano di
combustibile. Banks e Storr dirigevano la marcia del Gigante
d'Acciaio.
L'inseguimento durava già da dieci minuti. Duecento passi al
massimo separavano gli indù, Banks ed i suoi compagni. Se quelli
andavano più presto, l'elefante artificiale poteva tener duro più a
lungo di loro. Tutta la tattica consisteva dunque nell'impedir loro di
passare avanti.
In quel momento, si udirono una dozzina di fucilate; le pallottole
passarono fischiando sopra il Gigante d'Acciaio, tranne una che lo
colpì all'estremità della proboscide.
— Non fate fuoco! Non bisogna sparare che a colpo sicuro! —
gridò il capitano Hod. — Risparmiamo le pallottole. Sono ancora
troppo lontani!
Banks, vedendo allora davanti a sé un miglio di strada che si
svolgeva quasi in linea retta, azionò ampiamente l'acceleratore, e il
Gigante d'Acciaio, aumentando la velocità, lasciò la banda molte
centinaia di passi indietro.
— Hurrah! hurrah per il nostro Gigante! — esclamò il capitano
Hod che non poteva trattenersi. — Ah! canaglie! non lo piglieranno!
Ma al termine di quel rettilineo, una specie di gola ripida e
sinuosa, ultimo rilievo del versante meridionale dei Vindhya, doveva
necessariamente ritardare la marcia di Banks e dei suoi compagni.
Kâlagani e gli altri, sapendolo bene, non abbandonarono
l'inseguimento.
Il Gigante d'Acciaio giunse rapidamente a quella strettoia della
via, che si cacciava fra due alte scarpate rocciose.
Bisognò allora rallentare e avanzare con grandi precauzioni. A
causa di tale ritardo, gli indù riguadagnarono tutto il terreno che
avevano perduto: se non speravano più di salvare Nana Sahib, che
era alla mercé di una pugnalata, volevano almeno vendicarne la
morte.
Poco dopo, si udirono nuovi spari, senza danno però per coloro
che il Gigante d'Acciaio portava su di sé.
— La cosa si fa seria! — disse il capitano Hod spianando la
carabina. — Attenzione!
Goûmi e lui spararono simultaneamente; due degli indù più vicini
caddero al suolo colpiti al petto.
— Due di meno! — disse Goûmi ricaricando la sua arma.
— Due per cento! — esclamò il capitano Hod. — Non basta,
bisogna che paghino più caro.
E le carabine del capitano e di Goûmi, a cui si unì il fucile di Fox,
colpirono mortalmente altri tre indù.
Ma, dovendo avanzare in quella stretta gola sinuosa, non si
camminava rapidamente. Mentre si restringeva, la strada, come si sa,
presentava una salita molto ripida. Pure, un mezzo miglio ancora,
poi, le ultime balze dei Vindhya sarebbero state superate, e il Gigante
d'Acciaio sarebbe sbucato a cento passi da un posto militare quasi in
vista della stazione di Jubbulpore!
Gli indù non erano gente da indietreggiare davanti alle fucilate del
capitano Hod e dei suoi compagni. La loro vita non contava più nulla
quando si trattava di salvare o di vendicare Nana Sahib! Dieci, venti
di loro sarebbero caduti sotto i proiettili, ma ne sarebbero rimasti
ancora ottanta per gettarsi sul Gigante d'Acciaio e trionfare del
piccolo drappello a cui esso serviva da cittadella ambulante! Perciò
raddoppiarono gli sforzi per raggiungere i fuggitivi.
Kâlagani non ignorava, del resto, che il capitano Hod e i suoi
compagni dovevano essere ridotti alle loro ultime cartucce, e che in
breve fucili e carabine sarebbero stati armi inutili nelle loro mani.
Infatti, i fuggitivi avevano esaurito la metà delle munizioni che
rimanevano loro, e stavano per essere ridotti all'impossibilità di
difendersi.
Pure, si udirono ancora quattro fucilate, e quattro indù caddero.
Al capitano Hod e a Fox rimanevano solo due colpi da sparare.
In quel momento, Kâlagani, che fino allora si era tenuto in
disparte, si spinse più avanti di quello che consigliava la prudenza.
— Ah! ti tengo! — esclamò il capitano Hod prendendolo di mira
con gran calma.
Il proiettile non lasciò la carabina del capitano Hod che per andar
a colpire il traditore in mezzo alla fronte. Le sue mani si agitarono un
istante, egli girò su se stesso e cadde.
In quell'istante, apparve l'estremità sud della gola. Il Gigante
d'Acciaio fece uno sforzo supremo, la carabina di Fox si fece udire
un'ultima volta, e un ultimo indù rotolò a terra.
Ma gli indù si avvidero quasi subito che il fuoco era cessato, e si
slanciarono all'assalto dell'elefante, da cui non distavano più che
cinquanta passi.
— A terra! a terra! — gridò Banks.
Sì, in quello stato di cose era meglio abbandonare il Gigante
d'Acciaio, e correre verso il posto che non era più lontano.
Il colonnello Munro, trasportando sua moglie fra le braccia, scese
sulla via.
Il capitano Hod, Maucler, il sergente e gli altri erano saltati
immediatamente a terra.
Soltanto Banks era rimasto nella torretta.
— E questo delinquente! — esclamò il capitano Hod mostrando
Nana Sahib legato sul collo dell'elefante.
— Lasciami fare, capitano! — rispose Banks con uno strano tono.
Poi, dopo aver azionato completamente l'acceleratore, scese a sua
volta.
Tutti allora fuggirono, col pugnale in mano, pronti a vender cara
la vita.
Frattanto, sotto la spinta del vapore, il Gigante d'Acciaio, benché
abbandonato a se stesso, continuava a risalire il pendio; ma, non
essendo più diretto, andò ad urtare contro la scarpata sinistra della
via, come un ariete che vuol cozzare, ed arrestandosi bruscamente
sbarrò quasi del tutto la strada.
Banks ed i suoi ne distavano già una trentina di passi, quando gli
indù si gettarono in massa sul Gigante d'Acciaio, per liberare Nana
Sahib.
Improvvisamente, un rumore spaventoso, simile ai più violenti
scoppi di tuono, agitò gli strati d'aria con un'indescrivibile violenza.
Banks, prima di lasciare la torretta, aveva caricato le valvole della
macchina. Il vapore raggiunse dunque una tremenda pressione, e,
quando il Gigante d'Acciaio urtò contro la parete di roccia, non
potendo più uscire dai cilindri, fece scoppiare la caldaia, i cui rottami
si dispersero in tutte le direzioni.
— Povero Gigante! — esclamò il capitano Hod, — morto per
salvarci!
CAPITOLO XIV
LA CINQUANTESIMA TIGRE DEL CAPITANO HOD
IL COLONNELLO Munro, i suoi amici, i suoi compagni, non
avevano più nulla da temere, né dal nababbo né dagli indù che si
erano attaccati alla sua sorte né da quei Dacoit, di cui egli aveva
formato una temibile banda in quella parte del Bundelkund.
Al rumore prodotto dallo scoppio, i soldati del posto di
Jubbulpore erano usciti in numero imponente. I pochi compagni di
Nana Sahib che ancora rimanevano, trovandosi senza capo, si erano
dati alla fuga.
Il colonnello Munro si fece riconoscere, e mezz'ora dopo, tutti
giungevano alla stazione, dove trovarono abbondantemente ciò che
mancava loro, e soprattutto i viveri, di cui avevano urgente bisogno.
Lady Munro fu alloggiata in un comodo albergo, nell'attesa del
momento di condurla a Bombay. Lì, sir Edward Munro sperava di
rendere la vita dell'anima a colei che viveva solo della vita del corpo,
e che sarebbe sempre rimasta morta per lui, finché non avesse
ricuperato la ragione!
Per dire la verità, nessuno dei suoi amici si rassegnava a disperare
della prossima guarigione di lady Munro. Tutti aspettavano fiduciosi
un avvenimento che solo avrebbe potuto modificare l'esistenza del
colonnello.
Venne stabilito che, fino dal giorno successivo, si sarebbe partiti
per Bombay. Il primo treno avrebbe ricondotto tutti gli ospiti della
Steam-House verso la capitale dell'India occidentale. Questa volta,
sarebbe stata la volgare locomotiva a trasportarli a tutta velocità, e
non più l'infaticabile Gigante d'Acciaio, di cui non rimanevano ormai
che rottami informi.
Ma né il capitano Hod, suo fanatico ammiratore, né Banks, suo
creatore ingegnoso, né nessuno dei membri della spedizione,
avrebbero mai dimenticato quel «fedele animale», a cui avevano
finito per attribuire una vera vita. Il rombo dell'esplosione che lo
aveva distrutto doveva echeggiare per un pezzo nella loro memoria.
Perciò nessuno si stupirà che, prima di lasciare Jubbulpore, Banks,
il capitano Hod, Maucler, Fox, Goûmi, avessero voluto tornare sul
teatro della catastrofe.
Non c'era evidentemente più nulla da temere dalla banda dei
Dacoit. Tuttavia, per eccesso di precauzione, quando l'ingegnere e i
suoi compagni giunsero al posto dei Vindhya, un distaccamento di
soldati si unì a loro, e, verso le undici, giungevano all'ingresso della
gola.
Dapprima, trovarono, sparsi al suolo, cinque o sei cadaveri
mutilati. Erano quelli degli assalitori che si erano gettati sul Gigante
d'Acciaio per liberare Nana Sahib.
Ma era tutto. Del resto della banda, non c'era più alcuna traccia.
Invece di ritornare nel loro covo di Ripore, ora conosciuto, gli ultimi
fedeli di Nana Sahib avevano dovuto disperdersi nella valle del
Nerbudda.
Quanto al Gigante d'Acciaio, era interamente distrutto in seguito
all'esplosione della caldaia. Una delle sue larghe zampe era stata
scagliata a gran distanza; una parte della proboscide, lanciata contro
la scarpata, vi si era incastrata e sporgeva come un braccio
gigantesco. Dappertutto si vedevano lamiere curvate, dadi, bulloni,
griglie, frammenti di cilindri, snodi di bielle. Al momento
dell'esplosione, quando le valvole caricate non potevano più offrirgli
una uscita, il vapore doveva essere stato a una pressione formidabile
e superare forse le venti atmosfere.
E ora, dell'elefante artificiale di cui gli ospiti della Steam-House si
mostravano così fieri, di quel colosso che provocava la superstiziosa
ammirazione degli indù, del capolavoro meccanico dell'ingegner
Banks, di quel sogno divenuto realtà del fantasioso rajah di Buthan,
non rimaneva altro che una carcassa irriconoscibile e senza valore!
— Povera bestia! — non poté trattenersi dall'esclamare il capitano
Hod, davanti al cadavere del suo caro Gigante d'Acciaio.
— Se ne potrà fabbricare un altro... un altro che sarà ancora più
poderoso! — disse Banks.
— Senza dubbio, — rispose il capitano, lasciandosi sfuggire un
grosso sospiro, — ma non sarà più lui!
Mentre si abbandonavano a queste ricerche, l'ingegnere ed i suoi
compagni ebbero l'idea di cercare se si trovasse qualche resto di
Nana Sahib. In mancanza del viso del nababbo, facile da riconoscere,
le sue mani a cui mancava un dito sarebbero loro bastate per
accertarne l'identità. Avrebbero voluto avere questa prova
incontestabile della morte di colui che non si poteva più confondere
con suo fratello Balao Rao.
Ma nessuno dei resti insanguinati che ingombravano il suolo
sembrava essere appartenuto a colui che era stato Nana Sahib. I suoi
fanatici avevano dunque portato via perfino gli ultimi avanzi delle
sue reliquie? Era più che probabile.
Ne doveva però risultare che, non essendovi alcuna prova certa
della morte di Nana Sahib, la leggenda avrebbe ripreso i suoi diritti, e
che, nello spirito delle popolazioni dell'India centrale, l'inafferrabile
nababbo sarebbe sempre stato creduto vivo, finché dell'antico capo
dei Cipay si sarebbe fatto un dio immortale.
Ma per Banks e per i suoi compagni non era ammissibile che
Nana Sahib avesse potuto sopravvivere allo scoppio.
Ritornarono alla stazione, non senza che il capitano Hod avesse
raccolto un pezzo di una delle zanne del Gigante d'Acciaio, preziosa
reliquia che voleva conservare per ricordo.
Il giorno seguente, 4 ottobre, tutti lasciavano Jubbulpore in un
vagone messo a disposizione del colonnello Munro e del suo seguito.
Ventiquattro ore più tardi, superavano i Ghàti occidentali, quelle
Ande indiane, che si stendono per una lunghezza di trecentosessanta
leghe, in mezzo a fitte foreste di baniani, di sicomori, di tek,
mescolati a palme, palme da cocco, arek, alberi del pepe, sandali e
bambù. Alcune ore dopo, la ferrovia li deponeva nell'isola di
Bombay, che, con le isole Salcette, Elefanta e altre, forma una
magnifica rada e porta alla sua estremità sud-est la capitale della
presidenza.
Il colonnello Munro non doveva rimanere in quella grande città,
in cui si trovano in massa arabi, persiani, banyani, abissini, parsi o
guebri, scindi, europei di ogni nazione, e anche, a quanto pare, degli
indù.
I medici, consultati circa lo stato di lady Munro, raccomandarono
di condurla in una villa dei dintorni, dove la calma, unita alle loro
cure quotidiane e all'affetto incessante di suo marito, non poteva
mancare di produrre un effetto salutare.
Passò un mese; non uno dei compagni del colonnello, non uno dei
suoi servitori avevano pensato a lasciarlo. Il giorno, che non era
lontano, nel quale si sarebbe potuto intravedere la guarigione della
giovane donna, volevano essere tutti presenti.
Ebbero finalmente questa gioia. A poco a poco lady Munro
ricuperò la ragione. Quell'anima gentile ricominciò a pensare. Di ciò
che era stata la Fiamma Errante non rimaneva più nulla, nemmeno il
ricordo.
— Laurence! Laurence! — aveva esclamato il colonnello, e lady
Munro, riconoscendolo finalmente, era caduta fra le sue braccia.
Una settimana dopo, gli ospiti della Steam-House erano riuniti nel
bungalow di Calcutta. Là doveva ricominciare un'esistenza molto
diversa da quella che aveva riempito fino allora la ricca abitazione.
Banks vi doveva passare i periodi di riposo che i suoi lavori gli
avrebbero concesso, il capitano Hod le licenze di cui avrebbe potuto
disporre. Quanto a Mac Neil e a Goûmi, erano di casa, e non
dovevano mai separarsi dal colonnello Munro.
In quel periodo, Maucler fu costretto a lasciare Calcutta per
ritornare in Europa, e lo fece insieme con il capitano Hod, la cui
licenza era terminata e che l'affezionato Fox doveva seguire agli
accantonamenti militari di Madras.
— Addio, capitano, — gli disse il colonnello Munro. — Sono
lieto di pensare che non avete nulla da rimpiangere del vostro viaggio
attraverso l'India settentrionale, tranne forse di non aver ucciso la
vostra cinquantesima tigre!
— Ma è uccisa, colonnello.
— Come! È uccisa?
— Senza dubbio, — rispose il capitano Hod con un gesto superbo.
— Quarantanove tigri e... Kâlagani... non fanno forse cinquanta?