03 impa tipibraidesi
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03 impa tipibraidesi
martedì 27 luglio 2004 ‘‘ ‘‘ ‘‘ ‘‘ New York è la sua città d’elezione e ha il passaporto americano («Ma quanto mi sta antipatico Bush!»), però torna spesso alla casa sulla collina di San Michele Trasferitosi negli Usa a 40 anni, il suo nome è nella lista dei fotografi più apprezzati (e richiesti) nel campo della moda, del “design” e della ritrattistica Figlio del Primario di chirurgia del “Santo Spirito” degli anni 50, è fra i professionisti più famosi del mondo Oberto Gili ha le foto nel Dna C ollegatevi a Internet e inserite in qualunque motore di ricerca il nome “Oberto Gili”. Vi usciranno un sacco di pagine, tutte con riferimenti al suo nome. Eppure tanti braidesi non sanno che Oberto Gili, tra i più quotati fotografi al mondo, quando non è a New York o in giro per il mondo, si rifugia sulla collina braidese, dove vive buona parte della sua famiglia d’origine. L’impatto con la sua casa, “Il Picot”, è unico: profumi di macchia mediterranea fuori, colore fuori e all’interno, e tantissimi animali che vanno a zonzo per i prati intorno. La prima domanda è scontata. Le origini. «Sono nato da mia mamma a Torino, nel 1946, storto». Come sarebbe a dire “stor- Una delle fotografie di Oberto Gili, immortalato sul lavoro mentre realizza un “reportage” d’arredamento, comparse in un servizio giornalistico dedicatogli del mensile “Swingin London” del settembre 1995. to”? «Intanto, non so perché, mi hanno fatto nascere in casa, e sono nato per i piedi, anziché di testa. Mi hanno fatto male, insomma, procreato male, piccolo e con due o tre cose che non vanno». Però sei cresciuto bene. E sei andato a scuola. «Sempre a Torino». E Bra che cosa c’entra? «Ci venivamo in vacanza d’estate, nella casa di mia mamma. Quando poi avevo sei o sette anni mio papà è diventato primario di chirurgia a Bra, si è trasferito qui e allora noi arrivavamo tutti i fine settimana. È la mia città adottiva». Scuole? «Tutte a Torino, al liceo “Alfieri”, con il professor Chiodi. Quindi un po’ di università». Come sarebbe a dire “un po’”? «Proprio così. Ingegneria prima, dove ci ho messo tre anni per farne due; poi sono scappato a Fisica, dove ci ho messo due anni per farne uno. LA CARTA D’IDENTITÀ ■ DATI ANAGRAFICI Oberto Gili nasce a Torino nel 1946. La mamma, Maria Luisa Traversa, e il papà, Giovanni, hanno, oltre a Oberto, tre figli maschi. La famiglia arriva da Torino a Bra ogni estate, per trascorrere le vacanze nella casa materna, a San Michele. I soggiorni a Bra si fanno più frequenti quando il professor Giovanni ottiene il primariato di chirurgia al “Santo Spirito”. Oberto, i suoi fratelli e la mamma tornano sotto la Zizzola ogni fine settimana. ■ STUDI E LAVORO Dopo il liceo all’“Alfieri” di Torino (dove l’incontro con il professor Chiodi resta uno dei fatti caratterizzanti della sua vita), Oberto Gili frequenta per tre anni il Politecnico e per due la Facoltà di fisica. Dopo l’esperienza accademica, parte per l’Inghilterra, dove comincia la carriera come assistente di un fotografo. Tornato in Italia, lavora come free lance e a quarant’anni decide di trasferirsi in America. Qui comincia a lavorare e ad affermarsi, prima nel settore della fotografia d’interni, poi come ritrattista e nel campo della moda. Oggi è tra i primi trenta fotografi del mondo, vive a New York e spesso torna sulla collina braidese, nel suo regno rurale, “Il Picot”. ● Alla fine ho capito che gli studi accademici non facevano per me». Tre e due fanno cinque, un corso di laurea completo: magari delle due facoltà hai preso il meglio. «Fisica è stata molto interessante, ma anche il biennio di Ingegneria... matematica mi piaceva da matti». Una parentesi: da dove arriva il nome Oberto? «Negli Stati Uniti ho capito come gira il mondo; sotto la Zizzola riscopro le mie radici» O berto, che cosa fotografi soprattutto? «Ho cominciato facendo fotografia d’interni, poi sono arrivati i ritratti, la moda... adesso faccio un po’ di tutto». Hai anche pubblicato un libro, Luxury of space. È la tua storia? «Me lo sono fatto tutto da solo, impaginazione compresa. Tramite la madre del mio assistente ho conosciuto Assouline, proprietario dell’omonima casa editrice; gli è piaciuto e lo ha pubblicato. È la storia di quello che ho visto in giro per il mondo». E ora hai un altro libro nel cassetto? «Ne ho uno pronto, più personale del primo, un mix tra la mia vita qui e a New York». Vivi principalmente a New York. Ti piace l’America? «Mi piace e una delle soddisfazioni più grandi l’ho avuta quando ho ottenuto il passaporto americano. Poi è arrivato Bush presidente, che non mi piace per niente. Comunque il passaporto ce l’ho». America, New York-Italia, Bra. Non corri il rischio di ammalarti di bipolarismo? «Si diventa un po’ schizofrenico, è vero, ma con il tempo ti abitui». Che cosa sono per te questi due luoghi? «L’America, New York, è il Paese dove sono cresciuto, maturato, ho imparato a lavorare e a essere curioso, ho capito che esistono diecimila facce di un’unica verità. Bra è dimenticarmi di tutto questo e vivere il mio mondo un po’ assurdo, con le mucche, le galline. Bra è le mie radici, la famiglia». Com’è possibile conciliare la vita della metropoli con l’aulicità del “Picot”? «Sono sempre io. Certo New York è più stimolante, ma a me piace questa vita da solo, in mezzo agli animali. Quando ero bambino qui c’erano i contadini e io vivevo con loro tutta l’estate. Torno spesso qui, non a Bra: non scendo neppure a pren- dere il pane, visto che me lo faccio da solo una volta la settimana». Domanda scontata: Come si diventa grandi fotografi? «Grande non sono (balle, è tra i primi al mondo, ndr). Ades- so bisogna andare a scuola, ma in Italia non ne esistono. In America, invece, ogni grande università ha corsi di cinema e fotografia. Ci si laurea, ma da lì a lavorare c’è una grande differenza, perché se la domanda è dieci, i fotografi che rispondono sono cento. Non è facile». Ci sarà ben un’elica particolare nel Dna di un grande fotografo! «Credo sia la stessa cosa per qualunque lavoro. Di fronte a Una curiosa immagine del fotografo braidese ripreso mentre è all’opera e diventa egli stesso protagonista. 3 cento persone che si presentano per un impiego, tutte brave allo stesso modo, prevale quello che ha una marcia in più: oltre la tecnica contano la personalità, le idee». Hai certo conosciuto un mondo di gente, persone famose e no. Quali incontri hanno segnato la tua vita? «Il professor Chiodi, che mi ha insegnato a vedere con la testa; il professor Sannini, di geometria analitica, che mi ha insegnato la logica; la direttrice di Vogue America, che mi ha fatto capire il mondo in cui vivo». E come gira? «Con quello che fa moda, con quello che vende. Ma bisogna essere furbi». Che cos’è la furbizia? «Il mondo è stupido, c’è poco da fare. Se tu gli vendi l’intelligenza, non la compra nessuno, allora occorre modificarla». Che cosa farai domani? «Vado in Messico, in vacanza. Non ci vado mai, vivo in vacanza». E dopodomani? «Continuerò a lavorare, fino a quando morirò o finirò per la vecchiaia su una sedia a rotelle». Caterina Brero «Ho sentito dire in casa che mio padre voleva chiamarmi Cirillo, dal protagonista di un fumetto, sai quel tipo con il ricciolo in fronte. Per fortuna mia madre si è opposta strenuamente e aveva pronto il mio nome. Che è un bel nome». Dopo l’università che cosa hai fatto? «Sono partito per l’Inghilterra». Con la passione per la fotografia nella valigia? «Come ce l’abbiamo tutti. Però era uscito il film Blow up di Antonioni: eravamo tre amici e abbiamo pensato che con la fotografia si poteva anche sopravvivere. Sono arrivato in Inghilterra e ho trovato posto come assistente da un fotografo». Foto pubblicitarie? «Forse non mi sono spiegato bene. Facevo l’assistente, cioè lavavo i pavimenti, facevo le pulizie...» Poi sei tornato in Italia. «Sono tornato, mi sono sposato e ho lavoricchiato: tanto tempo a coltivar patate, poco tempo a far fotografie». Quando è arrivata l’America? Perché hai deciso di partire? «Sono partito a quarant’anni, un po’ per scappare dai miei disastri matrimoniali. In America ho subito cominciato a lavorare e a un lavoro ne seguiva un altro. Il bello dell’America è che, se lavori bene, non resti mai a piedi e non hai bisogno di raccomandazioni. Da quel momento ho cominciato a lavorare seriamente». Che cosa significa “lavorare seriamente”? «Lavorare, interessarti sempre più della fotografia, produrre cose, guadagnare denaro...». c.b. «La volta che Isabella Rossellini mi fece immortalare il reggiseno nero di sua madre» C he cos’è la fotografia, per Oberto Gili? Il modo migliore per farlo conoscere ai nostri lettori sono senza dubbio le sue parole, che abbiamo tratto dal suo libro. «(...) La casa è semplicemente spazio: una boccia per i pesci, un castello, un hangar, un tetto di plastica, una piazza, una macchina, un appartamento, un bar, una stanza d’hotel, uno studio, un giardino possono tutti diventare la tua prossima casa se ti danno riparo ed emozioni. Nel 1972 l’editore milanese Achille Mauri mi offrì il mio primo incarico come fotografo: un grande tour: Roma, Parigi, Londra e New York per cercare e fotografare interni sorprendenti, stravaganti e non convenzionali, da pubblicare in un libro, Home sweet home. Cresciuto in una casa tradizionale di Torino, città industriale, fu uno choc essere gettato nell’appartamento parigino di Antoni Miralda e Dorothee Selz, dove gigantesche torte di zucchero multicolore erano il tema dominante e dove, una volta l’anno, ospiti affamati erano invitati per un party dove si consumavano “mobili”. Nell’appartamento di Andrei Cogan, in East London, una bella e giovane ragazza con capezzoli molto attraenti era l’oggetto vivente. A Manhattan Betsely Johnson lavorava in un loft verde mela e rosa fragola simile a un perfetto lecca-lecca. In una Milano dopoguerra, l’architetto Gonella dormiva circondato da un plotone di uniformi naziste. Home sweet home non fu mai pubblicato, ma nel frattempo il mio concetto tradizionale di “interno” – una stanza per dormire, una per leggere, una per mangiare ecc. – si fece da parte velocemente. Ricevetti telefonate da persone di tutto il mondo, affascinato dall’emozione di entrare in spazi sconosciuti. Fotografi, artisti, designer, persone dell’alta società, massaie, pescatori, attori, il povero, il ricco, l’interessante, il borghese. Isabella Rossellini mi chiese di fotografare le cose memorabili che aveva collezionato nel suo appartamento. Ricordo il reggiseno nero di sua madre e il corno napoletano di corallo, il cavallo di legno con un enorme pene così come una grossa bistecca adorna di candeline accese e tre piatti pieni di biscotti per cani situati sul tavolo da pranzo per il compleanno di macche- roni, il suo terrier Jack Russel. Il festeggiato, il bassotto e il bulldog di sua sorella tutti seduti educatamente intorno al tavolo per celebrare l’evento (...). Le decorazioni sono la moda con cui vesti il tuo spazio. La foto di una stanza è il ritratto metafisico della persona che vive lì. Tu percepisci la sua presenza anche nella sua assenza. La casa è colore, felicità, sesso, depressione, arroganza, creatività, semplicità, noia. I ponti di metallo sul fiume che circonda l’aeroporto di New York potrebbero essere il luogo perfetto per la mia casa dei sogni. Stanze d’albergo, palestre, stazioni ferroviarie, metropolitane e piazze sono il rifugio della mia immaginazione e il punto focale di ricordi passati». Oberto Gili